NOSTALGIE BIRMANE
“Lei non fa spesso meditazione, vero?”
Mi sorride di sottecchi, con il capo leggermente
piegato a sinistra, l’uomo che mi sta di fronte,
camiciola color crema e longeve a quadretti verdi e
neri, la lunga gonna birmana che qui tutti gli uomini,
ad eccezione dei monaci e dei militari, ancora
indossano. Senza attendere la mia conferma riprende:
“Ed è un peccato. Vede, lei ha soggiornato nel nostro
Paese abbastanza a lungo per aver toccato con mano
la nostra povertà, per aver constatato quanto siano
lontane dal nostro modo di vivere tutte le vostre
comodità occidentali, per essersi fatto un’idea di
questo schifo di regime”
Si ferma un attimo, ma neanche il disgusto per il
regime riesce a cancellargli il sorriso. Solo, assume
un atteggiamento come di scusa, quasi che le
nefandezze del regime e i disagi provocati al turista
fossero colpa sua.
In questo Paese in cui le orecchie del governo militare
si nascondono anche negli anfratti dei muri -dicono
le guide turistiche, e probabilmente a ragione- è la
seconda persona che sento esprimersi liberamente
contro il regime. La prima era stato un missionario
italiano di 95 anni, Padre Angelo, ma la sua posizione
era diversa: “E poi, dopo sessant’anni di Birmania in
cui sono stati indicato come rivoluzionario (e in
qualche occasione anche imprigionato) prima dai
colonizzatori inglesi, poi dai conquistatori giapponesi,
infine dai liberatori alleati - ci riferiva con una risatina
chioccia il vegliardo appallottolato nella poltrona non vorrete che mi impressioni per questi pagliacci,
anche se mi hanno fregato i soldi, requisito la casa
e chiuso la scuola!”
“Eppure, avrà notato con altrettanta evidenza riprendo il discorso dell’amico birmano - che la
nostra gente è sempre sorridente, serena. Ecco,
vede, il segreto è tutto nella meditazione. Non ci
vuole poi molto: un paio di ore al giorno. Lei non ha
mai partecipato alle nostre sedute di meditazione, o
sbaglio? La inviterei volentieri, ma so già che mi
risponderebbe che non capisce la nostra lingua, che
non ha tempo... Soprattutto che non ha tempo.
Voi occidentali non avete mai tempo. Anche quando
siete in vacanza. Io sono stato in Italia, sa?
Per lavoro: Fiera di Milano - lo dice in italiano,e ride
- ah,ah! Bella Italia, belli Italiani. Ma non meditano.
Correre, correre, sempre di fretta. Non avete mai
tempo. Nemmeno per le cose importanti. Perché, mi
creda, è solo grazie alla meditazione se noi riusciamo
a vivere decentemente, accettando tutte quelle cose
storte che ci sono nel nostro pur bellissimo Paese.”
“Tra cui questo clima da bagno turco” penso io,
nonostante dove mi trovi adesso sia relativamente
fresco, rispetto all’abituale calura di Yangon.
Della Birmania in queste settimane ho imparato ad
apprezzare -e spesso ad amare- moltissime cose:
dai paesaggi dolcissimi ai monumenti abbacinanti
nel fulgore degli ori o nella preziosità degli intarsi;
dalla cordialità di questa gente premurosa alle
estrosità della cucina; ho perfino accettato (benché
non proprio apprezzato) l’aleatorietà di un sistema
di trasporti in stato di avanzata decomposizione
(treni, aerei, auto o battelli, tutti sembrano sul punto
di sfaldarsi sotto i tuoi piedi).
Ma il clima, quello proprio no.
Stagione secca, hanno il coraggio di chiamarla, a
dimostrazione che tutto è relativo, perché il secco di
Yangon è un vapore bollente e appiccicoso che ti
avvolge all’alba e ti accompagna ben oltre il tramonto, con i vestiti che si amalgamano sgradevolmente
alla pelle, facendoti sentire perennemente fuori
posto. Questo almeno per noi occidentali, perché gli
amici birmani, nei loro costumi tradizionali diversissimi da una regione all’altra, ma tutti
accomunati dal longee maschile che ancora resiste
con successo all’attacco dei jeans- appaiono sempre
in ordine.
