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Grandi Manuali Newton
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Titolo originale: How I Said Bah! to Cancer
© 2011 Stephanie Butland
Traduzione dall’inglese di Michela Gregoris
Prima edizione: aprile 2012
© 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3700-4
www.newtoncompton.com
Stampato nel mese di aprile 2012 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti
da foreste controllate, nel rispetto delle normative ambientali vigenti.
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Stephanie Butland
Come ho sconfitto
il cancro
Una storia vera
Prefazione di Edward De Bono
Newton Compton editori
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Per Alan, Ned e Joy, senza i quali non esisterei.
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Non sarei morta di cancro. Quel nodulo duro che spuntava
sopra il reggiseno, pur essendo aggressivo, era abbastanza
piccolo da poter essere fermato, io ero giovane e forte, e per il
resto godevo di ottima salute.
Tutti i segnali erano positivi. Frasi come «sei stata fortunata»
e «l’abbiamo preso in tempo» mi venivano lanciate addosso
come chicchi di riso a un matrimonio. No, non sarei mai morta
di cancro. Ma fin dall’inizio, il mio obiettivo non è stato solo
quello di sopravvivere al male. No. L’avrei mandato al diavolo. E ora, per favore, fatelo anche voi.
Cancro?
Al diavolo!
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Prefazione
Stephanie è stata un’eccellente divulgatrice dei miei metodi,
come il pensiero laterale (Lateral Thinking™) e la tecnica dei
sei cappelli per pensare (Six Thinking Hats®). Per essere brava
come lei, una formatrice deve comprendere a fondo le tecniche
che spiega.
Sono davvero felice di sapere che Stephanie ha trovato di
grande aiuto il pensiero positivo e creativo nella sua battaglia
contro la malattia.
Da molti anni l’atteggiamento mentale e il pensiero sono
ritenuti fattori decisivi nella lotta contro il cancro. Stephanie
racconta che nel suo caso è stato proprio così. Mi congratulo
con lei per averlo dimostrato. E spero che la sua esperienza
possa essere d’ispirazione ad altre persone.
Edward de Bono
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Introduzione
AL DIAVOLO IL CANCRO!
Poco dopo l’operazione, la mia amica Jude mi ha spedito una cartolina con su scritto a caratteri cubitali: “… e al
diavolo il cancro!”. Tutti quelli che l’hanno letta, me compresa, hanno ripetuto sorridendo: «Al diavolo il cancro!».
Credo sia il tono scanzonato, leggero, di quell’espressione a
piacermi tanto. Anche se forse in vita mia non ho mai usato
quelle parole, è il tipo di esclamazione che presumo potrebbe
sfuggirmi se, dopo essere salita in treno per un lungo viaggio,
mi accorgessi di non avere portato un libro, o se mi rendessi
conto, appena giunta in spiaggia, di avere dimenticato le infradito. Insomma, un’espressione adatta a situazioni di scarsa
importanza. Meritano di essere mandati al diavolo i fastidi
passeggeri, quelli che si dimenticano in fretta, o si trasformano rapidamente in aneddoti divertenti. Nei mesi successivi alla diagnosi di cancro al seno, quando parlavo di questa
brutta malattia sul mio blog o nella vita reale, l’espressione
al diavolo! si è tradotta in quattro attività: pensare, ridere,
vivere e danzare.
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Come ho sconfitto il cancro
QUESTO LIBRO FA PER VOI SE…
Questo libro fa per voi se volete mandare al diavolo il cancro, sia che abbiate appena messo piede in pista sia che siate
ormai giunti alla fine del ballo. Vi racconto ciò che è accaduto
a me: quel che ho imparato e gli errori che credo di aver commesso. Questo libro vi offre nuovi modi di pensare a ciò che
sta accadendo nella vostra vita. È ricco di idee pratiche e consigli utili su quali siano l’atteggiamento mentale, le domande
e il comportamento che vi permetteranno di ottenere i risultati
migliori.
Questo libro fa per voi se una persona che amate ha iniziato
la sua danza con il cancro. Vi aiuterà a gettare una luce su ciò
che la vostra compagna o il vostro compagno, amico, familiare
o collega sta passando. Vi offrirà idee su come aiutarlo, e vi
permetterà di capire meglio le sue scelte. E potrebbe rispondere a certe domande che magari preferite evitare di porre in
modo diretto.
Chiunque voi siate, spero che questo libro sia per voi una
guida, una fonte di informazioni e un amico. Spero che vi aiuti
a pensare in modo diverso, a ridere un po’, a vivere bene e
comprendere meglio.
Chiunque voi siate, vi auguro ogni bene. Ve lo auguro davvero di cuore.
PENSARE
Quando scopri di avere il cancro, entri in un mondo in cui
il corpo regna sovrano. Ogni genere di macchinario viene usa-
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Introduzione
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to per osservare l’insidia che si nasconde sotto la tua pelle.
Ti viene prelevato il sangue, ti vengono svuotate le vene, ci
sono persone che tracciano segni sul tuo corpo, lo pennellano
con tintura di iodio e lo aprono. Parti di te che non ti davano
alcun pensiero – i capelli, le unghie, l’intestino, le cavità del
naso e della bocca – iniziano a comportarsi in modo diverso,
provocano in te turbamenti e dolore. Per questo diventa facile
concentrarsi solo sul corpo. Ma per me, la parte più importante
è sempre stata la mente.
A meno che non abbiate un cancro al cervello, la vostra
mente non è malata. E la mente è potente, molto potente.
Guarire dalla depressione mi ha fatto capire che è ciò che io
penso della mia vita, e non la vita in sé, a rendermi felice o
infelice. Quando ho insegnato per la prima volta a un gruppo
di persone disoccupate da molto tempo, ho compreso il potere
di una profezia che si autoavvera: chi diceva che non avrebbe mai più trovato un impiego non riusciva effettivamente a
trovarlo.
