TRE SCRITTI SULLO
SCULTORE
GINO COSENTINO
Alberto Bonardi, Marcello De Carli, Chiara Zaccaria
COSENTINO
Tratto dall’opuscolo per la mostra tenuta nello studio di Cosentino in via Watt 5, Galleria Blu,
Milano, 1971
Marcello De Carli
FRAMMENTI SU SCULTURA E ARCHITETTURA
Estratto da :G. Gianazza (a cura di) “Cosentino. Sculture e dipinti”, Apollo e Dioniso Edizioni,
Milano, 2002
Marcello De Carli
FRAMMENTI DEL GINOCCHIO DEGLI ARCHITETTI
Intervento al seminario “Gino Cosentino e gli architetti” 14/12/2005, Facoltà di architettura Civile
del Politecnico di Milano
Gli atti del seminario sono in pubblicazione, a cura della “Fondazione Gino e Isabella Cosentino”
Alberto Bonardi, Marcello De Carli, Chiara Zaccaria
COSENTINO
Tratto dall’opuscolo per la mostra tenuta nello studio di Cosentino in via Watt 5, Galleria Blu,
Milano, 1971
Sono qui presentati i diversi lavori di Cosentino.
Pensiamo che nella sua scelta di condurre fino in fondo l’esperienza delle tecniche tradizionali
della pittura e della scultura ci sia un senso progressivo. È importante la scelta, nella tradizione,
dei modi che legano maggiormente la tecnica alla rappresentazione.
Le sculture sono esempi di una serie (il cui tema è costante) su cui Cosentino ha lavorato per
molto tempo: le affinità. La radice del suo atteggiamento può essere rintracciata all’interno di
quella tendenza dell’arte moderna i cui principi riteniamo siano sinteticamente enunciati nel
discorso di Klee sulla figurazione. Il lavoro di Cosentino consiste nella scelta del fatto da
rappresentare (l’affinità fra due forme determinate) e nell’aggiungere e levare materia fino al
raggiungimento dell’armonia. Questo fatto, l’armonia, è riconoscibile con incertezza dal punto di
vista razionale ma con certezza dal punto di vista dell’esperienza sensibile. L’insegnamento di
Arturo Martini ha lasciato una traccia in questa ricerca di Cosentino. Le affinità non interessano
solo come risultato dell’atteggiamento di Cosentino nel suo lavoro di scultore, di cui abbiamo
parlato ora; ma anche come tema scelto. La reiterata rappresentazione dell’amore piuttosto che
della violenza, o dell’alienazione, o del dolore, è un fatto personale che esprime la sua visione del
mondo. Qui il discorso va a finire nella psicologia, sul carattere generoso e aperto di Cosentino,
piuttosto che chiuso o astioso.
I quadri astratti costituiscono un’esperienza particolare nel suo lavoro: diventa centrale la sola
questione dell’armonia ottenuta con quella tecnica (colori acrilici) e con quel tipo di composizione
(superfici uniformi di colore). Superfici e intensità di tonalità hanno un modo di equilibrarsi che
tiene conto del peso di ogni spazio e colore. Spesso queste pitture hanno un legame tematico con
le sculture: sono affinità o forme che si cercano anche alcuni disegni.
Con i quadri figurativi, le ultime cose fatte, Cosentino torna a compiere un’esperienza più ricca di
significati della pittura. Pensiamo che sia una via giusta. Anche in questo caso, come per le
affinità, sono importanti due cose: la tecnica e il tema.
La tecnica è antica: tempera e olio; la composizione è costruita con elementi essenziali: superfici
omogenee di colori (fondamentali o ottenuti dai fondamentali; interessante al gamma di risultati a
cui giunge, ad esempio i viola) e disegni sintetici delle cose. Il mondo rappresentato è quello degli
uccelli, dei pesci, delle farfalle, colti e fissati in un atto ripetuto ma significativo della loro esistenza.
