GIUSEPPE SCIARA
Introduzione al pensiero politico di Benjamin Constant
Premessa
Benjamin Constant è oggi considerato un autore di prima grandezza nella storia del pensiero
politico, in particolare nella corrente che si è soliti definire come “liberalismo classico”. La sua
vicenda biografica e la formulazione del suo pensiero, infatti, si collocano in un'età cruciale della
storia contemporanea, indiscutibilmente importante per la creazione e l'affermazione della nostra
identità politica e culturale: il periodo che va dalla Rivoluzione francese del 1789 alla
Rivoluzione di Luglio del 1830.
Tuttavia, Constant non ha sempre goduto di una reputazione così positiva. Anzi, per lungo
tempo è stato considerato un polemista minore, un semplice autore di scritti di circostanza, di
pamphlets e opuscoli polemici privi di un'effettiva base teorica, un personaggio peraltro troppo
calato nella mediocrità delle due età di cui fu protagonista, il Direttorio (1795-1799) e la
Restaurazione (1814-1830), concepite e sminuite dalla storiografia tradizionale come periodi di
transizione. Inoltre la sua inquieta vicenda biografica, la sua propensione al gioco d'azzardo, la
sua instabilità sentimentale, le sue infelici scelte politiche (prima fra tutte la collaborazione con
Bonaparte durante i Cento Giorni, dopo essere stato per dodici anni suo acerrimo nemico) hanno
contribuito alla creazione di pregiudizi che lo hanno dipinto a lungo come un personaggio
ambiguo e opportunista, incoerente e voltagabbana. Infine, dal punto di vista storiografico, la sua
riflessione politica è stata svilita nel corso del Novecento a sinistra da una lettura marxista che la
riduceva a mera maschera sovrastrutturale degli interessi borghesi e a destra da
un’interpretazione ultraliberale e privatista inaugurata dall’identificazione della libertà dei
moderni – concetto fondamentale, come si vedrà, nel suo pensiero – con quella libertà negativa
teorizzata da Isaiah Berlin nel famoso saggio Two Concepts of Liberty. Insomma, a lungo è
mancata un'analisi lucida dei testi e un approfondito studio del contesto in cui i suoi scritti sono
stati concepiti.
La sua figura e il suo pensiero, dunque, soltanto nell’ultimo trentennio hanno goduto di una
riabilitazione presso gli studiosi. Questa rinnovata fortuna ha avuto inizio negli anni Ottanta e
molto deve al mutamento del clima culturale causato dalla crisi del marxismo. Inoltre, la scoperta
nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento dei trattati concepiti da Constant nel
periodo consolare-imperiale (1799-1814), ma rimasti inediti, ha reso necessarie una più rigorosa
analisi filologica, una precisa ricostruzione della biografia constantiana e una più attenta
considerazione della sua riflessione politica. I due trattati inediti, i Principes de politique
applicables à tous les gorvernements del 1806 e i Fragments d’un ouvrage abandonné sur la
possibilité d’une constitution républicaine dans un grand pays, dimostrano che Constant non è
semplicemente un autore di scritti di circostanza, ma anche un importante teorico del liberalismo,
al punto da poter essere a ragione considerato l'anello mancante tra Montesquieu da una parte e
Tocqueville dall'altra.
Dopo l'analisi delle tre fasi storiche (Direttorio, età consolare-imperiale, Restaurazione) vissute
attivamente dal liberale svizzero (par. 1), in questa sede ci si concentrerà essenzialmente su due
aspetti fondamentali del pensiero politico di Constant: la teoria del potere sviluppata attraverso la
critica a Rousseau (par. 2) e la distinzione tra libertà degli Antichi e dei Moderni (par. 3).
1. La vicenda biografica e la militanza politica
Nato nel 1767 a Losanna da una famiglia ugonotta fuggita dalla Francia all'epoca della revoca
dell'editto di Nantes (1683), Benjamin Constant rimane orfano di madre fin dalla nascita. Il
padre, un militare spesso lontano da casa, affida l'educazione del figlio a istitutori privati, prima
di mandarlo a studiare a Oxford, a Erlangen e a Edimburgo dove ha la possibilità di vivere
l'ambiente dell'illuminismo scozzese. Inquieto, incostante, libertino, ma allo stesso tempo
convinto che l'uomo abbia in sé un forte sentimento religioso, il giovane Benjamin nel suo
peregrinare incontra un personaggio che segnerà indelebilmente la sua esistenza: Madame de
Staël, figlia di Necker, l'ultimo ministro liberale di Luigi XVI. A Coppet, sul lago di Ginevra
dove la donna raduna intellettuali, artisti e amici, Constant conosce i maggiori interpreti della
cultura letteraria e politica dell'epoca e ha modo di discutere i grandi problemi politicocostituzionali aperti dalla Rivoluzione del 1789. L'intellettuale svizzero fin dal primo momento
aderisce ai principi liberali dell'Ottantanove che non rinnegherà mai. La sua sarà un'attività al
contempo teorica e pratica. Il suo desiderio di partecipare alla politica attiva, infatti, non viene
mai meno lungo tutto l'arco della sua esistenza.
1.1. Il periodo direttoriale (1795-1799)
Constant giunge a Parigi nel 1795 quando la Rivoluzione sta vivendo uno dei suoi momenti
più difficili. Dopo che la congiura di Termidoro nel 1794 ha messo fine al regime del Terrore di
Robespierre, lentamente si sta tentando di salvare la Rivoluzione che rischia di cadere sotto i
colpi delle forze controrivoluzionarie. La nuova maggioranza parlamentare prova così a varare
una nuova costituzione che entra in vigore nell'ottobre del 1795 e che pone in essere un esecutivo
più forte, il cosiddetto Direttorio. L'obiettivo è di dare vita a un sistema politico repubblicano
fondato sulla legalità costituzionale e sui principi del governo rappresentativo.
Il nuovo governo direttoriale deve battersi contro due forze politiche: da una parte la sinistra
giacobina, che vede nel sistema termidoriano la fine della democrazia pura e il venir meno di
quell'ideale democratico incarnato dalle repubbliche antiche che il club dei giacobini aveva
tentato di instaurare e imporre attraverso il regime del Terrore; dall'altra la destra monarchica che
mira a restaurare l'assolutismo regio e a ritornare all'Ancien Régime.
In questa situazione politica Constant si schiera con il governo direttoriale, pubblicando tre
scritti: La forza del governo attuale della Francia, Le reazioni politiche, Gli effetti del Terrore.
Queste opere hanno anzitutto un valore contingente, legato alla situazione politica poiché, nel
tentativo di difendere il Direttorio, Constant si oppone alla sinistra giacobina e alla destra
monarchica, ponendo entrambe sullo stesso piano come forze estremiste che producono
instabilità politica e mettono in pericolo l'ispirazione iniziale della Rivoluzione. Nel breve scritto
La forza del governo attuale, Constant divide le forze politiche in campo in due schieramenti:
quello della libertà e dell'ordine caratterizzato da una concezione limitata del potere, e quello
dell'anarchia e del dispotismo che gli appaiono come due aspetti dello stesso fenomeno, ossia il
concepire la sovranità come illimitata, sia essa esercitata dal re o dal popolo.
In secondo luogo questi pamphlets direttoriali costituiscono la prima riflessione di Constant
sul fenomeno rivoluzionario e inaugurano quella lettura “liberale” della Rivoluzione francese
che molta fortuna avrà nella storiografia successiva. Constant sostiene che le rivoluzioni
avvengono lì dove si è rotto l'equilibrio tra le istituzioni di un popolo e le sue idee e le sue
aspirazioni. Le rivoluzioni sono così al tempo stesso il sintomo e la cura di tale squilibrio.
