Studi di Anglistica collana diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni A10 129/6 6 Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie dell’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara Massimo Verzella “Hid as worthless rite” Scrittura femminile nell’Inghilterra di re Giacomo: Elizabeth Cary e Mary Wroth ARACNE Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1126–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: aprile 2007 Indice Ringraziamenti 7 Introduzione 1. Contesto storico e culturale: l’Inghilterra elisabettiana e giacomiana 2. I riformatori e il dibattito sul ruolo della donna 3. Spazi di manovra e vie di accesso all’autorialità 4. The stigma of print 9 16 23 31 Capitolo I Mary Wroth 1.1 Dalla corte al cenacolo di Penshurst 1.2 L’opera e la ricezione 1.3 Pamphilia to Amphilanthus e la convenzione petrarchesca 1.4 L’esordio. Il sonetto proemiale 1.5 Il sonetto 19 (P 22) 1.6 La critica alla corte e l’affermarsi del credo protestante 1.7 Alterità e diversità perturbanti e sovversive 35 43 48 61 66 73 93 Capitolo II Elizabeth Cary 2.1 Essere e sembrare 2.2 Una efficace metafora politica 2.3 I tortuosi percorsi dell’assertività 2.4 Tirannia patriarcale e strategie di resistenza 2.5 Mothers on top 2.6 Il ritorno del padre e il martirio di Mariam 103 115 126 133 140 146 Bibliografia 159 Indice dei nomi 181 Ringraziamenti Il presente lavoro nasce nell’ambito del corso di Dottorato di Ricerca in Anglistica dell’Università degli studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Condotta prevalentemente presso la Senate House Library e la British Library di Londra, l’attività di ricerca sul tema della scrittura femminile nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana è proseguita oltre i tre anni del dottorato grazie a un assegno di ricerca ottenuto presso il Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie. Innanzi tutto desidero ringraziare il Prof. Nicola Mattoscio che, quale Presidente della fondazione Pescarabruzzo ha cofinanziato l’assegno di ricerca, consentendomi di proseguire le mie ricerche e perfezionarne gli esiti, e il Prof. Andrea Mariani che, come Direttore del Dipartimento, non mi ha mai fatto mancare l’appoggio e il sostegno di cui avevo bisogno. Questo libro non sarebbe nato senza lo stimolo intellettuale, i suggerimenti e la costante partecipazione di Clara Mucci che ha seguito il lavoro sin dalle prime fasi di elaborazione, contribuendo al suo sviluppo con la sua lettura attenta e i suoi preziosi consigli. Il ringraziamento più grande va a Francesco Marroni, Direttore della Collana “Studi di Anglistica” e Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Anglistica. Devo al suo rigore intellettuale, alle sue doti umane e alla sua generosa fiducia nei confronti dei giovani ricercatori l’entusiasmo con cui ho affrontato i miei studi e lo slancio con cui ho superato le difficoltà incontrate. Alla sua figura di appassionato e studioso dagli interessi poliedrici va la mia stima e il mio affetto. Vorrei anche esprimere la mia riconoscenza ai Proff. Michael Hattaway e Alessandro Serpieri, per i loro illuminanti seminari sulla drammaturgia e sulla poesia elisabettiana e giacomiana. A loro devo molte delle intuizioni e delle idee qui confluite. Altrettanto grato sono ai docenti e ai colleghi del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie per 8 Ringraziamenti l’attenzione che hanno dimostrato nei confronti del mio progetto e per aver appoggiato questa pubblicazione. Infine, un pensiero speciale per Stefania, compagna di sempre, e per la mia famiglia. Introduzione 1. Contesto storico e culturale: l’Inghilterra elisabettiana e giacomiana. Le prime scrittrici inglesi a dare alle stampe le loro opere originali sono Mary Sidney Wroth ed Elizabeth Cary. La prima pubblica un volume contenente il poema Urania e la raccolta di sonetti Pamphilia to Amphilanthus (Londra, 1621), la seconda un closet drama di argomento storico, The Tragedy of Mariam (Londra, 1613). Dal momento in cui ci si accosta ai loro testi viene da chiedersi in che modo la carica eversiva di un tipo di scrittura altro rispetto all’ordine patriarcale vigente sia stata incanalata nei circuiti culturali dell’Inghilterra giacomiana. L’accesso alle biblioteche di famiglia aveva aperto davanti alle due scrittrici uno spettro disordinato di possibilità, per controllare il quale era necessario autodisciplinarsi mediante il ricorso a mediazioni simboliche che stabilizzassero turbolenti vissuti interiori. Se di fronte alle pressanti imposizioni di padri, mariti e amanti, Elizabeth Cary e Mary Wroth non esitarono