Domenica
La
di
DOMENICA 16 GENNAIO 2011/ Numero 309
Repubblica
il reportage
Sul Matese, mille metri sopra il cielo
PAOLO RUMIZ
cultura
La doppia vita di Egon Bondy
MARIUSZ SZCZYGIEL
Amore e rabbia
per una patria
bella e perduta
Nelle lettere
agli amici
del Risorgimento
il Verdi più politico
LEONETTA BENTIVOGLIO
I
GIUSEPPE VERDI
ROMA
l Verdi risorgimentale affiora dalle lettere: complesso, problematico, interrogativo. Possente nel patriottismo senza
cedimenti, nella rabbia contro gli oppressori, nell’anelito
all’autonomia del Paese. Ma anche mutevole e sofferto, come uno specchio della contraddittoria parabola del Risorgimento. La sua corrispondenza sa restituirci in pieno il clima di difficoltà
e conflitti che segnò il passaggio verso l’unificazione: sono scritti
pieni di alti e bassi, di furie, di sdegni, di modi di ritrarsi e d’inveire.
Viva Garibaldi, grida un Verdi esclamativo e vibrante. Abbasso i
barbari invasori. Viva la musica delle baionette. Poi però si strazia
e s’indispone. Intollerabili i bagni di sangue. Tremendo il disincanto del ’49. Viva la Repubblica. No, viva i Savoia. Giusto partecipare direttamente alla politica: il Verdi più maturo fa il suo ingresso in parlamento. Ma che disagio e che tormento essere deputato,
si lamenta con gli amici. La politica è per lui una tempesta, un rovello, un perenne altalenare, dove ideali e riflessioni s’intrecciano
con considerazioni artistiche e appunti sulla fattura delle opere.
(segue nelle pagine successive)
C
PARIGI, 14 LUGLIO 1849 (a Vincenzo Luccardi)
aro Luccardi,
Da tre giorni attendo impazientemente le tue lettere. Tu puoi ben immaginare che la catastrofe di Roma m’ha messo in gravi pensieri, e tu hai avuto torto di non scrivermi subito. Non parliamo di Roma!!... a che gioverebbe! La forza ancora regge il mondo! La giustizia? ... a che serve
contro le baionette!! Noi non possiamo che piangere le nostre disgrazie, e maledire gli autori di tante sventure.
BUSSETO, 14 LUGLIO 1859 (alla contessa Maffei)
Cara Clarina
Invece di cantare un inno di gloria, parrebbemi più conveniente oggi innalzare un lamento sulle eterne sventure del nostro Paese — Ho ricevuto un bulletino del 12 che dice... L’Imperatore all’Imperatrice... La pace è fatta... La Venezia rimane all’Austria...! E
dov’è dunque la tanto sospirata indipendenza d’Italia? Cosa significa il proclama di Milano? O che la Venezia non è Italia?
(segue nelle pagine successive)
FOTO GETTY/CONTRASTO/AGF
Cara
Italia
ti scrivo
spettacoli
Disney & Dalí, due visionari a Topolinia
ANTONIO GNOLI e LUCA RAFFAELLI
i sapori
Né ottusa né giuliva, la rivincita dell’oca
LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA
le tendenze
Quando la moda non tramonta mai
IRENE MARIA SCALISE
l’incontro
Le acrobazie di Alba Rohrwacher
RODOLFO DI GIAMMARCO
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Cara Italia ti scrivo
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
“Viva Garibaldi!”, “Viva la musica delle baionette”
Oltre i cori patriottici, è un Maestro dalla grandissima
passione politica quello che nel centenario della morte
emerge dalla corrispondenza con gli amici più cari
Dagli archivi romani ecco alcuni esempi della sua prosa
e della sua grafia, l’una e l’altra furiose e sdegnate
‘‘
Miseria e fame
Patriottismo, dignità etc etc..
ma prima di tutto bisogna
vivere. Dalla mia finestra
vedo tutti i giorni
un Bastimento, e qualche
volta due, carichi di almeno
mille emigranti ciascuno!
Miseria e fame!
‘‘
Vergogna
Siamo ridotti al punto
che si ha quasi vergogna
di essere Italiani,
ed io ho vergogna
particolarmente d’andare
in questo momento a Parigi,
come le cose vorrebbero
14 MAGGIO 1881 a Giuseppe Piroli
10 FEBBRAIO 1889 a Giuseppe Piroli
‘‘
I francesi
Napoleone ci tratta
come tanti ragazzi
e come se avessimo
scherzato finora
Se io mi intendessi
di politica direi
che Egli il padrone
vuole Savoia,
Nizza...
3 FEBBRAIO 1860
a Giuseppe Piroli
Il Risorgimento
nelle lettere
di GiuseppeVerdi
LEONETTA BENTIVOGLIO
(segue dalla copertina)
Q
uando, nel ’54, scrive al suo corrispondente napoletano Cesarino De Sanctis riguardo al rifacimento del
libretto de La battaglia di Legnano, spiega che il testo
dovrebbe conservare «tutto l’entusiasmo di patria e
libertà, senza mai parlare di patria e libertà». Sottigliezze di un sommo creatore, i cui ottantotto anni di
vita (10 ottobre 1813 — 27 gennaio 1901: cade tra pochi giorni l’anniversario della morte) coprono l’intero arco del Risorgimento.
Scorrono le missive verdiane custodite nella Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei, a Palazzo Corsini di Via della Lungara a Roma. Oltre all’abbozzo del libretto di Un ballo in maschera, questo
prezioso archivio conserva le lettere scritte da Verdi
non solo a De Sanctis, ma al suo avvocato di Parma
Giuseppe Piroli e allo scultore Vincenzo Luccardi. «È
solo una parte della corrispondenza di un compositore che firmò migliaia di epistole in un’epoca in cui
era la posta l’unico strumento per dialogare a distanza», avverte Pierluigi Petrobelli, direttore scientifico
dell’Istituto nazionale di studi verdiani che ha sede a
Parma. Tante sono le lettere, sparse in tutto il mondo,
che l’istituto sta raccogliendo da quarant’anni per
quella che sarà un’edizione critica monumentale, già
iniziata da tempo. È Petrobelli a guidarci nell’esplorazione della fetta che si trova ai Lincei. E gli preme far
notare la vivida tinta mazziniana del giovane Verdi,
segnalando che «l’approccio a Mazzini è uno tra gli
aspetti meno sottolineati del suo pensiero politico.
Solo in seguito, attraverso la graduale conoscenza di
Cavour, avrebbe modificato le sue opinioni avvicinandosi ai Savoia». Con la sua grafia orgogliosa e ricca di angoli, il più nazionalpopolare tra gli artisti ottocenteschi scrive di politica a conoscenti e confidenti
in tono ora guerresco ora amaro sull’identità e le sorti del Paese, ora critico nei confronti dei francesi «presuntuosi e impertinenti», ora in vena di attacchi ai tremendi germanici, «d’una rapacità senza limiti: uomini di testa, ma senza cuore; razza forte, ma non civile».
L’incontro con Mazzini avviene a Londra nel 1847,
quando Verdi è nella capitale inglese per il debutto de
I masnadieri, presentati all’Her Majesty’s Theatre il
22 luglio. È il patriota ligure a chiedergli di musicare
un inno sui pomposi versi di Goffredo Mameli, Suona
la tromba: tutto un clangore d’armi contro gli invasori e un risuonare di osanna per un’Italia che sia «una
dall’alpi al mar». Verdi accetta, e nel 1848, in una lettera al suo committente, scrive: «Ho cercato d’essere
più popolare e facile che mi è stato possibile». Da artista sensibile alla comunicazione, è ben consapevole della necessità di un inno «adesivo». Perciò avverte
Mazzini d’incitare Mameli a cambiare alcuni versi per
armonizzarne i ritmi con la partitura: «Io li avrei potuti musicare anche come stanno, ma allora la musica sarebbe diventata più difficile, quindi meno popolare e non avressimo ottenuto lo scopo». Il progetto
però va malamente in porto, «perché le parti corali»,
racconta Petrobelli, «vengono pubblicate solo nel
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
DISEGNO DI TULLIO PERICOLI
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
‘‘
Incapaci e parolai
Poveri noi! La situazione
è sì desolante che non ho
nemmeno la forza
d’imprecare contro quel
branco di incapaci, stupidi,
parolai, fanfaroni che ci
hanno portati alla rovina
“Che belli i finali
col cannone”
GIUSEPPE VERDI
(segue dalla copertina)
opo tante vittorie quale risultato!
Quanto sangue per nulla! Quanta povera gioventù delusa! E Garibaldi che ha
perfino fatto il sagrifizio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d’un Re senza ottenere lo scopo desiderato. C’è da diventar matti!
Scrivo sotto l’impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. È dunque
ben vero che Noi non avremo
mai nulla a sperare dallo
straniero di qualunque nazione sia!
Che ne dite voi?
Forse m’inganno
ancora? Lo vorrei.
D
14 LUGLIO 1866 a Giuseppe Piroli
(a Angelo Mariani)
(...). Ma dimmi di altra musica, la quale (domando scusa a tutti voi figli di Apollo) mi interessa
assai di più. Oh scusate
scusate! Come vanno le
Crome e biscrome di Cialdini, Persano, Garibaldi et. et.?
Tu m’avevi promesso di scrivermene, e, testaccia, l’hai dimenticato. Quelli son Maestri! e
che Opere! e che Finali! a colpi di
cannone!
(a Cesare De Sanctis)
Parliamo un po’ di politica. Per Dio
non fate ragazzate, state quieti, tenete a
freno i matti, abbiate pazienza, fidate nel
gran politico che regge i nostri destini, e
tutto andrà bene. Pensate che se non dovesse effettuare la grande idea dell’Unità
d’Italia la colpa sarebbe tutta vostra, ché delle altri parti d’Italia non v’è da dubitare. Se per
idee miserabili di campanile l’Italia dovesse
essere divisa in due (che Dio non lo voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle
altre grandi potenze; quindi povera, debole,
senza libertà, e semibarbara. L’Unità soltanto
può renderla grande, potente e rispettata.
1862 e con l’aggiunta — non si sa chi l’abbia fatta — di
un accompagnamento pianistico».
Infiammatosi per le Cinque Giornate, Verdi scrive
nel 1848 al librettista Piave che «la sola musica grata
alle orecchie degli italiani dev’essere quella del cannone», e sull’onda delle emozioni crea La battaglia di
Legnano, dove la cacciata di Federico Barbarossa
simboleggia l’espulsione dall’Italia degli invisi dominatori. Nata sullo sfondo della Repubblica Romana di
Mazzini, Saffi e Armellini, quest’opera, secondo Petrobelli, «è l’unica composta da Verdi con esplicito intento di propaganda risorgimentale». Ma dopo il debutto romano di fine gennaio 1849, e prima che Mazzini giunga a Roma, Verdi torna a Parigi, città in cui è
rimasto quasi sempre nel ’48, senza mai immergersi
personalmente nei moti rivoluzionari, «col tipico atteggiamento dell’uomo di cultura che ha idee e sentimenti forti ma non si coinvolge in prima persona», nota Petrobelli, «esprimendo il suo impegno più con le
opere che con i gesti».
