NEL CENTENARIO DELLA RIVISTA
Giampietro Dore e Studium
Il paradosso cattolico: maggioranza politica
senza egemonia culturale
di Andrea Ambrogetti
Poco più di trent’anni fa (ottobre 1974) moriva a Roma Giampietro Dore, che nella seconda metà del Novecento è stato a lungo
direttore della rivista Studium, presidente e direttore editoriale
della casa editrice Studium e uno dei più importanti animatori
culturali del mondo cattolico italiano. Esattamente quattro anni
fa, ripercorrendo la storia del proprio impegno intellettuale, Pietro Scoppola aveva ricordato il ruolo svolto, negli anni Cinquanta
e Sessanta, nel favorire il lavoro dei giovani ricercatori da «quel
grande animatore culturale che fu Giampietro Dore» (Avvenire,
12 dicembre 2002). Nel 1982 Scoppola già aveva ricordato che
negli anni Cinquanta era stato colpito dalla «sua competenza e la
sua apertura di spirito in anni in cui il clima nel mondo cattolico
non era ancora dei più liberi». Della sua vita e del suo impegno
proponiamo una prima ricostruzione, anche in occasione della ricorrenza dei cento anni dalla fondazione della rivista Studium.
1. Le origini fucine e popolari
Nato agli sgoccioli dell’Ottocento (4 maggio 1899) in un piccolo
centro di una Sardegna all’epoca veramente remota (Orune, in
provincia di Nuoro), Giampietro Dore, primo di cinque figli 1, si
trasferisce a Roma nel 1913, quando il padre, Francesco 2, cattolico democratico, viene eletto deputato nelle liste sostenute dai radicali. Nella capitale segue prima i corsi di matematica e poi quel-
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li di lettere e filosofia, senza conseguire la laurea. Presto entra in
contatto con la Fuci e si iscrive all’Azione Cattolica Italiana.
Nel mondo del laicato cattolico di inizio Novecento, Dore cresce guardando alle figure dei primi assistenti ecclesiastici della Fuci,
mons. Giandomenico Pini e mons. Luigi Piastrelli in particolare.
Forte è anche l’influenza del benedettino Idelfonso Schuster, abate a
San Paolo fuori le mura, tanto che il giovanissimo Dore diviene oblato benedettino (con il futuro cardinale di Milano rimarrà sempre in
ottimi rapporti e tutti i suoi dodici figli avranno per terzo nome Benedetto).
Nel clima che Dore respira negli anni della Grande Guerra e
poi del primo dopoguerra convivono, come scrive R. Mancini 3,
un certo «risveglio di spiritualità che invase le nuove generazioni
dopo il lavacro di sangue» e «l’affermarsi della nuova cittadinanza morale e civile dei cattolici dopo le prove di sacrificio della
guerra». L’Università fu allora per lui, e per tanti altri suoi coetanei, «l’ambiente dove il germe dell’ideale cristiano e religioso si
sviluppò e crebbe trovando sbocco nella Fuci».
Al termine del primo conflitto mondiale, la Fuci lo incarica di
dirigere Gioventù nuova (che nel 1920 riprenderà il vecchio nome
di Studium), diventato organo nazionale dell’organizzazione, di
cui resta direttore fino al 1924.
Nei dibattiti all’interno della prima Fuci, Dore mette l’accento sulla necessità per i giovani cattolici di affrontare senza paure e
con passione i problemi della cultura moderna e della moderna
questione sociale. Quando nel 1919 la Fuci di Brescia organizza
quello che verrà ricordato come il «Convegno della Vittoria», Dore nel suo intervento si associa a chi ha chiesto l’istituzione di una
scuola di sociologia, necessaria per un corretto studio dei problemi sociali 4. La sua militanza nella Federazione degli universitari
fu intensa, anche se non del tutto lineare. Tra l’altro, egli prende
parte al movimento «Vita una», un gruppo che potremmo chiamare di dissidenza interna, seppure nell’ambito di un cammino e
di un impegno che non è messo in discussione. Tale movimento
era composto da fucini soprattutto di Genova e di Torino, in quel
momento un po’ in autonomia rispetto alla Fuci nazionale, da loro giudicata troppo centralista e dirigista.
Nel testo Elogio della vita una (scritto da Dore nel 1922 e
pubblicato per la prima volta nel 1923 su Studium) il giovane fucino sardo, di fronte alla crisi del Paese seguita alla prima guerra
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mondiale, lancia un forte appello affinché si riconosca che solo
nel cattolicesimo c’è una risposta alle difficoltà del momento: «Bisogna che noi, nei limiti delle umane possibilità, lo dimostriamo:
bisogna che i giovani, tutti i giovani, lo sentano» 5.
Quando ripubblica questo testo nel ’27, lo stesso Dore nella
Prefazione già traccia un bilancio di quel periodo e ricorda che
con il lavoro nelle organizzazioni degli universitari cattolici era
per lui sorta la necessità di «indagare le posizioni spirituali della
maggioranza dei miei compagni, la loro natura e i loro bisogni».
Partendo dal rivendicare la validità delle intuizioni della generazione «oppressa, nel nascere alla vita intellettuale, dal peso della
guerra», quali «la inconsistenza delle posizioni politiche di fronte
ai bisogni ed agli atteggiamenti dei giovani, il desiderio di romperla col passato e di crearsi un presente, la tendenza all’unità come vertice su cui tutto ruotava ed a cui tutto si ricongiungeva»,
Dore afferma che «l’Elogio della vita una conserva ancora la sua
attualità». Tanto più di fronte alla tendenza della «civiltà moderna» a confinare «l’uomo nella aridità di una macchina pensante»
rimane necessario ribadire che «la unità, il principio uno, è Dio,
ed ogni unità è da Lui. Vivere quindi in Lui, e riferir tutto a Lui».
Ben presto Dore si avvicina anche all’impegno politico vero e
proprio ed entra nel Partito Popolare, collaborando da vicino con
il suo fondatore e leader, don Luigi Sturzo, al quale viene avvicinato per il tramite di Giuseppe Spataro, che era stato presidente
nazionale della Fuci negli anni 1920-1922 6. Si occupa in particolare dell’ufficio stampa, della casa editrice del partito (la SELI),
del Bollettino bibliografico e partecipa alla redazione del Popolo
Nuovo (diretto allora da Giulio Seganti) e ha modo di farsi apprezzare da Sturzo per le sue doti intellettuali.
Nel neonato Partito Popolare, per impulso dello stesso Sturzo, la ricerca e la cultura sono considerate di grande importanza.
Si vuole offrire un costante ripensamento degli avvenimenti, così
da sottrarsi alla cronaca spicciola, anche perché occorre collocare
l’impegno diretto dei cattolici in politica nella giusta luce, evitando letture distorte, ad esempio di stampo clericale, e precisando i
termini appropriati dei rapporti tra fede e prassi politica, in perenne bilico tra autonomia del laicato e direttive della gerarchia,
tra democrazia e forme istituzionali, tra Stato e società.
Dore dirige fino all’agosto del 1926 il Bollettino bibliografico di
scienze sociali e politiche, di cui è promotore insieme a Sturzo, e che
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è pubblicato dalla stessa SELI. Gli succede l’amico e compagno di
lotta Igino Giordani 7 perché una legge fascista del 1925 aveva stabilito che il direttore, o il redattore responsabile, di un giornale o di un
periodico dovessero essere iscritti all’Albo dei giornalisti.
Va a questo punto ricordato che nei primi decenni del Novecento esiste in Italia un panorama di riviste e di iniziative editoriali cattoliche molto ampio e variegato, dal quale scaturisce un dibattito di peso non trascurabile: la questione romana era ancora
un problema aperto e il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica
spaziava in tutte le direzioni. Per Dore furono particolarmente
importanti i due giornali: Il Domani d’Italia e Il Popolo 8.
Nel fervore di discussioni sulle grandi opzioni che stavano di
fronte ai cattolici impegnati in politica, o «militanti», come si diceva allora, Dore respinge sia il fascismo sia le versioni clerico o
clerico-fasciste del Partito Popolare. La sua attenzione si appunta
piuttosto su figure che hanno affrontato il grande tema dell’attuazione della democrazia in una moderna società di massa.
In particolare, Dore è attento alla figura di Francesco Luigi
Ferrari 9, le cui linee ideologiche portanti, secondo Mario G. Rossi, erano «il particolare rapporto con le masse e con le realtà sociali di base, la sensibilità per l’atteggiamento e il ruolo delle classi medie, la sollecitazione alla tutela dell’ordinamento democratico e alla valutazione realistica delle questioni istituzionali e amministrative» 10. Di Ferrari ripropose le idee, curando, più tardi, una
raccolta di scritti apparsi su Il Domani d’Italia, pubblicandola nel
1958 con una propria Introduzione 11.
Con l’avvento del fascismo, l’attività politica e culturale dei
popolari prima si dirada e poi si blocca del tutto, e Sturzo è costretto a un esilio (a partire dal 25 ottobre del 1924) che durerà
più di venti lunghissimi anni (il ritorno in patria avverrà il 7 settembre 1946). Per un primo periodo sembra tuttavia che la pubblicazione del Bollettino e di alcuni volumi possa continuare. Ecco allora che Dore si adopera per mantenere i contatti con il sacerdote siciliano, quasi egli possa da Londra seguire l’attività editoriale dei popolari (tra il 1923 e il 1925 ancora non si pensava che
l’intero Paese avrebbe vissuto vent’anni di «interruzione» della vita civile, culturale e democratica).
Di questa difficile attività di collegamento ci sono rimaste una
manciata di lettere del periodo novembre 1924-dicembre 1925 12,
anche se probabilmente ne saranno esistite altre. Sembra quasi
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che Dore e Sturzo vogliano sostituire il contatto quotidiano che
avevano a Roma con uno analogo, di tipo epistolare, ma non mancano le note amare.
Il 13 novembre 1924, ad esempio, Dore scrive: «La vita della
SELI procede regolarmente», per poi entrare nel merito di vari
punti. Alla fine della lettera, aggiunge a mano, un po’ ottimisticamente: «Le cose vanno bene anche fuori della SELI». Ma il 23 dicembre deve informare don Sturzo che: «Non essendosi concluse
le trattative con le Messaggerie abbiamo iniziato i rapporti diretti
con tutte le più importanti librerie nostre delle altre città e con le
altre che offrissero affidamento di vendita e serietà finanziaria». Il
9 gennaio 1925 gli invia «uno specchio del movimento edizioni inviate ai librai», ma confida: «Speravo che per quest’epoca lei fosse di ritorno a Roma [...] non avendo però notizie sicure in proposito [...]». Il 13 ottobre 1925 Dore deve scrivere: «Fra qualche
giorno compie l’anno della sua partenza per Londra. È stato un
anno amaro per tutti. Ma se si pensa che v’è della gente che resiste ancora s’ha ragione per bene sperare».
Da queste lettere, come da altre fonti ben note, emerge quanto in questa fase Sturzo non comprenda appieno le fortissime restrizioni che il fascismo sta progressivamente imponendo alla società italiana, tanto che per un certo periodo egli non riuscirà a
spiegarsi i ritardi dei suoi collaboratori in certe attività, di cui essi
non erano tuttavia responsabili.
Quando Sturzo morirà, l’8 agosto del 1959, Dore lo ricorderà
a caldo prima con un articolo apparso su Il Popolo dell’11 agosto
e poi con un altro pubblicato in Coscienza dell’1-15 settembre 13.
Nel primo rammenta l’intensa frequentazione quotidiana,
non limitata all’impegno politico e culturale, che ebbe con il fondatore del Partito Popolare negli anni immediatamente precedenti l’esilio, se ne dichiara debitore per «l’esempio di un lavoro culturale estremamente impegnato e aperto» e allievo «di vita e di vita cristiana. Veramente la fede lo aveva reso libero, e veramente in
lui agiva la certezza della speranza».
Ma il leader politico popolare e il giovane giornalista condividevano anche la passione per la musica ed entrambi «frequentavamo l’Augusteo e Santa Cecilia». Racconta Dore: «Una volta eravamo all’Augusteo, quando tutta la sala si alzò al canto di “Giovinezza” acclamando a Mussolini. Noi due si rimase a sedere tra lo
stupore esterrefatto e terrorizzato dei nostri vicini. I soli tranquil-
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li eravamo proprio noi». Un episodio forse marginale, ma indicativo del fatto che «nelle ore più buie Sturzo non dubitò mai. La
sua acutezza di indagine gli faceva prevedere il peggio, ma nello
stesso tempo era certo che le idee giuste avrebbero finito per vincere sulle idee errate e che da questo eterno conflitto tra il bene e
il male era il male a essere sconfitto».
Nel secondo articolo avverte che si tratta di una personalità
«estremamente complessa», della quale molti aspetti (soprattutto la
sociologia) erano tutti da scoprire, dotata di straordinarie «capacità
di analisi e capacità di sintesi», che diffidava di «ogni confusione tra
piani diversi». Infatti «le polemiche, da lui sostenute e vinte per una
netta distinzione tra azione politica e azione religiosa, per la costituzione di un partito politico che fosse autenticamente partito, si proponesse fini politici, usasse tecniche e mezzi politici, non era rottura
tra i due settori della umana attività, ma invece il solo modo corretto per giungere ad una vera unità nella superiore sintesi».
Durante il ventennio fascista, Dore fu tenuto sotto costante
controllo dalla polizia del regime 14, riuscendo tuttavia a non incorrere in particolari restrizioni – a differenza del fratello comunista, Antonio 15 –, pure se talvolta si occupò della diffusione della stampa clandestina.
Impossibilitato a lavorare come giornalista (il suo antifascismo gli aveva procurato l’interdizione a proseguire l’attività nella
sala stampa dei corrispondenti di Roma) e trovandosi nella necessità di provvedere alla sua numerosa famiglia 16, lavorerà per molti anni nel campo che era, tutto sommato, a lui più congeniale,
quello editoriale, seppure limitandosi agli aspetti della diffusione
e della distribuzione.
Dal 1929 è agente in esclusiva per Lazio, Umbria, Marche e
Abruzzi per le pubblicazioni scolastiche e non scolastiche della
Società Le Monnier di Firenze. Nel corso degli anni Trenta ottiene, inoltre, varie collaborazioni professionali: con l’Istituto Luce,
con la casa editrice Sansoni, anche se solo il rapporto con la Le
Monnier sarà quello più duraturo (fino ai primissimi anni Cinquanta), passando anche per l’assunzione, dal 1939, prima come
impiegato, poi di nuovo come agente. Non a caso, nel dopoguerra divenne uno dei principali collaboratori e consiglieri editoriali
della famiglia Paoletti, proprietaria della Le Monnier.
