Domenica La di DOMENICA 16 GENNAIO 2011/ Numero 309 Repubblica il reportage Sul Matese, mille metri sopra il cielo PAOLO RUMIZ cultura La doppia vita di Egon Bondy MARIUSZ SZCZYGIEL Amore e rabbia per una patria bella e perduta Nelle lettere agli amici del Risorgimento il Verdi più politico LEONETTA BENTIVOGLIO I GIUSEPPE VERDI ROMA l Verdi risorgimentale affiora dalle lettere: complesso, problematico, interrogativo. Possente nel patriottismo senza cedimenti, nella rabbia contro gli oppressori, nell’anelito all’autonomia del Paese. Ma anche mutevole e sofferto, come uno specchio della contraddittoria parabola del Risorgimento. La sua corrispondenza sa restituirci in pieno il clima di difficoltà e conflitti che segnò il passaggio verso l’unificazione: sono scritti pieni di alti e bassi, di furie, di sdegni, di modi di ritrarsi e d’inveire. Viva Garibaldi, grida un Verdi esclamativo e vibrante. Abbasso i barbari invasori. Viva la musica delle baionette. Poi però si strazia e s’indispone. Intollerabili i bagni di sangue. Tremendo il disincanto del ’49. Viva la Repubblica. No, viva i Savoia. Giusto partecipare direttamente alla politica: il Verdi più maturo fa il suo ingresso in parlamento. Ma che disagio e che tormento essere deputato, si lamenta con gli amici. La politica è per lui una tempesta, un rovello, un perenne altalenare, dove ideali e riflessioni s’intrecciano con considerazioni artistiche e appunti sulla fattura delle opere. (segue nelle pagine successive) C PARIGI, 14 LUGLIO 1849 (a Vincenzo Luccardi) aro Luccardi, Da tre giorni attendo impazientemente le tue lettere. Tu puoi ben immaginare che la catastrofe di Roma m’ha messo in gravi pensieri, e tu hai avuto torto di non scrivermi subito. Non parliamo di Roma!!... a che gioverebbe! La forza ancora regge il mondo! La giustizia? ... a che serve contro le baionette!! Noi non possiamo che piangere le nostre disgrazie, e maledire gli autori di tante sventure. BUSSETO, 14 LUGLIO 1859 (alla contessa Maffei) Cara Clarina Invece di cantare un inno di gloria, parrebbemi più conveniente oggi innalzare un lamento sulle eterne sventure del nostro Paese — Ho ricevuto un bulletino del 12 che dice... L’Imperatore all’Imperatrice... La pace è fatta... La Venezia rimane all’Austria...! E dov’è dunque la tanto sospirata indipendenza d’Italia? Cosa significa il proclama di Milano? O che la Venezia non è Italia? (segue nelle pagine successive) FOTO GETTY/CONTRASTO/AGF Cara Italia ti scrivo spettacoli Disney & Dalí, due visionari a Topolinia ANTONIO GNOLI e LUCA RAFFAELLI i sapori Né ottusa né giuliva, la rivincita dell’oca LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA le tendenze Quando la moda non tramonta mai IRENE MARIA SCALISE l’incontro Le acrobazie di Alba Rohrwacher RODOLFO DI GIAMMARCO Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Cara Italia ti scrivo DOMENICA 16 GENNAIO 2011 “Viva Garibaldi!”, “Viva la musica delle baionette” Oltre i cori patriottici, è un Maestro dalla grandissima passione politica quello che nel centenario della morte emerge dalla corrispondenza con gli amici più cari Dagli archivi romani ecco alcuni esempi della sua prosa e della sua grafia, l’una e l’altra furiose e sdegnate ‘‘ Miseria e fame Patriottismo, dignità etc etc.. ma prima di tutto bisogna vivere. Dalla mia finestra vedo tutti i giorni un Bastimento, e qualche volta due, carichi di almeno mille emigranti ciascuno! Miseria e fame! ‘‘ Vergogna Siamo ridotti al punto che si ha quasi vergogna di essere Italiani, ed io ho vergogna particolarmente d’andare in questo momento a Parigi, come le cose vorrebbero 14 MAGGIO 1881 a Giuseppe Piroli 10 FEBBRAIO 1889 a Giuseppe Piroli ‘‘ I francesi Napoleone ci tratta come tanti ragazzi e come se avessimo scherzato finora Se io mi intendessi di politica direi che Egli il padrone vuole Savoia, Nizza... 3 FEBBRAIO 1860 a Giuseppe Piroli Il Risorgimento nelle lettere di GiuseppeVerdi LEONETTA BENTIVOGLIO (segue dalla copertina) Q uando, nel ’54, scrive al suo corrispondente napoletano Cesarino De Sanctis riguardo al rifacimento del libretto de La battaglia di Legnano, spiega che il testo dovrebbe conservare «tutto l’entusiasmo di patria e libertà, senza mai parlare di patria e libertà». Sottigliezze di un sommo creatore, i cui ottantotto anni di vita (10 ottobre 1813 — 27 gennaio 1901: cade tra pochi giorni l’anniversario della morte) coprono l’intero arco del Risorgimento. Scorrono le missive verdiane custodite nella Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei, a Palazzo Corsini di Via della Lungara a Roma. Oltre all’abbozzo del libretto di Un ballo in maschera, questo prezioso archivio conserva le lettere scritte da Verdi non solo a De Sanctis, ma al suo avvocato di Parma Giuseppe Piroli e allo scultore Vincenzo Luccardi. «È solo una parte della corrispondenza di un compositore che firmò migliaia di epistole in un’epoca in cui era la posta l’unico strumento per dialogare a distanza», avverte Pierluigi Petrobelli, direttore scientifico dell’Istituto nazionale di studi verdiani che ha sede a Parma. Tante sono le lettere, sparse in tutto il mondo, che l’istituto sta raccogliendo da quarant’anni per quella che sarà un’edizione critica monumentale, già iniziata da tempo. È Petrobelli a guidarci nell’esplorazione della fetta che si trova ai Lincei. E gli preme far notare la vivida tinta mazziniana del giovane Verdi, segnalando che «l’approccio a Mazzini è uno tra gli aspetti meno sottolineati del suo pensiero politico. Solo in seguito, attraverso la graduale conoscenza di Cavour, avrebbe modificato le sue opinioni avvicinandosi ai Savoia». Con la sua grafia orgogliosa e ricca di angoli, il più nazionalpopolare tra gli artisti ottocenteschi scrive di politica a conoscenti e confidenti in tono ora guerresco ora amaro sull’identità e le sorti del Paese, ora critico nei confronti dei francesi «presuntuosi e impertinenti», ora in vena di attacchi ai tremendi germanici, «d’una rapacità senza limiti: uomini di testa, ma senza cuore; razza forte, ma non civile». L’incontro con Mazzini avviene a Londra nel 1847, quando Verdi è nella capitale inglese per il debutto de I masnadieri, presentati all’Her Majesty’s Theatre il 22 luglio. È il patriota ligure a chiedergli di musicare un inno sui pomposi versi di Goffredo Mameli, Suona la tromba: tutto un clangore d’armi contro gli invasori e un risuonare di osanna per un’Italia che sia «una dall’alpi al mar». Verdi accetta, e nel 1848, in una lettera al suo committente, scrive: «Ho cercato d’essere più popolare e facile che mi è stato possibile». Da artista sensibile alla comunicazione, è ben consapevole della necessità di un inno «adesivo». Perciò avverte Mazzini d’incitare Mameli a cambiare alcuni versi per armonizzarne i ritmi con la partitura: «Io li avrei potuti musicare anche come stanno, ma allora la musica sarebbe diventata più difficile, quindi meno popolare e non avressimo ottenuto lo scopo». Il progetto però va malamente in porto, «perché le parti corali», racconta Petrobelli, «vengono pubblicate solo nel Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 DISEGNO DI TULLIO PERICOLI DOMENICA 16 GENNAIO 2011 ‘‘ Incapaci e parolai Poveri noi! La situazione è sì desolante che non ho nemmeno la forza d’imprecare contro quel branco di incapaci, stupidi, parolai, fanfaroni che ci hanno portati alla rovina “Che belli i finali col cannone” GIUSEPPE VERDI (segue dalla copertina) opo tante vittorie quale risultato! Quanto sangue per nulla! Quanta povera gioventù delusa! E Garibaldi che ha perfino fatto il sagrifizio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d’un Re senza ottenere lo scopo desiderato. C’è da diventar matti! Scrivo sotto l’impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. È dunque ben vero che Noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero di qualunque nazione sia! Che ne dite voi? Forse m’inganno ancora? Lo vorrei. D 14 LUGLIO 1866 a Giuseppe Piroli (a Angelo Mariani) (...). Ma dimmi di altra musica, la quale (domando scusa a tutti voi figli di Apollo) mi interessa assai di più. Oh scusate scusate! Come vanno le Crome e biscrome di Cialdini, Persano, Garibaldi et. et.? Tu m’avevi promesso di scrivermene, e, testaccia, l’hai dimenticato. Quelli son Maestri! e che Opere! e che Finali! a colpi di cannone! (a Cesare De Sanctis) Parliamo un po’ di politica. Per Dio non fate ragazzate, state quieti, tenete a freno i matti, abbiate pazienza, fidate nel gran politico che regge i nostri destini, e tutto andrà bene. Pensate che se non dovesse effettuare la grande idea dell’Unità d’Italia la colpa sarebbe tutta vostra, ché delle altri parti d’Italia non v’è da dubitare. Se per idee miserabili di campanile l’Italia dovesse essere divisa in due (che Dio non lo voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle altre grandi potenze; quindi povera, debole, senza libertà, e semibarbara. L’Unità soltanto può renderla grande, potente e rispettata. 