Ma negli anni il repubblicanesimo gli appare sempre più come un’utopia, e l’intesa con Cavour lo induce a diventare deputato, cedendo all’amico che lo
prega di accettare la candidatura. «Cavour, di cui
Verdi ammirava il realismo politico, voleva avere un
simbolo grandioso nel primo parlamento nazionale», spiega Petrobelli. «Non c’era italiano al mondo
che fosse celebre e amato quanto Verdi». Anche se le
alchimie politiche gli sono estranee, anche se non si
lega ad alcun partito, anche se con l’età adotta posizioni sempre più caute, le sue opere ne hanno fatto
l’icona di una causa. Fin dal 1859, anno de Un ballo
in maschera, il suo nome si presta a un acrostico rivoluzionario che dalle mura di Modena dilaga nel
Paese: «Viva Verdi». Una sigla che, al di là dell’aspetto innocuo, allude alla speranza condivisa dell’Unità: «Viva V (ittorio) E (manuele) R (e) D’I (talia)».
Perché fare di Verdi una bandiera? Perché tanta
comunione e identificazione? La risposta emerge,
inestinguibile e sempre decifrabile, dai suoi sublimi
cori che evocano gli esuli e gli oppressi, dal suo imprimere un’enfasi sconvolgente a parole come patria e libertà, dalla sua capacità di far risuonare appelli alla fratellanza che toccano l’anima di chi ascolta e di chi canta. Petrobelli ne è convinto: «Il vero Verdi politico sta nei cori, soprattutto in quattro: Va’
pensiero del Nabucco, O Signore dal tetto natio dei
Lombardi, Si ridesti il leon di Castiglia dell’Ernani e
Patria oppressadel Macbeth. La preghiera di Va’ pensiero inizia piano per poi esplodere nel terzo verso
della seconda strofa: “O mia patria sì bella e perduta”, ed è nella struggente intensità di questo passaggio che sta il segreto della sua potenza comunicativa. Qui Verdi sa dirci tutta l’aspirazione inconscia
degli italiani a una patria che vorrebbero avvertire
come propria, senza riuscirci mai fino in fondo». Fu
questo il genio politico di Verdi: capì, meglio di
chiunque altro, che il suo Paese pasticcione, accorato, sminuzzato, conteso, poteva esistere nell’arte
prima che nella realtà geografica e nel sentire civico
dei suoi abitanti.
LE LETTERE
In queste pagine
gli originali
di alcune lettere
scritte da Verdi
e custodite
nella biblioteca
dell’Accademia
nazionale
dei Lincei, a Roma
Al centro
un’illustrazione
di Tullio Pericoli
(a Giuseppe Piroli)
Poveri noi! La situazione è sì desolante che
non ho nemmeno la forza d’imprecare contro
quel branco d’incapaci, stupidi, parolai, fanfaroni, che ci hanno portati alla rovina. Speriamo
in una vittoria di Cialdini? Ma è essa possibile
se ora gli Austriaci abbandonano tutto?... E l’avvenire? Quando i rossi domanderanno: signori moderati, cosa avete saputo fare per sei anni
del vostro Governo? Un’armata senza organizzazione e senza capi, una marina che non esiste, e le finanze rovinate!
Addio. Vogliatemi bene. Addio.
(a Giuseppe Piroli)
Io non amo la politica, ma ne ammetto la necessità, le teorie, le forme di Governo, Patriottismo, Dignità etc. etc., ma prima di tutto bisogna vivere. Dalla mia finestra vedo tutti i giorni
un Bastimento, e qualche volta due carichi almeno di mille emigranti ciascuno! Miseria e fame! Vedo nelle campagne proprietari di qualche anno fa ridotti ora a contadini, giornalieri,
ed emigranti (miseria e fame). I ricchi, di cui la
fortuna diminuisce d’anno in anno, non possono più spendere come prima, e quindi miseria e fame! E come si potrà andare avanti? Non
saranno mica le nostre industrie che ci salveranno dalla ruina! Voi direte che sono un pessimista!... No, no... Io credo d’esser nel vero, dicendo che sono profondamente convinto, che
su questa strada troveremo in fondo la ruina
completa. Forse, voi, uomo politico, dite che
«non c’è altra strada»... Ebbene, se è così prepariamoci a tutti i disordini che si produrranno
ora in una città ora in un’altra, poi nei paesi, poi
nelle campagne, ed allora Le déluge!
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Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il reportage
Fuori rotta
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
L’Afghanistan, l’Anatolia, i monti lunari della Erzegovina
E invece è il Matese, un pezzo d’Appennino lontano
millenni da Napoli e dal mondo. Dove resistono antichi
mestieri, facce sannite, popoli ribelli, in fuga naturale
dalla società dello spreco e del rumore. Ora un libro li celebra
attraverso immagini di vita quotidiana
Mille metri sopra il cielo
PAOLO RUMIZ
P
SAN GREGORIO MATESE (Caserta)
ochi tornanti sopra San Gregorio Matese il cielo si oscura all’improvviso; da
quota mille tracima un’onda di marea,
nubi grasse in corsa dal Molise, e la slavina precipita sul Volturno, la “terra di lavoro” tra
Venafro e Benevento, orti e bufale a vista d’occhio.
La nebbia mi inghiotte, fermo la macchina sull’orlo di un burrone, in un silenzio assoluto, aeronautico. Potrei essere in Afghanistan, sui monti lunari di
Erzegovina. Un luogo da deltaplani, un balcone
senza paracarri, senza anima viva. Tiro fuori la carta, cerco di orientarmi. Niente. Mi sono perso, ho
passato la linea d’ombra. E comincia uno smarrimento tutto appenninico, perché solo in Appennino è possibile perdersi così.
«Guardate che fermarsi qui è pericoloso assai!».
Mi spavento, il cellulare mi cade di mano. La testa di un uomo è entrata dal finestrino aperto e sta a
quaranta centimetri dalla mia. È arrivato controvento, senza che lo sentissi, dal curvone a picco sul
nulla come un girone d’Inferno, quello di Dante illustrato da Gustavo Doré. Non sorride. È un duro
coperto di rughe, maschera greca di età indefinita,
abbronzato come una guida nepalese. Ha passamontagna e bastone in mano, una mano enorme, e
intorno a lui sento il calpestìo del gregge. Spaesamento totale. Potrei essere in qualsiasi montagna
del mondo, Karakorum, Anatolia, Ande peruviane,
Rodopi, Patagonia. L’unica certezza è altimetrica,
sono oltre, sopra il mio mondo. E forse anche in un
altro tempo.
Esco fuori, parliamo un po’. Il pastore spiega la
strada, mi consiglia dove sostare a mangiar bene.
Mi parla del trampolino per deltaplani e del castagno più grande del mondo, tre metri di diametro, da
qualche parte in un posto chiamato «Reale». Gli sta
accanto un pastore abruzzese che sorveglia ogni
mia mossa, mentre un altro cane, più piccolo, tiene
insieme il gregge. «Scrivete che qualcuno ha buttato rifiuti tossici quassù sul lago, io li ho visti i camion
passare». Quando riparte gli dico una frase che ho
imparato nell’Ager Campanus, fertile inferno di bufale, camorra e brava gente. «T’accumpagno c’o
pensiero». E lui se ne va, col passo millenario di Abramo, corto e regolare; la nebbia lo inghiotte, per un
bel po’ sento i campanacci, poi più niente.
Solo allora capisco di avere incontrato un sanni-
ta. Uno di quei guerrieri indomabili che duemila
anni fa, poco lontano a sudest, fecero passare i soldati romani sotto le Forche Caudine. Un mondo pastorale, da sempre antagonista della Dominante.
Popoli padroni di una viabilità tratturale alternativa alle strade consolari, fatte per le legioni in armi.
Una rete partigiana di quota attraverso la quale passò impunemente Annibale, senza essere mai sconfitto in campo aperto, nei sedici anni della sua presenza in Appennino. Sono sulla roccaforte di quel
mondo: una sierra, come quelle che vedi in terra
d’Aragona sotto i Pirenei. Un’acropoli, una fortezza naturale, simile all’altopiano di Asiago, ma più
tenebrosa. Il Matese.
Si aprono squarci di sole. Inconfondibile, isolato come una portaerei, il mio bastione naviga nelle nubi e nel vento. Napoli è lontanissima, Caserta
e il mondo di Gomorra pure. Qui è altra lingua, altre facce, altra toponomastica, altri animali totemici. Hirpus e Luk, il lupo che diede il nome a Irpi-
ni e Lucani; Picus, il picchio, che battezzò i Piceni.
I soprannomi sono spesso animaleschi: “u’ Passero”, “u’ Fall’co”, e naturalmente “u’ Lupo”. Visi larghi di montagna, corporature di uomini-fauni,
centauri. Donne forti, padrone assolute del fuoco
domestico. Un mondo che fu ricco di mandrie, legna, lana, frutta e acqua, un monumento alla ricchezza antica d’Appennino, con i suoi trenta milioni di pecore e i terreni di quota che non franavano grazie al pascolo.
Un’economia verticale, transumante, che non
consumava il territorio e oggi è massacrata dai divieti di una burocrazia connivente con l’imbroglio
della grande distribuzione. Una topografia arcana
di santuari e divinità pagane. Mi basterà scendere a
Saepinum, sulla statale Isernia-Benevento, per capire la ricchezza di quel mondo. Un’archeologia di
pietre che belano. Anfiteatri, alberghi, punti di ristoro bimillenari dove i pastori a migliaia sostavano
nel trasferimento. E, più in là, in Molise, Pietrabbondante, la capitale dei pastori confederati, affacciata sull’infinito orizzonte. Non esiste nulla di più
italico. La cosa più antitetica a Paestum che si possa immaginare.
A Gallo Matese — enclave bulgara smarrita tra i
monti — mi mettono in mano un libro. Quota mille, fotografie di Francesco Fossa. È la Spoon River
per immagini di un mondo vivente. Paesaggi e ritratti. Ritrovo la ventosa malinconia dell’Italia di
mezzo, nei mesi fuori-stagione; la povertà degli interni, le facce di un mondo arroccato che si rifiuta di
rotolare in basso, come tutto in Italia, acque, frane,
uomini e animali. I miei bravi highlanders: pastori
intabarrati sotto ombrelli enormi, donne forti in
abito nero, adulti dalle barbe incolte, giovani pochissimi, ritratti in posa con zappe, pane, formaggio, cavalli, muli, Padre Pio. L’epopea di una resistenza misconosciuta, lo spazio di fuga dal pensiero unico della società dello spreco e del rumore.
A San Gregorio i pastori sono ancora tanti, undicimila. E quando arriva il tempo della tosatura qui
non c’è bisogno di chiamare macedoni o neozelandesi a sbrigare il lavoro. «Facciamo tutto in casa, è
così da sempre», racconta Cristina Ferrito, vedova
con quattro figli a quarantasette anni. La ritrovo sul
libro di Fossa: le foto dell’uomo e del santo sono davanti a un letto di semi di girasole, messi a seccare
come in un presepe. Dei figli, Antonietta e Giovanni accudiscono le bestie, lavorano quaranta chili di
formaggio alla settimana; poi c’è Nunzia e la piccola Elvia che ogni mattina si alza alle cinque per pren-
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DOMENICA 16 GENNAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
IL LIBRO E LE FOTO
La copertina di Quota Mille
(edizioni punctum,
96 pagine, 30 euro)
di Francesco Fossa,
con una prefazione
di Paolo Rumiz,
da cui sono tratte
le immagini che illustrano
queste pagine
dere il sentiero fino alla fermata del bus che la porta
all’istituto industriale di Piedimonte.
