ProsPettIve antImoderne n. 01/2011
Il pensiero in
cammino
Il camminare nelle sue valenze
spirituali, filosofiche e metafisiche
Il pensiero
in cammino
Il camminare nelle sue valenze
spirituali, filosofiche e metafisiche
n. 01/2011
pag. 4
La montagna come esperienza del limite
di Francesco Tomatis
pag. 5
Editoriale: metafisica del camminare
a cura della Redazione
Antarès, Prospettive Antimoderne
RIVISTA TRIMESTRALE GRATUITA
pag. 8
Direttore editoriale: Andrea Scarabelli
Direttore responsabile: Gianfranco de Turris
Redazione: Rita Catania Marrone, Francesca Noemi Coscia, Emanuele
Guarnieri
Hanno scritto: Rita Catania Marrone, Igor Comunale, Emanuele Guarnieri, Mitsuharu Hirose, Andrea Marini, Gianpiero Mattanza, Marco Molino,
Mauro Scacchi, Andrea Scarabelli, Francesco Tomatis
Illustrazioni di: Alessandro Colombo, Irene Pessino
Progetto grafico e AD: panaro design
Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro
Edizioni Bietti - Società della Critica srl,
Sede legale: C.so Venezia 50, Milano
www.edizionibietti.it
Saggi:
Alejandro Jodorowsky:
La Montagna Sacra
di Mitsuharu Hirose
pag. 11 Strada a senso unico, molte destinazioni
di Igor Comunale
pag. 15 Spiritualità della strada
di Emanuele Guarnieri
pag. 20 Il camminare come gesto
e disobbedienza civile
di Andrea Marini
pag. 25 E la verità si fece pietra
di Marco Molino
In attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano
Stampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera d’Adda (BG)
pag. 28 Il cammino spirituale nella Tradizione
di Mauro Scacchi
[email protected]
www.antaresrivista.it
Antarès è anche su Facebook, alla pagina “Antarès Rivista”.
pag. 35 Ascesa e ascesi – la vetta
come conquista interiore
di Andrea Scarabelli
Recensioni:
pag. 39 Nicolás Gómez Dávila:
Pensieri antimoderni
di Gian Piero Mattanza
pag. 41 Andrea Colombo:
Il Dio di Ezra Pound
di Andrea Scarabelli
pag. 43 Fernando Pessoa:
Economia & Commercio
di Rita Catania Marrone
pag. 46 Francesco Tomatis:
Filosofia della montagna
di Emanuele Guarnieri
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I
L PROGETTO che presentiamo si rivela, al contempo,
conclusione di una serie di riflessioni svolte dalle personalità che vi ruotano intorno e come periplo intellettuale e filosofico, atto a favorire lo sviluppo di tematiche la
cui urgenza DEVE impensierire chi ha a cuore la cultura di
questo ateneo, di questa città, di questo nostro tempo. Da
siffatte preoccupazioni nasce questa associazione, la quale si
prefigge, come scopo da conseguire, una riflessione costante
e puntuale su quei DOGMI in nome dei quali il mondo moderno – nonostante la sua apparente avversione per ciò che è
dogmatico – miete le sue vittime. Riflessioni, queste ultime, il
cui contenuto è stato abbozzato nell’opuscolo diffuso, in cinquanta copie – tiratura limitatissima dovuta alla natura stessa
del progetto, il quale è interamente autofinanziato – tra il 18
e il 19 ottobre, nel nostro Ateneo. Proprio in merito a quanto trattato in esso, Antarès, nella forma della sua redazione e
dei suoi collaboratori, accusa tutti i SISTEMATISMI, volti a cristallizzare in forme costituite il divenire multiforme
e metamorfico di una vita che assai malvolentieri accetta la
prigionia, che sia museale, analitica o da catalogo. E ciò, sulla
scia di un Goethe, che lesse piuttosto svogliatamente la kan-
al cristallizzato, ma ad un divenire che, come spartito, ritorna, seppure con variazione, come inedita – e, al contempo,
ancestrale – configurazione storica e destinale. Non occorre cercare in altre epoche le soluzioni alla crisi che attanaglia la Modernità – come la fiamma che, accarezzando la carta, ne rivela i caratteri occultati, così la decadenza produce,
al contempo, anticorpi che IN NESSUN ALTRO MODO
avrebbero potuto essere generati. Curare la modernità CON
la modernità stessa. Questa è la scommessa intellettuale che
anima le presenti ricerche.
La QUANTITÀ, in tutte le sue configurazioni epocali.
Dall’industria culturale, che seleziona il valore delle cose e
degli uomini secondo i dettami della tirannia del danaro, a
certo égalitarismo incapace di generare uguaglianza se non
attraverso la massificazione selvaggia delle genti, l’inaugurazione di una inaudita NOTTE DEI POPOLI. Dalla tecnocrazia imperante, che strangola i domini della cultura, costringendo questa ultima, nella migliore delle ipotesi, a farle
da supporto teoretico, ad un individualismo che mutila l’uo-
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e quegli altri principi che fondano il nostro esserci odierno
non possano, per nessuna ragione, essere ridotti ad UNA
delle loro dimensioni, quale che essa sia.
Innanzi agli scempi perpetrati dalle filosofie ANALITICHE – sia d’oltreoceano che nostrane – l’UNITA’ METAFISICA DI OGNI ENTE IN QUANTO TALE, secondo il precetto olistico per il quale un tutto è alcunché di
QUALITATIVAMENTE superiore alla somma aritmetica
e dunque QUANTITATIVA delle sue componenti.
Il MOVIMENTO in luogo della quiete, il sentiero di montagna in luogo della pianura che tutto livella. Il pensiero
libero, vivo e pulsante, che ha in odio la clausura dell’uomo entro schemi architettati da certo pessimo razionalismo che altro non vede se non ghiaccio, forme morte e immobilità. Antarès reclama Eraclito in luogo di Parmenide.
Un ANTIMODERNISMO che non si risolva in una sterile critica del presente ma che sia in grado di fornire a questo ultimo strumenti che, invero, sono GIA’ in suo possesso. Dotare la modernità di una metafisica alla sua altezza:
questa la celebre scommessa tra Faust e Mefistofele, della
quale il presente progetto si sente erede.
L’ARTE, il Grande Stile, uniche fonti dalle quali, secondo la lezione nietzschiana, può abbeverarsi quell’uomo che
ha vissuto sino in fondo la bancarotta della razionalità – o
meglio, del culto di essa, secondo le riduzioni anzidette.
Giacché disponiamo dell’arte per liberarci dal dispotismo
della razionalità.
IL PRIMATO DELLA DOMANDA SULLA RISPOSTA. Ciò, nella persuasione che la modalità di formulazione della prima determini attivamente il configurarsi della
seconda e che una adeguata impostazione del domandare,
secondo la lezione heideggeriana, possa fungere da scanda-
Il manifesto di Antarès
tiana Critica della ragion pura entusiasmandosi invece per la
Critica del Giudizio.
mo di quelle dimensioni aliene dalla RATIO calcolante – autentico MITO della Modernità.
Certe forme di popolarismo selvaggio le quali tendono a porsi come condizione normalizzata di una politica che ha abdicato al suo compito di formare lo Stato e non, meramente,
di amministrarlo. E, così, certo apparente anticonformismo,
che, sovente, oltre a spartire i medesimi principi che vorrebbe
ardere, si dimostra essere il migliore alleato dei Leviatani, di
ieri e di oggi.
Un MODERNISMO che reinterpreta e riscrive gli albori e i
destini planetari per porsi quale stadio definitivo e conclusivo di quelle istanze che altre culture – lontane da noi tanto
spazialmente quanto temporalmente – non sarebbero state in
grado di compiere. Come se gli Antichi, loro malgrado, non
fossero che Moderni imperfetti!
Una precisa collocazione tanto ideologica quanto religiosa
e fideistica, non intravedendo nelle usuali definizioni legate
a questi domini – con scarsissime eccezioni – che simulacri
e parodie. Dove la religione si esaurisca in certo moralismo,
senza un minimo supporto di ordine spirituale, il presente
progetto si dichiara ARELIGIOSO. Dove le categorie politiche consuete, alle soglie della postmodernità, abbiano perso la loro forza centripeta e propulsiva, Antarès si dichiara
APOLITICA – purtuttavia, in senso stoico e non passivo,
vale a dire come rifiuto ideale di falsi ideali.
Il mito del PROGRESSO il quale, livellando le specificità
delle culture, le consegna in catene all’altare della Modernità
totalitaria. E così il materialismo, ancella del progressismo,
del quale prepara l’avvento, in quanto suo elemento costitutivo e complementare. Solo attraverso la riduzione della storia
intera a dinamiche di ordine materiale, infatti, è possibile costruire ponti ideali tra culture NATURALMENTE differenti. Materia e progresso sono i figli gemelli della Modernità.
Ma un’indagine morfologica e destinale non può che avere in
odio ogni qualsivoglia Storia Mondiale.
Il PASSATISMO, rivelantesi alla stregua di supina denuncia
di una umanità incapace di produrre forme e condannata al
TRAMONTO, secondo la lezione di certa eretica filosofia
della storia. Non al passato occorre guardare, non al divenuto,
RECLAMA la MOLTEPLICITÀ in luogo della riduzione,
la PLURALITA’ in luogo dei martirii dell’univocità. Afferma che la storia, la scienza, l’uomo, la politica, la cultura
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Pensatori messi al bando dalla cultura ufficiale – e da ampie sezioni del panorama accademico all’interno del quale
ci troviamo ad operare – in quanto contraddicenti i DOGMI DELLA MODERNITA’, in quanto ingiurianti i suoi
altari secolarizzati. Maestri del progetto saranno intellettuali del calibro metafisico di Nietzsche, Spengler, Jünger,
Benjamin, Huizinga, Baudelaire, Evola, Heidegger, Guénon, Schmitt, Stirner, de Benoist, Trakl, Kafka, Thoreau,
Yeats, Eliot, Pound, Cioran, Huxley, Orwell, Pessoa, Céline, Tolkien, Borges, Anders, Eliade, Michelstaedter e altri
che hanno combattuto e combattono tuttora sul fronte antimoderno. Voci stonate, fuori dal coro e ampiamente inascoltate, forse proprio in quanto valide alternative alle aporie di un sistema la cui precarietà è oggi sotto gli occhi di
tutti.
glio tra le innumerevoli soluzioni, tanto artificiose quanto fallaci, con le quali la modernità omaggia le coscienze.
Giacché è lo stesso domandare la via maestra per raggiungere quelle oasi che ancora costellano il deserto che cresce,
in misura sempre maggiore, nel cuore dell’uomo moderno.
LA RIFLESSIONE in luogo dello studio passivo, la proiezione in luogo della rifrazione, la filosofia della storia in
luogo della storia della filosofia. Le rovine in luogo delle
biblioteche, la ricerca in luogo dell’accumulo, il dialogo in
luogo del monologo libresco. Il pro-getto in luogo dell’ansia di esattezza che caratterizza una cultura monopolizzata
da un positivismo che va dispiegandosi, in misura sempre
maggiore, strangolando intere sezioni del panorama culturale a noi contemporaneo.
Un pensiero, per usare il celebre motto spengleriano, che
non si limiti a cadere all’interno di un’epoca ma che accolga la sfida di determinare, di FARE epoca.
Il dibattito, la polemica, la scrittura e l’espressione artistica, questioni di VITALE importanza all’interno di un’epoca nella quale le riflessioni sono schiacciate dalla tirannide
degli slogan. Il progettarsi, l’aprire nuovi sentieri alle idee,
in un ciclo storico nel quale ogni originalità si risolve nel
rimescolare vecchi principi, ormai arrugginiti. Un futuro
vivo e creativo, contrapposto alle distopie escatologiche, di
cui il progressismo vive per perpetuarsi.
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n. 01/2011
n. 01/2011
La montagna come esperienza del limite
Editoriale: metafisica del camminare
di Francesco Tomatis
a cura della Redazione
N
in montagna ad un’esperienza ancora più costitutiva, pericolosa e meravigliante, stupefacente e vertiginosa. Si tratta
dell’esperienza della verticalità del limite, dell’esperienza
di trascendenza, di costitutiva trascendenza che noi a noi
stessi siamo, aprendoci nel nostro stesso orizzonte finito
esistenziale e autorelativo ad un’alterità ulteriore a noi, precedente, incostruibile e impensabile, eppure verissima e per
noi decisiva. Ad ogni nostro passo, in ogni nostra ascesa o
discesa, l’esperienza vera, dei nostri limiti, del nostro esser
definiti da un orizzonte e da un ambiente circostante pericoloso, mortale, si staglia su di una verticalità non solo
geometricamente perpendicolare. Ascoltando il silenzio
di essa potremmo continuamente, ad ogni parola o passo,
movimento o stasi, moto o indugio, ristabilizzare il nostro
orizzonte sempre in cammino.
el cammino sulla via della montagna come esperienza del limite occorre fare innanzitutto due
passi. Il primo consiste nel comprendere cosa significhi profondamente esperienza. Lo può indicare già,
semplicemente, l’origine etimologica del termine. Infatti
esperienza, esperto, esperire derivano dal latino experior e
peritus, a loro volta derivati dal greco πεῖρα, prova, esperimento. Tuttavia dal greco πεῖρα deriva anche il latino periculum. Esperire e pericolo, divenir esperti, periti e far esperienza del pericolo sono, originariamente, due aspetti dello
stesso. Senza esperienza del pericolo non c’è dunque vera
esperienza.
L’esperienza del pericolo non può d’altro canto far venir
meno la possibilità di esperire. Esperire il pericolo significa
rasentare la negatività, la corruzione, morte, distruzione,
senza però soccombervi. L’esperienza di ciò che è pericoloso
comporta quindi esperire il limite, secondo passo montano,
in un doppio significato di esso. Innanzitutto il limite oltre
il quale il pericolo si fa non solo mortale, ma morte, annihilimento, dissoluzione. Inoltre, attraverso tale esperienza pericolosa del limite mortale, anche, e soprattutto, il limite
a chi esperisce costitutivo, definitorio, benché sempre in
movimento, come un peculiare, singolare orizzonte esistenziale, vivente, in camminante riorientazione.
Non si tratta di un’esperienza direttamente conoscitiva
e fondativa, superstiziosa o positiva, sublime e oggettiva.
Piuttosto è un’esperienza in negativo, ma altamente istruttiva, riconvertente il nostro sguardo ascendente a radicazioni
nuove, continuamente e ciclicamente rigenerative in modo
rinnovato. È l’esperienza del limite propria alla montagna,
esperienza alpi-mistica, che esperisce il vuoto intorno a noi,
il nulla della cima, il mero “che” al fondo vuoto del nostro
respiro senza fiato e dell’esistere umile, paziente, nel poco
rasserenato. Esperienza che del poco, quasi nulla, un mero
“che”, farà l’orizzonte possibile di una vita eccelsa e variegata, ricca e raffinata, proprio nell’affinamento della capacità
di ascolto, ricezione, elaborazione di poche note, di elementi essenziali, di fugaci tempi e stagioni, difficoltosi terreni e
sempre straordinarie, fra terra e cielo, divini e mortali, interrelazioni.
La montagna per eccellenza è dunque esperienza del limite. Sia perché la montagna è quella dimensione fisica e spirituale, meta-fisica, nella quale ogni esperire è intrinsecamente pericoloso. Sia perché esperire il pericolo, in montagna, è
umanamente possibile, comporta un approccio graduale ad
esso, tale da non farcene morire e quindi consentendo una
vera esperienza, benché talvolta da sopravvissuti, ma appunto viventi ancora. In montagna si è costantemente esposti al
pericolo, tuttavia il pericolo benché mortale può non diventarlo realizzativamente, grazie all’avvicinamento continuo
e graduale ad esso che la montagna stessa impone. Data la
necessità di procedere, abitare, vivere sempre singolarmente in montagna, senza grandi aiuti esterni, con le proprie
forze, le proprie gambe e la propria testa, allora l’accostarsi
imprescindibile al pericolo, all’esposizione, alla mortalità
sarà in essa sempre personale (nonché comunitario assieme)
e quindi discreto, graduale, misurabile, più o meno lentamente assimilabile ed esperibile.
Francesco Tomatis, nato a Carrù (Cuneo) nel 1964, è
professore ordinario in filosofia teoretica all’Università di
Salerno e istruttore di Kung Fu classico cinese della Scuola
Kung Fu Chang. Collabora con “Avvenire”, “La Rivista del
Club Alpino Italiano”, “Ousitanio Vivo”. Ha curato l’edizione di opere di Schelling, Nietzsche, Pareyson, pubblicato i
volumi: Kenosis del logos (1994), Ontologia del male (1995),
L’argomento ontologico (1997), Escatologia della negazione
(1999), Pareyson (2003), Filosofia della montagna (2005),
Come leggere Nietzsche (2006), Dialogo dei principi con Gesù
Socrate Lao Tzu (2007), Libertà di sapere. Università e dialogo interculturale (2009), Verso la città divina. L’incantesimo della libertà in Luigi Einaudi (2011).
Vera esperienza, dunque, quella montana, personale ed
estraniante assieme, vero confronto con ciò che sta oltre
di noi, ulteriore al nostro orizzonte singolare. Ma allora il
nostro limite esistenziale, fisico e spirituale, viene esposto
4
L
rio. Un’altra era ha allora
inizio. E, con essa, un’altra
“storia”.
Perché questa digressione,
a proposito del camminare? Proprio perché quanto
descritto accade parimenti
a livello antropologico, tra
il microcosmo umano ed il
macrocosmo universale essendovi una intima analogia.
Tanto nel caso dell’universo
quanto in quello dell’uomo,
condizione necessaria del
movimento è che vi sia qualcosa di perduto da cercare,
verso cui tendere. Singolare
coincidenza: ciò che va cercato è stato smarrito all’origine. Il suo ritrovamento
avverrà alla fine del percorso
– percorso la cui ragion d’essere altro non è che la perdita anzidetta.
Nella mitologia biblica,
ad esempio, è la scoperta che
l’uomo fa del proprio corpo
come supporto materiale e
mortale a costituire le premesse del suo essere disposto
al movimento. Avvertendosi
nudo, avvertendo il proprio
essere corporeo, il nostro
progenitore è costretto a vagare e vagare, avendo ormai
perduto la propria ragion
sufficiente edenica (Genesi,
3, 1-24). Il suo cammino è
dunque il risultato di una
profanazione e, allo stesso
tempo, un pellegrinaggio
che si concluderà allorché riceverà un nuovo corpo, una
nuova sagoma di pura luce (Corinzi 1, 15, 35-38). Irradiante,
ritroverà la quiete, alla fine del suo percorso mortale.
Il cammino, dunque, come stigma di una quiete perduta e
promessa di un equilibrio, da realizzarsi attraverso l’integrazione totalizzante di tutti i propri stati terrestri e spirituali,
fisici e metafisici, umani e sovraumani (sottolineeremo, en
a prima osservazione
che ci coglie laddove
consideriamo il gesto
del camminare è che si tratta, in fondo, di una delle più
antiche attività dell’uomo.
L’uomo nasce in cammino,
su due gambe. È un essere
intimamente deambulante.
Senza cammino, insomma,
non si può – ancora – parlare
di umanità. Ciò può essere
descritto in una prospettiva più ampia. Il cammino è
connesso al movimento, è
evidente. Il movimento, a
sua volta, è la rottura di una
quiete originaria, di una stasi
primigenia.
Dove si incontra il movimento, insomma, qualcosa
è andato perduto. Come descrivere ciò che si è perso? Si
tratta di uno stato nemmeno
collocabile all’inizio dei tempi, dalla sua rottura nascendo a tutti gli effetti il tempo
stesso. Non si può cogliere
questa situazione originaria
in termini cronologici. Essa
non si situa migliaia di anni
fa ma in un ordine diverso di
realtà. L’unica cosa che se ne
può dire è che tra la realtà statica e quella cinetica si situa
una frattura, una lacerazione,
che le rende incomunicabili.
Ebbene, la caduta di livello
determinata da questa frattura conduce al movimento,
alla ricerca, ad una quêste.
Alla infrazione della quiete
segue il movimento. Alla immobilità del Sé originario subentra l’arcolaio delle stagioni,
dei secoli e delle ere. Ha inizio ciò che usualmente chiamiamo
“storia”. La ruota inizia a girare, sempre più vorticosamente,
fino al suo arresto, che sancisce la chiusura dei cicli. Dopo
un istante di immobilità, che nel pensiero indù corrisponde
al sonno degli Dèi, essa si rimette in moto, in senso contra-
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n. 01/2011
passant, come anche presso la moderna escatologia darwinista
sia il camminare a fare da cerniera tra il passato ed il presente
della stirpe umana – peccato che, in questo caso, non siano gli
Dèi i progenitori degli uomini ma le scimmie. D’altra parte,
ognuno sceglie gli antenati nei quali preferisce identificarsi).
Abbandonata una perfezione
originaria statica, l’uomo si pone
in cammino, si dinamizza. E il pensiero si mette in cammino, insieme
al corpo. Ciò spalanca possibilità
inaudite: il cammino dispone di
una sapienza assai peculiare.
Questo è il carattere proprio di
ogni crisi: se recepita e vissuta correttamente, può condurre l’uomo
a ridestare possibilità che giacciono usualmente allo stato latente.
Questo l’insegnamento che solo i
periodi di declino possono fornire,
secondo il vecchio adagio di HÖlderlin, secondo il quale laddove è il
pericolo, cresce parimenti ciò che
salva. Ogni veleno cela in sé il proprio antidoto; è la duplice valenza
del greco pharmakon, al tempo
stesso intossicante e medicinale.
Se il cammino nasce da un gesto che separa ciò che pertiene alla
mera natura da ciò che rimanda a
una dimensione spirituale, resta
pur vero che è lo stesso cammino
ad unificare le due dimensioni –
fisica e metafisica – altrimenti irrimediabilmente scisse. È il movimento a riunificare tempo e spazio,
dilacerati a seguito dell’uscita dallo
stato ancestrale di compiutezza. Il
gesto del camminare unifica Dèi e
mortali, mondo e sopramondo, in
una comunione perpetua costantemente rinnovabile. Ciò che il cammino ha separato, il cammino può
riunificare.
Esso ricompone un mosaico ormai infranto, ridestando le possibilità superiori dell’umano, sopite
durante la vita quotidiana, alienata
nei luoghi di aggregazione deputati
a raccogliere le risorse umane della
modernità. Da marchio di una perdita, il gesto del camminare si tramuta in metafisicizzazione dell’esistenza, sacralizzazione assiale e plenaria di ciò che l’uomo ha
profanato emancipandosi dagli Dèi.
Il cammino infatti fluidifica quelle istanze superindividuali
che il materialismo illuminista dei nostri tempi ha relegato ad
appendici della ragion pura o a sovrastrutture della materia.
Colui che cammina, laddove ovviamente sappia trarre giovamento da questa pratica in senso autentico, comprende che
la meta del percorso non è fisica, ma anzitutto metafisica. Ci
si mette in cammino per trascendere il proprio Io, realtà tanto artefatta quanto fallace, per identificarsi e congiungersi al
proprio Sé superiore. Chi cammina è più che un uomo. I piedi
piantati per terra, le braccia volte al cielo, realizza la sua antica funzione di copula mundi. Questa la portata di quel gesto
che, inconsapevolmente, pratichiamo quotidianamente. Ridestarne
le potenzialità, fondando una metafisica del camminare – questo lo
scopo che si propongono le pagine
a seguire.
Nel superamento delle fatiche
che la terra oppone al viandante, questi realizza il suo Opus, alla
stregua del demiurgo platonico
che, lottando contro la resistenza
coatta della chora, dell’imponderabile e dell’informe, mette in forma l’esistente, strappando dal caos
primordiale un cosmo ordinato gerarchicamente. Il camminare come
demiurgia, come autoformazione,
come conferimento di un ordine
a se stessi ed al mondo, secondo
quella legge di analogia che regola i contrari all’interno del gioco
archetipico.
Sempre l’umanità, come verrà
illustrato nelle colonne di questo
fascicolo, avvertì l’intimo bisogno
di trasfigurare se medesima all’interno di siffatta pratica. Sempre
comprese che la duplice funzione
del cammino, girovago o pellegrino, ricalca il volto bifronte dell’uomo, il suo doppio movimento, discendente e ascendente: morte di
Dio nella materia e, al contempo,
trascendenza immanente. Da fuga,
esilio, il cammino diviene pellegrinaggio, santificazione dell’uomo e
del suo ambiente circostante. Queste le possibilità offerte dal prendere il passo. Ciò pertiene al retaggio
tradizionale di un gran numero di
civiltà, spesso assai lungi le une dalle altre.
In svariate tradizioni infatti
l’ascesi venne presentata alla stregua di un cammino e il cammino
venne rivestito di valenze spirituali. Milarepa, il saggio tibetano,
fece del percorrere sentieri una componente essenziale del suo
insegnamento. E così Cristo, che percorse la sua via verso il
Calvario, per essere infine crocifisso, fissato all’axis mundi,
realizzazione plenaria di tutte le sue possibilità umane e divine. Iniziato dal cammino, sottoposto alle prove della strada,
il Cristo fece di essa il medium per giungere all’indiamento.
Il cammino del Cristo sul Golgota, il suo itinerario verso il
sacrificio, fu propedeutico alla sua realizzazione trinitaria. La
“
Tanto
nell’universo
�uanto
nell’uomo,
condizione
necessaria del
movimento
è l’esistenza
di �ualcosa
di perduto
da ricercare,
verso cui
tendere
”
6
n. 01/2011
Croce, come argomenta Guénon ne Il simbolismo della croce, è
più di un simbolo sacrificale. Esso è l’unione dell’asse verticale
dell’essere, dei principi, della pura attività, e di quello orizzontale delle possibilità. All’intersezione dei due assi corrisponde
l’esistenza individua, che nasce dall’incontro di attività e passività, essere e possibilità. La crocifissione è l’identificazione
dell’uomo allo stesso Essere. Realizzazione, morte iniziatica e
resurrezione. Ebbene, questo stato può essere conseguito solo
attraverso un pellegrinaggio che purifica il viandante, bruciandone le spoglie mortali.
Il cammino di Cristo e di Milarepa. Nicholai Roerich,
il celebre artista russo, ben comprese l’analogia tra queste tradizioni, allorché dipinse il Cristo in pellegrinaggio
sull’Himalaya.
Ogni cammino è un pellegrinaggio, una crocefissione all’asse del mondo, realizzazione della divinità nella propria corporeità, risveglio e attivazione delle facoltà superindividuali.
Crocefisso alla ruota cosmica, il viandante diviene asse, principio immutabile, mozzo immobile di una ruota che non cessa
mai di muoversi convulsamente.
Egli si trova nell’occhio del ciclone, dove regna una singolare quiete. In numerose tradizioni chi consegue questo stato è
paragonato al cardine della porta, che si mantiene anche laddove questa sbatta. La stabilità del suo Sé lo condurrà a superare quelle crisi che per altri risulteranno fatali.
Nemmeno mancano esempi contemporanei – ad esempio,
letterari – di un percorso inteso non come mera percorrenza
fisica ma come viaggio anzitutto metafisico, come esplorazione di regioni sconosciute alla quiete – profana – che tutto
fossilizza e livella. Così, in Cuore di Tenebra, Conrad invita
i lettori a percorrere un viaggio a ritroso, per comprendere il
fondo abissale dell’uomo moderno. Questa sorta di controiniziazione ha luogo attraverso una percorrenza fluviale, che
si articola dai panorami assolati dei litorali africani alla notte
interiore di Kurtz. Caso analogo è riscontrabile nel Viaggio al
termine della notte di Céline. Per poi non parlare del capolavoro di Daumal Il monte analogo, nel quale il percorrere i misteri di una montagna invisibile ai più diviene uno strumento
di catarsi e realizzazione metaindividuale. Ne Il signore degli
anelli, il cammino, che assorbe l’interezza della narrazione
tolkieniana, altro non è se non una lunga iniziazione, che si
conclude presso il Monte Fato, presso il trono di Ananké, la
Necessità, all’interno dei cui domini il Male si distrugge, il
serpente morde se stesso e un nuovo ciclo può finalmente iniziare. Il veleno si tramuta in farmaco, negandosi. Per il tramite
della creatura Gollum – proprio uno dei servi del Male – che
precipita assieme all’anello nel magma vulcanico di Amon
Amarth, lo scorpione rivolge il suo pungiglione verso se stesso
e si dona la morte. Il lungo cammino che i protagonisti della
saga compiranno li condurrà alla consapevolezza che l’anello
non può essere utilizzato secondo finalità contingenti ma che
deve essere distrutto in quanto tale. E, ancora una volta, è il
percorso a donarci la consapevolezza di questo aspetto.
Echi di questa funzione realizzativa del camminare – seppure, spesso, tra mille fraintendimenti – sopravvivono anche oggi. Nelle metropoli contemporanee, i luoghi nei quali,
come ebbero a scrivere altri, i popoli si recano per morire, il
movimento è amministrato in maniera sempre più capillare.