Come appunto il mio interlocutore, Direttore Amministrativo di una delle due uniche Case di Riposo per
anziani esistenti in Birmania - o Myanmar, come è
chiamata oggi - nel cui ombroso ufficio stiamo
dunque conversando, pur con qualche incertezza,
dato il mio inglese alquanto primitivo (quello del mio
interlocutore è invece ottimo).
Case di riposo per anziani poveri, specifica
l’intestazione, quasi che uno possa mai credere che
in Birmania esistano anche anziani ricchi, almeno tra
coloro che richiedono il ricovero a tempo indefinito.
Non vengono di certo molti turisti – men che meno
italiani - in queste case di riposo, benché la loro
esistenza sia riportata da una guida per giramondo
(è la prima volta che vedo una guida turistica
riportare l’indirizzo di una casa di riposo).
Successe così che durante i preparativi del viaggio
(tra parentesi, uno dei viaggi più straordinari che
abbia mai compiuto, a causa, più che della bellezza
innegabile dei paesaggi o dei monumenti, della
serenità, gentilezza, dolcezza di questo popolo)
durante i preparativi, dicevo, mentre osservavo la
mappa della capitale Rangoon - o Yangon, come
preferiscono chiamarla oggi - ero stato colpito,
nell’elenco riportante a piè di pagina i monumenti,
gli alberghi consigliati e gli altri “principali indirizzi di
comune interesse”, da un numero corrispondente a
“Home for the aged poor”, “Casa per l’anziano
povero”.
Riguardo ad essa, nessuna ulteriore spiegazione.
Ma un’altra delle mie guide (me ne procuro sempre
almeno tre o quattro, specialmente per viaggi
impegnativi come quello in Birmania), riferiva
dell’esistenza di due case di riposo, in Birmania,
di cui appunto la prima a Yangon, mentre la seconda era situata in una delle antiche capitali dell’ex
regno, Mingun, piccolo agglomerato sito a poca
distanza dalla seconda città del Paese, Mandalay.
Bisogna sapere che in Birmania le ex-capitali,
numerose quasi quanto le famiglie di nobili decaduti
nel nostro Mezzogiorno, sono oggi spesso dei
semplici villaggi, quando non quattro sassi in equilibrio
precario (i terremoti sono una costante di questa
terra); tuttavia anche quando paiono in sfacelo,
contengono sempre almeno due o tre monumenti
notevoli, delle straordinarie forme architettoniche di
una bellezza - e talora anche di una ricchezza abbacinante, che risultano ancora più stupefacenti
allorché spuntano in mezzo alla jungla, o al deserto
o a quattro capanne di paglia.
Bene, Mingun sarebbe oggi solo un paesotto
abbastanza anonimo se non possedesse due pagode
( paya nella lingua locale), due “tesori da non
perdere”, come dicono le guide.
La prima è un’abbagliante, gigantesca torta nuziale
a più piani, un’immensa meringa a forma di pagoda,
che sorge nel bel mezzo di un prato rubato alla
foresta, nel quale pascolano tranquille capre pezzate
e vacche dalle lunghissime corna a mezzaluna,
del tutto indifferenti ai rari visitatori.
Ma quella realmente “da non perdere” è la seconda,
una torre di Babele in rovina (dicono per ira divina
contro la superbia del re costruttore, manifestatasi
con due terremoti in rapida successione) e ancora più
spettacolare perché attraversata da una profonda
fenditura verticale che, partendo dalla base, si apre
come una ferita nei muri color ocra, attraverso il
leggiadro portale riccamente scolpito, sù sù fino alla
piattaforma sommitale, conferendo al monumento perfetto nelle proporzioni, benché decapitato dal
terremoto - un aspetto drammatico che contrasta
con la dolcezza del paesaggio e l’allegria dei ragazzini.