Mi traversano la strada una decina di muli, portati con passo guerrigliero da una donna di nome
Carmela. Sono carichi di legna e vanno alle ultime
carbonaie d’Italia. Il mulo è l’unico animale capace
di raggiungere i boschi da ripulire, in alto sul Monte Janara, il Postonico, il Mutria. Cime tagliate da canaloni, che in autunno diventano letti di foglie dove si sprofonda alla cintola. Loredana Perrone ha
fatto l’insegnante nelle Langhe per dieci anni,
amando quelle terre del Piemonte; ma solo nel suo
Matese rivela di sentirsi bene veramente. «Quello
che per altri è isolamento — dice — per me è soltanto serenità». Ed è tornata, a Letino, il comune più
alto della Campania, a milleduecento metri. Uno
dei pochi posti dove i giovani non scappano, ma
anzi ritornano.
Piedimonte Matese, zampillar di fontane. Sosta
al bar con Rosario Di Lello e Vincenzo Rapa, a par-
lar di briganti negli anni post-unitari. I due mi raccontano la Pasqua di Sangue, la storia di un possidente, Don Salvatore, il quale violenta una ragazza
che muore abortendo, il giorno di pasqua. La leggendaria brigantessa del Matese, Maria Maddalena De Lellis, il cui fucile è in bacheca a Piedimonte,
si accorda col brigante Santannello, suo amante,
per vendicare la poveretta: cattura don Salvatore,
lo evira e lo brucia vivo. Anni terribili, di soprusi,
giustizie sommarie, fucilazioni. Come a Pontelan-
dolfo, quattrocento morti di mano bersagliera, come rappresaglia a una strage di soldati. Anni, anche,
di utopie, con la prima e unica repubblica anarchica d’Italia, proclamata nel 1876 e resistita solo due
giorni all’arrivo dei carabinieri. Sanniti, rivoltosi,
briganti, pastori, utopisti, soldati annibalici, escursionisti innamorati dell’Appennino. Mille storie,
ma un solo, temporalesco luogo rifugio.
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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
CULTURA*
Aveva scelto uno pseudonimo, ma il suo vero nome era Zbynek Fišer
È stato poeta, mendicante, filosofo e guru della scena off praghese. Ha amato
il marxismo, combattuto Stalin, collaborato con la polizia comunista
(perché neppure il capitalismo gli andava a genio). È conosciuto ai più come uno dei personaggi
dell’autore di “Una solitudine troppo rumorosa”. Ma è esistito davvero. Prima che morisse,
lo scrittore polacco Mariusz Szczygiel lo ha incontrato. Per restituircelo in questo esilarante racconto
MARIUSZ SZCZYGIEL
G
entile Signor Egon Bondy,
molti cechi sono convinti che Lei sia stato inventato da Bohumil Hrabal. Coloro che sanno
che Lei non è una sua invenzione, La credono
tuttavia morto. Ciò premesso, Le chiedo di
concedermi un incontro.
M. Szczygiel
Gentile Signore,
sono lieto di confermarLe che sono vivo. Sebbene, per motivi di salute, lo sia solo dalle ore 14 in poi. Le chiedo quindi la cortesia di non arrivare in anticipo, meglio qualche minuto dopo
che prima, in questo modo avremo a disposizione un tempo illimitato.
Il suo Bondy
Ecco come lo inventò Hrabal:
«Quando stava in piedi al sole Egon sembrava un fauno emerso da una cisterna di birra, i capelli chiari gli scorrevano sempre
giù lungo le orecchie e allo stesso modo la sua barba, alla luce
del sole, era cosparsa di chiara Lagerbier».
Ecco come diventò Egon Bondy:
Nacque nel 1930 e all’inizio si chiamava Zbynek Fišer. La madre vietava al piccolo Zbynek ogni contatto con i suoi coetanei.
Quando nel 1936 iniziò la prima elementare, subì uno shock nel
vedere che al mondo esistevano tanti bambini. All’età di sette
anni s’innamorò perdutamente di un suo vicino di banco: figlio
di genitori disoccupati che vivevano in uno scantinato. Bondy
lo invitava spesso a casa perché, come diceva, «mio padre era libero da ogni pregiudizio sociale». Alla domanda di come fosse
nata in lui la passione per il marxismo, Bondy non ha mai dato
una risposta precisa. Forse la chiave per capirlo andrebbe ricercata proprio nelle convinzioni sociali di suo padre.
«Il marxismo», scrisse una volta, «dà speranza alle persone, le
nota per essere stata il grande amore di Franz Kafka. Aveva ereditato un patrimonio milionario che sperperò nel giro di un anno. In seguito aveva fatto cinque figli che trascurava al punto da
finire in galera per quel motivo. (Parecchi anni più tardi, diventata ormai Jana Cerná, avrebbe scritto un appassionato libro dedicato alla memoria di sua madre, Vita di Milena, che, ancora
fresco di stampa, sarebbe finito al macero su ordine del regime).
Scappava da Cerny con Bondy, e da Bondy con Cerny. Spesso non avevano i soldi per mangiare. Si trasferirono in campagna. Passavano la notte in un albergo operaio, e di giorno men-
‘‘
Sono lieto di confermarle
che sono vivo. Sebbene,
per motivi di salute,
lo sia solo dalle ore 14 in poi
Le chiedo quindi la cortesia
di non arrivare in anticipo
dicavano nelle vie di Praga per racimolare quattrini per l’albergo. Essendo senza lavoro non avevano diritto ai tagliandi annonari. Mangiavano avanzi lasciati nei bar, rubavano il bucato
steso fuori dalle finestre, biciclette, carrozzine, e vendevano subito tutto.
Divenne poeta più o meno così:
Non ci mise molto a notare i primi segnali preoccupanti. Innanzitutto il famoso corteo che nel febbraio del 1948 marciò insieme ai comunisti attraverso piazza San Venceslao, appena gi-
rato l’angolo si sciolse in fretta e tutti si precipitarono a casa ansiosi di arrivare in tempo per lo spezzatino di manzo con i knödel. In seguito, dopo essere stato nominato capo dell’ufficio per
la gioventù presso il comitato di quartiere, scoprì che venivano
adottati nuovi metodi di reclutamento: accanto ai moduli di
adesione al partito era appoggiata una pistola. Poi vide che dal
catalogo delle edizioni Girgal erano stati esclusi tutti i titoli surrealisti. Poi, che non si suonava più il jazz. Poi, che la gente aveva iniziato ad avere paura di comportarsi in maniera spontanea. E poi ancora che di fronte a tutto ciò i suoi colleghi del partito non battevano ciglio.
«L’ideologia bolscevica non va confusa con il marxismo.
Questi due pensieri non hanno nulla in comune», disse loro
chiaro e tondo e decise che non avrebbe più lavorato per quel
regime.
«Devo assolutamente tirarmene fuori» dichiarò.
Nei suoi primi versi Bondy proclamava che l’Urss era un regime fascista.
Ai tempi in cui tutti scrivevano: «Di bocca in bocca vola veloce /Un nome che diffonde luce/ Un nome che con il sole inizia/
Il nome del compagno Stalin», Egon Bondy scriveva così:
«Con delicata prudenza scoreggio, per non cagarmi addosso».
Ecco come il diciannovenne Bondy divenne precursore
dell’underground:
Decise che non avrebbe mai pubblicato niente ufficialmente.
Così, nel 1949 Honza Krejcarová, il suo amante Egon Bondy e il
loro sodale Ivo Vodsed’alek iniziarono a battere a macchina le
proprie poesie in pochissime copie, a rilegare i fogli e a distribuire l’opuscolo a persone fidate. Diedero in questo modo vita
alle Edizioni Púlnoc, Mezzanotte, considerate oggi una delle prime case editrici clandestine. I versi che pubblicavano mettevano in ridicolo l’Unione Sovietica e il suo dio Stalin. Nella poesia
InculataBondy scrisse: «È tutta una gran inculata, amici /sia nei
giorni feriali sia di domenica /Soltanto i cineasti sovietici/ vedo-
Ecco come Egon Bondy
entrò nella penna di Hrabal
aiuta a non precipitare del tutto nella disperazione per l’imminente arrivo di una catastrofe che spazzerà via tutto».
Verso la fine del 1948 in Unione Sovietica si scatenò un’ossessione antisemita. Le notizie sulle nuove purghe giunsero sino a Praga. «Noi, i diciottenni di allora, ne fummo sconvolti. Erano passati solo tre anni dall’Olocausto! E dire che il comunismo
era stato costruito dagli ebrei, perché sarebbe dovuto diventare un sistema politico più giusto soprattutto per loro. Un sistema che avrebbe garantito l’uguaglianza a tutti i popoli. Beh, dall’Urss non ce lo saremmo mai aspettato! Nei libri di Karel Capek
ogni ebreo ricco si chiama Bondy. E così, in segno di protesta, io
che sono un ariano avevo deciso di usare uno pseudonimo
ebreo. E mi è rimasto fino a oggi».
Divenne celebre come Egon Bondy e utilizzava quel nome
praticamente in tutte le situazioni.
Ma anche Zbynek Fišer aveva una sua vita.
Ecco come divenne mendicante:
Un giorno trovò sul tavolo il messaggio che l’aveva cercato
una ragazza alla quale sarebbe piaciuto conoscerlo, e poco sotto un indirizzo. Passò da lei l’indomani mattina. Gli aprì una giovane in camicia da notte, un po’ in carne perché era al sesto mese di gravidanza. Era Jana Krejcarová, ma gli amici la chiamavano Honza. Studiava belle arti.
Bondy entrò e uscì solo dopo tre settimane. «Perché avevo ormai un urgente bisogno di biancheria pulita».
In seguito il loro amico Ivo Vodsed’alek avrebbe raccontato
che Honza non sopportava di stare da sola. Bondy lasciava capire che il numero di amanti (maschi e femmine) di Honza superava le centinaia.
Era stata con Bondy per otto anni. Contemporaneamente
frequentava un suo amico. «Subito dopo essere andata a letto
con me telefonava a Cerny esortandolo a venire immediatamente a prendere il mio posto».
Honza era figlia di Milena Jesenská, giornalista e comunista,
no il mondo a mo’ di aritmetica». Oppure: «Oggi ho bevuto molte birre/ così non mi verrà nessun tormento/ E su Rudé Právo si
dice/ che la gloria del nostro partito è in aumento».
Con quei versi Bondy aveva dato origine a un nuovo genere
poetico che Vodsed’alek definì, sottovoce, «poesia imbarazzante».
Per testi di quel tipo si rischiavano venticinque anni di galera, se non addirittura la pena di morte. Tant’è vero che ancora
negli anni Settanta un musicista fu condannato a un anno di
carcere per aver raccontato al bar una barzelletta sull’Unione
Sovietica.
Intanto la Krejcarová era impegnata a scrivere d’altro: «No, in
culo oggi no/ mi fa male...». Nel dicembre 1948, per la prima volta nella storia della letteratura ceca una donna componeva poesie hardcore: «(...) Le fiche vengono confezionate su misura/ al
sarto bisogna dire/ Me la foderi di seta per favore/ e niente bottoni mi raccomando/ la porterò senz’altro sbottonata (...)».
Dopo il periodo della «poesia imbarazzante» Bondy, resosi
conto che lo stalinismo invalidava ogni possibile metafora, diede vita al cosiddetto «realismo totale»: «Avevo scritto ciò che
pensavo in un’epoca in cui nessuno non solo non aveva il coraggio di scriverlo, ma non osava nemmeno immaginarlo».
«Si può fare a meno di aspettare/ Suggerì una compagna in
fila al Consiglio Nazionale/ Se trovate la casa di un detenuto/ Ve
l’assegneranno in un minuto».
Ecco come conobbe Hrabal (nel 1950):
«Qualcuno mi disse che quel signore mi avrebbe offerto una
birra. Così mi presentai da lui, a Liben, e Hrabal mi offrì davvero una birra».