1862 e con l’aggiunta — non si sa chi l’abbia fatta — di un accompagnamento pianistico». Infiammatosi per le Cinque Giornate, Verdi scrive nel 1848 al librettista Piave che «la sola musica grata alle orecchie degli italiani dev’essere quella del cannone», e sull’onda delle emozioni crea La battaglia di Legnano, dove la cacciata di Federico Barbarossa simboleggia l’espulsione dall’Italia degli invisi dominatori. Nata sullo sfondo della Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, quest’opera, secondo Petrobelli, «è l’unica composta da Verdi con esplicito intento di propaganda risorgimentale». Ma dopo il debutto romano di fine gennaio 1849, e prima che Mazzini giunga a Roma, Verdi torna a Parigi, città in cui è rimasto quasi sempre nel ’48, senza mai immergersi personalmente nei moti rivoluzionari, «col tipico atteggiamento dell’uomo di cultura che ha idee e sentimenti forti ma non si coinvolge in prima persona», nota Petrobelli, «esprimendo il suo impegno più con le opere che con i gesti». Ma negli anni il repubblicanesimo gli appare sempre più come un’utopia, e l’intesa con Cavour lo induce a diventare deputato, cedendo all’amico che lo prega di accettare la candidatura. «Cavour, di cui Verdi ammirava il realismo politico, voleva avere un simbolo grandioso nel primo parlamento nazionale», spiega Petrobelli. «Non c’era italiano al mondo che fosse celebre e amato quanto Verdi». Anche se le alchimie politiche gli sono estranee, anche se non si lega ad alcun partito, anche se con l’età adotta posizioni sempre più caute, le sue opere ne hanno fatto l’icona di una causa. Fin dal 1859, anno de Un ballo in maschera, il suo nome si presta a un acrostico rivoluzionario che dalle mura di Modena dilaga nel Paese: «Viva Verdi». Una sigla che, al di là dell’aspetto innocuo, allude alla speranza condivisa dell’Unità: «Viva V (ittorio) E (manuele) R (e) D’I (talia)». Perché fare di Verdi una bandiera? Perché tanta comunione e identificazione? La risposta emerge, inestinguibile e sempre decifrabile, dai suoi sublimi cori che evocano gli esuli e gli oppressi, dal suo imprimere un’enfasi sconvolgente a parole come patria e libertà, dalla sua capacità di far risuonare appelli alla fratellanza che toccano l’anima di chi ascolta e di chi canta. Petrobelli ne è convinto: «Il vero Verdi politico sta nei cori, soprattutto in quattro: Va’ pensiero del Nabucco, O Signore dal tetto natio dei Lombardi, Si ridesti il leon di Castiglia dell’Ernani e Patria oppressadel Macbeth. La preghiera di Va’ pensiero inizia piano per poi esplodere nel terzo verso della seconda strofa: “O mia patria sì bella e perduta”, ed è nella struggente intensità di questo passaggio che sta il segreto della sua potenza comunicativa. Qui Verdi sa dirci tutta l’aspirazione inconscia degli italiani a una patria che vorrebbero avvertire come propria, senza riuscirci mai fino in fondo». Fu questo il genio politico di Verdi: capì, meglio di chiunque altro, che il suo Paese pasticcione, accorato, sminuzzato, conteso, poteva esistere nell’arte prima che nella realtà geografica e nel sentire civico dei suoi abitanti. LE LETTERE In queste pagine gli originali di alcune lettere scritte da Verdi e custodite nella biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei, a Roma Al centro un’illustrazione di Tullio Pericoli (a Giuseppe Piroli) Poveri noi! La situazione è sì desolante che non ho nemmeno la forza d’imprecare contro quel branco d’incapaci, stupidi, parolai, fanfaroni, che ci hanno portati alla rovina. Speriamo in una vittoria di Cialdini? Ma è essa possibile se ora gli Austriaci abbandonano tutto?... E l’avvenire? Quando i rossi domanderanno: signori moderati, cosa avete saputo fare per sei anni del vostro Governo? Un’armata senza organizzazione e senza capi, una marina che non esiste, e le finanze rovinate! Addio. Vogliatemi bene. Addio. (a Giuseppe Piroli) Io non amo la politica, ma ne ammetto la necessità, le teorie, le forme di Governo, Patriottismo, Dignità etc. etc., ma prima di tutto bisogna vivere. Dalla mia finestra vedo tutti i giorni un Bastimento, e qualche volta due carichi almeno di mille emigranti ciascuno! Miseria e fame! Vedo nelle campagne proprietari di qualche anno fa ridotti ora a contadini, giornalieri, ed emigranti (miseria e fame). I ricchi, di cui la fortuna diminuisce d’anno in anno, non possono più spendere come prima, e quindi miseria e fame! E come si potrà andare avanti? Non saranno mica le nostre industrie che ci salveranno dalla ruina! Voi direte che sono un pessimista!... No, no... Io credo d’esser nel vero, dicendo che sono profondamente convinto, che su questa strada troveremo in fondo la ruina completa. Forse, voi, uomo politico, dite che «non c’è altra strada»... Ebbene, se è così prepariamoci a tutti i disordini che si produrranno ora in una città ora in un’altra, poi nei paesi, poi nelle campagne, ed allora Le déluge! © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il reportage Fuori rotta DOMENICA 16 GENNAIO 2011 L’Afghanistan, l’Anatolia, i monti lunari della Erzegovina E invece è il Matese, un pezzo d’Appennino lontano millenni da Napoli e dal mondo. Dove resistono antichi mestieri, facce sannite, popoli ribelli, in fuga naturale dalla società dello spreco e del rumore. Ora un libro li celebra attraverso immagini di vita quotidiana Mille metri sopra il cielo PAOLO RUMIZ P SAN GREGORIO MATESE (Caserta) ochi tornanti sopra San Gregorio Matese il cielo si oscura all’improvviso; da quota mille tracima un’onda di marea, nubi grasse in corsa dal Molise, e la slavina precipita sul Volturno, la “terra di lavoro” tra Venafro e Benevento, orti e bufale a vista d’occhio. La nebbia mi inghiotte, fermo la macchina sull’orlo di un burrone, in un silenzio assoluto, aeronautico. Potrei essere in Afghanistan, sui monti lunari di Erzegovina. Un luogo da deltaplani, un balcone senza paracarri, senza anima viva. Tiro fuori la carta, cerco di orientarmi. Niente. Mi sono perso, ho passato la linea d’ombra. E comincia uno smarrimento tutto appenninico, perché solo in Appennino è possibile perdersi così. «Guardate che fermarsi qui è pericoloso assai!». Mi spavento, il cellulare mi cade di mano. La testa di un uomo è entrata dal finestrino aperto e sta a quaranta centimetri dalla mia. È arrivato controvento, senza che lo sentissi, dal curvone a picco sul nulla come un girone d’Inferno, quello di Dante illustrato da Gustavo Doré. Non sorride. È un duro coperto di rughe, maschera greca di età indefinita, abbronzato come una guida nepalese. Ha passamontagna e bastone in mano, una mano enorme, e intorno a lui sento il calpestìo del gregge. Spaesamento totale. Potrei essere in qualsiasi montagna del mondo, Karakorum, Anatolia, Ande peruviane, Rodopi, Patagonia. L’unica certezza è altimetrica, sono oltre, sopra il mio mondo. E forse anche in un altro tempo. Esco fuori, parliamo un po’. Il pastore spiega la strada, mi consiglia dove sostare a mangiar bene. Mi parla del trampolino per deltaplani e del castagno più grande del mondo, tre metri di diametro, da qualche parte in un posto chiamato «Reale». Gli sta accanto un pastore abruzzese che sorveglia ogni mia mossa, mentre un altro cane, più piccolo, tiene insieme il gregge. «Scrivete che qualcuno ha buttato rifiuti tossici quassù sul lago, io li ho visti i camion passare». Quando riparte gli dico una frase che ho imparato nell’Ager Campanus, fertile inferno di bufale, camorra e brava gente. «T’accumpagno c’o pensiero». E lui se ne va, col passo millenario di Abramo, corto e regolare; la nebbia lo inghiotte, per un bel po’ sento i campanacci, poi più niente. Solo allora capisco di avere incontrato un sanni- ta. Uno di quei guerrieri indomabili che duemila anni fa, poco lontano a sudest, fecero passare i soldati romani sotto le Forche Caudine. Un mondo pastorale, da sempre antagonista della Dominante. Popoli padroni di una viabilità tratturale alternativa alle strade consolari, fatte per le legioni in armi. Una rete partigiana di quota attraverso la quale passò impunemente Annibale, senza essere mai sconfitto in campo aperto, nei sedici anni della sua presenza in Appennino. Sono sulla roccaforte di quel mondo: una sierra, come quelle che vedi in terra d’Aragona sotto i Pirenei. Un’acropoli, una fortezza naturale, simile all’altopiano di Asiago, ma più tenebrosa. Il Matese. Si aprono squarci di sole. Inconfondibile, isolato come una portaerei, il mio bastione naviga nelle nubi e nel vento. Napoli è lontanissima, Caserta e il mondo di Gomorra pure. Qui è altra lingua, altre facce, altra toponomastica, altri animali totemici. Hirpus e Luk, il lupo che diede il nome a Irpi- ni e Lucani; Picus, il picchio, che battezzò i Piceni. I soprannomi sono spesso animaleschi: “u’ Passero”, “u’ Fall’co”, e naturalmente “u’ Lupo”. Visi larghi di montagna, corporature di uomini-fauni, centauri. Donne forti, padrone assolute del fuoco domestico. Un mondo che fu ricco di mandrie, legna, lana, frutta e acqua, un monumento alla ricchezza antica d’Appennino, con i suoi trenta milioni di pecore e i terreni di quota che non franavano grazie al pascolo. Un’economia verticale, transumante, che non consumava il territorio e oggi è massacrata dai divieti di una burocrazia connivente con l’imbroglio della grande distribuzione. Una topografia arcana di santuari e divinità pagane. Mi basterà scendere a Saepinum, sulla statale Isernia-Benevento, per capire la ricchezza di quel mondo. Un’archeologia di pietre che belano. Anfiteatri, alberghi, punti di ristoro bimillenari dove i pastori a migliaia sostavano nel trasferimento. E, più in là, in Molise, Pietrabbondante, la capitale dei pastori confederati, affacciata sull’infinito orizzonte. Non esiste nulla di più italico. La cosa più antitetica a Paestum che si possa immaginare. A Gallo Matese — enclave bulgara smarrita tra i monti — mi mettono in mano un libro. Quota mille, fotografie di Francesco Fossa. È la Spoon River per immagini di un mondo vivente. Paesaggi e ritratti. Ritrovo la ventosa malinconia dell’Italia di mezzo, nei mesi fuori-stagione; la povertà degli interni, le facce di un mondo arroccato che si rifiuta di rotolare in basso, come tutto in Italia, acque, frane, uomini e animali. I miei bravi highlanders: pastori intabarrati sotto ombrelli enormi, donne forti in abito nero, adulti dalle barbe incolte, giovani pochissimi, ritratti in posa con zappe, pane, formaggio, cavalli, muli, Padre Pio. L’epopea di una resistenza misconosciuta, lo spazio di fuga dal pensiero unico della società dello spreco e del rumore. A San Gregorio i pastori sono ancora tanti, undicimila. E quando arriva il tempo della tosatura qui non c’è bisogno di chiamare macedoni o neozelandesi a sbrigare il lavoro. «Facciamo tutto in casa, è così da sempre», racconta Cristina Ferrito, vedova con quattro figli a quarantasette anni. La ritrovo sul libro di Fossa: le foto dell’uomo e del santo sono davanti a un letto di semi di girasole, messi a seccare come in un presepe. Dei figli, Antonietta e Giovanni accudiscono le bestie, lavorano quaranta chili di formaggio alla settimana; poi c’è Nunzia e la piccola Elvia che ogni mattina si alza alle cinque per pren- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 IL LIBRO E LE FOTO La copertina di Quota Mille (edizioni punctum, 96 pagine, 30 euro) di Francesco Fossa, con una prefazione di Paolo Rumiz, da cui sono tratte le immagini che illustrano queste pagine dere il sentiero fino alla fermata del bus che la porta all’istituto industriale di Piedimonte. Mi traversano la strada una decina di muli, portati con passo guerrigliero da una donna di nome Carmela. Sono carichi di legna e vanno alle ultime carbonaie d’Italia. Il mulo è l’unico animale capace di raggiungere i boschi da ripulire, in alto sul Monte Janara, il Postonico, il Mutria. Cime tagliate da canaloni, che in autunno diventano letti di foglie dove si sprofonda alla cintola. Loredana Perrone ha fatto l’insegnante nelle Langhe per dieci anni, amando quelle terre del Piemonte; ma solo nel suo Matese rivela di sentirsi bene veramente. «Quello che per altri è isolamento — dice — per me è soltanto serenità». Ed è tornata, a Letino, il comune più alto della Campania, a milleduecento metri. Uno dei pochi posti dove i giovani non scappano, ma anzi ritornano. Piedimonte Matese, zampillar di fontane. Sosta al bar con Rosario Di Lello e Vincenzo Rapa, a par- lar di briganti negli anni post-unitari. I due mi raccontano la Pasqua di Sangue, la storia di un possidente, Don Salvatore, il quale violenta una ragazza che muore abortendo, il giorno di pasqua. La leggendaria brigantessa del Matese, Maria Maddalena De Lellis, il cui fucile è in bacheca a Piedimonte, si accorda col brigante Santannello, suo amante, per vendicare la poveretta: cattura don Salvatore, lo evira e lo brucia vivo. Anni terribili, di soprusi, giustizie sommarie, fucilazioni. Come a Pontelan- dolfo, quattrocento morti di mano bersagliera, come rappresaglia a una strage di soldati. Anni, anche, di utopie, con la prima e unica repubblica anarchica d’Italia, proclamata nel 1876 e resistita solo due giorni all’arrivo dei carabinieri. Sanniti, rivoltosi, briganti, pastori, utopisti, soldati annibalici, escursionisti innamorati dell’Appennino. Mille storie, ma un solo, temporalesco luogo rifugio. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 GENNAIO 2011 CULTURA* Aveva scelto uno pseudonimo, ma il suo vero nome era Zbynek Fišer È stato poeta, mendicante, filosofo e guru della scena off praghese. Ha amato il marxismo, combattuto Stalin, collaborato con la polizia comunista (perché neppure il capitalismo gli andava a genio). È conosciuto ai più come uno dei personaggi dell’autore di “Una solitudine troppo rumorosa”. Ma è esistito davvero. Prima che morisse, lo scrittore polacco Mariusz Szczygiel lo ha incontrato. Per restituircelo in questo esilarante racconto MARIUSZ SZCZYGIEL G entile Signor Egon Bondy, molti cechi sono convinti che Lei sia stato inventato da Bohumil Hrabal. Coloro che sanno che Lei non è una sua invenzione, La credono tuttavia morto. Ciò premesso, Le chiedo di concedermi un incontro. M. Szczygiel Gentile Signore, sono lieto di confermarLe che sono vivo. Sebbene, per motivi di salute, lo sia solo dalle ore 14 in poi. Le chiedo quindi la cortesia di non arrivare in anticipo, meglio qualche minuto dopo che prima, in questo modo avremo a disposizione un tempo illimitato. Il suo Bondy Ecco come lo inventò Hrabal: «Quando stava in piedi al sole Egon sembrava un fauno emerso da una cisterna di birra, i capelli chiari gli scorrevano sempre giù lungo le orecchie e allo stesso modo la sua barba, alla luce del sole, era cosparsa di chiara Lagerbier». Ecco come diventò Egon Bondy: Nacque nel 1930 e all’inizio si chiamava Zbynek Fišer. La madre vietava al piccolo Zbynek ogni contatto con i suoi coetanei. Quando nel 1936 iniziò la prima elementare, subì uno shock nel vedere che al mondo esistevano tanti bambini. All’età di sette anni s’innamorò perdutamente di un suo vicino di banco: figlio di genitori disoccupati che vivevano in uno scantinato. Bondy lo invitava spesso a casa perché, come diceva, «mio padre era libero da ogni pregiudizio sociale». Alla domanda di come fosse nata in lui la passione per il marxismo, Bondy non ha mai dato una risposta precisa. Forse la chiave per capirlo andrebbe ricercata proprio nelle convinzioni sociali di suo padre. «Il marxismo», scrisse una volta, «dà speranza alle persone, le nota per essere stata il grande amore di Franz Kafka. Aveva ereditato un patrimonio milionario che sperperò nel giro di un anno. In seguito aveva fatto cinque figli che trascurava al punto da finire in galera per quel motivo. (Parecchi anni più tardi, diventata ormai Jana Cerná, avrebbe scritto un appassionato libro dedicato alla memoria di sua madre, Vita di Milena, che, ancora fresco di stampa, sarebbe finito al macero su ordine del regime). Scappava da Cerny con Bondy, e da Bondy con Cerny. Spesso non avevano i soldi per mangiare. Si trasferirono in campagna. Passavano la notte in un albergo operaio, e di giorno men- ‘‘ Sono lieto di confermarle che sono vivo. Sebbene, per motivi di salute, lo sia solo dalle ore 14 in poi Le chiedo quindi la cortesia di non arrivare in anticipo dicavano nelle vie di Praga per racimolare quattrini per l’albergo. Essendo senza lavoro non avevano diritto ai tagliandi annonari. Mangiavano avanzi lasciati nei bar, rubavano il bucato steso fuori dalle finestre, biciclette, carrozzine, e vendevano subito tutto. Divenne poeta più o meno così: Non ci mise molto a notare i primi segnali preoccupanti. Innanzitutto il famoso corteo che nel febbraio del 1948 marciò insieme ai comunisti attraverso piazza San Venceslao, appena gi- rato l’angolo si sciolse in fretta e tutti si precipitarono a casa ansiosi di arrivare in tempo per lo spezzatino di manzo con i knödel. In seguito, dopo essere stato nominato capo dell’ufficio per la gioventù presso il comitato di quartiere, scoprì che venivano adottati nuovi metodi di reclutamento: accanto ai moduli di adesione al partito era appoggiata una pistola. Poi vide che dal catalogo delle edizioni Girgal erano stati esclusi tutti i titoli surrealisti. Poi, che non si suonava più il jazz. Poi, che la gente aveva iniziato ad avere paura di comportarsi in maniera spontanea. E poi ancora che di fronte a tutto ciò i suoi colleghi del partito non battevano ciglio. «L’ideologia bolscevica non va confusa con il marxismo. Questi due pensieri non hanno nulla in comune», disse loro chiaro e tondo e decise che non avrebbe più lavorato per quel regime. «Devo assolutamente tirarmene fuori» dichiarò. Nei suoi primi versi Bondy proclamava che l’Urss era un regime fascista. Ai tempi in cui tutti scrivevano: «Di bocca in bocca vola veloce /Un nome che diffonde luce/ Un nome che con il sole inizia/ Il nome del compagno Stalin», Egon Bondy scriveva così: «Con delicata prudenza scoreggio, per non cagarmi addosso». Ecco come il diciannovenne Bondy divenne precursore dell’underground: Decise che non avrebbe mai pubblicato niente ufficialmente. Così, nel 1949 Honza Krejcarová, il suo amante Egon Bondy e il loro sodale Ivo Vodsed’alek iniziarono a battere a macchina le proprie poesie in pochissime copie, a rilegare i fogli e a distribuire l’opuscolo a persone fidate. Diedero in questo modo vita alle Edizioni Púlnoc, Mezzanotte, considerate oggi una delle prime case editrici clandestine. I versi che pubblicavano mettevano in ridicolo l’Unione Sovietica e il suo dio Stalin. Nella poesia InculataBondy scrisse: «È tutta una gran inculata, amici /sia nei giorni feriali sia di domenica /Soltanto i cineasti sovietici/ vedo- Ecco come Egon Bondy entrò nella penna di Hrabal aiuta a non precipitare del tutto nella disperazione per l’imminente arrivo di una catastrofe che spazzerà via tutto». Verso la fine del 1948 in Unione Sovietica si scatenò un’ossessione antisemita. Le notizie sulle nuove purghe giunsero sino a Praga. «Noi, i diciottenni di allora, ne fummo sconvolti. Erano passati solo tre anni dall’Olocausto! E dire che il comunismo era stato costruito dagli ebrei, perché sarebbe dovuto diventare un sistema politico più giusto soprattutto per loro. Un sistema che avrebbe garantito l’uguaglianza a tutti i popoli. Beh, dall’Urss non ce lo saremmo mai aspettato! Nei libri di Karel Capek ogni ebreo ricco si chiama Bondy. E così, in segno di protesta, io che sono un ariano avevo deciso di usare uno pseudonimo ebreo. E mi è rimasto fino a oggi». Divenne celebre come Egon Bondy e utilizzava quel nome praticamente in tutte le situazioni. Ma anche Zbynek Fišer aveva una sua vita. Ecco come divenne mendicante: Un giorno trovò sul tavolo il messaggio che l’aveva cercato una ragazza alla quale sarebbe piaciuto conoscerlo, e poco sotto un indirizzo. Passò da lei l’indomani mattina. Gli aprì una giovane in camicia da notte, un po’ in carne perché era al sesto mese di gravidanza. Era Jana Krejcarová, ma gli amici la chiamavano Honza. Studiava belle arti. Bondy entrò e uscì solo dopo tre settimane. «Perché avevo ormai un urgente bisogno di biancheria pulita». In seguito il loro amico Ivo Vodsed’alek avrebbe raccontato che Honza non sopportava di stare da sola. Bondy lasciava capire che il numero di amanti (maschi e femmine) di Honza superava le centinaia. Era stata con Bondy per otto anni. Contemporaneamente frequentava un suo amico. «Subito dopo essere andata a letto con me telefonava a Cerny esortandolo a venire immediatamente a prendere il mio posto». Honza era figlia di Milena Jesenská, giornalista e comunista, no il mondo a mo’ di aritmetica». Oppure: «Oggi ho bevuto molte birre/ così non mi verrà nessun tormento/ E su Rudé Právo si dice/ che la gloria del nostro partito è in aumento». Con quei versi Bondy aveva dato origine a un nuovo genere poetico che Vodsed’alek definì, sottovoce, «poesia imbarazzante». Per testi di quel tipo si rischiavano venticinque anni di galera, se non addirittura la pena di morte. Tant’è vero che ancora negli anni Settanta un musicista fu condannato a un anno di carcere per aver raccontato al bar una barzelletta sull’Unione Sovietica. Intanto la Krejcarová era impegnata a scrivere d’altro: «No, in culo oggi no/ mi fa male...». Nel dicembre 1948, per la prima volta nella storia della letteratura ceca una donna componeva poesie hardcore: «(...) Le fiche vengono confezionate su misura/ al sarto bisogna dire/ Me la foderi di seta per favore/ e niente bottoni mi raccomando/ la porterò senz’altro sbottonata (...)». Dopo il periodo della «poesia imbarazzante» Bondy, resosi conto che lo stalinismo invalidava ogni possibile metafora, diede vita al cosiddetto «realismo totale»: «Avevo scritto ciò che pensavo in un’epoca in cui nessuno non solo non aveva il coraggio di scriverlo, ma non osava nemmeno immaginarlo». «Si può fare a meno di aspettare/ Suggerì una compagna in fila al Consiglio Nazionale/ Se trovate la casa di un detenuto/ Ve l’assegneranno in un minuto». Ecco come conobbe Hrabal (nel 1950): «Qualcuno mi disse che quel signore mi avrebbe offerto una birra. Così mi presentai da lui, a Liben, e Hrabal mi offrì davvero una birra». IL PERSONAGGIO Una fotografia di Egon Bondy, personaggio letterario ma anche uomo in carne ed ossa: il suo vero nome era Zbynek Fišer Ecco come ruppe con Hrabal (nel 1954): «Mi svegliai una mattina, e cioè a mezzogiorno, e avevo davanti a me il solito programma: bere birra con Honza, con Hrabal, con gli altri. Di colpo avvertii che non avevo voglia di anda- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 L’AUTORE Mariusz Szczygiel (1966) è uno scrittore e giornalista