Tuttavia se esse vanno al di là dei loro obiettivi, si produce un nuovo e opposto squilibrio, una
degenerazione patologica (dérapage) del fenomeno rivoluzionario che produce a sua volta una
reazione. Il Terrore quindi appare agli occhi di Constant non come un'inevitabile conseguenza
dei principi rivoluzionari dell'Ottantanove (come sostengono i controrivoluzionari), né come uno
strumento terribile, ma necessario per salvare la Rivoluzione (come pensano i giacobini). Il
Terrore non è altro che una degenerazione patologica dell'impulso iniziale della Rivoluzione, un
fenomeno scaturito da un'altra rivoluzione distante dalle reali aspirazioni dei Francesi e che ha
causato a sua volta una reazione.
Constant quindi distingue – ed è questo un aspetto da tenere sempre ben presente per capire il
suo pensiero politico – la Rivoluzione dell'Ottantanove che è nata dal «bisogno tipicamente
moderno di indipendenza individuale, eguaglianza civile e libertà politica», dalla Rivoluzione del
Novantatré che affonda le sue radici «nell'aspirazione a un'eguaglianza forzata e livellatrice e a
un modello politico, quello roussoviano, anacronistico e liberticida» 1. Tra le due Rivoluzioni non
c'è alcuna parentela.
1.2. L'età del Consolato e dell'Impero (1799-1813)
La battaglia di Constant però è destinata a fallire. La repubblica del Direttorio crolla il 18
brumaio 1799 a causa di un colpo di stato ideato da Sieyès, il quale decide per l'esautorazione del
legislativo e il rafforzamento delle funzioni esecutive affidate a una commissione composta, oltre
che da sé stesso, da Ducos e da Bonaparte, nominato Primo Console. Si tratta di una forma di
governo autoritaria, retta da un triumvirato, in cui il rischio liberticida è altissimo. Constant
scrive a Sieyès per metterlo in guardia sui pericoli che uno scioglimento del legislativo
comporta. Il liberale di Losanna già prevede che il colpo di stato è destinato a spianare la strada
alle ambizioni di Bonaparte, ma i suoi avvertimenti non vengono ascoltati. Negli anni successivi,
infatti, il regime si trasforma dapprima in una monarchia elettiva vitalizia, poiché Bonaparte
diviene Console a vita (1802), e, in seguito, in una monarchia ereditaria sanzionata dai plebisciti
popolari quando il Senato dichiara Napoleone “Imperatore dei Francesi” (1804).
Constant negli anni del Consolato trova posto al Tribunato, l'unico organo istituzionale in cui
rimane una parvenza di libertà, dove cioè è prevista la possibilità di discutere i provvedimenti
adottati dall'esecutivo. Si tratta però di un'istituzione puramente consultiva, che non gode di
alcun potere reale. Nonostante ciò, l'opposizione di Constant è tale che nel 1802 Bonaparte lo
estromette dal Tribunato, costringendolo all'esilio. Inizia così un periodo, lungo 11 anni, in cui il
liberale svizzero abbandona la vita politica pratica, viaggia in Europa, frequenta il circolo di
Coppet, incontra i grandi romantici tedeschi, scrive alcune opere letterarie tra cui il famoso
romanzo Adolphe e si dedica ai suoi studi sulla religione.
Prima della scoperta degli inediti, si pensava che questo periodo (1802-1813) dal punto di
vista del pensiero politico fosse un periodo di silenzio. Sono invece anni estremamente fruttuosi,
perché è in questa difficile congiuntura che Constant elabora una dottrina politica e
costituzionale compiuta, redigendo i Principes de politique applicables à tous les gouvernements
e i Fragments sur la possibilité d'une constitution républicaine dans un grand pays. La
gestazione di queste opere nasce dalla necessità del pensatore liberale di riflettere in maniera
sistematica sui principi di politica alla luce della Rivoluzione e dei suoi esiti. Come spiegare
quanto successo dal 1789 al 1804? Come spiegare la degenerazione avvenuta? Una Rivoluzione
come quella dell'Ottantanove nata da esigenze di libertà, come ha potuto degenerare nel Terrore
giacobino prima e nel cesarismo napoleonico poi?
Sono queste, per Constant, forme di dispotismo ancora più pericolose di quelle dell'Ancien
Régime perché utilizzano strumentalmente il principio della sovranità popolare. Sia i
giacobini, che hanno mascherato il proprio operato proclamandosi interpreti autentici della
sovranità popolare, sia Napoleone che utilizza lo strumento del plebiscito per sanzionare le
proprie decisioni, utilizzano il concetto di consenso per imporre un potere senza limiti.
Alla luce di tutto questo, le riflessioni di Montesquieu e di Rousseau gli appaiono ormai
datate. È necessario porre nuove basi teoriche. Si dedica così alla composizione di un grande
trattato che prevede inizialmente una parte dedicata ai principi di politica e una parte dedicata ai
mezzi costituzionali. Lo termina nel 1803, ma non lo pubblica, a causa della difficile situazione
personale e politica. Tre anni più tardi, nel 1806, lo riprende in mano e pensa di estrarne alcune
parti per comporre un opuscolo polemico, perché è apparso un pamphlet controrivoluzionario cui
vuole replicare. Questo estratto, nell'arco di nove mesi viene ampliato fino a diventare un trattato
autonomo, articolato in 18 libri (capitoli). Si tratta dei Principes de politique in cui Constant
S. De Luca, Benjamin Constant teorico della modernità, in “Bollettino telematico di filosofia politica” al link:
http://bfp.sp.unipi.it/constbib/index.html
1
affronta dal punto di vista teorico le tematiche politiche fondamentali: il problema della sovranità
e del potere, il tema della libertà, quello dei diritti civili e politici, le questioni economiche e
fiscali e la fondamentale distinzione tra libertà degli Antichi e libertà dei Moderni.
Nel 1806 questo trattato non viene pubblicato per motivi di opportunità e non verrà pubblicato
neppure dopo la caduta di Bonaparte nel 1814. Questo perché Constant non si sente un teorico,
quanto piuttosto un attore calato nella pratica politica. Utilizzerà il trattato come serbatoio da cui
attingere negli anni della Restaurazione per ottenerne brevi estratti da gettare nella temperie
politica sotto forma di opuscolo, di pamphlet o di brochure. Per questa ragione Constant è stato
considerato a lungo come un polemista brillante, ma non come un grande pensatore. Mancava il
grande trattato teorico, riscoperto appunto soltanto negli anni Sessanta del Novecento a
dimostrazione di come la maturazione del suo pensiero non sia avvenuta negli anni della
Restaurazione, ma negli anni dell'Impero, in una congiuntura politica ben altrimenti pericolosa
per un acuto e indefesso difensore della libertà.
1.3. L'età della Restaurazione (1814-1830)
Soltanto la caduta di Napoleone permette a Constant di tornare sulla scena politica francese.
Subito dopo la battaglia di Lipsia del 1813 egli pubblica un acuto pamphlet anti-napoleonico, il
De l'esprit de conquête et de l'usurpation che, con le sue diverse edizioni diffuse in vari Paesi, lo
rende famoso in tutta Europa come libellista liberale. Con la definitiva caduta di Napoleone e il
ritorno dei Borbone sul trono di Francia egli può così rientrare in Francia e partecipare
attivamente alla vita politica della prima Restaurazione (aprile 1814 – marzo 1815), battendosi
per la difesa della nuova costituzione concessa da Luigi XVIII. Pubblica un'opera importante
come le Réflexions sur les constitutions et les garanties in cui riformula la propria dottrina
costituzionale adattandola al nuovo sistema monarchico e approfondendone i meccanismi.
Tuttavia, il regime borbonico ha vita assai breve.
Al ritorno di Bonaparte dall'isola d'Elba durante i Cento Giorni (marzo – giugno 1815),
Constant viene chiamato a redigere una nuova costituzione liberale da dare al Paese. Il liberale di
Losanna, che fino a poche settimane prima aveva difeso a spada tratta il regno di Luigi XVIII,
convinto ora delle nuove intenzioni liberali dell'Imperatore e attratto dalla possibilità di ricoprire
un ruolo politico di primo piano, decide di accettare la proposta di collaborazione redigendo
l'Acte Additionnel. Per giustificare il proprio operato scrive i Principes de politique del 1815
(un'opera assai diversa dai Principi di politica del 1806), che costituiscono forse la migliore
sintesi del suo pensiero politico e costituzionale. Il regime di Napoleone, come si sa, fallisce
miseramente nello spazio di poco più di tre mesi, con l'epilogo della battaglia di Waterloo.