Ora lavoro con la mente. Il dottor Edward de Bono è la massima autorità a livello globale in materia di tecniche di pensiero. Io sono una dei circa cinquanta formatori attivi in tutto il
mondo che divulgano i suoi metodi sulla creatività e sul pensiero parallelo. Nel mio lavoro ho la prova costante che vedere le cose da una prospettiva differente può improvvisamente
risolvere un problema o mutare una decisione. Quindi so con
certezza quanto sia importante la mente.
Ho lavorato con un gruppo di persone che non riusciva a
decidere a chi assegnare una posizione di rilievo all’interno
della loro organizzazione. Alcuni metodi di pensiero hanno
permesso loro di rendersi conto che si stavano concentrando
sul problema sbagliato. La domanda non era: «Dovremmo pro-
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muovere x oppure no?», ma: «Cosa stiamo facendo all’interno
dell’organizzazione per avere abbastanza persone in gamba da
far crescere e promuovere?». Quella riunione terminò con una
revisione radicale della loro strategia di formazione e sviluppo aziendale. In un’altra occasione ho lavorato con un dipartimento del governo britannico che non riusciva a risolvere
un problema. Nella decisione erano coinvolti trentacinque funzionari, e ognuno di loro aveva un’idea diversa, finalizzata a
soddisfare la propria area di interesse. Grazie a un approccio
mentale differente, in meno di due ore si è giunti a una decisione e si è delineata una strategia. In un altro caso, ho aiutato
una multinazionale a scegliere di modernizzare e ridurre il suo
sistema di supporto informatico, facendole risparmiare milioni. Una prodezza non da poco, considerato che il direttore del
reparto informatico in persona era presente e non aveva uno
sguardo incoraggiante! Di solito, un gruppo che impiega le
strategie di de Bono dimezzerà il tempo dedicato alle riunioni,
abbandonando discussioni, strategie protezioniste e interminabili aneddoti, per lasciare spazio a un nuovo modo di pensare.
In genere noi crediamo di riflettere così come respiriamo:
istintivamente, senza sforzo, senza bisogno che qualcuno ci
insegni a farlo. Ed è vero, ma solo fino a un certo punto. È
ovvio che non abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni
a respirare. O forse sì? Se prendiamo lezioni di nuoto, partecipiamo a un corso sulle strategie per parlare in pubblico,
impariamo a cantare o a fare yoga, la prima cosa che dobbiamo apprendere è come respirare meglio, perché solo così
otterremo risultati migliori. Lo stesso vale per il pensiero.
Sì, tutti sappiamo pensare… ma se impariamo alcuni metodi
per farlo meglio, diventeremo molto più efficienti. Il dottor
de Bono afferma che «il modo in cui pensiamo non deter-
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mina la nostra intelligenza, così come la potenza di un’auto
non ha nulla a che vedere con l’abilità del guidatore». Ne ho
la prova ogni giorno nella mia vita professionale, e anche in
quella privata.
Perciò, quando mi è stato diagnosticato un cancro al seno, ho
ascoltato parola per parola quello che mi sarebbe successo; ho
letto opuscoli dedicati alla dieta e agli ormoni, che spiegavano
anche come legarsi un foulard attorno alla testa per coprire la
calvizie… Ma in realtà ero in attesa di qualcuno che mi parlasse
dell’atteggiamento mentale, delle strategie di pensiero. Certamente, mi dicevo, il modo in cui penso al cancro influirà moltissimo su come lo affronterò, e forse persino sulla guarigione…
Di sicuro chi pratica la professione medica sa bene quanto sia
importante il pensiero, e tuttavia nessuno ne parlava. Così mi
sono concentrata sulle tecniche di de Bono e ho notato che funzionavano: ho deciso di pensare in maniera diversa, conscia del
fatto che, cambiando il mio modo di pensare, anche il problema
sarebbe cambiato. Se ragionavo in modo efficace, avrei trovato
delle soluzioni e avrei affrontato meglio la situazione.
A questo punto mi preme chiarire una cosa: proprio come
non credo che una bacca rara possa rappresentare una valida
cura per il cancro, non intendo affermare che pensare in modo
migliore permetta di guarire. La vita non è così semplice, nonostante ci siano persone che vogliono farvelo credere (e io vi
consiglio di starne alla larga). Non credo nemmeno che chi è
morto di tumore sarebbe sopravvissuto se avesse pensato in
maniera differente. Sono convinta, però, che si possa scegliere
su quali idee concentrarsi, e che il modo in cui utilizziamo la
nostra mente sia importante. E sono anche certa che la mia
esperienza con il cancro sia stata facilitata dal modo in cui ho
scelto di pensare alla mia malattia.
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Si tratta di una cosa diversa da ciò che in genere viene definito
“pensiero positivo”, che per molti di positivo non ha niente; rischia di essere un po’ come tapparsi le orecchie per non sentire,
e quindi negare la realtà (o come girare per il giardino dicendo
“via erbacce, via erbacce”, un metodo che non ha mai aiutato
nessuno a vincere un premio per il prato più bello).
Per me il pensiero positivo richiede uno sforzo. Significa
scegliere in modo attivo cosa far fare alla propria mente. Significa scegliere di concentrarsi sulle buone notizie, se ce ne
sono. Significa riuscire a fermare un treno di pensieri distruttivi, come “morirò”, e sostituirli con speranze, come “vivrò”.
Il cervello è uno strumento davvero intelligente, e sono molti
gli studiosi che stanno ancora cercando di scoprire esattamente perché tecniche come queste funzionano. Perché, a quanto
pare, funzionano sul serio. Probabilmente la risposta risiede
nel modo in cui il nostro cervello assimila ed elabora le informazioni che riceve, e ogni pensiero, vero o falso che sia, non
è altro che una nuova informazione. Gli scienziati (pur usando giri di parole ben più lunghi del mio) ritengono che, se ci
si focalizza sul successo, il nostro cervello inizia a “vederlo”
come un fatto già assodato e quindi cerca di realizzarlo. Mohammed Ali diceva sempre: «Sono il migliore», molto prima
di diventarlo.