IL PERSONAGGIO
Una fotografia di Egon Bondy, personaggio letterario
ma anche uomo in carne ed ossa: il suo vero nome era Zbynek Fišer
Ecco come ruppe con Hrabal (nel 1954):
«Mi svegliai una mattina, e cioè a mezzogiorno, e avevo davanti a me il solito programma: bere birra con Honza, con Hrabal, con gli altri. Di colpo avvertii che non avevo voglia di anda-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
L’AUTORE
Mariusz Szczygiel
(1966) è uno scrittore
e giornalista polacco
premiato
per i suoi reportage
In Italia Nottetempo
ha pubblicato
Gottland
Ha già scritto
per Repubblica
re da nessuna parte. Mi alzai e scrissi una breve lettera a ciascuno di loro che sarei venuto il giorno dopo. Se non che il giorno
dopo non ci andai. E da allora per diversi anni non vidi più nessuno dei miei amici. Rimasi solo. Andavo nelle biblioteche, mi
misi a studiare il buddismo e il taoismo. Una decina di anni dopo incontrai Hrabal per strada, casualmente. Al funerale di
Honza nel 1981 al mio posto era andata mia moglie Julie».
Ecco come divenne dottore di filosofia:
Un giorno conobbe la sua dottoressa di famiglia. Era un’appassionata di filosofia orientale. Lo convinse a riprendere gli
studi. Ci pensò lei a sbrigare tutte le pratiche. Per poter frequentare il liceo per lavoratori Bondy dovette trovarsi un impiego. Venne assunto al Museo Nazionale come custode della
balena. Fu la prima volta in vita sua che lavorava. Teneva d’occhio lo scheletro lungo trenta metri. A ventisette anni conseguì
la maturità e superò l’esame di ammissione alla facoltà di filosofia.
Ecco come divenne un noto filosofo cecoslovacco,
Zbynek Fišer:
Negli anni Sessanta pubblicò: Questioni dell’essere e dell’esistenza, Il conforto dell’ontologia, Buddha. Fišer fu il primo in
Cecoslovacchia che riuscì a spiegare in modo accessibile la filosofia orientale e a metterla a confronto con la tradizione occidentale. Nei primi anni Novanta uscirono i sei volumi delle Note per una storia della filosofia. La prima versione della sua tesi
di dottorato era farcita di tante espressioni sconce che il suo relatore ci mise una settimana a trovare degli equivalenti più decorosi.
Ecco come il quarantenne Bondy divenne il guru
dell’underground:
Quando non aveva da mangiare e non sapeva dove andare, si
faceva chiudere in manicomio. Aveva per questo i suoi metodi.
Entrava per esempio di corsa sull’autostrada agitando una lanterna a luce rossa, di quelle usate nei cantieri stradali, e strillava: «Omicidio! Aiuto!».
Proprio in un reparto di psichiatria, nei primi anni Settanta, incontrò Ivan Jirous, detto il Mattacchione, un giovane storico dell’arte, nonché anima e leader del gruppo rock The Plastic People
of The Universe. Il Mattacchione si nascondeva in manicomio
per sfuggire al servizio di leva. (Bisogna dire che gli psichiatri cecoslovacchi hanno reso un buon servizio ai dissidenti).
I Plastic People persero la testa per le vecchie poesie di Bondy.
La band si era formata nel 1968, due mesi dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia.
«Generiamo figli destinati all’inferno» aveva dichiarato Bondy
all’indomani dell’invasione.
I suoi pezzi degli anni Cinquanta — «una merda poeticizzata» secondo la sua stessa definizione — infrangevano i tabù linguistici. Le sue brevi poesie erano perfette per i ritornelli facili
da ricordare («Pacifico, pacifico, pacifico come un antidolorifico»). Nell’epoca del neostalinismo degli anni Settanta i testi di
Bondy si caricavano di un significato particolare.
Qualcuno dichiarò che la miscela di suoni, stridenti e dissonanti, prodotti dai Plastic People, non si piegava al diktat di dover piacere a tutti costi.
Nei giornali e in televisione venivano accusati di esibire un
disdicevole disprezzo dei valori, oltre a una totale mancanza di
rispetto verso il popolo dei lavoratori.
I musicisti si difendevano dicendo che in realtà quei testi erano un appello a vivere diversamente. «Può darsi che il nostro sia
semplicemente il canto di un topo chiuso in un labirinto. Forse
per questo la musica dei Plastic People è così diversa dal rock
suonato in Occidente», rifletteva Jirous.
Nel 1976, dopo una serie di persecuzioni, tutti i membri del
gruppo furono arrestati (Jirous era stato sbattuto in carcere ben
cinque volte, l’ultima nel 1989: una settimana dopo l’inizio della rivoluzione di velluto). Il famoso processo ai Plastic People
diede vita al movimento di opposizione anticomunista chiamato Charta 77.
Il loro disco più importante, pubblicato in Canada e introdotto in Cecoslovacchia di contrabbando, s’intitola Egon
Bondy’s Happy Hearts Club Banned.
Il pezzo di maggior successo scritto da Bondy e messo in musica dalla band dissidente praghese recita:
«Ieri mattina, giorno festivo, di un intenso prurito ai coglioni
impazzivo».
Ecco perché a sessantaquattro anni Bondy si trasferì
a Bratislava:
Si narra che abbia traslocato lì e assunto la cittadinanza slovacca in segno di protesta contro la scissione della Cecoslovacchia nel 1992. In realtà nel 1993 aveva ricevuto la proposta di tenere dei corsi di storia della filosofia dall’Università Comenio di
Bratislava. E così lui e sua moglie Julie si trasferirono lì per sempre. Si erano conosciuti nella biblioteca dell’Università Carlo di
Praga, dove Julie lavorava. Diceva spesso che lei era la sua unica ragione di vita. Julie morì un anno dopo il trasloco.
Ecco come si svolse il suo ultimo incontro con Hrabal
(nel 1995):
Bondy andò a trovare lo scrittore nella sua casa di villeggiatura a Kresk, gli diede un bacio sulla fronte e dichiarò che presto
Hrabal sarebbe morto, quanto a lui, non avrebbe mai più rimesso piede sul territorio ceco. «Dice un mucchio di sciocchezze», rispose Hrabal (si erano sempre dati del lei). «A vederla così,
direi che tra un anno sarà lei a tirare le cuoia in quella sua Bratislava. Mi dia retta, si trovi al più presto un buon avvocato, e lo paghi in anticipo perché riporti la sua salma in Cechia. Da Praga la
‘‘
Quando stava in piedi al sole
Egon sembrava un fauno
emerso da una cisterna
di birra, i capelli chiari
gli scorrevano sempre giù
lungo le orecchie...
strada per il paradiso è più breve. Magari ci rivedremo lì».
(Bohumil Hrabal morì due anni più tardi. Cadde oppure, come sembra più probabile, si gettò da una finestra del quinto piano dell’ospedale).
Ecco come Egon Bondy si lamentava in un primo momento
dei nuovi tempi:
«La verità capitalista e l’amore per la resa dei conti con i collaborazionisti del passato regime hanno trionfato/ e intanto le
persone semplici/ sui tram e nei bar dicono/ che, proprio come
ai vecchi tempi, non si sente parlare che di odio/ e non si leggono che bugie (...) “È la strada giusta da percorrere!”/ “Scegliamo
la prosperità!”/ La nostra o quella dei capitalisti stranieri? (primavera 1992)».
«Ci hanno condotto in pompa magna/ sulla Strada dell’Europa/ che ben presto si è tramutata in una scampagnata nel passato/ Una grande inculata con uno spiraglio di luce:/ finalmente possiamo vedere con i nostri occhi/ ciò che conoscevamo dai libri».
La sua raccolta dedicata alla nuova realtà s’intitola Il ballo degli spettri.
Secondo la voce messa in circolazione
all’università di Bratislava:
Egon Bondy, in quanto altermondialista, tra una lezione e
l’altra fruga nei cassonetti dell’immondizia per recuperare ciò
che l’umanità butta via.
Ecco come incontrai Egon Bondy:
Marzo 2004. Io e una mia collaboratrice andiamo a trovarlo.
Ci apre un uomo piuttosto basso, in un maglione a collo alto, visibilmente deliziato dalla nostra visita.
«Ci avrei scommesso che fosse vivo!», esordisco. «Le ho portato un regalo».
Tiro fuori un grembiule da cucina in cerata. Di quelli che si allacciano al collo e sui fianchi. È grigiobianco. Sul davanti sono
stampati due glutei maschili a grandezza naturale.
«Porca puttana!», gongola Egon Bondy, «adesso avrò il culo
sia davanti sia dietro!»
Lo indossa, fa un giro su se stesso. «Porca puttana! Domani
andrò così all’università e sapete una cosa? Farò come se nulla
fosse!»
Egon Bondy porta due enormi boccali di vetro pieni fino all’orlo. «La birra e Hrabal...», buttiamo lì.
«Beh, con Hrabal e Vladimír non giravamo mica per birrerie,
lo sapevate?»
«Invece ci andavate», insisto. «In Un tenero barbaro».
«Si è inventato tutto di sana pianta. Ma non mentiva. Lui era
convinto che tutto fosse successo esattamente così. Mentre in
realtà per la maggior parte del tempo restavamo a casa di Hrabal e discutevamo di filosofia. Ha fatto di me un pagliaccio, vero? Ma non me la sono mai presa».
«Perché?»
«Perché ero un personaggio letterario. E come tale non potevo dire la mia».
Alziamo i giganteschi boccali: «Oh! Non è birra!»
«Sono anni che ci metto dentro un infuso di erbe, hi, hi, hi! Così sembra birra, ah, ah, ah!»
«E la birra?»
«Da trentacinque anni vado in giro con un tumore all’intestino. Quando si è privati per tanto tempo di ogni piacere biologico, che cosa resta? Prendere tutto quanto per il culo, ecco cosa
resta».
«Lei ha scritto una poesia sulla sua madrepatria. Se l’avesse
scritta un polacco sulla Polonia, sarebbe stato impiccato».
«Perché voialtri avete quel vostro orgoglio nazionale. Anche
i serbi ce l’hanno. I cechi, al contrario, amano parlare male del
proprio Paese. Da noi non ci sono tabù, quindi tutte le provocazioni lasciano il tempo che trovano. Vede, è molto divertente essere membro di una nazione così piccola. Ma essere poeta
in una nazione così piccola è mille volte più divertente».
«E che cosa significa oggi essere un marxista, perché capisco
che lo è tuttora?»
«Significa aspettare».
«Finché non arriva una nuova rivoluzione d’ottobre?»
«Come idea rivoluzionaria il marxismo ha fallito. Però ritornerà. Tra un centinaio d’anni, con modalità completamente diverse, perché le tecnologie saranno cambiate. Oggigiorno, qualunque aiuto umanitario all’Africa è un crimine economico. A
me interessa invece un sistema in cui non lo sia. Nella mia visione, la globalizzazione dovrebbe significare pari opportunità
per tutte le nazioni del mondo... Oh, chiedo scusa, hanno suonato alla porta!»
Bondy esce e torna: «Il postino. Mi ha portato la pensione».
«A quale nome viene spedita?»
«A quello di Zbynek Fišer. Ma firmo come Egon Bondy. Mi sono impuntato e adesso anche quelli delle poste centrali devono
riconoscerlo».