L’amore per gli animali dell’aria e dell’acqua è contrapposto all’attenzione per gli avvenimenti
storici. Non pensiamo che questo sia un limite; è l’elezione di un punto di vista da cui
riappropriarsi di tutto il mondo. Così anche quando Cosentino dipinge (in un quadro successivo a
quelli qui presentati) sulla guerra, degli uccelli sulle croci guardano indifferenti i morti. L’indiretto
(che contrappone questa presenza di sempre all’avvenimento) è inquietante e ci dice con
chiarezza di un modo di vedere le cose del pittore, critico e sereno, che congiura col modo di
vedere (e amare la vita) degli uccelli.
Marcello De Carli
FRAMMENTI SU SCULTURA E ARCHITETTURA
Estratto da :G. Gianazza (a cura di) “Cosentino. Sculture e dipinti”, Apollo e Dioniso Edizioni,
Milano, 2002
EPIGRAMMA PER UNO SCULTORE LAUREATO IN ECONOMIA E COMMERCIO
Luigi Cosentino si laureò in economie e commercio nel 1940 mentre faceva una ferma di sei anni.
Ne ricavò un’ulcera gastrica, che lo aiutò a scampare la campagna di Russia, del tutto disagevole
per un siciliano.
Data la sua inettitudine al commercio, la laurea gli costò una gran fatica e la conseguì solo grazie
al suo status di militare di lunga leva.
Quasi dieci anni di attività forzate, da studente e militare, hanno ritardato il suo ingresso ufficiale
nel mondo dell’arte, che avvenne nel ’46, a trent’anni, con il diploma dell’Accademia di Belle Arti di
Venezia, meritato, questa volta, come miglior allievo del miglior maestro, Arturo Martini.
RISARCIMENTO PER UNO SCULTORE SOLDATO LAUREATO IN ECONOMIEA E
COMMERCIO
È giusto che quegli anni persi, per l’arte, gli vengano restituiti (per l’arte) prolungando la sua attività
fino a tarda età (almeno un po’ più di sua mamma, quindi fino al secolo) con realizzazione di
opere, finalmente, per il grande pubblico (potrebbe godere di gloria postuma mentre è ancora
vispo).
PROPOSTE PER COSENTINO A MILANO
La donna che legge
Bolles e Wilson hanno vinto il concorso per la nuova Biblioteca Europea di Milano, che sarà
costruita sull’area dell’ex scalo di Porta Vittoria. L’edificio è costruito lungo un percorso “rampa
esterna, piazza coperta interna, rampa esterna”.
Cosentino ha realizzato la “donna che legge”, in legno, nel 1975, pensando alla sua compagna.
Non si è mai vista rappresentata la “lettura” con tanta forza e intensità (e con volumi così chiari che
consentono di percepire l’armonia delle forme anche da lontano).
La “donna che legge” “terrebbe botta” sicuramente nel grande spazio dell’”atrio/piazza” della
biblioteca di Bolles e Wilson, visibile da chi entra e dall’alto delle balconate. Dovrebbe essere
ingrandita in una dimensione sovrumana, un’altezza (si parla di una donna seduta, sul cui grembo
ci si potrebbe arrampicare, per leggere con lei e su di lei) compresa fra i due e tre metri. In
quell’atrio la “donna che legge” potrebbe trasformarsi anche nel modulo di un totem di multipli (una
miriade di donne che leggono).
L’annunciatore
Cosentino ha realizzato l’annunciatore nel 1979, in legno.
L’annunciatore dovrebbe essere esposto, in pietra chiara, sullo sfondo di un edificio del novecento
milanese, con un muro cieco, in pietra o in mattoni, e un’ombra retrostante (una nicchia?) su un
sostegno esile, come la solettina a sbalzo di un balcone senza parapetto.