Questi infatti pullulano, come avviene nei dintorni di
qualsiasi potenziale attrazione turistica, per offrirsi
come guida alla scalata del monumento, alto una
cinquantina di metri. In realtà non c’è bisogno di
alcuna guida per raggiungere la cima, essendovi
un’evidente, ancorché non proprio comoda, scalinata
che si inerpica quasi in verticale su un fianco della
paya terremotata. Ma qui le giovani guide improvvisate
non chiedono niente per sè: al massimo dieci kyats
(neanche cinquanta delle nostre lirette) come offerta
per il tempio, da porre nella sporta di due sorridenti
monache-bambine in tunica rosa, e magari ti danno
in cambio un fiore, sicché è sciocco mostrarsi scontrosi.
E se respingi il loro servizio di guida, hanno pronta
una soluzione di ricambio, proponendosi come
guardiani delle tue calzature: perché, essendo la
pagoda un luogo sacro, la salita va affrontata a piedi
nudi, il che non è il massimo dei divertimenti, come
abbiamo sperimentato compiendo l’ascesa sotto il
sole di mezzogiorno.
Fortunatamente, una volta raggiunta la sommità, le
estremità ustionate trovano sollievo nella frescura di
qualche piccola zolla erbosa, dandoti così modo di
gustare il premio del vastissimo panorama senza
dover saltellare da un piede all’altro.
Ecco quindi le svariate sfumature del verde dei
campi coltivati alternarsi alle chiazze più cupe della
foresta; ecco la grande distesa dell’abitato di
Mandalay - capanne, palazzi, monasteri, guglie -
cinta dalle anse del fiume che sfumano, con i
porticcioli brulicanti di uomini, animali, carretti e
imbarcazioni di ogni genere, verso la pianura; ecco
infine, dall’altro lato, il profilo delle prime creste
montuose, punteggiate da paya bianche, dorate,
rosse, celesti, avamposti dei più alti monti che si
intravvedono azzurrini nella foschia opaca della calura...
“lusso”, se confronto le camerette in muratura corredate di armadietto e tavolino - di questi vecchi
poveri con le capanne in legno pressocché prive di
arredo della maggior parte della popolazione.
Inoltre il complesso era dotato di un’ampia sala che
i nostri canoni definirebbero “polifunzionale”, in
quanto fungeva da sala-riunioni, sala da preghiera
e, ovviamente, da sala da meditazione.
In aggiunta dunque a queste meraviglie, la guida
turistica riporta a Mingun l’esistenza di una Casa di
Riposo per Anziani (anche qui rigorosamente poveri)
di tale interesse, almeno per me, da giustificare il
non agevolissimo viaggio in battello (un preoccupante residuato di quella che un tempo era stata
l’imponente flotta fluviale di Sua Maestà Britannica),
la salita a piedi nudi sui sassi arroventati e la ricerca
della Casa in un labirinto di vicoli polverosi tra abitazioni
in legno di teck, capanne a palafitte, recinti per
capre e pagode di ogni dimensione; il tutto immerso
in una vegetazione dirompente.
Nei vialetti e nei prati ai piccoli gruppi di parenti e
ricoverati, si mischiavano venditori di banane, pesci
essiccati, spiedini, frittelle, tanto che era tutto un
vociare e un rincorrersi di bambini attorno a focolari
e pick-nick improvvisati, mentre i vecchi degenti
ruminavano beati.
Comunque la ricerca ebbe successo, anche perchè la
Casa di Riposo - in realtà un vasto complesso di
padiglioni, dormitori, giardini - era di dimensioni
spropositate rispetto al villaggio e, a differenza della
maggior parte delle altre costruzioni, sembrava
tenere a bada con successo l’invadenza della vegetazione e il trascorrere delle stagioni. Qualche difficoltà
semmai presentò la ricerca di informazioni sulla Casa.