Con il secondo ritorno di Luigi XVIII e la nuova maggioranza parlamentare composta dagli
ultras (così vengono chiamati i controrivoluzionari, sostenitori del ritorno all'Ancien Régime),
Constant si trova in grave difficoltà per la sua collaborazione con Bonaparte e, temendo per la
propria vita, decide di partire per un esilio volontario che lo porterà per undici mesi a vivere fra
Belgio e Inghilterra (ottobre 1815 – settembre 1816).
Il 5 settembre 1816 Luigi XVIII, consapevole degli irreversibili cambiamenti sociali e politici
avvenuti dal 1789 in poi, scioglie la Camera dei deputati a maggioranza ultra che nei mesi
precedenti aveva tentato in tutti i modi di sfruttare gli strumenti del governo rappresentativo per
soffocare i diritti individuali e tornare a una situazione pre-rivoluzionaria.
Il panorama politico della seconda Restaurazione è composto da tre grandi partiti. A sinistra si
collocano i cosiddetti Indipendenti (tra cui troviamo soprattutto liberali, ma anche repubblicani
ed ex bonapartisti) fautori della sovranità popolare, che, ispirati dai principi dell'Ottantanove, si
battono per i diritti individuali, per la libertà di stampa e per quella religiosa. Al centro si trovano
i “ministeriali” che appoggiano l'azione del governo e che costituiscono un partito eterogeneo i
cui esponenti maggiori sono i cosiddetti Dottrinari: un gruppo di intellettuali e politici che,
schierati in favore della monarchia costituzionale, rifiutano la sovranità popolare e si rifanno
all'idea di una sovranità della ragione (forza astratta capace di produrre diritto). A destra infine si
collocano gli ultras, i monarchici reazionari, sostenitori delle idee controrivoluzionarie teorizzate
negli anni dell'Impero da intellettuali come Joseph de Maistre, Louis de Bonald e François-René
de Chateaubriand. Costoro vogliono tornare a una situazione d'Ancien Régime, sostengono l'idea
della monarchia ereditaria e i valori tradizionali del cattolicesimo che concepiscono come
religione di Stato.
Nella nuova situazione politica, certamente più sicura e aperta alle istanze liberali, Constant
può tornare in Francia (settembre 1816) per riprendere la propria azione politica e le proprie
battaglie politico-culturali. Dirigendo diversi periodici e pubblicando numerosi scritti sempre
fortemente legati ai dibattiti politici, diviene gradualmente il capo riconosciuto degli
Indipendenti. Nel 1819, dopo aver pronunciato all'Athénée Royal il famoso Discorso sulla
libertà degli Antichi e dei moderni, viene eletto per la prima volta alla Camera dei deputati,
cominciando così a battersi per la libertà direttamente dai banchi parlamentari.
Se in una prima fase (1817-1820) Luigi XVIII è intenzionato ad accogliere varie istanze
liberali e di instaurare un vero governo rappresentativo, dopo l'attentato in cui viene ucciso un
esponente della famiglia reale per mano di un ex-giacobino (febbraio 1820), la reazione degli
ultras si fa via via più veemente. Con la salita al trono nel 1824 di Carlo X – che contrariamente
al fratello Luigi XVIII non comprende i mutamenti avvenuti negli ultimi decenni – la
Restaurazione entra in una fase decisamente più vicina a una situazione d'Ancien Régime. È
l'ultimo ministero, quello guidato da Polignac nel 1830, a esasperare le forze liberali del Paese. I
suoi tentativi di porre sotto censura la stampa, di dissolvere il Parlamento e di restringere il
suffragio causano lo scoppio della Rivoluzione di Luglio. Carlo X è costretto ad abbandonare
Parigi, ma la monarchia sopravvive con la salita al trono di Luigi Filippo d'Orleans, ramo cadetto
dei Borboni. Appoggiato dalla borghesia bancaria e dai ceti produttivi della Francia, il nuovo re
si fa promotore di una nuova costituzione che viene concepita non come concessione regia, ma
come un vero e proprio patto tra sovrano e nazione. È il trionfo dei principi liberali sostenuti da
Constant nell'arco di tutta una vita. Il liberale svizzero, benché sia ormai stanco e ammalato, si
schiera in favore del nuovo re e partecipa agli eventi del luglio 1830 aprendo in barella il corteo
dei rivoluzionari. Morirà di lì a poco, nel dicembre dello stesso anno.
2. La teoria del potere: la critica a Rousseau
Constant è il primo pensatore davvero consapevole della grande frattura che ha luogo con la
Rivoluzione francese. La sua prima preoccupazione nei Principi di politica del 1806, quindi, è
quella di ridefinire alcuni concetti-chiave della politica. Le espressioni “sovranità popolare” e
“libertà” erano state associate, a partire dall’epoca del Terrore, a una serie di misure atroci. Nel
nome di quegli ideali erano stati inflitti “patiboli e prigioni” dal giacobinismo prima, dal
bonapartismo poi. È quindi di primaria importanza per Constant analizzare e riformulare questi
principi cogliendone sia l’aspetto teorico, attraverso l’“astrattismo” di pensatori come Rousseau
e Montesquieu, sia le implicazioni e le conseguenze pratiche, attraverso il continuo riferimento ai
fatti storici. Constant individua le basi teoriche della strumentalizzazione del principio della
sovranità popolare in particolar modo nel pensiero di Rousseau di cui prende in esame i due
principi fondamentali sulla sovranità: il primo riguarda l’origine di essa, il secondo l’estensione.
2.1 Il primo principio di Rousseau: la volontà generale
«Rousseau comincia con l’affermare che ogni autorità che governa una nazione deve emanare
dalla volontà generale»2. Constant dichiara subito che non è questo il principio roussoviano che
Constant B., Principi di politica. Versione del 1806, a cura di Stefano De Luca, Rubbettino, Soveria Mannelli
2007, p. 8. D’ora in avanti si indicherà questo testo con la sigla PP1806.
2
intende contestare. Dunque si schiera apertamente in favore della volontà generale come
principio fondante della sovranità e il suo ragionamento per legittimare questa posizione è
semplice. Constant, scartando naturalmente la dottrina del diritto divino, che non discute
neanche, ritiene che «la legge deve essere l’espressione della volontà di tutti o di pochi»; ci si
chiede allora da dove derivi eventualmente il privilegio che si concede a questi pochi. Può
trovare la sua origine o nella forza o nel consenso generale. La forza però non costituisce un
diritto e se anche fosse riconosciuta come legittima, lo sarebbe in ogni caso, chiunque ne facesse
uso e ciascuno, per questo motivo, vorrebbe conquistarla. Se invece si ammette che il privilegio
dei pochi sia legittimato dal consenso di tutti, «questo potere diventa allora la volontà generale» 3.
Questo principio, secondo Constant, è indipendente dalla forma di governo di uno Stato:
«non esistono al mondo che due poteri: uno, illegittimo, è la forza; l’altro, legittimo, è la volontà
generale»4. Il principio della sovranità generale infatti «non decide nulla circa la legittimità di
alcuna forma di governo. In certe circostanze la società può volere la monarchia, in altre la
repubblica. Queste due istituzioni possono essere quindi egualmente legittime e naturali» 5.
Ci sono solamente due forme di governo (ammesso che si possa chiamarle così) illegittime
poiché nessuna società può volerle: l’anarchia e il dispotismo. Bisogna notare come Constant
ragioni dunque per principi, slegandosi dal problema delle forme di governo. Questo modus
operandi, persistente in tutti i Principes de politique, costituisce nel pensiero constantiano una
novità non da poco, che distingue i grandi trattati del periodo imperiale dalle opere giovanili
dell’epoca direttoriale in cui era palese la sua predilezione per la repubblica e in cui l’obiettivo
politico degli stessi pamphlets era di rafforzare quella forma di governo in Francia. Del resto
Constant, «verso il 1806, divenne ‘liberale’, in altre parole dissociò la problematica della forma
di governo da quella dei principi della libertà politica» 6.