Protezione (l’uccello e il pulcino)
Il grande uccello che protegge il pulcino, realizzato in grande dimensione con la collaborazione di
artigiani di Pietrasanta, è collocato in un giardino del Politecnico di Bovisa. Onore al merito di chi
l’ha scolpito, di chi l’ha proposto e di chi l’ha acquistato.
Il grande uccello e il pulcino vorrebbero, nel prato di Bovisa un loro paesaggio, formato da piante e
arbusti, magari grassi e puntuti, come quelli di Sicilia.
Il suonatore di trombone
Il suonatore di trombone fa parte di un gruppo di opere nelle quali la pietra, o il gesso, diventano
un personaggio che vive di arte e di pensiero (il poeta o l’incantatore di serpenti, il pianista, il
saxofonista).
Dovrebbe essere esposto, anche ingrandito, (lui o il pianista) in un atrio delle scuole civiche di
musica, o del conservatorio, in uno spazio libero, sullo sfondo di muri bianchi.
La madre siciliana
La madre siciliana, albero che si è fatto scultura, dovrebbe essere esposta nel prato di un parco,
potrebbe essere il parco (protetto) di Villa Reale.
L’ARTE DI ESPORRE LE SCULTURE NEL COMUNE DI MILANO
Il comune di Milano ha organizzato un laboratorio / concorso per la ricostruzione della stanza della
Pietà Rondanini, ed ha affidato al vincitore, Alvaro Siza, la ricostruzione di quella stanza, perché
giudicava inadeguata la (bella) ambientazione progettata dai BBPR nel’50.
Il comune di Milano ha ospitato per tanti anni due sculture di Cosentino, due affinità (grandi
sculture per spazi interni, piccole sculture per spazi esterni), sulle aiuole che costeggiano a sud via
Fatebenefratelli, prima dell’incrocio con via Brera, dietro al Giamaica.
Cosentino era contento di stare (per interposta scultura) vicino al Giamaica.
Ma le aiuole sono di fianco ad una strada carraia, lo sfondo è costituito da cartelloni pubblicitari, i
cespugli hanno coperto le pietre.
Quelle sculture, nate per comunicare un’astratta armonia, con la proporzione delle loro masse e la
precisione armonica della sottile fessura fra le due pietre (percepita da un occhio attento in uno
spazio ordinato), come potevano comunicare un’emozione ad un automobilista distratto, od ad un
frequentatore del Giamaica, frettoloso ed un po’ ebbro, nel basso prato, sommerse dai cespugli, in
uno spazio visivo invaso dai cartelloni pubblicitari?
LA SCULTURA DI BOTTEGA
Cosentino lavora sull’armonia e sulla tecnica.
Ha sperimentato molto, anche a discapito dell’immagine commerciale che richiede ripetizione per
avere facile identificazione nel mercato. Ha costruito forme astratte o allusive a figure naturali,
sempre componendole alla ricerca della loro armonia. Non ha mai lavorato sul “grazioso”, sul
“sorprendente”, sull’”inusitato”, sul “meraviglioso, sul “gigantesco”, sul “ripetuto”, sul “gestuale”.
La sua scultura non nasce per un altro spazio. Nasce nello spazio dello studio. In ogni scultura il
contesto di una forma sono le altre forme della scultura e, sullo sfondo, dello studio.
Ho sempre pensato allo studio di Cosentino come ad un’opera d’arte, forse la più bella delle sue
opere d’arte. Uno spazio popolato di personaggi mutevoli, i nuovi che si affiancano ai vecchi
invenduti, sostituendo quadri e sculture partiti per altre destinazioni.
Quindi, quando una sua scultura lascia l’ambiente naturale dello studio, le va creato un ambiente
adatto, che le consenta di comunicare tutta la bellezza, l’armonia e il sentimento di cui è capace.