COME USARE QUESTO LIBRO
All’interno del libro troverete diversi esercizi. Vi chiederò di usare l’immaginazione, stilare una lista o concentrarvi
su una parola. Quelle che vi propongo sono tutte cose che
io stessa ho fatto, o vorrei avere fatto, per rendere più faci-
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Introduzione
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le la mia danza con il cancro. Molte di esse derivano dalla
mia esperienza dei metodi di de Bono, altre nascono invece
all’interno della pnl (“programmazione neuro-linguistica”:
ossia l’idea secondo la quale il linguaggio che usiamo determina il modo in cui il nostro cervello si comporta), mentre
altre ancora le ho immaginate mentre scrivevo. Per me sono
state tutte d’aiuto, e spero sinceramente che lo saranno anche
per voi.
In queste pagine troverete, inoltre, alcuni estratti del mio
blog, che ho inserito per testimoniare quel che stavo passando in determinati momenti della mia vita. Alcuni di quei post
sono stati accorciati e adattati per poter essere inseriti all’interno del testo.
RIDERE
Il senso dell’umorismo è lo strumento più prezioso con
cui affrontare tutto il percorso della malattia. Accade sempre
qualcosa di divertente nella vita, anche nei giorni più bui (per
esempio, quando mia nonna morì la casa era sommersa di biglietti di condoglianze. Due di questi erano identici. Il giorno
del funerale, una delle mie cugine più giovani entrò in casa e
disse, tutta contenta: «Oh, guardate, abbiamo un doppione»).
Ridere degli eventi tristi non potrà che farvi bene, sia al corpo – a meno che non abbiate punti di sutura – sia alla mente.
Quando un medico mi ha chiesto: «A parte il cancro, per il
resto sta bene?», sono scoppiata a ridere. E io e mia madre non
abbiamo avuto il coraggio di guardarci mentre un’infermiera, venuta a controllarmi le medicazioni, tentava di infilarsi i
guanti senza riuscirci. Un medico che ti scrive con un penna-
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rello “Questo qui” sulla spalla e disegna una freccia che arriva
fino al seno prima che ti portino in sala operatoria, sinceramente mi fa ridere. E poi nelle sale d’aspetto di tutto il mondo
circolano moltissime barzellette sugli oncologi (la mia preferita è questa: sapete perché le bare sono fissate con i chiodi? Per
evitare che gli oncologi le aprano e vi diano un’ultima dose di
chemio, giusto per stare tranquilli). Non ho tenuto il conto, ma
sono abbastanza sicura di avere riso più di quanto abbia pianto
durante la cura per il cancro: ridere mi aiutava a sentire che la
vita era ancora bella.
VIVERE
Il mondo non si ferma quando arriva il cancro, il che è
fantastico. Se tutti si fossero seduti attorno a me guardandomi come gli orfani di Dickens guardavano i malati di tubercolosi, la cosa mi avrebbe irritato parecchio. Colloqui con
gli insegnanti, gite scolastiche, compleanni, nascite: la vita
va avanti. E io ero decisa a continuare a partecipare a tutto
questo, e mi sono accorta che pianificando in modo metodico, delegando qualcosa e ridimensionando un po’ le mie
aspettative, sarei riuscita a tenere il passo. Così sono andata
ai colloqui scolastici, anche se ero pronta a fermarmi dopo tre
insegnanti, invece che incontrarne sette. Tutti hanno ricevuto
il loro regalo di compleanno, solo che ho passato più tempo
a cercarlo in Internet che a girare per i negozi. Quando ho
capito che non sarei riuscita a terminare il lavoro a maglia
per un neonato, ho consegnato filato e modello a mia madre,
che l’ha finito per me (non mi ha ancora perdonato per quei
chilometri di orlo a festoncino).
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Introduzione
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Ero determinata a continuare a lavorare durante la mia malattia: non avevo intenzione di restarmene seduta lì ad “avere il
cancro” per mesi. E poi adoro il mio lavoro. E così ho dedicato
un minor numero di giorni alla professione e ho viaggiato di
meno, ma ho mantenuto la mia identità e questo mi ha fatto
sentire viva, anche se ci sono stati momenti in cui ho voluto
strafare e sono stata malissimo.
E poi c’era la vita sociale. Io adoro andare a teatro. Mi piace
cenare fuori e restare con gli amici attorno a un tavolo a parlare
fino a tarda notte. Amo le passeggiate lungo la riva meridionale del Tamigi a Londra o in un sentiero nel bosco. Ho cercato
di continuare a fare le cose che amo, perché per me era impensabile smettere, ma sono dovuta scendere a qualche compromesso. Quando andavamo a teatro, la sera, andavo a riposare
nel pomeriggio. Se cenavamo fuori lo facevamo vicino casa,
in modo da evitare il tragitto in metropolitana. C’erano giorni
in cui non riuscivo a camminare nemmeno fino all’ufficio postale all’angolo, mentre in altri avevo più energie e riuscivo a
passeggiare fino al parco o a un caffè, dove potevo riposarmi
prima di ritornare a casa.
ESERCIZI MENTALI
Quali sono le cose importanti?
È facile permettere al cancro di prendere il sopravvento sulla vostra vita. Ecco una semplice strategia per riuscire a tenerlo a bada.
• Compilate una lista di tutte le cose che vi piace fare. Non è necessario che siano veri e propri hobby. Fare sesso, guardare le
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soap, fare immersioni: va bene tutto, purché siano attività che
vi piacciono.
• Ora, scrivete un numero accanto a ognuna di esse. Se non potete farne a meno, allora varrà 10. Se una cosa vi piace meno di
quanto credevate, allora varrà 1.
• Prendete un altro foglio e scrivete in cima: “Continuerò a…”. Aggiungete quindi i cinque passatempi con il punteggio più alto.
Mettete la lista bene in vista.
• Fate il possibile per accertarvi che queste attività per voi importanti continuino a rientrare nella vostra vita. Potete fare qualche
sostituzione, se necessario: se non siete in condizioni di continuare a fare immersioni, potrete comunque andare a nuotare.
