EVIDENZE ED IDEOLOGIE FUNERARIE TRA I SANNITI
Gianluca Zarro
1.– Evidenze funerarie nel Sannio protostorico; 2 – Il Sannio caudino nell’VIII secolo;
3. – Le tombe sannite di tipo gentilizio; 4. –Le ideologie funerarie delle stirpi sannitiche. 5.– Le
Iúvilas capuane; 6.– Considerazioni conclusive
SOMMARIO.
1.– Evidenze funerarie nel Sannio protostorico
Questo contributo è rivolto ad uno studio degli usi, delle consuetudini funerarie, sia dal
punto di vista dello stile e delle modalità di allestimento delle tombe nell’Italia preromana ed in
particolare sannitica, sia dal punto di vista dell’emersione delle onoranze riservate ai morti, nel
tentativo di dare evidenza ad elementi precipui del diritto sepolcrale osco e sannitico, inteso, in
questa prospettiva, come diritto della famiglia, comunità convivente di vivi e morti1.
Mette conto, in via preliminare precisare che per sepolcro si è inteso, secondo un approccio
storico–giuridico consolidato, il luogo destinato alla sepoltura, viceversa lo ius sepulchri, designa il
diritto di seppellire e di essere seppelliti, cui vanno aggiunti il diritto di vigilare e di visitare il
sepolcro, di celebrare cerimonie rituali (le parentalia, feralia, rosaria, del diritto romano); in questo
senso, lo ius sepulchri era, per i Romani, incommerciabile, così come il sepulchrum. Il canone
principale che determina la realizzazione di un monumento funerario, dal più semplice, fino a quelli
di proporzioni monumentali, è quello di segnalare il luogo della sepoltura, a questa necessità di base
si aggiungono secondo le epoche, i luoghi ed il ceto sociale ulteriori esigenze, prima tra tutte quella
di rimanere nella memoria dei posteri e di comunicare attraverso il monumento sepolcrale il proprio
status sociale.
Si è scelto di concentrare l’attenzione sulle popolazioni del Sannio cd. storico, senza tuttavia
trascurare i dati provenienti dalle età protostorica, per valorizzare la ricchissima evidenza funeraria
emersa in quest’ultimo trentennio nell’area del Sannio Caudino ed Irpino, in particolare nelle
località di Caudium (l’odierna Montesarchio), Saticula (Sant’Agata dei Goti), Telesia (S. Salvatore
Telesino) e Maleventum2. Occorre precisare, infatti, che le fonti a nostra disposizione saranno
soprattutto archeologiche – le evidenze funerarie più risalenti risalgono, infatti, all’area irpina e
caudina – senza, tuttavia, trascurare anche quelle letterarie, epigrafiche e numismatiche.
Su questo file rouge si è concentrata l’attenzione diretta a chiarire in che termini le necropoli
sannite ed, in generale, dell’Italia Meridionale preromana, rinvenute nell’ultimo trentennio,
abbiano potuto contribuire a disvelare i rapporti intrafamiliari delle civiltà italiche, e, soprattutto, il
rapporto vivi-morti, inteso come rivolto alla protezione dei vivi ad opera dei morti ed alla speranza
1
E. Jobbé–Duval, Les morts malfaisants: Larvae, Lemures, d’aprés le droit et les croyances populaires des Romains,
Paris 1924, 9 ss.; F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane, Napoli 1958, 69 ss.; P. De Francisci, ‘Primordia
civitatis’, Roma 1959, 146; F. De Visscher, Le Droit des Tombeaux Romains, Milano 1963, 43 ss.; G. Gnoli e J.P.
Vernant (curr.), La mort, les morts dans les societies anciennes, Cambrige 1977, passim.; J.M.C. Toynbee, Death and
Burial in the Roman World, London 1971, trad. it. Roma 1993; G. Franciosi, Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche
genti, in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana , Napoli 1984, ora in ‘Opuscoli’ 2. Scritti G. Franciosi, cur L.
Monaco e A. Franciosi (Napoli 2012) 403–449; A. Palma, sv. Sepolcro, Sepoltura, in Enc.Dir. 42, 1990; R. Turcan,
Messages d'autretombe. L'iconographie des sarcophages romains, Paris 1999.
2
Le sepolture della Maleventum preromana – siamo in un periodo storico che risale alla fine dell’VIII-VII secolo a.C. –
sono testimoniate oltre che da reperti ceramici rinvenuti in diversi punti della città attuale, anche da reperti messi in luce
nel giardino dell’odierno Palazzo de Simone, dell’ex collegio la Salle, all’interno delle mura longobarde e presso la
Rocca dei Rettori. Tali sepolture sono a fossa, con ciottoli, ed hanno restituito vasellame d’impasto che per tipologia e
decorazione rimanda al repertorio della cultura delle tipologie della tomba a fossa dell’Italia settentrionale, rivelando
molti elementi di similitudine anche con Capua, con i centri indigeni della mesogeia campania e con l’area caudina.
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di conservazione del progenitore, da parte dei generati; nonché, anche, a chiarire la funzione della
religione come legame tra le generazioni.
Secondo la tradizione, i Sanniti erano divisi in tribù (i Carricini, i Pentri, i Caudini, gli
Irpini3, i Frentani4) unite sul piano politico e militare in una lega confederale. Originari della
Sabina, i Sanniti occupavano tra il V e IV secolo a.C. un territorio molto vasto corrispondente alle
attuali regioni dell’Abruzzo, del Molise ed a parte della Campania5[cfr. Fig. 1].
Si ritiene che dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., data da cui possiamo far partire la
nostra indagine, sia consentito delineare una fisionomia culturale delle popolazioni stanziate nei
territori suddetti, per cui esse si trovavano in una fase pre–urbana, composta da più nuclei di
villaggi, in cui la comunità tribale costituiva la base del sistema politico6. Essi vivevano quali
popolazioni di pastori, in una fase assai più arretrata rispetto alle comunità stanziate nelle zone del
Lazio7– raggiunte a quel tempo dall’influenza etrusca – ma in cui, si rivelano affinità dal punto di
vista del rituale funerario, affinità che rientrano nell’ambito della cultura delle tombe a fossa,
caratterizzate dall’uso dell’inumazione8 del defunto in posizione supina, all’interno di una fossa
terragna. Il rito è uniforme; si tratta di inumati deposti in fosse semplici, talora rivestite di lastre di
pietra o riempite di ciottoli.