a far sentire le loro voci dissenzienti, sulla pagina bianca il loro urlo iconoclasta era destinato a perdersi in una serie di significanti, topoi e dispositivi retorici che il soggetto rinascimentale attinge dalla Bibbia e dal pensiero greco-romano al fine di riordinare, mediante rigide metadescrizioni, idee e paradigmi che hanno acquistato eccessiva indeterminatezza. Nell’angusta cornice del sonetto petrarchesco, norma poetica elaborata nell’ambito della cultura maschile, l’insofferenza della Wroth nei confronti di un amante indeciso e incostante si stempera nel lamento1, nella stoica accettazione della mancanza e della privazione. Similmente, il ribellismo di Elizabeth Cary, filtrato nelle convenzioni 1 Proprio nel 1621 Robert Burton pubblicava The Anatomy of Melancholy, esame scientifico di varie perturbazioni mentali che ribadisce come nella donna la depressione sia di natura fisiologica. 10 Introduzione del closet drama di stampo senechiano, si trasforma in una più accettabile vocazione al martirio della sua controfigura finzionale, Mariam. Solo rovistando tra le omissioni, le esitazioni e le parole perdute che gravitano intorno ai versi di Pamphilia to Amphilanthus e The Tragedy of Mariam è possibile recuperare frammenti di un discorso potenzialmente sovversivo e destabilizzante. Tra le ordinate planimetrie metrico-ritmiche disegnate da Elizabeth Cary e Mary Wroth una complessa partitura di latenze testuali segnala la presenza di pensieri e idee che scorrono nei sotterranei di un mondo simbolico la cui capacità di generare strutturalità è continuamente minacciata dai vorticosi cambiamenti socio-politici innescati, almeno in parte, dalla riforma protestante e dallo sviluppo dell’economia di mercato. La connessione tra un fenomeno culturale quale il rilancio dell’etica intramondana del protestantesimo e un fenomeno economico quale la nascita del capitalismo moderno induce a interpretare il destino delle donne inglesi del XVI e del XVII secolo alla luce del ruolo che erano “chiamate” a svolgere all’interno della comunità, quello di mogli e madri dedite alla gestione della household e all’allevamento dei figli2. L’Inghilterra di Elisabetta e Giacomo I è un cantiere sempre aperto in cui ogni progresso dei lavori rende necessaria la revisione dell’intero progetto. La chiusura dei monasteri (560 istituzioni monastiche soppresse tra il 1536 e il 1539), l’aumento demografico (nel corso del XVI secolo la popolazione di Londra quadruplicò), lo sviluppo dell’industria tessile e la politica delle enclosures avevano sradicato la popolazione rurale dalle campagne e trasformato contadini, braccianti, giardinieri, vedove e donne sole in furfanti, vagabondi e prostitute costretti a ri- 2 Il singolo, secondo Lutero, è tenuto a conservare il suo stato, ad accettare la condizione che Dio gli ha assegnato (mediante l’atto che Lutero denomina “Beruf”, tradotto in inglese con il termine “calling”) e limitare le sue aspirazioni terrene e i suoi sforzi entro i limiti di questa rigida posizione. Scorgere interstizi di libertà in questa teoria sociale costituisce l’arduo compito di cui si fecero carico le donne più colte e potenti del secolo, a partire da Maria la cattolica ed Elisabetta I. Introduzione 11 fugiarsi in una Londra sempre più caotica e sovrappopolata3. Per soddisfare il bisogno alimentare della grande città era necessaria un’agricoltura di tipo avanzato; di qui l’importanza di investire capitali nella coltivazione di appezzamenti di terreno estesi e recintati. Allo stesso tempo lo sviluppo dell’industria tessile determinava una sempre maggiore richiesta di lana, pertanto si imponeva l’urgenza di procedere alla recinzione delle terre incolte da destinare al pascolo. Il processo è circolare: il boom dell’industria tessile incoraggiava le recinzioni e quindi gli sfratti che innescavano a loro volta l’onda migratoria verso la capitale, con conseguente aumento del fabbisogno alimentare. Il tasso di crescita della popolazione urbana diventò presto superiore al surplus agricolo, il che spiega la crescita dell’inflazione (il livello generale dei prezzi aumentò di cinque volte fra il 1530 e il 1640) e il conseguente innalzamento della soglia di povertà4. Le bande mobili e confuse di mendicanti, vagabondi e disoccupati costretti a dipendere dal lavoro salariato andavano smembrate e addestrate onde ridurre l’entropia dell’intera struttura sociale. Di qui il susseguirsi di interventi legislativi quali il decreto del 1531 che distingueva fra vagabondi abili al lavoro, a cui sono imposte dure pene, e poveri inabili (cui è concesso di mendicare), e la legge sul