Durante la mia esperienza con il cancro, ci sono stati giorni in cui
l’unica cosa che avevo voglia di fare era restarmene sotto il piumino,
sprofondando in uno stato mentale in cui la mia mente si fissava sulle
sciagure che mi sarebbero potute accadere. In giorni così è difficile
alzarsi, vestirsi, mettersi un po’ di lucidalabbra e andare in biblioteca a
fare incetta di libri di Agatha Christie, ma è questa la scelta giusta. E
proprio come restare a letto non fa che peggiorare le cose, quel piccolo
viaggio fino in biblioteca aiuta a risalire la china. Un po’ di movimento
serve al corpo per smaltire le sostanze tossiche della chemioterapia.
L’aria fresca rinvigorisce. Guardare una bambina vestita di rosa intenta
a spingere il suo passeggino pieno di pupazzi sul marciapiede e scambiare uno sguardo divertito con sua madre aiuta a distogliere l’attenzione da sé almeno per un minuto.
Restate nel mondo, più che potete.
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Introduzione
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DANZARE
Non appena ho iniziato a dire alle persone che avevo il cancro, sono stata sommersa da parole di incoraggiamento. Mi
esortavano a “lottare” e “sconfiggerlo”, e tutti mi assicuravano
che avrei “vinto la battaglia”. Non avendo mai picchiato nessuno in vita mia – dire “al diavolo!” è il massimo della violenza che mi concedo – tutto questo parlare di lotta mi spaventava
un po’. E poi odiavo l’idea che le persone morte di cancro
avessero in qualche modo “perso”. Tuttavia mi stavano accadendo troppe cose, e quindi lì per lì non mi sono soffermata
sulla questione.
In seguito, dopo l’operazione, ho scritto una mail a una modellista per dirle che fare i suoi bellissimi lavori a maglia mi aveva
dato un piacere e uno stimolo. Quando mi ha risposto, nella mail
ha usato la frase “la mia danza con il cancro”. Danzare con il
cancro. Ho ripetuto quelle parole, assaporandole. E poi ho iniziato a pensare al significato di quell’espressione, e ho capito subito che avrei potuto dimenticare una volta per tutte le metafore
legate alla battaglia.
Una danza ha bisogno di due persone, perciò “danzare con
il cancro” suggerisce un rapporto paritario. L’idea mi piace
molto più che immaginarmi come una piccola donna in lotta
contro il cancro, che come tutti sanno è grande e spaventoso.
E mi piace l’idea di non essere trascinata, scossa e presa a pugni dalla malattia. In una battaglia, il cancro avrebbe la possibilità di vincere, e in questo caso io che fine farei? In una
danza, invece, ho maggiori possibilità di arrivare in fondo.
E soprattutto, è difficile morire mentre si balla: un giorno la
musica si fermerà e io uscirò dalla pista. Forse sarò esausta,
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forse avrò le vesciche e scoprirò che la mia vita è cambiata
per sempre, ma sarò viva.
Ma nella metafora della danza c’è molto di più: c’è la prova
che nelle parole che scegliamo di usare si nasconde una grande
forza. Se qualcuno mi definiva una “vittima di un tumore” o
una “malata di cancro”, io lo correggevo o lo ignoravo, perché espressioni simili avevano davvero il potere di abbattermi.
Non ho mai parlato di me stessa come di una persona malata di
cancro, il mio è sempre stato solo “un” cancro. E di certo non
ho mai detto “il mio tumore”. Grazie mille, ma non mi interessa possedere una cosa tanto noiosa e sgradevole.
ESERCIZI MENTALI
Il tuo linguaggio del cancro
Il potere del linguaggio con cui vi riferite al cancro è nelle vostre
mani. Scorrete questa lista e decidete quale delle descrizioni proposte è in sintonia con voi, oppure aggiungetene una vostra:
• una persona che ha il cancro;
• una persona che danza con il cancro;
• una persona che convive con il cancro;
• una persona che convive con il cancro, al momento;
• una persona che sopravvive al cancro;
• una persona che combatte il cancro;
• una persona che lotta contro il cancro;
• una persona sottoposta a una cura per il cancro;
• una persona che trionfa sul cancro;
• una persona che sconfigge il cancro;
• una persona che si sbarazza del cancro.
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Qualunque descrizione scegliate, usatela con tutti e senza sentire
il bisogno di scusarvi (ora anche i miei amici e familiari parlano della
mia danza con il cancro, come se questo fosse il modo più naturale
al mondo per descriverlo).
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Capitolo 1
La diagnosi: all’inizio
era un nodulo
COME È COMINCIATA
Mi sono accorta di avere un nodulo al seno destro alla fine
di settembre del 2008.
Ora, non crediate che mi sottoponessi a regolari controlli
al seno, come dovrebbe fare un’adulta dotata di buon senso.
Sono il tipo di persona che, dopo aver comprato in saldo a cinquanta sterline un paio di scarpe che ne costavano cento, pensa
a come spendere i rimanenti. All’età di trentasette anni, mi ero
finalmente decisa a sottoscrivere un fondo pensione. L’unico
motivo per cui mi sono accorta del nodulo è che l’ho visto.
Stavo passando davanti allo specchio prima di entrare nella
doccia, quando la luce ha evidenziato un rigonfiamento sulla
parte alta del seno destro. Sul momento ho pensato: “Uffa!
Quella cosa mi rovina la linea”. Ed è così che è iniziata la mia
danza con il cancro.