La gestione biopolitica delle popolazioni non ha mancato di
mutilare il camminare dai suoi frangenti superiori, renden-
dolo strumento accessorio a movimenti di tipo meramente
funzionale. Il camminare si traduce in andare-presso, la meta
dello spostamento assorbendo interamente il senso del movimento stesso. Ebbene, anche in questo caso un camminare
diverso può rivelare altri volti delle metropoli, usualmente
occultati da quelle decine di slogan che, come osservò brillantemente Simmel, inibiscono le capacità ricettive delle masse
cittadine.
Si fa necessaria, tuttavia, una duplice rettificazione. Anzitutto, dal punto di vista qui adottato, il motto corrente “riappropriarsi delle strade” appare del tutto insensato, le strade di
cui si vorrebbe prendere possesso essendo forme morte, limbi
saccheggiati dal commercio biologico. Occorrerebbe, piuttosto, elidere una simile immagine in quanto tale, in luogo di
“prenderne possesso”. Se la funzione del camminare, nel nostro presente, si esaurisce, da una parte, nella gestione schizoide del commercio umano e dall’altra nelle marce politiche o
nei revival post-sessantotteschi, resta pur vero che nessuna di
queste tipologie di cammino – intimamente complementari e
per nulla contrapposte – coglie la sapienza autentica che questo può donare. Esso può insegnare all’uomo moderno la propria essenza intimamente ambientale, ponendosi quale base di
una nuova geofilosofia e di una nuova responsabilità geologica. A partire dal camminare può instaurarsi una nuova comunione tra l’uomo e il pianeta che ne ospita l’incedere storico.
Nella percorrenza pedestre, l’uomo celebra nuovamente il suo
sposalizio con le divinità del paesaggio, tornando ad inscriversi all’interno delle sue figure.
In secondo luogo, simili osservazioni nulla hanno a che vedere con quelle concezioni evasive, irrazionali e sovversive del
camminare che tanto pullulano tra le nuove – e le vecchie –
generazioni. Il camminare di cui qui si tratta non indica una
romantica evasione dal presente, un “ritorno alla natura” o
una fuga da una realtà verso la quale si prova insoddisfazione.
In troppi hanno fornito un’immagine esotica del viandante,
come passivo “ribelle” un po’ sbarazzino, che si fa beffe di responsabilità e doveri, per tornare alla propria “vera” natura.
Queste impostazioni, d’altra parte, non sono che sintomi di
un movimento molto più ampio – tra i cui promotori possiamo annoverare Freud, Rousseau, Hobbes e troppi altri – che
vede la riduzione di tutte le facoltà umane alla mera materialità, sia essa biologica – Darwin – psicologica – Freud – o politica – Marx. “Scoperto” l’inconscio, non si poté far altro che
ridurre tutte le dimensioni dell’uomo, del mondo e della storia, ad esso. Il gusto “primitivo” del camminare fu un capitolo della valorizzazione acritica della fanciullezza delle civiltà,
dell’uomo e del mondo – capitolo che peraltro non si è ancora
chiuso. Questo basti a stabilire la distanza che intercorre tra
un vagare inteso alla stregua di una “seconda religiosità” ed
un muoversi secondo direttive essenzialmente metafisiche. Il
camminare di cui trattiamo non spinge a regressi animali ma
presso gli Dèi.
Di questo e altro ancora si occupa il presente numero di Antarès, all’interno del quale la pratica del camminare è declinata nelle sue sfaccettature filosofiche, metafisiche ed esoteriche.
Si tenta qui di recuperare quelle possibilità che una diversa
esperienza dello spazio può fornire, a patto, ovviamente, che
ci si liberi da quelle valenze che il pensiero moderno ha legato
a questa pratica. Con queste osservazioni, la Redazione augura ai lettori un buon cammino, tra le pagine che seguono.
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n. 01/2011
Alejandro Jodorowsky:
La Montagna Sacra
di Mitsuharu Hirose
U
n cammino iniziatico, che porta un reietto dal
fango di un’esistenza comune e degradata fino
alla vetta, inviolabile dai profani, della Montagna
Sacra, attraverso un percorso di ininterrotta ri-creazione e
trasmutazione interiore, allo scopo non solo di dominare la
morte e diventare uno dei Nove Saggi, ma anche di venire
a conoscenza del segreto della vita. Un itinerario attraverso
simbologie esoteriche, religioni sia occidentali sia orientali, unico mezzo di creazione ed elevazione dell’Anima in un
mondo distopico e grottesco, dove regnano fanatismo, edonismo, povertà materiale e spirituale. E non solo: La Montagna Sacra – lettera aperta contro la Modernità – è inoltre
un percorso cinematografico, dove ogni fotogramma è una
metafora, una citazione, uno spunto di riflessione su politica, morale, sulla distinzione tra sogno e realtà.
8
n. 01/2011
fissano in una pepita d’oro che emerge da un liquido rosso
(opera al rosso o rubedo). Accanto al marchingegno si trova
un pellicano, animale capace di lacerarsi il petto per nutrire
i suoi piccoli, che veicola il profondo significato allegorico
di passaggio dell’essenza vitale tramite il proprio sacrificio,
nonché simbolo della trasmissione del sapere iniziatico. A
procedimento completato l’Alchimista consegna la pepita al
reietto ma, irritato dall’avidità che quest’ultimo dimostra, lo
invita a guardare oltre la mera ricchezza materiale, offrendogli di tramutare in oro l’intero suo corpo. Attraverso un ulteriore processo di “ricreazione dell’anima”, Il Maestro dona
al neofita quattro oggetti, corrispondenti ai semi dei tarocchi
tradizionali: un bastone, una spada, una coppa e un medaglione d’oro. Essi simboleggiano rispettivamente i quattro doveri
dell’iniziato secondo Eliphas-Lévi: sapere, osare, volere, tacere, nonché gli Elementi fondamentali, Acqua, Aria, Fuoco e
Terra. Dopodiché l’iniziato viene introdotto al cospetto di
sette personaggi, ognuno associato ad un pianeta del Sistema
Solare, che si uniranno a lui nella scalata.
Il primo di essi è Fon (Venere), edonista impresario di protesi anatomiche, cultore dell’apparenza a scapito dell’essenza.
Marte è simboleggiato da Isla, produttrice di armi. Klein, creatore di opere d’arte costituite da corpi umani, rappresenta
Giove. Il corpo e il sesso sono da lui ridotti ad oggettistica,
produzione di massa di una sorta di pop art vivente. Saturno è identificato da Sel, incaricata dal governo di plasmare le
menti dei bambini in accordo alle previsioni politiche di un
misterioso computer. Urano è Berg, consigliere di un presidente-dittatore di stampo sudamericano, mentre Nettuno
è Axon, tirannico comandante di polizia, i cui seguaci sono
paramilitari castrati. Plutone, infine, è Lut, un architetto che
concepisce la casa ideale come una bara, spazio di soggiorno
puramente temporaneo, da utilizzare durante le pause del
lavoro.
La scalata, con l’aiuto dell’Alchimista, può finalmente iniziare. Il ladro, simbolo dell’Io primitivo ed egoista, si unisce
spiritualmente ai compagni, oltrepassa i limiti imposti dalla
corporalità individuale, rinnega (con dolore) le convinzioni
errate che gli erano state imposte e che si erano impossessate
della sua mente. Il gruppo, nel suo percorso, supera delle prove
e viene iniziato all’utilizzo di erbe e funghi allucinogeni, sulla
scia delle pratiche sciamaniche sudamericane, grazie alle quali
impara ad ascoltare la voce della Natura. Sbarcati sull’Isola
del Loto, il Maestro e i Discepoli raggiungono il “Bar del Pantheon”, luogo di perdizione che raccoglie coloro che, a differenza degli altri uomini, partirono alla ricerca dell’Isola stessa
ma, credendo di essere arrivati a destinazione, rinunciarono
a procedere fino alla Montagna. Uno di essi, forse parodia
di Timothy Leary, sostiene che la Verità si trovi nelle droghe
(“La Croce è un fungo!”), un altro crede nella possibilità di attraversare la materia in senso orizzontale. Il gruppo non bada
ad essi, li disprezza e non si lascia intimorire: ormai è pronto
per avviarsi con decisione verso l’ultima parte del tragitto.
Il raggiungimento della vetta, con tanto di sconvolgente
colpo di scena metacinematografico, non è la meta di questo
viaggio ma l’inizio di un nuovo ambizioso percorso, che il regista ci invita a seguire anche dopo aver lasciato la sala cinematografica: “Noi non siamo che immagini, sogni, fotografie.
Non dobbiamo restare qui, prigionieri. Romperemo l’illusione. Questa è Maya. La vita reale ci attende.”
Il regista, Alejandro Jodorowsky Prullansky, nato in Cile
nel 1929 da una famiglia ebrea di origini ucraine, dagli anni
‘50 vive a Parigi, dove ha fondato assieme a Roland Topor e
a Fernando Arrabal il movimento di teatro panico, corrente
di ispirazione post-surrealista, che suggerisce una nuova ma
indefinita idea di uomo. Nel saggio Panico e Pollo Arrosto del
1964 (incluso in Panico! di Arrabal, Jodorowsky e Topor,
Giunti Editore, Firenze, 2007, p. 173), il regista stesso afferma: “L’uomo panico, dato che pensa strutturalmente, che sostiene una logica di eliminazione di possibilità e dato che è
capace di vivere molte idee contraddittorie allo stesso tempo,
ripartisce il calore secondo la molteplicità dei suoi principi,
in modo tale che ogni sua idea-azione venga portata a una
normalità sopportabile e benefica […]. L’uomo panico non fa
né economia né progetti, produrrà un’architettura instabile
(luoghi di aggregazione metropolitana come il celebre fiume
di Eraclito; l’uomo non abiterà due volte nella stessa città),
opere d’arte non conservabili e teorie in continua trasformazione, dato che tutto il suo sistema ideale si fonda su una
metamorfosi di se stesso e degli oggetti che lo circondano”.
La stessa idea di contraddittorietà, indefinitezza, molteplicità
dei principi, costituisce la base della fondazione della casa cinematografica Producciones Panicas, con la quale Jodorowsky
trasferisce nel cinema i suoi ideali di teatro surrealista, culminanti proprio nel film La Montaña Sagrada, presentato al Festival di Cannes del 1973 e realizzato grazie ai finanziamenti
di John Lennon e Yoko Ono.
Il film è suddiviso in tre momenti, identificabili come
“Smarrimento”, “Iniziazione” e “Scalata”. Un ladro senza
nome, dall’aspetto fisico riconducibile all’iconografia occidentale del Cristo, senza una ragione apparente viene crocifisso e lapidato da un’orda di bambini macilenti, incitati da un
nano senza braccia. Il ladro/Cristo si libera, allontana i piccoli
carnefici con un urlo e, impietosito dal nano mutilato, stringe
amicizia con lui fumando marijuana, in una scena che pare
un piccolo tributo a Freaks di Tod Browning. Qui comincia
il suo cammino disperato che, senza la presenza illuminante
di una guida, lo trascina privo di meta per le strade di una
Città del Messico grottesca, degradata e militarizzata, come
in una sorta di caotica distopia. Il ladro si ritrova tra parate di
soldati che portano in processione pecore scuoiate e crocifisse, come a simboleggiare una percezione fanatica e tribale di
Cristianesimo, fucilazioni di massa riprese con le telecamere
da ricchi e perversi turisti nordamericani, e spettacoli surreali,
tra cui quello memorabile della conquista del Messico, dove
un plastico pieno di iguane adornate con ornamenti aztechi
viene preso d’assalto da un esercito di rospi armati di lance e
corazze, mentre una marcetta nazista suona in sottofondo.
Il cammino del reietto prosegue confusamente, portandolo
ad imbattersi in un’altissima torre, dove l’Alchimista (interpretato da Jodorowsky in persona), gli chiede se ciò che stia
cercando sia l’oro. Il reietto, schiavo della sua animalità e del
suo materialismo, non può che rispondere affermativamente. L’Alchimista rinchiude quindi il nuovo discepolo in una
grande ampolla, l’atanòr alchemico, alla cui base viene acceso un fuoco, ed a cui viene collegata un’ampolla più piccola,
contenente le sue feci e i liquidi corporei. Essi, simboleggianti l’opera al nero (nigredo) dell’alchimia occidentale, vengono sottoposti a un trattamento di purificazione tramite cui,
sublimandosi in un gas bianco (opera al bianco o albedo), si
9
n. 01/2011
che gli attori raggiungessero l’Illuminazione. Non stavamo facendo un film, stavamo filmando un’esperienza sacra. Ma chi
erano quei commedianti che, vittime anch’essi dell’illusione,
avevano accettato di essere miei discepoli? Uno, un transessuale, l’avevo scovato in un bar di
New York, un altro era un attore
di telenovela, e poi mia moglie,
con le sue nevrosi da fallimento,
e un ammiratore americano di
Hitler, e un milionario disonesto
che era stato espulso dalla Borsa,
e un omosessuale che era convinto di parlare in sanscrito con gli
uccelli, e una ballerina lesbica, e
un comico da cabaret e un’afroamericana che, vergognandosi dei
suoi antenati schiavi, diceva di
essere pellerossa. L’idea di scritturare quell’accozzaglia di persone
mi era stata ispirata dall’alchimia:
il primo stadio della materia è
il fango, il magma, la “nigredo”.
Da esso, per successive purificazioni, nasce la pietra filosofale,
che trasforma il vile metallo in
oro. Queste persone prese nel
mucchio, in nessun caso artisti
teatrali, alla fine del film avrebbero dovuto diventare monaci
illuminati”. Queste sorprendenti
parole ci dimostrano l’intenzione
di Jodorowsky di compiere sugli
attori un processo alchemico di
purificazione interiore, scegliendo deliberatamente degli scarti
della società e facendo emergere
il “panico” annidato dentro di
loro, cioè il pensiero imprevedibile, multiforme, illuminato, che si
adatta ad ogni situazione e che si
libera dalle convenzioni. La materia grezza, cioè il cast del film, attraverso questo cammino intriso
di arte e spiritualità, sarebbe stata
trasformata in oro. Sempre ne La
Danza della Realtà, Jodorowsky descrive come effettivamente
ogni attore (incluso egli stesso)
abbia subito una trasformazione,
si sia identificato nel personaggio
interpretato anche durante la vita
reale, lontano dai “ciak”.
Il film è di conseguenza una dimostrazione di come ogni uomo,
anche il più abietto, sia in potenza
“panico”, e che possa effettivamente diventarlo, perché anche il mondo, in sé, è “panico” (per ulteriori approfondimenti, dello stesso autore, si vedano anche
Psicomagia – Una terapia panica, Feltrinelli, Milano 2005 e Le
pietre del cammino, Giunti Editore, Firenze, 2009).
Maya nient’altro è che che il velo illusorio della filosofia
Vedanta, metafora delle limitazioni imposte dalla nostra condizione di uomini, che ci avvolge impedendoci di percepire
il mondo nella sua interezza, o facendoci pervenire ad una
visione distorta di cui dobbiamo
liberarci se vogliamo comprendere
la realtà.
Liberamente ispirato alla Salita
del Monte Carmelo di San Giovanni della Croce ed a Il monte analogo di René Daumal, La Montagna
Sacra offre una moltitudine di riferimenti a diverse credenze elencateci dall’Alchimista stesso poco
prima dell’ascensione: “La montagna Meru, dell’India. La montagna
Kuen-Luen dei Taoisti. Il Karakorum dell’Himalaya. La montagna
dei Filosofi. La montagna dei Rosacroce. La montagna cabalistica,
di San Giovanni della Croce. Vi
sono molte altre montagne sacre,
la leggenda è sempre la stessa”. Il
film condensa queste leggende,
così come il libro di Daumal, secondo il quale il “Monte Analogo”, alto fino al cielo, si trova su
una grande isola, invisibile ai più;
chiunque riesca ad individuarla
può già essere considerato un vero
e proprio “iniziato”, in quanto si
è dimostrato in grado di rompere
le barriere della fisica, ottenendo
l’accesso ad un’altra dimensione.
Legato indissolubilmente al monte sacro di ogni tradizione troviamo proprio il cammino spirituale,
o pellegrinaggio, elemento comune ad innumerevoli religioni.
Il film stesso può essere considerato il punto di arrivo di un altro
cammino, questa volta reale, che
Jodorowsky organizzò e compì
assieme a quello che sarebbe stato
il cast del suo film. Il parallelismo
di questa esperienza con l’esito cinematografico finale è evidente:
nella sua autobiografia, intitolata
La danza della realtà (Feltrinelli,
Milano 2006, p. 179), Jodorowsky
ebbe a dichiarare: “Dopo due mesi
di preparazione chiusi in casa senza mai uscire, dormendo soltanto
quattro ore al giorno e facendo
esercizi iniziatici per il resto del
tempo, più altri quattro mesi di
lavoro intenso viaggiando per tutto il Messico, avevamo perduto ogni rapporto con la realtà. Il suo posto era stato preso
dal mondo cinematografico. Io, posseduto dal personaggio
del Maestro, ero diventato un tiranno. Volevo ad ogni costo
“
Liberamente
ispirato alla
“Salita del
Monte Carmelo”
di San Giovanni
della Croce ed a
“il monte analogo” di René Daumal, “La Montagna Sacra”
offre una
moltitudine di
riferimenti a
diverse
tradizioni
”
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n. 05/2011
Strada a senso unico,
molte destinazioni
di Igor Comunale
N
egli anni ’20 del XX secolo, in Germania si sta preparando l’ascesa del nazionalsocialismo. L’Europa
sta per piombare verso l’incubo di una nuova Guerra
Mondiale. Ancora non si è spento l’eco della Grande Guerra,
sebbene le ostilità siano cessate da qualche anno. Benjamin si
trova non solo in una Germania avvilita e in piena crisi economica, ma anche ad un importante bivio di vita: sono gli
anni decisivi in cui, avvicinatosi al comunismo, sceglie di intraprendere quello che egli stesso definisce un serio impegno
politico. Sebbene l’autore non si possa certamente annoverare
tra i più fanatici sostenitori di tale dottrina, ponendone spesso sotto esame critico le idee, è in Strada a senso unico che si
palesa il percorso delle sue simpatie politiche. Tuttavia, relegare quest’opera a una mera dichiarazione di intenti politici
vorrebbe dire sminuirne il significato filosofico e biografico.
11
n. 01/2011
Strada a senso unico non si presenta dotata di una struttura
rigidamente stabilita, ma assomiglia maggiormente ad un dedalo che si dipana in direzioni sempre nuove e impreviste. La
scelta di presentare questa raccolta di idee, sogni e ricordi in
un modo così anticonvenzionale sembra essere dovuta principalmente all’intento di Benjamin di
sfruttare un’architettura liquida, ad
imitazione dei processi associativi del
pensiero. Strada a senso unico delinea
i contorni di una città costituita di
parole, con i suoi titoli a caratteri cubitali risonanti di influenze urbane.
I testi presentati attirano lo sguardo
anzitutto proprio grazie ai loro titoli, di volta in volta somiglianti alle
indicazioni stradali, agli annunci rumorosi degli strilloni di strada e agli
slogan ad effetto delle pubblicità. La
lettura di questo libro assomiglia al
processo evocato da Rousseau insito
nell’atto del camminare. Tra descrizioni di luoghi e persone, rappresentazioni oniriche e reminiscenze del
passato, si mette in moto quel processo riflessivo privo di un unico filo
conduttore, tipico del pensare libero
e non costretto lungo binari prestabiliti. Questo tipo di struttura riporta
alla mente l’Ulisse di Joyce, con quel
flusso di coscienza riversato sulla
carta direttamente dalla penna dello
scrittore. Benjamin sembra aver voluto utilizzare una tecnica simile ma,
dove lo scrittore di narrativa tende a
rappresentare le proprie idee tramite
personaggi creati a questo scopo, egli
non si serve di alcun intermediario.
Benjamin stesso è il protagonista
di questo flusso, immersovi poiché
parte di esso. L’autore fa di sé stesso
il proprio personaggio, la scrittura
diviene veicolo di riflessione. Il testo
muta in specchio e rivela l’intimità
dell’autore senza ricorrere al facile
filtro di un personaggio “altro” da sé.
–Benjamin si confessa senza temere
di comparire nudo e indifeso innanzi
al giudizio altrui.
La natura stessa della composizione lascia alla fine della lettura un senso di non finito, come se
successive integrazioni ed aggiunte fossero sempre possibili.
Questa forma è stata espressamente voluta da Benjamin, non si
tratta di una casuale circostanza. La conferma di ciò è ravvisabile nelle successive riflessioni che l’autore avrebbe voluto aggiungere all’opera. In questo Strada a senso unico somiglia molto sia
all’atto del pensare che ad un’opera di urbanistica. Nel primo
caso, prende in prestito la struttura aperta delle associazioni, nel
secondo la tendenza della città a fagocitare lo spazio libero per
ampliarsi.
Strada a senso unico si presta a numerose interpretazioni ma il
paragone più calzante rimane forse quello con la città. Il leggere
diventa un vagare della mente. E non solo. Si tratta di un libro
che non fa rimanere fermi, come se il movimento del pensiero
dovesse riflettersi anche nella realtà tramite un medium fisico.
Affrontare questo testo significa leggerlo in qualunque luogo
della città, stabilendo con esso uno
stretto legame di intimità. La staticità
della lettura sedentaria mal si adatta a
quest’opera. Chi scrive si è ritrovato
a reprimere a stento (persino a casa
propria) l’istinto del movimento e
del camminare ispirato dalle parole
di Benjamin. La staticità del movimento e del pensiero sono escluse da
Strada a senso unico. La causa di ciò
non può che essere lo stile utilizzato
dall’autore, a volte altamente evocativo, altre formale, altre ancora simile
ad un accorato appello ad intervenire
per modificare la realtà.
La valenza filosofica dell’opera è
indubbia, evidenziata dalle sue potenzialità di far perdere il lettore in
una spirale di pensieri e collegamenti che vengono a crearsi come tante
vie secondarie che si dipartono lateralmente. Le riflessioni di Benjamin
seguono un percorso definito di sua
esclusiva proprietà ma all’interno di
questa città immaginaria il lettore
può inventare la propria strada. Il
rischio di smarrirsi è elevato, ma soltanto per trovare infine una via personale da seguire.
Benjamin ha sempre provato interesse per la figura e la visione del
mondo di Baudelaire. Il poeta francese definisce i lineamenti del flâneur
descrivendolo come un gentiluomo
che vaga per le strade della città.
Dinnanzi ai cambiamenti sociali ed
economici dovuti all’industrializzazione, si richiede all’artista di immergersi nella metropoli per divenire “un
botanico del marciapiede”, un conoscitore analitico del tessuto urbano.
Tipico del flâneur è il comportamento pigro e senza urgenza, il suo vagare
privo di meta non presuppone alcun
luogo da raggiungere: il tempo si dilata infinitamente in questo
camminare indolente. Questo modo di passeggiare viene definito flânerie. Apparirà evidente sin da ora come la flânerie si
opponga in maniera quasi violenta alla frenesia delle metropoli. Baudelaire, flâneur per eccellenza, potrebbe essere un valido
compagno di viaggio nel vagare di Benjamin nei labirinti della
propria mente, in una città immaginaria composta soltanto di
pensiero e inchiostro. Persino nelle rievocazioni di luoghi reali è ravvisabile sempre una componente surreale, spesso quasi
onirica. Queste località hanno lo stesso rapporto che il reale ha
con la sua rappresentazione pittorica: il luogo rappresentato è
“
Strada a senso
unico non ha
una struttura
rigidamente
stabilita ma
somiglia ad un
dedalo che si
dipana, sviluppa
e snoda in
direzioni sempre nuove e
impreviste
”
12
n. 01/2011
“Se qualcuno li urtava, in preda alla confusione si inchinavano
profondamente a chi li aveva urtati” (4). Questo si distacca di
molto dalla riflessione pensosa, libera e vagante evocata in Strada a senso unico, dove il movimento del corpo e della mente si
fondono e tutto è soggettivo, imprevedibile e non sottoposto
ad alcuna regola ferrea. La città immaginaria di Benjamin non è
però una città fantasma ma un luogo ideale dove le strade sono
sempre libere e le possibilità di vagabondare alla ricerca di stimoli nuovi sono infinite.
Alcune delle colonne portanti di Strada a senso unico sono
le riflessioni e i ricordi di Benjamin attorno alla figura di Asja
Lacis, a cui l’opera è dedicata. Questa donna ha avuto una forte influenza sull’autore, tanto che numerosi frammenti di loro
conversazioni fanno spesso capolino nelle pagine del libro. La
vicinanza e la relazione con la donna hanno contribuito sicuramente all’avvicinamento di Benjamin alle idee del comunismo,
sebbene questi non abbia mai abbandonato il suo approccio critico e riflessivo intorno a siffatto movimento.
Nel brano dal titolo Cineserie, Benjamin rievoca un luogo
ora disabitato dove viveva l’amata. L’assenza della donna rende il vano del portone veicolo del vuoto che sente l’autore nel
ritrovarcisi davanti. Il traslocare di Asja pare rappresentare per
Benjamin la perdita di un orecchio amico che potesse ascoltarlo e comprenderlo. La donna si rivela non solo un punto di riferimento importante per la vita sentimentale dell’autore, ma
anche contestuale alla sua riflessione politica e filosofica. La valenza simbolica del luogo è ormai irrimediabilmente perduta.
Da questa affermazione si passa con un salto improvviso al
ricordo del bambino in camicia da notte, con ogni probabilità
un ritratto della figlia di Asja. Questa parte si rivela piuttosto
interessante non soltanto per motivi biografici. La riluttanza del
bambino a salutare la figura dell’adulto, investita da Benjamin
di autorità morale, è stemperata solo in un secondo momento,
al presentarsi del piccolo nudo e lavato. Ravvisare in questo passaggio soltanto un ricordo sarebbe riduttivo: anche la reminiscenza è trasformata in veicolo di pensiero. La natura surreale
dello stile di Benjamin rende spesso difficile associare un significato certo alle molte immagini presentate ma, nonostante questo passo rimanga piuttosto criptico, vi è ravvisabile un senso
nascosto, percettibile sotto forma di una vaga sensazione che
non si tramuta mai in certezza.
In questo ed in molti altri brani presenti in Strada a senso unico si entra nel reame dell’onirico. La realtà assume la stessa consistenza indefinita e plasmabile del sogno. Non è sicuramente
casuale il fatto che accada spesso quando Benjamin scrive a proposito della Lacis. Reale e irreale si uniscono e si separano continuamente e senza preavviso: persino i luoghi vengono investiti
da Benjamin di un potere evocativo peculiare. Come il vano del
portone poteva rappresentare un orecchio ormai sordo, così in
Pronto soccorso, “un quartiere quanto mai caotico, un intrico di
strade da me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un
suo ordine quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu
come se alla sua finestra avessero installato un riflettore e questo
fendesse la zona con fasci di luce” (5). La finestra si tramuta in
un faro in grado di dare ordine anche al caos più totale.
Rimane da domandarsi se Benjamin non alludesse con l’immagine dell’intrico di strade evitato per anni, ad un intrico molto più personale: quello della mente. La Lacis potrebbe essere
vista come il faro che ha illuminato Benjamin, donando ordine
al magma dei suoi pensieri. Ancora una volta le frasi si dimostra-
lo stesso, ma il suo potere euristico è differente. Così è diversa
la città ideale dalla città reale. Quella che Benjamin costruisce
e descrive in Strada a senso unico potrebbe assomigliare ad una
città realmente esistente, ma cristallizzata in momenti e immagini simili a dipinti o fotografie. Questo congelamento delle
scene in istantanee allontana inevitabilmente dal reale la città
per consegnarla al mondo del sogno. I paesaggi e le città reali
sono in movimento, il tempo atmosferico muta, persone e animali entrano ed escono continuamente dalla scena. Non possiamo così parlare dell’evocazione di una città materiale, cosa che
comunque non fu mai nelle intenzioni di Benjamin, ma della
cristallizzazione di momenti e riflessioni consegnati ad un’eterna staticità che rimanda ad una realtà ultramondana.
Chiamare in causa la figura del flâneur non può che rinviare
ad alcuni saggi scritti da Benjamin e raccolti in Angelus Novus.
In questi scritti si trovano importanti riflessioni sui rapporti
dell’uomo con la strada, su Parigi e sulla folla delle città. Tali
momenti possono apparire non immediatamente collegati a
Strada a senso unico ma una più attenta lettura di alcuni passaggi
riesce ad evocare numerose associazioni.