Dell’Infermiera Than Than Sue, “persona di riferimento
che - secondo la già citata Guida - si esprime in
ottimo inglese”, nessuna traccia; tuttavia il nostro
timido accenno ad entrare fu subito incoraggiato da
larghi sorrisi, quando non da aperte risate: mai
come in Birmania il mio aspetto e verosimilmente
anche quello di mia moglie è stato fonte di ilarità
per gli autoctoni. Così potemmo girare liberamente
tra i dormitori (stanzoni da una ventina di letti,
ognuno protetto da zanzariera) e le camerette a due
letti per le coppie, accompagnati da un incomprensibile
vociare sommesso, dal quale emergeva di tanto in
tanto la richiesta “pen, pen, candy, candy”, articoli
che purtroppo avevamo quasi completamente esaurito
nei contatti precedenti con i bambini.
Tuttavia qualche penna a sfera riuscì ugualmente a
saltar fuori, come pure qualche pacchetto di biscotti,
sicchè assieme ai sorrisi fummo accompagnati da
inchini e litanie di benedizione. L’impressione
comunque fu di notevole ordine, pulizia e quasi di
Molto diverso perciò da certe cupe atmosfere di
casa nostra, in cui regole e limitazioni sembrano
imposte più per la comodità (o l’indolenza) di chi vi
opera che per il benessere degli ospiti. Mi colpì
comunque l’assenza di vecchi con palesi segni di
demenza, ma a causa del muro invalicabile della
lingua, non potei avere ragguagli sullo stato mentale
dei ricoverati e pertanto, nella nebbiolina purpurea
del tramonto, salpai da Mingun con questa curiosità
insoddisfatta.
La ricerca della Casa a Yangon, impresa sulla carta
assai difficile dato che gli indirizzi qui seguono una
logica del tutto estranea alla mentalità occidentale
e, spesso, anche a quella degli abitanti, fu più facile
del previsto. Con mia sorpresa, il taxista conosceva
l’esistenza e l’ubicazione della Casa (seppi in seguito
che la stessa costituiva una specie di orgoglio cittadino)
per cui eccomi qui a sorseggiare caffè assieme allo
staff dirigenziale.
“Così lei è stato anche a Mingun. Le è piaciuta vero?
La città, intendo, ma anche la Casa di riposo è molto
bella, non è d’accordo?” Il Direttore ha ripreso a
parlare e a pormi domande di cui non attende la
risposta. Tento d’interromperlo, questa volta con
successo: “Davvero molto bella. Ma le spese chi le
paga, visto che gli ospiti sono poveri?” “Donazioni,
donazioni private. Lei si chiederà come faccia della
gente povera come la nostra a mantenere queste
istituzioni. Eppure, se c’è una cosa che funziona in
questo Paese è proprio il sistema delle donazioni: il
mantenimento dei monaci (che rappresentano una
parte consistente della popolazione,N.d.R.), degli
stessi monumenti, le statue ricoperte d’oro del
Buddah, tutto è frutto di una tradizione di donazione
che prosegue da sempre.
La donazione per noi è una consuetudine naturale,
come per voi pagare le tasse - ride divertito, è
sufficientemente esperto di vita occidentale e italiana
in particolare per conoscere quale sia il rapporto
cittadino-tasse in occidente, specialmente in Italia.
“Se poi qualcuno dei nostri vecchi si ammala
seriamente - riprende - lo ricoveriamo in ospedale,
che è qui a 200 metri, e paga lo stato, che almeno
in questo caso qualcosa di buono lo fa.”
Probabilmente è arcisicuro che tra i suoi collaboratori
non sia infiltrato alcun amico del regime.
“Ecco, guardi qui” e mi porge un opuscolo in cui sono
spiegati - in inglese, oltre che in birmano - il
funzionamento e il regolamento della Casa di Riposo.
“Il candidato, di età superiore ai 70 anni, non deve
possedere alcuna forma di sostentamento autonoma.
Deve essere esente da lebbra. Deve essere di buon
carattere e in armonia con il buon andamento della
comunità. Deve essere in grado di rispondere alle
questioni che lo riguardano. Deve potersi spostare
autonomamente. (...)
A ogni ospite, al momento dell’ingresso, vengono
forniti tre completi di abbigliamento (che verranno
periodicamente rinnovati)”. Il linguaggio è molto
lontano dal distacco del nostro burocratese,
nonostante la Birmania possegga una delle burocrazie
più invadenti, corrotte e pasticcione del mondo, ma
fortunatamente il burocratese non è ancora “entrato
a far parte del tessuto sociale”, così si ricorre a questi
lunghi e gentili giri di parole.
annoiarmi.”