Ma partiamo dal momento immediatamente precedente a
quel passaggio davanti allo specchio: cominciamo da quando
salgo le scale e mi pregusto una bella doccia calda prima di
mettermi il pigiama e sedermi accanto a mio marito Alan a
fare le parole crociate o magari a parlare dei programmi per
il fine settimana successivo. Se mi fossi fermata a riflettere
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sulla mia vita nell’istante in cui mi toglievo le scarpe e mi
guardavo attorno in camera, chiedendomi perché non riuscisse
a restare in ordine per più di dieci minuti, mi sarei reputata una
donna abbastanza fortunata. I miei primi trentasette anni erano
trascorsi senza inseguire particolari progetti, o uno scopo preciso, ma nonostante ciò avevo ottenuto più di quanto bastasse
a rendermi felice. Il mio secondo matrimonio era ogni giorno
più piacevole, e i figli avuti con il mio primo marito, di dodici
e quattordici anni, stavano diventando due ragazzi di cui ero
molto orgogliosa e che adoravo. La mia carriera di formatrice procedeva bene, mi piaceva il mio lavoro e apprezzavo il
fatto di non essere impegnata a tempo pieno. Nel tempo libero avevo organizzato un’attività di catering di torte e studiavo
per laurearmi in psicologia. In più, ero finalmente riuscita a
liberarmi della depressione che mi aveva perseguitato per oltre
dieci anni. La vita era bella.
E invece non mi sono fermata a pensare a tutto quello che
avevo perché… be’, perché nessuno lo fa quando le cose vanno bene. Diverse persone mi hanno raccontato che, nel momento in cui hanno scoperto di avere dei noduli, hanno capito
subito che si trattava di cancro. Non era il mio caso. Sapevo
di avere un nodulo, ovviamente. E sapevo che nella mia famiglia non c’erano precedenti di cancro al seno. Sapevo di essere
“troppo giovane” per un tumore, e che nella maggior parte dei
casi i noduli sono innocui, perché causati dal ciclo mestruale,
o comunque passeggeri (evidentemente avevo prestato più attenzione di quanto credessi ai poster appesi nelle sale d’attesa
degli ambulatori). Perciò non ho pensato che quel nodulo fosse
un cancro. Ma non ho nemmeno pensato che non lo fosse. E
quello è stato un passo piuttosto importante. Il primo di una
lunga serie.
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Come ho sconfitto il cancro
Edward de Bono: il cappello bianco e il nodulo
Uno dei metodi più conosciuti di de Bono è quello dei sei
cappelli per pensare, dove ognuno di questi copricapi immaginari di colore diverso rappresenta un tipo di pensiero.
Così, quando un gruppo abbraccia il pensiero del cappello
giallo, significa che sta cercando i vantaggi di una determinata situazione. Il cappello nero rappresenta invece i rischi,
e quello verde la creatività. Il bianco le informazioni: cosa
sappiamo? cosa dobbiamo sapere? Mi è stato chiesto spesso
di lavorare con gruppi di persone che non riuscivano a prendere una decisione e credevano che il problema risiedesse nel
fatto che i pro e i contro erano troppo ben bilanciati. In circa
centoventisei casi su centoventinove, il problema si è rivelato totalmente diverso. Ci sono molte idee preconcette che
possono ostacolare il processo decisionale, e quasi sempre la
cosa migliore da fare è concentrarsi su quello che sappiamo
e che ci serve sapere. Spesso la difficoltà è rappresentata da
un’informazione critica mancante, che ci è sfuggita. Dopo
averla individuata – ponendo le domande giuste, esponendo
congetture e opinioni e procedendo per tentativi – la scelta
arriverà da sola. Perciò so bene quanto siano importanti le
informazioni.
Ora, non ci vuole un genio per capire quali problemi pone
un nodulo. Cosa sappiamo? Che è un nodulo. Cosa dobbiamo
sapere? Se il nodulo è un cancro.
La prima tappa della diagnosi è un luogo triste, pieno di fantasie oscure, facce impaurite e labbra tremanti (anche se non
ne parlate con nessuno, sappiate che nessuno specchio magico
darà una risposta brillante ed entusiasmante alla vostra immagine riflessa). Ed è difficile da affrontare. Ho trovato un paio
di tecniche mentali che mi hanno aiutata durante i giorni e le
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1. La diagnosi: all’inizio era un nodulo
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settimane in cui il mio corpo è stato in balìa di mani fredde e
aghi appuntiti.
Per prima cosa ho cercato di visualizzare ogni esame come
una nuova, importantissima informazione che avrebbe aiutato a sbloccare la situazione, in un senso o nell’altro. Durante
quelle settimane mi sembrava che tutti, cani e porci, non facessero altro che toccarmi, infilzarmi ed esaminarmi. Per fortuna
cani e porci non hanno i pollici opponibili e non possono tenere in mano un ago.
Seconda cosa, ho ridotto il tempo che trascorrevo pensando
al nodulo.
RACCOGLIERE INFORMAZIONI, ESAME DOPO
ESAME
1. Dal medico
Sono una grande fan del mio dottore: mi tratta sempre
come una donna intelligente, che ha voce in capitolo quando
si tratta della cura della propria salute. Non dovrebbe essere
una cosa strana, ma nelle rare occasioni in cui ho avuto la necessità di farmi visitare da un medico che non fosse il dottor
Adeyemi, mi sono resa conto del contrario. Lui mi ha posto
una serie di domande sulla storia clinica della mia famiglia
e altri fattori di rischio, minimi se non si sposa la scuola di
pensiero secondo cui il reggiseno con il ferretto, i deodoranti
per le ascelle e il fatto di essere nati nella seconda metà del
ventesimo secolo causino il cancro. Il dottor A. mi ha indirizzato al reparto di senologia del St George Hospital, giusto
per stare tranquilli. Era una raccomandazione saggia e io fui
felice di seguirla.
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2. Al reparto di senologia
Meno di una settimana dopo Joe, un’infermiera del St George,
ha diagnosticato che il nodulo era «una probabile cisti o un deposito di grasso» (bene), ma mi ha comunque spedita a fare un
esame ultrasonografico e una mammografia. Dopo di che mi ha
inserito un ago (si chiama “agoaspirato della mammella”, nel
giro di cinque secondi e qualche colpetto è finito, e non fa per
niente male). In seguito ho scoperto che questi tre esami sono la
procedura standard per analizzare i noduli al seno dall’aspetto
ambiguo. Nessuno dei tre sembrava chissà che. Per l’ultrasonico,
ti cospargono con un gel freddo e un lettore collegato a un monitor viene passato su entrambi i seni, mentre lo specialista cattura
le immagini (tutti si scusano sempre perché il gel è freddo. Ma
perché non lo scaldano? Non mi pare manchino i termosifoni in
ospedale). La mammografia consiste nel farsi schiacciare i seni
in varie posizioni fra due lastre di vetro. Dà un po’ fastidio, ma il
lato comico della situazione compensa il disagio, a mio parere. E
l’agoaspirazione era finita prima che me ne accorgessi.