Tale circostanza ha fatto pensare ad una sorta di «comunismo primitivo», per cui si può
ipotizzare che i popoli ivi stanziati, disconoscessero l’istituto della proprietà e praticassero una sorta
di comunione indifferenziata, giacché i territori venivano sfruttati promiscuamente senza che
sorgessero problemi di alienazione a terzi o di difesa individuale. L’immagine che ne risulta è
quella di una comunità non particolarmente ricca o che comunque vuole così rappresentarsi nel
momento della morte, cioè una comunità che vive ancora per la sola sussistenza e che nel corredo
funebre depone gli oggetti essenziali. Soprattutto, ai nostri fini, quello che sembra sorprendere è
dato dal fatto che il sobrio servizio ceramico è identico sia per gli uomini che per le donne e rivela
la possibile, sostanziale equivalenza del valore sociale degli uni e delle altre all’interno del gruppo9.
3
In passato si è dubitato della appartenenza degli Irpini alla comunità Sannita, tuttavia, tale dubbio deve intendersi oggi
sciolto, in particolare per il comportamento tenuto da questa popolazione nel corso delle guerre sannitiche.
Gli studi più recenti hanno posto in evidenza che i Pentri abitavano nel cuore del Sannio, cioè nella regione del
Massiccio del Matese, mentre per i Carricini, pur non essendovi notizie sicure, si ipotizza che abitassero la zona più
settentrionale del Sannio. I Caudini, invece, vivevano al margine della pianura campana e avevano come principali
centri tre località sui monti Trebulani o nelle adiacenze del Volturno: Caiatia, Trebatia, Cubulteria.
Gli Irpini occupavano la parte più meridionale del Sannio, nella fascia di terra comprendente le vallate dell’Ofanto, del
Calore e del Sabato.
4
Dà per acquisito questo dato G. Tagliamonte, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carracini, Frentani, Milano 1997. Il
Franciosi nel suo scritto sulle strutture sociali dei sanniti, che pure costituisce un passaggio obbligato per chi voglia
addentrarsi nelle consuetudine sociali e giuridiche dei sanniti ometteva, tra le tribù sannitiche cui riferirsi, i Frentani:
«Le tribù, come abbiamo visto erano quattro: Carricini, Pentri, Caudini, Irpini.Non sappiamo se nel corso del tempo vi
siano state altre tribù, oltre quelle menzionate dalle poche fonti in nostro possesso. Sappiamo però che tutte le tribù del
Sannio parteciparono alle guerre contro Roma». G. Franciosi, Osservazioni sulle strutture sociali dei Sanniti, in Atti del
Convegno di studi SAFINIM (Città di Castello, 1994) 58, ora in L. Monaco e A. Franciosi (curr.) Opuscoli. Scritti di
Gennaro Franciosi, Napoli 2012, 633-665.
5
Come è noto, la progressiva espansione dei romani nell’Italia centro-meridionale portò ad un conflitto lungo e
cruento, che diede luogo, tra il IV ed il III secolo a.C., alle cosiddette guerre sannitiche, a conclusione delle quali i
sanniti furono sconfitti e gradualmente integrati nell’ambito del dominio romano.
6
Infatti, già per i Sabini risulta attestato che vivevano in villaggi non fortificati da mura e da perimetri urbani ed
ignoravano l’istituto della regalità, come dimostra il rilievo che non esiste in osco un termine che indichi il rex. Essi non
conobbero la scrittura fino al V secolo (l’alfabeto stesso sembra mutuato dagli Etruschi solo in epoca posteriore).
7
Diffusa è, ad esempio, l’opinione che nel Lazio antico sia possibile individuare due distinte facies culturali: una
etrusco meridionale, falisco–albana, prevalentemente incinerante, l’altra osco–sabina, prevalentemente inumante.
8
Quanto al problema della maggiore arcaicità dell’inumazione ovvero dell’incinerazione, la cremazione, secondo dati
induttivi, deve essere nata più tardi: essa presuppone la scoperta del fuoco e sembra, talvolta, sorgere in funzione
dell’inumazione, soprattutto in prossimità o all’interno di accampamenti. Cfr. A. Audin, Inhumation et incinération, in
Latomus 19 (1960) 313.
9
A testimoniare il diverso ruolo svolto, pur nella sostanziale equivalenza, la fusaiola caratterizza le donne, l’arma o il
rasoio identificano l’uomo, ma si tratta di una normale e tutto sommato minimale connotazione del sesso senza che ad
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Dagli elementi noti sembrerebbe, inoltre, che il cerimoniale prevedesse in vari casi anche la
pratica di offerte al momento della deposizione, data la presenza nella terra di vasi usati per la
libagione e, poi, ritualmente rotti (cd. defunzionalizzazione).
2 – Il Sannio caudino nell’VIII secolo
Successivamente, nella seconda parte dell’VIII secolo, la situazione muta sensibilmente,
anzi gli studiosi, storici ed archeologi, hanno posto in evidenza la prevalenza di tombe di guerriero,
come risulta testimoniato dalla presenza nel corredo funebre delle sepolture maschili di armi (punte
di lancia e giavellotto), in quelle femminili, di oggetti di ornamento personale: bracciali, armille,
anelli, pendagli, ecc, che attestano una valorizzazione del ruolo della donna, che deve presumersi
connessa ai processi di riproduzione sociale della comunità.
In tale processo di riproduzione risulta, dunque, essenziale la valorizzazione dell’elemento
capace di assicurare la riproduzione biologica, funzionale ad un tipo di società tradizionale, al cui
vertice pare insediarsi una ristretta èlite aristocratica.
Emerge comunque, dal sistema di rappresentazione collettiva tramandatoci dai reperti in
nostro possesso, una realtà socio economica sufficientemente complessa e stratificata, che
presuppone forme di divisione sociale e tecnica del lavoro, di diversificazione individuale e
collettiva di status e rango, di aggregazione e di relazione non più basata eslcusivamente sul legame
di parentela.
Tuttavia, sarebbe ipotesi non interamente convincente quella volta ad ipotizzare una sorta di
democrazia militare, giacché le tombe di guerriero sono pur sempre quelle di una ristretta èlite; in
questo quadro, che, si ripete, evidenzia una sostanziale omogeneizzazione territoriale, una qualche
possibilità di differenziazione è da rinvenirsi nel Sannio caudino (cioè le odierne Montesarchio e
Sant’Agata dei Goti) che risulta più esposto all’influenza dell’area campana tirrenica, in cui il
processo di strutturazione socio economica appare più avanzato che altrove.