Parigi era ed ancora é, come molte città europee, un luogo in
cui camminare. La struttura delle capitali d’Europa, con il centro storico e le ampie aree pedonali, le rende decisamente più
adatte ai vagabondaggi dei moderni flâneur delle grandi città
degli Stati Uniti. Benjamin afferma come Baudelaire identifichi
l’uomo della folla con il flâneur, ma si sente subito in dovere di
dissentire da tale affermazione: “Baudelaire ha voluto equiparare l’uomo della folla […] al tipo del flâneur. Qui non possiamo
seguirlo. L’uomo della folla non è un flâneur. In lui l’abito tranquillo ha lasciato il posto a un terrore maniaco; e da lui si può
inferire, piuttosto, che cosa sarebbe accaduto al flâneur quando
gli fosse stato tolto il suo ambiente naturale” (1). Emerge una
concezione di flâneur come colui che non si muove con la folla ma che la rifugge. Lontano dalla concezione del navigatore
della folla, egli necessita di spazio e non desidera mescolarsi alla
massa senza volto, “ha bisogno di spazio e non vuole rinunciare
al suo tenore privato” (2). Non per niente Benjamin descrive
il disgusto e la ripugnanza provata da personaggi assai noti del
calibro di Poe di fronte all’affollamento cittadino delle grandi metropoli: “Angoscia, ripugnanza e spavento suscitò la folla
metropolitana in quelli che prima la fissarono in volto. In Poe
essa ha qualcosa di barbarico” (3). Lo spostamento di massa si
oppone con tutta la sua forza del numero e dell’impersonalità al
libero movimento senza meta del flâneur. Suo unico rifugio divengono gli spazi artificiali delle gallerie e dei passages, dove ci si
può muovere al passo della proverbiale tartaruga al guinzaglio,
evitando lo scontro con la folla informe. Anche l’aumento del
numero delle automobili trasforma le strade in un luogo ostile
al suo vagabondare, rendendone inevitabile la fuga alla ricerca
di spazi più adatti e sicuri. Non sembra quindi un caso che in
Strada a senso unico compaiano decine di cornici popolate fugacemente da rare figure in attività, ma deserte e svuotate di quella
folla che cominciava ad impadronirsi in maniera caotica delle
strade.
Il movimento evocato nella città immaginaria di Benjamin
assomiglia in modo impressionante al suo concetto di flânerie;
del resto, in Angelus Novus il filosofo sfrutta un’immagine di
Poe descrivendo i singoli componenti della folla come automi
che agiscono e reagiscono in modo meccanico in base agli eventuali stimoli esterni. Si tratta soltanto di mere reazioni a chocs:
13
n. 01/2011
Leggendo il titolo ad un secondo livello, questa strada di cui
parla Benjamin potrebbe essere anche la vita. La sua vita, ma
anche quella di tutti gli altri. Ogni vita singolarmente presa è una
strada a senso unico, le sole certezze sono che si nasce e che si
muore, quali che siano le scelte e le decisioni nel mezzo cambia poco. Ogni volta che si segue un
corso di eventi, la decisione è presa e
non si può tornare indietro. Un livello ulteriore potrebbe essere rivelato
dalla collocazione di questa strada
all’interno dell’urbanistica della città
di pensieri costruita sapientemente
da Benjamin. Tra le diverse strade di
questa città una soltanto appartiene
all’autore: le altre sono i vicoli e le
svolte che ogni lettore segue nel suo
vagabondare nei meandri delle riflessioni di Benjamin. Ci si potrebbe così
facilmente inserire nel tessuto variegato e incompiuto di Strada a senso
unico divenendo flâneur della mente,
lasciando vagare i pensieri come si
potrebbe fare con il corpo e trovare
la propria direzione. Forse è possibile
ravvisarvi l’invito a trovare una strada
personale che si tramuti in un impegno reale per migliorare la sorte della
società. Una via di fuga dalla crisi culturale: questa all’autore doveva apparire la scelta politica che si accingeva
ad intraprendere.
La strada percorsa dal lettore fra le
pagine è del tutto personale, differente e irripetibile. Anche l’esperienza di
Benjamin fu unica. È proprio la vicinanza tra le riflessioni dell’autore e
quelle che potrebbe compiere l’uomo
comune ad avvicinare questa opera
all’esperienza di vita di chiunque. La
lettura politica è solo la punta di un
iceberg che può trovare il lettore d’accordo o in disaccordo, ma è ciò che si
trova al di sotto della superficie che
diventa esperienza condivisa. Nel profondo dell’opera, Benjamin sembra
essere riuscito a depositare un sostrato
di universalità che travalica la decisione irrevocabile della presa di posizione
o le memorie di Asja Lacis. Il biografico scompare e si confonde con le tinte surreali di una città immaginaria e
rimane solo l’ambito di tutti gli esseri
umani: la vita. Si parla di una vita come di tutte le vite.
no ambigue, prestandosi ad interpretazioni poste su differenti
livelli. Vagare per un quartiere prima evitato può semplicemente essere interpretato nella maniera più ovvia, oppure condurre
a digressioni che sottendono un differente tipo di vagare. Il movimento quindi si rivela in una duplice natura: fisica e psicologica. Le strade esistenti e le strade della
mente divengono percorribili allo
stesso modo, singolarmente o persino contemporaneamente. Corpo in
movimento e pensiero in movimento
si intersecano.
È indubbio che Strada a senso
unico debba molto alla relazione di
Benjamin con Asja Lacis e al tumulto interiore generato nell’autore, sia
dall’amore intenso che provava per lei
che dal travaglio di una crisi esistenziale. Il titolo dell’opera è già di per sé
emblematico in merito alla profondità dei livelli di lettura presenti nel testo. Strada a senso unico evoca l’immagine del tipico cartello stradale con la
freccia e la scelta di certo non stupisce,
vista la vastità di termini attinti dalla
segnaletica. Un primo livello di lettura
di questo titolo richiama sicuramente
l’impegno politico che Benjamin
aveva intrapreso, per il quale ringrazia Asja Lacis (definita “ingegnere”
nella dedica). L’autore vede il nuovo
percorso apertosi davanti a lui come
l’unica via possibile, una via che una
volta imboccata non permette di tirarsi indietro. Questa forte affermazione
politica nasceva in un periodo oscuro di una Germania prostrata dopo
la Grande Guerra e sofferente sia dal
punto di vista economico che culturale. La sterilità intellettuale della Germania di quel periodo che Benjamin
credette di rilevare emerge più volte
nel testo, dovuta secondo l’autore,
sia alle persone che ad una letteratura
povera. Le indicazioni di Benjamin su
cosa dovrebbero contenere i libri e su
cosa essi siano sono molto chiare. Pare
emergere da esse un senso critico ed
una insoddisfazione verso una determinata letteratura considerata debole e inefficace. Al contempo, emerge
l’amore per la lettura e un rapporto
di forte dipendenza dai libri. In N. 13
essi sono accomunati alle prostitute, svelando il rapporto quasi
carnale che ne garantisce la somiglianza. Questo però rivela come
l’amore dell’uomo per il libro non sia mai ricambiato, proprio
come può esserlo quello verso la prostituta. I libri sono fonte di
delizia, di disperazione, di sconforto, ma anche motivo di biasimo, di discordia e di bugie. Questo rapporto conflittuale rappresenta il difficile momento culturale della Germania evidenziato
da Benjamin.
“
Ogni vita
singolarmente presa è una
strada a
senso unico.
le sole
certezze sono
nascita e morte; �uali che
siano le scelte
e le decisioni
nel mezzo poco
cambia
”
(1) Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, p. 107.
(2) Ivi, p. 107.
(3) Ivi, p. 109.
(4) Edgar Allan Poe, Racconti, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 20.
(5) Walter Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino, 2006, p. 8.
14
n. 01/2011
Spiritualità della strada
di Emanuele Guarnieri
I
navigatori antichi usavano una frase gloriosa: Navigare è
necessario, vivere non è necessario. Voglio per me lo spirito
di questa frase, trasformata in una forma per raggiungere
ciò che sono io: vivere non è necessario; creare è ciò che è necessario. Non mi aspetto di godere la mia vita, neanche a goderla ci
penso. Voglio soltanto farla diventare grande, anche se per questo
dovranno essere il mio corpo e la mia anima il legno di questo
fuoco”. Sembra di buon auspicio avviare una conversazione
circa una presunta spiritualità della strada sotto il segno della
poesia del portoghese Fernando Pessoa Navigare è necessario.
La lingua poetica pare infatti più prossima alla sfuggente nozione di “spiritualità” rispetto alla ragione metafisica, col suo
atteggiamento definitorio. La poesia permette di accedere a
quei recessi spirituali ai quali la ratio umana è interdetta. Non
si tratta di ambiti differenti ma di modi diversi di vedere la
stessa cosa.
Lungi da noi, però, tentare qui l’ennesima critica della metafisica, disciplina estremamente fruttuosa in altre sedi e così
ingiustamente maltrattata da chi non ne comprende la genesi
e l’atteggiamento. Se tuttavia lo scopo del presente articolo è
avvicinare il lettore al concetto di “spiritualità della strada”,
imposteremo allora un percorso alternativo che, attraverso allusioni e metafore, permetta comunque alla parola “spiritualità” di esprimere il suo senso.
Si scoprirà, in primo luogo, che la spiritualità è tutto, fuorché un oggetto che il pensiero possa afferrare in maniera definitiva: essa sta propriamente in tutte le cose, riveste tutto ciò
che tocca di sé e da tutte le cose è rivestita, senza individuarsi
mai, e proprio per questo la sua definizione risulta impossibile. Spiritualità è infatti, più che un oggetto, un’attività; e, propriamente, un’attività di “costruzione del mondo”, una pratica
che tende a divenire una sfera di senso che inglobi le altre.
15
n. 01/2011
è fatta di esperienza e di azione, differentemente da quanto
avviene con la contemplazione; trova il suo posto nel Mondo
e nella Storia, con il deciso proposito di conoscere il primo e
trasformare la seconda: “Il punto di partenza di qualsiasi spiritualità non sono le cose astratte o spirituali, ma il concreto
della vita, il fatto, la realtà stessa
[...]. L’anima [...] ha bisogno del
corpo per conoscere e afferrare la
realtà, darle un significato, sprigionando pian piano una spiritualità [...]. Senza spiritualità il
“fatto” rimane chiuso in se stesso,
impossibilitato a trasmettere un
messaggio” (2). La spiritualità
dunque abita il cuore stesso delle cose, allo scopo di investirle
di senso, facendone esplodere
i significati. Non vogliamo qui
entrare impreparati nel merito della tradizione dell’estremo
oriente, tuttavia l’essenza della
spiritualità pare affine a quel peculiare atteggiamento del mondo
orientale, consistente nel prestare massima attenzione a ciò
che si sta facendo, illuminando
l’azione e facendola risplendere.
Tale atteggiamento è visibile, per
esempio, in uno dei nomi che
viene dato all’agglomerato delle
discipline marziali cinesi nel suo
complesso: Gong fu o Gong Fu, il
cui significato è qualcosa di simile a “esercizio ben eseguito”. In
ogni azione, che sia radicata nel
quotidiano e nel concreto, e che
voglia essere “ben eseguita”, dunque, si annida spiritualità.
Lo spirito non si cela, dunque,
tra le nebbie di un mondo dietro
al mondo – al contrario, esso determina, peculiarmente, tutta la
struttura dell’immanente. Ciò
spiega la congiunzione che si sviluppa tra le etimologie di arte,
ars, e rito. Qualsiasi tipo di atto
diviene rituale se svolto a regola
d’arte e qualsiasi arte è irrimediabilmente connessa ad una dimensione rituale. L’uomo spirituale
svolge ogni azione secondo dettami di tipo artistico e spirituale.
Non conosce uno spirito separato dalla materia ma vede nell’unione dei due il fondamento
di qualsiasi tipo di ortodossia e ortoprassi. Egli accorda ogni
suo atto ai dettami dello spirito, senza nemmeno concepire
alcunché che ne sia sprovvisto.
Eppure, pare inevitabile che lo spirituale segni un’inequivocabile frattura con il mondo: se così non fosse, ad essa ci
riferiremmo con il semplice nome di “mondano”. Come si
È quindi intrinseco alla nozione preliminare presentata che
quanto chiameremo “spiritualità” non attiene in modo specifico ad alcuna tradizione religiosa – semmai, appartiene a tutte,
dal momento che esse si configurano come “vie d’accesso” alla
spiritualità. Tuttavia, a causa della formazione e dell’esplicita
scelta di fede dell’autore del presente contributo, si farà un consapevole riferimento alla tradizione
giudaico-cristiana.
Il legame con i domini del sacro è essenziale, ovviamente. Un
sacro, tuttavia, inteso in senso
globale, come totalità. Dobbiamo sottolineare che l’immagine
che solitamente viene associata
alla “sacralità” non è molto adeguata ad intendere questa ultima
in tutta la sua portata. Vale a dire
che dove è la spiritualità a permeare interamente l’esistenza, non
vi è posto nemmeno per il sacro,
non essendovi un ambito profano da contrapporre ad esso. Un
sacro opposto ad un profano non
può che sorgere laddove il crisma
spirituale sia già venuto meno. È
detto che nella Gerusalemme terrestre non vi sarà tempio alcuno.
Che bisogno può esservi, d’altra
parte, di erigere luoghi di culto,
laddove lo spirito non è stato ancora scisso da tutto il resto? Che
bisogno può esservi di riti se la
vita è in se stessa un rito? Persuasione di queste nostre righe è che
l’esperienza del cammino dia la
possibilità al viandante di ricomporre quella totalità che è andata
perduta, con il solidificarsi e materializzarsi dell’uomo proprio
dei tempi che corrrono.
L’articolo è di conseguenza
diviso in tre parti: nella prima si
cercherà di accostarsi all’indefinibile spiritualità; nella seconda
tratteremo invece di quella spiritualità propria del camminatore
che è detta “spiritualità della strada”; infine, cercheremo di tirare
le somme e faremo riferimento al
pensiero di Fernando Savater per
tematizzare l’eschaton dell’esperienza del cammino.
Spiritualità è parola di antiche radici: è semplice infatti farla risalire la latino spiritus, soffio, respiro, alito, direttamente connesso a spirare (respirare) e analogo al greco pneuma.
Spirito è ciò che, evangelicamente, “soffia dove vuole, e tu ne
odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va”(1).
Lo spirito pervade tutte le cose, per chi si mette nell’atteggiamento proprio della spiritualità: essa, più che di parole,
“
più che un
oggetto,
La spiritualità
è un’attività
di costruzione
del mondo, una
pratica che tende a divenire una
sfera di
senso che
ingloba le altre
costellazioni
esistenziali
”
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n. 01/2011
bene ricordare che la strada è lunga e in salita.
Ci chiederemo ora il come e il perché al camminare – alla
strada – si possa assegnare un valore spirituale. Esercizio teoretico certo non vano ma al quale è opportuno affiancare la
consapevolezza che forme di spiritualità della strada esistono
e sono esistite in modo attuale: è per questo che, in primo
luogo, descriveremo l’esperienza concreta di strada detta
Goum, dalla quale cercheremo di trarre indicazioni preziose
per la nostra riflessione.
In cosa consiste, in sintesi, un Raid Goum? Negli anni
1969-1970, dietro la guida di Michel Menu (un ex soldato
della resistenza Francese durante la Seconda Guerra Mondiale), alcuni gruppi di persone cominciarono ad organizzarsi per vivere delle esperienze di cammino nel deserto. La
scelta del nome con cui designare quanto da loro vissuto ricadde sulla parola Goum. Dapprincipio, questo era il nome
di quel che rimaneva delle antiche tribù berbere del Nord
Africa, sfuggite alle influenze cristiane prima e musulmane
poi, rifugiatesi sui monti dell’Alto Atlante durante il VII
secolo d.C.. I colonizzatori turchi e francesi compresero la
forza racchiusa in queste bande di predoni liberi, fieri e selvaggi; invece che sottometterli ad ogni costo, li fecero loro
alleati. Fu istituito il corpo dei Goumier Marocains, che sempre rimase una forza a statuto speciale all’interno dell’esercito francese: la Gouma, nome della rete di bande pronta ad
armarsi istantaneamente, restò infatti sempre sotto il diretto
comando del capo tribale.
Ispirati dallo spirito di indipendenza di queste popolazioni, i seguaci di Michel Menu decisero di mettersi alla loro
scuola e presero a camminare nei deserti altipiani francesi, affiancando al cammino un certo tipo di spiritualità cristiana:
quella dell’Esodo. Il Goumier è infatti colui che “abbandona la
schiavitù della terra d’Egitto [...] per entrare nella terra Promessa dove scorrono latte e miele” (4). Il risultato finale del
cammino consiste, per questi moderni pellegrini, nel cogliere
i fiori dell’armonia personale e dell’autenticità e il frutto della grazia, ovvero la realizzazione del cristiano. Ricordiamoci
di questa allusione all’Esodo, perché sarà importante allorchè tratteremo dell’eschaton del camminatore sulle tracce del
pensiero di Savater. Grande fu la gioia dei Goumiers quando
scoprirono, dopo qualche tempo dall’inizio della loro esperienza, che la parola Goum non era un’esclusiva della lingua
berbera: la radice qama è infatti presente in tutto l’Antico
Testamento, con numerosi significati: levarsi (del sole), alzarsi in piedi, risorgere, salire, camminare, ed anche insorgere,
ribellarsi. Nel Vangelo di Marco troviamo l’espressione Talita Kum: “bambina, io ti dico, alzati!”(5). Alla parola attiene
un insopprimibile dinamismo, la stessa forza che affiora dal
greco physis o dal latino natura, contrazione di nascitura: ciò
che è e sempre sarà in procinto di nascere, di fiorire. In fondo,
per chi la pratica, l’esperienza dei Raid Goum è questa: insorgere, per salvare un’indipendenza minacciata dal caos del
mondano, mettendosi in cammino per risorgere all’esistenza
autentica. Occorre rilevare che lo stile col quale tutto ciò viene fatto è l’essenzialità. La povertà liberamente scelta è un
punto di partenza fondamentale per il partecipante al Raid
Goum: le comunità Goumier accettano che, per il periodo
di viaggio attraverso il deserto, dormiranno sulla nuda terra,
senza tenda; tutto ciò che mangeranno sarà un po’ di riso a
colazione, pranzo e cena e niente altro, bevendo solo acqua
compone dunque il paradosso? Come spiegheremo il contrasto tra la natura terrena e radicata della spiritualità e il suo
distacco dal mondo?
La spiritualità non è necessariamente contemplazione. È
semmai il contrario, la contemplazione non essendo che una
forma di pratica spirituale tra le altre. La contemplazione
pone sé stessa in distacco dalle cose, gli occhi fissi al cielo; la
spiritualità, invece, vive ed agisce nel mondo, senza rifiutarlo:
essa intende scoprire, al fondo del mondo, la terra. Spiritualità è gettare un ponte tra la terra e il cielo, sarà pensarli uniti.
Il suo carattere sarà affine a quella fuga descritta da Elèmire
Zolla nella sua Introduzione a Il Signore degli Anelli: “Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba di replicare che, certo,
una fiaba è un’evasione dal carcere e aggiunse: chi getta come
un’accusa questa che dovrebbe essere una lode commette un
errore forse insincero, accomunando la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che
tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione
a fenomeni sociali.”(3)
L’autentica spiritualità non è pertanto una fuga passiva,
né una scelta sentimentale compiuta innanzi ad una realtà
che ci ha sconfitto bensì l’integrazione di questa stessa realtà all’interno di una costellazione qualitativamente elevata.
Qualsiasi tipo di percorso spirituale non può che condurre
allo stesso luogo dal quale si è partiti, il quale appare tuttavia
sotto un’altra ottica, rinnovata dal cammino. Nulla hanno a
che vedere con la spiritualità autentica quelle pseudodottrine
che prescrivono l’alienazione supina dal mondo. Al contrario, l’uomo spirituale vive con i piedi ben piantati per terra.
Conosce il mondo ma non si esaurisce in esso. Ecco il tratto di una spiritualità integrale: conoscere la fisica ma anche
la metafisica, la materia ma anche lo spirito, ammettendo la
loro perenne dualità quale cifra del reale. Misconosce la spiritualità sia chi esilia l’uomo nel mondo della materia sia chi
prescrive fughe artificiali e fuorvianti.
Non vogliamo discutere oltre quel che sembra ora chiaro:
spirituale è ciò che parte dal concreto dell’esistenza, si stacca
dalla caoticità mondana considerandola carcere dello spirito
ed infine torna in essa, con l’intenzione di trovare l’autentico
dietro il caos apparente e di trasformare il carcere dello spirito
nel regno dello spirito.
Pare inoltre opportuno rilevare che non è in nessun modo
fondamentale alcun tipo di prospettiva oltremondana o dietromondista per vivere un quid di spirituale: la semplice consapevolezza che questa terra e questa vita siano le uniche a
nostra disposizione può – e forse deve – ispirare il desiderio
di ritrovare l’autentico nell’inautentico, il cielo ben stretto
alla terra, la foresta nella città.
In ultima analisi, è opinione dell’autore di questo articolo
che si debba prestare attenzione alla tendenza contemporanea (e in generale, umana) alla semplificazione di chi propone facili forme di spiritualità homemade, promettendo un
Nirvana facile come uno schiocco di dita. Sono da rifiutare
allo stesso modo le superficiale visioni New Age e il bigottismo fariseo di chi vive di sola chiesa, perché spiritualità non
significa rigetto, o paura, del mondo reale: al contrario, essa
consiste nel vivere nel mondo presente la “Promessa del Regno dei Cieli” o “Promessa della Rivoluzione”, nelle parole
di Fernando Savater. La spiritualità è fatta di cose semplici
e quotidiane ma non è affatto semplice divenire semplice. È
17
n. 01/2011
assidua e costante, volta a far conflagrare il fuoco del quotidiano, è allora ciò che è necessario; dal che si deduce come
lo spirituale sia lo stesso del necessario – almeno ascoltando
le voci che qui vengono fatte dialogare. Non è certo un caso,
infatti, che nel brano Os Argonautas del musicista brasiliano Caetano
Veloso, ispirato a Navegar è preciso,
il porto, ovvero il punto in cui la
navigazione si spegne, sia paragonato prima al nulla (Nada) e poi al
silenzio (Silencio): nient’altro che
morte.
La parte finale di questo contributo si propone di stabilire quali siano
senso e direzione della spiritualità
della strada. Lo faremo accostandoci al pensiero del filosofo spagnolo
Fernando Savater espresso nel libro
La missione dell’eroe. Elementi per
un’etica tragica. Lo scritto, in breve, è il tentativo di dare un volto
ad un’etica che abbia la capacità di
superare l’eterno dissidio tra libero
arbitrio e destino, proponendo la
centrale figura dell’eroe: questi sa
che il suo destino è conseguenza necessaria del suo carattere il quale, a
sua volta, è frutto del volere.
Ognuno di noi è dunque una volontà che non può non essere tale
e che inevitabilmente conduce ad
un destino; ognuno di noi vuole la
sua condanna, o la sua redenzione,
che è in quest’ottica il medesimo.
Compito etico dell’eroe sulla Terra è “esemplificare attraverso la sua
azione la virtù come forza ed eccellenza”(9), perché un giorno la Rivoluzione appaia sulla Terra. Cosa dovrà fare allora l’eroe, accortosi che la
Rivoluzione è in realtà impossibile?
Savater lo spiega nel capitolo intitolato Lo scetticismo davanti al mondo
nuovo, introducendo l’emblematica
figura di Mosè. È nota la storia raccontata dal libro dell’Esodo: dopo
quarant’anni di viaggio attraverso il
deserto, mentre il popolo ebraico è
prossimo all’arrivo nella Terra Promessa, Mosè viene informato da Dio
che non avrebbe mai visto la “terra
dove scorrono latte e miele”; riceve
cioè la funesta notizia che lui e il suo
paradiso erano incompatibili.
Perché Mosè continuò a camminare, a guidare il Popolo Eletto, come se nulla fosse? Sarebbe
facile trovare la ragione delle sue azioni in un altruismo disinteressato, ma il racconto è ben più ricco di insegnamento,
se proviamo ad immaginare che Mosè fosse tanto lucido ed
egoista quanto tutti gli esseri umani. Scrive Savater che “in
della borraccia; e non si laveranno, perché l’acqua nel deserto
è troppo poca, così come l’intimità necessaria all’igiene.
Sono scelte che indubbiamente appaiono estreme, ma sono
giustificate per i Goumier dall’idea che questo tipo di esperienze sono tanto formative per il
carattere, da essere insostituibili (6).
Il riferimento appena fatto all’essenzialità è strutturale, perché in
una sola costellazione ricadono l’essenziale, lo spirituale e il necessario.
In cosa consiste essere essenziali?
La riflessione di Francesco Tomatis
nell’opera Filosofia della montagna
allude esplicitamente allo stile di
salita elaborato da Reinhold Messner, definito “filosofia della rinuncia”, per comprendere il concetto di
essenzialità. Specie dopo la morte
del fratello Günther, questi “è stato
forse il primo alpinista in assoluto a
divenir lucidamente cosciente, sino
alla praticata teorizzazione, della rinuncia come conditio sine qua non
– non meramente strumentale, ma
essenziale e spirituale – dell’alpinismo”(7). Essere essenziali, abitare
una forma di rinuncia strutturale, è
necessario perché alla nostra pratica
si apra l’orizzonte spirituale, dice
Tomatis. Occorre fare a meno di
tutto ciò che “ecceda la mera vita in
soffio essenzializzata”(8), ogni apparato tecnologico che sia possibile
escludere, tanto più se si considera
che il pericolo – mai del tutto assente nell’ambiente di montagna – potrà anche essere temporaneamente
esorcizzato dalla tecnica, ma non
farà che ritornare ancora più terrorizzante qualora non ci si sia preparati spiritualmente ad esso. L’essenzialità, allora, è la porta d’accesso
alla spiritualità della strada.
Da ultimo, tentiamo di comprendere in che rapporto stiano
tra loro lo spirituale e il necessario,
prendendo in considerazione la poesia pessoana riportata al principio
dell’articolo, nella quale lo stesso
navigare è presentato come necessario, e ben più della vita. Possiamo
stabilire una semplice analogia tra
quel che la navigazione rappresenta
per il portoghese e quel che il camminare significa per noi. Navigare,
camminare, significa attuare in noi un certo tipo di dinamismo equivalente alla creazione, scopo stesso dell’esistenza e
ad essa ontologicamente superiore. Non si dovrà allora godere semplicemente della propria esistenza: essa anzi, andrà
potenziata, a prezzo della vita stessa. Una pratica dunque
“
Ognuno consiste in una volontà che non
può non essere
tale e che inevitabilmente
conduce ad un
destino; ognuno vuole la sua
condanna, o
la sua redenzione, che è in
�uest’ottica
il medesimo
”
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n. 01/2011
Forse solo a partire da una simile concezione è possibile
fondare una nuova modalità di condivisione estetica, ossia
esperienziale. In un tempo nel quale la sussistenza identitaria degli uomini è scissa tra un individualismo ed un
collettivismo tanto artefatti quanto falsificanti, solo una
Rivoluzione di questo tipo potrebbe costituire una nuova
Umanità, atta a sopportare i compiti che ci attendono in un
futuro sempre meno decifrabile con i caratteri del presente.
Questa la scommessa proposta dai pensatori e camminatori
qui esaminati.
Dunque è questo il senso di camminare verso la Terra Promessa: essere scettici nella possibilità del suo raggiungimento
non significa arrestare il cammino; significa, semmai, “che la
virtù continuerà ad essere possibile perché continuerà ad essere indispensabile, perché nessuna istituzione immaginabile
la renderà superflua una volta per tutte” (13). Conclude Savater: “I cristiani sostengono che è necessario agire come se la
grazia fosse conquistabile, benché non ignorino che si tratta
di un dono gratuito e che viene da una volontà tanto libera
da essere equivalente al caso. Nello stesso modo, anche noi
pagani compromettiamo il nostro giudizio e la nostra dignità
nell’agire come se tutto dipendesse da noi, benché alla fine sia
ugualmente un regalo e un’alea ciò che viene a chiuderci gli
occhi per la notte” (14).
Camminare, allora, perché sia possibile ancora camminare,
consci del fatto che è il cammino, e non la meta, che trasformano: e che solo al viandante è aperta la visione della Città
di Dio.
Il cammino è essenziale affinché l’uomo possa divenire a
tutti gli effetti ciò che autenticamente è. Ecco il senso nascosto in una pratica che svolgiamo quotidianamente, spesso in
maniera inconsapevole.
A chi non cammina, neppure gli occhi rimangono, perché
navigare è necessario, è più di esistere.
pratica, Mosè alla fine è stato informato su cosa significasse
questa ‘Terra Promessa’ e ha capito che il segreto, affinché
questa continuasse a essere promessa, consisteva nel fatto che
lui non sarebbe arrivato a calpestarla, perché quando si entra
nella Terra Promessa, questa cessa di essere tale e si trasforma
in una terra comune e corrente, in un paese come qualunque
altro, intercambiabile con quello, detestato, da cui era partito” (10).
È la promessa a dar valore alla terra, e, anzi, la promessa
svanisce nel momento in cui si compie, svanisce al punto che
si arriva a dimenticare che una volta è esistita, tanto che il
Popolo Eletto avrebbe dovuto scegliere tra la terra e la promessa – e ovviamente avrebbe scelto la terra. Mosè, allora,
continuò a camminare, con più forza che mai, conscio che
nulla al mondo gli avrebbe strappato ciò che davvero ha valore, ovvero la promessa. Certo, il Profeta dovette senz’altro
iniziare la sua missione pieno di speranza per la ricompensa
che alla fine sarebbe giunta, spinto dall’indubitabile fascino
del futuro: ma, poco alla volta, maturò in lui la convinzione
che il futuro altro non è se non un miraggio. Cosa distingue
infatti il futuro dal presente, se non che il futuro è il giorno
in cui il presente, con la sua promessa, muore? “Quando ha
saputo finalmente di non dover arrivare nella Terra Promessa
e che quel castigo lo avrebbe liberato dal futuro confinandolo per sempre nell’oggi e nella promessa, a Mosè si sono
rinnovate le forze e il suo passo ha recuperato una nuova allegria” (11).