In questo periodo Dore resta antifascista; d’altronde, l’unico
ambiente vitale che può frequentare, quello della Fuci, o quello
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degli amici che con lui avevano frequentato la Federazione degli
universitari cattolici, è un ambiente se non esplicitamente antifascista almeno non fascista, nonché uno dei pochissimi dove sono
ancora possibili la ricerca, il dialogo, la discussione. Egli fu certamente un antifascista, senza compromessi, ma senza compromettersi. Non solo rimase in contatto con molti altri ex popolari (Spataro, Giordani), ma divenne anche un interlocutore di mons. Giovanni Battista Montini – che fu assistente del Circolo romano della Fuci nel bienno 1923-1924 e poi assistente ecclesiastico nazionale della stessa associazione dal 1925 al 1933. Questo incontro fu
indubbiamente fondamentale per il resto della sua vita (sembra
che i due si siano conosciuti già nel 1919; infatti Montini nel 1952
ricorderà: «Dore al primo convegno dopo la guerra a Brescia ci
portò il primo “Studium” in fascicolo»).
Incontro fondamentale, perché Montini, anche quando, negli
anni successivi al 1933, non ricoprirà più incarichi di rilievo nell’associazionismo giovanile, venne a costituire, e per lungo a rimanere, il punto di riferimento maggiormente significativo di molte
generazioni di cattolici. È Montini che sente la necessità di diffondere in Italia il pensiero di Maritain e che, già negli anni a cavallo
tra i Venti e i Trenta, inizia ad imprimere un’impronta profonda in
senso democratico al movimento cattolico italiano, che poi si riverbererà ampiamente nei decenni successivi, sostanzialmente
prevalendo su altre ipotesi alternative di interpretazione dei rapporti tra fede e politica, sul piano culturale, ma non solo 17.
Nel 1928 Dore cura la prima traduzione italiana di Primauté du
spirituel di Maritain, uscito in Francia nel 1927 18, con il quale egli
manterrà nei decenni successivi un rapporto costante e fecondo.
La pubblicazione di questo libro fu un’importante operazione
editoriale, e rappresenta un tassello del più vasto mosaico dell’influenza che Maritain verrà ad esercitare sulla Fuci a partire dagli anni Venti. A questo proposito, così ne ricostruisce la rilevanza storica
Maria Cristina Giuntella:
«Ma l’influenza di Maritain sulla Fuci non si esercita solo attraverso
questi frammenti dei suoi scritti pubblicati su “Azione Fucina”. Essa
acquista più ampio respiro in alcune operazioni editoriali che, tra l’altro, contribuirono alla diffusione delle opere del filosofo francese in
Italia. Nel 1928, com’è noto, Montini traduceva per la Morcelliana di
Brescia Trois réformateurs; si trattava di un Maritain ancora fortemente “antimoderno”, ma l’assistente sottolineava nell’introduzione
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la serietà dell’approccio culturale dell’indagine di Maritain, della
“diagnosi sulle origini storiche e spirituali degli errori moderni”.
Campanini ha osservato come Tre riformatori fornisse ai cattolici italiani le “armi spirituali e culturali” della resistenza al fascismo, svelandone implicitamente la continuità con il “mondo borghese”, nella
comune matrice dell’individualismo moderno e del totalitarismo.
Un altro libro che contribuì in modo più o meno esplicito a svelare le impossibili compromissioni tra fascismo e cristianesimo, fu
Primauté du spirituel, già noto in Fuci nella prima traduzione italiana
del 1928 curata da Giampietro Dore, poi rimasta, probabilmente per
ragioni politiche, semiclandestina fino agli anni Quaranta. In esso, se
è importante la ricostruzione dell’itinerario spirituale e culturale che
aveva portato Maritain e altri cattolici francesi fuori dell’Action
française, particolare significato assumeva per i cattolici italiani la distinzione tra spirituale e temporale alle soglie del Concordato; e d’altra parte il tema dell’autonomia del temporale, se non poteva assumere in Fuci il suo più profondo significato politico, contribuì ad arricchire una riflessione sulla laicità che andava maturando negli ambienti fucini in modo ancora implicito, ma importante» 19.
Nei sotterranei dibattiti che attraversano l’Europa degli anni Venti e Trenta, rispetto alle varie correnti di pensiero, Dore non fu attratto dalle idee delle formazioni politiche di sinistra e dal marxismo, anche se egli in questo periodo non disdegnava di discutere
con chi, cattolico o non, si avvicinava a queste aree politiche e culturali 20, mostrando ancora una volta che l’ispirazione cristiana era
per lui un punto di riferimento fondamentale, senza per questo
approdare a forme di integralismo.
Era perplesso sul modernismo, ma era interessato agli argomenti sollevati da questo movimento di pensiero; per esempio
aveva letto gli scritti di Ernesto Bonaiuti 21, anche se non condivideva del tutto le sue idee. In estrema sintesi si potrebbe dire che
Dore già in questo periodo era interessato a comprendere il ruolo
della Chiesa nella storia più che il ruolo della Chiesa nella politica
o all’interno dello Stato.
Come ha scritto Vittorio Bachelet, Dore era «uomo che ha
creduto nei valori della cultura, della politica, della libertà, nella
intelligente attenzione ad ogni voce e che perciò ha saputo dialogare sempre anche con chi aveva opposte opinioni senza nascondere la propria e rispettando quella altrui, cogliendovi anzi quanto di positivo gli pareva di scorgere» 22.
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2. Ricostruzione e rifondazione: un imprenditore culturale per il cattolicesimo democratico
Benché la sua vocazione fondamentale fosse quella giornalisticoeditoriale – e infatti il suo capolavoro sarà la direzione e la presidenza della casa editrice Studium per un quarto di secolo, dal 1946
al 1971 –, Dore era un uomo portato naturalmente a spendersi su
più fronti. Oltre ad essere per tutta la vita giornalista attento e prolifico (ha scritto ininterrottamente un fiume di articoli, commenti,
recensioni, dal 1920 al 1974, principalmente su Avvenire, Il Popolo,
Il Quotidiano e l’Osservatore Romano 23, ma anche su molte altre
testate) si è occupato – e interveniva con cognizione – di problemi della scuola e dell’istruzione, ha collaborato con convinzione,
tra le tante altre cose, alla battaglia – persa in Italia – dell’educazione degli adulti 24; voleva che la cultura svolgesse un ruolo significativo nelle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno, affrontava con competenza questioni di industria editoriale e di gestione
delle imprese giornalistiche.
Tranne brevi parentesi, non si calò nella politica concreta 25,
anche se mantenne sempre intensi rapporti con gli uomini più
rappresentativi della Democrazia Cristiana, sia di provenienza fucina (Andreotti, Gonella, Moro, Scaglia, Spataro), sia di provenienza popolare (Antonio Segni, che conosceva fin da giovane
perché conterraneo, e Attilio Piccioni).
A scorrere tutti gli incarichi che gli sono stati affidati, sembra
che questo partito ricorresse a lui quando si doveva ragionare di
scuola, di cultura, di libri. Anche il mondo cattolico italiano (ai
suoi massimi livelli istituzionali) sembra facesse ricorso a Dore per
questioni che per l’Italia erano di frontiera, come il ruolo crescente che stava acquisendo la televisione, forse vedendo in lui una
persona competente e di piena fiducia, ma anche moderna, laica e
aperta al nuovo.
La molteplicità di espressioni del suo pensiero e della sua personalità lo porta ad essere protagonista concretamente in innumerevoli iniziative e organizzazioni – Fuci, Azione Cattolica, Movimento laureati, Pax Romana –, per non dire della direzione di una
rivista sulla scuola per il Ministero della Pubblica Istruzione negli
anni Cinquanta e dell’appassionata partecipazione alla Commissione nazionale italiana dell’Unesco, ma anche osservatore, studioso e critico.
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Fin da giovane si occupò dei problemi del Mezzogiorno, conobbe Gaetano Salvemini, partecipò alla fondazione e alla vita
dell’UNLA (Unione Nazionale Lotta all’Analfabetismo). Da convinto meridionalista, chiederà a Pasquale Saraceno di scrivere un
libro sull’argomento dello sviluppo economico, che fu pubblicato
nell’“Universale Studium” e divenne, nel suo campo, un piccolo
“classico”.
Inoltre, dalla fine degli anni Cinquanta gli era stata affidata da
Enrico Mattei la rappresentanza della società che controllava il
quotidiano Il Giorno, allo scopo di gestire la delicata fase di passaggio dal fondatore e direttore G. Baldacci, dimissionario perché
in rotta proprio con Mattei, al nuovo direttore Italo Pietra (ottobre 1959); negli anni Sessanta viene chiamato alla presidenza dell’Unione Editori Cattolici Italiani; nel 1967 è nominato direttore
del quotidiano L’Avvenire d’Italia, succedendo al dimissionario
Raniero La Valle 26. Aveva accettato tale nomina, come scrisse poi
Bachelet, con «spirito di servizio» 27.
La sua fu una direzione di transizione e si potrebbe dire “governativa”, di cui l’episcopato italiano, proprietario del giornale,
fu artefice, anche perché i vertici vaticani avevano deciso la fusione dell’Avvenire d’Italia, che aveva sede a Bologna, con l’Italia di
Milano e il trasferimento della nuova testata nel capoluogo lombardo (dal 1968 il nuovo quotidiano si sarebbe chiamato Avvenire, come ancora oggi).
Ma a Dore si chiede aiuto anche per la Rai. Nel 1951 viene nominato componente del «Comitato centrale di vigilanza sulle Radiodiffusioni»; nel 1955 entra nel Consiglio di amministrazione;
dal dicembre 1956 al giugno 1964 con la Rai ha anche un incarico
di consulenza. Dal 1956 all’agosto 1962 fa parte inoltre della
«Commissione consultiva programmi culturali e speciali radiofonici».
Non siamo in grado di stabilire con esattezza quale azione abbia svolto Dore alla Rai. Nonostante negli ultimi anni sia stata fatta molta «storia della televisione» 28, non disponiamo purtroppo
di storie approfondite della Rai. Infatti, mentre è stata ricostruita
in buona misura l’evoluzione dei vari generi e programmi che
compongono i palinsesti delle reti televisive, molto meno sono
state approfondite le strategie culturali dei vari gruppi dirigenti
che hanno governato, nei decenni, prima la televisione pubblica e
poi le televisioni commerciali.
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Conosciamo tuttavia le linee generali di sviluppo del nuovo
mezzo di comunicazione di massa nei cinque decenni in cui si articola la sua storia. Almeno fino alla fine degli anni Settanta
(quando iniziano a trasmettere le emittenti locali private e la Rai
inaugura il secondo e il terzo canale), la televisione pubblica italiana è una televisione “generalista”, sorvegliata con piglio garbato, ma fermo, per riguardo all’occhio cattolico e all’animo delle
masse popolari, che, sul piano culturale, svolge un lavoro indubbiamente di qualità elevata, anche se si muove lungo binari consolidati.
È interessante notare che quando Dore interviene nella programmazione opera a un livello «alto», ispirandosi a una reale volontà di approfondimento storico: nel 1957 cura il programma «Il
Partito Popolare Italiano»; nel 1960 «Omaggio a Salvemini»; ancora nel 1960 «Don Luigi Sturzo, primo anno dalla morte».
Ma a Dore si faceva ricorso per tante altre incombenze. Ad
esempio, nel 1956 egli viene nominato componente del «Comitato per l’istituzione delle biblioteche per il contadino» presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri (Ufficio del libro e della
proprietà letteraria artistica scientifica, Commissione nazionale
del libro): un’esperienza senz’altro affascinante, della quale purtroppo conosciamo poco o nulla.
Un episodio significativo (a prescindere dagli scarsi seguiti
avuti) della naturalità con la quale si pensava a Dore fu l’incarico,
da parte del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, di
dirigere la preparazione e la pubblicazione di una collana di
«Classici del pensiero cristiano», da proporre alla società italiana
e da utilizzare nelle attività di formazione del partito. Siamo nel
1949 e il responsabile del settore SPES, Giorgio Tupini, scrive a
Dore (6 agosto) per coinvolgerlo nel progetto, al quale tiene particolarmente lo stesso De Gasperi.
Dore si mette al lavoro e redige un elenco (che invia a Tupini il 5 settembre) di autori italiani (Cesare Balbo, Rosmini, Toniolo, Mauri, Murri, Meda, Sturzo), francesi (Lamennais, Montalembert, Ozanam, La Tour du Pin) e tedeschi (Ketteler), ispirandosi, come lui stesso scrive, «a un duplice criterio: a) documentare la ricchezza e gli sviluppi del pensiero sociale cristiano
durante il secolo 1821-1921; b) sceverare tra tanta mole di opere ciò che è più vivo e ha maggiori riferimenti colla attività politico-sociale d’oggi».
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Guardando a queste esperienze nel loro complesso, Dore ci
sembra un po’ come un esperto e un consulente di alto livello, di
cui non si potrà discutere la competenza, ma da cui neanche temere colpi di testa. In tutte queste attività Dore si comporta sempre con discrezione ed equilibrio, ma non può non essere considerato un innovatore: bisogna infatti sempre considerare il contesto dell’epoca e non trascurare l’autentico desiderio di comprendere, di studiare, di fornire una base di analisi al governo dei tanti cambiamenti che stavano trasformando l’Italia da Paese arretrato e rurale in Paese moderno e industriale.
Certamente Dore non si sottraeva a quella che a noi oggi appare un po’ come una liturgia, fatta di una lunga sequela di Convegni e Congressi, che nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta
la Democrazia Cristiana e il mondo cattolico non si stancavano di
organizzare, e che forse oggi si tende a liquidare troppo sbrigativamente. Se, infatti, pensiamo quale enorme bisogno ci fosse all’epoca di comprendere, di ideare e di innovare in un Paese che
usciva da vent’anni di dittatura e da cinque di guerra, possiamo
vedere sotto una luce diversa queste attività.
Ed ecco riunirsi i giornalisti cattolici, gli editori cattolici, il
Gruppo aziendale democratico-cristiano della Cassa per il Mezzogiorno. Ecco allora tanti Convegni, in cui prendono la parola
quelle che ancora si usava chiamare le loro eccellenze, a cui giungevano moltissimi messaggi di auguri. Nella loro riflessione si ritrovano molti degli spunti intorno a cui il Paese si è ricostruito e si
è sviluppato come non era mai successo in precedenza.
Dore spesso è presente e spesso interviene, qualche volta ai
massimi livelli, accanto ai grandi nomi dell’Italia dell’epoca. Facciamo solo un esempio, che vale non solo e non tanto nel merito,
ma perché è indicativo del suo impegno costante.
Nel novembre del 1958 è chiamato a presiedere il Convegno
dal titolo «Il secondo tempo della Cassa per il Mezzogiorno e la
politica di sviluppo in Italia», e prende la parola tre volte, per l’apertura, per la chiusura e per un intervento sulla scuola 29.
Nelle Parole di apertura dice di vedere con favore un proseguimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, del quale non si nasconde, accanto alle luci, le ombre, e individua «il
compito fondamentale dello Stato, cioè la creazione di un benessere che non sia fine a se stesso, ma che porti soprattutto a una
maggiore coscienza civica da parte di tutti i cittadini e quindi a
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quello che è il dato fondamentale di un’opera di rinnovamento, al
rinnovamento umano di tutte le popolazioni».