Secondo l’opinione prevalente10, la cerimonia funebre doveva articolarsi in tre momenti:
dapprima, scavata la fossa e approntatone il fondo, si deponeva il corpo, con le vesti e gli ornamenti
personali, disponendovi intorno, in qualche caso, delle pietre di delimitazione; in un secondo
momento si compiva, quindi, una cerimonia – che doveva consistere in libagioni o aspersione del
cadavere – durante o al termine della quale i vasi, che per essa si erano adoperati, venivano rotti e
sparsi intorno al corpo; infine, si collocava il corredo, con i tufi dai bordi, procedendo quindi al
riempimento della fossa.
Rispetto alle necropoli dell’area tirrenica si assiste alla persistenza, quasi senza eccezioni,
della prassi dell’inumazione in posizione supina – anche aperta a connessioni con il mondo medio
adriatico e piceno – come attestato dall’impiego della tomba a fossa, laddove nell’area tirrenica, si
nota la prevalenza del rituale della incinerazione, per le tombe maschili di guerriero, singolarmente
bilanciata dalla prevalenza, invece, nelle tombe femminili del rituale dell’inumazione11.
Di tale dato, che documenta una sensibile evoluzione rispetto a quanto da noi notato per la
prima parte dell’VIII secolo, è stata proposta un’interpretazione di tipo etnico, nel senso che
l’elemento incineratore è stato ritenuto allogeno, sopraggiunto in seguito ad una migrazione,
laddove l’elemento inumatore era di origine locale, proprio della comunità osco-sabina.
essa si accompagni una particolare manifestazione di diversità. G. Devoto, Gli antichi italici, Firenze 1951, 213; . G.
Pugliese Carratelli (cur.), ‘Italia. Omnium terrarum parens’. La civiltà degli Enotri, Choni. Ausoni, Sanniti, Lucani,
Bretti, Sicani, Siculi, Elimi, Milano 1991, passim; Studi sull’Italia dei Sanniti, a cura della Soprindenza Archeologica di
Roma, Roma 2000, 36 ss; G. T Tagliamonte, Il sannita, in Studi sull’Italia dei Sanniti cit. 208.
10
G. Gnoli e J.P. Vernant (curr.), La mort cit. 19, passim; Audin, Inhumation et incinération cit. 316, 518; G. Franciosi,
Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche genti cit.71 ss.
11
È stato ipotizzato che la consuetudine dell’inumazione femminile può forse caricarsi, a posteriori, dell’ulteriore
significato rituale di un ritorno nel grembo della terra madre da parte delle generatrici di vita, il cui corpo non va
distrutto.
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Ciò che è stato posto in evidenza dagli studiosi, etnologi ed antropologi, è che la funzione
guerriera non è un fenomeno iniziale nel corso della prima parte dell’VIII secolo, ma corrisponde ad
un momento successivo del divenire storico12.
3 – Le tombe sannite di tipo gentilizio
In un momento ancora posteriore (dall’ultimo quarto dell’VIII, a tutto il VII secolo) si apre
la fase del contatto delle popolazioni stanziate nei territori predetti con il mondo greco, che apportò
una profonda trasformazione: le tombe di questo periodo sono connotate da un ricco corredo
tombale che tende ad esprimere profonde differenze di ricchezza (in particolare attraverso olle,
ovvero l’askos a quattro colli posto ai piedi del defunto); di conseguenza, la funzione guerriera
perde ogni interesse nell’ideologia funeraria. Queste modificazioni apparentemente così improvvise
si producono sulla spinta di sollecitazione esterne provenienti dall’arrivo, sulle coste campane dei
primi coloni greci.
Si può avanzare la considerazione che con il passaggio dalla prima parte dell’VIII secolo,
all’orientalizzante si dà luogo ad un sostanziale e quasi improvviso cambiamento nell’articolazione
della compagine sociale, che, se in passato era fondata sulla coppia adulto–non adulto e uomo–
donna–bambino, risulta successivamente fondata su criteri quantitativi13.
A questo fenomeno si accompagna, come detto, il riconoscimento del ruolo femminile, con
l’immissione della donna nel rituale del sacrificio, probabilmente attraverso una sua partecipazione
anche ai banchetti funebri; non solo, lo stesso costume femminile si segnala per ornamenti più
variati, più ricchi e vistosi.
Da segnalare è, poi, la continuità del rito funebre: tra l’VIII e tutto il VII secolo non si
conosce altro rito che l’inumazione, per lo più in fossa colata con pietre.
Il dato va valorizzato in tutta la sua importanza storica: abbiamo, infatti, visto che il corredo
funebre subisce l’influenza delle più progredite comunità dell’area tirrenica, sia negli elementi
decorativi, sia nelle modalità di allestimento delle sepolture; a fronte di ciò, la prassi resta quella
dell’inumazione, come detto, quasi senza eccezioni14.
Infine, tra lo scorcio del V secolo e tutto il IV secolo a.C., le necropoli scoperte – al di sotto
del teatro comunale di Benevento e nello slargo anteriore al complesso di Santa Sofia –
evidenziano che la tipologia delle tombe è a cassa di tufo, talora di dimensioni monumentali.
Può essere messa in evidenza la circostanza che le necropoli oggetto di studio riuniscono
complessi tombali di notevole impegno, almeno rispetto alle età precedenti; esse testimoniano la
12
L’adozione in età successiva, anche nelle tombe femminili del rituale della incinerazione, invece, rappresenterebbe la
progressiva integrazione dell’elemento locale nel costume allogeno.
Naturalmente esiste anche un’interpretazione ulteriore che tende a valorizzare l’aspetto sociale: secondo questa,
l’accesso al rituale dell’incinerazione potrebbe indicare una graduale, ulteriore, valorizzazione del ruolo della donna.
13
A titolo di esempio si può citare l’area archeologica che oggi costituisce l’alta valle del Volturno; ivi le evidenze
funerarie offrono l’immagine di una società controllata da alcune famiglie eminenti. Infatti, le sepolture appartenenti ai
membri di tali gruppi sono caratterizzate dalla presenza di una grande olla da derrate, spesso collocata in modo da
affiorare tra le pietre di copertura della tomba, circostanza che suggerisce una sua utilizzazione nel corso dei riti funebri,
ai quali fanno parimenti riferimento la brocca ed il vaso potorio contenuti all’interno. L’olla, contenitore di cereali e/o
di altri prodotti agricoli, allude all’origine della ricchezza di questi gruppi, certamente fondata sulla proprietà terriera.
Un altro elemento che distingue tali sepolture è la quantità cospicua di vasellame bucchero, che risulta accatastato ai
piedi del defunto, segno della sua ricchezza.