Palpitazione e palpazione
Quando ho cominciato a frequentare il suo studio, Cosentino mi faceva da maestro, mostrandomi
come faceva nascere una scultura e raccontandomi alcuni segreti. Ne mostrava uno in particolare,
con l’orgoglio di un prestigiatore: giudicava l’armonia di una scultura toccandola con una mano,
senza guardare; con l’altra manipolava un po’ di gesso, fino a che la quantità gli sembrava quella
giusta, poi lo aggiungeva e modellava, sempre senza guardare.
C’è l’emozione di un cuore palpitante quando, lavorando col gesso, aggiungendo e togliendo, a un
certo punto appare l’armonia.
C’è la tecnica di una mano palpante quando l’aggiungere e togliere è fatto senza guardare la
scultura, ma solo palpandola, fino a sentire l’armonia della forma.
LE RAPPRESENTAZIONI DI COSENTINO.
Nella vita di un creativo spesso, quasi sempre, la prima grande opera è un momento di eccellenza,
perché, se uno ha la tecnica per controllarle, esplodono (prorompono con l’entusiasmo della
giovinezza) associazioni di idee maturate fino a quel momento, con un carico di vitalità che poi è
difficile riprodurre. (Succede anche ai romanzieri, a Calvino per esempio, o a Eco, con “In nome
della rosa”, che era il primo romanzo, anche se scritto in età avanzata).
Nella vita di un creativo spesso, quasi sempre, l’approfondimento, nella maturità, di temi che
appartengono alla propria storia ed alla propria sensibilità consente di riprodurre opere eccellenti
(oltre ad essere un modo di stare nel mercato).
La maturità aiuta, perché associa alla tecnica quel po’ di arteriosclerosi che rende tranquillizzante
ed appagante la ripetizione di un gesto conosciuto, nelle sue infinite variazioni, e seda l’ansia di
sperimentare nuove vie che, la difficoltà o la lentezza nell’istituire nuove sinapsi, rendono
impraticabili.
Nella storia e nella sensibilità di Cosentino ci sono l’adolescenza a caccia nei boschi, la vita,
vissuta e desiderata, da amante, i racconti della scultura romanica nei fregi delle chiese, con la
pietra che si fa allegoria di esseri viventi e dei loro sentimenti.
Negli anni Cosentino, essere intellettualmente inquieto, ha sperimentato anche la costruzione
dell’armonia con composizioni di pittura astratta, con composizioni, che lui chiamava “pop art”,
fatte di stampi industriali.
Poi è tornato alle sue idee fisse di amante, cacciatore e indagatore di primordiali modi di essere
umani: l’armonia trovata nell’abbraccio / compenetrazione tra due forme (astratte o figurate), la
pietra che si fa natura (natura meridionale, popolata di uccelli, piante grasse, lucertole, gatti,
pecore), la pietra che si fa umanità (la maternità, l’amore, l’artista).
La via crucis di Baranzate
Per chi ha sensibilità per l’arte, almeno per la tradizione artistica del mondo occidentale, la visita
alla “via crucis” esposta nella chiesa di Baranzate è un’esperienza emozionante.
Si tratta della “chiesa di vetro” (chiesa di Nostra Signora della Misericordia) di Mangiarotti e
Morassutti, che contrappone alla fragilità della scatola muraria (in vetro) la solidità “ciclopica” dei
muri di recinzione in pietra grossa. Sui muri in pietra grigia sono appoggiate le formelle in
serpentino di Cosentino, degli altorilievi che fanno nascere dalla pietra figure sbozzate quel tanto
che basta per accoppiare all’armonia dei volumi l’espressione di sentimenti intensi.
La “chiesa di vetro” ha colpito l’immaginazione del tempo per la novità. Il muro in pietra, di per sé
bellissimo, e le sculture di Cosentino restano un capolavoro e sono in piena armonia fra di loro. È
possibile descriverli tecnicamente; non è facile descrivere il loro modo di essere senza cadere
nella banalità: il muro in pietra, che, come le mura di una città micenea, ha in sé la storia della
costruzione, la faticosa conquista della solidità, e le sculture di Cosentino, con la pietra
profondamente scavata, con pieni e vuoti, luci e ombre, interrotte non appena la figura arriva,
nell’armonia della composizione, ad esprimere un sentimento, hanno in comune la forza di
qualcosa che nasce ed esiste per sempre e da sempre.