Constant è consapevole di quali tragici provvedimenti richiami alla mente l’espressione
“volontà generale”: in nome di questo principio il giacobinismo aveva instaurato un governo
terribile. A questo proposito è importante sottolineare che in Constant il concetto di volontà
generale si caratterizza in maniera sensibilmente differente rispetto a Rousseau e alla
“degenerazione” giacobina.
Innanzitutto Constant identifica la volontà generale con il consenso, «inteso nel senso largo di
approvazione (tacita o espressa) da parte della società nei confronti della forma di governo
esistente»7. In questo senso dimostra di non accogliere nel suo pensiero la vera novità della
filosofia politica post-rivoluzionaria, ovvero il principio democratico. Infatti, pur facendo proprio
il principio della volontà generale, poiché riconosce come titolare dell’autorità sociale il popolo,
lo interpreta in senso “ascendente” come consenso. Il consenso non è certo una novità della
filosofia politica post-Rivoluzione, basti pensare che tutti i giusnaturalisti moderni, a partire dallo
stesso Hobbes, hanno visto in esso il principio di legittimazione del potere, un consenso insito
nella natura stessa del contratto.
Nonostante Constant dica esplicitamente di non voler contestare il primo principio di
Rousseau sulla volontà generale, è necessario tuttavia notare che quando l’autore dei Principes
de politique parla della volontà generale intende qualcosa di molto diverso rispetto al Ginevrino.
Quella di Constant può essere interpretata come una sorta di volontà della maggioranza data
dalla somma delle volontà particolari che incontrandosi e scontrandosi danno vita alla posizione
di compromesso della maggioranza. Rousseau invece rifiuta completamente il concetto di
volontà particolare e quando parla di volontà generale si riferisce a qualcosa di ben diverso dalla
volontà di tutti. Dice infatti nel Contratto sociale: «Vi è di sovente molta differenza tra la volontà
di tutti e la volontà generale: questa riguarda solo l’interesse comune, l’altra l’interesse privato e
non è che una somma di particolari volontà; ma se si toglie da queste volontà stesse quelle che
Ibidem.
Ibidem.
5
Ivi, p. 9.
6
Gauchet M., Constant, in Dizionario critico della Rivoluzione francese, Bompiani, Milano 1989, p. 865.
7
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il Termidoro e
l’Impero, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2003, p. 186.
3
4
con le loro richieste in più o in meno si eliminano tra loro, resterà come risultato della somma
delle differenze la volontà generale»8. Ciò che risulta evidente in Rousseau è il processo di
annullamento delle volontà particolari che porta alla formazione della volontà generale la quale è
espressione di una società non afflitta da particolarismi, di una società “sana”.
Nella concezione constantiana della volontà generale, al contrario, è già presente tutta
l’ispirazione “liberale” dell’autore: l’individuo non aliena il proprio particolarismo come avviene
invece per Rousseau. Da buon liberale, infatti, Constant vede positivamente il dissenso in seno
alla società, una condizione che oltre ad essere normale e fisiologica è anche auspicabile. Mentre
Rousseau interpreta il dissenso come una prova della “malattia” del corpo sociale che si
manifesta in antagonismo, conflitti e lunghe discussioni, Constant riscontra in esso lo stato di
“salute” della società.
Questa ispirazione profondamente diversa rispetto a Rousseau è riscontrabile anche nella
scelta della terminologia con cui Constant si riferisce al concetto di sovranità. Come notato da
Mauro Barberis9 e Stefano De Luca, vengono usati raramente nei Principes de politique i termini
“sovranità” o “potere sovrano”, sostituiti dall’espressione autorité sociale. Questa scelta rivela
una duplice intenzione da parte dell’autore. Innanzitutto «evidenzia la natura derivata del potere,
lasciandone trasparire la sua provenienza dal basso», in modo da contrapporla alla concezione
assolutistica del potere che domina i sudditi dall’alto. In secondo luogo, l’espressione utilizzata
«sottolinea la natura collettiva dell’autorità, rispetto alla quale la libertà si configura come
qualcosa di essenzialmente individuale»10. In questa seconda accezione si può cogliere la
diversità e la critica a coloro che, come Rousseau, intendono la libertà in senso collettivistico.
2.2. La critica al secondo principio di Rousseau: l'estensione dell'autorità sociale
Il principio della volontà generale è il punto di partenza comune ai due autori, ma è anche
rivelatore di due retroterra teorici profondamente diversi, la cui contrapposizione si manifesta nel
secondo principio, quello relativo all’estensione dell’autorità sociale.
La vera e propria critica di Constant alla concezione della sovranità di Rousseau è sviluppata
nel terzo capitolo del I libro dei Principes de politique che si apre con la citazione del secondo
assioma del Ginevrino. Questo principio, citato direttamente dal sesto capitolo del I libro del
Contrat social, racchiude in sé e sintetizza, per Constant, tutte le clausole del contratto stesso,
ovvero «l’alienazione totale di ogni associato, con i suoi diritti, alla comunità» 11.
La conseguenza derivante da questo principio è palese secondo Constant: «ne consegue che la
volontà generale deve esercitare sull’esistenza individuale un’autorità illimitata» 12. Nell’intento
di confutare il secondo principio di Rousseau, Constant parte da un’argomentazione dello stesso
autore del Contratto sociale, il quale, cercando di rassicurare i propri interlocutori sulle
conseguenze dell’alienazione totale di ogni individuo alla comunità, sostiene che «cedendo
ognuno interamente i propri diritti, la condizione è uguale per tutti e nessuno ha interesse a
renderla onerosa per gli altri» e «che ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno» 13. Inoltre tutti
i diritti che gli individui cedono alla comunità in quanto “privati”, li riprendono in quanto
“cittadini”, ovvero in quanto appartenenti al corpo sociale titolare della sovranità.
A tutte queste argomentazioni roussoviane, di chiaro sapore organicistico, basate sul principio
che il corpo sovrano «si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna», argomenti che
per di più rimangono su un piano di pura astrattezza, Constant rivolge un’obiezione di natura
pratica: infatti nel momento in cui il sovrano, ovvero il corpo sociale «dovrà procedere
all’organizzazione pratica dell’autorità sociale», non potendo esercitare in prima persona il
Rousseau J-J., Il contratto sociale, Milano, “Superbur Classici”, Bur 2000, p. 77.
Barberis M., Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, Il Mulino, Bologna 1988, p. 274.
10
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo, cit., p. 239, nota n.3.
11
PP1806, p. 12.
12
Ibidem.
13
Ivi, p. 20.
8
9
potere sarà costretto a delegarlo e quindi ogni garanzia cadrà. Dunque non è affatto vero che
«dandosi a tutti non ci si dà a nessuno», «al contrario ci si dà a coloro che agiscono nel nome di
tutti»14. Cedendo i propri diritti quindi non ci si troverà in una situazione di parità, poiché pochi,
detenendo il potere, si troveranno al di fuori della condizione comune.
L’errore commesso da Rousseau e che ha fatto sì che egli non vedesse le evidenti conseguenze
della sua dottrina, è quello di aver operato una distinzione tra i diritti della società e i diritti del
governo. Nell’accezione molto estesa in cui lo intende Rousseau, il termine “governo” sta a
significare «la riunione, non solo di tutti i poteri costituiti, ma di tutti i modi costituzionali che
hanno gli individui per concorrere, esprimendo le loro volontà particolari, alla formazione della
volontà generale»15. In questo senso ogni cittadino che nomina i propri deputati è considerato
come partecipante al governo del proprio paese. In base a questi principi la divisione tra società,
depositaria del potere, e governo, mero esecutore di esso, è puramente illusoria e pericolosa nella
pratica. La società infatti, non potendo esercitare direttamente il potere, è costretta a
delegarlo istituendo quello che comunemente si chiama “governo” (ma inteso in un’accezione
più ristretta rispetto a quella roussoviana, ovvero come potere costituito). L’atto di delega di tali
diritti dalla società al governo è necessario affinché essi possano essere esercitati, altrimenti
sarebbero diritti inesistenti. In conclusione è impossibile riconoscere certi diritti alla società
escludendo che le istituzioni governative ne possano disporre.