14
La pratica dell’inumazione risulta fortemente diffusa nel mondo romano. Cicerone e Plinio concordano nell’affermare
che il rito funerario più antico presso i Romani era quello dell’inumazione (Cic. Leg 2.22, 26; Plin., Nat. his. 7, 187:
ipsum cremare, apud Romanos non fuit veteris instituti: terra condebantur), tuttavia, numerose testimonianze
archeologiche documentano come a Roma, fin dalle fasi più antiche della città, siano state praticate sia la cremazione
che l’inumazione. Questa coesistenza è confermata anche dal testo delle XII Tavole contenente il divieto di inumare o
cremare adulti in città, contemplando in tal modo entrambi i riti.
L’illustre famiglia dei Cornelii, ad esempio, non interruppe mai la pratica inumatoria, anche nel periodo di massima
diffusione della cremazione, scelta da Silla, il quale, per primo, infranse la tradizione familiare.
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presenza di gruppi di individui, con una distinzione di ruoli e di funzioni e, lo si è appena notato,
sensibili differenze di prestigio sociale. Tale comunanza di sepolcri, esprime la presenza di piccoli
nuclei familiari, come suggerisce non soltanto la loro composizione, ma anche il fatto che ciascun
plesso presenta, è bene rimarcarlo, una sensibile escursione cronologica interna. Infatti, la sepoltura
comune costituisce un forte elemento di aggregazione del gruppo, quasi la proiezione, al di là della
vita, dell’unità della compagine gentilizia; tale evidenza si manifesta attraverso il fenomeno del
raggruppamento di tombe singole che si addossano ed in parte si sovrappongono, pur conservando
ciascuna la propria individualità, ad una tomba più antica che funge da generatrice del gruppo15.
Quanto detto pare giustificare, anche per i sanniti di età storica (V-IV secolo), la nota
testimonianza di Cicerone.
Cic. de off. 1.17.55: Magnum enim, idem habere monumenta maiorum, iisdem uti sacris,
sepulcra habere communia.
Lo stesso Franciosi aveva rilevato come la gens Aurelia, avesse origine sabina (osca);
infatti, prima del rotacismo il nome della gens Aurelia era Auselia, e ausel in lingua osca indica il
sole, che identifica una divinità totemica del clan.
Fest. s.v. Aureliam (L. 22): Aureliam familiam ex Sabinis oriundam a Sole dictam putant,
quod ei publice a populo Romano datus sit locus, in quo sacra fecerit Soli, qui ex hoc Auselii
dicebantur, ut Valesii, Papissi pro eo, quod est Valerii, Papiri.
Per cui, se i culti dei defunti, che con terminologia romana potremmo accomunare
nell’impiego del lemma sacra, appaiono come prevalentemente personali, talvolta, essi possono
presentare elementi totemici, appunto tenendo conto16 che nelle sepolture dei Sanniti emerge che
numerose tombe sono esplicitamente gentilizie, perché sulle stesse è direttamente inciso il nome
della gens, com’è anche per la tomba dei Savati a Capua, le cui iscrizioni sepolcrali sono conservate
nel Museo di Napoli. Tale circostanza ha consentito di individuare una struttura gentilizia anche
nelle popolazioni sannitiche.
Proprio dagli anzidetti sepolcri di Capua si desume l’esistenza di una gens di stirpe sannitica
e, forse, l’usanza di seppellire in un’area, in precedenza destinata al clan.
Quanto detto costituisce una prova dell’esistenza di una necropoli gentilizia, che, come
presso altri popoli, ha preceduto il ‘monumento gentilizio’ fuori terra. Si tratta di momenti distinti
della storia dell’organizzazione sociale, in quanto il monumento gentilizio fuori terra è di età
posteriore, ed è tipico di una gens già sviluppata per prestigio sociale e potenza, nel quadro di una
società che già comincia a presentare differenziazioni di classe; infatti, l’ideologia politica che si
esprime nel monumentale ed in certi tratti stessi del rituale funerario, è il prodotto della logica
dell’approvazione e della difesa del monopolio di classe.
Tuttavia, non si ritiene possibile fissare in un momento preciso l’inizio della sepoltura
gentilizia, in quanto l’individuazione del momento genetico di questa e la sua coincidenza con lo
sviluppo della tomba a camera, è, però, smentita dalla continuità tra quest’ultimo monumento e le
piccole necropoli dell’età precedente, che per la loro ampiezza non possono non riferirsi, a loro
volta, ad una comunità di tipo gentilizio. Infatti, l’identificazione delle piccole necropoli, o di zone
circoscritte di queste, con sepolture di ampi gruppi parentali è un dato ormai acquisito17.
15
Queste comunanze di sepolcro rappresentano anche la proiezione della vita del gruppo: le necropoli sorgono e si
organizzano, in conformità all’ordinamento neolitico del villaggio; di esso rappresentano una duplicazione,
riflettendone spesso anche lo schema esteriore.
16
G. Franciosi, Osservazioni cit. 35 s., ora in Opuscoli cit. 633-665.
Riportiamo [cfr. fig. 2] anche l’albero genealogico, così come proposto dal Tagliamonte, I Sanniti, cit., 138, afferente
alla gens Papia. Da esso si nota che vi furono persino esponenti della gens, che rivestirono la carica di meddix tuticus.
17
Occorre precisare che sia pur a differenti ambiti cronologici – per l’area caudina, sin dai primi decenni del V secolo,
per il resto del Sannio, solo a partire dalla fine del secolo – si registrano comuni e più specifiche tendenze: crescente
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4- Le ideologie funerarie delle stirpi sannitiche.
Quanto all’altro aspetto oggetto della presente relazione cioè quello attinente all’ideologia
funeraria, una possibile affermazione di partenza è quella contenuta nel famoso lavoro del
Salmon18, secondo cui i Sanniti19 non condividevano con gli Etruschi la preoccupazione per il culto
dei morti, come ci è testimoniato dalla circostanza che essi non erano soliti costruire tombe
particolarmente elaborate o solide.
In proposito, possiamo replicare alcune considerazioni ampiamente condivise dagli
studiosi20, secondo cui l’affermazione della tenuità ed il disinteresse per la vita dell’oltretomba
appare in contraddizione con l’aspirazione alla felicità degli esseri viventi; da ciò il concetto, già
testimoniato in Omero, che le anime dei morti bevendo in abbondanza sangue delle vittime o in
genere gustando i cibi e le bevande che ad esse vengono offerte, possano riacquistare una durevole
pienezza di vita e che, se nella tomba si depongono gli oggetti adoperati da un uomo in vita, sia dato
all’anima vivificata dal sangue del defunto di usarne.
Da questi concetti nasce il culto dei morti diretto a far riconoscere che le anime, avendo
ricevuto tutto ciò cui potevano pretendere, stiano tranquille nelle loro sedi e lascino in pace i
viventi.