Pilastri e muri decorati
Dopo la Via Crucis di Baranzate Cosentino ha fatto la sua personale via crucis, per altro
gioiosamente, nel mondo dell’arte astratta. Ha trovato l’essenza dell’armonia, che è proporzione e
rapporto fra forme, fra vuoti e pieni. Poi è tornato ad unire l’armonia ad una figurazione
primordiale.
Durante quel periodo, con amici architetti (Invernizzi, Fragapane, Farina Morez, Kraus, ancora
Mangiarotti e Morassutti) ha fatto esperienza di composizione astratta su elementi di architettura
(facendo modellare i casseri di getti in calcestruzzo).
Ne sono uscite belle composizioni, che hanno il carattere di decorazioni giustapposte all’elemento
di architettura. Si intravvede una strada che non ha ancora il suo compimento.
La scultura come racconto
Sarebbe bello dare a Cosentino l’occasione di un nuovo racconto, fatto alla maniera dei romanici e
dei gotici, con elementi di architettura che diventano scultura, scultura fermata nell’attimo in cui sta
per diventare figura, in un portale, o nelle formelle di una porta, o in una scena a puntate su pilastri
e muri, in una chiesa, in un’università, in una discoteca, o in un altro luogo in cui si celebrano
funzioni o riti popolari.
ARCHITETTURA VISTA DA COSENTINO
Ho fatto con Cosentino e altri amici /amiche, in 124, il “viaggio in Francia” tanti anni fa, alla
scoperta di Le Corbusier e altro ancora.
Abbiamo avuto un dibattito intenso ed anche emozionante (perché il conducente dell’auto, che
partecipava intensamente alla discussione, era una di quelle persone che guardano fisso
l’interlocutore negli occhi quando parlano, e noi stavamo seduti sul sedile posteriore).
È stato un momento importante della mia formazione scoprire l’architettura vista dagli occhi di un
bravo scultore; il suo amore, condiviso, per Le Corbusier, la sua antipatia per l’architettura del
seicento francese, quando la “grandeur” manierista soppianta l’armonia del Rinascimento italiano
(ma, detto da architetto, con grandi spazi urbani).
Nel secolo scorso Le Corbusier ha fatto sicuramente la migliore sintesi fra il lavoro dello scultore e
quello dell’architetto. E Cosentino si trovava in naturale sintonia.
La modellazione di un parco
L’armonia è un attributo della forma, al di là della sua dimensione e della sua funzione.
Non c’è differenza, per questo aspetto, fra un oggetto che chiamiamo scultura e un edificio che
chiamiamo architettura, né fra un oggetto piccolo e uno grande.
Un giorno sono andato a trovare Cosentino per chiedergli una collaborazione gratuita nella
modellazione dei rilevati di un parco. Lui mi ha offerto una collaborazione con-creta, ed abbiamo
rimodellato in scala, su una tavola di legno, i rilevati, lavorando (giocando) fino a che il modello è
diventato armonico (con il limite, che per uno scultore non sarebbe esistito, di un’altezza dei rilevati
tecnicamente ed economicamente plausibile).
Mi è tornata in mente questa collaborazione qualche mese fa, quando un ex studente del mio
corso universitario, che conosceva il disegno del parco, dopo averlo visitato, mi ha comunicato di
essere rimasto piacevolmente sorpreso dal paesaggio creato da quei movimenti di terra (non
facilmente immaginabile guardando solo il disegno delle curve di livello).