Ecco come divenne collaboratore
della polizia politica comunista:
Per ben tre volte avevano tentato di adescarlo. La prima nel
1961, quando era ancora studente di filosofia. «Non avevo una
buona opinione dell’Urss», ha raccontato al giornalista del più
importante settimanale ceco Respekt, «tuttavia, per come la vedevo io, l’imperialismo internazionale era un male di gran lunga peggiore. Un mio compagno di studi mi aveva detto di essersi iscritto a un circolo di caccia per ottenere il porto d’armi e non
vedeva l’ora di usare il suo fucile contro i bolscevichi. Un altro,
infervorato, mi raccontò di un fienile dove aveva nascosto delle
attrezzature. Si teneva pronto a mettere in piedi un’impresa capitalista non appena i comunisti sarebbero stati fatti fuori a fucilate». A un certo punto Bondy fece amicizia con uno studente
che per arrotondare lavorava per la polizia segreta. Era stato
Bondy a fare la prima mossa e a proporsi come informatore. Dai
dossier risulta che era solito denunciare alla polizia quali libri
occidentali leggessero i suoi compagni e chi di loro avesse delle inclinazioni religiose. Alla domanda del giornalista se non
avesse in quel modo procurato loro dei fastidi risponde così:
«Un momento, se quelle persone intendevano davvero ripristinare il capitalismo da noi, cosa vuole che m’importasse se finivano nei guai?»
Una volta laureato, la polizia segreta lo lasciò in pace. Si rifecero vivi molti anni più tardi. Gli chiesero informazioni su un
suo amico dissidente.
Molti dei suoi conoscenti dichiarano oggi che per non dover
fare soffiate si imboscava negli ospedali psichiatrici. Bondy afferma: «Presto si resero conto che era inutile tentare di cavare
sangue da una rapa».
Nel 1997 sono usciti gli Appunti del Mattacchione. Contengono rivelazioni sconcertanti. Ivan Jirous ebbe modo di leggere i verbali delle deposizioni rilasciate da Bondy. Bondy era stato l’unico a vuotare il sacco. Aveva spiattellato agli inquirenti
tutto «e anche di più». Jirous era rimasto senza parole davanti al
suo tradimento. Per mesi si arrovellò in carcere sulla lettera che
gli avrebbe scritto a proposito di «intellettuali forti solo a parole, e che se la fanno sotto non già al primo schiaffo, ma al primo
colpo di piede battuto a terra da un poliziotto».
Si incontrarono due settimane dopo il rilascio di Jirous: «Ci
eravamo semplicemente abbracciati, mi ero scordato completamente della lettera».Jirous lo giustifica: «In fondo Bondy è vissuto in mezzo a quella porcheria quindici anni più a lungo di
me, si era beccato in pieno gli anni Cinquanta, mentre io ero ancora un bambino. Ed è come se fosse più vecchio di me di cinque secoli».
«Come vede, sono vivo», Egon Bondy ci congeda sul pianerottolo con un profondo inchino. «È stato un piacere poterglielo dimostrare».
Egon Bondy non è più vivo.
È morto il 9 aprile 2007. Il suo pigiama aveva preso fuoco. Si
era addormentato con una sigaretta accesa in mano.
Il più grande quotidiano ceco, Mladá Fronta Dnes, ricordando sul proprio sito i meriti del filosofo, sottolineò che era vissuto senza telefono, radio e televisione, perché per tutta la sua vita aveva lottato contro la società del consumo.
Sotto la notizia della sua morte, intitolata Sigaretta letale nel
letto di Bondy, ammiccavano i «link inerenti all’argomento»:
Letti: ampia scelta on-line
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Zapalilo sie lózko
© Mariusz Szczygiel
Traduzione dal polacco di Marzena Borejczuk
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
SPETTACOLI
Il genio degli orologi liquidi e il mago dell’animazione
avrebbero voluto realizzare un cartone dal titolo “Destino”
Il progetto naufragò e venne realizzato solo alla morte dei due
Mentre ora esce in versione Blu ray, ecco i bozzetti
e il carteggio inedito che per pochi mesi intrattenne
la coppia più strana del Novecento
LUCA RAFFAELLI
incontro di Walt Disney
e Salvador Dalí e il progetto del film Destino
viene da lontano. Perlomeno dal fatidico 1938,
l’anno in cui il primo si
sente al centro del mondo. Non ha neppure tutti i torti. Mickey Mouse è un’icona americana che ha già conquistato il
mondo. E poi il suo primo lungometraggio, dal successo straordinario, segna la
nascita di una nuova forma espressiva:
con Biancaneve e i sette nani il disegno
animato non è più fatto solo per divertire, ma anche per emozionare, commuovere, stupire . Perfino il maestro del cinema russo Eisenstein scrive che Disney
«sembra conoscere tutte le corde più segrete dell’animo umano, delle immagini, delle idee, dei sentimenti».
Il papà di Topolino la sua fortuna se la
prepara con attenzione, passione e con
L’
Appunti di scena
sul film mai finito
grande lungimiranza. Per esempio studiando l’arte europea dell’Ottocento e
del Novecento. Facendo arrivare casse
di libri con i migliori illustratori, spulciando le immagini disegnate dal maestro inglese Rackham, chiamando a lavorare con sé un altro grande come lo
svedese Tenggren (fondamentale per
dettare le atmosfere in Biancaneve) e poi
il danese Kay Nielsen. Aveva già ammirato le opere dei preraffaelliti, i quadri di
Arnold Böcklin e osservato quelli dell’astrattista tedesco Oskar Fischinger. Di
qui la grande idea: trasformare l’arte in
arte popolare. Nasce Fantasia, e per realizzare il sogno di un film composto di
brani classici, chiama Fischinger a disegnare il brano di Bach e convince Stravinskij a concedergli la sua Sagra della
primavera. Poi litiga con entrambi: l’arte, secondo il loro punto di vista, non accetta mediazioni. «È l’anima di ciascun
individuo che ascolta la mia musica a destare il mio interesse, non il sentimento
popolare di un gruppo», gli fa sapere il
musicista russo in un suo articolo.
Qualche anno dopo con Dalí le cose
vanno in maniera diversa, perché Salvador non ha alcuna ritrosia nei confronti
della popolarità e del successo (anzi, è
orgoglioso del soprannome/anagramma datogli da Breton, fondatore del movimento surrealista: «Avida Dollars»).
Non a caso, ritornato da un viaggio in California alla fine degli anni Trenta, scrive
proprio a Breton di essere entrato in contatto con i tre più grandi surrealisti americani: Harpo Marx, Cecil B. De Mille e
Walt Disney. Salvador e Walt si conoscono di sicuro nel 1945, a casa del produttore Jack Warner. Nasce tra loro un’immediata simpatia, che porta alla firma di
un contratto per un cortometraggio basato su Destino, canzone messicana che
non aveva trovato posto in uno dei film
sudamericani di Disney, Saludos amigos! e I tre caballeros.
Così nel 1946 Dalí va tutti i giorni a lavorare nello Studio di Burbank insieme
a John Hench, stretto collaboratore di
Walt. Il lavoro viene portato avanti
per mesi, durante i quali i
due realizzano
dipinti, schizzi e sequenze. La storia,
vaga e visionaria, ha come filo conduttore l’innamoramento di una
donna e un uomo, accompagnato dalle invenzioni di Dalí: i
suoi orologi, le tartarughe, una
mano da cui escono insetti
che poi si rivelano essere uomini in bicicletta, due profili
che si incontrano creando
l’immagine di una ballerina.
Nei diari di Gala, la celebre
moglie dell’artista spagnolo,
di Destino si possono leggere
decine di versioni. Poi il progetto si ferma. Forse perché i
distributori non vogliono più
da Disney cortometraggi musicali, o forse perché, come ha testimoniato un collaboratore disneyano amico di Dalí, Disney si
infuria trovando nella scena finale non più ballerine ma giocatori
di baseball. «Questo non ha alcun
senso!», il drastico commento.
Probabilmente la verità è che
in quel progetto di film c’è troppo Dalí e troppo poco Disney.
Destino vuole che tutto il lavoro
sul film rimanga dimenticato
per alcuni decenni nei magazzini di Burbank. Viene recuperato da Roy Disney, nipote di
Walt, che amava portare avanti i progetti abbandonati dallo
zio. Così, dopo aver ripreso
nel 2000 il progetto Fantasia, decide che il film
che non era mai stato si
dovesse finalmente
fare, portando alla luce la collaborazione
fra due grandi del Novecento. Anzi, fra due
geni, usando un appellativo che tanto piaceva
ad entrambi.
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DOMENICA 16 GENNAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
u alla fine della Seconda guerra mondiale che si formò —
per poco tempo a dire il vero — la coppia più strana ed eccitante che allora si potesse immaginare. Walt Disney e
Salvador Dalí si conobbero nel 1945. Erano, a loro modo,
due geni. Determinati, insoliti, vincenti. Due maschi
Alpha, diremmo con linguaggio etologico. Nell’ovvia diversità delle loro origini — uno era americano l’altro catalano — furono due autentici visionari. Il loro primo incontro, del tutto casuale,
avvenne nella villa del produttore Jack Warner. Dalí, insieme alla
compagna Gala, era a Hollywood per disegnare l’insert di Io ti salverò
di Hitchcock. Il regista voleva che egli lavorasse alle scene di un incubo, qualcosa che desse il senso di una profonda angoscia: psicoanalisi applicata alle esigenze del cinema. L’artista fu entusiasta dell’incarico, lusingato che un grande regista avesse pensato alla sua pittura. Che del resto era eclettica come la sua mente. Nella fase trionfale
del surrealismo egli aveva collaborato anche con Buñuel sul set di Un
chien andalou e in piccola parte a L’Age d’or. Amava il cinema e le sue
immense potenzialità. Trovarsi al cospetto di Disney, uno dei grandi
artefici del sogno americano, fu un’occasione da sfruttare.
In una lettera a Breton, di qualche anno prima, Disney aveva inserito Dalí tra i più grandi surrealisti. Non era il giudizio di un critico, ma
quello di un talento visivo che aveva colto nella pittura del catalano
una delle grandi rivoluzioni artistiche del primo Novecento. Disney
era impulsivo, pragmatico, in grado di realizzare le occasioni che gli
si presentavano. Avere davanti in carne e ossa Salvador Dalí era come
stare di fronte a una fragrante torta di Nonna Papera. Impossibile
ignorarla. Cominciò a intravedere un progetto di collaborazione per
la realizzazione di un corto di animazione. Si parlarono e si intesero
alla perfezione. Nacque Destinoche, secondo le parole di Dalí, sarebbe stato «una magica esposizione della vita nel labirinto del tempo».
A rivedere oggi certa pittura dell’artista, gli orologi molli che pendono come guanti, o il dipinto del 1946 La tentazione di Sant’Antonio,
che sembra direttamente uscito dalla fantasia disneyana, si ha l’impressione che i mondi onirici dei nostri due protagonisti non aspettassero altro che la scintilla di un progetto comune per potersi fonde-
F
Surrealismo alla catalana
e sogno americano
Due visionari a Topolinia
ANTONIO GNOLI
IL COFANETTO
Il cortometraggio d’animazione
Destino, tratto dal progetto
di Walt Disney e Salvador Dalí
e realizzato nel 2003 con la regia
di Dominique Monfery, è inserito
tra i contenuti extra del cofanetto
Blu ray disc che comprende
Fantasia, il film prodotto
da Walt Disney nel 1940,
e Fantasia 2000, il sequel voluto
da Roy Disney sessant’anni dopo
Insieme a Destino, anche
un documentario intitolato
Dalí & Disney: un appuntamento
con Destino in cui si raccontano
le vite dei due grandi personaggi
LA FOTO
Walt Disney
(il primo
da sinistra)
e Salvador Dalí
(il secondo
da sinistra)
insieme
in un parco
giochi di
Hollywood
re e offrire qualcosa di inedito al mondo. Le poche lettere che, tra il
1945 e il 1946, i due si scambiano sono per lo più messaggi di cortesia
e di entusiasmo per il lavoro in comune. Nulla ci dicono delle loro nature. Erano simili Walt e Salvador? Una foto li ritrae, insieme ad altri,
in un abbozzo di parco di Disneyland. Sono davanti a un treno in miniatura: Dalí avvolto in un elegante paltò dai larghi baveri e Disney con
una camicia a scacchi, i jeans e un cappello sulla testa. Sembrano concentrati sul giocattolo. Affascinati dalla perfetta miniatura di una locomotiva a vapore, ne studiano la potenzialità cinematografica: creare illusione e movimento.