Infatti, proprio le cd. pitture tombali sabelle mostrano come i Sanniti avessero in altissima
considerazione, come per la verità, in generale, i popoli dell’Italia meridionale, le tematiche
dell’aldilà, ed abbiamo or ora detto di come essi facilitassero il viaggio dei morti verso l’oltretomba
seppellendoli con appropriate cerimonie.
Le testimonianze archeologiche rinvenute ad Aufidena (l’odierna Castel di Sangro) attestano
che i riti della sepoltura comprendevano una forma di purificazione ed un banchetto funebre;
ancora, le pitture funerarie della campania sabella21 indicano che per i notabili si celebravano anche
giochi funebri, fra cui combattimenti dei gladiatori.
La stessa collocazione delle necropoli, sovente poste nel luogo più lontano possibile dalle
acropoli, presuppone che un’autorità a ciò preposta assegnasse gli appezzamenti alle singole
famiglie e che in certi casi, presumibilmente quando la famiglia si era estinta o era emigrata, aveva
la facoltà di ordinare la demolizione dei tumuli di un appezzamento o la distribuzione dello stesso
ad un’altra famiglia.
Occorre ipotizzare che, al pari dei Romani, i Sanniti erano «in diis immortalibus
animadvertendis castissimi cautissimique», per cui i loro culti domestici dovevano essere una
quotidiana fonte di preoccupazione22. Le dimore dei morti riproducono nella forma quelle dei
standardizzazione tipologica dei corredi stessi, conservatorismo dell’ideologia funeraria, evidenziato dall’attaccamento
ai modelli di rappresentazione collettiva tradizionali.
Al di là delle diverse rappresentazioni che se ne possono trarre si può concordare con quella parte della storiografia che
ritiene che tali tendenze rivelino rispetto al periodo precedente, una più chiara volontà di segnare, attraverso un codice
simbolico comune e sostanzialmente omogeneo, il senso della propria identità ed il dato dell’accettazione dei sistemi di
valori e dei modelli culturali del gruppo di appartenenza. G. Tagliamonte, I Sanniti, cit., 132.
18
E. T. Salmon, Samnium and the Samnites, Cambrige 1967, trad. it. a cura di B. Mc Leod ed A. VENTURI, Torino
1995, 161 ss.
19
Abbiamo visto che la storiografia attesta per i sanniti la presenza di quattro tribù (o per lo meno quelle a noi note) che
sono individuate come dei Caraceni, dei Pentri, dei Caudini, degli Irpini, cui di recente sono stati aggiunti i Frentani;
naturalmente anche per le ideologie funerarie, come già si è precisato per le evidenze, occorrerebbe distinguere,
differenziando o omologando, le differenti prassi in vigore tra le varie tribù.
20
G. De Santis, Storia dei Romani , I ed., Firenze 1971, 298 ss.
21
Per ciò che concerne il territorio della Sabina, le necropoli rinvenute sono costituite da tombe a camera ipogea con
dromos, cioè un corridoio di accesso, la cui porta era chiusa da blocchi di tufo, o da lastre di calcare, mentre, all’interno,
erano presenti banchine di deposizione o loculi, talvolta sigillati. Nei corredi sono documentati vasi d’impasto bruo ad
incisione ed excisione con l’aggiunta di elementi plastici, che rielaboravano il repertorio figurativo orientalizzante, armi
in ferro e parti di armature in bronzo, di produzione locale.
22
È, forse, il caso di ricordare la consuetudine riscontrabile presso i vari popoli dell’antichità per cui le feste del
capodanno erano sempre precedute dalla commemorazione dei defunti, in base al concetto che, come il nuovo raccolto
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viventi, e la stessa suppellettile funeraria sta a dimostrare, più ancora che la credenza in un'altra vita
o la continuazione della stessa sotto terra, una contiguità tra vivi e defunti, che si materializzava in
molte cerimonie e rituali; i rituali della vita privata e familiare erano più di tipo propiziatorio che di
culto e dovevano essere celebrati con grande meticolosità. Di esse un esempio è offerto dalle cd.
iovilae capuane, di cui diremo in seguito.
Siamo, pertanto, propensi a ritenere che il culto dei Lari era praticato largamente dai Sanniti,
come da tutti gli altri abitanti dell’Italia, schiavi inclusi. A questo proposito il Franciosi riteneva
ispirata ad usanze italiche anche la stessa credenza riportata da Ovidio, contenuta in Fasti 6.305, che
gli dei del focolare, i Lares, partecipassero ai pasti assieme alla famiglia.
Ovid. Fasti 6.305 s.: ante focus olim scamnis considerare longis mos erat, et mensae
credere adesse deos.
A questa testimonianza possono aggiungersi quelle provenienti dall’iscr. di Delo, 1760 ss.
ed anche la testimonianza di Orazio nei Carmina 3.239.
Per ciò che concerne la tipologia tombale, significativi segni di trasformazione si registrano
a partire dal V secolo. Ancora sino a tutto il II secolo a C. continuano ad essere utilizzate un po’
ovunque nel Sannio semplici tombe a fosse terragna, ma sempre di più, dalla fine del V secolo, si
afferma l’impiego di tegole e tegoloni per il rivestimento e la copertura delle fosse, dando luogo a
tombe alla cappuccina et similia.
Anche per ciò che concerne le cerimonie funebri e le offerte dei parenti fatte sulle tombe, si
può dire che da un’iniziale uguaglianza dei cerimoniali si procede già in età alto-repubblicana alla
definizione di procedimenti fortemente differenziati, ed, in proposito, la principale fonte
dell’esistenza di un culto ancestrale dei morti appare testimoniata dalle iscrizioni contenute nelle
Iovilae della Capua sannitica.
Le Iovile, che secondo la cronologia proposta dallo Heurgon 23 sarebbero databili a partire
dalla seconda metà del IV secolo, sono convenzionalmente descritte come un gruppo, piuttosto
omogeneo, di iscrizioni in lingua osca, su terracotta o tufo, dirette a rendere sacri i luoghi o una
certa persona, od anche, come detto, più persone e quindi una gens, ovvero le tombe, attraverso il
compimento delle ritualità descritte nei testi; esse sono considerate una prova della sannitizzazione
della civiltà osca di Capua24.
Secondo l’interpretazione della dottrina che appare maggiormente accreditata sarebbero,
dunque, delle colonnine, assimilabili a quelle che sul tumulo ricevevano i segni della pietà dei
viventi, nelle cerimonie funerarie greche e romane. Le iscrizioni contenute nelle colonnine, scritte
con grafia epicorca sinistrorsa, si presentano quali registri dello ius sepulchri sannita. I destinatari
delle Iovile sono o singole persone o fratelli di una stessa famiglia o intere famiglie.