Nell’intervento Il problema della scuola nel Mezzogiorno chiede con convinzione un’originalità specifica per la scuola meridionale, per evitare «il rischio di trapiantare strumenti scolastici i
quali sono nati e si sono sviluppati e hanno avuto una loro precisazione giuridica in regioni che sono totalmente diverse, con bisogni totalmente diversi, che soprattutto hanno una mentalità totalmente diversa da quella meridionale». Dore suggerisce anche che
si affronti il problema di garantire una scuola di base insieme a
quello di offrire un’educazione agli adulti, così da agire in modo
virtuoso su tutta la comunità.
Nelle Parole di chiusura afferma che dai grandi meridionalisti
sono venute le più valide tra le grandi tesi della politica di oggi e
che per il futuro del Mezzogiorno bisogna puntare sul fattore
umano, unico modo per assicurare che l’intervento abbia la necessaria apertura.
3. L’editoria cattolica e l’Editrice Studium
Quando il ritorno alla normalità, nel 1945, gli aveva consentito la
necessaria tranquillità d’azione, Dore ebbe finalmente la possibilità di andare incontro – con la pienezza che le vicende del primo
dopoguerra, del fascismo e del secondo conflitto mondiale gli avevano negato 30 – alla sua vocazione di sempre, quella di essere un
operatore culturale, cristiano e moderno a un tempo, senza peraltro rivendicare meriti «antifascisti» o diritti di primogenitura.
L’attività editoriale, tra le tante altre che continua a condurre, almeno dal punto di vista della responsabilità personale diventa quella dominante: sarà lui infatti a essere chiamato alla direzione editoriale della casa editrice Studium, che manterrà, come abbiamo detto, per oltre un ventennio, dalla fine degli anni Quaranta all’inizio
degli anni Settanta. Si tratta di un dato non secondario, perché quella dell’editore è stata una figura importante, ancorché non molto diffusa, nell’Italia repubblicana, e all’interno del mondo cattolico.
Sono stati pochi, tutto sommato, nell’Italia che noi oggi chiamiamo della Prima Repubblica, gli editori «puri», quelle persone
cioè che si sono dedicate a un progetto di politica culturale per il
tramite di una impresa editoriale, fondendo insieme missione cul-
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turale e spirito imprenditoriale ed evitando, nel contempo, eccessive sovrapposizioni con altre attività culturali o con i mezzi di comunicazione di massa (è appena stata pubblicata la storia di uno
di questi pochi, Carlo Caracciolo, L’editore fortunato, a cura di
Nello Ajello, Laterza, Bari-Roma 2005, proprio colui da cui partì
l’idea di fondare L’Espresso nel 1955).
Dore è stato uno di questi pochi ed è stato uno dei pochissimi
cattolici (insieme a chi promosse e guidò, tra le altre, le esperienze editoriali della Morcelliana e dell’Editrice La Scuola a Brescia,
della Cedam a Padova, della Marietti a Casale Monferrato, di Vita e Pensiero a Milano, della Paravia e della SEI a Torino, della Libreria scientifica editoriale a Napoli 31) accanto a una schiera ben
più numerosa di editori laici (Einaudi, Garzanti, Feltrinelli, Laterza, Mondadori, Rizzoli, Sansoni, Il Saggiatore, Adelphi, per fare solo alcuni nomi 32), un certo numero dei quali raggiungeva
però dimensioni industriali, non paragonabili a quelle della maggior parte degli altri. In una posizione particolare le Edizioni di
Storia e Letteratura di don Giuseppe De Luca (con sede a Roma),
che si collocavano programmaticamente «in un ambito dialettico
di incontro fra cultura laica e cultura religiosa» 33.
Secondo i dati offerti da un’ampia ricostruzione di Albertina
Vittoria (alla quale si rimanda per l’appropriata contestualizzazione storiografica), gli editori associati all’Unione Editori Cattolici
Italiani nel 1958-1959 erano 71, di cui molti confessionali, mentre
nel 1963 vi erano in tutta Italia, in base ai dati dell’Associazione
Italiana Editori, 1.053 case editrici. Dunque in un Paese a netta
maggioranza cattolica, e governato da un partito dichiaratamente
cristiano, le case editrici cattoliche sono meno di 100 su un totale
di 1.000, e solo qualcuna di grandi dimensioni 34; anche se esistevano pubblicazioni cattoliche che raggiungevano un pubblico di
massa, come Famiglia Cristiana.
Va detto peraltro che se è vero che l’editoria cattolica in Italia
è stata minoritaria, sia prima sia dopo il fascismo, la sua storia non
è stata priva di significato e di sviluppi interessanti. Lo spazio non
trascurabile che essa è riuscita a ritagliarsi si deve a un drappello
di case editrici di qualità, e la Studium è stata – ed è – una di queste. Giampietro Dore ha vissuto da protagonista questa storia, rimanendo peraltro sempre un editore indipendente, sia rispetto alla gerarchia, sia rispetto ai partiti, in particolare alla Democrazia
Cristiana.
Giampietro Dore e Studium
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Questa storia resta in gran parte ancora da scrivere, considerando che essa è stata fino ad ora oggetto di pochi studi specifici, mentre
nel più ampio quadro della storiografia contemporaneistica italiana
non sono mancate negli ultimi anni le prime «storie dell’editoria» 35.
Pur limitandoci per il momento a dire che ci fu dopo la guerra un sostanziale rinnovamento dell’editoria italiana, ivi compresa
quella cattolica, va rilevato che è stato Dore a dare uno dei maggiori contributi in questa direzione, sia «agganciando» la cultura
cattolica italiana alle correnti internazionali di rinnovamento e aggiornamento, sia «modernizzando» il prodotto editoriale (principalmente con la collana «Universale Studium»), sia «diversificando» le proposte di vendita al lettore, con le varie altre collane da
lui, e dal gruppo da lui coordinato, pensate.
Ma sentiamo da Dore stesso chi dovrebbe essere e come dovrebbe lavorare un editore, e un editore cattolico in particolare.
Grazie infatti alla sua intensa «militanza» nelle più svariate organizzazioni associative dell’epoca, disponiamo degli interventi da
lui tenuti in occasione dei Congressi degli Editori Cattolici Italiani, mentre, purtroppo, ma ne parleremo più avanti, non disponiamo dell’archivio della casa editrice Studium 36.
Nella relazione al VI Convegno dell’Unione Editori Cattolici
Italiani (Recoaro Terme, settembre 1958), dal titolo «Capisaldi di
una deontologia dell’editore» 37, dopo aver detto, in un precedente intervento, di avere scarsissima fiducia nelle regolamentazioni
dall’esterno e molta fiducia nell’autocontrollo personale e soprattutto nell’autocontrollo di categoria, Dore afferma che sul piano
legislativo sarebbe meglio un’attenzione all’editoria di tipo globale
più che di tipo settoriale. Ricorda che l’Associazione Italiana Editori si è data regole serie di qualità, tra cui quella che stabilisce che
per entrare bisogna essere editori già da tre anni («noi non ammettiamo chiunque dica di essere editore, ma aspettiamo, per accettarlo, che dimostri di essere effettivamente un editore. Inoltre chiediamo requisiti morali»).
In particolare, Dore afferma che l’editore è persona che ha
una funzione magisteriale e al tempo stesso svolge il ruolo di imprenditore. È persona dunque soggetta a due leggi, a due spinte:
le leggi proprie del magistero e quelle dell’attività imprenditoriale. Potrebbe accadere – si domanda Dore – che la spinta imprenditoriale, che non è esclusivamente di natura economica ma anche
gusto dell’impresa, debba scontrarsi con la funzione magisteriale?
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Andrea Ambrogetti
O il contrario? Cioè che per seguire la vocazione magisteriale si
compromettano le leggi imprenditoriali? La risposta che Dore si
dà come editore veramente laico è che è necessario il rispetto di
entrambe le leggi. Uno squilibrio o dell’una o dell’altra finirebbe
col comprometterle entrambe.
La funzione magisteriale è comunque mediata, sostiene Dore,
perché sono gli autori che svolgono ricerca e creano le opere. L’editore è inevitabilmente mediatore tra autori e pubblico. L’editore ha però un dovere morale verso gli autori: promuovere i giovani autori, «autori che devono essere lanciati, autori che devono essere resi noti, senza fargli perdere il gusto di far maturare la propria esperienza, senza bruciare le tappe, ma lasciando un tempo di
apprentissage».
L’editore ha poi un dovere deontologico verso il pubblico, e
cioè quello di presentare un libro per quello che è, e non per qualcosa di meno o di più. In particolare c’è un dovere verso il pubblico che è più profondo rispetto alle stesse esigenze dei lettori,
cioè «l’editore deve rispondere a quelli che sono i bisogni della società del momento nel quale l’editore opera e a quelli che sono i
bisogni di alcune grosse categorie sociali» (e denuncia un ritardo
in particolare verso i lettori con bassa scolarizzazione, affermando: «C’è ancora un pubblico da conquistare»).
Al VII Convegno, due anni dopo, nel 1960 38, introducendo i
lavori, il direttore della Studium afferma che l’editore ha la «necessità di vedere e di individuare, di distinguere i lettori, di precisare le esigenze di questa che non è una massa amorfa di pubblico
a cui noi possiamo rivolgerci indiscriminatamente, ma che è un
pubblico composito, che va atteggiandosi secondo i tempi, secondo i diversi strati; che soprattutto è un qualcosa di vivo, che si
muove, che noi dobbiamo avere costantemente presente».
L’Editrice Studium era sorta con la forma della cooperativa
nel 1927 per volontà di un’area di persone che faceva riferimento
alla Fuci, e in particolare all’Assistente Giovanni Battista Montini
e al Presidente Igino Righetti. La forma cooperativa fu scelta in
mancanza di altri strumenti in qualche modo associativi per svolgere attività editoriale. I soci fondatori, riprendendo il nome e la
tradizione della rivista fucina omonima, vollero l’Editrice come
strumento da porsi al servizio degli studenti universitari, cristiani
in primis, non immaginando che nei decenni successivi essa avrebbe allargato molto il suo campo d’azione.
Intervento di Giampietro Dore all’Assemblea dell’Editrice Studium (25 aprile 1954). A destra, Silvio Golzio; a sinistra, Romolo Pietrobelli. In basso,
Giampietro Dore con Aldo Moro.
In alto, Convegno dell’Unione Editori Cattolici Italiani (12-16 giugno 1960).
In basso, udienza di Paolo VI ai soci e agli autori dell’Editrice Studium (10
febbraio 1964).
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Andrea Ambrogetti
A differenza di tante altre case editrici che nascono e muoiono senza che di loro resti traccia degna di nota, la Studium ebbe
una certa fortuna e si ritagliò un posto di rilievo nella storia dell’editoria italiana del dopoguerra. Il suo destino fu quello di trasformarsi gradualmente da strumento di servizio del mondo universitario cattolico in un interlocutore avanzato del più ampio
mondo cattolico italiano, svolgendo un ruolo fondamentale di
modernizzazione della cultura cattolica, soprattutto intorno al
passaggio epocale segnato dal Concilio Vaticano II.
Se negli anni Venti e Trenta la casa editrice aveva pubblicato
soprattutto corsi di teologia e documenti pontifici, riservando anche una certa attenzione alla dimensione professionale, a partire
dalla seconda metà degli anni Quaranta, in connessione con la ripresa della vita politica e istituzionale, nella quale i cattolici sono
chiamati a svolgere un ruolo di primo piano, inizia a prestare maggiore attenzione ai temi politici e sociali (viene, tra l’altro, pubblicato il noto Codice di Camaldoli) e offre un contributo rilevante ai
lavori dell’Assemblea Costituente.
Prendono corpo in questi anni due di quelle che saranno le
caratteristiche vincenti della Studium, vale a dire l’articolazione
della produzione in diverse collane, rispondente ad una strategia
che potremmo chiamare oggi per target, e l’ampio spazio dedicato alla divulgazione, affidata volutamente ad autori italiani.
Nel 1946 la collana «Cultura» prende avvio con la pubblicazione della versione italiana di Umanesimo integrale di Jacques Maritain e de La Giustizia di Giorgio Del Vecchio. Prende corpo anche
la fortunata serie dei Dizionari di teologia, dogmatica, biblica, storico-religiosa, di liturgia, di teologia morale, di spiritualità.
Le tante collane che seguirono – «Cattedra», «Orsa», «Esami di
coscienza», «Cultura», «Universale», «Verba Seniorum» (quest’ultima fondata da Giuseppe Lazzati e Michele Pellegrino, dedicata agli
studi di letteratura cristiana antica) – rispondevano ognuna alle esigenze di un certo settore del pubblico. Veniva così realizzata una effettiva programmazione editoriale, cosa che all’epoca, negli anni Cinquanta e Sessanta, rappresentava un’innovazione non di poco conto.
Dore partiva dalla constatazione che nell’Italia del boom economico, della scolarizzazione e della motorizzazione di massa andava formandosi una società nuova e che per l’uomo di cultura
era necessario chiedersi: «Come raggiungere le masse e nello stesso tempo aggiornare, innovare?»
Giampietro Dore e Studium
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Se si guarda a come Dore affronta questa situazione, appare
evidente che la strada da lui imboccata – quella del rinnovamento
– è la più difficile, ma anche l’unica vincente, a patto che si abbia
il coraggio di fare tanto ricerca intellettuale quanto divulgazione,
come farà con la Universale, e di farlo puntando soprattutto su
autori del proprio Paese (ed ecco perché saranno pubblicati quasi solo autori italiani e pochissimo spazio avranno le traduzioni).
Autorevoli testimoni 39 ricordano che quando fu lanciata l’Universale Studium, cioè nel dicembre 1951 (nella sala da pranzo di
casa Montini in Vaticano fu scelto come logo il cerbiatto, disegnato da Ivo Murgia), venne formato un comitato editoriale apposito,
che si riuniva periodicamente per mettere a punto l’iniziativa e
studiarne le linee di sviluppo.
È chiaro, ma vale per tutta la storia della Studium, che c’è uno
scambio costante tra responsabili della casa editrice (Dore dopo il
’46), responsabili delle collane, gruppo dirigente della Fuci e del
Movimento Laureati, e l’allora Sostituto della Segreteria di Stato
mons. Montini, il quale, come è noto, era il punto di riferimento
di un’area molto ampia di personalità e di gruppi. A svolgere infatti un ruolo di primo piano, soprattutto nei primi anni, ci sono
senz’altro molte altre persone, tra cui mons. Giovanni de Menasce, Fausto Montanari, Antonio Cassano, ma Montini aveva un
peso particolare e non mancava di indicare autori e libri da pubblicare. Almeno fino al 1955, quando viene nominato arcivescovo
di Milano, assumendo un incarico con un rilievo istituzionale
molto rilevante, Montini interagisce personalmente con Dore e
con l’area di persone che anima la vita della Studium. Il direttore
editoriale Dore ha un ruolo indubbiamente fondamentale, ma la
sua azione va vista sempre all’interno di questa complessa rete di
relazioni.
Con volumi scritti da specialisti, ma rivolti non a specialisti
bensì al grande pubblico, aperta a collaborazioni della più varia
provenienza, accessibile anche alle finanze più modeste, l’Universale Studium ebbe una notevole affermazione, testimoniata dal
traguardo dei 124 titoli pubblicati, di cui molti di successo, anche
sul piano delle vendite.