Non erano queste le doti da entrambi possedute? Disney le applicò
alle sue creature di carta, con le quali interpretò l’America nelle sue
varie fasi: dal sogno roosveltiano del new deal alla guerra fino all’american way of life degli anni Cinquanta e Sessanta. Non fu esente da
critiche, anche pesanti. Alcune biografie, come quella di Marc Eliot,
puntarono a distruggerne l’immagine. Si insinuò che avesse avuto
simpatie per il fascismo e il nazismo, che fosse stato antisemita. Non
gli perdonarono di aver testimoniato, durante il maccartismo, contro
i colleghi e averli accusati di attività antiamericana. Era nato roosveltiano finì conservatore. Come Dalí del resto. Che da giovane si era legato a García Lorca e col tempo divenne un esaltatore del suo carnefice: il Generale Franco.
Strane e paradossali sono le vite degli artisti. Ma mentre Disney si
difese dalle accuse che considerò infamanti, Dalí le sublimò all’altezza di un omaggio alla sua storia dirompente. E qui si vedeva lontano
un miglio quanto i loro caratteri fossero diversi. Disney era l’uomo che
si era fatto da solo, che aveva lavorato duramente: un indipendente
che aveva saputo affrontare e risolvere tutte le avversità. Era il genio
che intuiva dove si posava lo spirito industriale del mondo.
Salvador Dalí non ebbe in dote la sobrietà dell’altro. Era assolutamente privo di freni inibitori. E mise questa assenza al servizio della
propria teatralità. Più che aspettare che qualche biografia lo demolisse pensò lui a stupire il suo pubblico scrivendone una che intitolò:
Vita segreta di Salvador Dalí. È innegabile che in quell’opera esternò
tutto il proprio esibizionismo. George Orwell la stroncò definendo
Dalí «asociale come un insetto». Come dargli torto? Dalí aveva come
punto di riferimento umano soltanto Gala, la donna che aveva dipinto, amato, curato negli anni della malattia e accompagnato fino alla
tomba. Gala, più grande di qualche anno, era stata la moglie di Paul
Eluard e poi l’amante di Max Ernst. Dalí si era invaghito di questa donna russa, il cui vero nome era Elena Dimitrievna Diakonova. Fu la sola costante della sua vita. Il resto del mondo divenne per lui un’immensa cartoonia nella quale inventare figure surreali, dominate dal
sogno, dal sesso e dalla paranoia. Si può dire che tra i tanti generi, nella sua arte, incubassero anche il fumetto e la graphic novel. Mancavano in lui la consapevolezza industriale e il lavoro di squadra, doti
che Disney possedeva.
Vissero entrambi di sogni e di ambizioni. Volevano la popolarità.
Chiesero di essere creduti e il successo arrise loro. Non sempre l’arte
di Dalí fu apprezzata. E ancora oggi la critica si divide tra chi lo vede
come l’ultimo dei surrealisti e chi lo stronca come il primo degli artisti kitsch. In realtà, senza entrare nel merito della sua pittura che fu
comunque grande e contraddittoria, egli ha costituito il prototipo
dell’artista multiplo e mediatico. Fece del suo corpo, quello che aveva fatto della sua pittura: un’arte dell’apparenza. Disney non si spinse a tanto. Gli mancava l’estremismo. E il senso innato della provocazione. Se la sua vita non fosse arrivata dalla provincia americana, forse avrebbe potuto somigliare maggiormente al pittore catalano. Forse in un’altra vita lo avrebbe perfino ricreato nei suoi meravigliosi cartoon. Immaginando, per i suoi adulti e bambini, un tipo tra Macchia
Nera e Gastone: elegante, un po’ cattivo e molto fortunato.
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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Trasversali
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
Può camminare e andare sott’acqua. Piace a poveri e ricchi
Ogni sua parte può essere cucinata, a lungo ma anche
con tempi più brevi. Non ha carni bianche ma neppure rosse
Leggendaria e gustosa, riserva sempre una sorpresa
Coscia
Fegato
Salame
Polposa, gustosa, robusta,
si prepara sia intera
(a fine cottura,
nel suo grasso si stufano
le verze) sia disossata
e farcita con verdure,
funghi, salsiccia
Il foie gras si gusta
sia in versione confit
(paté e terrine), sia fresco,
scaloppato. Quasi tutti
i paesi della Ue
vietano ormai la pratica
dell’ingozzamento
Impasto di oca e maiale
insaccato nel budello
naturale, o carne di petto
d’oca in purezza
nella pelle del collo,
specialità per cristiani,
ebrei e musulmani
Collo
Disossato e farcito
con un ripieno di carne
e tartufo, innaffiato
con poco brandy si cuce
alle estremità. Cottura
lenta nel suo grasso
o in brodo
Petto
Si cuoce arrosto
e brasato, o si affumica,
come nel caso del falso
parsuto padovano,
formato da due petti
arrotolati, cuciti
insieme e insaccati
Uova
Pesano anche quattro
volte quelle di gallina
e sono il segreto
delle sfogline romagnole,
per rendere la pasta
più elastica
e le torte più fragranti
Ilgioco
Oca
dell’
Se il maiale avesse le ali
LICIA GRANELLO
eiun’oca, dicono, e certo non a mo’ di complimento. Dare dell’oca è quasi peggio che dare del pollo... Eppure, l’animale ha
molte frecce nel suo arco, a cominciare dal coté gastronomico. L’auca latina — da avica, avis, uccello — è una sorta di forziere alimentare, che tutto o quasi può contenere ed essere
cucinato: grassi e proteine, muscoli e fegato, stomaco (durello) e pelle. La polivalenza biofisica — l’oca cammina, corre, va sott’acqua,
nuota, vola, con performance da pantatleta — la consegna in cucina diversa da tutte le altre creature commestibili. Non si tratta di carni bianche
ma neppure rosse in senso stretto, i grassi sono saturi in quanto animali
ma di formazione chimica prevalentemente insatura (e quindi più sani),
ci si può stancare a forza di cuocerla ma alcune parti accettano perfino
cotture rosate. Piace a poveri e ricchi, in virtù di quella trasversalità gastroculturale che autorizza le classi privilegiate a far proprie le acrobazie
alimentari delle classi subalterne. E infine, come per i suini, dell’oca non
si butta via nulla, tanto da valerle la definizione di maiale con le ali.
Rispetto ad altri uccelli da carne, fatichiamo a considerarla alla stregua degli animali da allevamento intensivo. Sarà per la dimensione affettuosa che il mondo disneyiano ha attribuito alla famiglia — dalla progenie di Zio Paperone alle sorelle Adelina e Guendalina Bla Bla — sarà per
tutta l’aneddotica scientifico-popolare accumulata nei millenni, sarà
S
perché l’oca è troppo ingombrante per le dimensioni dei nostri freezer,
troppo pretenziosa per le nostre cotture frettolose, troppo ancorata alla
storia contadina. Siamo riusciti a far dimagrire i maiali, banalizzare i polli, dimensionare i pesci in monoporzioni, ridurre le mucche a fabbrica di
bistecchine e hamburger. L’oca — vanitosa, permalosa, vendicativa,
chiassosa — è difficile da rendere seriale. Così, i francesi per trasformarle in produttrici di foie gras, alterano la struttura del loro fegato (il
termine steatosi indica l’incremento patologico del grasso epatico) grazie alla pessima pratica del gavage, l’ingozzamento forzato, che l’Italia
e altri tredici Paesi della Ue hanno dichiarato illegale nel 2007. Fortunatamente, come per la corrida in Spagna o la caccia alla volpe in Inghilterra, anche in Francia si sta prendendo coscienza dell’orrore della
“pratica comune”, scappatoia legale usata per autorizzare alcuni Paesi
a torturare ogni anno trenta milioni di oche e anatre in nome del paté. A
fine 2010, infatti, trentamila confezioni di un gustoso succedaneo battezzato “Faux gras”, finto grasso, hanno allietato le tavole natalizie dei
francesi, a conferma che quel 45 per cento di contrari al gavage comincia a tradursi in scelte meno scontate, a supporto di pratiche più rispettose del benessere animale.
Se poi l’idea di addentare un cosciotto di Ciccio — l’ottuso, tenerissimo nipote di Nonna Papera — vi fa orrore, ripiegate su una bella frittata:
con mezza dozzina di uova d’oca, sfamerete l’intero condominio.
L’APPUNTAMENTO
La distilleria di Percoto
sabato 29 ospiterà
per il Premio Nonino
quasi mille persone, pronte
a godersi le cosce d’oca
bollite, servite su letto
di verze, cren e mostarda
di bacche di rosa canina
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DOMENICA 16 GENNAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Prosciutto
Le cosce più pregiate
vengono massaggiate
col sale e stagionate come
quelle dei maiali. Varianti:
al pepe, leggermente
affumicato, cotto
e tipo speck
itinerari
Chen Shiqin guida
il “La Rei”, ristorante
del Boscareto
Resort, a Serralunga
d’Alba. Squisita
la scaloppa di fegato
grasso d’oca, mosto,
nocciole e mele cotogne
Ripiena
Preparazione sontuosa
che prevede una farcitura
a base di amidi (castagne
o patate), carni (fegato,
salsiccia), spezie e odori
dell’orto. Cottura in forno
per due ore
Savigliano (Cn)
Qui Edoardo Bresciano
ha recuperato l’antica cascina
di famiglia, strutturandola
secondo i principi
dell’allevamento naturale
DOVE DORMIRE
IL SEGRETO DI MILIA
Strada Cavallotta 116
Tel. 0172-717574
Bottaggio
La cassoeula d’oca:
sui pezzi di carne, rosolati
con cipolla, carote
e sedano, bagnati col vino
bianco, si appoggiano
strati di verze con sale
grosso, lasciando stufare
Ragù
Si lavora sia in bianco,
utilizzando poco zucchero
per caramellare la carne,
sia con il pomodoro
Oltre a condire le paste
fatte in casa, si usa
come farcia per i ravioli
DOVE MANGIARE
L’ANTICA CORONA REALE
Via Fossano 13, Cervere
Tel. 0172-474132
Chiuso martedì sera e merc.
menù da 50 euro
DOVE COMPRARE
CASCINA PESCHIERA
Strada Santa Scolastica 9
Località Suniglia
Tel. 0172-377356
Palmanova (Ud)
Ispirati da Luciano Curiel,
ultimo macellaio del ghetto
di Venezia, i Pessot hanno
trasformato la gastronomia
a base di carne d’oca
DOVE DORMIRE
AI DOGI
Piazza Grande 11
Tel. 0432-923905
Camera doppia da 85 euro,
colazione inclusa
‘‘
Guido da Cozzo
Ebbi in Mortara in ripa del Molino
una locanda che si noma “Becco”
che lo palato sazia al contadino
con grasse oche e schietto vino secco
e pur sallama d’oca in mostra trovi
che dar di gola fa chiunque prova
XIV secolo
e l’aquila è rapace l’oca è loquace. E pure pugnace e perspicace. Come le indimenticabili oche del Campidoglio che salvarono Roma dai Galli mentre tentavano nottetempo di scalare le mura dell’urbe. E ci sarebbero riusciti se le indomite
pennute non si fossero messe a strillare come ossesse. Così
arrivarono i nostri e la città eterna fu salva. Gli antenati di
Asterix se ne tornarono oltralpe con le pive nel sacco, giurando però di
vendicarsi sulle perfide spione. E poiché la vendetta è un piatto da consumare freddo, inventarono il foie gras. Totem della gastronomia francese, che costringe da secoli i gloriosi palmipedi a farsi un fegato così.