3. Una biopsia dopo l’altra
Circa una settimana dopo i tre esami ho ricevuto una lettera,
con cui mi si consigliava di effettuare una biopsia ecoguidata,
per sicurezza (nessuno aveva ancora specificato per sicurezza
da cosa, ma lo sapevamo tutti: a quel punto le gambe hanno iniziato a tremarmi). La biopsia avrebbe compreso anche
un’area irregolare rilevata dagli ultrasuoni nel seno sinistro.
È a partire dalla biopsia ecoguidata che le cose hanno iniziato
a farsi serie, in relazione alla parola-che-nessuno-aveva-ancorapronunciato (c’era un’infermiera il cui unico compito sembrava quello di tenermi la mano). Queste biopsie erano un po’ più
complesse della prima breve punzecchiatura. Innanzitutto, ci
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1. La diagnosi: all’inizio era un nodulo
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fu l’anestesia locale; poi mi vennero praticate delle incisioni e,
anche se non mi era permesso guardare, sentivo il sangue che
veniva aspirato; infine ci furono quattro colpi su ogni mammella
con un ago cavo caricato a molla. Quella parte di me che ama i
documentari di medicina trovava la cosa interessante. Una volta
che il radiologo ha individuato l’area da cui asportare un campione (ha dovuto infilare l’ago alcune volte prima di trovare il
punto) ho udito un sonoro clic, ovvero il suono dell’ago caricato dalla molla, che esce e rientra portandosi dietro un pezzetto
di tessuto. Il campione finisce in un piccolo contenitore e può
finalmente prendere la strada del laboratorio, dove viene sezionato e analizzato.
Le incisioni sono state medicate con garze sterili e io sono
stata dimessa prima che l’effetto dell’anestesia fosse cessato (il
personale ospedaliero è molto intelligente). Non appena sono
arrivata a casa sono iniziati i dolori e sono spuntati i lividi, e
il resto del pomeriggio è stato abbastanza deprimente. Penso
di avere guardato la tv, cosa che normalmente non faccio mai
durante il giorno, anche se è stato un buon allenamento per
quel che è venuto dopo.
ESERCIZI MENTALI
Porsi dei limiti
Il controllo su quel che pensate e sul modo in cui lo fate è nelle
vostre mani. Provate alcune delle seguenti tecniche (o tutte) per
affrontare questo periodo di incertezza.
1. Sedetevi in disparte per cinque minuti, mattina e sera (ma non subito prima di andare a letto), e riflettete sulla possibilità di avere un
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cancro. Calcolate il tempo con un orologio. Per cinque minuti esatti
preoccupatevi, piangete, pensate al peggio. Quando i cinque minuti
sono passati, fermatevi. Fate un respiro profondo, stiracchiatevi e dedicatevi a qualcos’altro. Quando i vostri pensieri ritornano alla diagnosi, ricordate gentilmente al vostro cervello che non è il momento
giusto: dovrà aspettare l’orario stabilito.
2. Trovate un posto tranquillo, fate un respiro profondo e scrivete con
precisione tutto quello che temete. Può essere anche una cosa semplice e spaventosa come: “Ho paura di morire”. Oppure qualcosa di più
complesso: paura del dolore, di deludere gli altri, dei cambiamenti
che avverranno se vi viene diagnosticato un cancro. Qualunque cosa
sia, scrivetela, nel modo più completo e preciso possibile. Farà male,
e sarà difficile. Ma cosa fatta, capo ha. Rileggete quanto avete scritto, chiudete il bloc-notes e andate avanti. Non vi sto dicendo che in
questo modo le vostre paure svaniranno, ma è molto probabile che
tirarle fuori e metterle nero su bianco le renderà più facili da affrontare, e meno ossessivamente presenti.
3. Cercate di capire in quali momenti vi sentite più preoccupati e fate in
modo di evitare o modificare quelle situazioni. Se tendete a sentirvi
in ansia mentre fate il bagno, provate con la doccia. Se rincasando i
vostri pensieri diventano insopportabili, ascoltate musica o un audiolibro lungo il tragitto.
4. Se c’è qualcuno con cui parlate abitualmente delle vostre paure e
preoccupazioni, chiedetegli di aiutarvi a tenere sotto controllo i pensieri. Per esempio, ponete un limite di tempo alle conversazioni o
chiaritene prima l’obiettivo. Potreste dire: «Vorrei davvero tirare
fuori tutto quello che ho dentro quando mi ascolti», oppure: «Mi
aiuteresti a pianificare ciò che farò se mi viene diagnosticato un cancro?», o persino: «Mi fermi se comincio a ripetere sempre le stesse
cose o finisco in un circolo vizioso?».
Fino a questo punto avevo parlato solo con le mie amiche,
Louise, Scarlet e Jude, che mi hanno appoggiata, ciascuna a suo
modo. Lou è la parte mancante del mio bicchiere mezzo pie-
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1. La diagnosi: all’inizio era un nodulo
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no, e quindi si è mostrata ansiosa, proprio come mi aspettavo.
Oltretutto ha perso la madre a causa del cancro, perciò aveva i
suoi buoni motivi per chiudere gli occhi davanti alla parola che
inizia per C. Entrambi i genitori di Scarlet avevano affrontato
la malattia, quindi lei aveva molte informazioni pratiche da offrirmi. Non ricordo esattamente quando ho detto a Jude di avere
scoperto un nodulo ed essermi sottoposta ad accertamenti, ma
ricordo bene una domenica pomeriggio in cui eravamo sedute in
un caffè a parlare di quali potevano essere i risultati.