Passare la vita giocando
Cosentino, checché ne dica e per quanto si lamenti, ha compiuto l’opera d’arte di passare la vita
creando e giocando
Marcello De Carli
FRAMMENTI DEL GINOCCHIO DEGLI ARCHITETTI
Intervento al seminario “Gino Cosentino e gli architetti” 14/12/2005, Facoltà di architettura Civile
del Politecnico di Milano
Gli atti del seminario sono in pubblicazione, a cura della “Fondazione Gino e Isabella Cosentino”
Lo studio di Gino Cosentino, in via Watt a Milano, è la sua opera più bella (dopo la Via Crucis di
Baranzate, a dire il vero); pullulante di figure, quadri e sculture, volumi e ombre, la sera, sotto la
luce dell’impianto elettrico progettato e costruito (a norma?) dall’arch. Alberto Bonardi col
beneplacito di Cosentino. Spazio di molteplici armonie.
Ancora adesso, quando si entra, se sei sensibile (cioè, se non sei un mostro, umanamente
parlando) le sinapsi si autoregolano su uno stato di euforica beatitudine (non si è ancora scoperto
se l’arte figurativa, la buona arte, attiva la produzione di dopamina, di serotonina o di altri ormoni e
neurotrasmettitori).
L’armonia nella scultura è un mistero. Lo è in tutte le arti, ma in altre il pensiero razionale, analitico
matematico, ha fatto qualche passo avanti, se non nello spiegare, nel descrivere (i rapporti
armonici, le proporzioni; nella pittura Klee, con le sue teorie su pesi e misure). Nella scultura no,
sono equazioni troppo complesse.
Gino officiava quel mistero. Lo ha fatto con tecnica consapevole. Anche questo suona strano: la
tecnica per realizzare un mistero. Non magia, tecnica. Lo ha sempre fatto con gioia infantile.
Sembrava un bambino, per l’intensità della concentrazione nel gioco e la gioia sempre nuova per il
risultato, quando di colpo tutto funzionava.
Penso che questo entrare/uscire in un’infanzia giocosa sia stato alla radice di un’amicizia
spontanea, senza fatica, nata il primo giorno che ci siamo incontrati, a casa Bono, a Intra, e
confermata il secondo giorno (da allora in poi), un anno dopo, nell’appartamento di via Binda a
Milano, dove era sbarcato nel ’69, cinquant’anni passati, con la Pim, per ricominciare.
Ho visto lo studio di via Watt nascere e popolarsi di sculture e quadri. Ho discusso con lui il suo
ritorno alla figurazione, dopo la lunga “iniziazione” dell’astratto. Con Bonardi e Zaccaria abbiamo
curato il catalogo delle opere con cui si mostrava (ed esponeva), nel suo studio, nuovamente, alla
città dopo il ritorno.
Io avevo una certa familiarità con l’arte, non nel fare, ma nel riconoscerla. Familiarità per ragioni,
giustamente, di famiglia. Sapevo già che c’era il mistero.
Il papà (Carlo De Carli) frequentava pittori e scultori.
Il mondo del Novecento milanese, un po’ bohème, e le avanguardie delle Triennali degli anni ‘50
entravano a casa nostra sotto forma di persone, quadri, sculture, racconti. C’era in casa anche un
“Cosentino”, un pastore con pecora.
Ricordo una visita a Lucio Fontana, nello studio di corso Monforte. Avevo diciassette anni, c’erano
bellissime modelle (?), e mucchi di quadri sul pavimento, appoggiati ai muri. Fontana
accompagnava il papà, io al seguito, a vederne solo alcuni, quelli giusti. Non quelli, pur apprezzati
dal mercato per l’originalità del gesto (il buco, il taglio), fatti quasi in serie per un benessere
finalmente raggiunto; ci portava a vedere quelli veri (sempre con buchi e tagli), che avevano
raggiunto perfetta armonia.
Ecco, Gino non aveva quadri e sculture solo per il mercato, non era capace. Era tutto vero.