Tra i volumi più fortunati, quello di Pietro Prini sull’esistenzialismo, che vendette ben 27.000 copie (Prini quasi in contemporanea pubblicò un libro in Francia su Gabriel Marcel, che era
allora uno dei più illustri esistenzialisti cristiani, riscuotendo lo
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Andrea Ambrogetti
stesso ampio successo), ma anche Il romanticismo di Mario Puppo, giunto al 41° migliaio, La natura e l’uomo di A. Ghigi, al 32°,
La letteratura latina cristiana di M. Pellegrino, al 25°, Il folklore di
P. Toschi, al 24°.
Giovanni Battista Scaglia ricorderà nel 1977 questa collana
come quella che «per l’autorità dei loro autori, ha contribuito
più di qualsiasi iniziativa a far conoscere il nome e a consolidare
il prestigio di una casa editrice che si è potuta presentare sempre
con le credenziali della sua serietà scientifica e della sua coerenza ideale» 40.
Della Universale Studium Angelo Gaiotti ha messo in particolare evidenza l’attenzione per la storia: «Proprio in questa collana si esprimeva del resto l’interesse per il valore della storia, sotto forma di storia del movimento cattolico moderno (ed ecco i volumi di Fonzi, De Rosa, Scoppola) [...]. L’attenzione alla storia in
Dore era un segno dell’interpretazione della cultura come disponibilità e capacità di vivere l’amore di Dio e del prossimo nelle dimensioni del tempo, di incarnarlo e autenticarlo liberandolo dalla
tentazione dei formalismi» 41.
Dore, d’altronde, aveva sempre mostrato un’attenzione specifica anche alla storia dei movimenti del laicato cattolico, prima negli anni Trenta 42, e poi curando nel 1960 il volume Il Movimento
Laureati di Azione Cattolica 43, in cui, spiega Gaiotti, «indicava i
caposaldi di questo singolare movimento di intellettuali cristiani
forse irripetibile nella storia della cattolicità italiana: impegno religioso, impegno culturale, impegno professionale, impegno civico: tutti all’insegna del primato dello spirituale e sulla direttrice di
un ordine nuovo già maturata prima della guerra e specificata dopo il conflitto in un rinnovato ancoraggio alla cultura e nella rigorosa distinzione tra l’ambito dell’azione politica e quello dell’azione cattolica (dimensione culturale e distinzione di responsabilità
su cui si era misurato vivacemente e dolorosamente il dibattito interno dell’Azione Cattolica nel primo decennio post-bellico)» 44.
Merito di questi risultati positivi fu, tra l’altro, il fatto che Dore
era in grado di cogliere occasioni editoriali impreviste, comprese
quelle proposte da giovani autori, e non si limitava a recepire un’opera bell’e pronta, ma interveniva sul suo «confezionamento».
Fra altre iniziative, nel 1957, decise di pubblicare il primo libro, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, di uno studioso
che sarebbe diventato uno dei più rilevanti storici italiani, Pietro
Giampietro Dore e Studium
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Scoppola, aiutando così l’autore, che si era visto rifiutare il saggio
dalle Acli, dopo che questa organizzazione glielo aveva commissionato. Se dunque poteva, aiutava i giovani ricercatori, anche
mettendo in contatto giovani autori con grandi caposcuola (come
fu, nel caso di Prini, Giuseppe Capograssi).
Un atto di coraggio fu la decisione di pubblicare un libro sulle case chiuse (La questione delle case chiuse, 1952) di Luigi Scremin, medico e umanista, nonché inflessibile antifascista (è così
che lo ricordava Norberto Bobbio) 45, nonostante il mondo cattolico fosse preoccupato e perplesso su questa delicata questione.
Un’altra operazione coraggiosa fu la pubblicazione di testi di
psicologia, che erano d’avanguardia per l’epoca, e talvolta non
graditi. La Studium ne pubblicò ben cinque di Adriano Ossicini
(Problemi di psicologia dell’età evolutiva, 1953; Problemi di psicologia clinica, 1957; Questioni metodologiche nella psicologia contemporanea, 1964; Esperienze di psicologia di gruppo, 1964; Orientamenti metodologici nella psicologia moderna, 1972), i primi
quando l’autore era ancora giovane e poco conosciuto.
Della Studium non ci resta ora che scorrere tutto il «Libro dell’Editore» 46, che è in ogni caso il documento più importante per
ogni casa editrice, piccola o grande che sia (a differenza dell’archivio, il catalogo è uno dei pochissimi documenti oggi disponibile). Sulla copertina leggiamo una grande scritta a mano: «Libro
delle Pubblicazioni. Soc. An. Cooperativa Editrice Studium», intestazione che dopo una legge del 1939 sulle attività editoriali diventa «Registro dell’Editore», con tanto di iscrizione al Registro
della Prefettura, il 30 maggio 1941. Si tratta di 52 grandi fogli che
iniziano il 1° luglio 1932 e terminano il 27 dicembre 1973. Sotto,
una frase scritta a penna: «In data 23 settembre 1973 la società è
stata posta in liquidazione. L’attività cessa in data 31 dicembre
1973». A parte il fatto che gli anni tra il 1927 e il primo semestre
del 1932 non sono compresi, ecco che cosa troviamo tra tutti i titoli che lungo quarant’anni vengono pubblicati.
Negli anni Trenta, tra gli autori ci sono Pio XI, Luigi Gedda,
Luigi Scremin (tra l’altro, con Il processo di Galileo e la questione
galileiana), G. B. Montini (Introduzione allo studio di Cristo, Appunti per la storia della diplomazia pontificia nel secolo VIII), Guido Gonella, Emilio Guano e, puntuali, gli Annali della Fuci.
Dal 1941 notiamo ricorrere spesso i nomi di Fausto Montanari, Augusto Baroni, Luigi Scremin; ancora, Emilio Guano, ma an-
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Andrea Ambrogetti
che Adriano Bernareggi, Amintore Fanfani, le encicliche sociali
dei Papi a cura di Igino Giordani (che avrà varie edizioni), P. E.
Taviani, Umanesimo integrale di Maritain nella seconda edizione
(finita di stampare nell’agosto 1947, con una tiratura di 4.000 copie), Sergio Paronetto.
Dal 1950 osserviamo Giuseppe Siri, il già ricordato Pietro
Prini, Pasquale Saraceno (Lo sviluppo economico dei paesi sovrappopolati, 1952), il libro dello stesso Dore su Savonarola, Pio XII
con i Discorsi agli intellettuali. 1939-1954 e i Discorsi per la comunità internazionale. 1939-1956, i vangeli secondo san Marco, san
Matteo, san Luca nella collana Verbum Salutis, Gabriele De Rosa
nel 1955 con La crisi dello stato liberale in Italia e nel 1957 con
Giuseppe Sacchetti e l’opera dei congressi; ancora Fanfani, Scremin, Montanari, il già ricordato Scoppola, Mario Ferrari Aggradi
con un pionieristico L’Europa. Tappe e prospettive di unificazione,
Giuseppe Capograssi.
Dal 1960 in poi vediamo Tullio Tentori, prima con Antropologia culturale e poi con Il pregiudizio sociale, che rappresenta un
altro momento di coraggiosa apertura, Carlo Alfredo Moro, Salvatore Garofalo, le encicliche di Giovanni XXIII Mater et Magistra (con Introduzione di Igino Giordani) e Pacem in Terris, un
libro collettivo (Ambrosetti, Della Rocca, De Rosa, Fonzi e altri)
per il neonato Istituto Luigi Sturzo dal titolo I cattolici e il Risorgimento, varie raccolte di discorsi o encicliche di Paolo VI,
varie opere di diritto di Giovanni Ambrosetti e di Pietro Pavan,
ancora Fausto Montanari, un’opera di Italo Mancini (L’essere.
Problema, teoria, storia, 1967), di nuovo Pietro Prini (Gabriel
Marcel e la metodologia dell’inverificabile), Giovanni Cattaui de
Menasce con Discorso sull’autorità, Attualità di A. Rosmini di
don Clemente Riva del 1970 (il quale pochi anni dopo sarà nominato da Paolo VI vescovo ausiliare di Roma), la Storia della
Federazione Cattolica Universitaria Italiana, di Gabriella Marcucci Fanello, nel 1971.
L’ultimo titolo pubblicato risulta quello di Vladimir Boublik,
Teologia delle religioni, finito di stampare il 27 dicembre 1973.
Con l’inizio degli anni Settanta per la casa editrice Studium si
apre un periodo di crisi. Diversi fattori concomitanti, tra i quali il
moltiplicarsi degli editori che, tra l’altro, sulla spinta dell’interesse suscitato dal Concilio Vaticano II, si occupano di temi religiosi
(ma anche «l’aumento dei costi tipografici e della spesa per il per-
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sonale in una proporzione non più compatibile con le dimensioni
della cooperativa») 47 mettono a dura prova la tenuta della Studium. Per assicurarsi un futuro è necessario «entrare» in un gruppo più grande, che verrà poi individuato ne l’Editrice La Scuola di
Brescia, a partire dal 1974. Ma la guida di questa nuova fase non
ricadrà sulle spalle di Dore. Egli scompare infatti nell’ottobre
1974.
4. Dore direttore editoriale: un bilancio personale
Considerando che Dore è stato responsabile della casa editrice
Studium per un lunghissimo periodo, quando viene intervistato 48
per trarre un bilancio della propria attività di editore, ci consegna
un documento di un certo interesse. Rispondendo alle domande
che gli vengono poste, egli finisce per fornire un quadro che abbraccia due o tre decenni di storia editoriale di una parte importante della cultura italiana (anche se non bisogna certo dimenticare i rischi legati al fatto che Dore è allo stesso tempo il protagonista e il narratore di questa storia).
Subito Dore avverte: «Evidentemente una casa editrice anche
molto modesta, com’è la casa editrice Studium, aveva un determinato programma culturale. Una casa editrice che non abbia un
programma culturale, specialmente quando si tratta di case editrici di non eccessive dimensioni, non regge, insomma non ha una
sua ragione autentica di vita».
Per quanto riguarda le modalità con cui ha messo in atto la
sua opera, Dore afferma che «ha puntato ad autori italiani, così da
avere a disposizione un numero non piccolo di testi di divulgazione e abbandonando la prassi di immettere nel mercato italiano testi divulgativi tradotti e di fare tutto questo in un settore come
quello delle scienze religiose».
A proposito di queste ultime, anche Dore si avvede per certi
versi del paradosso dal quale siamo partiti: «A parte la considerazione obiettiva di una strana posizione italiana secondo la quale
gli studi religiosi o le scienze religiose hanno scarso diritto di cittadinanza nel mondo della cultura, tuttavia – a parte questo, ripeto – c’era sempre da parte nostra la necessità di portare a conoscenza del pubblico colto italiano anche quelli che erano determinati risultati avuti da studiosi italiani proprio in questo campo
specifico della cultura».
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Andrea Ambrogetti
Nacque così la collana Universale nella quale, secondo ancora le parole di Dore, «viene esposto il pensiero, diciamo così, cattolico in tutta la vastità che il termine cattolico comporta». Per
poterla realizzare, egli rileva, si è dovuta «vincere una certa resistenza iniziale da parte degli studiosi i quali spesso essi stessi, in
modo non del tutto cosciente, avevano assorbito questa specie di
complesso di inferiorità verso la divulgazione».
L’accoglienza della collana, come abbiamo già detto, è stata
molto positiva. È lo stesso Dore a rivendicare il fatto che «L’Universale di Studium si vende dalle librerie [...] esattamente come si
vendono tutte le altre Universali, qualunque ispirazione abbiano». Per quanto riguarda le tirature, a parte casi specifici, si va da
un minimo di 7.000 copie a un massimo di 10.000 copie.
Dore riconosce allora che l’intuizione originale è stata lungimirante e ha avuto un impatto nel tempo: «Noi non abbiamo
cambiato direi di rotta né avuto nuovi criteri unicamente perché
eravamo certi in partenza della validità di questi nostri criteri».
Altro aspetto fondamentale è che «il 90% dei volumi dell’Universale sono volumi richiesti da noi»; è dunque la casa editrice a coltivare una linea e a identificare a mano a mano gli autori che ritiene più consoni.
Ed ecco un altro elemento rivelatore dell’impostazione complessiva che Dore ha dato al suo lavoro: l’attenzione per le masse
popolari: «Io credo che queste collane qui [...] ma specialmente
una collana impiantata come la nostra, cioè che ha un aggancio
immediato con quello che è il pubblico italiano, possa anche proprio portare alla rottura di un determinato isolamento che indubbiamente oggi c’è».
Ma rivolgersi a tutti non vuol dire né annacquamento né indottrinamento, e netto infatti arriva anche il rifiuto per l’apologetica:
«[...] io non avrei nessuna obiezione domani – del resto si è già verificato nella Universale – che per alcuni argomenti scrivessero anche persone che non sono cattoliche. Insomma, il concetto che i
cattolici quando si occupano di fisica o di biologia, ecc. devono
sempre finire dicendo: “Ah, benissimo, oggi abbiamo scoperto l’atomo, abbiamo scoperto il protone, ecc. attraverso questo vediamo
la armonia dell’universo” ormai appartiene a un genere apologetico
assolutamente legato al passato, che oggi non regge più».
Un intento culturale finalizzato ad un pubblico molto vasto e
popolare, dunque, Dore lo ricerca, e a questo proposito lucida-
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mente afferma: «Se dovessi fare un rimprovero, che evidentemente incomincio col fare a me stesso, rileverei un grosso errore che
facciamo un po’ tutte le case editrici. E questo errore consiste nel
pensare soltanto a un pubblico di lettori che abbiano un determinato livello culturale. [...] Non c’è nessun editore il quale pensi seriamente o abbia pensato a tutto un altro pubblico enorme di lettori potenziali [...] e cioè a tutto quel pubblico che ha avuto e continuerà ad avere una cultura che non arriva alle secondarie superiori. Dove l’esigenza dell’educazione culturale [...], l’esigenza da
parte di questi è vivissima. Lei pensi a qualcosa come 300 mila ragazzi di 13 anni che ormai escono dalla scuola di avviamento e che
al massimo fanno l’istituto professionale. Noi abbiamo 300 mila
lettori potenziali dei quali non si occupa nessuno».
5. L’impatto di una casa editrice: la valutazione dei fondatori
È sempre difficile effettuare una valutazione circa l’impatto di una
casa editrice, se non altro per i tanti fattori ed elementi che dovrebbero essere presi in considerazione, ma soprattutto perché le
imprese intellettuali e culturali valgono anche solo per lo spirito
che le anima, per le idee che propugnano, per l’apertura e l’intelligenza che le contraddistinguono.
Non proveremo dunque direttamente a «misurare» quanto
l’attività della casa editrice Studium abbia più o meno contribuito
a formare la cultura dei cattolici italiani, ma ci limiteremo a fornire tre contributi «dal di dentro», che potranno aiutare a tracciare
un primo quadro della situazione.