Anche se l’ingrasso forzato delle oche, che peraltro non dispiaceva
nemmeno ai Quiriti, risale, secondo alcuni, addirittura agli antichi Egizi. Che al bipede piumato attribuivano virtù magiche e profetiche. Facendone il simbolo della preveggenza. Una prerogativa che mette tutti
d’accordo. Nelle tradizioni popolari europee erano le oche a preavvertire gli incendi, a starnazzare contro ladri e faine, a trovare i tesori nascosti. E ad accompagnare i trapassati nell’Aldilà. Tanto è vero che si usava
mangiarle arrosto il 29 settembre, festa di San Michele, l’arcangelo che
soppesa le anime sulla bilancia nel giorno del giudizio. Mentre nei paesi
dell’Asia centrale gli sciamani, quando vanno in trance per raggiungere
il mondo degli spiriti, imitano il verso dell’oca. E immaginano di volare
S
CAFFETTERIA TORINESE
Piazza Grande 9
Tel. 0432-920732
Chiuso mercoledì
menù da 15 euro
DOVE COMPRARE
JOLANDA DE COLÒ
Via Primo Maggio 21
Tel. 0432-920321
Mortara (Pv)
Dal Campidoglio al Nobel
MARINO NIOLA
DOVE MANGIARE
sulle sue ali. Proprio come il piccolo Nils Holgersson, nato dalla fantasia
della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, la prima donna a vincere il Nobel
per la letteratura nel 1907. Il bambino sorvola la Scandinavia a cavallo di
un’oca che gli dà un’autentica lezione a volo d’uccello sull’ingiustizia sociale e sul rispetto per la natura. Una lettura edificante che folgora il piccolo Konrad Lorenz e gli ispira la sua celebre e appassionata dedizione
per le ochine. Che dal canto loro lo ricambiano trattandolo come la loro
mamma. E facendogli vincere il Nobel per l’etologia nel 1973. In quell’occasione il grande scienziato disse che avrebbe voluto nascere oca.
Animale intelligente, a dispetto delle malelingue. Ma anche simbolo
di un gusto democratico, alla portata di tutti, tanto da dare il nome a istituzioni sociali come i Goose Clubs ottocenteschi. Associazioni operaie
che nel mondo anglosassone gestivano i risparmi della working class per
garantire a ogni famiglia un’oca grassa durante le feste comandate. Una
previdenza gastronomica, un autentico welfare della gola. Per continuare a sognare un mondo migliore, che non lascia gli ultimi a becco
asciutto. Forse per questo le oche sono diventate un simbolo della pedagogia fiabesca. Dai racconti di Mamma Oca di Perrault alle favole dei fratelli Grimm. Fino al disneyano Paperino, irascibile signore di quella mecca dei palmipedi che è Paperopoli. Abitata da un’umanità con piume e
becco in cui ciascuno di noi non può fare a meno di riconoscere un altro
se stesso. Con la pelle d’oca.
Dura da quasi un millennio,
l’allevamento delle oche
in Lomellina, affinato
grazie al lavoro di Gioachino
e Davide Palestro
DOVE DORMIRE
ALBERGO SAN MICHELE
Corso Garibaldi 20
Tel. 0384-99106
Camera doppia da 85 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
GUALLINA
Via Molino Faenza19
Tel. 0384-91962
Chiuso martedì
menù da 40 euro
DOVE COMPRARE
CORTE DELL’OCA
Via Sforza 27
Tel. 0384-98397
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Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
le tendenze
Senza tempo
Non temono
i capricci del mercato
e sfuggono sempre
all’ultimo trend
Molto più che accessori,
sono borse, occhiali,
scarpe, abiti,
che tutti vorrebbero
TOD’S
È il mocassino per eccellenza
Leggero, flessibile, coloratissimo
Ideale in città, comodo da portare
in vacanza. Griffato da Tod’s
è diventato un simbolo della maison
(dovrebbero?) avere
nel proprio armadio
Ecco, per ogni griffe,
quali sono i capi cult
che non tramontano mai
Quando
il dovere
è un piacere
TIFFANY
Classico anello di fidanzamento
il Tiffany Setting è tanto
tradizionale quanto gradito
da chi considera il “solitario”
una dichiarazione d’amore
IRENE MARIA SCALISE
francesili definiscono indémodable. Oggetti oltre le mode, senza tempo e senza età. Non
temono i capricci dei gusti e neppure quelli
del portafoglio. Tengono saldo il timone
contro qualsiasi crisi e, dagli armadi delle
donne, spesso sono catapultati direttamente nei musei. In italiano si potrebbero definire, semplicemente, icone. Molto più che accessori, sono
amati, regalati, comprati e desiderati. Sino allo sfinimento.
Chi vive un’esistenza glamour li riconosce senza
esitazione e, il più delle volte, gode solo nel possederli. Per una questione di status ma anche per il
piacere degli occhi. Talvolta hanno lo stesso nome
dei personaggi famosi che, nel corso degli anni,
hanno contribuito a trasformarli in mito. C’è la bor-
I
Icone
RAY-BAN
Gli occhiali Ray-Ban a goccia
modello Aviator hanno segnato
un’epoca ma sono ancora
attualissimi. Tornano in mille
sfumature di lenti differenti
sa Kelly come la principessa di Monaco che, in una
copertina di Life Magazine, la usò per nascondere
una gravidanza ancora segreta ai fotografi. O ancora la Birkin, come la celebre attrice che in aereo al
fianco del direttore generale di Hermès manifestò
l’esigenza di una borsa più grande per mettere i biberon dei suoi figli e se la vide recapitare a casa. O la
Lady Dior, richiesta addirittura da Jacques Chirac
alla maison parigina, in occasione di una visita ufficiale di Lady Diana a Parigi. O infine la Jackie di Gucci, amatissima da Jacqueline Kennedy.
Tra i superclassici ci sono borse ma anche impermeabili, cappotti, scarpe, gioielli, orologi e occhiali da sole. C’è il trench di Burberry, l’orologio
Rolex o Bulgari, il gioiello di Tiffany, la pochette
Chanel, l’abito di Prada o Valentino e i mocassini
Tod’s. Tutti capi lontani, anzi lontanissimi, dagli ultracafonal della moda televisiva e dei reality. E spesso le aziende, allettate dal successo ottenuto nel
passato, ritengono più che saggio recuperare i vecchi classici e riproporli sul mercato. Magari in edizioni limitata.
È il caso della Kelly riprodotta in paglia per il modello picnic o rimpiccolita all’inverosimile nella
versione pochette. O dei mitici Ray-Ban, occhiali on
the road che a partire dal 1937 hanno trasformato la
casa madre in una tra le aziende più famose. Dalla
primavera del 2011, sui nostri nasi, torneranno alcuni tra i Ray-Ban più classici, per esempio quello
piccolo arrotondato reso celebre da John Lennon o
le sfiziose edizioni a forma di gatta. E il pubblico degli appassionati, squattrinato, ricco o ricchissimo,
ricomincia a sognare.
PRADA
Autentica icona è la borsa
in spazzolato nero con chiusura
a cerniera, caratterizzata
dal logo Prada con nodo Savoia
stampato a caldo
DOLCE & GABBANA
La borsa Miss Sicily è una
delle più ambite tra le collezioni firmate
Dolce & Gabbana. Elegante e chic
è perfetta per la sera
ma si può indossare anche di giorno
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DOMENICA 16 GENNAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
In molti casi
sono associati
al nome dei personaggi
che li hanno resi
immortali:
da Coco Chanel,
a John Lennon,
da Jackie Kennedy
a Lady Diana
HERMÈS
Perché non è l’oggetto
ma chi lo indossa
a far sì che entri
nella storia del costume
La Kelly di Hermès lanciata nel 1956
da Grace Kelly mentre cercava
di nascondere la gravidanza celando
il pancione. La foto finì in copertina
di Life ed è entrata nella storia
CHANEL
La scarpa bicolore di Chanel è stata
calzata dalle dive di ogni tempo
A proporla per prima Mademoiselle
Coco che, nel 1957, la ideò
ispirandosi alle scarpe da uomo
Francesca Di Carrobio di Hermès
“Quel clic a Grace Kelly
così nasce un mito”
apire in anticipo se un prodotto si trasformerà in icona è praticamente impossibile». Parola di Francesca Di Carrobio, amministratore delegato di Hermès. Le
aziende predispongono tutto e poi sono i gusti dei
clienti, e il tempo, a decidere le sorti di una borsa o
di una cintura. Con una sola certezza: una volta
conquistato il cuore del pubblico, le icone non tramontano mai.
La borsa Kelly, come la Birkin, hanno avuto
una grande fortuna grazie a testimonial di lusso.
Quanto pesa un testimonial sul successo di un
prodotto?
«Hermès ha dei clienti internazionali, noti in
tutto il mondo, ma non sono mai “usati” da noi come testimonial. Anzi, teniamo segreti i nostri habitué. Però capita che vengano casualmente fotografati, come accadde negli anni Sessanta a Grace
Kelly, e allora diventano un simbolo. Di solito i vip
ci ordinano prodotti speciali. Se hanno successo,
chiediamo agli interessati di poterli mettere in
produzione per tutti».
Quanto riuscite a rendervi conto che un prodotto che state realizzando oggi sarà destinato a
diventare indémodable domani?
«Dico la verità? Lavoro da vent’anni per Hermès
e non ci azzecchiamo mai. Forse è il tempo che decide di trasformare una borsa in uno status symbol. Quel prodotto che magari oggi non funziona,
come avevamo previsto, dopo dieci anni diventa
cult».
Che target di pubblico è quello di Hermès?
«Non ha un vero target perché non ha mai creato una sottomarca. Un prodotto Hermès è sempre
Hermès: che sia il profumo da novanta euro o la
borsa da 150mila. Tra i nostri clienti ci sono molti
giovani e non solo figli di clienti. Certo se una borsa come la Kelly costa cinquemila euro determina
una selezione».
Nei momenti di crisi questi oggetti resistono?
«In modo insperato. È come se il mercato li
avesse riscoperti. In quest’ultimo anno, così cupo,
sembra che un faro di luce illumini Hermès».
Perché secondo lei?
«Forse perché i nostri prodotti rispondono a un
generale senso di preoccupazione, per noi stessi e
per il futuro, che spinge a spendere bene quando
si decide di farlo».
Qual è il segreto dello stile Hermès?
«Alternare le varie direzioni artistiche senza stravolgere il marchio. Noi
prima abbiamo avuto Martin Margiela, poi Jean Paul Gaultier e ora arriva Christophe Lemaire, ma nessuno
ha reso i prodotti irriconoscibili».
Quali sono i nuovi mercati più interessati ai prodotti icona della maison?