Dall’analisi della formula onomastica che le rende riconoscibili, risulta la consuetudine al
prenome ed al nomen. Più raramente, vi si trova il nome parentale, sempre espresso con il genitivo
proviene dai semi sotterrati e disintegrati, così la vita dell’umanità presente scaturisce da quella degli antenati sotterrati
e decomposti.
23
J. Heurgon, Etude sur les inscription osques de Capoue dites iúvilas, Paris 1942.
24
Codesta sannitizzazione è connessa con due avvenimenti principali che furono la capitolazione di Capua, la
principale città degli etruschi, e poi di Cuma, la più antica Colonia Greca.(cfr. Stra. V, C 250). I sanniti nel 423 si
impadronirono di Capua.
La storiografia ha però dimostrato che i protagonisti degli avvenimenti del V secolo non furono i Sanniti, bensì
propriamente i Campani (chiamati ‘oschi’ in Stabone V, C 243): cioè quelle popolazioni sannite stanziate ormai da
tempo sulla pianura e che con i Sanniti degli Appennini condividevano origine e lingue, ma non più modo di vita per
l’avvenuta assimilazione di elementi socioculturali greci ed etruschi. A. Prosdocini, Le iscrizioni italiche. Acquisizioni,
temi problemi, in le iscrizioni pre–latine in Italia, Roma 1979, 119, 204; B. D’Agostino, La civiltà del ferro nell’Italia
meridionale e nella Sicilia. Il mondo periferico della Magna Grecia, in Popoli e civiltà dell’Italia antica VII ed.,Roma
1978, 53–112.
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del prenome, senza la determinazione figlio, mai con l’aggettivo derivato; rarissimo è l’impiego del
cognomen.
La loro presenza nelle aree di culto – il luco,– starebbe a significare una sorta di protezione
nei riguardi dei defunti. Pertanto, si è propensi a ritenere che queste cerimonie avvenissero non nei
pressi della tomba, come attestano ad esempio i bassorilievi funerari attici, ma appunto presso il
luogo di culto.
Occorre, però, sottolineare che, secondo una dottrina oggi minoritaria (Heurgon), il luco
costituiva la sede dei culti ctonii, dedicati ad una divinità che pare possibile identificare con Giove
Flagio, di qui, per molti studiosi , il carattere dedicatorio piuttosto che funerario attribuito a tutte le
Iovile.
In realtà studi più recenti25 parlano del luco come di un bosco sacro, posto sotto il controllo
della divinità. Lo si ricostruisce, generalmente, come un luogo popolato di statue, di altari, di
oggetti, che recenti e meno recenti scavi hanno restituito in numero considerevole.
In esso possiamo immaginare pertinenze delle singole famiglie, probabilmente le più in vista
delle varie comunità. Per cui secondo questa interpretazione il luco oltre che rappresentare il luogo
in cui si svolgevano le cerimonie istitutive, era anche il posto, appunto una pertinenza, in cui gruppi
parentali autorevoli svolgevano proprie cerimonie, cioè una sorta di sacra privata in uno spazio
collettivo.
Riterremmo, però, di preferire la tesi per la quale il luco, come detto il luogo di culto, poteva
essere inteso come la sede di attività sacre relative al culto dei morti e le iovile come segnali della
pietà verso i defunti, cioè cose materiali, tattili, intese quali segnali apotropaici atti a separare,
proteggere onde tenere lontano dai defunti menzionati, influenze malefiche e quant’altro26.
Anzi, sempre secondando questa dottrina, la stessa esteriorità delle tombe sannitiche del V –
III secolo, proprio perché spoglie di ogni contrassegno esteriore, testimonierebbe l’importanza del
luco. La funzione delle iovile capuane sarebbe connessa con il compito di separare, proteggere; tale
compito andrebbe poi inteso nel senso che le iovile separano e proteggono le tombe delle famiglie
e, dunque, le prescrizioni dei testi, come una sorta di ius sepulchri osco.
Quanto al culto dei morti, con molta probabilità, l’occasione del collocare e del rendere
sacre le iovile di una o più persone o di una famiglia doveva essere collegata alla ricorrenza della
morte, o, nel caso di intere famiglie, di una morte. In questo senso vanno intese le cerimonie delle
sakrasias (sacrificio di un porcellino), kersnasias (offerta dei cereali), damusennias (banchetti
pubblici), che appaiono rivolte a rendere sacre le iúvilas. In proposito, si sottolinea la
contrapposizione tra il sacrificio cruento (sackrasias) e sacrificio non cruento (kernasias); meno
frequente è il rito della damusennias, che attesterebbe un cerimoniale, avente origine dall’area
laconico-tarentina, in cui sarebbero attestati pubblici pasti.
In realtà, non ci sono elementi interni, epigrafici, così chiari, ma il richiamo di queste
cerimonie suggerisce un possibile collegamento con le cerimonie rituali romane (parentalia, feralia,
rosaria, ecc.)27, nonché con le fonti che tramandano il sacrificio dei medesimi animali anche nel
mondo romano:
25
C. Rescigno, Un bosco di madri. Il santuario di Fondo Patturelli tra documenti e contesti, in Lungo l’Appia. Scritti
su Capua antica e dintorni, Napoli 2009, 31–42.
26
È questa l’opinione espressa da A. Franchi de Bellis, Iovile capuane, Firenze 1981, 39 ss.; M. Lejeune, Capoue:
iovilas de terre–cuite et iovilas de tuf, in Latomus 49.4, (1990) 785 ss. Anche la dottrina più recente sembra aderire a
questa ipotesi ricostruttiva, abbandonando la tesi della funzione dedicatoria, avanzata in passato: «Siccome la funzione
funeraria delle iúvilas è innegabile, supponiamo che i suini fossero connessi con le anime dei defunti. Non con i
“defunti”, ma con le loro anime. Il suino è la vittima rituale per le divinità ctonie, ma il motivo non ci è stato
tramandato». A Zavaroni, Le iúvilas di Capua, Anna Perenna e gli Argei romani, in DHA 32.2 (2006) 47.
27
Si potrebbe configurare come oggetto di un’indagine ulteriore e con diversi punti di affinità quella volta d indagare
sulla presenza di un funzionario pubblico oltre che nelle cerimonie che accompagnavano le iovile, anche nella
parentatio romana. Ci sembra che queste ultime cerimonie, da un lato potevano essere qualificate come pubbliche, in
quanto celebravano divinità preposte alla generazione ed alle gentes costituenti il popolo, dall’altra erano private,
perché riguardanti gli antenati( ed il ciclo della rinascita) delle famiglie.