Non va ovviamente tralasciato che, da un punto di vista metodologico, è sempre delicato prendere in considerazione i bilanci che di una esperienza storica provengono dagli stessi suoi protagonisti-fondatori e partecipanti all’impresa.
Tuttavia la particolarità dei tre contributi di cui disponiamo ci
spinge a correre il rischio. I primi due vengono dallo stesso Montini, il quale parla nel 1952 e nel 1964 49, e il terzo da una persona
che la storia della Fuci e della Democrazia Cristiana l’ha attraversata per gran parte della sua lunghezza, Giovanni Battista Scaglia,
il quale scrive nel 1977, in occasione dei cinquant’anni delle Edizioni Studium 50.
Non capita tanto spesso che tra i fondatori di una casa editrice ci sia un futuro Papa e che lo stesso abbia ben due occasioni,
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Andrea Ambrogetti
nei decenni successivi, di tracciarne un bilancio. E se è vero che
l’autovalutazione è sempre sospetta, resta tuttavia il fatto che il valore storiografico di questi due pronunciamenti montiniani, provenienti da una delle personalità più significative del Novecento
cattolico, non solo italiano, è davvero unico.
Nel 1952 il Montini che parla ai suoi amici degli anni Venti e
Trenta non è più l’ex assistente che si industria per superare la bufera del fascismo, ed è uno degli esponenti più significativi della
Chiesa italiana della fine degli anni Cinquanta e dei primi anni
Sessanta. Montini ritorna agli anni in cui «l’atmosfera universitaria e soprattutto l’atmosfera politica non era favorevole alla Fuci».
La finalità era quella della «formazione delle generazioni universitarie»: era l’idea di mons. Pini e poi la «preoccupazione» di
Igino Righetti. Montini racconta prima la nascita della rivista Studium e poi illustra l’esigenza di avere «intorno a essa una corona,
una piccola casa editrice nostra, composta da soci nostri, che darà
al movimento universitario il suo organo editoriale».
Il contesto in cui ciò avveniva era per Montini segnato dal «distacco» tra la Chiesa e il mondo moderno, che occorreva attenuare se non colmare con un serio impegno di ricerca, alieno dalle improvvisazioni.
Finalità della nuova casa editrice era quella di «essere uno
strumento di servizio editoriale allo studente universitario», anche perché (punto interessante) «anzitutto la Studium ha cercato
di allenare lo studente ad esprimere, a scrivere, cosa che ancora in
Italia è assai arretrata. Gli studenti dell’estero, francesi specialmente, e credo anche quelli di lingue anglosassoni, scrivono molto di più, hanno maggior capacità di espressione [...] e questo credo che dipenda in gran parte anche dalla facilità con cui il lavoro
è raccolto dal ciclostile, dal Webster e poi anche dalle editrici universitarie».
In secondo luogo la nuova casa editrice aveva lo scopo di «solidificare» l’indirizzo intellettuale della Fuci e di iniziare «a un pensiero metodico, a una formazione sistematica della mentalità superiore», anche attraverso il confronto con lo strumento libro, che
costringe a una trattazione sistematica di un tema ben preciso.
Dopo la fondazione (l’atto costitutivo è del 17 giugno 1927),
Montini ricorda che la prima collezione fu «La cattedra», voluta
per rendere accessibile la parola dei pontefici e per farne scoprire i
tanti aspetti di interesse, compresi quelli di «modernità».
Giampietro Dore e Studium
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Ricordati alcuni primi autori, Montini parla della seconda
collana «L’Orsa», cioè i «libri dell’anima», libri di preghiera, libri
di «intimità interiore», e della terza, che fu «la grande novità», la
«Universale Studium», «rispondente ai bisogni del nostro tempo.
Non solo per l’abitudine commerciale: non si comprano che i libri
che stanno in tasca, non si comprano che i libri di cento pagine».
Montini conclude il suo discorso augurando un grande avvenire alla Studium, visto che c’è un «bisogno enorme della carità intellettuale», e che il «servizio amoroso alla verità è appena agli inizi».
Dodici anni dopo, nel 1964, è ormai il papa Paolo VI a ripercorrere la storia della Studium, in occasione dell’udienza da lui
concessa il 10 febbraio, che viene fatta coincidere con un’Assemblea straordinaria della Editrice, durante la quale veniva commemorato il professor Luigi Scremin.
Paolo VI riceveva nella Sala del Concistoro i soci e gli autori
e, in risposta a un indirizzo di omaggio del presidente della Editrice, pronunziava un discorso «ricco di felici ricordi e di paterni
voti», come recita l’opuscolo che ne raccoglie fotografie e testi 51.
Da questo discorso traspare, accanto al lucido ragionamento
storico e culturale, il profondo coinvolgimento personale di Montini nella casa editrice: si sente la sua soddisfazione per i risultati
raggiunti «dall’umile impresa editoriale d’un tempo», quella che
chiama fenomeno di «un’opera studentesca, altrettanto povera
che ardita, vittoriosa nel tempo e in tante significative manifestazioni più unica che rara nel suo genere».
Il Papa dice inoltre che «custodisce le memorie degli inizi con
commozione». Si dispiace per il poco tempo per leggere che ha a
disposizione, ma confessa di non aver «perduto l’antica nostra affezione per i libri, ché, anzi, stimolata dagli stessi doveri del Nostro ministero, essa è nel Nostro spirito tuttora avida ed operante,
come passione a cui gli anni non portano rimedio, sì bene sempre
nuova vivacità».
Volendo poi accennare al grande tema della cultura cattolica
italiana, dice che «vede la Studium come strumento di servizio alla
cultura, nella sua triplice e simultanea espressione di cultura universitaria, italiana e cattolica». Un aspetto fondamentale di questa
casa editrice è dunque quello di fare della cultura cattolica un principio di coesione, di comunione di idee, di amicizia spirituale, di
collaborazione intellettuale: «Associazione per la cultura è episodio
abbastanza frequente ma cultura per l’associazione non così».
280
Andrea Ambrogetti
Il Papa ricorda infine che la Studium, editrice e rivista, «tendeva a essere cenacolo e a suo modo lo fu; servì da scudo nei confronti della servilità e della prepotenza di anni difficili anche per il
settore della scuola e della cultura; il piccolo esperimento portò a
una fioritura del libro cattolico, anche se non conquistò i primi
posti nel campo dell’editoria».
Tredici anni dopo, nel 1977, passati cinquant’anni dalla fondazione delle Edizioni Studium, è Scaglia a notare che l’editrice «fin
dai suoi inizi (è) mossa dalla convinzione dell’importanza vitale di
una presentazione moderna delle verità di fede» e per questo si cerca di rendere la «teologia accessibile alla mentalità e alla sensibilità
moderna, con riferimenti diretti alle idee e alle correnti di pensiero
della cultura contemporanea». Due mondi, quello della fede e quello della cultura moderna, che «occorreva avvicinare, non con frettolose improvvisazioni, non con accostamenti superficiali, ma con
un onesto impegno di ricerca, con uno sforzo volto a cogliere nell’insegnamento della Chiesa i motivi più attuali e più vivi».
A partire dal 1933, è ancora Scaglia a ricordarlo, cambia il rapporto con la Fuci e la rivista Studium viene assunta come organo del
nascente Movimento Laureati: «Le conseguenze del graduale ma
inesorabile prevalere, tra i responsabili della conduzione dell’Editrice e nel pubblico a cui essa si indirizza, dei laureati sugli studenti
non tardano a manifestarsi – dice Scaglia –. È un processo sostanzialmente positivo di maturazione e di consolidamento, che consente di affrontare iniziative via via più consistenti».
Fino al 1939, secondo Scaglia, «rivista, editrice, movimento,
non sono che le facce diverse di una sola realtà, di un solo impegno di mobilitazione di idee e di volontà, in vista del grande obiettivo di una presenza cristiana viva, efficace, coerente nel mondo
italiano della cultura e delle professioni e che si riassume in un nome solo, quello di Igino Righetti».
La prematura scomparsa di Righetti, il 17 marzo 1939, fino a
quel momento punto di riferimento di questa sfaccettata realtà,
impone un maggiore coinvolgimento di altre persone: prima di
Renzo Enrico De Sanctis e poi di Sergio Paronetto, rispettivamente presidente e vicepresidente, con i quali inizia la seconda fase di vita della Studium, fortemente limitata però dalle drammatiche vicende belliche.
Non mancano, tuttavia, perfino nei primi anni Quaranta, i momenti importanti. Su tutti, Scaglia ricorda la nuova collana «Cultu-
Giampietro Dore e Studium
281
ra», che considera tra quelle che danno una caratterizzazione definitiva alla casa editrice, «apertasi con Umanesimo integrale di Maritain nella traduzione di Giampietro Dore riveduta dall’autore [...].
Sul libro di Maritain si forma un’intera generazione di cattolici, che
fanno proprie le sue fondamentali distinzioni».
Ma la speciale relazione che lega la casa editrice alle associazioni del laicato cattolico non ha ancora trovato una stabilizzazione definitiva. Dice Scaglia che questo «apparirà chiaro negli anni
Cinquanta, in una fase di preoccupante involuzione dell’Azione
Cattolica. Non potendosi escludere la possibilità di qualche pericolo per la effettiva autonomia e per la coerenza ideale della Fuci
e del Movimento Laureati, sarà ancora all’Editrice Studium che si
farà ricorso per garantirsi uno strumento e uno spazio di libertà
per il caso di una sopraffazione, che di fatto non si verificherà; e la
rivista “Studium”, con regolare atto notarile stipulato tra il presidente del Movimento Laureati e il presidente dell’Editrice, verrà
riconsegnata di fatto e di diritto a quest’ultima, con il solo corrispettivo, per la verità determinante, dell’impegno a conservare intatto l’indirizzo ormai cinquantennale. Ma fu, come si è detto,
precauzione superflua, fortunatamente».
Nell’eterna oscillazione tra un versante più democratico e uno
più autoritario della lettura dei rapporti tra fede e politica, la casa
editrice Studium e l’omonima rivista rappresentano dunque una
riserva strategica, quasi un patrimonio intangibile, in cui eventualmente rifugiarsi in vista di tempi migliori.
6. L’utopia di Dore: una politica culturale per il cattolicesimo democratico
L’articolo pubblicato su Il Popolo il 9 ottobre 1984 da Gabriella
Marcucci Fanello, in occasione dei dieci anni della morte di
Giampietro Dore, è titolato, magari non dall’autrice, Fece conoscere in Italia il pensiero di Maritain 52. Ma per quanto estrema, è
questa o non è questa la migliore sintesi dell’opera culturale e di
ricerca intellettuale pluridecennale di Dore?
Se la risposta è affermativa, vuol dire che alla traduzione e alla
pubblicazione degli scritti di Jacques Maritain, che di fatto proponevano una nuova lettura dei rapporti tra fede e politica al passo con
il contesto del ventesimo secolo, in uno dei Paesi più cattolici del
282
Andrea Ambrogetti
mondo, in cui vive il Papa e i cattolici sono alfine andati al potere, bisogna assegnare la stessa portata storica e la stessa rilevanza culturale di «operazioni» analoghe compiute dalle altre grandi famiglie
ideologico-culturali del Paese? Ad esempio, di quella fatta con la
pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci 53 da parte dell’editore Einaudi, patrocinata da Togliatti in persona, «progetto editoriale
inserito in una strategia politica di largo respiro che nell’opera gramsciana intende fissare un punto di svolta nella storia del socialismo
nazionale, il quale da movimento limitato alla battaglia per l’emancipazione del proletariato diventa caposaldo del rinnovamento dell’intera società italiana, con la quale veniva affermata la possibilità di
una via italiana al socialismo, consapevole delle peculiarità storiche e
sociali del paese» 54.
Il lavorio della coppia Montini-Dore – per quanto ovviamente
entrambi dotati ognuno della propria autonomia – aveva dunque
più o meno le stesse intenzioni di quello di un Togliatti (e della leadership del comunismo italiano più in generale, che poi sul piano
dell’egemonia culturale è stato gran parte della leadership della sinistra italiana), cioè di «traduzione» nel contesto contemporaneo di
un grande «messaggio», di un grande sistema di pensiero, di una
grande «ideologia»? E comunque, se le intenzioni sono poco o
niente indagabili, si sono verificate le stesse conseguenze?
Si tratta, lo si vede, di una serie di questioni molto complesse,
in buona parte ancora tutte da indagare. Non saremo certo noi a
dare una risposta; tuttavia, ci prendiamo la libertà di proporre almeno un parallelo. Tale parallelo non ci sembra infatti inappropriato, tanto più oggi, quando a distanza di molto tempo appare
possibile guardare a tutto il tracciato di queste lunghe e complesse parabole di pensiero e azione.
Se proviamo a ripercorrere lungo i decenni gli interessi intellettuali e il lavoro di ricerca di Dore, non sembra difficile scorgere un filo rosso che si dipana in maniera abbastanza coerente: affermazione di un ruolo per le associazioni del laicato cattolico e
per i laici in generale (studio della vita di don Pini, di don De Rossi e del pensiero di Francesco Luigi Ferrari), necessità di una
riforma della Chiesa (ricostruzione della vita del Savonarola), dimostrazione dell’anima sociale del cristianesimo (raccolta dei testi
di Ozanam), teorizzazione della distinzione tra fede e politica (traduzione e divulgazione del pensiero di Maritain).
Un filo rosso tutto sommato in sintonia, almeno in parte, con
Giampietro Dore e Studium
283
la sensibilità ecclesiale di Montini e la sua azione concreta nella
Chiesa italiana e sul piano internazionale.
In realtà, i rapporti tra Dore e Montini meriterebbero una ricerca ad hoc. Le poche schegge che si sono salvate dal grande archivio che – come ricorda la famiglia – Dore ha volutamente non
conservato, intanto indicano che esisteva la solidità della reciproca stima e del comune sentire.
Ad esempio, il 26 novembre 1959, l’allora cardinale arcivescovo di Milano scrive 55 a Dore una missiva «confidenziale»:
Caro Signore,
ho conservato grato ricordo della sua visita, che mi ha dato il conforto di sapere affidata alle Sue mani una grossa faccenda, che in non
piccola parte interessa il mio campo pastorale. Confido vivamente
che il richiamo ad una sufficiente dignità morale sarà efficace. Non
ho avuto in questi giorni le accorate proteste, che prima ricevevo. Ora
sono sensibilizzato su un altro punto: l’attacco continuo e indebito
che è fatto dal foglio in questione all’Amministrazione Comunale,
con tutto profitto dei suoi e nostri avversari. Se avrò l’occasione di rivederla, Le dirò come a me sia giunta la deplorazione per tale campagna negativa.
Un cordiale saluto,
† GB. Card. Montini
Purtroppo non disponiamo di informazioni che ci consentano di
azzardare una qualche ipotesi in ordine alla «grossa faccenda» di
cui si parla nel primo capoverso. Forse, tentando ulteriori ricerche, si potrebbe scoprire qualcosa. Ma, ovviamente, non è questo
il punto. Quello che questa lettera, salvatasi quasi da sola da quello che era sicuramente un imponente epistolario, ci conferma è
quanto fosse stretta e continua la confidenza tra i due uomini, e
che Dore godeva della piena fiducia del cardinale Montini.