«Il cinquanta per cento del nostro
fatturato è realizzato in Europa. Ma
sicuramente i russi e i cinesi, che
sono molto giocosi e avidi di tutti
i tipi di prodotto, sono i nuovi fan di
Hermès. Tanto che in Cina eravamo partiti in modo soft e ora abbiamo più di trenta boutique».
(i. m. s.)
«C
BURBERRY
Indossato da testimonial di lusso
come Kate Moss e Carla Bruni,
il trench Burberry non sembra passare
mai di moda e, in caso di meteo
variabile, è un’ottima risorsa
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GUCCI
La bamboo bag, rivisitata
da Gucci per la collezione estiva
2011, è destinata a spopolare
Comoda e elegante è l’ideale
per ogni occasione importante
MONTBLANC
La penna stilografica che tutti
vorrebbero avere. Di Montblanc,
ideale per uomo e per donna
Un accessorio di eleganza da tenere
sempre nella borsa o nel taschino
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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 GENNAIO 2011
l’incontro
Da ragazzina avrebbe voluto fare
l’acrobata, poi è arrivata al cinema
passando per la facoltà di medicina
e il teatro “fisico” di Emma Dante
Il corpo sempre al centro:
“Da piccola volevo stare
nuda, da adolescente ero
molto pudica, oggi lo uso
in sottrazione”. Come
nel film “La solitudine
dei numeri primi”, dove
è arrivata a pesare quaranta chili:
“Esperienza pericolosa e affascinante,
assai vicina all’anoressia...”
Giovani attrici
Alba Rohrwacher
«H
stenza del corpo, della messa alla prova
e della messa in scena del corpo, Alba
Rohrwacher, meno volentieri di amore,
o religione: «Equilibri sottili che tendo a
proteggere. Gli incontri si fondano nella maggior parte dei casi su un’unicità
che è sacra. Per esempio, l’amore: io non
ho paura a dire che non ho anticorpi». E
non sai se allude a una fragilità fisiologica o a una prudenza da soggetto ingestibile. «Sono antica...» ammette sovrappensiero. «Cerco caratteri forti» confessa con quella sua tenerezza calvinista.
«Sono disorganizzata, spesso faccio fatica a controllare le cose pratiche che riguardano la mia vita, la mia casa (che
pure è il mio rifugio)» riflette sorridendo
sulla quotidianità. «Ho uno strano rapporto con la scrittura. Un tempo ho
scritto della mia vita personale. Molto.
Adesso lo faccio ancora, ma con più fatica» spiega quando indago sulla sua
grafomania. «Mi è capitato che mi sentissi tradita nel rileggere miei pensieri
trascritti da qualcun altro, ma poi ho ca-
Osservo molto
gli altri. D’estate
aiuto i miei
nei mercati
di campagna,
e mi soffermo
su tutte
le fisionomie che
mi passano davanti
FOTO CORBIS
o dei bei piedi».
Alba
Rohrwacher,
tacchi zero, lineamenti
acerbi alla
Balthus, una che fisicamente ti fa pensare d’aver avuto un’infanzia col viso
della Ragazza con l’orecchino di perla di
Vermeer, che oggi ha una somiglianza
allampanata con Monica Vitti giovane,
e che forse avrà un futuro col volto acuto di porcellana d’una Tilda Swinton.
Un tipo non comune, targata Firenze 27
febbraio 1979. Una che ha passato la sua
adolescenza in Umbria vicino a Orvieto,
in campagna, dove il padre ex violinista
aveva messo in piedi un’attività d’apicultore, «e dove a forza di imbattermi
ogni estate in un circo francese ambulante mi viene voglia di fare l’acrobata».
Una che a diciassette anni è tornata a Firenze a studiare, a fare l’università, «Medicina», frequentando anche una scuola teatrale «dove debutto impersonando Sigismondo ne La vita è sogno di
Caldéron de la Barca», per poi decidersi
di venire a Roma, a giocare una carta al
Centro sperimentale di cinematografia:
«Mi ammettono, e apprendo cose essenziali come la disciplina, il mettere
forza nei ruoli». Oggi Alba è un’attrice
con alle spalle una carriera di “figlia”,
come testimoniano Mio fratello è figlio
unico di Luchetti, Giorni e nuvole di Soldini, Due partite di Monteleone, Il papà
di Giovanna di Avati, Io sono l’amore di
Guadagnino, con all’attivo un imprinting mancino di protagonista in L’uomo
che verràdi Diritti, Cosa voglio di piùancora di Soldini, La solitudine dei numeri
primi di Saverio Costanzo, e con un imminente volto di donna-soldato al servizio del “capitano” Silvio Orlando in Missione di pacedi Francesco Lagi quasi tutto montato e presto in circolazione.
Parlare d’arte con lei è fatalmente
parlare di educazione fisica, più che di
teorie e tendenze. «È che ho camminato
scalza a lungo. Da uno a quattro anni
non mi volevo vestire. Poi dai dieci ai diciassette sono diventata estremamente
pudica. Il corpo lo uso in sottrazione. Figuriamoci quando per La solitudine dei
numeri primi Saverio Costanzo m’ha
chiesto di modificarlo, e ridurlo, dimagrendo d’una decina di chili, arrivando
a pesarne quaranta. Mentre non mangiavo e seguivo le istruzioni del dietologo, ho avvertito un senso pericoloso e affascinante di invulnerabilità, quel qualcosa che porta all’anoressia».
Il radicale cambiamento anatomico
ha messo in moto, in una donna-scricciolo come lei, anche una metamorfosi
di dentro. «Partendo da questo lavoro fisico estremo, ho capito meglio l’interiorità del personaggio, l’Alice raccontata
da Paolo Giordano nel romanzo, e alla fine dell’avventura ricordo che una cara
amica m’ha fatto notare che mi era cambiato lo sguardo». Lo sguardo di Alba
trae in inganno, facendo sempre chiamare in causa la timidezza. «Non è che
non conosca l’opposto, l’irriverenza, la
rabbia. Certo, sono molto riservata e
questo atteggiamento viene frainteso: il
fatto è che quando provo un senso di
inadeguatezza, di disagio, faccio un
passo indietro e osservo». Non perde
mai il controllo? «Sì, anche spesso, e mi
accade con le persone a cui voglio molto bene. Qualche giorno fa, tornata in
Umbria nella casa dove vive ancora la
mia famiglia, un amico ha detto che per
me un’importante scuola di recitazione
e di emozione è stata la libertà con cui io
mi sono espressa davanti ai miei, arrivando a dire le cose senza reprimermi».
Ma anche nei retroscena della vita professionale di Alba non sono mancati gli
appuntamenti con lo stress emotivo,
con le sensazioni forti: chi non pagherebbe, per avere una registrazione filmata del suo training con Emma Dante?
«Ho una memoria molto intensa del lavoro fatto con Emma prima del suo Cani di bancata, un lavoro attoriale che ha
cambiato il mio modo di sentire questo
mestiere. Il suo insegnamento è un bagaglio, una ricchezza a cui m’è capitato
di tornare anche in lavori fatti al cinema.
L’immaginario che lei costruiva con noi
attori, passando da Dostoevskij a Sciascia, non me lo scorderò mai».
Parla della naturalezza e del pudore
del corpo, dell’armonia e della consi-
pito una cosa molto semplice, forse banale: che la persona che rimane sulla
carta scritta non sono né io né chi mi ha
intervistato, ma una terza identità che
nasce da un confronto, da cui a volte imparo a capire delle cose di me che possono anche non piacermi, che faccio
finta di non vedere, e che invece esistono» riassume in tema di rapporto delicatissimo con la comunicazione. «A volte mi rendo conto che per essere troppo
riservata finisco per diventare vaga,
sfuggente, e questa è una cosa che io
combatto nelle persone di cui mi circondo, e riscontrarla in me non mi piace, anche se mettersi a nudo è difficile...»
continua a ragionare, e quasi fa sovvenire un ragionamento di Pirandello, convinto che ogni parola avesse per ognuno
un significato diverso, malintendibile.
Chissà di chi si circonda una persona
sottile, cauta, ragionatrice e rigorosa
come Alba. «Le amicizie? Ho letto una
cosa, in una raccolta di pensieri di Natalia Ginzburg, di lei che rievoca se stessa al liceo a contatto con Soldati, un Soldati che incollerito s’alzava dicendo
con voce ferma “gli amici non si scelgono”. La Ginzburg elabora quell’espressione e risolve che gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza non si scelgono
affatto, e quelli dell’età adulta in qualche modo sì, e lei conclude sostenendo
che giocano sempre tre elementi: in
parte scegliamo noi stessi, in parte veniamo scelti, in parte è il caso a scegliere per noi. Io sono d’accordo, anche se
m’oriento soprattutto con l’istinto, e
sulle prime magari do difficilmente accoglienza alle persone fino in fondo, poi
arriva un momento in cui ci si riconosce, e allora il legame diventa spesso,
solido, e ho l’ingenua convinzione che
sarà per sempre. Una volta m’è capitato di essere scelta, e quella che è voluta
diventare mia amica ora è tra le più care che io abbia».
Si direbbe che spesso la curiosità di
Alba Rohrwacher scatti prima per sollecitazioni umane e poi per scoperte intellettuali. «Osservo molto gli altri, già al
livello semplice degli incontri più casuali. D’estate do una mano ai miei collaborando alle vendite nei mercati di
campagna dove si pratica ancora il baratto, e mi soffermo su tutte le fisionomie che passano davanti. Mi attraggono
i diversi modi di vivere della gente che
abita lontano da noi, le tecniche del mestiere artistico così come le concepiscono gli altri, altrove...». Con una silhouette pazzoide e cameratesca prese parte
nel 2005 al branco dei personaggi di
Noccioline di Paravidino messo in scena da Valerio Binasco. Adesso pensa e
penserà solo al cinema? «Non è detto. È
questione di progetti. Avrei voglia di fare in teatro un testo contemporaneo ma
indifferentemente anche un Cechov.
Dipende dall’idea, ma anche e soprattutto dalle persone con cui la condividi.
Mi interessa lavorare con la fantasia, e
questo è successo nel film di Saverio Costanzo, un’esperienza dove c’era da
mettere corpo e anima, raccontando un
dolore dell’infanzia con spirito creativo
e, alla fine, con gioia. Ma mi rendo pure
conto che far leva sulla fantasia non è
sempre possibile, e anzi in certi casi non
è nemmeno giusto».
Alba ama i silenzi, le corrispondenze,
la semplicità, Erik Satie e il pianoforte,
la memoria, il rumore della pioggia, gli
occhi lucidi, la lealtà, Elsa Morante, l’ironia, Radio3, gli autobus vuoti. Alba rifiuta le dittature, l’avidità, i film horror,
le valige da fare, le sigarette, i fast food,
le bugie, lo smalto, lavare i piatti, il lavoro minorile. Se le domandi quanto si
sente partecipe di questa società, diventa serissima: «In un’epoca così confusa in cui la politica procede completamente sganciata dalla realtà, un segnale positivo che appoggio sono le
proteste degli studenti e del mondo culturale. Per fortuna l’arte non smette mai
di cercare, di farsi domande, di mostrarsi libera, e ho tanto amato, per intenderci, il film di Martone Come eravamo». Se provi a chiederle dove nasce la
felicità, risponde: «Da cose assurde.
Dallo svegliarmi da un sogno bello. Dalla sensazione provata quando tra primavera e estate un vento caldo è entrato in cucina». E l’infelicità? «Per chi è
ballerina tra gli stati d’animo, il passo
falso è la malinconia, e il passo con accidentale caduta è la rabbia».
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RODOLFO DI GIAMMARCO
Repubblica Nazionale
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Cara Italia ti scrivo