A tempo pieno, perché per mandare avanti una
struttura di 200 ospiti il tempo non basta mai.
Certo, non dev’esser facile programmare dei bilanci
contando solo su donazioni; aleatorie, variabili, gli
faccio osservare. “Ah, voi occidentali! Credete che
tutto il mondo si muova con il vostro sistema. Se qui
c’è una cosa su cui possiamo essere sicuri, è che le
donazioni continueranno ad affluire regolarmente. E
magari aumenteranno, dal momento che adesso
vengono a visitarci anche i turisti - ammicca, porgendomi la pergamena che attesta la mia natura di
“benefattore” - Semmai non capisco come facciate
voi, nelle vostre strutture, a fidarvi dei vostri sistemi
di sovvenzione”.
“Se è per quello non lo capisco nemmeno io”, considero, ma tengo il pensiero per me.
La visita sta volgendo al termine, ma prima devo
soddisfare la mia curiosità circa gli Alzheimer: la
meditazione avrà molte ricadute benefiche, ma non
credo possa eliminare l’Alzheimer dalla Birmania.
Provo a chiederne all’amico Direttore, ma il termine
Alzheimer non gli dice nulla; d’altronde non è un
medico lui. “Demented, demented patients” insisto,
ma senza successo. Pazienza, d’altronde non è questo
l’unico interrogativo irrisolto che mi porterò a casa
dalla Birmania. Un altro, più importante, è quello di
come mettere in pratica i buoni propositi circa la
meditazione.
Apprendo, sempre dall’opuscolo, che qui operano
un medico e un’infermiera a tempo pieno, ai quali si
aggiungono volontari e personale del vicino ospedale.
Il Direttore Amministrativo con cui sto parlando non
è invece nominato. Gliene chiedo il motivo.
Avrei lasciato la Birmania il giorno successivo e mi
sarei rituffato nelle abituali occupazioni, non prima
di essermi trascinato per due penose giornate a
Bangkok, distante cinquecento chilometri e alcuni
secoli da Yangon. Giornate penose a causa del traffico
assurdo, del frastuono, dell’atmosfera inquinata, ma
soprattutto per la visione di come un grande
patrimonio di civiltà e cultura vada rapidamente
sgretolandosi.
“Donation! Anch’io sono una forma di donazione:
posso occuparmi a tempo pieno di questa attività
senza ricevere un soldo perché sono in pensione.
Come mi pare di averle già detto, avevo un ottimo
lavoro, grazie al quale ho girato il mondo come ben
pochi dei miei connazionali. Lei crede che avrei potuto stare senza far niente, una volta in pensione?
Va bene meditare, ah,ah, ma bisogna anche agire,
non le pare? Per mia fortuna questa Istituzione ha
accettato le mie competenze in fatto di finanza e
commercio, così mi ha offerto la possibilità di non
Giornate tuttavia istruttive: Bangkok oggi è la
dimostrazione viva di come la smania del guadagno,
del mito del “way of life” occidentale -trasportato da
un turismo becero e straccione quant’altri mai- possa
snaturare un popolo. Un popolo al quale abbiamo
esportato Valentino, ma non Platone; al quale le
rotondità siliconate di Demy Moore sono contrabbandate come l’ideale universale della bellezza,
quasi che la Venere del Botticelli non fosse mai stata
dipinta; al quale abbiamo fatto credere che per
essere “un ragazzo come me” bisogna necessaria-
mente amare i Beatles e i Rolling Stones, e non
Mozart o Mahler. A questo popolo vendiamo
tonnellate di videocassette, ma nemmeno una
pagina di Shakespeare, gli compriamo orologi e
T-shirts falsificati, ma non un pensiero vero. E poi ci
lamentiamo: “Ah, dov’è finita la Bangkok di un tempo,
il Siam delle favole e dei misteri?”. Dicono che
trent’anni fa’ Bangkok non fosse dissimile
dall’attuale Yangon, che i Tailandesi di allora non
fossero dissimili dai Birmani di oggi: premurosi,
sorridenti, affidabili.