Ora, il pellegrino e il Goumier vanno alla ricerca della Terra Promessa, il Mondo Nuovo portato dalla Rivoluzione per
l’eroe savateriano. Di cosa parliamo, dicendo “Rivoluzione”?
Ciò che si intende qui è la Rivoluzione, maiuscola, non una
qualsiasi rivoluzione. Delle rivoluzioni, Savater afferma che,
pur essendo queste non irrilevanti e nemmeno superflue, rivolgono restando all’interno di un’orbita inamovibile. La
frittata, per usare un’espressione castigliana, viene fatta girare ma resta. La Rivoluzione è invece ciò grazie a cui sono
avvenute tutte le rivoluzioni e che la farà finita per sempre
con la frittata, portando a compimento il Mondo Nuovo, che
millenarismi sacri e profani di ogni tempo hanno sognato. La
Rivoluzione “annullerebbe la distinzione fra governanti e governati, abolirebbe la separatezza del potere e riconoscerebbe ad ognuno la libera specificità della sua stessa forza”(12).
Tutto ciò può senza dubbio sembrare, ad un primo sguardo,
un’utopia. Se è così, quale senso ha allora, nell’ottica di Savater, camminare verso il Regno dei Cieli?
Questi risponde che non si tratta di una semplice alternativa, di una semplice scelta tra un piano realizzabile e un
fantasma impossibile: le cose sono assai più complesse. In primo luogo, la Rivoluzione si presenta come l’orizzonte fondamentale dell’etica: abbandonare l’etica significherebbe consegnarsi allora all’inevitabile reificazione di se stessi, perché
chi non è soggetto dell’azione, diviene soggetto all’azione. La
Rivoluzione deve dunque mantenere il suo carattere onirico,
ma pesante sul presente, sul tempo della promessa, perchè è
nel presente che si pone la necessità di lottare per la propria
libertà contro ciò che ingabbia e reifica, e allo stesso tempo si
deve lottare per la libertà degli altri, necessaria hegelianamente al riconoscimento della propria. È oggi che si deve evadere
dal tolkieniano carcere del mondo, dalla caverna platonica,
insieme con tutti i prigionieri.
(1) Gv, 3, 8.
(2) Stefano Roze, Spiritualità dei Raid Goum nel deserto, Arca di
Sant’Antimo, Castelnuovo dell’Abate (Siena) 2006, pp. 32-33. Padre
Stefano Roze è monaco presso l’Abbazia di Sant’Antimo, nei dintorni di
Siena.
(3) Elemire Zolla, Introduzione a Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2000, p. 6.
(4) Stefano Roze, op. cit, pp. 40-41.
(5) Mc, 5, 41.
(6) Non ci attardiamo a descrivere oltre una pratica tanto affascinante:
chi volesse approfondire il tema si procuri l’interessante libro Spiritualità
dei Raid Goum nel deserto, oppure consulti il Web agli URL www.antimo.
it o www.goum.it .
(7) Francesco Tomatis, Filosofia della Montagna, Bompiani, Milano
2005, p.53.
(8) Ivi, p.54.
(9) Fernando Savater, La missione dell’eroe, Nuove Pratiche Milano,
1998, p. 121.
(10) Ivi, p. 161.
(11) Ivi, p. 162.
(12) Ivi, p. 164.
(13) Ivi, p. 170.
(14) Ibidem.
19
n. 01/2011
Il camminare come
gesto e disobbedienza civile
di Andrea Marini
N
el movimento si rende evidente l’eternità e la metamorfosi del Tutto. Nei gesti puri e liberi si evidenzia
la libertà del divenire delle cose. Questo procedere
altro non è che un continuo andare e tornare sui propri passi, interrompendo i propri sentieri in modo che ogni istante
ed ogni luogo siano riplasmati. È “eterno ritorno”, in quanto
tutto ciò che è stato ritorna eternamente in se stesso, modificandosi. La materia e il suo movimento sono costituiti da
scambi di energia; questa ultima – così come la materia, come
ci ricorda Lavoisier – non si crea e non si distrugge ma semplicemente si modifica. Qualsiasi tipo di movimento e cambiamento è quindi un procedere nel rimanere, un divenire,
come si può osservare ad occhio nudo sulla corteccia di un
albero: il suo cambiamento è un movimento statico all’apparenza e dinamico nella forma, ma non nella sua sostanzialità
di corteccia e albero.
20
n. 01/2011
storia dell’umanità è stata un continuo spostamento; mai
l’uomo si fece fermare. Cercò invece di espandersi sempre,
di andare oltre. Spostare continuamente il confine del suo
regno, del suo possesso – supremo esercizio di volontà. Questa
condizione fu tale sempre e per
sempre, basti pensare alle nostre
società attuali che fagocitano
ogni istante di spazio e tempo e
ogni conoscenza affinché si possa ristabilire di continuo la sfera
di possibilità umana.
Questa corsa continua, però,
porta a dimenticare, a volgere
lo sguardo altrove rispetto al
nostro essere, ai nostri piedi e
al nostro sentiero, al nostro corpo, facendo sì che il movimento
naturale – il camminare – venga abbandonato e depotenziato
a favore di movimenti tecnici e
meccanici che alterano il nostro
esserci, trasformandoci in disumani schiavi della tecnica. L’uomo è così un prodotto tecnico
dimentico del suo corpo; così
ci dicono in primis Le Breton:
“Sicuramente mai come nelle
società contemporanee si è fatto così scarso uso della mobilità
e della resistenza fisica individuale. L’energia umana in senso
stretto, derivante dalla volontà
e dalle risorse più elementari
del corpo (camminare, correre, nuotare), viene stimolata di
rado nel corso della vita quotidiana in rapporto al lavoro, agli
spostamenti e così via. Il bagno
nei fiumi, come ancora si usava
negli anni Sessanta, non si fa
quasi più se non in pochi luoghi
autorizzati, non si usa la bicicletta (se non in forma quasi militante e non priva di rischi), né
tanto meno le gambe, per andare
al lavoro o svolgere incombenze
quotidiane” (1). Successivamente, Thoreau osserva, portando
un esempio calzante che sarebbe
stato sicuramente caro anche a
Rebecca Solnit: “Come possono le donne sopportare di essere
confinate in casa ancor più degli uomini, io non lo capisco;
ma ho motivo di ritenere che la
maggior parte di esse non lo sopporti affatto” (2).
L’immobilità e l’immobilismo tecnico avviliscono e fanno avvizzire corpo e mente, perché se il movimento è traslato dall’io alla dipendenza dell’altro, non può avvenire uno
Così l’uomo, nel suo movimento essenziale – la vita –, cambia sempre, non nel suo essere uomo – essere in movimento
ed essere cosciente di ciò. L’umanità ha sempre incarnato e
sentito questa sua caratteristica
essenziale, che è l’essere-in-movimento, come sentirsi parte di
un fiume cosmico universale ed
eterno, essere una goccia d’acqua in movimento nell’eternità.
L’essere umano ha da sempre intrapreso il suo movimento, che
è il cammino, accettando il suo
destino di nomade tra i nomadi,
di aggregato di energia in movimento, immerso in un quantum
più ampio. Il cammino energetico dell’essere e del divenire si
congiungono, imbrigliati e incatenati l’uno all’altro.
Da ciò si deduce la necessità
di una più ampia indagine sul
senso del camminare. Esso è il
gesto più naturale, spontaneo
e puro, perché ci porta ad essere parte di questo movimento.
Il deambulare coincide a ogni
istante della nostra esistenza
come a qualsiasi cosa sia, sia stata o sarà. L’uomo è tale in quanto appartenente al genere homo
e si forma come essere evoluto
e moderno per il fatto che fu
homo erectus prima ancora di
essere sapiens sapiens. Erectus,
questa è la parte che ci interessa
della nostra qualifica – definizione scientifica – in quanto ci
racconta, nella sua sintesi, che
l’homo, un giorno, nella storia
della sua evoluzione, non si sa
come e dove, non si accontentò
del limite fisico che lo costituiva, ma cercò di superarsi, di
andare oltre il suo orizzonte,
ampliò il suo campo visivo, si
alzò in piedi; si rese conto che
là dove lo sguardo si fa incerto
e impreciso, c’è altro, uno spazio più ampio e controllabile.
Un’alterità, una distanza costitutiva da riempire. Un passo
alla volta, prima a quattro zampe, poi su due, l’uomo si mosse
per raggiungere quel sole, quelle
stelle, quell’oggetto voluto, desiderato; quel qualcosa che gli
fece compiere uno sforzo immenso: cambiare la sua forma e
il suo stato, diventando bipede.
Il limite in sé determinava la libertà umana, e quindi andava di volta in volta ristabilito, riposizionato. Da allora la
“
L’UOMO HA
DA SEMPRE
INTRAPRESO UN
MOVIMENTO CHE
È CAMMINO,
ACCETTANDO
UN DESTINO
DI NOMADE
TRA I NOMADI,
DI QUANTUM DI
ENERGIA IN
MUTAMENTO,
IMMERSO IN UN
AGGREGATO
PIÙ AMPIO
”
21
n. 01/2011
vedo l’onde illuminate
che carena non varcò (4)
Similmente, la filosofia è un cammino, un continuo trascendimento del non plus ultra.
Questo ci è confermato anche dalla definizione aristotelica di filosofia come meta-fisica, cioè tentativo di andare oltre
la fisica e il sensibile. Si cerca di capire e conoscere ciò che sta
oltre la sensibilità: vedere l’oltre e scoprire i sentieri che portano alle vette dell’essere. Questo infinito tendere, scoprire
e riscoprire nuove vie, equivale a vivere la volontà di potenza
che ci costituisce come esseri-in-movimento, camminatori di
sentieri. In quanto viandanti, da sempre abbiamo fatto soste su questi percorsi, perché nelle pause possiamo guardare
oltre con attenzione. La sosta è quindi naturale, ma l’epoca
contemporanea appare come un canto retorico (5) entusiastico ed elogiativo della sosta perenne, della stasi ignara.
Il nostro tempo è un movimento continuo nello stesso
punto, un aderire alla stasi, un camminare sul posto, uno
spreco di umanità in un ritornare non produttivo, l’epoca
della tecnica come una corsa continua sopra un tapis roulant.
Il movimento è bandito, non si cammina più, non è più lecita la riappropriazione del nostro corpo, non ne abbiamo più
reale coscienza e non sappiamo più quali siano i suoi limiti.
Le nostre vie conoscitive sensibili si sono atrofizzate. Nella
stasi promossa dalla modernità, l’uomo ha smarrito irrimediabilmente la possibilità di fare esperienza in maniera autentica. Non usiamo più le gambe, sia quelle fisiche sia quelle
del pensiero, la vediamo come fatica non utile, uno spreco di
presupposte energie vitali, che non sappiamo nemmeno da
dove arrivino, a cosa servano, eppure non vogliamo sprecarle. Nascondiamo a noi stessi il nostro quantum potenziale,
come un bimbo cela il suo più bel segreto. Ci siamo seduti
sul masso erratico della tecnica e qui ci crogioliamo, come
lucertole, cercando di goderci il sole di mezza altura, accontentandoci del parziale panorama che riusciamo a scorgere;
immobili respiriamo solamente, in vana attesa di domanda e
risposta. Il muschio che ricopre queste pietre diffonde le sue
spore in noi, incatenandoci come Prometeo alla montagna.
Così facendo decretiamo la sconfitta del semidio e la vittoria
degli dei. Ascensori, scale mobili, aerei, treni sono tutti mezzi necessari, negarlo sarebbe da sciocchi, ma noi ci immergiamo completamente in essi, negando a noi stessi la minima
possibilità di andare a piedi. La tecnica ci costringe sul suo
trono di velluto, così da non sprecare energie, annichilendo
le nostre forze creatrici e poietiche.
In questa maniera abbandoniamo il cammino della vita,
citato dal Dante nella Commedia, per lasciarci andare trasportati dalle onde del mare, in un lento naufragare. Questo
naufragio deve essere però vissuto in modo diverso, in esso
va colta una allegoria dialettica, in quanto deve divenire attivo, come Leopardi suggerì nello Zibaldone. Dove si fa necessario un senso forte, attivo e creativo, noi annichiliamo
la nostra volontà per una non-volontà negativa, senza scopi morali o gnoseologici. Il puro camminare è ora bandito,
come un atto violento. La bellezza del camminare, la sua forza estetica e conoscitiva viene meno, si perde tra le spire del
serpente moderno.
Abbiamo detto forza estetica e conoscitiva, vale la pena di
sostare su questo sentiero, o più propriamente bivio, e cercare di capire dove conduce.
spostamento naturale del limite, un tendere oltre, verso l’altrove; viene meno il concetto di volontà e amore, il desiderio per mancanza e distanza, perché cancellando il corpo si
annullano anche le dimensioni costitutive del nostro essere
umani.
In questa sede però vogliamo riportare la nostra coscienza
alla brama e al camminare, al movimento umano: possiamo
ricollegarci quindi a quanto detto prima, a proposito della
volontà e del desiderio, elementi finalizzati al radicamento e
alla definizione dell’uomo come essere-in-movimento, quindi come essere-volontà.
Nella storia della filosofia e dell’umanità si è cercato di definire la volontà, ma a nostro giudizio solo con Nietzsche
siamo arrivati a percorrere il sentiero che porta al centro del
labirinto di acqua che compone questo concetto. Solo con il
pensiero della volontà di potenza, siamo riusciti a capire senza analizzare, a sentire la volontà. Occorre percepirla come
qualcosa che è in noi e ovunque, che muove il tutto, la spinta
del divenire e quindi dell’essere. Infatti nella volontà di potenza, il filosofo di Röcken ci ricorda che la volontà è tutto e
ovunque; tutto è un continuare a tendere oltre, un muoversi,
un procedere, desiderio di cambiamento, tutto è volontà di
potenza contro l’abitudine, che invece sembra abitare l’uomo della nostra epoca. Ogni passo nella storia è ricerca di
brama e dominio, di conseguenza definizione di qualcosa,
del tracciare continuamente limiti.
Assegnare al divenire il carattere dell’essere – ecco la volontà di potenza, secondo Nietzsche. È detta volontà che
ci spinge a tracciare quei confini che a noi appaiono come
se fossero lì da sempre. È la volontà di potenza dell’uomo a
condurlo a tracciare simboli e confini dove prima era l’indistinto, il senza forma, il senza nome. Questo tratto apre
dunque l’era dell’uomo sulla terra. Da questo momento in
poi, l’umanità non si confronterà che con le sue stesse tracce. Scrutando la natura, come ebbe a scrivere Ernst Cassirer,
non incontrerà che se medesima. Di conseguenza, essa non
potrà, in nessun modo, arrestarsi ai limiti già tracciati. Ogni
limite sarà per l’uomo una soglia, da cui partire nuovamente
alla volta di nuovi territori, di nuovi limiti, insomma. All’interno di questa circolarità, e in null’altro, risiede la ragion
d’essere di ciò che siamo – o almeno di ciò che siamo diventati.
Ci basti pensare, come ci ricorda Peter Sloterdijk (3), che
gli esploratori e i colonizzatori si sono sempre mossi, spinti
dal desiderio di conoscenza e di potere, verso nuove strade,
sentieri, percorsi, rotte e tracciati. Ogni uomo ha sempre cercato di esplorare l’oltre-limite.
Tutti i marinai che si avventurarono alla ricerca di nuove
terre non tracciarono le loro rotte seguendo la mera casualità. Il loro incedere venne guidato, come scrive Fernando Pessoa, dalla voce di quell’altra schiuma che bagna le altre rive
che l’orizzonte cela agli occhi. Ogni esplorazione marittima
non è che una risposta a questo canto, che le onde intonano
su scogliere che ancora non conosciamo:
Altra voce dal profondo
ho sentito risonare
altra luce e più giocondo
ho veduto un altro mare.
Vedo il mar senza confini
senza sponde faticate
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che fece della perfezione della natura il motivo principale dei
suoi componimenti. Egli, infatti, ricorda sempre con delicate
parole, capaci di emozionare il lettore, il sottile canto con cui
la natura ci parla e sussurra fragili verità, i sentieri nascosti
in lei, le allegorie di cristallo. La sua biblioteca fu la natura incontaminata, le bellissime
distese di prati del nord Inghilterra, erano gli steli d’erba, i ruscelli e le piante a parlare e non
la polvere degli studi e dei gabinetti. Componeva poesie mentre camminava, per non perdere
nulla delle infinite emozioni che
lo accompagnavano nelle sue
passeggiate: immortali sono gli
splendidi versi che il poeta donò
alla storia, riguardanti l’abbazia
di Tintern o altre sublimi meraviglie che gli si manifestavano
innanzi durante il suo vagare.
Tolkien, come il poeta romantico, abitò in campagna, lontano
dall’opprimente e caotica città
che lo faceva sentire chiuso e
schiacciato, impedendogli di
scrivere i suoi canti d’amore per
la vita e la natura e la sua poesia
poetica (7). Lontano dalle “diavolerie” tecniche, tra il lavoro
universitario e le tristi guerre,
solcò sui fogli della storia della
letteratura mondiale capolavori
di bellezza incredibile e di grandissima apertura alla vita. Tra
questi ricordiamo Albero e foglia
e Il signore degli anelli, in cui si
narra del viaggio di un piccolo essere attraverso le impervie
vie della natura, un percorso
iniziatico, verso l’uomo e la sua
fragilità, verso la verità della
natura. La bellezza della parola
allegorica si disgrega di fronte
al lettore e lascia così cantare la
verità dell’esperienza naturale e
della madre terra. É il cammino
verso l’eternità, l’immergersi nel
divenire (camminare) per rendere immortale se stessi e ciò che
ci circonda; per dirlo in maniera
nietzschiana, come già ricordato, imprimendo al divenire il carattere dell’essere.
Ci hanno così raggiunto i due pensatori che attendevamo
prima con impazienza, Heidegger e Thoreau. I sentieri che
avevamo lasciato interrotti sono ora da percorrere, perché
ora abbiamo la disposizione all’ascolto, essendo aperti alla
natura e alla sua parola. Questi due filosofi, di culture e epoche, per quanto vicine, estremamente lontane, ci insegnano
ad avventurarci per i sentieri allo stesso modo. Entrambi
avevano cara la vita campestre e il perdersi tra i sentieri dei
Il pensiero filosofico e nato in cammino, tanto che una
nota scuola dell’antichità era detta peripatetica, in quanto svolgeva la sua attività riflessiva all’aperto, cambiando
il luogo in maniera continuativa; solo con l’apertura di accademie e licei la filosofia ha iniziato a diventare sedentaria. La riflessione filosofica si è
spostata così dalla natura e dai
sentieri dell’essere alla pura attività mentale, diventando mera
speculazione. Il limite labile è
divenuto stabile e ha iniziato a
muoversi come una bolla, chiudendosi in circoli, perdendo così
la propria apertura. Dobbiamo
però, a onor del vero, dire che
non tutti i filosofi si sono formati in scuole. Le figure più vive e
influenti sono sempre stati grandi camminatori, fisici e metafisici. Ce lo ricorda anche Claudio
Bonvecchio (6) in un suo libro
che si muove tra i sentieri e i pellegrinaggi che si sono visti nella
storia della filosofia, passando
da filosofo in filosofo, da tracciato in tracciato. Ci basti pensare ad alcuni pensatori tra cui
Rousseau, Nietzsche e Heidegger. Essi hanno fatto del prendere passo la propria scuola, il
loro libro aperto su cui studiare
e pensare. Non a caso, Nietzsche
teorizzò l’eterno ritorno a quattromila piedi di altezza, nelle
terre dell’Engadina, passando
e ripassando per i sentieri. Sentieri che si rinnovano nel loro
essere ribattuti, che si snodano
tra boschi e laghi, percorsi che
sempre si ricongiungono con il
loro inizio in maniera mutata,
sempre nuovi nella loro identità. Il terreno ha così insegnato
all’autore della Gaya scienza lo
svolgersi degli eventi e dei mutamenti nello spazio e nel tempo.
Anche altri, camminando, hanno ascoltato il canto del mondo:
tra questi dobbiamo ricordare
Martin Heidegger e Henry David Thoreau.
Prima di continuare il nostro viaggio accompagnati da questi due pensatori, è bene raccontare in breve di due uomini di
lettere inglesi che del camminare e dello scrivere hanno fatto
la loro ragion d’essere. Stiamo parlando di William Wordsworth e John Ronald Reul Tolkien. Entrambi celebri per essere stati dei grandi ed instancabili camminatori, ricavarono
dalla natura un profondo sentimento, che cercarono di trasmettere attraverso testi, idee e ricordi: una grande fede nella
natura, nella sua bellezza e fragilità. Wordsworth fu un poeta
“
Questo infinito
tendere, scoprire
e riscoprire
nuove vie da
sempre e�uivale a
vivere la volontà
di potenza che
ci costituisce
come esseri-inmovimento,
camminatori di
sentieri
”
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Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina (10).
Il viandante solitario è un respiro della realtà, è colui che
conosce con il corpo e con la mente, perché il cammino è un
viaggio iniziatico. Il camminatore è come un bambino che
si apre alla molteplicità dell’esperienza, infantilmente gode
di ogni battito d’ali di farfalla, del colore dei fiumi, del profumo della pioggia; sa perdersi, è in attesa della verità che
scaturisce dalla fragilità di crisalide della bellezza.
Ma camminare è anche disobbedire alla modernità, è vivere la fragilità e la caducità delle cose nel loro essere profonde
e belle, è l’aurora del volere. Ogni passo compiuto è un’accusa profonda, una ferita inferta; è un canto che va a proseguire
e continuare la sinfonia infinita dell’universo.
Il cammino, pertanto, si configura come un’azione di disobbedienza civile. Richiede, infatti, l’infrazione deliberata
della legalità mondana in virtù dell’adesione ad una giustizia superiore che, lungi dall’eclissare le scelte individuali, ne
integra il tracciato in una geografia spirituale più ampia.
Camminare è rispondere alla richiesta di essere fedeli alla
terra e alla sua semplicità, alle leggi e al respiro cosmico. Il
viandante è colui che sa che non c’è strada, che la strada si
fa camminando, che si costruisce continuamente, perché i
sentieri interrotti aspettano di essere percorsi. Camminare è rispondere all’invito delle speranze che esplodono, a
continuare e tentare strade, leggere a fondo le domande e le
allegorie (11). Camminare è metamorfizzarsi in stelle che
danzano, secondo la definizione nietzschiana, nel fanciullo
cosmico di Eraclito, che crea e distrugge in una magnifica
assenza di fini. Ecce Homo. “Andiamo (…) per reconditi sentieri sconosciuti a liberare il verde caimano che tanto ami”
(12). Camminiamo...
boschi lasciando che la strada venisse a loro e non viceversa.
Heidegger, infatti, pose notevolmente l’accento sul camminare come via filosofica e avvio alla filosofia. Egli riteneva
che l’andare a piedi fosse metafora del procedere filosofico e
viceversa. Era noto per le sue passeggiate nella Foresta Nera,
dove possedeva una baita; amava camminare e pensare lasciando che i piedi lo guidassero verso la radura. Così faceva
anche in campo filosofico e l’uso abituale di terminologia
pedestre nei suoi scritti, polvere, scarpe, suole, sentieri, radure, pastori, ci conferma il fatto che ritenesse che filosofia
e cammino fossero legati da un vincolo, un nodo metafisico.
Camminare è “andare” lasciando che le cose ci si manifestino, il modo di conoscere è questo, un continuo essere aperti
alla venuta della verità e dell’essere, vagando con passo sicuro tra i sentieri di campagna, percorrendo a volte tracciati
non noti, dei sentieri interrotti – Holzwege – per raggiungere così la radura dell’essere.
Il cammino, nel pensiero di Heidegger, si coniuga all’abbandono. Ma l’abbandono (Gelassenheit) non è un dimenticarsi delle cose, ma un lasciarle (lassen) avvenire. Chi cammina e pratica l’abbandono lascia che il mondo avvenga,
accada nella sua spontaneità.
Qui prendiamo il passo con Thoreau ed altri scrittori e
pensatori che hanno fatto della loro esistenza una vita, sciolta dai gioghi della massa, per vivere da individui il rispetto di
sé, dell’altro e della natura in quanto madre di tutto. Camminare è quindi un gesto puro, di apertura libera – verso la
natura, il mondo e la conoscenza. Prendere il passo è lasciare che la vita viva, è il gesto di sfida verso un appiattimento
totale, verso la tecnica. È gesto di amore, in quanto tendere
verso, andare oltre e procedere. Amore spinto dalla volontà:
la volontà è la legge che guida l’amore nella vita e nel movimento delle cose, l’aderire al motto pindarico divieni ciò
che sei e all’ecce homo nietzschiano. Volontà è libertà e vita,
voglia di vivere da uomini e non da schiavi delle macchine.
L’uomo è in sé quindi un ribelle, un anarca che impara a
muoversi tra le vie della modernità come tra i sentieri, perdendosi per poi ritrovare la strada che è a senso unico, una
strada verso la profonda radicazione dell’uomo in sé e nel
divenire. Goethe, Jünger e Benjamin ci ricordano questo
quando, concordi, affermano che l’uomo deve imparare a
smarrirsi in una città, simbolo moderno, come tra i sentieri
di montagna e i boschi, simbolo di libertà e vita, lasciando
che le strade e le vie ci parlino come rami spezzati e sentieri,
come le foglie e i profumi della natura, con lo sguardo diritto
al sole e alla sua luce allegorica (8).
Camminare è il porsi sulla soglia in attesa, mentre questa si
sgretola e ricostituisce ad ogni nostro passo. Dobbiamo essere aperti al mondo, al sublime che abita in noi e alla natura,
come il viandante del famoso quadro di Friedrich, che si dispone alla verità della natura; conseguendo, con la pazienza
del pellegrino, il Tao, la legge che regola lo svolgersi degli
eventi, del divenire. Camminare è un’azione forte e viva ma
al tempo stesso delicata e dolce, che chiede profondo rispetto di tutto ciò che ci si staglia di fronte:
Ora sia il tuo passo
più cauto: a un tiro di sasso
di qui ti si prepara
una più rara scena (9).
E ancora:
n. 01/2011
E la verità si fece pietra
di Marco Molino
(1) D. Le Breton, Il mondo a piedi – elogio della marcia, trad. it. E. Dornetti, Feltrinelli, Milano 2007, p. 10.
(2) H. D. Thoreau, Camminare, a cura di M. Jevolella, Mondadori, Milano 2010, p. 21.
(3) Cfr. P. Sloterdijk, L’ultima sfera, trad. it. B. Agnese, Carocci, Roma
2005.
(4) C. Michelstaedter, I figli del mare, in Poesie, a cura di S. Campailla,
Adelphi, Milano, 1992.
(5) Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S.
Campailla, Adelphi, Milano 1987, in particolare la parte del volume riguardante la “rettorica”.
(6) Cfr. C. Bonvecchio, I viaggi dei filosofi, Mimesis Edizioni, Milano
2008
(7) Cfr. J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, Bompiani, Milano 2006, in particolare la poesia Mitopoeia e il racconto Foglia di Niggle.
(8) Cfr. a questo proposito, W. Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi,
Torino 1988 e E. Jünger, Il trattato del ribelle, a cura di F. Bovoli, Adelphi,
Milano 1990.
(9) E. Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1965, p. 39.
(10) Ivi., p. 69.
(11) Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I – Bolle, a cura di G. Bonaiuti con un’introduzione di B. Accarino, Meltemi, Roma 2009, pp. 73 – 74.
(12) E. Guevara, Canto a Fidel, in Breviario, a cura di G. Mattazzi, Bompiani, Milano 2003, retro copertina.
24
A
l termine di una gara di arrampicata sportiva il vincente Martin Zedenmaier (Stefan Glowacz), intervistato e incalzato dalle domande provocatorie del
giornalista Ivan Radanovic (Donald Sutherland), arriva a
sfidare il famoso alpinista Roccia Hinerkofler che si sta preparando a scalare il Cerro Torre, una delle vette più inaccessibili del mondo, situato sul Campo de Hielo Patagónico
Sur. Alla base del diverbio vi è il non riconoscere da parte di
Roccia l’arrampicata sportiva all’altezza dell’alpinismo. I due
partiranno subito per l’America meridionale con un piccolo
seguito per dimostrare reciprocamente la validità delle loro
ragioni. Grido di pietra è in primo luogo la cronaca di una
sfida sulle suggestive altezze delle Ande meridionali. La sceneggiatura è redatta dal noto alpinista Reinhold Messner, con
la regia di Werner Herzog.