Per essere accettato dal mondo, batteva altre strade. Aveva imparato la chitarra classica.
Alternava Bach con canzoni della tradizione meridionale, sussurrate con voce appassionata.
Aveva studiato chitarra perché gli piaceva e per sedurre. Complice la Pim, seducevano ospiti
affiancando all’arte figurativa quella del cibo e della musica, con impegno, per amicizia e per
campare, insieme. Senza furbizie. Non era furbo. Era di un’integrità disarmante.
Passava nel suo studio la Milano da bere. Faceva alcune grandi mostre e “gaffes” con i potenziali
galleristi. Scolpiva e dipingeva. Confezionava gioielli. Dipingeva e scolpiva, pietra e legno.
Abbiamo fatto insieme il grande “tour”, il viaggio in Francia, alla scoperta di Le Corbusier. Poi in
Inghilterra. E lui, scultore, mi ha insegnato a vedere certi aspetti dell’architettura, soprattutto
guardando Le Corbusier: Gino si sentiva in sintonia.
Ricordo che negli anni ’80 la Triennale ha organizzato una mostra sull’IBA di Berlino.
C’erano molti bei progetti, tutti rappresentati con plastici. Dentro quella città in miniatura
un’architettura balzava fuori, in modo stupefacente, ai miei occhi. Era la casa di Berlin
Friedrichstadt di Aldo Rossi.
La conoscevo già, ma non avevo mai visto il plastico. Era l’unico che avesse la potenza di una
“scultura” alla Arturo Martini, o alla Cosentino. Lo vedevo con gli occhi di Gino, e lo sapevo (a
questo punto lui chiederebbe indietro i suoi occhi).
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Ginocchio è un nomignolo che gli ha dato Mario Fosso. Lui lo accettava un po’ stupito. Come
fosse insieme Geppetto e Pinocchio, l’artefice e la favola.
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Col passare degli anni aveva accentuato, quell’incedere con le spalle quadre, parallelepipedo
rettangolo un po’ oscillante, quasi un Totò, meridionale squadrato come lui, con il naso a fendere
l’aria (tali nasu, tali fusu) e gli occhi vispi pieni di certezze e smarrimenti.
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Resta la sua scultura; restano i suoi personaggi, cui sono particolarmente affezionato: il filosofo, il
sassofonista, la ballerina, il’trombonista, la donna che legge, l’annunciatore; poi gli animali, gli
alberi grassi del meridione, le astratte affinità.
La scultura di Gino non è “evento”, è eterna armonia di volumi. Lui non si occupava di oggetti
solitari, amava le relazioni e i rapporti (in genere a due; su questo si sarebbe ironizzato, seduti
sulla panca del suo studio, le spalle rivolte verso il tavolo).
Cosentino in qualche modo appartiene alla nostra famiglia (nostra di chi?), così come la intendeva
Aldo Rossi: famiglia culturale. Non è un parente lontano. Il suo insegnamento, per chi fa il
mestiere di architetto, non è una scultura/decorazione appiccicata a un edificio. Il suo
insegnamento è l’armonia di volumi e spazi, che riguarda il suo mestiere, come il nostro. È parte
della tradizione di alcuni (molti) di noi. È una tradizione diversa da quella del design degli oggetti e
del lavoro sulla pelle dell’edificio.
Ho letto di recente un bell’articolo di Renzo Piano sulle periferie. Pubblicato da “la Repubblica”.
Parla dell’architettura come creazione di un ambiente ospitale. Se la prende con i teorici
dell’architettura come scultura.
In parte ha ragione. Ma io penso che si riferisse a chi chiama scultura un grattacielo storto.
Perché il fare armonia con volumi e spazi non è fuori dal mestiere, è parte integrante del mestiere.
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Concludo con un’immagine, la ballerina che non sfigurerebbe vicino al Partenone.
Marcello De Carli
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