Poi sono intervenuti il “progresso”, il “tutto e subito”,
lo “sviluppo”, che hanno regalato la televisione (a
molti) e il benessere (a pochi).
Ma, ancor più importante, che hanno sottratto a
(quasi) tutti la capacità di chiedersi “dove mai sto
andando?”. In altre parole, la consuetudine alla
meditazione. Aveva ragione l’amico Direttore, non
abbiamo mai tempo per le cose importanti. A Bangkok come a Milano.
Eppure non si può procedere sempre alla cieca.
Comportarsi in certi modi, compiere certe scelte solo
perché “si è sempre fatto così” o all’opposto perché
“è ora di cambiare”. “Non mi piace, ma mi adeguo”:
è più semplice. No, non mi può bastare. Ormai sono
giunto a un punto della vita in cui sempre più spesso
si è tentati di volgersi indietro, non tanto per coltivare sterili rimpianti, magari nemmeno per impantanarsi in difficili bilanci, quanto per cercare di trarre
indicazioni su come occupare al meglio il (poco?
tanto?) tempo che resta.
Correre, correre, sempre di fretta. Almeno non si ha
tempo per pensare.
“A me se di vecchiezza la detestata soglia evitar non
impetro (...) Che parrà di tal voglia? che di
quest’anni miei? che di me stesso?” Leopardi se lo
chiedeva a trent’anni.
“Quando sarò vecchio avrò tutto il tempo per pensarci.” E anche la voglia? E se domani non potessi più
pormi domande, se non potessi più rispondermi
perché è venuto a mancarmi il cervello? Quanti dei
miei vecchi dementi avevano messo in programma
che un giorno gli sarebbe andato il cervello in pappa?
Loro, se la saranno poste in tempo queste domande? E si saranno dati delle risposte? E soprattutto: è
giusto, è opportuno , è utile darsi delle risposte?
Non posso rispondere: “Forse”. Forse non lo so, forse
non lo so ancora, ma insomma, prima o poi almeno
questo quesito devo risolverlo: o sì o no. “Non ci
vuole poi molto: un paio di ore al giorno...L’inviterei
volentieri...”
L’invito dell’amico birmano mi ha inseguito per mesi,
poi finalmente mi ha raggiunto. Nel posto più insospettabile: in America – che con la Birmania ha
proprio poco da spartire- dove mi trovavo in vacanza.
In riva a un placido lago al confine tra USA e Canada,
stavo trascorrendo una settimana di assoluto riposo,
vale a dire non pressato da urgenze turistiche, da
smania di visitare questo e quello, di ammassare
quanto più possibile di ciò che mi circonda. Stavo
inoltre leggendo un libro insopportabilmente noioso,
ma dotato di un aspetto positivo: illustrava le elucubrazioni dell’autore - una persona egocentrica,
insofferente, ipercritica, ripetitiva, insomma, ben
poco attraente per i miei gusti - su fatti e circostanze
della sua vita, obiettivamente poco significanti.
Ma proprio questa sua capacità di scavare su cose
da poco mi sembrava apprezzabile, mi induceva a
tentare l’operazione anche su me stesso.
E così, proprio nella terra ritenuta (secondo me a
torto) come la quintessenza della supertecnologia,
del nuovo a tutti i costi, della fretta, della competitività, ho iniziato a meditare. Non a inseguire qualche
pensiero astratto, a sviluppare fantasie. No, proprio
a meditare (benché per molto meno tempo che per
un paio di ore al giorno).
Ho incominciato a guardare la mia vita come ho
tante volte osservato la mia casa, la mia città
dall’alto di un monte, come ho osservato Mingun e
Mandalay dall’alto della paya diroccata.
Il solo modo per avere una visione d’insieme.
Più reale, perché più distaccata.
Vedo i particolari, so che mi appartengono - quella è
la mia casa, quella è la mia città - però ne sono
lontanissimo.
E’ stato solo un inizio.
Con quali risultati?
Beh, questa è un’altra storia.
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