polacco premiato per i suoi reportage In Italia Nottetempo ha pubblicato Gottland Ha già scritto per Repubblica re da nessuna parte. Mi alzai e scrissi una breve lettera a ciascuno di loro che sarei venuto il giorno dopo. Se non che il giorno dopo non ci andai. E da allora per diversi anni non vidi più nessuno dei miei amici. Rimasi solo. Andavo nelle biblioteche, mi misi a studiare il buddismo e il taoismo. Una decina di anni dopo incontrai Hrabal per strada, casualmente. Al funerale di Honza nel 1981 al mio posto era andata mia moglie Julie». Ecco come divenne dottore di filosofia: Un giorno conobbe la sua dottoressa di famiglia. Era un’appassionata di filosofia orientale. Lo convinse a riprendere gli studi. Ci pensò lei a sbrigare tutte le pratiche. Per poter frequentare il liceo per lavoratori Bondy dovette trovarsi un impiego. Venne assunto al Museo Nazionale come custode della balena. Fu la prima volta in vita sua che lavorava. Teneva d’occhio lo scheletro lungo trenta metri. A ventisette anni conseguì la maturità e superò l’esame di ammissione alla facoltà di filosofia. Ecco come divenne un noto filosofo cecoslovacco, Zbynek Fišer: Negli anni Sessanta pubblicò: Questioni dell’essere e dell’esistenza, Il conforto dell’ontologia, Buddha. Fišer fu il primo in Cecoslovacchia che riuscì a spiegare in modo accessibile la filosofia orientale e a metterla a confronto con la tradizione occidentale. Nei primi anni Novanta uscirono i sei volumi delle Note per una storia della filosofia. La prima versione della sua tesi di dottorato era farcita di tante espressioni sconce che il suo relatore ci mise una settimana a trovare degli equivalenti più decorosi. Ecco come il quarantenne Bondy divenne il guru dell’underground: Quando non aveva da mangiare e non sapeva dove andare, si faceva chiudere in manicomio. Aveva per questo i suoi metodi. Entrava per esempio di corsa sull’autostrada agitando una lanterna a luce rossa, di quelle usate nei cantieri stradali, e strillava: «Omicidio! Aiuto!». Proprio in un reparto di psichiatria, nei primi anni Settanta, incontrò Ivan Jirous, detto il Mattacchione, un giovane storico dell’arte, nonché anima e leader del gruppo rock The Plastic People of The Universe. Il Mattacchione si nascondeva in manicomio per sfuggire al servizio di leva. (Bisogna dire che gli psichiatri cecoslovacchi hanno reso un buon servizio ai dissidenti). I Plastic People persero la testa per le vecchie poesie di Bondy. La band si era formata nel 1968, due mesi dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. «Generiamo figli destinati all’inferno» aveva dichiarato Bondy all’indomani dell’invasione. I suoi pezzi degli anni Cinquanta — «una merda poeticizzata» secondo la sua stessa definizione — infrangevano i tabù linguistici. Le sue brevi poesie erano perfette per i ritornelli facili da ricordare («Pacifico, pacifico, pacifico come un antidolorifico»). Nell’epoca del neostalinismo degli anni Settanta i testi di Bondy si caricavano di un significato particolare. Qualcuno dichiarò che la miscela di suoni, stridenti e dissonanti, prodotti dai Plastic People, non si piegava al diktat di dover piacere a tutti costi. Nei giornali e in televisione venivano accusati di esibire un disdicevole disprezzo dei valori, oltre a una totale mancanza di rispetto verso il popolo dei lavoratori. I musicisti si difendevano dicendo che in realtà quei testi erano un appello a vivere diversamente. «Può darsi che il nostro sia semplicemente il canto di un topo chiuso in un labirinto. Forse per questo la musica dei Plastic People è così diversa dal rock suonato in Occidente», rifletteva Jirous. Nel 1976, dopo una serie di persecuzioni, tutti i membri del gruppo furono arrestati (Jirous era stato sbattuto in carcere ben cinque volte, l’ultima nel 1989: una settimana dopo l’inizio della rivoluzione di velluto). Il famoso processo ai Plastic People diede vita al movimento di opposizione anticomunista chiamato Charta 77. Il loro disco più importante, pubblicato in Canada e introdotto in Cecoslovacchia di contrabbando, s’intitola Egon Bondy’s Happy Hearts Club Banned. Il pezzo di maggior successo scritto da Bondy e messo in musica dalla band dissidente praghese recita: «Ieri mattina, giorno festivo, di un intenso prurito ai coglioni impazzivo». Ecco perché a sessantaquattro anni Bondy si trasferì a Bratislava: Si narra che abbia traslocato lì e assunto la cittadinanza slovacca in segno di protesta contro la scissione della Cecoslovacchia nel 1992. In realtà nel 1993 aveva ricevuto la proposta di tenere dei corsi di storia della filosofia dall’Università Comenio di Bratislava. E così lui e sua moglie Julie si trasferirono lì per sempre. Si erano conosciuti nella biblioteca dell’Università Carlo di Praga, dove Julie lavorava. Diceva spesso che lei era la sua unica ragione di vita. Julie morì un anno dopo il trasloco. Ecco come si svolse il suo ultimo incontro con Hrabal (nel 1995): Bondy andò a trovare lo scrittore nella sua casa di villeggiatura a Kresk, gli diede un bacio sulla fronte e dichiarò che presto Hrabal sarebbe morto, quanto a lui, non avrebbe mai più rimesso piede sul territorio ceco. «Dice un mucchio di sciocchezze», rispose Hrabal (si erano sempre dati del lei). «A vederla così, direi che tra un anno sarà lei a tirare le cuoia in quella sua Bratislava. Mi dia retta, si trovi al più presto un buon avvocato, e lo paghi in anticipo perché riporti la sua salma in Cechia. Da Praga la ‘‘ Quando stava in piedi al sole Egon sembrava un fauno emerso da una cisterna di birra, i capelli chiari gli scorrevano sempre giù lungo le orecchie... strada per il paradiso è più breve. Magari ci rivedremo lì». (Bohumil Hrabal morì due anni più tardi. Cadde oppure, come sembra più probabile, si gettò da una finestra del quinto piano dell’ospedale). Ecco come Egon Bondy si lamentava in un primo momento dei nuovi tempi: «La verità capitalista e l’amore per la resa dei conti con i collaborazionisti del passato regime hanno trionfato/ e intanto le persone semplici/ sui tram e nei bar dicono/ che, proprio come ai vecchi tempi, non si sente parlare che di odio/ e non si leggono che bugie (...) “È la strada giusta da percorrere!”/ “Scegliamo la prosperità!”/ La nostra o quella dei capitalisti stranieri? (primavera 1992)». «Ci hanno condotto in pompa magna/ sulla Strada dell’Europa/ che ben presto si è tramutata in una scampagnata nel passato/ Una grande inculata con uno spiraglio di luce:/ finalmente possiamo vedere con i nostri occhi/ ciò che conoscevamo dai libri». La sua raccolta dedicata alla nuova realtà s’intitola Il ballo degli spettri. Secondo la voce messa in circolazione all’università di Bratislava: Egon Bondy, in quanto altermondialista, tra una lezione e l’altra fruga nei cassonetti dell’immondizia per recuperare ciò che l’umanità butta via. Ecco come incontrai Egon Bondy: Marzo 2004. Io e una mia collaboratrice andiamo a trovarlo. Ci apre un uomo piuttosto basso, in un maglione a collo alto, visibilmente deliziato dalla nostra visita. «Ci avrei scommesso che fosse vivo!», esordisco. «Le ho portato un regalo». Tiro fuori un grembiule da cucina in cerata. Di quelli che si allacciano al collo e sui fianchi. È grigiobianco. Sul davanti sono stampati due glutei maschili a grandezza naturale. «Porca puttana!», gongola Egon Bondy, «adesso avrò il culo sia davanti sia dietro!» Lo indossa, fa un giro su se stesso. «Porca puttana! Domani andrò così all’università e sapete una cosa? Farò come se nulla fosse!» Egon Bondy porta due enormi boccali di vetro pieni fino all’orlo. «La birra e Hrabal...», buttiamo lì. «Beh, con Hrabal e Vladimír non giravamo mica per birrerie, lo sapevate?» «Invece ci andavate», insisto. «In Un tenero barbaro». «Si è inventato tutto di sana pianta. Ma non mentiva. Lui era convinto che tutto fosse successo esattamente così. Mentre in realtà per la maggior parte del tempo restavamo a casa di Hrabal e discutevamo di filosofia. Ha fatto di me un pagliaccio, vero? Ma non me la sono mai presa». «Perché?» «Perché ero un personaggio letterario. E come tale non potevo dire la mia». Alziamo i giganteschi boccali: «Oh! Non è birra!» «Sono anni che ci metto dentro un infuso di erbe, hi, hi, hi! Così sembra birra, ah, ah, ah!» «E la birra?» «Da trentacinque anni vado in giro con un tumore all’intestino. Quando si è privati per tanto tempo di ogni piacere biologico, che cosa resta? Prendere tutto quanto per il culo, ecco cosa resta». «Lei ha scritto una poesia sulla sua madrepatria. Se l’avesse scritta un polacco sulla Polonia, sarebbe stato impiccato». «Perché voialtri avete quel vostro orgoglio nazionale. Anche i serbi ce l’hanno. I cechi, al contrario, amano parlare male del proprio Paese. Da noi non ci sono tabù, quindi tutte le provocazioni lasciano il tempo che trovano. Vede, è molto divertente essere membro di una nazione così piccola. Ma essere poeta in una nazione così piccola è mille volte più divertente». «E che cosa significa oggi essere un marxista, perché capisco che lo è tuttora?» «Significa aspettare». «Finché non arriva una nuova rivoluzione d’ottobre?» «Come idea rivoluzionaria il marxismo ha fallito. Però ritornerà. Tra un centinaio d’anni, con modalità completamente diverse, perché le tecnologie saranno cambiate. Oggigiorno, qualunque aiuto umanitario all’Africa è un crimine economico. A me interessa invece un sistema in cui non lo sia. Nella mia visione, la globalizzazione dovrebbe significare pari opportunità per tutte le nazioni del mondo... Oh, chiedo scusa, hanno suonato alla porta!» Bondy esce e torna: «Il postino. Mi ha portato la pensione». «A quale nome viene spedita?» «A quello di Zbynek Fišer. Ma firmo come Egon Bondy. Mi sono impuntato e adesso anche quelli delle poste centrali devono riconoscerlo». Ecco come divenne collaboratore della polizia politica comunista: Per ben tre volte avevano tentato di adescarlo. La prima nel 1961, quando era ancora studente di filosofia. «Non avevo una buona opinione dell’Urss», ha raccontato al giornalista del più importante settimanale ceco Respekt, «tuttavia, per come la vedevo io, l’imperialismo internazionale era un male di gran lunga peggiore. Un mio compagno di studi mi aveva detto di essersi iscritto a un circolo di caccia per ottenere il porto d’armi e non vedeva l’ora di usare il suo fucile contro i bolscevichi. Un altro, infervorato, mi raccontò di un fienile dove aveva nascosto delle attrezzature. Si teneva pronto a mettere in piedi un’impresa capitalista non appena i comunisti sarebbero