In definitiva, poiché la sovranità è una cosa astratta, mentre l’esercizio di essa è concreto ed è
«affidato a esseri che a differenza del sovrano, non hanno una natura astratta, è necessario
prendere delle precauzioni contro il potere sovrano, a causa della natura di coloro che lo
esercitano»16.
La necessità di limitare l’autorità sociale è fondamentale, secondo Constant, poiché se ciò non
avviene, si ha una duplice conseguenza: «da un lato, l’esistenza individuale si trova sottomessa
senza riserve alla volontà generale, mentre, dall’altro, la volontà generale si trova rappresentata
senza appello dalla volontà dei governanti» 17. In pratica il principio messo a punto da Rousseau
fa sì che coloro che compongono il corpo sociale subiscano un doppio processo di privazione
della libertà in un doppio ambito: a livello individuale, ciascuna volontà particolare è destinata
ad essere cancellata in favore della volontà generale, in favore della società, poiché gli individui
che, «dice Rousseau, hanno ceduto tutti i loro diritti al corpo sociale, non possono avere un’altra
volontà se non la volontà generale»; a livello “comunitario” invece, la società viene privata della
sua libertà a favore dei governanti, i quali «dispongono di un potere tanto più temibile in quanto
dicono di essere soltanto i docili strumenti di questa pretesa volontà e, allo stesso tempo,
possiedono i mezzi di forza o di persuasione necessari per far sì che essa si manifesti nel senso
che conviene a loro»18. Entrambe queste espropriazioni di libertà non sono solo frutto di
equivoci, ma appaiono addirittura subdole: infatti nel primo caso gli individui sono convinti che
obbedendo alla volontà generale «essi obbediscano soltanto a se stessi e sono tanto più liberi
quanto più vi obbediscono implicitamente», nel secondo caso invece sono i governanti che
dipingendosi come esecutori e strumenti della volontà generale perseguono ciò che conviene a
loro.
Il Terrore non è stato una semplicemente strumentalizzazione delle tesi roussoviane da parte
dei giacobini, ma una coerente ed inevitabile conseguenza di esse. Lo stesso Rousseau, secondo
Constant, si era reso conto delle atroci conseguenze a cui avrebbe potuto portare l’applicazione
del suo secondo principio, «terrorizzato dall’immensità del potere sociale che aveva appena
creato»19. Per uscire dall’imbarazzo in cui è venuto a trovarsi, il Ginevrino ha smontato «con una
mano quello che aveva costruito con l’altra», dichiarando cioè che «la sovranità non può essere
alienata, né delegata, né rappresentata –il che equivale a dichiarare, in termini meno chiari, che
Ibidem.
Ivi, p. 22
16
Ivi, p. 24.
17
Ivi, p. 25.
18
Ibidem.
19
Ivi, p. 32.
14
15
non può essere esercitata» 20. Non sapendo a chi affidare un «potere così mostruoso» aveva optato
per renderne impossibile l’esercizio.
2.3 Una sfera di diritti individuali inviolabili
Constant, dopo aver ribadito di accogliere pienamente il primo principio roussoviano per cui la
sovranità deve emanare dalla volontà generale, dichiara che questa non è una condizione
sufficiente a garantirne la legittimità. È sicuramente vero che la totalità dei cittadini è sovrana,
nel senso che nessuno può esercitare il potere senza che gli sia stato delegato dalla società, «ma
da ciò non segue che la totalità dei cittadini, o coloro che da questa sono investiti dell’esercizio
della sovranità, possa disporre in maniera sovrana dell’esistenza degli individui» 21.
Secondo Constant, infatti, esiste una parte dell’esistenza umana che deve rimanere
sottratta alla giurisdizione della sovranità, una porzione della vita di ciascun individuo che
resta indipendente dall’esercizio del potere. Se l’autorità oltrepassa questo limite «si rende
colpevole di tirannia non meno del despota che ha per titolo soltanto la spada sterminatrice» 22.
Quando l’autorità sociale estende la propria competenza a materie che sono al di fuori del suo
ambito, essa diventa illegittima. In questo senso, passa in secondo piano da dove tale sovranità
dichiari di derivare, cioè non importa se essa esprima la volontà di un individuo o di una nazione
intera: se oltrepassa i propri confini diventa usurpatrice e illegittima. Come detto, è questa la
novità fondamentale della teoria constantiana sulla sovranità: la consapevolezza che, a livello
teorico, non si debba più agire sulla derivazione dell’autorità sociale, ma piuttosto ci si debba
concentrare sulla definizione e sulla delimitazione degli ambiti di competenza dell’autorità.
Ciò significa che è necessario delimitare a priori il potere, bisogna cioè distinguere tra
materie sulle quali la legge può pronunciarsi e materie sulle quali non può farlo. Se non si
procede a questo tipo di delimitazione, risulta assolutamente inutile suddividere formalmente il
potere, iscrivendolo in un sistema di pesi e contrappesi, secondo la teoria proposta da
Montesquieu. Constant, infatti, ritiene che «la reciproca sorveglianza dei diversi poteri dello
Stato è utile soltanto per impedire a uno di questi di ingrandirsi a spese degli altri» 23. La somma
dei diversi poteri però sarà illimitata se a queste autorità è permesso intervenire in tutti gli ambiti.
Constant è quindi convinto che si debba procedere ad una «limitazione astratta dell’autorità
sociale». Certo, ammette, «la limitazione astratta dell’autorità sociale rimarrebbe senza dubbio
una ricerca sterile, se in seguito – nella concreta organizzazione del governo – non le si dessero
le garanzie di cui ha bisogno»24, facendo riferimento a quel sistema costituzionale oggetto del
suo dei Fragments d'un ouvrage abandonné sur la possibilité d'une constitution républicaine
dans un grand pays in cui viene elaborato uno dei contributi più importanti del pensiero
constantiano, ovvero la teoria del potere neutro. Come ha appena dimostrato, però, queste
tecniche costituzionali 25 non sono sufficienti se non si ricorre ad una limitazione teorica.
Per stabilire dove porre i limiti dell’autorità sociale Constant segue due strade complementari:
in primo luogo traccia una definizione delle funzioni statuali stabilendo i cosiddetti “diritti
sociali”, in secondo luogo oppone al governo, come confine invalicabile, i diritti individuali.
Nel primo caso si tratta di limiti artificiali, cioè che scaturiscono dalle finalità e dalle
funzioni per cui lo stato si costituisce. Esso infatti nasce per garantire la sicurezza interna ed
esterna degli individui, pertanto «l’autorità sociale deve essere incaricata soprattutto di reprimere
Ibidem.
PP1806, p. 37.
22
Ibidem.
23
Ivi, p. 44.
24
Ivi, p. 46.
25
In questa Introduzione la teoria costituzionale non viene affrontata. Si rimanda al volume G. Sciara, La solitudine
della libertà. Benjamin Constant e i dibattiti politico-costituzionali della prima Restaurazione e dei Cento Giorni ,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, parte prima.
20
21
i disordini e di respingere le invasioni» 26. Per far ciò, deve avere il diritto di emanare leggi penali
contro i crimini e di formare un esercito, compiti che presuppongono che gli sia conferito anche
il diritto «di imporre agli individui il sacrificio di una parte della loro proprietà privata per
sostenere le spese richieste…»27. Constant ha dunque tracciato la sua concezione di stato
minimo: le sue funzioni sono di reprimere i crimini, difendere i confini dello Stato dalle
aggressioni esterne e imporre una certa quota di tasse. Questi sono i compiti che lo Stato
deve assolutamente garantire, perché non può esistere una società in cui i delitti rimangano
impuniti o che non riesca ad opporsi ad un’aggressione nemica. Lo Stato non può prescindere da
ciò, ma può fermarsi a questi soli compiti.