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Varro apud Non28. 163.19: quod humatus non sit, heredi porca praecidanea suscipienda
Telluri et Cereri; aliter familia pura non est;
Fest. sv. praecidanea (L. 250): praecidanea agna vocabatur, quae ante alias caedebatur.
Item porca, quae Cererei mactabatur ab eo, qui mortuo iusta non fecisset, id est glebam non
obiecisset, quia mos erat eis id facere, priusquam novas fruges gustarent;
Varro, l.l. 5.23: Ab eo, qui Romanus combustus est, si in sepulcrum eius obiecta gleba non
est, aut si os exceptum est mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est opertum (ut
Pontifices dicunt quod inhumatus sit) familia funesta manet.
5.– Le Iúvilas capuane
Si è detto, in precedenza, che le iúvilas designerebbero la stele stessa o più probabilmente
qualcosa di esterno ad essa come una tomba od un luogo di culto. Pertanto, il tema centrale che ha
accompagnato le indagini sulle iovile è dato dall’individuazione dell’autore dell’atto, un
personaggio o un gruppo familiare, che istituisce qualcosa (un maiale o focacce o frumento),
secondo la nostra interpretazione, nell’ambito di riti funerari in onore di defunti eccellenti.
La pratica delle iovile, quindi, nasceva come una funzione legata alla vita privata,
probabilmente connessa al culto dei morti, ma nello stesso tempo assumeva un aspetto pubblico per
la presenza di un magistrato agli atti rituali, il meddix, che però non ricopriva il ruolo
dell’officiante, giacché, è stato notato, i verbi attivi che esprimono l’azione del ‘rendere sacro’, in
occasione della loro celebrazione durante una festività calendariale, hanno costantemente il
soggetto inespresso, come mostrano le iscrizioni delle iovile29.
Pertanto, respinta ormai dalla dottrina più recente la tesi (Heurgon, Salmon, Camporeale e
altri,) che la menzione della magistratura, all’interno della iúvilas avesse una funzione eponima,
riterremmo di approfondirne il ruolo, che pure doveva rappresentare la comunità, all’interno delle
cerimonie votive; ruolo che abbiamo detto passivo, forse connesso alla regolamentazione del
territorio, ovvero alla preservazione dell’ordine pubblico, ma che in ogni caso ci sembra marcare
una qualche distanza con i rituali romani connotati dalla celebre distinzione tra sacra pubblica e
sacra privata30– in quest’ultima si sogliono sussumere i sepulchra familiaria – sprovvisti
dell’intervento di una qualche autorità pubblica. In altri termini, la presenza del magistrato sannita,
28
Cfr. Varr., re rust. 2.4.6. 8: (…porci…latente) qui a partu decimo die habentur puri, et a beo appellantur ab antiqui
sacres, quod tum ad sacrificium idonei dicuntur primum.
Secondo una parte della dottrina, la comparazione con riti e miti di vari popoli indoeuropei mostra che il cinghiale – ed
in effetti alcune delle raffigurazioni delle iúvilas appaiono più riferibili alla rappresentazione di un cinghiale, che non ad
un porcellino – era connesso con la sopravvivenza dello spirito nell’aldilà. A Zavaroni, Le iúvilas di Capua cit. 47.
Crf. Anche ID., Les dieux du cycle de la régènèration dans quelques figures celtique, in RHR. 221-2(2004) 160-161.
2929
Nel Sannio il meddis tùvtiks è un magistrato annuale, unico, che detiene i più elevati poteri pubblici, giurisdizionali
e militari. Rappresenta inoltre il popolo negli atti con la divinità, come è dimostrato dalla dedicatio del tempio minore
di Pietrabbondante. Detiene l’imperium e può essere acclamato, acquisendo così il diritto di esercitare il trionfo.
Ha facoltà di convocare il senato per proporre deliberazioni, anche di spesa pubblica, di cui è esecutore. Ha, inoltre,
capacità di affidare autonomamente opere pubbliche e di collaudarle.
Secondo La Regina, il m. t. è anche il magistrato eponimo. Ciò presuppone l'esistenza di un elenco con la successione
dei nomi che costituivano il riferimento cronologico, nonché parte integrante del calendario ufficiale.
In verità, la documentazione epigrafica ha restituito un numero notevole di nomi di m. t. sannitici, soprattutto del II
secolo a. C., senza che vi sia, tuttavia, la possibilità di ricostruirne una sequenza ordinata, ma sequenze parziali sono
determinabili su base prosopografica e, talvolta, sulla datazione dei testi. Cfr. La Regina, ‘ITALIA Omnium terrarum
parens’cit. 327ss.; Salmon, Il Sannio e i Sanniti cit. 85ss. Per la letteratura precedente, cfr. F. Sartori, Problemi di storia
costituzionale italiota, Roma 1953, 20.
30
Fest, Privata sacra, Lindsay 284: sacra privata «quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt» .
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ci pare costituire un significativo elemento di differenziazione, una particolarità rispetto alle
consuetudini romane, con cui pure abbiamo visto presentare qualche elemento di comunanza.
Sulla base di queste premesse possiamo intraprendere una breve esegesi, a titolo meramente
esemplificativo, di due iúvilas31[cfr. Fig. 3]:
17 A
17 B
[
]
[--]pa[k][-----]víi
pa[k][m]edikid
túvtik kapv
sakraítir kas[it]
damsennias
pas·fiíet pústr
iúkleí vehiian
medik·minive
kersna[s]ias
[sakraít]ir
kas[it damsen]n
ias·pas·fi[í]et
pústréí·iukleí
‹v›ehiianasúm
a‹v›t·sakrim
kakiiad kasit
[m]edikd·túvtik
kapv·adpúd
fiíet
In 17 A è richiesta la presenza di due magistrati per due diversi sacra: il tutico32
capuano per le damsennias ed il meddix semplice per le kersnasias.
A nostro avviso, il medesimo estensore dei testi, non può aver usato o non aver
usato, ad libitum, l’attribuzione túvtiks, tanto più che il tutico capuano è citato in relazione a
certe operazioni sacre (damusennias e sakrasias) e non per altre (kersnasias),
differenziandosi in ciò dal meddix tutico.
Invece, in 17 B, il meddix tutico capuano, che è presente alle damsennias, lo sarà
anche alle sackrasias.