stati fatti fuori a fucilate». A un certo punto Bondy fece amicizia con uno studente che per arrotondare lavorava per la polizia segreta. Era stato Bondy a fare la prima mossa e a proporsi come informatore. Dai dossier risulta che era solito denunciare alla polizia quali libri occidentali leggessero i suoi compagni e chi di loro avesse delle inclinazioni religiose. Alla domanda del giornalista se non avesse in quel modo procurato loro dei fastidi risponde così: «Un momento, se quelle persone intendevano davvero ripristinare il capitalismo da noi, cosa vuole che m’importasse se finivano nei guai?» Una volta laureato, la polizia segreta lo lasciò in pace. Si rifecero vivi molti anni più tardi. Gli chiesero informazioni su un suo amico dissidente. Molti dei suoi conoscenti dichiarano oggi che per non dover fare soffiate si imboscava negli ospedali psichiatrici. Bondy afferma: «Presto si resero conto che era inutile tentare di cavare sangue da una rapa». Nel 1997 sono usciti gli Appunti del Mattacchione. Contengono rivelazioni sconcertanti. Ivan Jirous ebbe modo di leggere i verbali delle deposizioni rilasciate da Bondy. Bondy era stato l’unico a vuotare il sacco. Aveva spiattellato agli inquirenti tutto «e anche di più». Jirous era rimasto senza parole davanti al suo tradimento. Per mesi si arrovellò in carcere sulla lettera che gli avrebbe scritto a proposito di «intellettuali forti solo a parole, e che se la fanno sotto non già al primo schiaffo, ma al primo colpo di piede battuto a terra da un poliziotto». Si incontrarono due settimane dopo il rilascio di Jirous: «Ci eravamo semplicemente abbracciati, mi ero scordato completamente della lettera».Jirous lo giustifica: «In fondo Bondy è vissuto in mezzo a quella porcheria quindici anni più a lungo di me, si era beccato in pieno gli anni Cinquanta, mentre io ero ancora un bambino. Ed è come se fosse più vecchio di me di cinque secoli». «Come vede, sono vivo», Egon Bondy ci congeda sul pianerottolo con un profondo inchino. «È stato un piacere poterglielo dimostrare». Egon Bondy non è più vivo. È morto il 9 aprile 2007. Il suo pigiama aveva preso fuoco. Si era addormentato con una sigaretta accesa in mano. Il più grande quotidiano ceco, Mladá Fronta Dnes, ricordando sul proprio sito i meriti del filosofo, sottolineò che era vissuto senza telefono, radio e televisione, perché per tutta la sua vita aveva lottato contro la società del consumo. Sotto la notizia della sua morte, intitolata Sigaretta letale nel letto di Bondy, ammiccavano i «link inerenti all’argomento»: Letti: ampia scelta on-line Un paradiso di letti Cerchi un letto? Se clicchi qui trovi migliaia di offerte! Zapalilo sie lózko © Mariusz Szczygiel Traduzione dal polacco di Marzena Borejczuk © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 GENNAIO 2011 SPETTACOLI Il genio degli orologi liquidi e il mago dell’animazione avrebbero voluto realizzare un cartone dal titolo “Destino” Il progetto naufragò e venne realizzato solo alla morte dei due Mentre ora esce in versione Blu ray, ecco i bozzetti e il carteggio inedito che per pochi mesi intrattenne la coppia più strana del Novecento LUCA RAFFAELLI incontro di Walt Disney e Salvador Dalí e il progetto del film Destino viene da lontano. Perlomeno dal fatidico 1938, l’anno in cui il primo si sente al centro del mondo. Non ha neppure tutti i torti. Mickey Mouse è un’icona americana che ha già conquistato il mondo. E poi il suo primo lungometraggio, dal successo straordinario, segna la nascita di una nuova forma espressiva: con Biancaneve e i sette nani il disegno animato non è più fatto solo per divertire, ma anche per emozionare, commuovere, stupire . Perfino il maestro del cinema russo Eisenstein scrive che Disney «sembra conoscere tutte le corde più segrete dell’animo umano, delle immagini, delle idee, dei sentimenti». Il papà di Topolino la sua fortuna se la prepara con attenzione, passione e con L’ Appunti di scena sul film mai finito grande lungimiranza. Per esempio studiando l’arte europea dell’Ottocento e del Novecento. Facendo arrivare casse di libri con i migliori illustratori, spulciando le immagini disegnate dal maestro inglese Rackham, chiamando a lavorare con sé un altro grande come lo svedese Tenggren (fondamentale per dettare le atmosfere in Biancaneve) e poi il danese Kay Nielsen. Aveva già ammirato le opere dei preraffaelliti, i quadri di Arnold Böcklin e osservato quelli dell’astrattista tedesco Oskar Fischinger. Di qui la grande idea: trasformare l’arte in arte popolare. Nasce Fantasia, e per realizzare il sogno di un film composto di brani classici, chiama Fischinger a disegnare il brano di Bach e convince Stravinskij a concedergli la sua Sagra della primavera. Poi litiga con entrambi: l’arte, secondo il loro punto di vista, non accetta mediazioni. «È l’anima di ciascun individuo che ascolta la mia musica a destare il mio interesse, non il sentimento popolare di un gruppo», gli fa sapere il musicista russo in un suo articolo. Qualche anno dopo con Dalí le cose vanno in maniera diversa, perché Salvador non ha alcuna ritrosia nei confronti della popolarità e del successo (anzi, è orgoglioso del soprannome/anagramma datogli da Breton, fondatore del movimento surrealista: «Avida Dollars»). Non a caso, ritornato da un viaggio in California alla fine degli anni Trenta, scrive proprio a Breton di essere entrato in contatto con i tre più grandi surrealisti americani: Harpo Marx, Cecil B. De Mille e Walt Disney. Salvador e Walt si conoscono di sicuro nel 1945, a casa del produttore Jack Warner. Nasce tra loro un’immediata simpatia, che porta alla firma di un contratto per un cortometraggio basato su Destino, canzone messicana che non aveva trovato posto in uno dei film sudamericani di Disney, Saludos amigos! e I tre caballeros. Così nel 1946 Dalí va tutti i giorni a lavorare nello Studio di Burbank insieme a John Hench, stretto collaboratore di Walt. Il lavoro viene portato avanti per mesi, durante i quali i due realizzano dipinti, schizzi e sequenze. La storia, vaga e visionaria, ha come filo conduttore l’innamoramento di una donna e un uomo, accompagnato dalle invenzioni di Dalí: i suoi orologi, le tartarughe, una mano da cui escono insetti che poi si rivelano essere uomini in bicicletta, due profili che si incontrano creando l’immagine di una ballerina. Nei diari di Gala, la celebre moglie dell’artista spagnolo, di Destino si possono leggere decine di versioni. Poi il progetto si ferma. Forse perché i distributori non vogliono più da Disney cortometraggi musicali, o forse perché, come ha testimoniato un collaboratore disneyano amico di Dalí, Disney si infuria trovando nella scena finale non più ballerine ma giocatori di baseball. «Questo non ha alcun senso!», il drastico commento. Probabilmente la verità è che in quel progetto di film c’è troppo Dalí e troppo poco Disney. Destino vuole che tutto il lavoro sul film rimanga dimenticato per alcuni decenni nei magazzini di Burbank. Viene recuperato da Roy Disney, nipote di Walt, che amava portare avanti i progetti abbandonati dallo zio. Così, dopo aver ripreso nel 2000 il progetto Fantasia, decide che il film che non era mai stato si dovesse finalmente fare, portando alla luce la collaborazione fra due grandi del Novecento. Anzi, fra due geni, usando un appellativo che tanto piaceva ad entrambi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 16 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 u alla fine della Seconda guerra mondiale che si formò — per poco tempo a dire il vero — la coppia più strana ed eccitante che allora si potesse immaginare. Walt Disney e Salvador Dalí si conobbero nel 1945. Erano, a loro modo, due geni. Determinati, insoliti, vincenti. Due maschi Alpha, diremmo con linguaggio etologico. Nell’ovvia diversità delle loro origini — uno era americano l’altro catalano — furono due autentici visionari. Il loro primo incontro, del tutto casuale, avvenne nella villa del produttore Jack Warner. Dalí, insieme alla compagna Gala, era a Hollywood per disegnare l’insert di Io ti salverò di Hitchcock. Il regista voleva che egli lavorasse alle scene di un incubo, qualcosa che desse il senso di una profonda angoscia: psicoanalisi applicata alle esigenze del cinema. L’artista fu entusiasta dell’incarico, lusingato che un grande regista avesse pensato alla sua pittura. Che del resto era eclettica come la sua mente. Nella fase trionfale del surrealismo egli aveva collaborato anche con Buñuel sul set di Un chien andalou e in piccola parte a L’Age d’or. Amava il cinema e le sue immense potenzialità. Trovarsi al cospetto di Disney, uno dei grandi artefici del sogno americano, fu un’occasione da sfruttare. In una lettera a Breton, di qualche anno prima, Disney aveva inserito Dalí tra i più grandi surrealisti. Non era il giudizio di un critico, ma quello di un talento visivo che aveva colto nella pittura del catalano una delle grandi rivoluzioni artistiche del primo Novecento. Disney era impulsivo, pragmatico, in grado di realizzare le occasioni che gli si presentavano. Avere davanti in carne e ossa Salvador Dalí era come stare di fronte a una fragrante torta di Nonna Papera. Impossibile ignorarla. Cominciò a intravedere un progetto di collaborazione per la realizzazione di un corto di animazione. Si parlarono e si intesero alla perfezione. Nacque Destinoche, secondo le parole di Dalí, sarebbe stato «una magica esposizione della vita nel labirinto del tempo». A rivedere oggi certa pittura dell’artista, gli orologi molli che pendono come guanti, o il dipinto del 1946 La tentazione di Sant’Antonio, che sembra direttamente uscito dalla fantasia disneyana, si ha l’impressione che i mondi onirici dei nostri due protagonisti non aspettassero altro che la scintilla di un progetto comune per potersi fonde- F Surrealismo alla catalana e sogno americano Due visionari a Topolinia ANTONIO GNOLI IL COFANETTO Il cortometraggio d’animazione Destino, tratto dal progetto di Walt Disney e Salvador Dalí e realizzato nel 2003 con la regia di Dominique Monfery, è inserito tra i contenuti extra del cofanetto Blu ray disc che comprende Fantasia, il film prodotto da Walt Disney nel 1940, e Fantasia 2000, il sequel voluto da Roy Disney sessant’anni dopo Insieme a Destino, anche un documentario intitolato Dalí & Disney: un appuntamento con Destino in cui si raccontano le vite dei due grandi personaggi LA FOTO Walt Disney (il primo da sinistra) e Salvador Dalí (il secondo da sinistra) insieme in un parco giochi di Hollywood re e offrire qualcosa di