Tuttavia, il vero limite all’autorità sociale viene stabilito per sottrazione, detraendo da essa i
diritti individuali: compete alla società quel poco che non rientra nella sfera dei singoli.
All’interno della sfera individuale, Constant distingue tra i diritti inalienabili e quelli che è utile e
opportuno garantire. I primi consistono
nella facoltà di fare tutto ciò che non nuoce agli altri, ovvero nella libertà d’azione; nel diritto di non essere
costretti ad alcuna professione di fede di cui non si sia convinti (fosse anche quella della maggioranza), ovvero nella
libertà religiosa; nel diritto di manifestare il proprio pensiero con tutti i mezzi di espressione, a condizione che
ciò non rechi danno ad alcun individuo e non provochi alcuna azione colpevole; infine, nella certezza di non essere
trattati arbitrariamente, come se si fossero oltrepassati i limiti dei diritti individuali, vale a dire nella garanzia di
non poter essere arrestati, detenuti o giudicati se non secondo le leggi e nel rispetto delle forme.
Tra i diritti che è utile e opportuno garantire, Constant annovera le libertà economiche, poste
su un piano subordinato rispetto ai diritti inalienabili appena descritti. I diritti politici, infine, non
sono concepiti da Constant come una vera e propria libertà. Essi, consentendo agli individui di
partecipare alla formazione della volontà generale, sono il mezzo di espressione della sovranità e
sono collegati alla proprietà privata 28.
3. Libertà degli Antichi e libertà dei Moderni
Per comprendere a pieno tanto la critica a Rousseau, quanto le concezioni di sovranità e di
libertà di Constant, è necessario ripercorre l'altro caposaldo del suo pensiero politico: la
distinzione tra libertà degli Antichi e libertà dei Moderni. La prima formulazione di questa teoria
nei testi constantiani, si trova nel libro XVI dei Principes de politique, intitolato De l’autorité
sociale chez les anciens. Questa dottrina che si delinea già dal 1798 nel De circostances
actuelles di M.me de Staël, cui Constant collabora, verrà ripresa in due opere della
Restaurazione, il De l'esprit de conquête et de l'usurpation e il celebre discorso del 1819 De la
Liberté des Anciens et des Modernes. In questa sede ci si concentrerà prevalentemente sulla
formulazione datane nei Principes de politique che rimane sostanzialmente la stessa anche nelle
opere seguenti. Nel tentativo di analizzare in maniera più precisa come l’autore delinei il
rapporto tra le due libertà si farà anche riferimento ad alcuni passi del Discorso sulla libertà
degli Antichi paragonata a quella dei Moderni, in particolare alle ultime pagine della conferenza
del 1819 in cui Constant rivendicando la necessità della libertà politica, sembra apparentemente
aprirsi ad istanze democratiche.
3.1.
Le differenze tra Antichi e Moderni
Secondo Constant sono state sottovalutate «le molte differenze che, distinguendoci nettamente
PP1806, p. 49.
Ibidem.
28
Anche di questo aspetto si tratta in maniera più approfondita nel mio volume La solitudine della libertà, cit.,
parte quarta, cap. 11, par. 3.
26
27
dagli antichi, rendono quasi tutte le loro istituzioni pressoché inapplicabili ai giorni nostri» 29;
poiché tale sottovalutazione ha contribuito più di quanto non si pensi ai mali della Rivoluzione, è
necessario mettere a fuoco le differenze tra sistema antico e moderno, o meglio tra la libertà
intesa alla maniera delle città-stato antiche e la libertà delle società moderne.
La prima delle cinque differenze che Constant individua riguarda le dimensioni delle
Repubbliche antiche, elemento che influiva in maniera decisiva sulla configurazione della tipica
libertà di cui i cittadini godevano all’interno dei confini della città-comunità. Da questa
considerazione si è quasi sempre dedotto che la repubblica non è un sistema adatto agli Stati di
grandi dimensioni, mentre ci si sarebbe dovuti concentrare su un’analisi approfondita del tipo e
del grado di libertà degli individui. L’esiguità del territorio, infatti, faceva sì che «ogni cittadino
avesse, politicamente, una grande importanza» 30. L’esercizio dei diritti politici, la partecipazione
ai processi e alle riunioni sulla pubblica piazza costituivano un autentico godimento ed erano
un’occupazione costante per tutti. In questo modo il ruolo di ciascun cittadino «nell’esercizio
della sovranità non era – come ai giorni nostri – una supposizione astratta», poiché la volontà del
popolo «aveva un’influenza reale e non era suscettibile di contraffazioni menzognere e di
rappresentazioni abusive»31. Anche qualora l’autorità sociale fosse stata oppressiva, ogni
cittadino avrebbe potuto consolarsi sapendo che ne deteneva direttamente una parte. Oggi,
invece, la massa di cittadini è chiamata a esercitare la sovranità solo «in modo illusorio». Il
popolo, che sia schiavo o libero, in ogni caso non governa mai. Per questo motivo la felicità dei
cittadini negli Stati moderni non risiede più «nel godimento del potere, ma nella libertà
individuale»32. Questa prima differenza provoca un duplice effetto nella caratterizzazione della
società moderna: da una parte impone l’adozione del sistema rappresentativo che era ignoto agli
Antichi, dall’altra produce uno spostamento degli interessi degli individui dalla sfera pubblica a
quella privata. Inoltre, nel delineare questa prima argomentazione, Constant ha una concezione
prettamente realistica della democrazia moderna, ritenendo che «in una società di grandi
dimensioni il principio della sovranità popolare è largamente illusorio, perché ad esercitare
effettivamente il potere sono sempre delle minoranze» 33.
La seconda differenza è legata al diverso posizionamento della società antica e di quella
moderna nel lungo percorso della civilizzazione e riguarda la natura bellicosa dei popoli
antichi rispetto al diffuso pacifismo dei Moderni. Anche in questo caso, Constant si propone
di rimanere su un piano di descrizione realistica delle due società senza abbandonarsi a giudizi
soggettivi, ma tenendo conto di fattori sostanzialmente oggettivi. Le popolazioni antiche,
«pressoché prive di relazioni reciproche», risiedevano in territori limitati e semplicemente per
necessità, se non altro di difesa, erano costretti a «garantirsi la sicurezza, l’indipendenza,
l’esistenza stessa»34 con la guerra. Nei tempi moderni invece «tutto è calcolato per la pace» 35.
Nell’epoca antica ogni popolo costituiva una famiglia isolata, nemica fin dalla nascita delle altre;
nell’era moderna invece esiste una massa di uomini, omogenea per natura, a cui la guerra è di
peso e che tende uniformemente verso la pace. La permanenza della tradizione bellicosa in
diversi governanti fa sì che questa tendenza al pacifismo abbia subito un rallentamento. Tuttavia,
se la guerra in alcuni casi è ancora la passione dei governanti, non è sicuramente quella dei
governati. I detentori del potere devono trovare giustificazioni per poterla intraprendere, senza
invocare motivazioni tipicamente antiche come la ricerca della gloria o l’aspirazione a nuove
conquiste. Insomma, «la guerra non esiste più come scopo, ma soltanto come mezzo» 36. Gli scopi
della specie umana sono ben altri: la tranquillità e il benessere da conseguire attraverso il lavoro.
Appare evidente in questa argomentazione il riferimento all’anacronismo del regime
PP1806, p. 468.
PP1806, p. 469.
31
Ibidem.
32
Ivi, p. 470.
33
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo, cit., p. 229.
34
PP1806, p. 471.
35
Ivi, p. 472.
36
Ivi, p. 473.
29
30
napoleonico, il quale sulla falsariga degli Stati antichi persegue conquiste militari e glorie
belliche che catturano l’interesse soltanto dei detentori del potere e non dei sudditi.