Per ciò che concerne la iovile sub 17 A, la voce damsennias, presente in entrambi i
testi, è ritenuta retta dall’impersonale sakraítir. La voce minive può essere intesa quale
attribuzione ad una magistratura minore, da cui l’esistenza di un meddix minore, anche se gli
studi della Franchi de Bellis, sembrano diretti ad una differente interpretazione, secondo cui,
invece, la presenza del meddix, non tutico è richiesta minive; pertanto, il testo 17 A, indica
che bisogna «consacrare» con i banchetti che si fanno il giorno dopo le veiane, alla presenza
del meddix, limitatamente, minive, con le offerte dei cereali.
31
Si precisa che le sottolineature nel testo sono dovute alla scelta editoriale di evidenziare in questa forma grafica le
parole, ritenute dagli autori rilevanti.
La stele fu rinvenuta durante gli scavi del fondo Pattureli nel 1887, nelle medesime condizioni odierne, cioè con la parte
superiore alquanto danneggiata. La stele, databile nel III secolo, è conservata nell’Antiquarium di S. Maria Capua
Vetere.
In realtà, si tratta di un’unica stele, iscritta sulle due facce parallele. Le iscrizioni sono incise ambedue sulla medesima
stele di tufo. È questo, nella raccolta l’unico esempio di stele tufacea opistografica: negli altri casi anche se anche per
contenuto i testi sono inseparabili, le iscrizioni si trovano su tufi distinti.
Secondo la storiografia la iúvilas 17 A prescrive, per le iuvilas già erette, ma ancora in attesa di consacrazione, la
presenza del meddis tùvtiks Kapuans, precisando che questa è richiesta solamente durante le offerte di cereali; la 17 B.
prescrive, per un'altra iovila, un sacrificio cruento alla presenza del m.t. Kapuanus, per tutta la durata del rito. Cfr. LA
Regina,‘ITALIA. Omnium terrarum parens’ cit. 307.
32
L’unità politica e amministrativa dei Sabelli in generale e del Sannio in particolare non era il municipium, ma il touto,
termine che si è sostenuto avesse lo stesso significato del latino di populus, ma che più probabilmente manca di un
esatto equivalente: «il touto era l’unità che aveva carattere corporativo ed era evidentemente più vasto della normale
civitas». Salmon, Il Sannio e i Sanniti cit. 85.
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Si tratta di una interpretazione letterale, originale, ma che non incide sull’elemento
saliente della ricostruzione, cui abbiamo manifestato di aderire, cioè la presenza di due
meddices nella tavola 17 A, con la consequenziale necessità di distinguerne ruoli e funzioni.
La presenza del meddix in 17 A è strettamente connessa alla pratica della damsennias;
invece in 17 B ne è staccata, perché tra le due dichiarazioni (della magistratura e dei
banchetti) c’è l’inserimento della menzione del sacrificio cruento (a‹v›t·sakrim fakiiad
kasit) ugualmente presenziato dal meddix tutico.
In via incidentale, inoltre, occorre precisare che la presenza della voce abbreviata kapv o
kapva compare, nelle iovile, come elemento finale della citazione magistratuale, solo
quando il meddix o il meddix tutico è privo della formula onomastica. Viceversa, la presenza
dell’attribuzione tutico dovrebbe essere utilizzata per indicare mansioni che sono connesse
con la celebrazione dei sacra. Occorre, però, riconoscere che dai dati che emergono dalle
iovile prese in esame, nonché, con buona probabilità, da tutte le iovilias reperite, non
emergono elementi che consentono di chiarire con precisione il rapporto magistrato
cerimonia, che pur doveva essere regolato da una disciplina interna, cui attenersi
rigidamente.
Quindi, operando un raffronto tra i due testi emerge un certo parallelismo:
a) La magistratura: da un lato, un meddix, dall’altro il meddix tutico capuano;
b) I sacra: da un lato il sacrificio non cruento, dall’altro, il sacrificio cruento;
c) da un lato l’impiego del minive, dall’altro adpúd fiet, espressione quest’ultima con la
quale si richiede la presenza del meddix tutico capuano «finchè durano» non solo le
damsennias, ma anche le operazioni del sacrificio cruento e, secondo l’interpretazione
corrente, anche l’offerta cerealitica.
Il ruolo del meddix è testimoniato anche in letteratura: Liv. 23.35; 24.19.2; 26.6.13 e 6.17, in
cui lo storico usa espressamente il termine osco meddix; altre volte lo traduce con il termine praetor
(23.7.8) e con magistratus (23.2.3).
Inoltre, particolarmente importante, è la notizia che ci offre il poeta Ennio, ricordiamo,
contemporaneo delle Iovile: Summus ibi capitur meddix, occitur alter (Ann. 298 Vahl). Da Ennio
apprendiamo l’esistenza di più meddix. Infatti, scrive il poeta: Prima è catturato il primo meddix,
poi l’altro è ucciso. Dove, secondo l’interpretazione che ci sembra preferibile, il termine alter
allude ad un dato cronologico.
Una testimonianza ulteriore è, poi, contenuta in Paul. Fest. 110.19 Linds.: meddix apud
oscos magistratus est, che, però, si limita a ribadire il ruolo magistratuale del meddix.
6.– Considerazioni conclusive
In conclusione, si è tentato di mostrare che il ius sepulcrhi osco era praticato con grande
cura di dettagli dalle popolazioni sannitiche, con una tutela che oltre a contemplare un cerimoniale
complesso, avveniva in spazi (il luco) resi sacri.
Si è, poi, offerta una ricostruzione, nei limiti del possibile, anche protostorica delle prassi
sepolcrale delle popolazioni Italiche dell’area appenninica che ci ha portato a confermare la prassi
dell’inumazione quasi senza eccezione, come forma di deposizione del cadavere.
Si sono rinvenuti anche esempi di necropoli gentilizie, ma non si è ritenuto possibile fissare
in un momento preciso l’inizio della sepoltura gentilizia.
Da ultimo si è accennato alle stele funerarie comunemente denominate iovile. Pur senza
entrare nel dettaglio del significato etimologico del lemma, si sono svolte alcune considerazioni
sulla necessaria collegialità diseguale della magistratura, sulla esistenza o meno di un meddix
minive, che pare respinta dalla dottrina più autorevole, su quelli che sono sembrati essere i suoi
poteri nell’ambito funerario.
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Sarebbe interessante vedere quanto queste consuetudini abbiano inciso sullo ius
romanorum…, ma questa è un’altra storia, anzi un’altra ricerca.
*
GIANLUCA ZARRO è Avvocato e Dottore di ricerca in diritto romano e tradizione romanistica presso l’Università
‘Federico II’ di Napoli.
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Evidenze e ideologie funerarie tra i Sanniti