inedito al mondo. Le poche lettere che, tra il 1945 e il 1946, i due si scambiano sono per lo più messaggi di cortesia e di entusiasmo per il lavoro in comune. Nulla ci dicono delle loro nature. Erano simili Walt e Salvador? Una foto li ritrae, insieme ad altri, in un abbozzo di parco di Disneyland. Sono davanti a un treno in miniatura: Dalí avvolto in un elegante paltò dai larghi baveri e Disney con una camicia a scacchi, i jeans e un cappello sulla testa. Sembrano concentrati sul giocattolo. Affascinati dalla perfetta miniatura di una locomotiva a vapore, ne studiano la potenzialità cinematografica: creare illusione e movimento. Non erano queste le doti da entrambi possedute? Disney le applicò alle sue creature di carta, con le quali interpretò l’America nelle sue varie fasi: dal sogno roosveltiano del new deal alla guerra fino all’american way of life degli anni Cinquanta e Sessanta. Non fu esente da critiche, anche pesanti. Alcune biografie, come quella di Marc Eliot, puntarono a distruggerne l’immagine. Si insinuò che avesse avuto simpatie per il fascismo e il nazismo, che fosse stato antisemita. Non gli perdonarono di aver testimoniato, durante il maccartismo, contro i colleghi e averli accusati di attività antiamericana. Era nato roosveltiano finì conservatore. Come Dalí del resto. Che da giovane si era legato a García Lorca e col tempo divenne un esaltatore del suo carnefice: il Generale Franco. Strane e paradossali sono le vite degli artisti. Ma mentre Disney si difese dalle accuse che considerò infamanti, Dalí le sublimò all’altezza di un omaggio alla sua storia dirompente. E qui si vedeva lontano un miglio quanto i loro caratteri fossero diversi. Disney era l’uomo che si era fatto da solo, che aveva lavorato duramente: un indipendente che aveva saputo affrontare e risolvere tutte le avversità. Era il genio che intuiva dove si posava lo spirito industriale del mondo. Salvador Dalí non ebbe in dote la sobrietà dell’altro. Era assolutamente privo di freni inibitori. E mise questa assenza al servizio della propria teatralità. Più che aspettare che qualche biografia lo demolisse pensò lui a stupire il suo pubblico scrivendone una che intitolò: Vita segreta di Salvador Dalí. È innegabile che in quell’opera esternò tutto il proprio esibizionismo. George Orwell la stroncò definendo Dalí «asociale come un insetto». Come dargli torto? Dalí aveva come punto di riferimento umano soltanto Gala, la donna che aveva dipinto, amato, curato negli anni della malattia e accompagnato fino alla tomba. Gala, più grande di qualche anno, era stata la moglie di Paul Eluard e poi l’amante di Max Ernst. Dalí si era invaghito di questa donna russa, il cui vero nome era Elena Dimitrievna Diakonova. Fu la sola costante della sua vita. Il resto del mondo divenne per lui un’immensa cartoonia nella quale inventare figure surreali, dominate dal sogno, dal sesso e dalla paranoia. Si può dire che tra i tanti generi, nella sua arte, incubassero anche il fumetto e la graphic novel. Mancavano in lui la consapevolezza industriale e il lavoro di squadra, doti che Disney possedeva. Vissero entrambi di sogni e di ambizioni. Volevano la popolarità. Chiesero di essere creduti e il successo arrise loro. Non sempre l’arte di Dalí fu apprezzata. E ancora oggi la critica si divide tra chi lo vede come l’ultimo dei surrealisti e chi lo stronca come il primo degli artisti kitsch. In realtà, senza entrare nel merito della sua pittura che fu comunque grande e contraddittoria, egli ha costituito il prototipo dell’artista multiplo e mediatico. Fece del suo corpo, quello che aveva fatto della sua pittura: un’arte dell’apparenza. Disney non si spinse a tanto. Gli mancava l’estremismo. E il senso innato della provocazione. Se la sua vita non fosse arrivata dalla provincia americana, forse avrebbe potuto somigliare maggiormente al pittore catalano. Forse in un’altra vita lo avrebbe perfino ricreato nei suoi meravigliosi cartoon. Immaginando, per i suoi adulti e bambini, un tipo tra Macchia Nera e Gastone: elegante, un po’ cattivo e molto fortunato. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Trasversali DOMENICA 16 GENNAIO 2011 Può camminare e andare sott’acqua. Piace a poveri e ricchi Ogni sua parte può essere cucinata, a lungo ma anche con tempi più brevi. Non ha carni bianche ma neppure rosse Leggendaria e gustosa, riserva sempre una sorpresa Coscia Fegato Salame Polposa, gustosa, robusta, si prepara sia intera (a fine cottura, nel suo grasso si stufano le verze) sia disossata e farcita con verdure, funghi, salsiccia Il foie gras si gusta sia in versione confit (paté e terrine), sia fresco, scaloppato. Quasi tutti i paesi della Ue vietano ormai la pratica dell’ingozzamento Impasto di oca e maiale insaccato nel budello naturale, o carne di petto d’oca in purezza nella pelle del collo, specialità per cristiani, ebrei e musulmani Collo Disossato e farcito con un ripieno di carne e tartufo, innaffiato con poco brandy si cuce alle estremità. Cottura lenta nel suo grasso o in brodo Petto Si cuoce arrosto e brasato, o si affumica, come nel caso del falso parsuto padovano, formato da due petti arrotolati, cuciti insieme e insaccati Uova Pesano anche quattro volte quelle di gallina e sono il segreto delle sfogline romagnole, per rendere la pasta più elastica e le torte più fragranti Ilgioco Oca dell’ Se il maiale avesse le ali LICIA GRANELLO eiun’oca, dicono, e certo non a mo’ di complimento. Dare dell’oca è quasi peggio che dare del pollo... Eppure, l’animale ha molte frecce nel suo arco, a cominciare dal coté gastronomico. L’auca latina — da avica, avis, uccello — è una sorta di forziere alimentare, che tutto o quasi può contenere ed essere cucinato: grassi e proteine, muscoli e fegato, stomaco (durello) e pelle. La polivalenza biofisica — l’oca cammina, corre, va sott’acqua, nuota, vola, con performance da pantatleta — la consegna in cucina diversa da tutte le altre creature commestibili. Non si tratta di carni bianche ma neppure rosse in senso stretto, i grassi sono saturi in quanto animali ma di formazione chimica prevalentemente insatura (e quindi più sani), ci si può stancare a forza di cuocerla ma alcune parti accettano perfino cotture rosate. Piace a poveri e ricchi, in virtù di quella trasversalità gastroculturale che autorizza le classi privilegiate a far proprie le acrobazie alimentari delle classi subalterne. E infine, come per i suini, dell’oca non si butta via nulla, tanto da valerle la definizione di maiale con le ali. Rispetto ad altri uccelli da carne, fatichiamo a considerarla alla stregua degli animali da allevamento intensivo. Sarà per la dimensione affettuosa che il mondo disneyiano ha attribuito alla famiglia — dalla progenie di Zio Paperone alle sorelle Adelina e Guendalina Bla Bla — sarà per tutta l’aneddotica scientifico-popolare accumulata nei millenni, sarà S perché l’oca è troppo ingombrante per le dimensioni dei nostri freezer, troppo pretenziosa per le nostre cotture frettolose, troppo ancorata alla storia contadina. Siamo riusciti a far dimagrire i maiali, banalizzare i polli, dimensionare i pesci in monoporzioni, ridurre le mucche a fabbrica di bistecchine e hamburger. L’oca — vanitosa, permalosa, vendicativa, chiassosa — è difficile da rendere seriale. Così, i francesi per trasformarle in produttrici di foie gras, alterano la struttura del loro fegato (il termine steatosi indica l’incremento patologico del grasso epatico) grazie alla pessima pratica del gavage, l’ingozzamento forzato, che l’Italia e altri tredici Paesi della Ue hanno dichiarato illegale nel 2007. Fortunatamente, come per la corrida in Spagna o la caccia alla volpe in Inghilterra, anche in Francia si sta prendendo coscienza dell’orrore della “pratica comune”, scappatoia legale usata per autorizzare alcuni Paesi a torturare ogni anno trenta milioni di oche e anatre in nome del paté. A fine 2010, infatti, trentamila confezioni di un gustoso succedaneo battezzato “Faux gras”, finto grasso, hanno allietato le tavole natalizie dei francesi, a conferma che quel 45 per cento di contrari al gavage comincia a tradursi in scelte meno scontate, a supporto di pratiche più rispettose del benessere animale. Se poi l’idea di addentare un cosciotto di Ciccio — l’ottuso, tenerissimo nipote di Nonna Papera — vi fa orrore, ripiegate su una bella frittata: con mezza dozzina di uova d’oca, sfamerete l’intero condominio. L’APPUNTAMENTO La distilleria di Percoto sabato 29 ospiterà per il Premio Nonino quasi mille persone, pronte a godersi le cosce d’oca bollite, servite su letto di verze, cren e mostarda di bacche di rosa canina © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 16 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Prosciutto Le cosce più pregiate vengono massaggiate col sale e stagionate come quelle dei maiali. Varianti: al pepe, leggermente affumicato, cotto e tipo speck itinerari Chen Shiqin guida il “La Rei”, ristorante del Boscareto Resort, a Serralunga d’Alba. Squisita la scaloppa di fegato grasso d’oca, mosto, nocciole e mele cotogne Ripiena Preparazione sontuosa che prevede una farcitura a base di amidi (castagne o patate), carni (fegato, salsiccia), spezie e odori dell’orto. Cottura in forno per due ore Savigliano (Cn) Qui Edoardo Bresciano ha recuperato l’antica cascina di famiglia, strutturandola secondo i principi dell’allevamento naturale DOVE DORMIRE IL SEGRETO DI MILIA Strada Cavallotta 116 Tel. 0172-717574 Bottaggio La cassoeula d’oca: sui pezzi di carne, rosolati con cipolla, carote e sedano, bagnati col vino bianco, si appoggiano strati di verze con sale grosso, lasciando stufare Ragù Si lavora sia in bianco, utilizzando poco zucchero per caramellare la carne, sia con il pomodoro Oltre a condire le paste fatte in casa, si usa come farcia per i ravioli DOVE MANGIARE L’ANTICA CORONA REALE Via Fossano 13, Cervere Tel. 0172-474132 Chiuso martedì sera e merc. menù da 50 euro DOVE COMPRARE CASCINA PESCHIERA Strada Santa Scolastica 9 Località Suniglia Tel. 0172-377356 Palmanova (Ud) Ispirati da Luciano Curiel, ultimo macellaio del ghetto di Venezia, i Pessot hanno trasformato la gastronomia a base di carne d’oca DOVE DORMIRE AI DOGI Piazza Grande 11 Tel. 0432-923905 Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa ‘‘ Guido da Cozzo Ebbi in Mortara in ripa del Molino una locanda che si noma “Becco” che lo palato sazia al contadino con grasse oche e schietto vino secco e pur sallama d’oca in mostra trovi che dar di gola fa chiunque prova XIV secolo e l’aquila è rapace l’oca