25
n. 01/2011
Roccia, invece, perseguo un obiettivo molto diversoda quello del rivale incentrato sulla vita moderna e secondariamente
focalizzato al cammino della scalata. In lui la preparazione
all’ascesa è fisica e spirituale. È, pur nella sua specializzazione, un asceta che reca le doti e la sensibilità acuta del contemplatore solitario. La montagna ha uno strano effetto su di lui,
rendendolo più distante e suscettibile a strani sogni profetici
affini a quelli degli antichi stiliti. Corpo e spirito si integrano
olisticamente e questo è difficilmente comprensibile per i suoi
compagni di viaggio, abituati a scadenze e tempi prestabiliti
dai ritmi lavorativi meccanici. In lui l’esigenza di preparazione non ha dei limiti ben definiti nel tempo. Prima di sfidare
la potenza della montagna deve respirare, mangiare e in breve
vivere a contatto e in stretta simbiosi con la terra. È un percorso lungo che però alla fine dà i suoi frutti. Con questo atteggiamento, l’alpinista aliena da sé ogni tipo di agio del vivere
moderno, lascia i suoi affetti a casa, diventando folle ed egoista agli occhi dei suoi compagni. Tale comportamento non è
compreso da chi gli sta intorno, certamente d’altra parte per
colpa di una mancanza di comunicazione. Se avesse spiegato
meglio le sue intenzioni, ben motivate, forse i giudizi sulla
sua persona non sarebbero stati così duri. Ciononostante la
responsabilità più ampia del fraintendimento, è da ricercarsi
nel modo di sentirsi così affine alla montagna selvaggia e così
estraneo al Mondo Moderno. A causa del suo atteggiamento,
viene lasciato dalla donna che ama e forse proprio questo accende in lui la miccia per completare l’impresa.
Si faccia attenzione alla parola completare, non casuale:
l’impresa era infatti già iniziata nel momento della sua preparazione. Lo scalare la montagna non è altro che il coronamento e la parte finale della stessa. Nel momento in cui il percorso
di preparazione è concluso rimane solo alla decisione personale lo stabilire le tempistiche dell’azione.
Dunque si può affermare che in realtà la dialettica nel film
si manifesta tra due visioni del tempo: una di tipo ascetico e
l’altra tipica del Mondo Moderno e affine ai suoi ritmi lavorativi. Incarnate dai due attori sulla scena, sono forse le vere
protagoniste del lungometraggio.
Questi stili di affrontare la montagna – ma, più generalmente, la vita – agiscono indipendentemente dagli attori che
ne sono le incarnazioni. Forse questi ultimi non sono nemmeno coscienti di ciò. Tuttavia, essi sono la dimostrazione
vivente del fatto che ogni modus vivendi è strettamente legato al topos geografico in cui si manifesta. Roccia è l’unico a
superare la prova, giacché conforma ogni fibra del suo essere
alla montagna. Le altre comparse, incapaci di compiere questo
mutamento esistenziale, vengono sconfitte dal Cerro Torre.
L’uomo è un essere geografico e questo incide sul suo modo
di comportarsi e pensare.
Un atteggiamento ascetico a New York sarebbe fuori luogo
quanto uno di tipo moderno in Patagonia. Non si può definire come giusta un tipo di sensibilità del tempo a prescindere
da dove venga svolta.
Sono tuttavia due realtà presenti nel mondo in maniera
asimmetrica, poiché quella di stampo moderno oramai risulta
sempre più vincitrice per diffusione e auspicabilità.
Persino gli ultimi eredi del pensiero ascetico talvolta capitolano in favore del loro avversario ideale.
La via di una produzione sconsiderata, senza un vero telos,
risulta infine dannosa sia per chi la persegue sia per chi l’am-
Il regista in questione raramente congegna una pellicola che
non abbia alla base una sua sceneggiatura e infatti ha dichiarato che non sente il film propriamente suo. Ciononostante l’unione è fruttuosa: l’esperienza di Messner, coadiuvata
dall’attenzione di Herzog per la “verità estatica”, ci garantisce
un film estremamente interessante sotto molteplici aspetti e
simboli nascosti.
La vicenda narrata riprende in alcune sue parti le polemiche
circa la prima scalata del Cerro Torre nel 1959, che si scatenarono nel 1968 e videro storicamente protagonisti Cesare Maestri, Cesarino Fava e Toni Egger. Tuttavia, la nostra analisi
non può e non deve interrompersi a questo livello. Lo studio
puntigliosamente analitico del record non è nostra materia né
di nostro interesse. La sfida profonda che suscita il moto di
indignazione in Roccia Hinerkofler, prima ancora dello stile di arrampicata di Martin, è il suo approcciarsi arrogante e
supponente alla scalata; che in un ambiente non protetto e
sotto controllo – come quello di un palasport – esige un criterio metodologico radicalmente diverso. Un approccio di
cui certo non si può biasimare lo sportivo, in quanto non è
che l’ultimo sottoprodotto di un sistema molto più ampio
che avvolge l’intera Weltanschauung occidentale. Abbiamo
quindi contrapposti nel film due modi di vedere, due diverse
Weltbild, a confronto: quella del giovane arrampicatore e del
vecchio scalatore.
Il giovane, d’altra parte, è ben integrato nella sua epoca e
pertanto si comporta esattamente secondo i pregiudizi del suo
tempo. L’attenzione per la spettacolarizzazione della sua impresa, l’importanza degli sponsor e della fama e il voler prima
di tutto produrre un qualcosa prima ancora di pensarla sono
tutte maschere di questo. La produttività performante, scandita da ritmi meccanici, è l’obbiettivo che si prefigge il campione di questa determinata visione del mondo.
Il produrre sempre qualcosa, quasi a prescindere dalla qualità del prodotto, è notevolmente manifesto in molti personaggi della vicenda. Si tratta, del resto, di uno dei nostri più gravi
e insidiosi pregiudizi. Il capitalismo nella sua forma più spinta
è solo un aspetto di questa realtà delle cose. In detto atteggiamento possiamo distintamente riconoscere un ossequio alla
macchina. In Martin si può notare peraltro un vago moto di
orgoglio che lo induce sempre e comunque ad accettare ogni
sfida alla quale viene sottoposto. Nemmeno l’esito dell’impresa, probabilmente, muterà questo suo tratto. Tuttavia, non è
del tutto un personaggio negativo: proprio in questo orgoglio
forse c’é uno spiraglio di redenzione.
C’è un altro personaggio nel quale questo moto di superbia
non esiste più e la possibilità di redimersi è completamente
sparita: è il produttore di New York, incaricato di documentare e registrare l’impresa, per gettarla in pasto a milioni di
spettatori annoiati. In questo personaggio abbiamo la concretizzazione stratificata di quel modo di vita che da anni lo guida; nella sua persona, i pregiudizi appena elencati assumono
tratti parossistici. È la sua stessa visione che gli impedisce di
far fronte alle difficoltà oggettive anche nei momenti di crisi,
credendo ancora di essere nella sua amata metropoli pur trovandosi sul Campo de Hielo Sur. Vuole telefonare al suo avvocato e denunciare chi di dovere. È un mondo che nella Wildnis
non ha modo di sopravvivere. Ciò che nella metropoli, con i
suoi ritmi, lo designa come un cittadino ben integrato, in alta
montagna lo fa sembrare un pazzo.
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Si potrebbe dire che il pazzo abbia sacrificato assieme alle dita
della sua mano anche la sua sanità mentale. Ma non è così:
infatti dimostra di avere un’ottima capacità di giudizio e osservazione dando alle cose il loro giusto valore; solo che la sua
statura spirituale non ottiene riconoscimento, dal momento
che, in realtà, il livello della sua
comprensione è superiore rispetto a quello degli abitanti delle
pianure. Quegli stessi abitanti
che si pongono il problema del
perché un uomo che dispone di
mezzi tecnici che incrementano
la sua potenza (come elicotteri
e videocamere) debba spossarsi
a scalare una montagna, quando
con il minimo della fatica potrebbe farlo in metà del tempo,
non comprendono né il pazzo né
l’asceta che aspira alla vetta.
I reciproci sistemi di valori
sono discordanti e inassimilabili;
non si può sperare di arrivare ad
una sintesi.
In questa nostra analisi recensiva, si è cercato di dare spazio
alle metafore portate alla nostra
attenzione dal film. Le abbiamo
analizzate cercando di interpretarle in modo coerente con la
nostra sensibilità e valutazione.
Non bisogna però essere dimentichi del fatto che sono metafore
e tali devono restare. Grazie alla
metafora, abbiamo occasione di
ragionare per analogia, il che garantisce un’amplificazione della
percezione in vista di un fine di
tipo critico.
Ciononostante, è bene non
confondere il significante con il
suo significato. Sebbene nel regno della vetta, per sua stessa natura, questo confine sia labile, è
bene saper discernere comunque
le due parti.
Nonostante in passato ci siano
state figure storiche eccezionali
in grado di racchiudere tutto nella loro persona, oggigiorno non è
detto che un ottimo scalatore sia
anche un esemplare asceta.
Forse questa avvertenza peregrina può sembrare esagerata o
superflua, ma in un mondo appianante e democratico in cui si è
abituati a non discernere la paglia dal grano, è un pericolo ben
presente in ognuno di noi; esso fa parte di un sistema più vasto
ben al di là delle comuni possibilità di raziocinio. Del resto, se
Grido di pietra vuole essere un impulso per la riflessione personale, allora è bene tenere presente l’avvertimento che comporta.
Dopotutto, chi di noi non vive nel proprio tempo?
mira. Senza finalità chiare, l’azione perde senso.
Il prodotto che ne consegue non è che un aborto, in qualità
ed essenza, rispetto a quello generato in modo tradizionale;
perciò non ha una vera efficacia sebbene sia un processo molto
efficiente nel suo complesso.
Sono questi i due metodi con i
quali ognuno di noi si confronta
e, forse troppo spesso inconsapevolmente, compie una ineluttabilità. Nondimeno il riconoscimento di tale scelta è già il primo
passo verso la consapevolezza;
non è del tutto fuori luogo pensare che uno dei fini del regista
fosse il porre l’accento e sottolineare il riconoscimento di questa
direzione.
Un’ultima figura assai significativa del film è il pazzo senza
dita interpretato da un ottimo
Brad Dourif, ben noto per le sue
performance in Qualcuno volo
sul nido del cuculo, Ragtime, Il signore degli anelli, Dune e Velluto
blu. È un chiaro riferimento alla
maschera del pazzo che, quasi
come un moderno satiro delle
vette ghiacciate, guida e consiglia
occasionalmente i protagonisti
della vicenda.
Il percorso d’ascesi è lungo e
pericoloso. Per chi trova il coraggio e la forza di arrivare in alto,
la ricompensa è enorme – allo
stesso tempo, grande è il pericolo
dell’abisso.
Chi conosce le vette deve conoscere anche gli abissi, diceva
un filosofo: il pazzo senza dita
probabilmente conosce bene
entrambi. È una figura liminale
che inquieta e affascina allo stesso tempo: in lui forse il demone
della montagna si manifesta per
diffondere il suo verbo silenzioso. Sul suo cammino di hybris
ha sacrificato le dita della mano
pur di riuscire nella sua impresa
e quindi il sacrificio è evidente
sulla sua persona. Perché di sacrificio qui si tratta, essendo il cammino, in questo caso ascendente,
un qualcosa di affine al rito di
passaggio. Coloro i quali non si sacrificano, per paura o per
egocentrismo, non ottengono niente. Nonostante sia stato il
primo ad aver scalato il Cerro Torre nessuno lo sa nel mondo
civilizzato: la montagna si presume ancora essere inviolata. Il
personaggio ha compiuto l’impresa per ottenere una Überwindung personale, un autotrascendimento; nulla importa a lui
degli onori della cronaca o della fama imperitura di alpinista.
“
Il percorso
d’ascesi è lungo
e pericoloso.
Per chi trova
il coraggio
e la forza di
arrivare in alto,
la ricompensa
è enorme – allo
stesso tempo,
grande è
il pericolo
dell’abisso
”
27
n. 01/2011
Il cammino spirituale
nella Tradizione
di Mauro Scacchi
I
l verbo «camminare» desta subito l’idea di movimento,
dello spostamento fisico da un luogo ad un altro effettuato per mezzo delle proprie gambe. La radice sanscrita
gam richiama più genericamente il concetto di «movimento», di «andare da qualche parte» (1). È in questa sua accezione più ampia che il termine «camminare» è stato da sempre utilizzato nei molteplici campi di studio in cui l’elemento
d’interesse non fosse propriamente di natura fisica, concreta,
quanto piuttosto di natura, per così dire, spirituale. Si dice,
infatti, il «cammino dello spirito» e, partendo dalle medesime posizioni, altre espressioni similari, altrimenti associabili
al vero e proprio deambulare, si ritrovano in ogni tradizione.
Valga per tutte il giapponese Budo, o «Via che conduce alla
pace», in cui l’ideogramma che si pronuncia do ha esattamente il significato di percorso, di «via» in senso spirituale.
28
n. 01/2011
stro essere. Ci soffermiamo così a lungo sulla volontà poiché
è fondamentale comprendere che essa può agire tanto internamente quanto all’esterno. E onde evitare fraintendimenti,
sia l’azione esterna sia quella interna possono egualmente
compiersi tanto al livello fisico quanto a quello non fisico, appartenendo entrambi i livelli
allo stesso ordine. Intendiamo dire
che trattasi sempre e comunque di
possibilità «a portata di mano»,
peculiari della natura umana. In
tal senso non sono soprannaturali,
anche se così potrebbe apparire a
un meno attento indagatore. Nel
campo fisico, la volontà spinge il
corpo ad interagire con ciò che lo
circonda, ma certuni possono allo
stesso modo costringere il cuore a
rallentare i propri battiti, cosicché
l’interazione avviene internamente. Nel campo non fisico, la trattazione richiede maggiori dettagli.
Andiamo ad esplorare perciò,
più dappresso, il «cammino dello
spirito».
Lo «spirito», citando Evola, è
«termine vago e indifferenziato,
dato che spiritus etimologicamente esprime il soffio, rimanda ai termini ào, aeni, soffiare, ad ànemos,
che sta alla base tanto di animus
che di anima, antecedendo, per
così dire, la precisa differenziazione dei due» (2). L’anima, a dispetto di quel che si crede a causa
dell’utilizzo romantico e filosofico
che ormai di tal vocabolo viene
fatto, rappresenta l’impulso vitale,
l’istinto, la passione, le emozioni in
genere, tra cui la rabbia, la frustrazione, l’invidia, la gelosia, ecc., insomma tutte quelle pulsioni che ci
legano alla terra e che ci fanno bramare cose terrene. In questo senso
l’anima è connessa all’«inferiore»
(3). L’animus invece è ciò che,
promanando da noi stessi, esorta e
smuove la volontà e dunque l’azione conscia, è ciò che, a cavallo tra
interiore ed esteriore, dà impulso
agli ordini e consente ogni movimento consapevole. Il «cammino
dello spirito» ha come meta finale
l’ascesi, cioè la «comunione mistica» (o «matrimonio», secondo
la dicitura alchemica) tra anima e
animus, in cui però la prima deve, per così dire, soggiacere
al secondo, pena la perdita di controllo e l’incapacità di procedere in successive evoluzioni. Tra la volontà e l’azione vera
e propria, sia quella muscolare e fisica sia quella spirituale,
è posta una «scintilla di attivazione» che può assumere nel
Non ci soffermeremo ancora a lungo su questo ordine di
idee, tranne che per evidenziare come ogni parola che faccia
riferimento, anche indiretto, al camminare, si trovi perfettamente a suo agio anche nel descrivere stati e situazioni che
rientrano nella sfera del non fisico, del non visibile. Ecco
dunque che termini come
strada, via, sentiero, salita,
discesa, scala, ecc. trovano
agevole utilizzo nel trattare argomenti correlati alla
incorporeità. Si noti, infatti, che non solo è possibile
traslare dal campo terreno a
quello sovraterreno verbi atti
a comunicare un comportamento, bensì pure vocaboli
che nell’uso quotidiano indicano tutti quegli oggetti con
i quali il corpo fisico viene a
trovarsi in contatto e con i
quali interagisce. Proseguiremo ancora su questo crinale,
lasciando però sempre più indietro il versante tipicamente
terricolo, volgendo lo sguardo principalmente a quello
privo della vile materia. Si
potranno continuare a notare, comunque, somiglianze di
significato tra le due sfere per
nulla accidentali.
Innanzitutto il «camminare», come s’è detto, presuppone uno spostamento,
dunque una «azione». A sua
volta questa deve, per necessità, presupporre una volontà
di azione e una attitudine ad
essa. Devo prima volere, poi
potere, e solo in seguito sarò
in grado di compiere lo spostamento voluto. La volontà,
di per sé, a sua volta altro non
è che una manifestazione impalpabile della coscienza che,
già desta, esprime come per
mezzo di un «comando» il
desiderio di movimento. In
altre parole la volontà è il catalizzatore, il giunto cardanico attraverso cui si connettono due mondi, quello visibile
e quello non visibile, entrambi naturali, cioè dello stesso
ordine, come si spiegherà in
seguito. Ma è pure elemento di connessione tra l’Io individuale, inteso come riconoscimento di sé stessi operato dal
pensiero cosciente (cioè dal processo logico-razionale che si
svolge nella nostra mente), ed il Sé (Selbst), inteso come la
parte primigenia e quel nucleo non oltre valicabile del no-
“
La volontà,
di per sé, altro
non è che una manifestazione impalpabile
della coscienza
che, già desta,
esprime come
per mezzo di
un comando
il desiderio
di movimento
”
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n. 01/2011
entità sovrannaturali ma lo scopo fosse di natura terrena e
materiale, non più di Tradizione si tratterebbe ma anzi di
Controtradizione (come nel Satanismo e in ogni altra contraffazione dell’idea tradizionale). L’Antitradizione è invece
tutto ciò che nega il trascendente. Il Neospiritualismo e la
New Age in generale sono forme particolari di Controtradizione. Esse infatti il più delle volte promettono metodi
per elevarsi spiritualmente e in questo processo non negano, anzi spesso auspicano, rapporti con entità altre, ma l’eccesivo sincretismo, la faciloneria e l’ignoranza che ne permeano le dottrine sono indici di una degenerazione della
Tradizione. Ciò avviene quando il vero sapere si è perduto e
dunque si colgono frammenti sparsi della conoscenza antica
di modo che, coniugandoli tra loro, essi assumano una loro
intrinseca validità, che però è sempre di natura differente da
quella che si crede.
Lo Spiritismo ne è un valido esempio. Allan Kardek, ma
prima di lui Emanuel Swedenborg in certa misura, parlava
con gli spiriti, o così asseriva, ma nessuna Tradizione può
esplicitamente indicarci la vera natura di quegli esseri invocati (tanto meno se evocati); pertanto ciò che gli spiritisti
in genere presuppongono di sapere altro non è che una loro
ipotesi affatto personale. Queste nuove correnti di pseudoreligiosità (che tali sono specialmente quando si arricchiscono di cerimonie, riti e simboli mutuati da organizzazioni
regolari con alle spalle però, queste ultime, secoli di esperienza) confondono in maniera esasperante ogni insegnamento degno di questo nome, alterandone e sovvertendone
i significati tradizionali. Il dramma reale, in ciò, è che spesso
queste nuove dottrine sono spiegate in termini all’apparenza
logici: per quanto astruse possano essere si fondano sui più
disparati ragionamenti e su descrizioni talmente evocative
che è difficile per l’uomo comune coglierne l’inganno. Più
facilmente l’uomo medio farà di «tutta un’erba un fascio»
bollando come idiozie tanto i neospiritualismi quanto gli
insegnamenti davvero tradizionali. Si vede bene, allora,
come tra i presunti insegnamenti di queste nuove religioni,
di questi nuovi spiritualismi, vi siano mischiate conoscenze
proprie della Tradizione, la cui portata è però compromessa
dallo stesso calderone di nozioni in cui sono immerse.
Ecco che, in questo senso, il «viaggio astrale» non può
che essere criticato dal Guénon. Infatti, l’esperienza che
con esso si avrebbe, non differirebbe in sostanza da quella vissuta al termine di percorsi e vie davvero tradizionali,
ma in quel caso ci si arriverebbe per gradi, sostenuti da una
vera conoscenza preparatoria e da una giusta predisposizione spirituale. È deludente, in parole povere, pensare che
chiunque possa illudersi, per mezzo di soli esercizi reiterati
nel tempo e magari letti su un libro New Age, di compiere
balzi improvvisi coprendo distanze spirituali che la Tradizione insegna volerci anni e tutto un cammino articolato
di conoscenza per arrivarvi. La strada lunga e quella corta,
quella irta di pericoli e quella erroneamente ritenuta facile,
la porta stretta e la porta larga. Di questo si tratta. Della via
umida e della via secca, qualcuno direbbe a ragione. Tanto
che, infine, i pericoli da cui lo stesso Guénon mette in guardia sono tanto più veri quanto più si semplifica il processo
di elevazione spirituale, poiché esso si compirebbe in fretta
e furia senza l’adeguata preparazione. Invece bisogna procedere «pazientemente, tenacemente e sottilmente» (13).
mondo manifestato il sembiante di trasmissione nervosa,
e in quello non manifestato (nel senso, qui, di non fisico)
di vibrazione o di altre sensazioni temporanee, sintomo di
un qualche passaggio di stato. Si noti che la volontà, come
comunemente viene intesa, è un «connettore» che risiede
nella parte più superficiale della coscienza. Ma il luogo da
cui la stessa volontà scaturisce è invero il nucleo senziente
della persona, il suo Sé. Da lì proviene la volontà, la quale
per proiezione ci appare scaturire dal pensiero razionale più
esterno, quando invece è un’emanazione del nostro essere
più vero. Ciò è possibile, come s’è detto, grazie all’intervento dell’animus che «invoglia» l’emanazione della volontà.
Ecco dunque che la volontà può spronare tanto un’azione
rivolta all’esterno quanto una interna, e nel caso corporeo e
in quello incorporeo. La volontà, ormai è chiaro, è la prima
leva attraverso la quale a tutti i livelli l’essere interagisce con
altro da Sé, sia questo «altro» intelligibile o meno.
Conviene subito specificare la distinzione tra ciò che è
mistico, ciò che è psichico e ciò che concerne l’iniziazione
(4). Il primo stato, tipico delle estasi di molte donne sante
del Cristianesimo, ma non solo, richiede per esser raggiunto
un atteggiamento passivo della coscienza (5). Epperò mantiene un certo grado d’interesse e di rispetto da parte nostra.
Invece lo «psichico» è l’utilizzo di una facoltà comunque
naturale, anche se non di facile assimilazione. Questo, al
pari della magia (unica differenza è che il primo opera in
assenza di strumenti, la magia – «alta magia» in primis –
invece vuole opportune cerimonie, riti e Strumenti dell’Arte (6)), rientra nelle possibilità umane ed agisce nel mondo
umano, perciò non produce mai un innalzamento ai livelli
spirituali superiori (7).
È interessante, sotto diversi punti di vista, approfondire
un poco alla volta il tema del «viaggio astrale» (8), osteggiato tanto dal Guénon (9). L’«uscita da sé» mistica, di cui
parla anche il Guénon, differisce dal viaggio astrale principalmente nella modalità di accesso, poiché laddove a questa
si accede per via passiva tramite un indebolimento della coscienza, al secondo si accede per mezzo di una sempre vigile
attività della coscienza (e dunque, in linea di principio, esso
è più meritevole delle nostre attenzioni). In entrambi i casi
l’operatore, salvo eccezioni, non potrà mai esser del tutto
sicuro, nonostante ciò che potrebbe raccontare a sé stesso,
di aver davvero «viaggiato» fuori da sé anziché dentro di sé
(10). I richiami in molti testi al «dentro» o «interno» non
devono comunque ingannare. Questo è un campo dove lo
spazio, per come lo conosciamo, cessa di esistere, per quanto possa assomigliare ad esso. Per tal motivo concentrarsi
su sé stessi cercando il proprio centro originario può essere
il modo per uscire da sé, cioè dal proprio involucro fisico,
tanto quanto il pensare con tutte le forze di uscire dal corpo
potrebbe in realtà catapultare l’improvvido all’interno di un
incubo privato, i cui limiti effettivi non varcano le soglie
della mente fisica. Nulla è certo se non che esperienza, istinto e conoscenza garantiscono margini di maggior successo e
comprensione del fenomeno sperimentato.
Fatta questa necessaria premessa, va tenuta in serissima
considerazione la distinzione tra Tradizione, Antitradizione
e Controtradizione (11). Solo la prima ha l’apporto o l’influenza di un’entità trascendente (12), e consente di superare la condizione umana. Dove pure vi fossero rapporti con
30
n. 01/2011
comprendere quali siano le sovrastrutture dell’essenza di noi
stessi, bisogna individuare tutte le convenzioni, le convinzioni ed i sentimentalismi ai quali di solito ci appoggiamo
nel quotidiano per poi spogliarcene: ciò che rimarrà, che
più non potrà esser grattato via, sarà il nostro nucleo, il Sé.
A questo punto ogni cosa, che su
di esso si deciderà di riporre, sarà,
appunto, un’aggiunta, anche se
non meno vera del nucleo, o almeno non meno vera nel mondo della
manifestazione in cui si sceglierà
(o si dovrà, secondo il concetto
induista di Samsāra) di abitare, ad
esempio quello corporeo (questa
potrebbe definirsi anche «via di
perfezionamento del carattere»).
I vari corpi saranno fatti su misura
per abitare l’ambiente in cui il nucleo verrà a trovarsi.
Il cammino spirituale è dunque
duplice. In primo luogo è un percorso che, grazie ad adeguate conoscenze, porta il nostro nucleo
ad acquisire, o riacquistare, consapevolezza di sé per poi imparare
dunque a spogliarsi delle illusioni
che lo rivestono (ciò potrebbe visualizzarsi come il nucleo che abbandona l’illusione piuttosto che
come l’illusione che scivola via dal
nucleo, ma sono solo variazioni di
prospettiva, la sostanza del discorso non cambia). In secondo luogo,
il cammino sarà un vero movimento del nucleo, uno spostarsi che
potremmo per analogia definire
spaziale sulle tre dimensioni, effettuandosi però per un numero di
dimensioni difficilmente calcolabile, per quanto quasi tutte le tradizioni e molti studiosi vi abbiano
a più riprese tentato (si pensi ai
sistemi religiosi che parlano di un
certo numero di cieli, di inferni
o di gironi di uno stesso inferno,
ecc.).
Appare chiaro come tutto il discorso fatto fin qui abbia avuto lo
scopo di risvegliare quanto meno
l’interesse del lettore a riaccostarsi ad alcune tematiche che oggidì
l’essere umano scansa come scempiaggini ma che dovrebbero invece
costituire l’obiettivo principe delle proprie ricerche, il primo obiettivo provvisto di senso della propria esistenza.
Il cammino è azione. Vi è una via da percorrere – non sarà
una strada asfaltata o un sentiero montano ma è comunque
una strada. Infatti, si procede per passi, cioè l’azione è costituita da più azioni minori e va indirizzata, nel senso che deve
avere direzione e verso. L’obiettivo deve invece esser chiaro
Inoltre, quello che giustamente i tradizionalisti contestano a queste pseudoreligioni, è l’elemento di fascinazione
attraverso cui esse fanno proseliti, poiché il loro scopo è
vendere libri e promesse a caro prezzo il quale, peraltro, viene puntualmente pagato. Su queste basi si fondano le sette
(le psicosette in particolare),
i nuovi movimenti religiosi
e insomma tutti quegli apparati il cui scopo esteriore
risulta quello di arricchirsi
sulle speranze altrui, a discapito di uomini e donne che
sognano di divenire santi,
acquisire poteri, in un mondo che non ha saputo valorizzarli abbastanza. Il campo,
qui, è psicologico, in quanto
trattasi di soggetti il più delle
volte disturbati. Nel campo
della Tradizione, come bene
osserva Evola, «il processo
iniziatico parte invece da
un tipo umano normale e
sano, per condurlo di là dalla condizione umana, avendo
dunque per mero punto di
partenza ciò che per la psicanalisi è punto di arrivo e meta
faticosa da raggiungere, dati i
“soggetti” con cui essa ha a
che fare» (14). L’elevazione
spirituale deve perciò partire
da un tipo umano in cui risieda una sanità pressoché totale, la cui coscienza sia pronta
e reattiva, senza alcun genere
di devianza.
Al di là dei termini usati,
senza entrare nei meccanismi
di procedura né sondare se
provengano da insegnamenti regolarmente trasmessi da
un’organizzazione depositaria della Tradizione (cosa
cui tiene molto il Guénon),
vediamo in cosa consiste
il «cammino spirituale».
Cammino spirituale che,
in ultimo, deve condurre al
Corpo di Luce, altrimenti
detto Corpo Mistico o di
Gloria o Bardo (15). Si dovrà pervenire cioè alla integrazione reale dell’inferiore col superiore, ma non solo in
termini di coscienza (animus più anima) quanto addirittura
del corpo fisico, poiché tutti questi elementi a un ordine
più alto si fondono e non necessitano di separazione alcuna,
essendo ognuno una singola manifestazione di un aspetto
dell’unità che si raggiunge nell’integrazione (16). In questo senso l’alchemico «solve et coagula» viene spiegato. Per
“
Si dovrà
pervenire alla
integrazione
reale dell’inferiore col superiore, non solo
in termini
di coscienza
�uanto addirittura del corpo
fisico, compreso
nella trasmutazione
”
31
n. 01/2011
da nessuno avrebbe ricevuto insegnamento. In entrambi i
casi tali poteri sono deleteri perché di fatto si applicano ai
fenomeni, cioè al mondo fisico manifestato e allontanano
ancor più dall’elevazione spirituale, riempiendo di inutile e
anzi pericoloso orgoglio chi li ha, con il rischio che ci si bei
d’avere proseliti e seguaci ignoranti, rapiti in adorazione per il
presunto manifestarsi di «miracoli». Ma tra i poteri, spontanei
o ottenuti mediante allenamento, quello del «viaggio astrale»
dove lo collochiamo? Anch’esso,
come i poteri psichici, è in effetti una «facoltà», accessibile
per vie naturali. Eppure, a differenza di questi, non presentando un’applicazione (almeno
immediata) nel mondo fisico,
e potendo usufruire di «guide spirituali» (sorta di maestri
dell’aldilà, testimoniati anche da
molte esperienze di pre-morte),
in esso l’elemento trascendente
compare sia nel mezzo che nel
fine. Certo non può trattarsi di
Controtradizione, sempre che
non si presenti il caso di deviazioni d’intenti in corso d’opera.