È stato quando ho chiamato l’ospedale, perché non avevo ricevuto né una lettera che mi dicesse che era tutto a posto né un
appuntamento, e mi hanno risposto: «Oh, sì, dobbiamo parlare
con lei», che ho deciso che era arrivato il momento di raccontare
ai miei genitori cosa stava accadendo. Odiavo l’idea di dar loro la
cattiva notizia (o una potenziale cattiva notizia) al telefono, così
ho rimandato la chiacchierata alla settimana successiva, quando sarebbero venuti a trovarmi. Ma sarebbero arrivati il giorno
seguente all’appuntamento in ospedale, quello in cui avrei conosciuto l’esito, e non mi andava di dirglielo a bruciapelo non
appena fossero arrivati (pensavo a mio zio Alan che, quando
eravamo bambini, ci prendeva la testa tra le mani e ci chiedeva
se preferivamo una malattia lunga o una morte improvvisa).
Alla fine ho deciso di chiamarli a un’ora in cui sapevo che
li avrei trovati entrambi. Mio padre non c’era, ma sarebbe tornato di lì a poco. «Vuoi iniziare lo stesso?», mi ha chiesto mia
madre, al che ho risposto: «Ho scoperto di avere un nodulo al
seno poco prima che andaste in vacanza ho fatto un sacco di
esami e la prossima settimana torno in ospedale per sapere i
risultati e non credo saranno buone notizie» (l’ho detto proprio così, senza punteggiatura). Mia madre ha replicato: «Oh,
no», con calma, e so che in quel momento stava pensando al
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periodo terribile che aveva passato solo l’anno precedente una
nostra parente, sottopostasi a una mastectomia, seguita da chemioterapia e radioterapia. Le ho spiegato quali esami avevo
fatto e che cosa avevano detto i medici di volta in volta. Mi
sentivo la figlia peggiore del mondo.
Un paio di settimane dopo, ero di nuovo al reparto di senologia per i risultati. Mi sarei incontrata con Alan in ospedale, e
mentre camminavo per la strada ho avuto un’improvvisa illuminazione: si trattava di cancro. Tremavo e avevo paura. Ho
trovato Alan e una volta entrati ho notato che alla reception sul
foglio con il mio nome era evidenziata una parola che sembrava
preoperatoria.
L’attesa è state breve. Joe mi ha chiamata e sono entrata in
una stanza. Alan è rimasto in sala d’aspetto, non so bene perché: forse stavamo solo obbedendo all’istituzione e lui non
era stato chiamato. Forse mi aggrappavo ancora alla speranza
che sarebbe stata una cosa veloce, che mi avrebbero detto:
«È tutto a posto, signora Butland, niente di preoccupante».
Comunque, è stato tutto un po’ assurdo. Signore e signori,
ecco la scena.
[stephanie (cioè io) entra in un ufficio piccolo e soffocante. C’è solo
una finestrella in alto sulla parete. C’è una porta che dà sulla sala
d’aspetto del reparto e altre due che conducono ad altri ambulatori.
joe, l’infermiera, è già nella stanza. Sulla scrivania c’è una scatola di
fazzoletti e un grande raccoglitore blu].
joe (guardandomi gentilmente negli occhi) Abbiamo i risultati dei tuoi
esami, Stephanie. C’è un cancro nel tuo seno destro.
io Ok. Bene (abbasso lo sguardo verso il mio seno, come per ricevere
conferma; magari il nodulo con un pollice alzato che dice: «Ciao,
sono io»).
[Da una delle porte laterali entra il dottor mokbel e si siede dietro la
scrivania].
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joe Questo è il dottor mokbel, uno dei nostri chirurghi specialisti. (Rivolta a mokbel) Ho appena detto a Stephanie che ha un cancro al
seno destro. (Rivolta a stephanie) Mi dispiace moltissimo. Ero convinta che non fosse niente di grave.
io Possiamo chiamare mio marito?
joe Certo.
[alan entra e si siede. Saluti generali e presentazioni].
io (rivolta ad alan) Ho un cancro al seno destro. (Rivolta a joe) Il che
significa presumibilmente che quello sinistro è a posto?
[joe e il dottor mokbel si scambiano un’occhiata].
joe Be’…
dottor mokbel Sappiamo che c’è un cancro nel suo seno destro. Pensiamo che sia abbastanza piccolo e l’abbiamo preso in tempo. Dobbiamo togliere il nodulo.
io Non il seno?
dottor mokbel No, soltanto il nodulo. Ed esamineremo anche i linfonodi sotto il braccio per vedere se il cancro è anche lì. Se è così,
toglieremo anche quelli.
io (tenendo la mano di alan, probabilmente molto stretta) Il seno no?
dottor mokbel Il seno no. [Una piccola parte del mio cervello si è
fissata su questo punto. Sono stata prosperosa per venticinque anni
e non sono pronta a smettere adesso].
io Bene. È già qualcosa.
dottor mokbel Nella parte sinistra c’è un piccolo gruppo di cellule
che non sembrano normali, ma potrebbero non essere cancerogene.
Vogliamo prelevarle per esaminarle meglio.
io (piangendo un po’) [Tutti emettono versi solidali, inclusa charmaine,
l’infermiera del Macmillan*, che è entrata senza far rumore]. No non
è questo, è solo che… mia madre ne sarà sconvolta.
dottor mokbel La prognosi è eccellente. L’abbiamo scoperto davvero
presto e lei è giovane e in buona salute. [Qualcuno chiede che cosa
succederà dopo. Mi piacerebbe che fosse stato alan, visto che fino* Macmillan Cancer Support è un’associazione britannica specializzata nell’offrire assistenza, informazione e sostegno economico ai malati di cancro, con particolare attenzione agli effetti sociali, psicologici e pratici della malattia.
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ra non ha aperto bocca, anche se mi faceva coraggio tenendomi la
mano e guardandomi negli occhi].