Nella seconda lettera 56 di cui disponiamo, è ormai il Papa a
scrivere (siamo al 5 febbraio 1971):
A Giampietro Dore
Un vivo ringraziamento per la pubblicazione del fascicolo di «Studium», n. 12, del 1970, nel quale, in occasione del mio giubileo sacerdotale, è rievocato il periodo del mio giovanile ministero sacerdo-
284
Andrea Ambrogetti
tale nella FUCI, in anni ormai tanto lontani, con cortesi appendici su
quelli successivi: tempi e cose tuttora vivamente presenti al mio spirito, e, come vedo, a quello del fedele raccoglitore e interprete delle
memorie fucine, e dei suoi collaboratori.
La pubblicazione è molto bella e gentile. Sento il dovere di esprimere la mia riconoscenza per gli articoli così ampi e pregevoli, nei
quali vedo documentata ben più la bontà degli autori, che il merito
della mia modesta attività: dovrei anzi, a questo proposito, rettificare
tanti apprezzamenti troppo indulgenti e benevoli a mio riguardo; ma
son lieto della testimonianza che ne risulta a favore della FUCI e a lode di tanti ottimi e valenti amici, di cui essa mi procurò l’incontro, la
conversazione e l’esempio, e di cui anch’io conservo cordiale e commosso il ricordo. Sorge così nell’animo il bisogno di tutto riportare di
questa umile, ma cara storia fugace oltre il tempo, che la generò e che
la consumò, verso quel Dio in cui «vivimus et movemur et sumus»,
con invocazione di misericordia e di eternità.
Compensi il Signore la fatica di quanti hanno posto cuore e mano alla compilazione del prezioso fascicolo; e più che la parola dica la
mia gratitudine e la mia affezione la benedizione apostolica, che a tutti mando con sincero sentimento, in Px.
Paulus PP VI
A parte l’importanza che Paolo VI ancora nel 1971 assegna alla
Fuci, notiamo le espressioni elogiative che riserva a Dore: «fedele
raccoglitore e interprete delle memorie fucine [...]»: dalle quali
traspare il valore che per il Papa aveva ancora Dore sul piano personale.
Esiste poi nell’archivio della famiglia Dore un biglietto del 4
agosto 1968 in cui papa Montini chiede a mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, di trasmettere «Una parola
di elogio, di ringraziamento e di benedizione a Gian Pietro Dore
per il suo articolo Vivere da cristiano, pubblicato su L’Avvenire
d’Italia del 4 agosto 1968». Un biglietto di complimenti per un
bell’articolo dunque, niente di più o niente di meno, però forse il
segno di una frequenza di rapporti che tra i due uomini è rimasta
intensa nel tempo.
Tuttavia da sole queste tre lettere aggiungono poco alla storia
dei rapporti tra i due uomini per come la conosciamo dalle comuni, o comunque connesse, imprese.
Possiamo solo ribadire che Dore ebbe certamente un rapporto significativo di conoscenza e di collaborazione, anche se indi-
Giampietro Dore e Studium
285
retta, con Montini, che durò decenni e che egli si impegnò nella
diffusione culturale di quel rinnovamento teologico ed ecclesiale
di cui Montini fu uno degli esponenti più significativi. Questo legame non toglie nulla al fatto che Dore era persona autonoma nelle sue valutazioni e nel suo comportamento.
Di questo lungo sodalizio l’aspetto più significativo è stato
senza dubbio l’inserimento di Maritain nella cultura cattolica italiana e, più in generale, nella cultura politica italiana, del quale
non possiamo fare qui né una storia né un bilancio. Possiamo solo dire che fu un autentico capolavoro quello di far conoscere in
Italia il pensiero del filosofo francese, anche se ciò non toglie che
la decisione di tradurre Umanesimo integrale e il Primato dello spirituale fu probabilmente un passo ardito, su cui peraltro ancora si
interroga la storiografia, ma anche il segno di un coraggio e di una
lungimiranza non comuni.
Quando Montini e Dore lanciarono Maritain, questi non era
molto in auge nel cattolicesimo italiano, ed era anche oggetto di vivaci discussioni in Francia, essendo Maritain un non tomista (seppure cultore fedele di san Tommaso) e ponendosi quindi fuori della
cultura neoscolastica, che faceva capo all’Università Cattolica di Milano. Il coraggio culturale ed editoriale dimostrato con la scommessa su Maritain va dunque inserito in un clima difficile e incerto, in
cui il mondo cattolico italiano e la stessa Azione Cattolica del tempo
apparivano in parte divisi.
Anche se Dore non ebbe il tempo di compiere studi sistematici di ampio respiro, egli si colloca certamente tra coloro che primeggiarono nello studio, nella traduzione e nella divulgazione del
pensiero di Maritain. Quando il filosofo francese morirà, nel
1973, Dore ripercorrerà i loro rapporti intellettuali e ne farà un
toccante ritratto per la rivista Rocca 57. Da queste pagine emerge,
tra l’altro, tutta la ricchezza del loro rapporto personale.
Il lavoro su Maritan si inseriva peraltro in una più ampia opera di traduzione e divulgazione dei teologi non italiani, soprattutto di cultura francese e tedesca, che Montini sostenne e che in certa misura fu concretizzata da Dore, nel quadro di un percorso
personale di ricerca e di studio da lui iniziato sin dagli anni Venti.
Non è possibile in questa sede effettuare una trattazione completa del pensiero di Dore e dei suoi riferimenti culturali. Ci limiteremo a osservare che egli è uomo che si appoggia e mantiene
ben precisa una costellazione di punti di riferimento sul piano fi-
286
Andrea Ambrogetti
losofico-culturale, e che tra questi e il suo lavoro di operatore culturale vi sarà una osmosi costante per circa cinquant’anni.
Il modo più efficace e diretto (rinviando ad altri studi ulteriori approfondimenti) per ripercorrere questo itinerario è seguire
Dore nella sua costante attenzione verso alcune figure.
Come abbiamo detto, Dore si è infatti interessato a personalità di rilievo, quali Savonarola (guardando a lui come a uno stimolo alla riforma della religione e della Chiesa), di Ozanam (vedendolo come anticipazione di una dottrina sociale della Chiesa),
don Giulio De Rossi (considerato come qualcuno che mette in
collegamento cattolici e democrazia), don Pini (che è stato sostenitore di una opportunità-necessità di «organizzazioni» laiche cattoliche), Francesco Luigi Ferrari (simbolo straordinario di laicità
cattolica).
Portato naturalmente a legare il mondo cattolico alla storia
della democrazia e della libertà, Dore guardava al pensiero di
Ozanam, anche perché nella democrazia italiana rimaneva costante un fondo di clericalismo. Ecco che il pensiero e l’esperienza di
Ozanam, un laico, cattolico, francese che in pieno Ottocento ha il
coraggio di dire che i cristiani devono andare verso la classe operaia, rappresentano un simbolo potente nella prospettiva indicata.
In anni di non raggiunta chiarezza sull’autonomia della politica, Dore riproponeva l’esemplarità antintegralistica di Federico
Ozanam sul valore delle istituzioni rappresentative, raccogliendone in volume nel 1952 alcuni scritti importanti, ma ormai ignorati
e di difficile reperimento 58.
Per quanto riguarda Savonarola, il suo interesse per questa figura si deve anche in parte all’ambiente della casa editrice fiorentina Le Monnier, con la quale Dore, come abbiamo detto, ebbe
una intensa frequentazione, non solo professionale.
In un volumetto del 1952 59 approfondiva le caratteristiche di
questa figura, avvertendo che rimanevano ancora da indagare la
sua spiritualità e l’influenza esercitata nella spiritualità postridentina. Al tempo stesso ricordava che la Chiesa come istituzione non
è esente da critiche.
Di don Pini Dore ricostruisce la vita 60, perché guarda a lui
come a un antesignano del laicato cattolico. Anche se questo libro rappresentava una parziale risposta alla promessa di scrivere
una storia della Fuci fatta da Dore allo stesso Pini («Nel 1921,
quando ancora don Pini era nel pieno fervore della sua attività,
Giampietro Dore e Studium
287
gli avevo promesso che avrei scritto la storia della Fuci»), l’autore rilegge l’esperienza di uno dei primi assistenti ecclesiastici fucini come un tentativo di conciliare la fedeltà alla Chiesa e al Papa con la fedeltà alla storia e all’Italia, e come la prospezione di
un legame, non solo possibile, ma anche fecondo, tra lo studio
universitario e la fede.
Don Pini negli ultimi anni dell’Ottocento si era legato a Filippo Meda, che «era già tra i nomi più in vista dell’Azione cattolica
milanese», e aveva partecipato all’Opera dei Congressi. La sua vocazione sacerdotale si era espressa nell’esigenza di organizzare il
laicato cattolico e di formarlo sotto un profilo culturale, spirituale e politico.
Dore sottolineava il fatto che per don Pini la cultura doveva
essere efficace mezzo di apostolato e che la Fuci poteva essere
l’organizzazione adatta a questo scopo (della Fuci, don Pini fu assistente per molti anni, fino al 1923). Con la sua attività aveva
mantenuto unite fede e patriottismo nel corso delle turbolente vicende dei primi anni del nuovo secolo, prendendo le distanze dal
nazionalismo e mantenendo il carattere apolitico del laicato cattolico universitario.
A questo proposito, Dore scrive:
«[...] assistente della Fuci, don Pini parla ai giovani dei loro doveri
sociali, ma li spinge allo studio ed alla conquista di cattedre universitarie; durante la guerra, si preoccupa del dopoguerra; sopraggiunta la
pace, evita ancora una volta di cadere nella febbre dell’azione per l’azione, addita di nuovo il dovere dello studio, riafferma il primato del
pensiero; creata l’Università cattolica, della cui necessità s’era fatto
banditore per circa un venticinquennio, impedisce che si rallenti il lavoro nelle altre università e spinge i giovani migliori all’insegnamento
in queste; cerca di porre in luce quanto di sano e di cristiano è in ogni
giorno, ma addita nuove mete; non si confonde coi facili lodatori del
tempo che fu, e non si adagia nel presente [...] tenne è vero, per tanti
anni, tanti giovani nella vita e nella disciplina della chiesa; portò nell’Azione cattolica nuovi sistemi e le infuse più largo respiro; conciliò
l’amore della patria con la fedeltà al pontefice, essendo ancora viva ed
attuale la questione romana, contribuì come pochi al raggiungimento
della unità italiana avvicinando giovani delle più lontane regioni, dando loro comune programma e religioso e nazionale».
288
Andrea Ambrogetti
7. Laicità senza egemonia?
Per chiudere, non certo per concludere, questa ricostruzione, certamente incompleta, della vita e dell’opera di Giampietro Dore, ci
si può domandare se la sua instancabile attività di aggiornamento
sia riuscita nell’intento di avvicinare maggiormente la cultura cattolica alla vita civile e politica dell’Italia e se, almeno, essa arrivò
preparata al Concilio Ecumenico Vaticano II.
Ci si può anche domandare se quella incentrata su Maritain
abbia costituito una vera e propria politica culturale, volta a rinnovare il mondo cattolico, non solo italiano, aggiornandolo su posizioni nuove, che conciliavano fede e storia in un modo compatibile con la moderna democrazia di massa e con la presenza attiva
in essa dei cristiani, oppure se quella di tradurre Maritain sia stata più semplicemente una azzeccata mossa editoriale.
I limiti di questo lavoro non consentono di rispondere pienamente a questi quesiti, mentre si spera che esso risulti comunque
utile come base di partenza per ulteriori approfondimenti.
Quello che si può affermare con un discreto grado di sicurezza è
che tutti concordano nel dire che Dore è stato un editore indipendente, sia rispetto alla gerarchia, sia rispetto alla Democrazia Cristiana, sia rispetto alla «casa madre» della Fuci, nei confronti della quale
nel corso dei decenni gli iniziali legami organici si sono allentati e si
sono trasformati in un rapporto di reciproca alimentazione culturale.
Il fatto che negli ultimi anni della sua vita Dore pensasse alla
creazione di un settimanale culturale nazionale che facesse opinione come L’Espresso, e che non fosse rivolto solo agli intellettuali, resta il punto dal quale partire per futuri approfondimenti
sui perché del fenomeno della laicità senza egemonia.
Resta il fatto che Dore è stato espressione di una stagione del
cattolicesimo italiano ricca e vivace e di un ambiente che aveva
una doppia visione: preparazione e impegno culturale come base
per il rinnovamento della Chiesa, ed esigenza di una presenza dei
cristiani nella vita politica sulla base di istanze ispirate alla democrazia e alla libertà.
L’impegno di Dore, indirizzato verso l’affermazione di un
ruolo culturale dei cattolici, anche secondo l’indicazione di Sturzo, può aver avuto un peso più o meno importante nell’aggiornamento della cultura cattolica italiana, fino ad «anticipare» in qualche misura il Concilio Vaticano II.
Giampietro Dore e Studium
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I cattolici italiani si sono indubbiamente giovati del contributo di personalità come Dore, e delle iniziative culturali ed editoriali che egli ha instancabilmente intrapreso per lunghi decenni.
La sua personalità appare in ogni caso profondamente radicata nella storia del rinnovamento novecentesco del cattolicesimo
italiano, quasi al punto che egli può essere considerato come un
esponente «tipico» e «paradigmatico» di questo lungo processo
che il mondo cattolico italiano ha vissuto, e che si è intensificato
intorno alla svolta costituita dal Concilio voluto da Giovanni
XXIII e portato a termine da Paolo VI.
Di questo rinnovamento, Dore potrebbe essere visto come un
lontano e pionieristico anticipatore, anche se non ha sempre assunto posizioni di avanguardia.
Ma a Dore si può guardare anche come a una figura quasi unica, perché egli è stato uno dei pochissimi che ha cercato di mettere
in atto un tentativo di rovesciare il paradosso che ha visto i cattolici
maggioranza politica ma privi di una egemonia culturale, senza avventurarsi per strade integraliste, fondamentaliste o clericali.
Ma quali erano, o ancora sono, le caratteristiche di questo paradosso?
8. Maggioranza senza egemonia?
È abbastanza comune l’idea che il secondo Novecento italiano ha
assistito a un non trascurabile paradosso: mentre i cattolici diventavano maggioranza politico-elettorale e assumevano il governo
del Paese, allo stesso tempo essi non seppero esercitare un’egemonia culturale, che anzi fu posseduta e animata da altre componenti, da quelle laiche o liberali, a quelle socialdemocratiche e socialiste, e anche, almeno in alcuni periodi, a quella comunista, che
era per giunta, fino alla fine degli anni Ottanta, fuori dalla «logica
di sistema» occidentale.