Tanto meno trattasi di Antitradizione. Potrebbe considerarsi
un procedimento controtradizionale qualora non provenga
da insegnamenti ricevuti da chi
direttamente li abbia ereditati,
e serbati attraverso un’organizzazione all’uopo preposta. Ma si
torna qui al discorso della forma
e non della sostanza. Vero è però
che se la forma manca di una
trasmissione tradizionale, il fenomeno stesso esperito potrebbe risultare distorto, corrotto,
malato, e perciò sfociare di fatto
nella Controtradizione. Il pericolo è un elemento che va tenuto presente ogni qual volta non
vi sia un’organizzazione garante
di insegnamenti regolarmente
esperiti nell’arco di secoli o millenni.
Ma poniamo il caso che, per capacità o per fortuna o per
un connubio delle due cose, il pericolo sia scongiurato, che
l’esperienza non sia dentro la testa del «viaggiatore» bensì di fatto reale. E poniamo che non s’incontrino ostacoli,
né Guardiani di alcuna Soglia (la letteratura ermetica accenna a queste figure quasi mitiche, ben descritte in alcuni
romanzi esoterico-iniziatici (20)) o che, se incontrati, essi
vengano superati. Ciò che vogliamo dire è che, se mettiamo
da parte i possibili pericoli, come quelli che incontrerebbe un uomo mai andato per nave d’improvviso ritrovatosi
e gli sforzi vanno in quella direzione; il verso dipende dallo scopo. L’obiettivo è la conoscenza e la direzione è quella
dell’asse verticale della Croce (17). Lo scopo è conoscere sé
stessi o conoscere quello che c’è fuori, intorno al Sé, in un
intorno chiaramente non fisico e non visibile per le normali
leggi ottiche. Anche nel secondo caso, si conoscerà comunque
sé stessi più di quanto non possa mai avvenire mediante le nostre normali esperienze terrene.
Lo scopo richiede un percorso
di «ascesi» e perciò tendente
verso l’alto.
Una questione che spesso si
sottovaluta è che, se è vero ciò
che la tavola smeraldina asserisce («Ciò che è in basso è come
ciò che è in alto e ciò che è in
alto è come ciò che è in basso»), deve essere pure vero che,
in certa misura, quel che vale
per il mondo della manifestazione fisica deve valere anche
per altre manifestazioni.
Ciò detto, il non visibile
potrà esser “visto” davvero da
organi non visibili, in modo similare di come il visibile viene
visto dagli occhi. Le Tradizioni
fanno cenno ad esperienze particolari che oggi si definiscono
«viaggio astrale» (18), pur
suonando questo nome ai nostri orecchi non proprio esatto
e comunque retaggio di pericolosi neospiritualismi, ché di
esso si sono appropriati come
fosse parte di un programma
scolastico piuttosto che come
tappa di un percorso tradizionale.
L’iniziazione, come asserisce
il Guénon (19), abbisogna di
una struttura regolare in grado di trasmettere, per eredità
secolare, la conoscenza; tra i
poteri psichici che Guénon
espressamente attacca non vi è
però il viaggio astrale, che invece mette in relazione solo con
l’uscita da sé propria del misticismo. Ciò vuol dire che il
tradizionalista, pur contestando il viaggio astrale poiché
preteso appannaggio di fanatici occultisti del suo tempo (ed
oggi, la situazione non può dirsi migliorata), riconosce implicitamente di non poterlo includere tra i poteri psichici
propriamente detti, dato che non può nemmeno negargli,
tutto sommato, un posto nella Tradizione. Tra i poteri egli
distingue quelli acquisiti per allenamento da quelli spontanei. I secondi più dei primi dovrebbero far capire a chi
li possiede di non essere, egli, un iniziato, tanto più che
“
L’obiettivo
è la conoscenza
METAFISICA
e la direzione
è �uella dell’asse
verticale della
Croce. Lo scopo
è conoscere
sé stessi
o �uello che
c’è fuori,
intorno al Sé
”
32
n. 01/2011
Cristianesimo chiama Resurrezione, in cui spirito e corpo
insieme possono viaggiare altrove. Anche se, a quel punto,
il corpo come noi lo intendiamo non servirà più. E proprio
perché non occorrerà più, lo si potrà dissolvere e ricomporre
a piacimento, in quanto il Sé riunirà ogni propria manifestazione in un unico essere, circondato da tutti i suoi corpi
e da nessuno.
Il procedimento preciso e le tecniche di ascesi «alchemico-spirituale», noti entrambi, come s’è visto, a molte tradizioni (indiana, giudaico-cristiana, altaico-sciamanica ed
altre ancora), non possono rientrare in questo studio che, ad
ogni modo, si spera possa servire come indicazione di massima per l’approccio a discipline tutt’altro che futili; quelli
che sono indotti a ritenerle tali, se non addirittura sciocchezze senza senso, sono coloro il cui «cammino spirituale» è lungi anche solo dall’iniziare ed al più vanno perciò
compatiti, quando non scansati come la peste.
a navigare su di un’imbarcazione in alto mare, ebbene se
mettiamo per un momento da parte la «forma» che l’esperienza può prendere (dunque il procedimento adottato), la
«sostanza» non rimarrebbe forse la medesima di un esperienza giunta per gradi, dopo un percorso di certo migliore
e più sicuro, tradizionale? Noi pensiamo di sì. Il «viaggio
astrale», pur quando non appreso mediante specifica iniziazione, risulta ad ogni modo tradizionale nella sostanza, essendo in esso presenti tanto l’elemento trascendente
quanto quello fisico. Inoltre, questo è forse l’unico caso in
cui l’«autoiniziazione», pur pericolosa, non deve essere
demonizzata a priori. Volendo prendere a prestito l’Iperuranio del Fedro platonico, forse già troppo romantico per
certuni ma di facile comprensione per tutti, chi dice che
una Tradizione non si possa indebolire proprio durante la
sua trasmissione, per poi riaffiorare in certi tipi umani predisposti ad accogliere in sé idee e concetti proprio dall’Iperuranio? Questi Uomini, a ragion veduta e per questo specifico motivo, sono stati detti «differenziati» (21) rispetto
agli altri. Con ciò non stiamo qui a dire fesserie, come chi
pretende che chiunque possa fare certe esperienze. Non
crediamo nell’uguaglianza delle possibilità tra gli individui,
almeno non in questa vita in cui alcuni sono più evoluti rispetto ad altri, spiritualmente parlando. Vero è, comunque,
che in genere l’evoluzione spirituale della razza umana nel
suo complesso, a questo stadio del suo ciclo, è pressoché
la stessa per tutti gli individui, anche se pur lievi fluttuazioni parrebbero agli occhi dell’uomo medio come estremi
ragguardevoli, da un lato il demente ritardato, dall’altro il
santo o mago o semidio.
Perciò non è mai privo d’interesse ricercare quale cammino gli spiriti possano fare per giungere a quel che può dirsi
una «reintegrazione degli esseri» (22), laddove per spirito
s’intenda per convenienza il Sé, oltre cui non si è in grado
di descrivere ulteriormente il nucleo originario di una persona. Lasciamo fuori da questo breve saggio termini come
Spirito del Mondo, Spirito Santo, ecc. che più propriamente si potrebbero assimilare all’Iperuranio già menzionato o
all’Egregore (23), ma con gli opportuni distinguo che eventualmente in altro momento affronteremo.
In poche parole, peccando di brevità e di necessaria incompletezza, possiamo dire che, come nella Grande Opera
alchemica lo Zolfo dei Filosofi, volatile, deve fissarsi con
il sale del bagno mercuriale posto al di sopra di esso, così
anima e animus devono ricongiungersi integrandosi infine
nello «spirito», nucleo superiore dell’uomo. Questo matrimonio mistico (24) consentirebbe di avere la piena consapevolezza del Sé e di conseguenza la capacità di interagire
su diversi piani mediante la sola volontà. Per trasmutare sé
stessi nella nuova forma, assunta dopo le suddette «nozze», bisogna operare con pazienza e rigore durante tutto
il processo (25). Il cosiddetto Corpo di Luce è proprio il
Sé completamente reintegrato, autocosciente e in grado di
agire in ogni piano manifestato, e dunque trasversalmente lungo ogni punto dell’ascesi spirituale, simboleggiata
dall’asse verticale della Croce (26). Vi è allora un cambio di
ordine, l’ingresso del sovrannaturale propriamente detto ad
opera di sé stessi senza interferenze di altre entità altre. Sarà
dunque possibile addirittura prendere nuovamente possesso
del corpo fisico trascinandolo su piani differenti: ciò che il
(1) Deducibile già nel Vocabolario etimologico della lingua italiana
di Ottorino Pianigiani (Società editrice Dante Alighieri di Albrighi,
Segati, Roma - Milano 1907).
(2) Julius Evola, Animus e Anima (Il Regime Fascista, martedì 2 novembre 1937 – Anno XVI).
(3) Sempre Evola scrive: «La romanità conobbe il detto: sapimus
animo, fruimur anima; sine animo anima est debilis. Ciò significa riconnettere all’animus, che viene evidentemente considerato come
il vero centro dell’essere umano, la conoscenza in senso superiore, e
all’anima, invece, l’affettività, l’appetire, il godere, il patire. Sine animo anima debilis – cioè: nell’animus sta la vera forza dell’uomo». Ibidem.
(4) Per una trattazione esaustiva di questi argomenti si rimanda a
René Guénon, Considerazioni sulla Via Iniziatica (1949; Gherardo
Casini Editore, Lavis 2010).
(5) Simile atteggiamento si ha nella regressione della coscienza richiesta da alcune tecniche psicanalitiche; non è dunque fuori luogo
citare qui Evola (Spiritualismo d’oggi – Psicanalisi in L’Italia Letteraria, 16 agosto 1931 – Anno IX): «Nei riguardi del soggetto, la cosa
si riduce invece all’allenamento di una facoltà di détente e di “regressione” che, acquisita, costituisce una condizione esattamente opposta
a quella dell’innalzamento “ascetico” della coscienza in supercoscienza». In L’Esoterismo, L’Inconscio, La Psicanalisi (Introduzione alla
Magia, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, Vol. III, pp. 383-407), il
Barone critica il «processo di individuazione» teorizzato dallo Jung.
Così Evola definisce il processo suddetto: «quel che gli archetipi in
via ordinaria vogliono, è che la persona cosciente riconosca l’inconscio vitale, ne accetti i contenuti e, inserendoli nella sua vita individuale, si “integri” con essi. A questo sviluppo lo Jung dà il nome di
processo di individuazione». L’Io, però, al termine del processo, non
si fonde con il Sé bensì gli ruota attorno, il Sé rimanendo un «ente
indefinibile», come lo Jung stesso afferma in L’Io e l’inconscio (1948;
Bollati Boringhieri, Torino 1985). Evola trae perciò la logica conclusione: «è ben evidente non esservi nemmeno una analogia di riflesso
con quanto è proprio delle realizzazioni metafisiche ed iniziatiche,
queste avendo notoriamente per caratteristica l’identità e la centralità.
Invece nel termine finale di ciò che dovrebbe essere un processo di
integrazione, come si è visto, il dualismo sussiste». Abbiamo insistito
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n. 01/2011
su questo punto perché oggi più di ieri tanto la psicanalisi quanto
altre tecniche neospiritualiste continuano a non centrare l’obiettivo
che esse stesse dicono di prefiggersi, e pertanto bisogna riporre la
massima attenzione di fronte ad ogni pretesa metafisica da parte di
chi, invece, di Tradizione, Iniziazione e Metafisica non se ne intende
minimamente.
(6) Come si trova indicato nella Clavicula Salomonis; per un suo approfondito studio: La Chiave di Salomone a cura di Sebastiano Fusco,
Venexia, Roma 2006.
(7) Anche nella cosiddetta «alta magia», il fatto che entri in gioco l’intervento di entità non umane non deve distrarre dal suo scopo
principale, ch’è sempre quello di acquisire poteri e conoscenze utili a
dominare cose terrene.
(8) Molti riferimenti ad esperienze assimilabili al «viaggio astrale» si trovano in tutti i testi delle maggiori religioni, nonché in quelle
scuole di metafisica orientale quali, tra le altre, il Tantrismo ed il Taoismo. Basti qui citare un passo della Bibbia tratto da Qohèlet 12,6 (La
Bibbia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997), che esplicitamente richiama la cosiddetta «Corda d’argento», organo “eterico” di
congiunzione tra corpo fisico e corpo astrale, cioè il corpo più denso
tra i corpi non fisici: «Pensa al tuo Creatore… prima che si tronchi il
filo d’argento». Finché il filo non si rompe, si rimane in vita.
(9) René Guénon, Considerazioni sulla Via Iniziatica, cit. In particolare si veda la nota n. 21 a pag. 17: «Del resto, s’intende che questa
“uscita da sé” non ha assolutamente nulla in comune con la pretesa
“uscita in astrale” che rappresenta una parte così importante nelle fantasticherie occultistiche». L’«uscita da sé» cui fa riferimento è quella
dell’estasi mistica.
(10) Va chiarito subito che «dentro di sé», in questo caso come in
altri, significa limitare l’esperienza entro i limiti del proprio cervello
o comunque di una sfera del tutto personale. Altrove, ma sarà chiaro
dal contesto, potrà trovarsi analoga definizione col significato però
differente di ricercare il proprio Sé, il proprio nucleo, estraniandosi
del tutto dalle illusioni e dalle circostanze fisiche del momento. In tal
caso, pur volgendosi dentro di sé, di fatto si starà cercando di «vedere
la verità di ciò che sta fuori». I due termini spesso possono confondere, l’importante è che sia chiaro l’obiettivo: scardinare dalla mente i
costrutti materiali per sorpassarli e andare così oltre di essi.
(11) I testi di riferimento sono molti, qui basti citare: René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (1945; Adelphi, Milano 2009); Julius Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno (1934; Mediterranee, Roma 2006); per una sintesi, Piero di Vona, Evola Guénon
De Giorgio (SeaR Edizioni, Borzano 1993).
(12) Si veda pure in Guénon, Considerazioni sulla Via Iniziatica,
cit.
(13) J. Evola in La Tradizione Ermetica (1931; Mediterranee, Roma
2009) nella parte Le operazioni ermetiche – La prova del vuoto. Si veda
pure, per un consiglio analogo, Tommaso d’Aquino, Trattato intorno
all’arte dell’alchimia (nel volumetto Della pietra filosofale – Dell’alchimia, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1997). Il «cammino dello spirito» è propriamente la Grande Opera alchemica.
(14) J. Evola, L’Esoterismo, L’Inconscio, La Psicanalisi, cit.
(15) Come descritto nel lamaico Bardo Tödol, meglio noto come
Libro tibetano dei morti.
(16) Non si può non citare la Tabula Smaragdina, famoso documento incluso nell’Amphiteatrum Sapientiae Aeternae di Khunrath,
risalente al 1610: «Et sicut omnes res fuerunt ab uno, mediatione
unius, sic omnes res natae fuerunt ab hac una re, adaptatione» (Trad.:
«E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione
di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adat-
tamento»). La Tavola è detta «di Smeraldo» in quanto la Tradizione
vuole che il testo sia stato in origine inciso su una lastra di smeraldo
in caratteri fenici, trovata in una caverna e tenuta in mano dalla salma
di Ermete Trismegisto. Lo smeraldo, di colore verde intenso, rappresenta per la Tradizione l’Anima Universale. Da notare la parola «adattamento», che bene spiega il motivo per cui il Sé, a seconda del grado
di elevazione spirituale posseduto, sia costretto per interagire con il
mondo manifestato a lui più vicino, cioè per lui più comprensibile, a
“indossare” corpi inferiori.
(17) René Guénon, Il simbolismo della Croce (1931; Luni Editrice,
Firenze - Milano 2006). A questo simbolismo si possono affiancare
altre simboliche, come il «terzo volto di Giano», l’asse centrale della
scure bicuspide o quello del fascio littorio. In ogni caso il significato
è quello di una progressione di stati in grado di congiungere il superiore con l’inferiore, la sfera celeste con quella terrestre, per accedere
all’«eterno presente», luogo mistico sede della conoscenza pura. I tre
simboli su richiamati sono tutti spiegati da Evola nei suoi articoli raccolti nell’antologia Simboli della tradizione occidentale (1977; Arktos
Editore, Carmagnola 1988).
(18) Come già accennato (nota n. 8), si può asserire che ogni tradizione che risalga, per vie più o meno dirette, alla cosiddetta Tradizione
Primordiale, ha conosciuto e conosce il «viaggio astrale», variamente
denominato, come parte essenziale dei propri insegnamenti. Si può
senza tema individuare, in esso, il mezzo tramite il quale sono state
ricevute, sin dai tempi più antichi, rivelazioni, visioni e quant’altro
proveniente dalla sfera propriamente trascendente, come testimoniano tutte le grandi religioni del Mondo.
(19) René Guénon, Considerazioni sulla Via Iniziatica, cit.
(20) Edward Bulwer Lytton, Zanoni (1842; Tea, Milano 2006); Gustav Meyrink, L’angelo della finestra d’Occidente (1927; Adelphi, Milano 2005); per la convincente descrizione del «viaggio astrale» Jack
London, Il vagabondo delle stelle (1915; Adelphi, Milano 2009).
(21) Julius Evola, Cavalcare la Tigre (1961; Mediterranee, Roma
2009).
(22) Val la pena ricordare che questo è anche il titolo della maggiore
opera di Martinès de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri
(1899; Editore Libreria Chiari, Firenze 2003).
(23) L’Egregore, in esoterismo, può definirsi come «una forza di
ordine sottile costituita in qualche modo dagli apporti di tutti i suoi
membri [della collettività] passati e presenti, e che in conseguenza è
tanto più considerevole e suscettibile di produrre effetti più intensi
quanto più la collettività è antica e si compone di un più gran numero
di membri». La citazione è tratta da René Guénon, Considerazioni sulla Via Iniziatica, cit. Da notare che gli Egregori (dal greco εγρεγοριευ,
vegliare) sono pure gli «angeli caduti» della tradizione enochiana, il
che porterebbe a riflessioni ulteriori che, però, esulano dal presente
studio. Il significato più sopra riportato, inteso come «psichismo collettivo», appartiene alla tradizione rosacrociana.
(24) I procedimenti per addivenirvi sono propri a insegnamenti
molto antichi, si pensi al Rasāyana della tradizione indiana o al Neidan di quella cinese, entrambe «alchimie spirituali» che precedettero nel tempo quelle di laboratorio, comunque pregne di elementi
trascendenti a differenza della «spagirìa», vera pre-chimica moderna.
Per approfondire questi temi, cfr. Mircea Eliade, L’alchimia asiatica
(1935; nel volumetto Il mito dell’alchimia seguito da L’alchimia asiatica, Bollati Boringhieri, Torino 2001).
(25) Come già accennato in precedenza. Si veda in proposito la nota
n. 13 e la parte del testo ad essa relativa.
(26) René Guénon, Il simbolismo della Croce, cit. (vedi nota n.
17).
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Ascesa e ascesi – la vetta
come conquista interiore
di Andrea Scarabelli
A
ndare per montagne selvagge è una via alla liberazione (1). Questo detto del Maestro tibetano Milarepa
è assai significativo. Il sentiero apre il pensiero alla
metamorfosi; la via fonde e confonde l’esserci dell’uomo e
il suo territorio. Lo scenario naturale, dopo il transito del
viandante, diviene luogo, a tutti gli effetti: lo stesso accade al
paesaggio interiore. Il cammino fluidifica e mobilita quelle
istanze che il culto moderno della ratio ha sclerotizzato in
forme compiute. Camminando, orizzontandosi, l’uomo tratteggia tanto la sua corporeità quanto il nomos del proprio
suolo natio (2). La nuda terra illimitata, caotica e selvaggia,
diviene Heimat, patria. Il viandante si abbandona al cammino: qui viene celebrata una nuova comunione con le divinità
protettrici della terra, dei boschi e delle vette. L’orizzonte
dischiude i suoi tesori.
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n. 01/2011
più il centro dell’azione. Ed allora guardiamo spiritualmente
fuori di noi stessi. In quel particolare momento si scopre l’incantesimo. La montagna risponde ai nostri valori personali
con l’immenso coro muto della realtà cosmica” (5).
Entrambe le stratificazioni sono compresenti nella dimensione antropologica, ma la visuale
dell’una esclude irrimediabilmente i precetti dell’altra. Il loro
rapporto, tuttavia, non è dialettico ma gerarchico: “Non si può
restare sempre sulle vette, bisogna
ridiscendere... A che pro, allora?
Ecco: l’alto conosce il basso, il
basso non conosce l’alto” (6).
Se qualità e quantità coesistono,
tanto nell’uomo quanto nel suo
cosmo, resta pur vero che, se la
prima conosce – e assume – la
seconda, questo rapporto è ben
lungi dall’essere reciproco. La
montagna conosce la pianura che
domina, ma a quest’ultima l’esperienza della vetta rimane inevitabilmente preclusa. Il sentiero, in
un’ottica di questo tipo, diviene
innanzitutto avventura – noncurante del non plus ultra che domina nelle metropoli. Laddove la
Modernità installa i suoi dispositivi urbani nelle pianure livellanti
e quantitative, proprio attraverso
la montagna l’uomo può incontrare forze che, sebbene messe al
bando dai Leviatani, ne assediano
ininterrottamente gli alti cancelli.
Là, l’uomo può a tutti gli effetti
dialogare con gli elementi, esiliati
dai domini metropolitani: “Allora comincia il gioco divino che
disperde angosce ed emozioni, e
la coscienza acquista una trasparenza ignota in cui si riflette una
superiore volontà” (7). Anestetizzata dal culto della tecnica, essa si
ridesta – ovunque, nell’uomo, si
annunciano miracoli.
Simili esperienze, evidentemente, non possono ricevere un
adeguato riconoscimento, laddove collocate nel gruppo di quelle
che vengono usualmente definite
“attività sportive”. Dove l’esame
sportivo tende, in misura sempre
crescente, a quantificare le prestazioni umane con l’ausilio di
chirurgici strumenti di precisione
(8), l’alpinismo praticato dai maestri che analizziamo aspira a
tutt’altro: “Quando l’attività alpinistica è tutta dominata dal
tecnicismo strumentale della esecuzione, ed è questo il caso
della maggior parte delle acrobazie sportive moderne in mon-
Ciò può accadere anche oggi, dove i sentieri sono occlusi ad
una modernità che, schiava della tecnica e della velocità, sradica gli uomini ponendoli su dispositivi meccanici, la cui accelerazione è sempre più vertiginosa (3). Il cammino riconduce
l’uomo al centro del suo cosmo, al suo altare silvestre e stellare,
restituendogli la sovranità che
la Modernità gli ha strappato.
Questo il senso ultimo, terapeutico e catartico del gesto del camminare.
Nella costellazione che illustriamo brevemente in questo
nostro contributo, il cammino
raggiunge una nuova conformazione metafisica: da orizzontale
si fa assiale. Da analogico, diviene anagogico, secondo la celebre
dottrina dantesca (Convivio,
II, I, 2-15). Percorsa la pianura
sino in fondo, raggiunte le sue
estreme propaggini, si staglia la
montagna. Al suo cospetto, la
percezione diviene verticale, trascendente, alpi-mistica, secondo
l’incisiva formula di Francesco
Tomatis (4). Ed è proprio del
camminare in montagna, alla
luce delle considerazioni di un
novero di alpinisti mistici del
calibro di Domenico Rudatis,
Julius Evola e René Daumal, che
parleremo in questa sede.
Montagna e pianura: la loro
contrapposizione non è geografica, economica o culturale ma,
anzitutto, spirituale – esse si
contrappongono in quanto diverse Weltanschauungen. Si tratta di ordini di realtà differenti, la
cui opposizione è scandita tanto
metafisicamente quanto analogicamente. Metafisicamente, in
quanto assolutamente inconciliabili, incomunicabili. Analogicamente, in quanto presenti non
solo nel mondo fisico ma, allo
stesso tempo, nell’animo umano; esse si coagulano nell’uomo
secondo leggi che assai malvolentieri si rendono disponibili al
linguaggio. Il che conferisce loro
un rango particolare.
L’uomo, infatti, può essere
considerato da un punto di vista orizzontale, quantitativo e
analogico ovvero secondo una
prospettiva verticale, assiale, qualitativa e anagogica. Mutano
allora i suoi diritti e le sue facoltà nonché, inevitabilmente, il
rapporto che questi intrattiene con il proprio Sé agente. Dove
l’altitudine si fa elevata, “improvvisamente, non ci sentiamo
“
L’ebbrezza
dei domini
elementari
trasforma
l’uomo moderno,
strappandogli
gli epiteti della
decadenza e
donandogli un
nuovo corpo di
luce cristallina,
antico ricordo
di ciclicità purificate dal fuoco
”
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za. Simile perdita, dovuta alla rarefazione legata alla verticalità del cammino, genera una vertigine inaudita, sintomo
dell’abbandono di strutture ingombranti ed antiquate: l’Io,
esangue, giace alle pendici del cammino già percorso. Ma è
questione di un attimo: il possesso del proprio Sé autentico,
realizzato nel corso dell’ascesa, ha infine la meglio. Ciò che
cammina, ora, trascende ed annienta il volgare Individuo e il
suo corredo raziocinante – esso è un Io assoluto, sciolto, cioè,
da ogni sua determinazione specifica. Spogliato delle proprie
categorie, l’Io assiste, attonito, al destarsi al suo interno di
forze apparentemente sopite che ne inondano le percezioni:
“Qui, dove non vi è che cielo, e nude, libere forze, l’animo
partecipa piuttosto ad una analoga purezza e libertà e per tal
via si approssima a comprendere quel che sia veramente lo
spirito. Esso percepisce ciò, dinnanzi alla cui calma e trionfale grandezza tutto ciò che è sentimentalismo, utilitarismo
e retorismo umano scompare; ciò che nel mondo dell’anima
ha gli stessi caratteri di purità, di impersonalità e di potenza
propri appunto a queste altezze gelate, ai deserti, alle steppe,
agli oceani” (15). Vetta esteriore e vetta interiore si sovrappongono. La diade si risolve nell’Uno. Se la pianura, nella sua
incapacità di comprendere ciò che si staglia al di sopra di essa,
conosce unicamente il Diktat dell’antinomia e del principio
di non-contraddizione, proprio l’esperienza alpi-mistica può
liberare il mondo moderno dal tiranneggiare di quelle false
opposizioni che, lungi dall’esserlo effettivamente, non fanno
che richiamarsi reciprocamente – traendo esse scaturigine,
d’altra parte, dai medesimi fraintendimenti. Il mito dell’eterno ritorno, com’è noto, si ciba del principio aristotelico del
tertium non datur est. L’abitante delle pianure non vede che
divisione, opposizione dove vi è, invece, unità ed organicità.
Dove tiranneggiano gli opposti domina il circolo, l’orizzonte
che attanaglia la visione moderna – l’uomo di Leonardo imprigionato nel cerchio perfetto.
Dalla vetta, tuttavia, si realizza la signoria plenaria sull’eterno ritorno del medesimo. Il cerchio cede il posto all’asse
verticale. Il distacco con la pianura e con il suo formicolare
puntiforme diviene totale: “É l’ora delle cime e delle altezze,
qui dove lo sguardo si fa ciclico e solare; dove, come larva di
febbre, svanisce il ricordo delle piccole preoccupazioni, dei
piccoli uomini, delle piccole lotte della vita delle pianure (…).
«Molti metri sopra il mare, molti più sopra l’umano» – fu già
scritto da Federico Nietzsche”(16).
L’ebbrezza dei domini elementari trasforma l’uomo moderno, strappandogli gli epiteti della decadenza e donandogli
un nuovo corpo di luce cristallina, antico ricordo di ciclicità
ormai purificate dal fuoco. L’ascesa diviene metamorfosi interiore. Mettendosi in cammino per alpeggi e crinali, l’alpinista
mistico non si limita a muoversi fisicamente ma il suo ascendere è, allo stesso tempo, collegamento e redenzione: ciò che
conosce solo il basso, la quantità, la pianura, viene ricondotto
alla vetta e reintegrato in essa. La tantrica Kundalinī si dispiega, in tutta la sua forza, ascendendo, nel suo fiammeggiante
potere serpentino, la colonna vertebrale (17), riproduzione
microcosmica di quell’axis mundi che sostiene le montagne.