La terza differenza, anch’essa legata all’attitudine esterna della comunità antica e di quella
moderna, riguarda l’esistenza del commercio. Nessuna delle Repubbliche antiche prese a
modello era dedita al commercio, prerogativa invece della società moderna. Se gli Antichi si
situano nell’età della guerra, i Moderni si situano in quella del commercio. Dal punto di vista
storico, la guerra ha dovuto precedere il commercio. Entrambi, infatti, sono «mezzi diversi per
giungere al medesimo scopo, che è e sarà sempre lo scopo dell’uomo: assicurarsi il possesso di
ciò che gli sembra desiderabile»37. Il commercio non è altro che il desiderio di ottenere in modo
amichevole ciò che non speriamo più di conquistare con la violenza. L’esperienza della guerra,
che espone l’uomo a resistenze e sconfitte, infatti, ha permesso di capire che è preferibile
ricorrere al commercio. L’intuizione della negatività della guerra e il ricorso al commercio per
l’acquisizione di beni sono la dimostrazione della capacità umana di perfezionarsi nel corso dei
secoli.
Tuttavia, al di là delle componenti legate alla civilizzazione, da questa caratterizzazione socioeconomica delle culture antica e moderna derivano alcune conseguenze di natura politica che
influiscono sulla determinazione del concetto di libertà e su quello di autorità sociale. La guerra,
infatti, «esige l’esistenza di una forza pubblica più estesa» e «più attiva» 38. Affinché abbia
successo, la guerra necessita di un’azione comune, mentre in tempo di pace «ognuno ha bisogno
soltanto del suo lavoro, della sua intraprendenza, delle sue risorse individuali» 39. Dei frutti della
guerra si gode collettivamente, dei frutti della pace individualmente. Poiché l’autorità sociale è
più estesa, «i popoli bellicosi, di conseguenza, sopportano più facilmente dei popoli pacifici la
pressione dell’autorità sociale. I primi si propongono, con le loro libere istituzioni, di impedire
che degli usurpatori si impadroniscano del potere collettivo, il quale appartiene alla società nella
sua totalità. I secondi vogliono, oltre a ciò, limitare il potere in se stesso, affinché non li disturbi
nelle loro speculazioni e nei loro godimenti. Gli uni dicono ai governi: guidateci alla vittoria e
per assicurarcela sottometteteci alle severe leggi della disciplina. Gli altri dicono: proteggeteci da
ogni violenza e per il resto non occupatevi di noi»40.
La quarta differenza risiede in un istituto che Constant considera peculiare della società antica
non soltanto dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista economico e morale: si tratta
della schiavitù. In questo caso l’autore dei Principes abbandona il tono descrittivo e “oggettivo»
delle precedenti argomentazioni per caratterizzare in modo estremamente negativo i popoli
antichi. L’esistenza di schiavi, cioè di uomini che non godono di nessuno dei diritti dell’umanità,
«trasforma del tutto il carattere di un popolo» 41 rendendolo disumano. Nel mondo antico erano
numerosissimi gli esempi di spietatezza nei confronti degli schiavi. L’assenza di schiavitù, presso
i Moderni, ha dunque reso i costumi più umani. Inoltre la schiavitù permetteva ai cittadini delle
poleis greche di non lavorare e di potersi dedicare agli affari pubblici, al contrario di quanto
succede nelle società moderne. L’istituto della schiavitù, nelle Repubbliche antiche, era una delle
precondizioni per quella «ipertrofia della vita politica» cui «corrisponde inevitabilmente l’atrofia
della vita economica»42, rapporto che si ripropone invertito nelle società moderne, in cui
l’assorbente politicità lascia il posto, anche grazie all’abolizione della schiavitù e alla necessità di
lavorare, agli interessi, per lo più economici, della sfera privata.
L’ultima differenza tra Antichi e Moderni riguarda la dimensione morale della specie umana.
Se i primi infatti «erano nel pieno della giovinezza della vita morale; i moderni sono nella
maturità, forse nella vecchiaia»43. Basti pensare alla poesia: quella degli Antichi è semplice e
diretta, frutto del loro entusiasmo naturale e completo. I poeti moderni invece si portano dietro
Ivi, p. 475.
Ivi, pp. 473-74.
39
Ivi, p. 474.
40
Ibidem.
41
Ivi, p. 480.
42
Sartori G., Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1957, p. 159.
43
PP1806, p. 482.
37
38
una certa «riserva mentale» che nasce dall’esperienza e da una perdita dell’entusiasmo. Nei loro
componimenti la riflessione ha sostituito l’entusiasmo. Le stesse considerazioni valgono per la
filosofia, entusiasta quella antica anche quando astratta, arida quella moderna anche quando
cerca di essere entusiasta:«vi è della poesia nella filosofia degli antichi e della filosofia nella
poesia dei moderni»44. In definitiva, gli Antichi erano meno consumati dalla civilizzazione, i
Moderni, «affaticati dall’esperienza, hanno una sensibilità più malinconica e, per ciò stesso, più
delicata, una maggiore capacità di commuoversi» 45.
Questo cambiamento antropologico è dovuto al progresso della civilizzazione. Esso ha
addolcito il carattere dell’individuo, ha reso le relazioni private più sicure, facendone una parte
importante della vita umana, in pratica ha attenuato la parte di istintività e di immediatezza
dell’uomo accentuandone la sensibilità, la riflessività e la predisposizione a concentrarsi sulla
parte privata dell’esistenza. Da tutto ciò deriva che l’uomo moderno non può credere ciecamente
in istituzioni che si compongono «di tradizioni, precetti, usi e pratiche misteriose» e «leggi
positive»46. Constant sottolinea a più riprese che la civiltà umana ha fatto il suo ingresso «nell’età
del dubbio e del disincanto» 47, nell’età della ragione. Questo rende impossibile rifondare un
popolo moderno attraverso le istituzioni, le quali hanno forza solamente quando diventano
un’abitudine, non al momento della loro instaurazione. Non è pensabile dunque istituire nuovi
valori attraverso le istituzioni, cioè non si può ‘rimodellare’ un popolo attraverso imposizioni
dall’alto: ciò può avvenire soltanto gradualmente nel tempo.
Nella riflessione constantiana si assiste quindi ad un ridimensionamento del ruolo della
politica nella società moderna: essa deve limitarsi a garantire la libera espressione del carattere
individuale caratterizzato da una forte inquietudine e sensibilità, dall’essere in preda al dubbio. È
questa una condizione non «da superare per via politica o filosofica, ma una condizione che va
accettata così com’è, un frutto inevitabile (e non sempre negativo) di quella civilizzazione così
ricca di risultati positivi sotto molti altri aspetti» 48.
3.2.2.
Le due libertà
Dopo aver messo a fuoco le numerose differenze che rendono incolmabile la distanza tra
Antichi e Moderni, Constant può tirare le somme delle sue considerazioni e definire
sinteticamente le due libertà:
il risultato di tutte queste differenze è che la libertà non può essere presso i moderni quel che era presso gli
antichi. La libertà dei tempi antichi era tutto ciò che assicurava ai cittadini la più ampia partecipazione
possibile all’esercizio del potere sociale. La libertà dei tempi moderni è tutto ciò che garantisce l’indipendenza
dei cittadini dal potere49.
Come dimostrato, la caratterizzazione delle due libertà dipende dal carattere e dal
temperamento di Antichi e Moderni: ai primi, bisognosi soprattutto di agire, si addiceva una
grande estensione dell’autorità sociale, cui partecipavano direttamente. I secondi necessitano
invece semplicemente di tranquillità e di godimenti, resi possibili da un ristretto numero di leggi.
Dunque «non bisogna esigere dai popoli moderni l’amore e la devozione per la libertà politica
che avevano gli antichi; è la libertà civile che gli uomini della nostra epoca prediligono sopra
ogni altra cosa»50. Per questo l’uomo moderno non può più tollerare determinate tipologie di
leggi come quelle sui costumi, sul celibato, sull’oziosità, poiché esse «presuppongono un
Ibidem.