È stato dunque dentro questo «scenario» che Giampietro Dore ha condotto, insieme con pochi altri lungimiranti intellettuali,
la sua lunga opera di aggiornamento della cultura cattolica italiana, coltivando, a tratti esplicitamente, il progetto di rilanciarne il
ruolo nei confronti della più ampia società nazionale. Mentre i
suoi sforzi di rinnovamento della cultura dei cattolici hanno avuto, come abbiamo visto, un impatto pertinente e rilevante (salvo
290
Andrea Ambrogetti
gli approfondimenti sui tempi e sui modi), quella che potremmo
chiamare la seconda parte del suo programma, vale a dire una presenza dell’identità cristiana più incisiva in particolare nel mondo
dell’informazione, della comunicazione e della discussione delle
idee, restò in gran parte non realizzata.
Per questo si potrebbe dire che Dore è stato uno dei pochi democristiani che non si «accontentò» della solida leadership che,
per la prima volta da quando l’Italia aveva conseguito l’unità politica, ha garantito ai cattolici la maggior parte delle leve del potere
(almeno per i primi quattro decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale), e che egli è stato forse uno dei pochissimi
che abbia tentato con convinzione, tramite i suoi sforzi nel giornalismo e nell’editoria principalmente, di rovesciare il paradosso
della mancata egemonia culturale.
La cognizione di questo paradosso è, d’altra parte, già nota agli
storici e agli osservatori, ma è stata fino ad ora forse poco approfondita.
«In Italia i rapporti tra cattolici e cultura non sono mai stati
facili»: così esordiva Agostino Giovagnoli nel suo saggio Cattolici
e cultura negli anni Cinquanta, che apre un volume dedicato alla
storia del giornalismo cattolico italiano del dopoguerra 61.
In questo saggio Giovagnoli ricorda che la Chiesa ha spesso
incontrato diversi problemi nei rapporti con gli intellettuali e che
il ruolo non trascurabile da essa svolto nelle vicende politiche le
ha più volte alienato le simpatie degli uomini di cultura. A ciò si
deve aggiungere, ricorda ancora Giovagnoli, che sono sorte in
campo cattolico numerose difficoltà nel rapporto con la modernità e che molti aspetti della cultura contemporanea sono stati recepiti come frutto di ideologie avverse alla Chiesa, finendo così i
cattolici per dare vita a circuiti intellettuali propri e alternativi.
Secondo Giovagnoli, questa situazione ha portato a una sorta
di «regime di separazione» rispetto alle altre culture. La Conciliazione del 1929, seppure chiuse una pagina di storia, non favorì un
incontro autentico tra cattolici e cultura, nonostante alcune significative eccezioni. I ristretti spazi nei quali i cattolici operarono sul
piano culturale – ricorda ancora Giovagnoli – erano affidati a poche realtà, che hanno svolto tuttavia un ruolo molto significativo
(e proprio da tali realtà, in questo caso la Fuci e il Movimento
Laureati di Azione Cattolica, come abbiamo visto, proveniva una
persona come Giampietro Dore).
Giampietro Dore e Studium
291
Certo, la difficoltà di uscire dalla dialettica tra contrapposizione e subalternità è restata – secondo Giovagnoli – il segno distintivo dei tentativi fatti dai cattolici di agire in campo culturale,
con il risultato paradossale che molte loro espressioni furono segnate da entrambi questi limiti. Esse risentirono, inoltre, dei limiti della loro cultura religiosa: in Italia si svilupparono limitatamente quelle correnti di rinnovamento biblico, teologico, storico
così vive in altri paesi, e che avrebbero svolto un ruolo significativo nella stagione storica legata al Concilio Vaticano II (ma forse
Dore ha rappresentato pure a questo proposito una rilevante eccezione).
Il secondo dopoguerra vide sostanzialmente una situazione di
continuità nei rapporti tra cultura e mondo cattolico. Ma c’era il
fatto nuovo che erano i cattolici a governare il Paese. Perché di
fronte a questa novità storica non avvenne un mutamento significativo?
Come è stato già detto, è questa una questione aperta. Qualcuno ha parlato di una specie di «patto» tra laici e cattolici, in forza
del quale ai primi veniva lasciato il controllo dell’editoria e del giornalismo e ai secondi andavano le leve del comando, non solo nel
Parlamento e nel Governo (dove si arriva in forza del mandato elettorale), ma anche in altri settori (l’istruzione, il para-Stato, il mondo
agricolo e rurale). Altri hanno parlato di una sorta di «convenienza»
reciproca tra leadership democristiana e gerarchia ecclesiastica nei
confronti di una situazione che comunque garantiva a entrambe la
propria posizione e che sconsigliava ulteriori complicazioni. Sarebbe stata allora addirittura una «scelta», condivisa dai vertici religiosi e democristiani, quella di non conferire un rilievo agli organi di
informazione e di approfondimento cattolici (almeno sul piano nazionale, vista la grande vitalità dei settimanali diocesani), cercando
piuttosto collegamenti con la stampa indipendente e con la stampa
popolare, evidentemente nella convinzione che ciò fosse più funzionale alla conservazione dello status quo.
Nel suo saggio Giovagnoli ipotizza che un forte limite a un
autentico ruolo culturale dei cattolici sia stato costituito da quel
collateralismo che, almeno per i primi decenni, ha caratterizzato
le relazioni tra Democrazia Cristiana e una vasta e capillare rete di
realtà associative cattoliche, le quali però erano come autosufficienti, prive di una autentica intenzione di rivolgersi all’intera società italiana.
292
Andrea Ambrogetti
Per quanto riguarda l’altro attore che, oltre alla Chiesa, avrebbe potuto essere interessato a un serio discorso culturale, e cioè la
Democrazia Cristiana, secondo Giovagnoli forse solo con la segreteria di Amintore Fanfani (1955-1959) e con il suo modello di
partito «forte» fu intrapreso un serio tentativo di politica culturale. Va detto, però, che gli sforzi furono concentrati sulla comunicazione interna al partito e sull’assicurarsi il controllo dei due
nuovi mezzi di comunicazione di massa (la radio e la televisione),
in chiave, peraltro (mi permetterei di notare), di «supervisione» e
non tanto di «utilizzazione» vera e propria («appropriazione»?), e
quindi in termini di «non far fare», piuttosto che di proporre e
realizzare una specifica programmazione 62.
Giovagnoli concludeva la sua analisi con una notazione che
investe proprio la ricostruzione del ruolo di quel grande animatore culturale che fu Giampietro Dore e che abbiamo sin qui condotto: in campo cattolico non ci fu nessuna iniziativa paragonabile al lancio de L’Espresso nel 1956.
La scelta di Dore di condurre una politica culturale dei cattolici che parlasse effettivamente alla società italiana perché non ha
avuto successo? Perché, visto che l’ampia maggioranza di cattolici nel Paese garantiva naturalmente una maggioranza politica, né
le gerarchie, né i vertici democristiani erano interessati a tale progetto o, più semplicemente, perché nella seconda metà del Novecento il mondo occidentale ha vissuto una straordinaria stagione
di mutamenti sociali e culturali che ha implicato, tra le altre tantissime conseguenze, una definitiva marginalizzazione dei discorsi religiosi dal concerto delle fonti della soggettività, anche se questo non ha significato assolutamente la scomparsa di Dio o della
religione? 63
Il problema rimane aperto. Resta il fatto, per tornare a Dore,
che egli non era un cattolico conservatore, ma un uomo di fede e
di cultura che ha cercato di improntare la politica a valori religiosi, ma non clericali, senza per questo confondere la laicità con il
laicismo.
Con la sua figura ieratica e asciutta, con il suo essere di poche
parole, ma molto profonde, Giampietro Dore ha lasciato una traccia visibile ancora oggi nella cultura cattolica italiana e nelle tante
persone che lo hanno conosciuto.
Andrea Ambrogetti
Giampietro Dore e Studium
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Ringrazio la famiglia Dore e in particolare il figlio di Giampietro Dore,
dott. Francesco Dore, e il nipote, arch. Tommaso Dore, per aver suscitato e reso possibile questo lavoro, che tocca in non pochi aspetti altri miei studi di storia contemporanea.
Ringrazio anche tutte le persone che hanno fornito informazioni e suggerimenti: Paola De Biase, Angelo Gaiotti, Maria Cristina Giuntella, Giuseppe Lazzaro, Francesco Malgeri, Adriano Ossicini, Pietro Prini.
Desidero in particolare ringraziare Maria Luisa Paronetto Valier per il
prezioso aiuto prestato in varie fasi del lavoro.
Questo scritto si basa su ricerche effettuate nell’archivio della famiglia
Dore, dell’«Istituto Paolo VI per la storia dell’Azione Cattolica e del movimento cattolico in Italia» e dell’«Istituto Luigi Sturzo», che hanno entrambi
sede a Roma.
NOTE
TA = testimonianza raccolta dall’autore.
1 Dore ha avuto un fratello e tre sorelle: Giuseppina Assunta, detta Peppina (Orune
1900-Olzai 1982), giornalista, scrittrice, autrice di opere sull’agiografia, suora benedettina
con il nome di Maria Giovanna, ha contribuito in modo rilevante al rinnovamento del monachesimo femminile italiano; Raffaella (Orune 1905-Olzai 1972), studiosa di pedagogia,
si è occupata di educazione dei bambini, della società rurale sarda, di lavoro delle donne,
di culture popolari; Antonio (Orune 1906-Roma 1997), esponente antifascista e comunista, fu imprigionato e confinato più volte durante il ventennio, fu anche sindaco di Olzai;
Grazia (Orune 1908-Olzai 1984), insegnante, scrittrice, diede vita al «Movimento cristiano per la pace», i cosiddetti «comunisti cristiani», una sua raccolta di poesie venne recensita da Pier Paolo Pasolini, ha pubblicato una fondamentale ricerca sull’emigrazione italiana in America Latina: La democrazia italiana e l’emigrazione in America.
2 Francesco Dore (Olzai 1860-Olzai 1944), medico, deputato Popolare dal 1913 al
1921, quando fu costretto a interrompere l’attività politica in seguito all’avvento del fascismo; sposò Maria Giannichedda (Sassari 1876-Roma 1926).
3
Cfr. R. Mancini, La morte di Giampietro Dore, in L’Osservatore Romano, 9 ottobre 1974.
4 Cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della Federazione universitaria cattolica italiana,
Studium, Roma 1971.
5
G. Dore, Elogio della vita una, Edizioni dell’Arte Cattolica, Roma 1927, pp. 98; il
testo contiene anche altri scritti aggiunti successivamente, relativi ad argomenti collegati e un ricordo del «sacerdote Giulio De Rossi» (già pubblicato nella Rivista del clero italiano, febbraio 1926), del quale Dore ricorda la vocazione all’apostolato e al giornalismo
e l’importanza data al campo sociale e politico, tanto da definirlo un «democratico» e rivendicare il suo impegno politico nel Partito Popolare.
6 Su Spataro, si veda G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla repubblica, Mondadori, Milano 1968.
7
Su Igino Giordani, popolare, democristiano, costituente, deputato e direttore de
Il Popolo dopo la seconda guerra mondiale, ma soprattutto pacifista e convinto sostenitore – ben prima del crollo del muro di Berlino – del superamento dei «blocchi» contrapposti, co-fondatore del Movimento dei Focolari (la causa diocesana di beatificazione è iniziata a Frascati nel giugno 2004), si veda M. Casella, Igino Giordani. «La pace comincia da noi», Studium, Roma 1990, in cui è anche contenuto un ricordo scritto da Do-
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Andrea Ambrogetti
re: «Chi conosca anche solo una parte della vastissima produzione, sa che Giordani sente prevalentemente di ogni argomento il lato religioso. Si potrebbe anche giungere ad affermare che, nonostante la sua lunga milizia politica, egli non sia essenzialmente un politico, ma un credente che cerca di improntare la politica con valori religiosi. Anche
quando egli ha assunto posizioni politiche precise, queste sono derivate da motivi morali, da principi metapolitici. Tale è stato il suo antifascismo, la sua fede nella libertà;
persino le sue istanze sociali derivano più che altro dall’amore del prossimo e dalla insofferenza per ogni forma di ingiustizia» (recensione al volume di I. Giordani, Alcide De
Gasperi, Mondadori, Milano 1955, in Esperienze, luglio-agosto 1956, p. 8).
8 Sul Domani d’Italia e Il Popolo si veda G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Studium, Roma 1988.
9 Sull’avvocato modenese Francesco Luigi Ferrari (1889-1933), presidente della
Fuci dal 1909 al 1911, esiste un’ampia pubblicistica, tra cui M. G. Rossi, Francesco Luigi Ferrari. Dalle Leghe Bianche al Partito Popolare, Cinque Lune, Roma 1965; M. C.
Giuntella, Francesco Luigi Ferrari presidente della Fuci, in La Fuci tra modernismo, Partito Popolare e fascismo, Studium, Roma 2000. Un originale ritratto ne venne fatto da un
uomo di tutt’altro orientamento politico, Piero Gobetti (in La rivoluzione liberale, Torino, 5 luglio 1925), il quale aveva assistito al Congresso del Partito Popolare di Roma del
1925: «L’uomo nuovo del congresso fu l’avv. Francesco Luigi Ferrari, modenese, di
trentasei anni, vecchio amico di Miglioli, ora una specie di rivoluzionario liberale popolare [...]. Ma Ferrari fu anche più deciso e inesorabile: [...] Le democrazie cristiane devono essere accanto alle democrazie socialiste. La piccola borghesia e il proletariato popolare devono essere a fianco del proletariato socialista nella rivoluzione che darà una
nuova coscienza all’Italia di domani. Effettivamente i popolari devono guardarsi per
l’avvenire da un solo pericolo: che in essi riprenda vigore l’odio per il socialismo. Sarebbe la vittoria definitiva della reazione e del filisteismo piccolo-borghese. Queste verità audaci animavano il congresso con seduzioni impreviste» (in G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla repubblica, cit., p. 386).
10 Introduzione alla raccolta degli scritti di F. L. Ferrari, «Il Domani d’Italia» e altri scritti del primo dopoguerra (1919-1926), Introduzione e cura di M. G. Rossi, Roma
1983, cit. in G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), cit.
11 Cfr. F. L. Ferrari, «Il Domani d’Italia», a cura e con Introduzione di G. Dore, Roma 1958.
12 Cfr. Lettere di Giampietro Dore a don Luigi Sturzo, Archivio dell’Istituto Sturzo, Roma, fascicoli 287, 289, 289/1, 296. Manoscritti o dattiloscritti su carta intestata
della Società Editrice Libraria Italiana (piazza Mignanelli, 22, Roma). Le lettere datate
sono quelle del 3 novembre 1924, 13 novembre 1924, 23 dicembre 1924, 9 gennaio
1925. Tre lettere non datate sono collocabili nel periodo ottobre-novembre 1925.
13 Cfr. Umanità di don Sturzo, in Il Popolo, Roma, 11 agosto 1959; Luigi Sturzo, in
Coscienza, 1-15 settembre 1959 (entrambi i testi sono riportati nel numero 3, luglio-settembre 1959, di Sociologia. Bollettino dell’Istituto Luigi Sturzo, A. Giuffrè Editore, Milano 1959).