Questo il dono che la solitudine siderale delle vette può fornire all’uomo moderno, intrappolato tra le spire delle metropoli, nelle pianure. In esso, ha luogo una liberazione integrale:
tramite la montagna, “la liberazione viene riportata ad un livello comprensibile e possibile (…). La vetta della liberazione
tagna, l’artificialità chiude sempre di più l’azione nei ristrettissimi limiti di un processo meccanico e materialistico” (9).
Approssimarsi alle ebbrezze alpine facendo riferimento esclusivamente a strumenti tecnici preclude la possibilità di intendere il senso metafisico dell’ascesa. Questa richiede, invece, la
nudità più totale dell’Io, il suo radicamento immediato. Abbandonato alla roccia, ai crinali, alla corda e ai chiodi, l’uomo
si trova in uno stato metafisico estraneo ma, allo stesso tempo,
singolarmente familiare. Nelle cime, obelischi titanici, non
intravede che la trasfigurazione di se stesso: “Sentirsi lasciati a se stessi, senza aiuto, senza scampo, vestiti soltanto della
propria forza e della propria debolezza, senza altro che sé a cui
chiedere (…) e il senso dell’altezza e del pericolo imminente,
inebriante, e il senso della solitudine solare, e il senso di indicibile liberazione e di respiro cosmico alla fine, all’attingere alle
vette, quando la lotta è vinta, l’affanno domato e si schiudono
orizzonti voraginosi di centinaia di chilometri – tutto più in
basso di noi – in ciò vi è veramente una catarsi, uno svegliarsi,
un rinascere in qualcosa di trascendente, di divino”(10). La
purezza delle vette seleziona e scandaglia i suoi visitatori, premiando coloro che riescono a vincerne la furia e la durezza elementare, assegnando loro un Io nuovo ma, allo stesso tempo,
primitivo, originario e ancestrale.
La direzione assiale e polare della montagna, legame tra
terra e cielo, uomini e dei (11), offre all’umanità decadente
delle Abendlandes la possibilità di accedere a regioni spirituali
superiori alla mera razionalità. Questo, forse, è il più prezioso
contributo che i demoni delle vette possono offrire ai Moderni.
Liberandosi dalla pianura, chi percorre pendii si libera, al contempo, da se stesso. L’assioma fondamentale della Modernità
– vale a dire la risoluzione di tutto l’essere tra le maglie di un
Io tanto artefatto quanto falso – sfuma laddove l’orizzontalità
della pianura, dominio delle masse e pascolo degli ultimi uomini nietzschiani (12) delle metropoli, ceda il posto ai domini
verticali di crinali e vette: “Dopo queste lunghe ore, in cui una
volontà tenace si è imposta alla fatica, all’inerzia, alla oscura paura del corpo, non solo svanisce come l’eco di un sogno
vano il ricordo di ogni cura e opera delle pianure, ma si realizza anche un senso mutato di se stessi, si realizza l’impossibilità
a percepirsi ancora come quella cosa rigida, chiusa ed effimera
che, in fondo per i più, è l’«Io»”(13).
Questo nodo è fondamentale. Se l’ego cogito ha ormai dichiarato la propria bancarotta filosofica e metafisica, secondo
gli autori trattati proprio i sentieri di montagna sono atti a
fornire ai figli della Modernità un nuovo corredo spirituale.
Attraverso la rottura volontaria della propria individualità,
realizzata durante l’ascesa alpestre, l’uomo è in grado di attingere a risorse perlopiù rimaste celate: da essere razionale
diviene nucleo pulsante di una volontà che intende trascendersi continuamente. Allora, come un serpente, cambia la
sua pelle: le sue squame d’argento restituiscono l’incendio
che il sole dispensa alle vette, al tramonto. Dove la ratio crea
antinomie e limiti, l’ascesa, superandoli, si tramuta in ascesi,
esercizio di un Io superiore e trascendente la sua mera rappresentazione logica. Il conato di ascesa pare celare una superiore geometria: “La montagna è uno specchio della spiritualità umana talmente limpido che nel riflettersi in esso la
nostra intima umanità, nei sensi e nel volere, tutta si risolve
e traspare fino al proprio superamento” (14). Il linguaggio,
ridotto ad un silenzio abissale, rivela la propria insufficien-
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n. 01/2011
era lontana, ardua, oltremodo difficile ma è diventata visibile
ed accessibile. Non è più soltanto un sogno ed una speranza
più o meno illusoria. Bensì una impresa che si deve e si può
affrontare colla necessaria determinazione”(18).
Il viandante, rincorrendo il proprio Sé superiore “cavalcando le vette”, compie, allo stesso tempo, un cammino a ritroso, ribattendo le tappe già percorse per potersi reinscrivere
all’interno di esse in maniera più autentica. Il suo sognare è
più vero, come direbbe Nietzsche. Ascendendo, di quota in
quota, l’uomo moderno si volge ai gradi della sua progressiva materializzazione, partecipando al sempiterno gioco degli
archetipi i quali, esiliati dal Mondo Moderno progressista e
scientista, nelle loro forme più pure, abitano le vette celate
dalle foschie. Trascendendo la pianura, il viandante crocifigge
l’Io al Sé. Azione e contemplazione entrano in una singolare
e originaria congiunzione: “Azione – attraverso la responsabilità assoluta, l’assoluto sentirsi soli, lasciati alla sola propria
forza, al solo proprio ardire, cui il più lucido, il più chirurgico
controllo deve unirsi. Contemplazione – come il fiore stesso
di questa vicenda eroica, quando lo sguardo diviene ciclico e
solare, là dove non esiste che il cielo, e nude libere forze che
rispecchiano e fissano l’immensità nel coro titanico delle vette”(19). L’occasione che la montagna può offrire al mondo
moderno è quella di una genealogia tramite la quale questo
ultimo può giungere ad identificare quei caratteri episodici
che ne determinarono l’emergenza (20).
É la montagna in quanto simbolo incarnato a destare siffatte
prospettive. La sua semplice esistenza è atta a testimoniare la
possibilità di considerare l’uomo, il suo mondo e la sua storia,
da un punto di vista qualitativo e non quantitativo, spirituale
(21) e non materiale, verticale e non orizzontale, antimoderno e non moderno. Allora, la rivelazione prende il posto della
storia: “Nell’ascesa noi ci avviciniamo al mistero che la polvere della pianura ci nasconde: fra i monti, ad ogni nuovo passo
il sembiante ingannevole dell’orizzonte si tramuta e svanisce,
ma quando infine siasi giunti abbastanza in alto, dovunque si
sia, il puro anello, che è promessa dell’eterno, ci attornia”(22).
Una promessa epifanica e teofanica che, laddove accolta in
tutta la sua gravità, potrebbe restituire all’anima dell’uomo
il suo rango specifico, persino in epoche nelle quali esso non
appare che un greve ricordo, come quella che ospita queste
nostre parole.
(5) D. Rudatis, Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate, presentazione di G. Rossi, Nuovi Sentieri, Bologna, 1985, p. 28. Ricordiamo che Evola e Rudatis ebbero a lavorare insieme in una duplice
occasione, negli anni Trenta. L’alpinista collaborò ai progetti evoliani de
La Torre e Diorama Filosofico. Per gli articoli di Rudatis sul primo – vale a
dire La grande solitudine e Il senso della natura nella vita moderna – cfr. J.
Evola, La Torre, a cura di M. Tarchi, Il Falco, Milano, 1977, pp. 143-146,
335-340. Cfr. anche L. Pignatelli, Sport, cultura, Tradizione. Domenico
Rudatis collaboratore del Diorama Filosofico evoliano, in Futuro Presente,
numero 6, primavera 1995.
(6) R. Daumal, Il monte analogo. Romanzo di avventure alpine non euclideee e simbolicamente autentiche, a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano, 2005, p. 135.
(7) D. Rudatis, Liberazione, cit., p. 94.
(8) Cfr. E. Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano, 1997,
pp. 139-186; J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 377-378.
(9) D. Rudatis, Il sentimento delle vette, in AA. VV., Il regno perduto.
Appunti sul simbolismo tradizionale della Montagna, a cura di E. Longo, Il
Cavallo Alato, Padova, 1989, p. 36.
(10) J. Evola, Dove regna il demone delle vette, in Meditazioni delle vette,
cit., p. 43.
(11) Cfr., in merito al simbolismo analogico della montagna, Note sul
simbolismo orientale della montagna, ne Il regno perduto, cit., pp. 66-82; R.
Guènon, La montagna e la caverna e il capitolo Simbolismo assiale e simbolismo del paesaggio, in Simboli della Scienza sacra, a cura di F. Zambon,
Adelphi, Milano, 2006; D. Rudatis, Liberazione, cit., pp., VIII, 20, 135,
339, 343, 346.
(12) Cfr. F. Nietzsche, Cosi parlo Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto,
BUR, Milano, 2000, pp. 292-297.
(13) J. Evola, Meditazioni delle vette, cit., p. 161.
(14) D. Rudatis, Il sentimento delle vette, cit., p. 26.
(15) J. Evola, Meditazioni delle vette, cit., p. 162.
(16) J. Evola, La parete nord del Lyskamm Orientale, in Ivi, p. 124.
(17) Cfr. J. Evola, L’uomo come potenza, Mediterranee, Roma, 1988, pp.
281-291.
(18) D. Rudatis, Liberazione, cit., p. 332. “È il linguaggio affascinante
delle altezze (...). in tutta la storia umana non si verifica una situazione in
cui l’uomo abbia considerato la via con uno spirito più coraggioso e nello
stesso tempo più ottimista, conservando il suo sguardo fisso alla vetta della
liberazione e la sua mente attiva nel superamento delle difficoltà dell’ascesa”. Ibidem.
(19) J. Evola, Verso il deserto bianco, in Meditazioni delle vette, cit., p.
50. Secondo analoghe considerazioni, il già citato Daumal ebbe a scrivere:
“L’alpinismo è l’arte di percorrere le montagne affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza. Viene qui chiamata arte la realizzazione di
un sapere in un’azione”. Il monte analogo, cit., p. 135.
(20) Solo in un’ottica del genere, acquisisce senso la storiografia – a siffatte altezze, la storia della filosofia diviene filosofia della storia. Cfr., in
proposito F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, traduzione di S. Giametta, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano, 2006.
(21) É evidente che simili considerazioni nulla hanno da spartire con
certe forme di devozionalismo selvaggio che imperversano nel nostro tempo. Chi ascende in montagna, compiendo una autorealizzazione attiva ed
eroica, non abbisogna di divinità estrinseche, realizzando la trascendenza
in sé e per sé. Adora un dio fuori di se solo chi non ne ha uno interiore. Questa la sapienza pagana dell’alpinismo. In merito a questi nodi metafisici, tra
gli autori più incisivi ricordiamo, ovviamente, Meister Eckhart, Sermoni
tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano, 2007.
(22) E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, introduzione di Q. Principe,
traduzione di A. Pellegrini, Guanda, Parma, 2007, pp. 20-21.
(1) Un mistico delle altezze tibetane, in J. Evola, Meditazioni delle vette,
a cura di R. del Ponte, saggio introduttivo di L. Bonesio, Mediterranee,
Roma, 2003, p. 58.
(2) In merito a queste osservazioni, cfr. F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, prefazione di G. A. Tiberghien, Einaudi, Torino,
2006; C. Schmitt, Il nomos della terra, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano,
2006.
(3) Tra gli autori che inquadrarono l’accelerazione come tratto peculiare della modernità, ricordiamo E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo
e organizzazione, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma, 1999; J. Evola,
Rivolta contro il mondo moderno, a cura di G. de Turris, introduzione di
C. Risé, Mediterranee, Roma, 2006; R. Guénon, Il regno della quantità e i
segni dei tempi, a cura di T. Masera e P. Nutrizio, Adelphi, Milano, 2006.
(4) Cfr. F. Tomatis, Filosofia della montagna, prefazione di A. Torno,
postfazione di R. Messner, Bompiani, Milano, 2005.
38
n. 01/2011
Nicolás Gómez Dávila
“Pensieri antimoderni”
di Gian Piero Mattanza
P
classiche) dice molto sulla
concezione che questi ebbe
di sé e della propria opera:
necessità della brevitas, costante lavoro di limatura per
rendere la parola un’arma capace di ferire l’intelletto del
lettore, mettendone in moto
i meccanismi più occulti. Ma
anche atto di coraggio, perché “tra poche parole è difficile nascondersi, come tra
pochi alberi” (p. 22).
Cinque furono le raccolte
di scoli composte: Escolios a
un texto implicito I e II, Nuevos escolios I e II, Escolios sucesivos. Ci si chiede, leggendo
il titolo della prima raccolta,
quale sia il “texto implicito”
da immaginare scorrendo gli
scoli. La risposta dell’autore non è chiara e va cercata
negli aforismi stessi: alcune
verità, sembra suggerirci il
colombiano, non devono essere esplicate attraverso una
prosa ampia, ordinata. La
filosofia si nutre di evidenze
contrarie che non vanno assimilate razionalmente, ma
grazie ad un’intuizione fedele all’ordine assoluto, stimolata da una scrittura breve ed ellittica (Cfr. F. Volpi, Un angelo prigioniero nel tempo, in N. Gómez
Dávila, In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano, 2001,
p. 159).
Il pensiero di Gómez Dávila deve molto alla lunga tradizione reazionaria europea, di cui divenne acuto interprete e fedele
conservatore. Finalità suprema del reazionario, secondo il Nostro, è combattere, in un’epoca in cui a livello sociale non c’è
più nulla da conservare, contro il disordine: fine più alto, questo, dello stesso mantenimento dell’ordine. Non vana nostalgia
del passato ma consapevole e perpetua lotta da portare avanti
con le armi dell’intelligenza, dell’ascesi dalla realtà corruttrice
e degli insegnamenti della tradizione greco-romana e cristiana:
“Il reazionario non aspira alla vana restaurazione del passato, ma all’improbabile rottura del futuro con questo sordido
presente”(p. 57).
“Colacho”, cosi chiamato dagli amici, nutrì la propria visione
arlando di alcuni intellettuali, talmente
originali da essere
estranei ad ogni categoria, si
cade a volte nell’abisso del
dubbio: come esprimere l’essenza della loro opera senza
mettere in discussione la volontà di non sottostare a classificazioni? Questo dilemma
si fa più che mai vivo analizzando gli aforismi che compongono l’opera di Nicolás
Gómez Dávila (Bogota, 18
Maggio 1913 – 17 Maggio
1994), gemma sconosciuta a
molti ma definita da Franco
Volpi come “la più luminescente e scandalosamente
trascurata” del panorama filosofico-letterario dell’America
latina.
Pensatore antimoderno,
ricevette un’educazione di
prim’ordine quando la benestante famiglia si trasferì dalla Colombia a Parigi,
dove il giovane frequentò un
collegio benedettino. La sua
formazione fu prettamente umanistica: nel corso del
soggiorno europeo, che durò
fino ai suoi ventitré anni, ebbe la possibilità di acquisire una
formidabile familiarità con la tradizione letteraria occidentale.
Tornato in Colombia, gettò le basi di un’esistenza totalmente
votata alla lettura, alla meditazione ed alla scrittura: monumentale la sua biblioteca personale, provvista, si può dire, di
tutto ciò che l’intelletto europeo (ma non solo) incise sulle pagine dell’umanità. Asceta di un’aristocrazia spirituale, Gómez
Dàvila visse senza sostanziali contatti con la realtà a lui contemporanea, nonostante le numerose offerte, da parte delle alte
sfere politiche colombiane, di incarichi culturali e diplomatici
di primo livello.
Presentiamo qui Pensieri antimoderni (a cura di Anna K. Valerio, Edizioni di Ar, Padova, 2007), crestomazia di aforismi di
Gómez Dàvila, con cauto rispetto nei confronti della volontà
del colombiano, cercando di evitare inappropriate forzature.
L’aspetto formale dell’aforisma, o scolio (annotazione posta dagli antichi studiosi in margine ai manoscritti delle opere
39
n. 01/2011
consumismo sfrenato e dal culto di un’individualità malata e
disorganica: “Dove a ognuno è lecito aspirare al vertice, tutto il
resto della piramide è un coacervo di frustrati” (p. 48). La teoria gerarchica va declinata secondo precise leggi eterne: durante
il Kāli-yuga democratico, infatti, anche l’ultimo dei servi può
essere aristocratico, spiritualmente superiore al proprio “signore”.
Non si tratta di linee guida economiche, perché l’aristocrazia vissuta
dal colombiano (fra l’altro di famiglia altoborghese, non nobile)
non ha nulla a che vedere con esse:
“Né povertà né ricchezza sono categorie dello spirito. La ricchezza
dell’anima decorosa e la povertà
dell’anima decorosa si equivalgono, come la povertà e la ricchezza
dell’anima volgare” (p. 77).
Leggendo gli scoli è evidente
la visione di una fratellanza tra
simili nello spirito, tra coloro
che, pur vivendo nella desolazione dell’“uguaglianza”, sentono
il richiamo del trascendente e
dell’eterno: “Nostro fratello è non
chi ci somiglia nel fisico, ma chi
sfiora il medesimo nostro mistero”
(p. 37).
I quesiti metafisici che, da sempre, occupano le menti degli uomini migliori non devono essere
risolti, ma vissuti: l’auspicio di
Gómez Dávila è quello di aver
composto un libro non lineare, ma
concentrico. Opposto alla visione
positivista, per lo scrittore l’esistenza è “fare ciò che deve essere
fatto”, secondo la norma eterna. In
questi termini, la società generata
dal pensiero moderno ha perduto
ogni ragion d’essere, essendo venuto meno il fine aristocratico che
era alla base delle antiche civiltà.
La pressione demografica, il pensiero democratico e la rivoluzione
industriale sono le bestie nere di
questo pensiero: “Non possiamo
sperare che la civiltà rinasca finche l’uomo non si sentirà umiliato
nel darsi a opere economiche” (p.
33).
Pensieri antimoderni è un testo permeato, in ogni sua parte,
dal più ricorrente quanto inattuabile insegnamento dell’autore:
è necessaria l’eliminazione del compromesso con la modernità
attraverso l’ascesi, che prevede la pratica della sola speculazione, sempre alimentata da un’incrollabile fede. “Supremo aristocrate non è il signore feudale nel suo castello, ma il monaco
contemplativo nella sua cella” (p. 16). Nicolás Gómez Dávila,
Pensieri antimoderni, a cura di Anna K. Valerio, Edizioni di
Ar, Padova, 2007, pp. 124 € 11,00.
della realtà di un pessimismo totalizzante nei confronti della capacita umana di “fare da sé”, di portare avanti il proprio vessillo
di progresso sottraendosi alla morsa invincibile dell’eternità.
L’austero cristianesimo della gerarchia, instillato nella mente
dello scoliaste colombiano sin dalla giovinezza, si sviluppò in
seguito secondo direttrici che
potremmo definire antiantropocentriche e regressive. Una
regressione da non intendersi
come mero ritorno ad un’età
ormai morta, con il suo carico di superstizioni, ma come
totale adesione ad un modello
esistenziale purificato, grazie
allo studio dell’antichità, da
ogni forma di pensiero avente
come fine l’uomo.
Durissimo, infatti, l’antiumanesimo del colombiano
(“L’umanità è l’unico dio totalmente falso”, p. 78): nessun
uomo potrà mai, se non con il
consapevole abbandono di sé
all’ordine cosmico (che esiste
ed è eterno, anche se nell’immanenza lo stolto non se ne
rende conto), raggiungere
la Verità. Il reazionario disprezza ogni corrente di pensiero che veda nell’uomo un
fine: da qui una feroce critica
all’ideologia progressista, ma
anche all’utilizzo della tecnica
come unico mezzo per “vedere oltre”. L’essere umano che si
è allontanato dalla religiosità
mistica dell’ “intelligente” è
destinato alla perdizione ed
alla dannazione esistenziale
ancor prima che metaumana.
Intelligente è colui che osserva la realtà non con la sterile
lente dello scienziato, ma con
l’eroica volontà del monaco
che si abbandona alla contemplazione dell’Eterno, che
è contemporaneamente fine
ultimo e motore di ricerca interiore.
Centrale la credenza in un
ordine naturale delle cose voluto da Dio e pervertito dalla democrazia dell’uomo moderno. Questa visione si avvicina molto
a quella fondante la struttura sociale del Medioevo, regolata dai
vincoli del vassallaggio. La nobiltà è, in questi termini, una libera sottomissione a chi è più vicino alla Verità, a chi pratica con
la propria esistenza la pura reazione:“Nobile è non chi crede che
ci siano persone inferiori a lui, ma chi sa di averne di superiori”
(p. 88). La democrazia, eliminando questa prospettiva, genera
individui infelici perché perduti in una multiforme e caotica
massa priva della tradizionale spinta religiosa, annientata dal
“
Intelligente
è colui che
osserva la realtà
non con la sterile
lente dello
scienziato ma
con l’eroica
volontà del
monaco che si
abbandona alla
contemplazione
dell’Eterno
”
40
n. 01/2011
Andrea Colombo
“Il Dio di Ezra Pound”
di Andrea Scarabelli
I
fabbro” viene sviluppata
in modo molto puntuale.
Pound, argomenta Colombo, intravede nel cristianesimo una forma di politeismo,
la quale – sulla scorta delle
analisi di Zielinski, il quale,
assieme a Frazer, rimarrà un
costante punto di riferimento del poeta – si declina nel
culto dei Santi e in quello
della Madonna, nella compresenza di dottrine cristiane e taluni motivi pagani,
soprattutto a livello popolare.
Nel retaggio tradizionale
è possibile riscontrare una
stratificazione
spirituale,
nella quale i valori del cristianesimo e quelli precristiani si collocano in un’unica armonia, che li trascende
entrambi. Essi sono momenti di un unico movimento,
non di certo realtà contrapponentisi.
Assieme alle dottrine dei
due studiosi menzionati, i motivi che determineranno la presenza di sfumature cristiane e cattoliche all’interno del corpus
poundiano, specialmente nei Cantos e in Guide to Kulchur,
sono anzitutto certe tinte neoplatoniche – maturate nelle
opere di intellettuali come Gemisto Pletone, Scoto Eriugena,
Roberto Grossatesta e Marsilio Ficino – e la dottrina sociale
della Chiesa, legata a San Francesco d’Assisi.
Tra le tematiche proprie a questa straordinaria figura che
dovettero affascinare Pound, Colombo annovera “ecologismo, pacifismo, neoplatonismo [e] lotta all’usura” (p. 109).
Aspetti, questi ultimi, che furono parimenti costanti spirituali del poeta americano, sicché, a tutti gli effetti, non
sconcerta per nulla l’interessante confronto tra le condizioni
esistenziali di San Francesco e Pound, avanzato da Colombo
(p. 113).
Tra le altre influenze religiose Colombo annovera il pensiero di Riccardo di San Vittore, nella sua distinzione tra cogitatio, meditatio e contemplatio, i tre gradi della conoscenza
umana.
n che misura il pensiero di Ezra Pound può
essere accostato al cristianesimo e, in particolare, al cattolicesimo? In che
misura possono riscontrarsi
delle eco di natura cattolica nell’opera del poeta ed
economista eretico americano? Risposte assai persuasive a detti quesiti sono
contenute nel volumetto di
Andrea Colombo, Il Dio
di Ezra Pound. Cattolicesimo & religioni del mistero
(introduzione di Mary de
Rachewiltz, Ares, Milano,
2011), quinta pubblicazione della collana “poundiana”, dedicata all’approfondimento di tutte le
sfaccettature che caratterizzarono questa complessa
personalità novecentesca.
Attraverso uno studio molto puntuale di taluni testi
che influenzarono l’opera
poetica poundiana, Colombo si mette alla ricerca delle convergenze ideologiche
tra il corpus poundiano e le dottrine cattoliche. Chiarendo,
tuttavia, che “nel prendere in considerazione l’ipotesi di un
Pound «cattolico», bisogna precisare che il poeta è attratto più dagli elementi estetici, filosofici e di politica sociale del cristianesimo, che dal messaggio religioso in sé” (p.
119). Gli elementi menzionati sono, infatti, i termini di un
sismografo che per Pound misura la sanità di qualsiasi tipo
di fenomeno.
Seppure non si possa parlare di un Pound cattolico, è pur
vero che tematiche di ordine religioso compaiono ovunque
nella produzione del poeta americano, sin da Grace before
Song, il componimento che apre la compilazione poetica A
lume spento, pubblicata nel 1908, fino ai Cantos: “Nel lungo
poema che intende riprendere lo schema dantesco (inferno,
purgatorio, paradiso) attualizzato nella modernità, la religione gioca un ruolo fondamentale” argomenta Colombo
(p. 20).
L’analisi delle suggestioni cristiane nell’opera del “miglior
41
n. 01/2011
arte, il Grande Stile di Nietzsche e Spengler, che può mettere
definitivamente al bando quel modus operandi che costruisce e crea con usura. Nel Canto LXII, ricorda Colombo, a
Satana, prototipo archetipico dell’usuraio, si oppone Dio “il
grande esteta” (pp. 98-99). La critica verso il mondo usuraio si coniuga, nel poeta americano, alla riscoperta dell’arte
medioevale, in particolare romanica e gotica, sulla scorta dei
pensieri di Ruskin e dei preraffaeliti. Ciò rende Pound, a detta di Colombo, “un antimoderno affascinato dal Medioevo”
(p. 64). E questa fascinazione, ancora una volta, accade sotto
il segno del cattolicesimo.
Pare che questa peculiare visione religiosa segua Pound, in
maniera carsica, riemergendo continuamente, fino alla fine
dei suoi giorni. A seguito delle drammatiche vicende degli
Anni Quaranta e Cinquanta, che valsero a Pound l’internamento nel manicomio criminale St. Elizabeth's, questi entra
nella stagione conclusiva della sua esistenza terrena. Al tempus loquendi dei tentativi di riorientare le linee politiche ed
economiche del suo tempo segue il tempus tacendi. Come
obbedendo ad una specifica mistica, l’attenzione del poeta
si volge all’interno. È ora l’occhio interiore a scandire la sua
attività poetica.
In quest’ultima fase, come ricorda Mary de Rachewiltz,
il poeta americano era solito ripetere: “Non sono stato io a
scegliere il silenzio, il silenzio si è impossessato di me” (p.
121). A questo silenzio si lega immediatamente il riemergere di influenze di ordine spirituale. Negli ultimi Cantos paradisiaci, il tema religioso ritorna in tutta la sua eloquenza,
tradotto, in particolare, nella ricongiunzione di paganesimo
e cristianesimo. “Lo spirito illuminato ora sa che esiste un
«Dio di tutti gli uomini, nessuno escluso» (Canto CXIII).
Tutto è Uno. Non sussistono più divisioni, contese, razze e
neanche, verrebbe da dire, religioni. Nella visione di Pound
il platonismo diventa confuciano. Il cristiano si trasfigura
nell’uomo universale. Un uomo universale che accetta le
forme di devozione popolare che si sono sviluppate lungo i
secoli” (p. 124). Si realizza così l’uomo autenticamente cattolico, universale, secondo l’etimologia del termine, alla fine
di un lungo cammino tormentato e folgorato da improvvise
illuminazioni.
Il volumetto poundiano in questione, insomma, è del massimo interesse e permette di stilare un bilancio critico dei
rapporti tra il modernismo poundiano e il cattolicesimo. Se
tali ambiti appaiono apparentemente piuttosto lungi, in realtà la loro convergenza è tutt’altro che accidentale.
Il volume contiene, in appendice, una conversazione
dell’autore con Mary de Rachewiltz, figlia del poeta, le
lettere a don Tullio Calcagno, direttore di Crociata Italica,
delle missive dirette a Monsignor Pietro Pisani, un appunto
confuciano indirizzato ad Aloysius H. Vath, il cappellano
del campo di detenzione americano nel quale Pound venne
internato a seguito della caduta del Fascismo e una raccolta
effettuata da Pound stesso di pensieri di Riccardo di San Vittore. Materiali atti a gettare una nuova luce su una delle intelligenze più brillanti – e scomode, secondo la celebre formula di Giano Accame – del Novecento, secondo il compito
che la prestigiosa collana che lo ospita ha assunto. Andrea
Colombo, Il Dio di Ezra Pound. Cattolicesimo & religioni
del mistero, introduzione di Mary de Rachewiltz, Ares,
Milano, 2011, pp. 162, euro 14.
Comune ai due autori è la convinzione che non la sterile
razionalità ma l’amore garantisce una conoscenza effettiva
dei principi. L’ascendente di Riccardo è parimenti ravvisabile nelle esperienze avanguardistiche giovanili del poeta:
“L’ascensione alla fonte, indicata da Riccardo, ritorna nel
Vorticismo (1914) con il simbolo del cono scuro di metallo
attraversato da un filo elettrico, dove l’oscurità rappresenta
l’universo non illuminato dal raggio della contemplazione e
l’elettricità coincide con i pensieri immediati di Pound, guidati dalle intelligenze celesti” (pp. 115-116). Ma il suo lascito fondamentale si traduce nella necessità di accordare la
chiarezza del linguaggio ad istanze più alte, percepibili solo
attraverso il medium del cuore.
Se gli influssi appena menzionati sono di ordine speculativo, è bene ricordare che l’interesse di Pound verso il cattolicesimo fu anzitutto mediato da una decisa presa di posizione
di ordine socio-economico.