è loquace. E pure pugnace e perspicace. Come le indimenticabili oche del Campidoglio che salvarono Roma dai Galli mentre tentavano nottetempo di scalare le mura dell’urbe. E ci sarebbero riusciti se le indomite pennute non si fossero messe a strillare come ossesse. Così arrivarono i nostri e la città eterna fu salva. Gli antenati di Asterix se ne tornarono oltralpe con le pive nel sacco, giurando però di vendicarsi sulle perfide spione. E poiché la vendetta è un piatto da consumare freddo, inventarono il foie gras. Totem della gastronomia francese, che costringe da secoli i gloriosi palmipedi a farsi un fegato così. Anche se l’ingrasso forzato delle oche, che peraltro non dispiaceva nemmeno ai Quiriti, risale, secondo alcuni, addirittura agli antichi Egizi. Che al bipede piumato attribuivano virtù magiche e profetiche. Facendone il simbolo della preveggenza. Una prerogativa che mette tutti d’accordo. Nelle tradizioni popolari europee erano le oche a preavvertire gli incendi, a starnazzare contro ladri e faine, a trovare i tesori nascosti. E ad accompagnare i trapassati nell’Aldilà. Tanto è vero che si usava mangiarle arrosto il 29 settembre, festa di San Michele, l’arcangelo che soppesa le anime sulla bilancia nel giorno del giudizio. Mentre nei paesi dell’Asia centrale gli sciamani, quando vanno in trance per raggiungere il mondo degli spiriti, imitano il verso dell’oca. E immaginano di volare S CAFFETTERIA TORINESE Piazza Grande 9 Tel. 0432-920732 Chiuso mercoledì menù da 15 euro DOVE COMPRARE JOLANDA DE COLÒ Via Primo Maggio 21 Tel. 0432-920321 Mortara (Pv) Dal Campidoglio al Nobel MARINO NIOLA DOVE MANGIARE sulle sue ali. Proprio come il piccolo Nils Holgersson, nato dalla fantasia della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura nel 1907. Il bambino sorvola la Scandinavia a cavallo di un’oca che gli dà un’autentica lezione a volo d’uccello sull’ingiustizia sociale e sul rispetto per la natura. Una lettura edificante che folgora il piccolo Konrad Lorenz e gli ispira la sua celebre e appassionata dedizione per le ochine. Che dal canto loro lo ricambiano trattandolo come la loro mamma. E facendogli vincere il Nobel per l’etologia nel 1973. In quell’occasione il grande scienziato disse che avrebbe voluto nascere oca. Animale intelligente, a dispetto delle malelingue. Ma anche simbolo di un gusto democratico, alla portata di tutti, tanto da dare il nome a istituzioni sociali come i Goose Clubs ottocenteschi. Associazioni operaie che nel mondo anglosassone gestivano i risparmi della working class per garantire a ogni famiglia un’oca grassa durante le feste comandate. Una previdenza gastronomica, un autentico welfare della gola. Per continuare a sognare un mondo migliore, che non lascia gli ultimi a becco asciutto. Forse per questo le oche sono diventate un simbolo della pedagogia fiabesca. Dai racconti di Mamma Oca di Perrault alle favole dei fratelli Grimm. Fino al disneyano Paperino, irascibile signore di quella mecca dei palmipedi che è Paperopoli. Abitata da un’umanità con piume e becco in cui ciascuno di noi non può fare a meno di riconoscere un altro se stesso. Con la pelle d’oca. Dura da quasi un millennio, l’allevamento delle oche in Lomellina, affinato grazie al lavoro di Gioachino e Davide Palestro DOVE DORMIRE ALBERGO SAN MICHELE Corso Garibaldi 20 Tel. 0384-99106 Camera doppia da 85 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE GUALLINA Via Molino Faenza19 Tel. 0384-91962 Chiuso martedì menù da 40 euro DOVE COMPRARE CORTE DELL’OCA Via Sforza 27 Tel. 0384-98397 © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 GENNAIO 2011 le tendenze Senza tempo Non temono i capricci del mercato e sfuggono sempre all’ultimo trend Molto più che accessori, sono borse, occhiali, scarpe, abiti, che tutti vorrebbero TOD’S È il mocassino per eccellenza Leggero, flessibile, coloratissimo Ideale in città, comodo da portare in vacanza. Griffato da Tod’s è diventato un simbolo della maison (dovrebbero?) avere nel proprio armadio Ecco, per ogni griffe, quali sono i capi cult che non tramontano mai Quando il dovere è un piacere TIFFANY Classico anello di fidanzamento il Tiffany Setting è tanto tradizionale quanto gradito da chi considera il “solitario” una dichiarazione d’amore IRENE MARIA SCALISE francesili definiscono indémodable. Oggetti oltre le mode, senza tempo e senza età. Non temono i capricci dei gusti e neppure quelli del portafoglio. Tengono saldo il timone contro qualsiasi crisi e, dagli armadi delle donne, spesso sono catapultati direttamente nei musei. In italiano si potrebbero definire, semplicemente, icone. Molto più che accessori, sono amati, regalati, comprati e desiderati. Sino allo sfinimento. Chi vive un’esistenza glamour li riconosce senza esitazione e, il più delle volte, gode solo nel possederli. Per una questione di status ma anche per il piacere degli occhi. Talvolta hanno lo stesso nome dei personaggi famosi che, nel corso degli anni, hanno contribuito a trasformarli in mito. C’è la bor- I Icone RAY-BAN Gli occhiali Ray-Ban a goccia modello Aviator hanno segnato un’epoca ma sono ancora attualissimi. Tornano in mille sfumature di lenti differenti sa Kelly come la principessa di Monaco che, in una copertina di Life Magazine, la usò per nascondere una gravidanza ancora segreta ai fotografi. O ancora la Birkin, come la celebre attrice che in aereo al fianco del direttore generale di Hermès manifestò l’esigenza di una borsa più grande per mettere i biberon dei suoi figli e se la vide recapitare a casa. O la Lady Dior, richiesta addirittura da Jacques Chirac alla maison parigina, in occasione di una visita ufficiale di Lady Diana a Parigi. O infine la Jackie di Gucci, amatissima da Jacqueline Kennedy. Tra i superclassici ci sono borse ma anche impermeabili, cappotti, scarpe, gioielli, orologi e occhiali da sole. C’è il trench di Burberry, l’orologio Rolex o Bulgari, il gioiello di Tiffany, la pochette Chanel, l’abito di Prada o Valentino e i mocassini Tod’s. Tutti capi lontani, anzi lontanissimi, dagli ultracafonal della moda televisiva e dei reality. E spesso le aziende, allettate dal successo ottenuto nel passato, ritengono più che saggio recuperare i vecchi classici e riproporli sul mercato. Magari in edizioni limitata. È il caso della Kelly riprodotta in paglia per il modello picnic o rimpiccolita all’inverosimile nella versione pochette. O dei mitici Ray-Ban, occhiali on the road che a partire dal 1937 hanno trasformato la casa madre in una tra le aziende più famose. Dalla primavera del 2011, sui nostri nasi, torneranno alcuni tra i Ray-Ban più classici, per esempio quello piccolo arrotondato reso celebre da John Lennon o le sfiziose edizioni a forma di gatta. E il pubblico degli appassionati, squattrinato, ricco o ricchissimo, ricomincia a sognare. PRADA Autentica icona è la borsa in spazzolato nero con chiusura a cerniera, caratterizzata dal logo Prada con nodo Savoia stampato a caldo DOLCE & GABBANA La borsa Miss Sicily è una delle più ambite tra le collezioni firmate Dolce & Gabbana. Elegante e chic è perfetta per la sera ma si può indossare anche di giorno © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 16 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 In molti casi sono associati al nome dei personaggi che li hanno resi immortali: da Coco Chanel, a John Lennon, da Jackie Kennedy a Lady Diana HERMÈS Perché non è l’oggetto ma chi lo indossa a far sì che entri nella storia del costume La Kelly di Hermès lanciata nel 1956 da Grace Kelly mentre cercava di nascondere la gravidanza celando il pancione. La foto finì in copertina di Life ed è entrata nella storia CHANEL La scarpa bicolore di Chanel è stata calzata dalle dive di ogni tempo A proporla per prima Mademoiselle Coco che, nel 1957, la ideò ispirandosi alle scarpe da uomo Francesca Di Carrobio di Hermès “Quel clic a Grace Kelly così nasce un mito” apire in anticipo se un prodotto si trasformerà in icona è praticamente impossibile». Parola di Francesca Di Carrobio, amministratore delegato di Hermès. Le aziende predispongono tutto e poi sono i gusti dei clienti, e il tempo, a decidere le sorti di una borsa o di una cintura. Con una sola certezza: una volta conquistato il cuore del pubblico, le icone non tramontano mai. La borsa Kelly, come la Birkin, hanno avuto una grande fortuna grazie a testimonial di lusso. Quanto pesa un testimonial sul successo di un prodotto? «Hermès ha dei clienti internazionali, noti in tutto il mondo, ma non sono mai “usati” da noi come testimonial. Anzi, teniamo segreti i nostri habitué. Però capita che vengano casualmente fotografati, come accadde negli anni Sessanta a Grace Kelly, e allora diventano un simbolo. Di solito i vip ci ordinano prodotti speciali. Se hanno successo, chiediamo agli interessati di poterli mettere in produzione per tutti». Quanto riuscite a rendervi conto che un prodotto che state realizzando oggi sarà destinato a diventare indémodable domani? «Dico la verità? Lavoro da vent’anni per Hermès e non ci azzecchiamo mai. Forse è il tempo che decide di trasformare una borsa in uno status symbol. Quel prodotto che magari oggi non funziona, come avevamo previsto, dopo dieci anni diventa cult». Che target di pubblico è quello di Hermès? «Non ha un vero target perché non ha mai creato una sottomarca. Un prodotto Hermès è sempre Hermès: che sia il profumo da novanta euro o la borsa da 150mila. Tra i nostri clienti ci sono molti giovani e non solo figli di clienti. Certo se una borsa come la Kelly costa cinquemila euro determina una selezione». Nei momenti di crisi questi oggetti resistono? «In modo insperato. È come se il mercato li avesse riscoperti. In quest’ultimo anno, così cupo, sembra che un faro di luce illumini Hermès». Perché secondo lei? «Forse perché i nostri prodotti rispondono a un generale senso di preoccupazione, per noi stessi e per il futuro, che spinge a spendere bene quando si decide di farlo». Qual è il segreto dello stile Hermès? «Alternare le varie direzioni artistiche senza stravolgere il marchio. Noi prima abbiamo avuto Martin Margiela, poi Jean Paul Gaultier e ora arriva Christophe Lemaire, ma nessuno ha reso i prodotti irriconoscibili». Quali sono i nuovi mercati più interessati ai prodotti icona della maison? «Il cinquanta per cento del nostro fatturato è realizzato in Europa. Ma sicuramente i russi e i cinesi, che sono molto giocosi e avidi di tutti i tipi di prodotto, sono i nuovi fan di Hermès. Tanto che in Cina eravamo partiti in modo soft e ora abbiamo più di trenta