Ivi, p. 483.
46
Ivi, p. 283-84.
47
Barberis M., Benjamin Constant, cit., p. 308.
48
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo, cit., p. 234.
49
PP1806, p. 485.
50
Ibidem.
44
45
asservimento dell’individuo al corpo sociale che noi non potremmo più sopportare» 51.
La libertà politica offre nel mondo moderno meno godimenti rispetto al passato, mentre può
causare dei danni sempre meno tollerabili: «di conseguenza, dobbiamo conservarne soltanto ciò
che è assolutamente necessario»52. Non si può pretendere, come hanno fatto i giacobini, di
«consolare gli uomini con la libertà politica per la perdita della libertà civile» 53 poiché questo
significherebbe andare nel senso opposto a quello del genere umano.
Constant, nel ricercare le differenze che separano Antichi e Moderni, cerca di mettere in luce
non che il mondo greco non abbia goduto di una particolare libertà definibile come “civile”, ma
che non «abbia conosciuto quel concetto di libertà del singolo che si può riassumere nella
formula del ‘rispetto dell’individuo-persona’», che è un’acquisizione successiva, «di origine
cristiana e di elaborazione giusnaturalistica e liberale» 54. Sono le acquisizioni di valore che
intercorrono e separano storicamente Antichi e Moderni a determinare un diverso modo di
concepire l’idea di libertà. La distinzione tra libertà antica e moderna non sta dunque ad indicare
che gli Antichi conoscessero la libertà politica e non la libertà civile, ma che l’idea di libertà
politica, civile, giuridica, individuale degli Antichi non è quella dei Moderni. D’altronde le
argomentazioni di natura geografica e ambientale, ma soprattutto di natura morale, psicologica e
attitudinale, dimostrano che Constant non rivolge un rimprovero agli Antichi per non aver
conosciuto la libertà civile, ma è convinto che necessariamente essi non avrebbero potuto
conoscere che quel tipo di libertà. Il concepire un certo tipo di libertà scaturisce dal differente
sacrificio cui sono disposti i Moderni rispetto agli Antichi: i primi, perfezionatisi nel corso dei
secoli verso una maggiore individualità, non sono più disposti ad immolare una cospicua parte
della propria sfera privata in favore dell’autorità sociale.
Constant non intende concepire e affermare una giustapposizione tra l’epoca antica e quella
moderna, ma piuttosto intenda presentare la libertà politica come garanzia della libertà civile.
Il suo pensiero sarebbe male interpretato se si tentasse di dedurre dalle sue conclusioni argomenti
contro la libertà politica. La conseguenza che bisogna trarne è che non si deve «indebolire la
garanzia, ma che è necessario estendere il godimento. Non è alla libertà politica che voglio
rinunciare – scrive Constant – ma è la libertà civile che reclamo insieme ad altre forme di libertà
politica»55.
Il problema della relazione tra libertà civile e libertà politica viene a coincidere
inevitabilmente con la questione del rapporto tra liberalismo e democrazia. Libertà antica e
moderna si configurano come due tipi di libertà filosoficamente distinte (così come distinte sono
le istanze democratiche e liberali), anche se non si può ridurre la portata teorica delle tesi
constantiane soltanto a questo aspetto, come hanno tentato di fare, per opposti motivi, le
interpretazioni à la Berlin e quelle di ispirazione marxista.
La relazione che intercorre tra i due concetti viene parzialmente chiarita nel XVII libro dei
Principes de politique. Nel terzo capitolo del libro XVII Constant scrive:
Coloro che vogliono sacrificare la libertà politica per godere più tranquillamente della libertà civile non sono
meno insensati di coloro che vogliono sacrificare la libertà civile nella speranza di assicurare ed estendere
maggiormente la libertà politica. I secondi sacrificano il fine ai mezzi; i primi rinunciano ai mezzi, con il pretesto di
raggiungere il fine.
Dunque Constant, così come denuncia i rischi derivanti dall’anacronistica tendenza di imporre
esclusivamente la libertà antica, di natura esclusivamente collettiva e politica, allo stesso modo
mette in guardia dal pericolo derivante dall’interpretare la libertà moderna esclusivamente in
senso privatistico: entrambe le libertà contengono una potenziale pericolo. L’autore dei Principes
pare anticipare motivi tocquevilliani quando afferma che il disinteresse dei cittadini nei confronti
della politica non è altro che un’ulteriore arma di oppressione in mano ai detentori del potere. Le
Ivi, pp. 486-87.
Ivi, p. 489.
53
Ibidem.
54
Sartori G., Democrazia e definizioni, cit., p. 166.
55
Ivi, p. 490.
51
52
tesi constantiane, infatti, sembrano individuare «un inedito ‘dispotismo dei Moderni’, che viene a
configurarsi come il rovescio del ‘dispotismo degli Antichi’» 56. Se in entrambe le libertà, prese in
maniera esclusiva, è insito il pericolo del dispotismo, a Constant non resta altra strada che
affermare l’esigenza, non di mettere in contrapposizione libertà antica e moderna, ma di
integrarle conferendo alla prima lo status di «garanzia» della seconda.
Ciò che risulta evidente da questa analisi è che, sebbene Constant concentri gran parte delle
sue argomentazioni sull’obiettivo di delineare in maniera netta le differenze tra libertà antica e
libertà moderna, intese rispettivamente come libertà-partecipazione e libertà-indipendenza,
egli si premura di evidenziarne la necessità di integrazione. La libertà civile non può sussistere
per lungo tempo se non si accompagna alla libertà politica, la quale permette di controllare e
limitare il potere. La libertà politica è tale solo se si accompagna alle libertà civili, senza le quali
«l’individuo è privo di quella indipendenza che gli permette di formarsi libere convinzioni» 57.
Tuttavia, la relazione instaurata da Constant tra le due libertà è concepibile solamente se si
mette a fuoco e si comprende cosa intenda realmente l’autore per “libertà politica”: infatti,
sebbene la identifichi con la libertà-partecipazione degli Antichi, le attribuisce nella modernità
una valenza alquanto diversa. L’autore dei Principes la definisce come «la facoltà di essere felici
senza che alcun potere umano possa turbare arbitrariamente questa felicità» 58. Per comprendere
pienamente il tipo di relazione istituita tra le due libertà e la reale dimensione della libertà
politica, infatti, è necessario assumere una definizione di democrazia intesa non come «esercizio
in proprio e in questo senso diretto del potere», ma come «sistema di controllo e di limitazione
del potere»59. Insomma bisogna assumere un concetto di democrazia inteso alla maniera
moderna, ovvero come democrazia rappresentativa e non nel senso degli Antichi come
democrazia diretta. Infatti, se la democrazia fosse intesa alla maniera antica sarebbe
assolutamente improponibile stabilire un’integrazione tra libertà politica (come partecipazione
diretta) e libertà civile (come indipendenza), poiché «l’autogoverno, quello vero, quello che
praticavano i Greci, comporta una totale devozione del cittadino al pubblico servizio» 60.
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Bobbio N., Liberalismo e democrazia, F. Angeli, Milano 1984.
De Luca S., Il pensiero politico di Benjamin Constant, Laterza, Roma-Bari 1993.
De Luca S., Benjamin Constant teorico della modernità, in “Bollettino telematico di filosofia politica” al
link: http://bfp.sp.unipi.it/constbib/index.html
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il
Termidoro e l'Impero, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2003.
Sartori G., Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1957.
Per una bibliografia maggiormente esaustiva si rimanda al seguente link: http://bfp.sp.unipi.it/constbib/constbib.htm
Per domande e richieste di chiarimento potete contattarmi al seguente indirizzo: [email protected]
De Luca S., Alle origini del liberalismo contemporaneo, cit., p. 236.
Ibidem.
58
PP1806, p. 510.
59
Sartori G., Democrazia e definizioni, cit., p. 156.
60
Ivi, p. 159.
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57
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Introduzione al pensiero politico di Benjamin Constant