Dopo di che, tutto si è fatto un po’ confuso. Io e Alan siamo stati accompagnati fuori per parlare con l’infermiera del
Macmillan di quel che sarebbe successo: lei mi ha consigliato
a chi dirlo e in che modo, e ci ha spiegato come sarebbe stata
probabilmente la cura (facendola apparire peggiore di come
si è poi dimostrata). Si è trattato per lo più di un monologo. A
quanto pareva l’infermiera voleva rispondere a tutte le domande che immaginava ci stessimo ponendo. Per la maggior parte
del tempo sono rimasta seduta, chiedendomi come fossi finita
su quella sedia di vimini bianca ad ascoltare qualcuno che mi
raccontava quanto stanca e sofferente mi sarei sentita di lì a
poco, e come tutti si sarebbero dovuti preparare al fatto di avere davanti una psicotica soggetta a frequenti sbalzi d’umore.
Ce ne siamo andati carichi di opuscoli, mentre io cercavo di
ricacciare in gola un fiume di lacrime.
Lungo il tragitto fino a casa, io e Alan ci siamo trovati d’accordo sul fatto che non era la fine del mondo. Quello era “un
cancro” non “il Cancro”, e avremmo dovuto incoraggiare tutti
a pensarla così. Abbiamo riferito subito la notizia ai miei genitori, a Lou, Scarlet e Jude. Mio padre ha commentato: «Be’,
non dobbiamo fare altro che andare avanti», come avrebbe
detto se fosse crollata la tettoia e avesse dovuto ripararla, e
io mi sono sentita completamente al sicuro, perché non esiste
tettoia al mondo che mio padre non sia in grado di riparare.
Poi abbiamo deciso che avevamo bisogno di bere qualcosa,
e poiché avevamo in fresco solo una bottiglia di champagne,
abbiamo bevuto quella.
Ed era buona.
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Un cambio di prospettiva
Una delle cose più importanti che ho imparato dai metodi di
Edward de Bono è che è molto facile concentrarsi su un problema, lasciarsene sopraffare e dimenticare il contesto in cui
è inserito, mentre conoscerlo potrebbe rendere più accessibile
la soluzione o per lo meno aiutare a capire qual è la sua vera
dimensione. (Non intendo dire che il cancro non sia un problema, ma che il suo contesto, il quadro generale, è un corpo
intelligente, che comprende anche altre cose). Quando me ne
sono ricordata, la mattina successiva a una lunga notte – i miei
sogni, sempre molto vividi, avevano preso una piega sinistra,
ed erano affollati di corridoi bui e persone che non mi rivolgevano la parola, con una porta chiusa a chiave di cui tutti avevano paura – ho visualizzato la cosa in questo modo. Questa
immagine mi ha aiutato, e spero possa aiutare anche voi.
ESERCIZI MENTALI
Cosa visualizzare se ci viene diagnosticato un cancro
Sedetevi in un posto tranquillo e chiudete gli occhi. Rallentate il
respiro. Respirate lentamente finché non sentite di avere un ritmo
regolare.
Ora pensate a tutte le cose che ha fatto il vostro corpo. Pensate a
tutti i chilometri che ha percorso. Magari ha partorito dei figli oppure
si è arrampicato ad alta quota o vi ha fatto correre per lunghe distanze. Pensate alle mani che ha stretto, a quante volte ha inspirato ed
espirato, a quando si è stiracchiato al mattino, pronto a farvi iniziare
un nuovo giorno. Pensate a tutti i malesseri da cui si è ripreso. Pensate a quanto è meraviglioso il vostro corpo e abbiate fiducia nelle
sue capacità.
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Come ho sconfitto il cancro
Pensate a quanto siete forti e intelligenti, se siete in grado di fare
tutto quel che fate senza nemmeno concentrarvi.
Pensate a quanta forza c’è nel vostro corpo. Dovete sentirvi pieni
di quella forza. Dovete sentirvi forti, inattaccabili. Respirate e godetevi questa sensazione.
Sorridete.
Aprite gli occhi.
Fate questo esercizio tutte le volte che ne sentite il bisogno.
COS’È IL CANCRO
La parola cancro deriva dal greco karkinos, che significa
“granchio”. Si pensa che il primo a usarla sia stato il medico
greco Galeno, il quale scoprì che i tumori maligni diffondevano le loro “chele” in tutte le direzioni e rimanevano attaccati al
corpo a dispetto di tutti i tentativi fatti per sbarazzarsene.
La morte delle cellule normali è programmata nel loro dna:
si tratta di un processo chiamato apoptosi. Una cellula cancerogena muta, si riproduce velocemente e non muore. Una volta
che nel nostro corpo si sono formate delle cellule cancerogene,
queste si impossessano delle sue risorse per nutrirsi e svilupparsi. In tal modo il corpo non è più in grado di funzionare
come dovrebbe.
Gradi e stadi del cancro
Il cancro viene misurato in gradi e stadi. I gradi variano
in base al tipo di cancro, ma in genere sono segnalati da un
numero che ne indica la velocità di sviluppo. Il grado di un
tumore al seno può andare da 1 a 3, dove 1 è il più lento.
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indice
p. 9
Prefazione
11
24
43
56
78
84
104
141
151
167
183
203
219
235
241
Introduzione
1. La diagnosi: all’inizio era un nodulo
2. Dirlo al mondo: una rivelazione improvvisa
e difficile
3. L’operazione: alla ricerca del pigiama perfetto
4. Tenere un diario: meglio fuori che dentro
5. Non sono d’accordo: essere una paziente
6. La chemioterapia: entra in scena la draghessa
7. Oltre il confine: il catetere picc
8. Basta così: fermare tutto
9. Cancro e relazioni: non ci siete solo voi
10. Radioterapia: eccomi di nuovo qui!
11. Farmaci sperimentali: la testa esplode
12. Piano B: Herceptin
13. Tamoxifene: … e la pillola va giù
14. Andare avanti: la stessa persona, ma diversa
247
249
Bibliografia
Ringraziamenti
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