14 Una nota della «Polizia politica» (Ministero dell’Interno, Direzione generale
della pubblica sicurezza) del 2 gennaio 1937 così lo descrive: «[...] appartenente alla
schiera dei giornalisti cattolici, di quelli che hanno lavorato assai per il Partito Popolare. Infatti [...] Dore [...] che conta circa 40 anni, fu uno dei redattori del Corriere d’Italia, vecchio stampo, ligio alle vecchie ideologie e pedissequo di Don Sturzo. Dopo la
morte del Corriere d’Italia il Dore si interessò di pubblicazioni, dando la sua attività a case editrici di sui si fece promotore. Però la sua attività grande fu sempre il giornalismo,
e noi lo troviamo collaboratore di giornali e riviste [...]».
15 Antonio Dore, per la sua strenua opposizione al fascismo e per la sua fiera appartenenza al Partito Comunista Italiano (fu anche segretario regionale per la Sardegna), è stato più volte condannato al carcere o al confino, che ha scontato in Sicilia e in
Giampietro Dore e Studium
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Abruzzo, alternando periodi di lavoro a Roma, a Firenze e a Bologna. Dopo la guerra ha
continuato l’attività politica sempre nel PCI ed è stato anche sindaco di Olzai. Ha lasciato un’intensa raccolta di memorie, presentata da G. Melis, Antonio Dore. Vita di un
comunista, Tema, Cagliari 2001.
16
Nel 1931 Giampietro Dore sposa a Roma Margherita Maurizi (Roma 1907-Roma 1994), che gli sarà sempre accanto nei suoi tanti impegni e dalla quale avrà dodici
figli.
17
A questo proposito si pensi, ad esempio, al fatto che fu l’ex assistente della Fuci
a patrocinare in Vaticano nel 1945 il partito unico dei cattolici italiani, che costituì una
base importante per un loro impegno politico di segno democratico.
18
Cfr. J. Maritain, Primato dello spirituale, prima edizione italiana, Edizioni Card.
Ferrari, s.a., ma Roma 1928. A facilitare i contatti diretti tra Dore e Maritain potrebbe
aver contribuito l’amicizia del primo con il prete di origine egiziana Giovanni de Menasce, che era diventato amico di Maritain a Parigi negli anni Venti e che dalla fine degli
anni Quaranta opererà stabilmente in Italia, tra l’altro come uno dei fondatori delle
Scuole di servizio sociale (cfr. E. Fiorentino Busnelli, Giovanni de Menasce. La nascita
del servizio sociale in Italia, Prefazione di Pietro Scoppola, Studium, Roma 2000). De
Menasce celebrava ogni domenica la messa per i laureati cattolici in Sant’Ivo alla Sapienza. Dore nel 1946 fu tra le persone che lo sostenne nella nascita della SISS, Società
Italiana di Servizio Sociale.
19 M. C. Giuntella, La Fuci tra modernismo, Partito Popolare e fascismo, cit., pp.
186-187.
20 Almeno secondo il ricordo di Adriano Ossicini (TA).
21 Insieme a Salvatore Minocchi, Tommaso Gallarati Scotti e Antonio Fogazzaro,
Ernesto Bonaiuti fu tra i principali esponenti del modernismo in Italia. Corrente culturale e politica sorta in diversi Paesi europei fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del
Novecento come tentativo di confronto della cultura cattolica con alcuni aspetti della
cultura moderna, il modernismo fu condannato dalla Chiesa cattolica in modo molto
duro. Sulla Fuci negli anni della «crisi modernista», si veda M. C. Giuntella, La Fuci tra
modernismo, Partito Popolare e fascismo, cit.
22 V. Bachelet, Dore, un cristiano pronto al servizio, in Avvenire, 8 ottobre 1974.
23 Il lunghissimo elenco degli articoli, degli editoriali e delle recensioni scritte da
Dore tra il 1920 e il 1974 è stato curato dalla famiglia e comprende i seguenti quotidiani e periodici: La Fionda, Gioventù nuova, Corriere d’Italia, Vita giovanile, L’Unità Cattolica, Nuova Sardegna, L’Italia, Vita e Pensiero, Il Carroccio, La Rassegna, Rivista del clero, L’Avvenire d’Italia, L’Illustrazione vaticana, Il Ragguaglio, Il Popolo, Il Quotidiano,
L’Italia socialista, Il Corriere dell’isola, Coscienza, Ricerca, Il Mondo, La Discussione, Prospettive meridionali, Gazzetta del Popolo, L’Osservatore Romano, Rocca.
24 Anche se riguarda indirettamente Dore, sull’educazione degli adulti si può leggere l’interessante autobiografia di A. Zucconi, Cinquant’anni nell’utopia il resto nell’aldilà, L’Ancora, Napoli 2000, da cui emerge tra l’altro che su molte questioni (volontariato, riforme, lotta all’analfabetismo, sviluppo umano e sociale come fattore decisivo
per un nuovo meridionalismo, ruolo della ricerca, dell’informazione e della cultura) cattolici e laici hanno spesso collaborato, lavorando insieme per il progresso umano e sociale o, come nelle parole della stessa Zucconi, per «la ricostruzione morale degli italiani e l’educazione alla democrazia» (p. 64).
25 Dal 1952 al 1956 fu consigliere provinciale a Roma (quando non erano ancora state istituite le regioni); nel maggio 1958 fu candidato al Senato in un collegio di Roma in cui
la Democrazia Cristiana non aveva molto seguito e non fu eletto. Come ricordano i familiari, aveva accettato la candidatura soprattutto per spirito di dovere politico-sociale.
26 La vicenda della sostituzione di La Valle con Dore alla direzione del quotidiano
dell’episcopato italiano è significativa perché rientra nella più ampia e frastagliata storia
della costante dialettica tra le differenti ipotesi di un rinnovamento «rivoluzionario» e di
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Andrea Ambrogetti
uno «riformatore», tra le quali il cattolicesimo democratico si è costantemente mosso
negli ultimi decenni alla ricerca di un difficile equilibrio. Nel suo recente e ricchissimo
di ricordi Prima che l’amore finisca. Testimoni di una storia possibile, Ponte alle Grazie,
Milano 2003, La Valle traccia numerosi ritratti di protagonisti e momenti della storia italiana della seconda metà del Novecento, uno di quali è dedicato a L’Avvenire d’Italia. La
Valle ne era stato il direttore negli anni del Concilio, dal 1961 al 1967, e aveva puntato
molto sulla cronaca attenta e puntuale dei lavori conciliari, raggiungendo «diffusione
nazionale e fama internazionale» (p. 74), oltre che sulla scelta di essere un giornale cristiano a tutto campo e sul sostegno alla linea aperturista della Democrazia Cristiana del
centro-sinistra. L’interpretazione di La Valle del perché, terminato il Concilio, quel giornale non poteva più continuare il suo lavoro godendo di «autonomia professionale e
della libertà propria della condizione cristiana», pur avendo come editore la gerarchia
ecclesiastica e la stessa Santa Sede, coinvolge in pieno il problema dell’attuazione del
Concilio. Secondo La Valle, «Nel caso dell’Avvenire d’Italia quelle condizioni (di autonomia) ci furono finché la chiesa era impegnata nell’esaltante impresa del rinnovamento conciliare, con tutti i vescovi e i teologi e gli osservatori ogni anno a Roma, e finché il
cardinale Lercaro fu nel pieno del suo prestigio di arcivescovo di Bologna e di leader
conciliare; esse vennero meno quando, chiuso il Concilio, partiti i vescovi, cominciata
l’opera di riassetto romano, e divenuto il cardinale Lercaro un vescovo da rimuovere, il
giornale venne sentito come portatore di un linguaggio oramai da correggere, come un
testimone scomodo e un ostacolo da togliere per un’attuazione indolore della linea postconciliare». La questione è ampia ed è stata dibattuta all’infinito.
27 V. Bachelet, Dore, un cristiano pronto al servizio, cit.
28 Per la storia della televisione italiana, si veda A. Grasso, Storia della televisione italiana. I 50 anni della televisione, Garzanti, Milano 2004; F. Monteleone, Storia della radio e
della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, Marsilio, Venezia 2003; L.
Castellani, La TV dall’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia (1954-2002), Studium, Roma 2004 2.
29 Cfr. Il secondo tempo della Cassa per il Mezzogiorno e la politica di sviluppo in Italia, Atti del convegno di studio di Roma (8-9 novembre 1958), a cura del Gruppo aziendale democratico cristiano della Cassa, Roma 1959.
30 Un ampio affresco del ruolo dei cattolici negli anni del passaggio dalla dittatura
alla democrazia è offerto nel già ricordato libro di G. Spataro, I democratici-cristiani dalla dittatura alla repubblica, cit.
31
Cfr. A. Vittoria, Organizzazione e istituti della cultura, in Storia dell’Italia repubblicana. La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, t. II, Einaudi, Torino 1995.
32 Cfr. ibid.
33 Ibid., p. 667. Sulla figura di don Giuseppe De Luca si può leggere anche A. Ossicini, Il «colloquio» con don Giuseppe De Luca. Dalla Resistenza al Concilio Vaticano II,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1992.
34 Cfr. A. Vittoria, op. cit.
35 Sul tema cfr. G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’Unità
al post-moderno, Einaudi, Torino 1999; N. Tranfaglia, Editori italiani ieri e oggi, Laterza, Roma-Bari 2001; A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità a oggi,
Editrice Bibliografica, Milano 2004.
36 Purtroppo la maggior parte degli archivi degli editori non sono stati conservati
o sono stati conservati solo in parte. Negli ultimi anni si è assistito a una notevole inversione di tendenza. Sul tema si veda Gli archivi degli editori. Studi e prospettive di ricerca,
a cura di G. Tortorelli, Patron Editore, Bologna 1998.
37
Cfr. Unione Editori Cattolici Italiani, Atti del sesto convegno editoriale, Recoaro
Terme, 12, 13, 14 settembre 1958.
38
Cfr. Unione Editori Cattolici Italiani, Atti del settimo convegno editoriale (varie
città), Motonave «Saturnia», 12-16 giugno 1960.
Giampietro Dore e Studium
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Nel ricordo di Maria Luisa Paronetto Valier (TA).
G. B. Scaglia, Cinquant’anni delle Edizioni Studium, in Studium, n. 5, 1977, pp.
569-578, ripubblicato, con lo stesso titolo, in G. B. Scaglia, La stagione montiniana. Figure e momenti, Studium, Roma 1993.
41 A. Gaiotti, Giampietro Dore: incontrarlo è stata una grazia, in Coscienza, ottobre
1977.
42
Di progetti di una storia della Fuci si parlava già durante la presidenza Righetti
(1925-1934) e tra le varie ipotesi di autori si faceva anche quella di Dore; cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della Federazione universitaria cattolica italiana, cit.
43
Cfr. G. Dore (a cura di), Il Movimento laureati di Azione Cattolica. Appunti per
una storia, a cura del Mlac, Studium, Roma 1960. Nel 1984 fu inoltre pubblicato il libro
AA.VV., In ascolto della storia. L’itinerario dei «Laureati cattolici» 1932-1982, Studium,
Roma, contenente gli atti dell’incontro di studio promosso dal Movimento Ecclesiale di
Impegno Culturale (la nuova denominazione), svoltosi a Roma nel maggio 1983, in occasione dei cinquant’anni dalla fondazione del Movimento Laureati di Azione Cattolica
(la vecchia denominazione).
44 A. Gaiotti, Giampietro Dore: incontrarlo è stata una grazia, cit.
45
Norberto Bobbio, dal ricordo della prima lezione all’Università di Camerino:
«Ricordo con commozione il farmacologo Luigi Scremin, veronese, cattolico integerrimo e antifascista intransigente», in P. di Lucia, Il triennio camerte di Bobbio, in
http://web.unicam.it/museomemoria/accademia/bobbio.htm.
46 Cfr. Libro delle Pubblicazioni, Soc. An. Cooperativa «Editrice Studium», Legge
26 maggio 1932. Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26.6.1932, n. 143.
47 G. B. Scaglia, Cinquant’anni delle Edizioni Studium, cit.
48 Cfr. «Intervista Dore – Roma» (dattiloscritto inedito, senza data e senza autore;
carte della famiglia Dore).
49 Cfr. G. B. Montini, «Per il 25° dell’Editrice Studium», discorso tenuto al Foyer
di Pax Romana, Roma, 6 aprile 1952, in Programma e azione dell’Editrice Studium, Studium, Roma 1964, edizione non venale di 1.000 esemplari numerati; L’udienza di Paolo
VI all’Editrice Studium, Roma, 10 febbraio 1964, Tipografia Same, Milano, marzo 1964.
50
Cfr. G. B. Scaglia, Cinquant’anni delle Edizioni Studium, cit.
51 L’udienza di Paolo VI all’Editrice Studium, cit.
52 Cfr. G. Marcucci Fanello, Fece conoscere in Italia il pensiero di Maritain, in Il Popolo, 9 ottobre 1984.
53 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, 6 voll., Einaudi, Torino 1948-1951 (poi in
4 volumi a cura V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975) e il recentissimo Togliatti editore di
Gramsci, a cura di C. Daniele, introduzione di G. Vacca, Carocci, Roma 2005.
54 A. A. Cantucci, voce «Gramsci», in Dizionario storico dell’Italia unita, Laterza,
Bari 1996.
55 Lettera del card. G. B. Montini a G. Dore, Milano, 26 novembre 1959, carte della Famiglia Dore.
56 Lettera di papa Paolo VI a G. Dore, 5 febbraio 1971, carte della Famiglia Dore.
57 Cfr. G. Dore, La fedeltà al magistero nella libertà. Dall’adesione alla Chiesa trasse un impulso all’impegno personale, in Avvenire, 1° maggio 1973; Jacques Maritain, in
Rocca, 15 maggio 1973.
58 Cfr. F. Ozanam, Scritti scelti, a cura di G. Dore, Cappelli Editore, Rocca San Casciano 1953.
59 Cfr. G. Dore, Savonarola, Studium, Roma 1952.
60 Cfr. G. Dore, Don Giandomenico Pini, Tip. Tuderte, Todi 1936.
61 A. Giovagnoli, Cattolici e cultura negli anni Cinquanta, in Giornalismo cattolico e
quarant’anni di UCSI, a cura di F. Malgeri e P. Scandaletti, Studium, Roma 1999.
62 A questo proposito, si può notare che, nonostante il grande peso della Chiesa
cattolica e il solido potere esercitato dalla Democrazia Cristiana, la televisione in Italia
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poco o niente è stata una televisione «cattolica» o «cristiana» o «religiosa». Anche quando la laicizzazione e la secolarizzazione della società italiana non avevano raggiunto i livelli su cui si sono attestati più o meno dopo la seconda metà degli anni Settanta, la religione influenzava sì la programmazione televisiva, ma più che altro in termini di riferimento ad alcuni limiti tipici della morale del tempo, e poco come tema di una eventuale politica culturale.
63
Cfr. M. Politi, Il ritorno di Dio. Viaggio tra i cattolici d’Italia, Prefazioni di E.
Scalfari e del card. S. Piovanelli, Mondadori, Milano 2004.
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