boutique». (i. m. s.) «C BURBERRY Indossato da testimonial di lusso come Kate Moss e Carla Bruni, il trench Burberry non sembra passare mai di moda e, in caso di meteo variabile, è un’ottima risorsa © RIPRODUZIONE RISERVATA GUCCI La bamboo bag, rivisitata da Gucci per la collezione estiva 2011, è destinata a spopolare Comoda e elegante è l’ideale per ogni occasione importante MONTBLANC La penna stilografica che tutti vorrebbero avere. Di Montblanc, ideale per uomo e per donna Un accessorio di eleganza da tenere sempre nella borsa o nel taschino Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 GENNAIO 2011 l’incontro Da ragazzina avrebbe voluto fare l’acrobata, poi è arrivata al cinema passando per la facoltà di medicina e il teatro “fisico” di Emma Dante Il corpo sempre al centro: “Da piccola volevo stare nuda, da adolescente ero molto pudica, oggi lo uso in sottrazione”. Come nel film “La solitudine dei numeri primi”, dove è arrivata a pesare quaranta chili: “Esperienza pericolosa e affascinante, assai vicina all’anoressia...” Giovani attrici Alba Rohrwacher «H stenza del corpo, della messa alla prova e della messa in scena del corpo, Alba Rohrwacher, meno volentieri di amore, o religione: «Equilibri sottili che tendo a proteggere. Gli incontri si fondano nella maggior parte dei casi su un’unicità che è sacra. Per esempio, l’amore: io non ho paura a dire che non ho anticorpi». E non sai se allude a una fragilità fisiologica o a una prudenza da soggetto ingestibile. «Sono antica...» ammette sovrappensiero. «Cerco caratteri forti» confessa con quella sua tenerezza calvinista. «Sono disorganizzata, spesso faccio fatica a controllare le cose pratiche che riguardano la mia vita, la mia casa (che pure è il mio rifugio)» riflette sorridendo sulla quotidianità. «Ho uno strano rapporto con la scrittura. Un tempo ho scritto della mia vita personale. Molto. Adesso lo faccio ancora, ma con più fatica» spiega quando indago sulla sua grafomania. «Mi è capitato che mi sentissi tradita nel rileggere miei pensieri trascritti da qualcun altro, ma poi ho ca- Osservo molto gli altri. D’estate aiuto i miei nei mercati di campagna, e mi soffermo su tutte le fisionomie che mi passano davanti FOTO CORBIS o dei bei piedi». Alba Rohrwacher, tacchi zero, lineamenti acerbi alla Balthus, una che fisicamente ti fa pensare d’aver avuto un’infanzia col viso della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, che oggi ha una somiglianza allampanata con Monica Vitti giovane, e che forse avrà un futuro col volto acuto di porcellana d’una Tilda Swinton. Un tipo non comune, targata Firenze 27 febbraio 1979. Una che ha passato la sua adolescenza in Umbria vicino a Orvieto, in campagna, dove il padre ex violinista aveva messo in piedi un’attività d’apicultore, «e dove a forza di imbattermi ogni estate in un circo francese ambulante mi viene voglia di fare l’acrobata». Una che a diciassette anni è tornata a Firenze a studiare, a fare l’università, «Medicina», frequentando anche una scuola teatrale «dove debutto impersonando Sigismondo ne La vita è sogno di Caldéron de la Barca», per poi decidersi di venire a Roma, a giocare una carta al Centro sperimentale di cinematografia: «Mi ammettono, e apprendo cose essenziali come la disciplina, il mettere forza nei ruoli». Oggi Alba è un’attrice con alle spalle una carriera di “figlia”, come testimoniano Mio fratello è figlio unico di Luchetti, Giorni e nuvole di Soldini, Due partite di Monteleone, Il papà di Giovanna di Avati, Io sono l’amore di Guadagnino, con all’attivo un imprinting mancino di protagonista in L’uomo che verràdi Diritti, Cosa voglio di piùancora di Soldini, La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, e con un imminente volto di donna-soldato al servizio del “capitano” Silvio Orlando in Missione di pacedi Francesco Lagi quasi tutto montato e presto in circolazione. Parlare d’arte con lei è fatalmente parlare di educazione fisica, più che di teorie e tendenze. «È che ho camminato scalza a lungo. Da uno a quattro anni non mi volevo vestire. Poi dai dieci ai diciassette sono diventata estremamente pudica. Il corpo lo uso in sottrazione. Figuriamoci quando per La solitudine dei numeri primi Saverio Costanzo m’ha chiesto di modificarlo, e ridurlo, dimagrendo d’una decina di chili, arrivando a pesarne quaranta. Mentre non mangiavo e seguivo le istruzioni del dietologo, ho avvertito un senso pericoloso e affascinante di invulnerabilità, quel qualcosa che porta all’anoressia». Il radicale cambiamento anatomico ha messo in moto, in una donna-scricciolo come lei, anche una metamorfosi di dentro. «Partendo da questo lavoro fisico estremo, ho capito meglio l’interiorità del personaggio, l’Alice raccontata da Paolo Giordano nel romanzo, e alla fine dell’avventura ricordo che una cara amica m’ha fatto notare che mi era cambiato lo sguardo». Lo sguardo di Alba trae in inganno, facendo sempre chiamare in causa la timidezza. «Non è che non conosca l’opposto, l’irriverenza, la rabbia. Certo, sono molto riservata e questo atteggiamento viene frainteso: il fatto è che quando provo un senso di inadeguatezza, di disagio, faccio un passo indietro e osservo». Non perde mai il controllo? «Sì, anche spesso, e mi accade con le persone a cui voglio molto bene. Qualche giorno fa, tornata in Umbria nella casa dove vive ancora la mia famiglia, un amico ha detto che per me un’importante scuola di recitazione e di emozione è stata la libertà con cui io mi sono espressa davanti ai miei, arrivando a dire le cose senza reprimermi». Ma anche nei retroscena della vita professionale di Alba non sono mancati gli appuntamenti con lo stress emotivo, con le sensazioni forti: chi non pagherebbe, per avere una registrazione filmata del suo training con Emma Dante? «Ho una memoria molto intensa del lavoro fatto con Emma prima del suo Cani di bancata, un lavoro attoriale che ha cambiato il mio modo di sentire questo mestiere. Il suo insegnamento è un bagaglio, una ricchezza a cui m’è capitato di tornare anche in lavori fatti al cinema. L’immaginario che lei costruiva con noi attori, passando da Dostoevskij a Sciascia, non me lo scorderò mai». Parla della naturalezza e del pudore del corpo, dell’armonia e della consi- pito una cosa molto semplice, forse banale: che la persona che rimane sulla carta scritta non sono né io né chi mi ha intervistato, ma una terza identità che nasce da un confronto, da cui a volte imparo a capire delle cose di me che possono anche non piacermi, che faccio finta di non vedere, e che invece esistono» riassume in tema di rapporto delicatissimo con la comunicazione. «A volte mi rendo conto che per essere troppo riservata finisco per diventare vaga, sfuggente, e questa è una cosa che io combatto nelle persone di cui mi circondo, e riscontrarla in me non mi piace, anche se mettersi a nudo è difficile...» continua a ragionare, e quasi fa sovvenire un ragionamento di Pirandello, convinto che ogni parola avesse per ognuno un significato diverso, malintendibile. Chissà di chi si circonda una persona sottile, cauta, ragionatrice e rigorosa come Alba. «Le amicizie? Ho letto una cosa, in una raccolta di pensieri di Natalia Ginzburg, di lei che rievoca se stessa al liceo a contatto con Soldati, un Soldati che incollerito s’alzava dicendo con voce ferma “gli amici non si scelgono”. La Ginzburg elabora quell’espressione e risolve che gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza non si scelgono affatto, e quelli dell’età adulta in qualche modo sì, e lei conclude sostenendo che giocano sempre tre elementi: in parte scegliamo noi stessi, in parte veniamo scelti, in parte è il caso a scegliere per noi. Io sono d’accordo, anche se m’oriento soprattutto con l’istinto, e sulle prime magari do difficilmente accoglienza alle persone fino in fondo, poi arriva un momento in cui ci si riconosce, e allora il legame diventa spesso, solido, e ho l’ingenua convinzione che sarà per sempre. Una volta m’è capitato di essere scelta, e quella che è voluta diventare mia amica ora è tra le più care che io abbia». Si direbbe che spesso la curiosità di Alba Rohrwacher scatti prima per sollecitazioni umane e poi per scoperte intellettuali. «Osservo molto gli altri, già al livello semplice degli incontri più casuali. D’estate do una mano ai miei collaborando alle vendite nei mercati di campagna dove si pratica ancora il baratto, e mi soffermo su tutte le fisionomie che passano davanti. Mi attraggono i diversi modi di vivere della gente che abita lontano da noi, le tecniche del mestiere artistico così come le concepiscono gli altri, altrove...». Con una silhouette pazzoide e cameratesca prese parte nel 2005 al branco dei personaggi di Noccioline di Paravidino messo in scena da Valerio Binasco. Adesso pensa e penserà solo al cinema? «Non è detto. È questione di progetti. Avrei voglia di fare in teatro un testo contemporaneo ma indifferentemente anche un Cechov. Dipende dall’idea, ma anche e soprattutto dalle persone con cui la condividi. Mi interessa lavorare con la fantasia, e questo è successo nel film di Saverio Costanzo, un’esperienza dove c’era da mettere corpo e anima, raccontando un dolore dell’infanzia con spirito creativo e, alla fine, con gioia. Ma mi rendo pure conto che far leva sulla fantasia non è sempre possibile, e anzi in certi casi non è nemmeno giusto». Alba ama i silenzi, le corrispondenze, la semplicità, Erik Satie e il pianoforte, la memoria, il rumore della pioggia, gli occhi lucidi, la lealtà, Elsa Morante, l’ironia, Radio3, gli autobus vuoti. Alba rifiuta le dittature, l’avidità, i film horror, le valige da fare, le sigarette, i fast food, le bugie, lo smalto, lavare i piatti, il lavoro minorile. Se le domandi quanto si sente partecipe di questa società, diventa serissima: «In un’epoca così confusa in cui la politica procede completamente sganciata dalla realtà, un segnale positivo che appoggio sono le proteste degli studenti e del mondo culturale. Per fortuna l’arte non smette mai di cercare, di farsi domande, di mostrarsi libera, e ho tanto amato, per intenderci, il film di Martone Come eravamo». Se provi a chiederle dove nasce la felicità, risponde: «Da cose assurde. Dallo svegliarmi da un sogno bello. Dalla sensazione provata quando tra primavera e estate un vento caldo è entrato in cucina». E l’infelicità? «Per chi è ballerina tra gli stati d’animo, il passo falso è la malinconia, e il passo con accidentale caduta è la rabbia». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ RODOLFO DI GIAMMARCO Repubblica Nazionale