Già nel celebre Canto XLV, ricorda Colombo, “Pound
aveva intuito che poteva trovare nel cattolicesimo un fedele
alleato contro l’usura” (p. 47).
Numerose furono le ragioni di questo auspicio, che vanno,
argomenta l’autore, dal gesto di Sant’Ambrogio, che ebbe in
più occasioni a scagliarsi contro gli accaparratori di grano,
alla celebre enciclica Quadrigesimo Anno, nella quale Pio XI,
“sicuramente il pontefice preferito da Pound” (p. 63), progettò una socializzazione delle imprese di matrice cattolica
molto simile a quella che venne poi assunta a modello dalla
Repubblica Sociale Italiana, secondo il principio del distributivismo.
E ciò a seguito della tragedia finanziaria del 1929, che
sciolse definitivamente il legame tra la ricchezza economica
e la felicità dei popoli.
Nemmeno è da trascurare il fatto che Pound ricevette da
Piero Pisani, nel 1936, Il giusto prezzo medievale, la tesi di
laurea discussa nel 1913 dal sacerdote Luigi Pasquale Cairoli. Nel testo, si discute il legame tra autorità statale, dottrina
della chiesa e regolazione del prezzo della merce – tematiche
che non poterono che destare l’interesse del poeta, assai sensibile a questioni di questo tipo.
Una visione siffatta del cristianesimo sarà uno dei retroscena di quella “economia sacra” che Pound tenterà di realizzare
alla fine degli anni Trenta, contestualmente, in particolare,
ad una serie di articoli usciti sul Meridiano di Roma. Qui i
rapporti con il cristianesimo – sempre filtrati da una griglia
di lettura più sociale che teorica – si fanno più stretti: “Anche se non si può parlare di adesione al cattolicesimo, che
sarebbe una forzatura ermeneutica impropria, nel suo caso
c’è un interesse che va a volte al di là della mera curiosità
intellettuale” (p. 73). Il cattolicesimo entrerà, in misura sempre maggiore, nella Weltanschauung del poeta, o meglio, per
usare un termine di Leo Frobenius molto caro a Pound, nel
suo paideuma.
Un ulteriore nodo teoretico vede, nell’opera poundiana,
entrare in congiunzione arte, studio delle civiltà e religione.
Si va delineando, attraverso queste considerazioni, l’estetica peculiare di Pound, nella quale l’arte è il segnale più eloquente della sanità di una civiltà. Pound intravide in tutta
l’arte ecclesiastica un antidoto contro quella forma di arte
valutata in base al mero denaro. Si può ben dire che la lotta all’usurocrazia è anzitutto di natura estetica. È la grande
42
n. 01/2011
Fernando Pessoa
“Economia & commercio”
di Rita Catania Marrone
D
questione economica e commerciale con l’immagine classica dello spersonalizzato poeta multiplo? Si tratta, forse,
di un’altra finzione del poeta
fingitore? Ebbene no, in questo caso pare esserci di più.
In questo testo si avrà
modo di scoprire un personaggio immerso nella vita
sociale, lontano dall’immagine kafkiana dell’impiegato
medio-borghese che ha legato ineluttabilmente Pessoa al
semi-eteronimo Bernardo Soares, autore de Il libro dell’inquietudine. Se Soares osserva
il mondo dalla finestra della
sua mansarda, senza aspirare
ad entrare a farvi parte, Pessoa
intraprende, sin da giovanissimo, una carriera che lo porta
ad addentrarsi nel mondo del
commercio e dell’economia,
senza scadere però nella passività e torbidezza esistenziali
che trapelano dagli scritti del
semi-eteronimo. Se una somiglianza fra i due vi è, ovvero
che entrambi non possono essere letterati “di professione”, poiché la società del lavoro richiede una disgiunzione fra un’anima estetica geniale – e per questo
inutile, improduttiva – e il cittadino operoso – maschera da
“uomo qualunque” –, bisogna chiedersi se Pessoa fu davvero,
per i suoi contemporanei, un personaggio senza volto. Scrive Margarido: “abbiamo la possibilità di affermare che Pessoa
oltreché un creatore di eteronimi è stato un uomo impegnato
in molteplici attività. Nel mentre seminava in fogli e carte di
tutti i formati e colori la poesia che lo avrebbe reso giustamente celebre, fu in successione: redattore politico in «Accão» –
l’organo, fondato da Geraldo Coelho de Jesus, del Núcleo de
Acção Nacional, gruppo facente parte del vasto ventaglio delle
organizzazioni volte a preservare l’eredità e, soprattutto, la continuità del sidonismo; innamorato appassionato della giovane
Ofélia Queiroz; creatore e tuttofare della Olisipo; condirettore
della sua «Revista de Comércio e Contabilidade»; fondatore e
collaboratore di «Orpheu» e «Athena» (e con tutto questo
vi è ancora qualcuno che continua a insistere sulla sua abulia!).
Sebbene l’aspetto più rilevante risieda sempre in questa impos-
opo la ristampa
del poemetto di
Fernando Pessoa
Alla memoria del PresidenteRe, le Edizioni dell’Urogallo
ripubblicano, nella collana
Pessoana e in edizione riveduta, Economia & commercio.
Impresa, monopolio e libertà,
già dato alle stampe nel 2000
per i tipi di Ideazione. Questo
è il secondo capitolo di un
più vasto disegno editoriale il
quale permetterà ai lettori italiani di conoscere altre sfaccettature – meno considerate
rispetto a quella meramente
letteraria – del poeta portoghese dai mille volti. In particolare, sono qui raccolti gli
scritti del Pessoa economista,
certamente uno dei più tralasciati e sottovalutati (insieme
a quello esoterico e politico)
dalla critica letteraria italiana.
Da questo volume (il quale
mai fu pensato e strutturato
come tale da Pessoa, ma risulta essere frutto del lavoro
di assemblamento, ricostruzione, curatela e notazione di Brunello De Cusatis) e grazie
alla esaustiva postfazione dello studioso portoghese Alfredo
Margarido, emerge un Fernando Pessoa che il lettore italiano
faticherà a riconoscere: un Pessoa non alieno dalla società che
lo circonda, come spesso hanno voluto mostrarlo i suoi esegeti
italiani, ma un individuo attivamente inserito nella propria collettività nazionale. Lungi dall’essere quel “poeta maledetto” che
vive per scelta incompreso al di fuori dei confini della civiltà,
Pessoa si dimostra, in questi scritti, un intelligente economista
e un fine sociologo, diagnosta rigoroso dei problemi del mondo
contemporaneo. Come sottolinea lo stesso Margarido, il lavoro
di Brunello De Cusatis è “teso a mostrare, soprattutto ai non
portoghesi, la trama di un’esperienza esistenziale di Pessoa in
cui quasi sempre la vita pratica e la pratica della poesia sono tra
di esse inseparabili” (p. 277), e non, come siamo soliti ritenere,
fonte di una schizofrenia che si palesa in una vita nevrotica, scissa irrimediabilmente fra i suoi frangenti reali e quelli letterari.
Il lettore italiano non potrà non incuriosirsi di fronte ad un
volume di questo genere: in quale rapporto può infatti stare la
43
n. 01/2011
dello stesso Pessoa, il quale, moltiplicato in differenti personalità letterarie, costituiva una fetta non indifferente del patrimonio culturale della casa editrice. Fra queste iniziative, quella che
potrebbe destare più scalpore è la prevista traduzione dei Protocolli dei Savi di Sion, ai quale Pessoa si dimostra particolarmente
interessato. Troviamo la stesura di un possibile piano dell’opera, che sarrebbe stata composta da un’introduzione al testo, un
commento storico ed esplicativo atto a dimostrare la autenticità
del falso storico e un saggio, pubblicato in un volume a parte,
dal titolo O Judeu, Sociologicamente Considerado firmato dallo
stesso Pessoa. Insieme a quest’ultimo, il poeta prevede la pubblicazione di un altro suo testo intitolato Aviso, avvertimento,
che avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di forze occulte che
operano alle radici della società europea, le une atte a sostenerla, le altre a dissolverla, secondo il noto sistema della “guerra
occulta”, tematizzata da Malinsky e de Poncis. A tale proposito
è importante tenere conto di una serie di frammenti contenuti
nel Fondo Pessoa, raccolti sotto il nome di “300”, in cui, come
ricorda De Cusatis, il poeta sostiene che l’Europa sarebbe stata governata da trecento uomini i quali “servendosi del «basso
giudaismo» («rozzamente materialista, spregevolmente umanitario ed entusiasticamente democratico») cercavano di dominare il mondo, attentando alla «civilizzazione europea» tramite la distruzione dei suoi tre «elementi fondamentali»: «la
cultura greca», «l’ordine romano», «la morale cristiana»” (p.
117). Oltretutto, si può supporre che, nel progetto editoriale
della Olisipo, il curatore dell’edizione di Protocolli, indicato con
le iniziali A. L. R. sia Pessoa stesso, in quanto, come sostiene De
Cusatis, le iniziali non corrispondono ad alcuno degli amici –
reali o immaginari – del poeta. O almeno, di quelli di cui abbiamo notizia. Non si può non ritenere curioso questo interesse di
Pessoa – il quale discendeva da una famiglia di ebrei convertiti –
per una questione che, in Europa, si faceva in quegli anni sempre
più scottante. Bisogna, tuttavia, tenere conto che il Pessoa che
qui consideriamo non è solo il poeta degli eteronimi, ma un attento sociologo, economista e uomo politico, il quale non teme
di prendere in considerazione tutti gli aspetti peculiari della sua
epoca, anche quelli che noi oggi riteniamo scomodi, trattandoli
con acume critico, precisione intellettuale e, talvolta, anche con
una non troppo velata ironia. A questo proposito, le note esplicative del curatore non potranno che permettere al lettore di
entrare nel merito di determinati argomenti, donando spunti di
riflessione e di approfondimento nient’affatto scontati.
Oltre a Sull’industria, l’editoria e la pubblicità, il testo è stato suddiviso da De Cusatis in altre due sezioni: Sul commercio,
teoria e pratica e Sull’economia: teoria e pratica. Vi è, alla base
del discorso sul commercio e sull’economia, una premessa fondamentale: non bisogna mai commettere l’errore di ritenere separate teoria e pratica. “Per un uomo sano di spirito e d’intelligenza equilibrata” questa disgiunzione è “impropria”, in quanto
“nella vita superiore la teoria e la pratica si compenetrano” (p.
30). Sembra possibile notare qui una eco della passione esoterica del poeta: se nel mondo del divenire e dell’apparenza esistono due realtà separate e contrapponentisi, ad un piano superiore
questa separazione non si dà: esse appariranno, pertanto, come
le due metà di un intero. Pratica e teoria sono dunque la medesima cosa; ma allora “la teoria non è altro che una teoria della pratica e la pratica non è altro che la pratica della teoria” (ibidem).
Le riflessioni del poeta risultano essere, in questo modo, di una
chiarezza teorica cristallina e perfettamente in consonanza con
sibilità di separare, l’una dall’altra, tali attività, collocandole in
angusti angoli dell’immenso parcheggio esistenziale della vita
del poeta” (p. 243).
Pessoa passa gli anni dell’adolescenza (dal 1896 al 1905) a
Durban, in Sudafrica, dove il patrigno, João Miguel Rosa, era
stato nominato console. Qui frequenta la Commercial School,
dove ha modo di studiare i pensatori della scuola liberale inglese, quali Adam Smith, Stuart Mill e Herbert Spencer (quest’ultimo, in particolare, influenzerà in modo decisivo le sue teorie)
e di studiare quelle dottrine commerciali che, come il lettore
apprenderà dagli articoli pubblicati in questo volume, avrà
modo di criticare, perfezionare e mettere in pratica nel corso
della sua vita. Una volta tornato in Portogallo, il tentativo di
portare a termine il corso di laurea in lettere all’università di
Lisbona naufragherà. Egli preferirà intraprendere la carriera
imprenditoriale: già alla giovanissima età di 19 anni, nel 1907,
rileva i macchinari di una ditta di Portalegre con l’intento di
fondare una tipografia, che chiamerà Empresa Ibis. Si noti, en
passant, il riferimento, certamente non casuale, come sottolinea
Margarido nella sua postfazione (p. 246), all’ibis egizio il quale
simboleggia il dio Theut, ritenuto, come ci insegna il mito platonico, il padre della scrittura. La Empresa Ibis non avrà però
molta fortuna: sarà costretta a chiudere i battenti pochi mesi
dopo l’apertura.
È da ricordare anche l’esperienza da pubblicista del poeta che,
a dire il vero, risulta piuttosto traumatica: tra il 1927 e il 1928,
viene incaricato di ideare uno slogan per publicizzare l’esordio
della Coca-Cola in Portogallo. Questa la frase da lui ideata
che ne sancirà l’indimenticabile incipit: “Primeiro estranhase. Depois entranha-se”, Prima sorprende. Poi si manda giù. Il
direttore dell’ufficio della sanità a Lisbona, ritendendo che lo
slogan somigliasse troppo alla pubblicizzazione degli effetti di
uno stupefacente, ordinerà immediatamente il fermo della distribuzione del prodotto e il suo ritiro dal mercato portoghese.
A causa di questo fraintendimento, la Coca-Cola potrà tornare
in Portogallo quasi cinquant’anni dopo.
Pessoa troverà il suo impiego definitivo come corrispondente in lingue estere presso alcune ditte commerciali, fra le quali
la Olisipo Lda (ditta commerciale di Agentes, Organizadores e
Editores), fondata proprio dal poeta, insieme all’ingegnere Geraldo Coelho de Jesus e all’amico, scrittore e giornalista Augusto Ferreira Gomes. Nel 1926 è animatore, insieme al cognato
Francisco Caetano Dias, della Revista de Comércio e Contabilidade, della quale questo volume raccoglie tutti gli undici articoli scritti da Pessoa. Secondo Margarido, essa rappresenta, “pur
avendo avuto vita breve […], ancora oggi in Portogallo uno dei
rari momenti di riflessione sistematica consacrata all’organizzazione economica e, in maniera particolare, al suo versante
commerciale, seppur non sia trascurato quello industriale” (pp.
231-232).
Di vivo interesse è anche la pubblicazione del piano editoriale della Olisipo, il quale contiene una serie di traduzioni di
Shakespeare – La Tempesta, Amleto, Re Lear – e di altri scrittori
inglesi fra i quali Edgar Allan Poe e Coleridge, tutte a cura di
Pessoa stesso, accanto a numerose traduzioni di classici (Eschilo, Saffo, Aristotele) da parte dell’eteronimo Ricardo Reis, alcune poesie dell’eteronimo futurista Álvaro de Campos, le Trovas
del Bandarra con commento interpretativo del “più esoterico”
degli eteronimi, Rafael Baldaia. Si può facilmente notare come
buonissima parte di questo piano editoriale fosse tutto a carico
44
n. 01/2011
che» – che la schiavitù è uno dei fondamenti della vita sociale.
E sta ancora in piedi poiché non c’è modo di buttarla giù” (pp.
128-129). Al di là, dunque, di ogni giudizio morale, poiché
l’etica è un artefatto che non fa parte di alcuna legge di natura,
di per sé spietata. Se è vero ciò che ritiene il poeta, cioè che ogni
civilizzazione si basa sul lavoro, allora anche la schiavitù è parte di essa.
Emerge, come sostiene Margarido,
“non il cinismo della scrittura pessoana, come sarebbe troppo facile e
automatico concludere, ma il tentativo di definire, in modo lucido, la
brutalità delle situazioni provocate
dal binomio civilizzazione/lavoro”
(p. 262).
Una volta entrati in contatto con
il Pessoa economista, sarà ben difficile mantenerne l’immagine classica, ovvero quella di un poeta totalmente estraniato dal mondo che
lo circonda. La chiarezza con cui
Pessoa tratta certi argomenti ci porterà a comprendere che, come scrive
lo studioso citato poc’anzi, “non
siamo al cospetto di uno specialista del commercio che a un tempo
scrive poesie, ma piuttosto di un poeta geniale in possesso della capacità
teorica che gli consente non solo di
analizzare i fatti economici ma, soprattutto, di proporre soluzioni a
livello nazionale e perfino mondiale” (p. 278). Il poeta portoghese si
inscrive, insomma, in quella lunga
tradizione di letterati che si occuparono di economia che annovera,
come Accame ricorda nel suo Ezra
Pound Economista – Contro l’usura
(Settimo Sigillo, Roma 1995), intellettuali come Dante, Tasso, Shakespeare e Pound. L’incursione di
questi “non addetti ai lavori” può
condurre a soluzioni che dovrebbero oggi, in un momento di inaudita
crisi economica mondiale, essere
perlomeno riprese in considerazione con più serietà di quanto non sia
stato fatto fino ad ora.
Per concludere, possiamo certamente dire che, dopo la lettura di
questo volume, il lettore che ancora non è a conoscenza del Pessoa politico e sociologo non potrà che attendere con estrema
curiosità i prossimi volumi in ripubblicazione presso la collana
Pessoana delle Edizioni dell’Urogallo: Scritti di sociologia e teoria politica e Politica e profezia. Certi che anch’essi ci procureranno non poche sorprese. Fernando Pessoa, Economia &
commercio. Impresa, monopolio e libertà, introduzione, traduzione e note a cura di Brunello De Cusatis. Postfazione
di Alfredo Margarido. Nuova versione riveduta, Edizioni
dell’Urogallo, Perugia 2010, pp. 286, euro 18.
una loro attualizzazione pratica. Di particolare interesse è l’articolo – intitolato, non casualmente Le manette – che analizza
le Leggi di Difesa del Regno, promulgate dall’Inghilterra durante la prima guerra mondiale, e il proibizionismo americano.
Come scrive Margarido, “assimilando la lezione di Spencer,
quella del saggio The man versus
State (1884), Pessoa sottolinea
la natura dannosa di qualsiasi
intervento da parte dello Stato
nell’organizzazione economica. Con tali presupoosti risulta
chiara la sua fedeltà a una certa
concezione del liberalismo economico: l’affidare alle forze del
mercato tutto ciò che riguarda
il funzionamento regolare delle
attività economiche” (p. 257).
Con lo humor e l’ironia che lo
contraddistinguono, Pessoa ci
dà un quadro critico delle leggi
proibizioniste, portandole sino
all’estremo e mostrando le falle
costitutive e i paradossi insiti
nei suoi stessi presupposti. La
conclusione dell’articolo porta direttamente ad una visione
organicista della società: “nessuna legge è benefica se attacca
una qualunque classe sociale
o ne limita la libertà. Le classi
sociali non vivono separate, in
compartimenti stagni. Vivono
in perpetua interdipendenza, si
compenetrano costantemente.
Quel che lede una, lede tutte le
altre. La legge che attacca una,
attacca tutte le altre” (p. 60).
Come un corpo umano si mantiene perché ogni organo ha il
proprio ruolo, così anche nella
società ogni classe deve avere un
compito specifico e peculiare, il
quale non deve essere modificato da alcuna legge artificiale. È
chiaro come questa teoria si basi
sul presupposto che la costituzione di una società avvenga,
almeno in un primo momento,
su basi naturali. Lo scoinvolgimento della classi significherebbe il ribaltamento dell’ordine naturale delle cose. Quando la
legge umana si pone contro la naturalità della vita, è destinata a
fallire. Pessoa arriva così alla conclusione che anche la schiavitù
potrebbe avere un ruolo determinante all’interno della società:
“nessuno ha ancora dimostrato, ad esempio, che l’abolizione
della schiavitù sia stato un bene sociale. Nessuno l’ha dimostrato perché nessuno lo può dimostrare. Chi ci dice che la schiavitù non sia una legge naturale della vita delle società sane? […]
Si può dire che stia ancora in piedi la vecchia affermazione di
Aristotele – peraltro così poco propenso a soluzioni «tiranni-
“
Una volta
considerati
gli studi economici di Pessoa,
sarà ben difficile
mantenerne
la classica
immagine di
poeta totalmente estraniato
dal mondo
circostante
”
45
n. 01/2011
Francesco Tomatis
“Filosofia della Montagna”
di Emanuele Guarnieri
L
lire e ridiscendere gli innumerevoli sentieri montani,
è individuata da Francesco
Tomatis in Filosofia della
Montagna (Bompiani, Milano, 2005). La peculiarità
dell’intero libro è dovuta
all’analogia che l’autore instaura tra pensiero e
cammino: se il primo richiede infatti la fatica e la
preparazione necessarie ad
una salita in montagna, il
secondo ha come esito terminale l’acquisizione di una
sapienza sovrumana, vale a
dire lo scopo stesso di gran
parte della filosofia e della
mistica. Tale scelta teorica
si ripercuote sulla struttura
stessa dei capitoli, che sono
infatti costruiti ispirandosi
all’intrinseco ritmo, fatto
di soste e accelerazioni, che
il cammino in montagna
deve assumere per essere fecondo: nella trama del testo,
estremamente densa e concentrata, Tomatis inserisce
infatti frequenti punti di riflessione che permettono al pensiero di cogliere i frutti del proprio sforzo ascensionale. In nove
capitoli, nove sentieri ascensivi e discensivi, l’autore tratta
numerose tematiche, strettamente connesse fra loro e care alla
riflessione filosofica e religiosa, quali “la libertà e il rischio, la
pace e il rapporto con gli altri, l’origine del linguaggio e il futuro della vita, il perchè del male e l’esperienza del nulla (eppure
anche del divino) tangibile attraverso ogni minima creatura”
(p. 11); temi sviluppati mettendo a fuoco aspetti di volta in
volta diversi. Precisa Tomatis, nell’introduzione all’opera, che
affinchè si compia questo cammino duplice, assieme fisico e
mistico-metafisico, occorrerà la pratica di un doppio passo, uno
negativo, consistente nella rinuncia, nel fare a meno di ogni superflua strumentazione tecnica, nonché di ogni armamentario
concettuale pregresso. Bisogna giungere ad abbandonare perfino il proprio ego ed ogni sua divinità, fino al passo ultimo sulla
cima, “punta certissima eppure inspaziale, salda e intangibile,
reale ma stupefacentemente immemorabile” (p. 13). Da qui
si potrà intraprendere il secondo passo, discensivo e positivo,
solare: giungendo alla vetta, si avverte infatti il libero donarsi
e montagne sono inafferrabili allo sguardo:
è impossibile coglierne un’unica immagine, in
grado di mostrarle nella loro
totalità. Un’istantanea presa
frontalmente impedirà necessariamente infinite altre
prospettive, mentre fotografie scattate dall’alto ne appiattiranno la fondamentale
tridimensionalità. Essa non
può che continuare a sfuggire
alla nostra pervicace volontà
di conoscenza, opponendo
alla sfida della nostra hybris
la sua ineffabile e maestosa
complessità.
Quali soluzioni restano,
allora, quali strade percorrere, qualora si voglia disporre
delle risorse conoscitive che
la montagna può offrire?
Come comprendere l’importanza che essa, quale massiccio centrale teoretico, riveste in tutte le culture? Non
rimane che accettare con
umiltà la nuova posizione nel
cosmo in cui il monte, nella sua sublimità, collocherà coloro
che vorranno mutare la loro natura per rendersi più simili a
chi per millenni ha conosciuto le montagne. Occorrerà, dunque, che ci si faccia alpinisti, disposti a percorrere con fatica i
sentieri che la montagna generosamente concede e svela; e se
le permetteremo di svolgere un ruolo tanto significativo nel
nostro percorso esistenziale, alienandoci positivamente dalla
nostra quotidianità, essa sarà in grado di ripagarci ben oltre
i nostri sforzi, quale grazia sovraceleste che concede più di
quanto prometta, aldilà di ogni possibile umano bene e male.
Dalla vetta infatti – e solo dalla vetta – è possibile, come avendo sguardo d’aquila, vedere e reinterpretare la nostra quotidianità sotto una prospettiva superiore e ulteriore. Infine, la
cima del monte offrirà l’estrema possibilità contemplativa dell’
intelletto umano: come sommità di quanto è terrestre, punto
ultimo di contatto con la dimensione celestiale, è sede privilegiata del palazzo delle divinità, dunque sola posizione dalla
quale sia possibile fissare lo sguardo nella Divinità iperuranica,
ben al di sopra di qualsiasi dio dell’idolatria umana.
Questa modalità, umilmente alpi-mistica e impegnata a sa-
46
n. 01/2011
ti di mostrare quel che la montanità può fare per la nostra civiltà. Anzitutto, però, occorre saper guardare panoramicamente
alle città e individuare quali dinamiche abbiano presieduto alla
loro istituzione ed al loro sviluppo, e per quali ragioni la nostra prima impressione è quella di
“una civiltà abitata da muto dolore
anonimo” (p. 158). Occorre dunque ipotizzare quel che successe al
tempo del passaggio dal mondo dei
cacciatori-raccoglitori a quello delle
città. Il mutamento fu drammatico,
e caratterizzato dal congelamento
del movimento, spirituale oltre che
fisico, che contraddistingueva le
pratiche di vita nomadica: in particolare, il “libero spirito vocalico e
sonoro” (p. 162) dell’oralità venne
imprigionato nell’astratta cultura
scritta e, ben più gravemente, il cacciatore di animali si fece soggiogatore e sacrificatore di uomini. Tale
fu anche l’origine della guerra, dice
Tomatis sulla scia dell’autorevole
sociologo statunitense Lewis Mumford, ragion per cui “pólis e pólemos,
città e guerra vivono, sperabilmente
forse anche muoiono, inscindibilmente assieme” (p. 163). Ma la città
porta con sé anche un’altra caratteristica, che è forse infine in grado di
redimerla. Tale caratteristica va ricercata nell’originario solco (hóros),
che nei miti di fondazione delimita
la città nascitura. Hóros è infatti etimologicamente connesso con óros,
vale a dire montagna: e i teritori
montuosi sempre si dimostrarono
liberi dall’influenza cittadina, territori inviolati in cui mai si riuscì davvero ad imporre qualsivoglia legalità esterna a quella più antica: “Solo
l’uso comune del territorio e la condivisione delle gioie e tristezze della
vita ha preso dimora” (p. 164).
Se è utopico credere che la semplice contemplazione della naturalità sia da sola in grado di redimere e
consolare il dolore delle nostre città,
è pur vero però che essa può risvegliare la sete di liberazione dell’uomo contemporaneo. Il giardino
celeste che la montagna è, ed il suo
tempo extratemporale, governato
da leggi proprie, infatti, suscitano e
susciteranno per sempre in noi la coscienza di non appartenere
a questo presente, suggerendoci piuttosto che la nostra patria
spirituale si situa tanto nell’irrecuperabile ed originario Eden,
quanto nell’impossibile futura Città di Dio. Francesco Tomatis, Filosofia della Montagna, Bompiani, Milano, 2005, pp.
222, 8,00 euro.
di una realtà ulteriore ed ineffabile, trascendente ogni umano
desiderio e progetto. Si darà allora, da parte del camminatore,
una ridiscesa al mondo simile a quella dell’uomo che, visto il
sole, ritorni alla caverna platonica; e si comprenderà il senso
del detto eracliteo: ascendere e
discendere, in fondo, è il medesimo.
Quasi a scopo propedeutico
e pedagogico vengono dunque
discussi, all’inizio dell’ascesa,
i temi intrecciati della rinuncia, della tecnica e del pericolo.
Quali accorgimenti occorrerà
adottare allorchè si voglia intraprendere il cammino? Tomatis osserva che quanto più
si cerchi di neutralizzare ed
esorcizzare il pericolo tramite
accorgimenti tecnologici, tanto
più facilmente esso si abbatterà su chi non abbia imparato
ad avvicinare con pazienza il
rischio e persino la morte, così
come, nella ben nota prospettiva heideggeriana, è necessario
progettare la propria esistenza
conoscendo il proprio ultimo
orizzonte, l’essere-per-la-morte.
Lo stile individuato dall’autore è quello denominato alpino,
fatto proprio sino alle estreme
conseguenze da Reinhold Messner, capace di scalare gli 8848
metri del Monte Everest senza
bombole d’ossigeno, contando solo su piccozza e ramponi, tenda, fornelletto e sacco a
pelo.
Una sobrietà estrema e monacale, insieme alla capacità di
convivere con la morte, sono
dunque le forze educative che
forgiano l’uomo della montagna, che Tomatis vede piuttosto originalmente come un
potenziale erede della tramontata cultura classica. La parola
cultura deriva infatti da colo,
vale a dire letteralmente “coltivare”. E’ infatti dal gesto del
contadino di montagna, che
con amore cerca di dissodare e
rendere fruttifera la sua povera
terra, che può nascere, come
già nacque, l’uomo classico, integrale, e la sua “cultura durata
un momento cronologicamente effimero, eppure eternamente
vera” (p. 34).
Tale esemplare di umanità si mostra come termine di paragone dell’uomo cittadino e fonte di ispirazione per un differente
modello di convivenza. Nelle pagine finali, Tomatis cerca infat-
“
Se è utopico
credere che la
sola contemplazione della natura sia capace
di redimere il
dolore delle
nostre città,
essa può
PURTUTTAVIA
risvegliare la
sete di liberazione dell’uomo
contemporaneo
”
47
ARRETRATI
n. 01/2011
N. 0/2011
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