vagabondaggio del 1572, rinnovata, con qualche emendamento, nel 1597 (Act for Punishment of Rogues). Di qui, ancora, la produzione di un corpus di descrizioni e classificazioni destinate a puntellare la scricchiolante impalcatura delle distinzioni di rango e status, appesantita altresì dal prosperare dell’emergente ceto mercantile. In particolare, furono le leggi suntuarie a favorire il mantenimento delle differenze di classe anche se, come osserva Christopher Hill, “la frequente remissione di proclami in materia è la dimostrazione evidente del venir meno di questo simbolo di una società statica e gerarchica”5. In cima alla pira3 Cfr. Christopher Hill, La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al 1780, Torino, Einaudi, 1977. 4 Ibid., p. 68. 5 Ibid., p. 48. 12 Introduzione mide sociale il sovrano godeva ancora di una visibilità privilegiata e sfruttava l’impatto simbolico di rituali pubblici quali l’incoronazione, i funerali e altre cerimonie di sottomissione per imporre la sudditanza come necessario correlativo del diritto divino del Principe. Il fenomeno più rilevante ed esplicito di questa fenomenologia della presenza visibile è lo sviluppo del masque di corte le cui allegorie, come sostiene Stephen Orgel6, sono sempre mirate a giustificare il potere che celebrano. Attraverso la rappresentazione teatrale il potere regale si mostrava, creava la propria iconografia e ostentava la propria autorità in modo da suggestionare il suddito\spettatore e piegarlo all’ubbidienza e alla venerazione del corpo politico. Tuttavia, l’esigenza di formulare un nuovo ordinamento disciplinare che si raccordasse con i principi basilari della riforma protestante e con l’emergente economia protocapitalistica – i due fenomeni, come si è detto, sono da ritenersi collegati – non passava solo attraverso l’affermazione del potere regale, essendo legata al controllo di un ulteriore elemento instabile della società inglese rinascimentale: l’espressività femminile. La campagna di alfabetizzazione, sostenuta dalla Chiesa protestante e dagli umanisti del Cinquecento al fine di sottrarre le donne da uno stato di estraneità socioculturale e portarle, mediante l’imposizione di modalità di ragionamento tipiche della comunità patriarcale, verso uno stato di integrazione e appartenenza sociale che le allontanasse dal peccato e dalle tentazioni, rappresentò un importante fattore di trasformazione sociale. Così Elaine Beilin: 6 Stephen Orgel, The Illusion of Power: Political Theater in the English Renaissance, Berkeley, Los Angeles and London, University of California Press, 1975, pp. 37-58. Laddove Elisabetta amava apparire in pubblico in occasione di cerimonie, feste e funerali, Giacomo sfruttava il masque come strumento di propaganda politica. Sui rapporti tra teatro e potere si vedano inoltre Loretta Innocenti, Il teatro elisabettiano, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 307-52 e Lucia Abbamonte, “Teatro e propaganda politica nel ’600 inglese”, Critica Letteraria, 59 (1988). Introduzione 13 To men and perhaps to some women, a woman’s desire for knowledge was a frightening prospect, recalling images of Eve’s hand reaching for the apple. But by claiming that learning would increase a woman’s virtue (her chastity, obedience, humility), the Humanists and their successors reassured society that a woman’s knowledge was under control and directed only to enhancing her womanliness7. Le osservazioni di Pico della Mirandola e altri umanisti riguardo alla dignità dell’essere umano e al valore della sua esperienza nella dimensione terrena hanno effetti positivi nella rivalutazione della donna e nel riconoscimento del contributo che può dare all’uomo nella sua ricerca dell’ideale. Verso la fine del XVI secolo educatori umanisti come Richard Mulcaster e Roger Ascham cominciavano a formulare i primi programmi di scolarizzazione per le fanciulle inglesi di ceto medio-alto, incentrati sulla lettura di testi devozionali e di classici come Plauto, Cicerone, Seneca e Plutarco. Tuttavia, se i curricoli rinascimentali per uomini e donne andavano gradualmente confondendosi, almeno in seno alle classi sociali più elevate, le uniche davvero interessate al processo di rinnovamento rappresentato dall’Umanesimo8, gli obiettivi dell’educazione rimanevano profondamente diversi, come sottolinea Katharina M. Wilson: “For men, the goals of education were almost invariably public; for women, private”9. Nel caso della donna l’azione educativa non era finalizzata alla trasmissione di saperi e conoscenze bensì alla formazione del carattere etico di mogli, madri e fanciulle. 7 Elaine Beilin, Redeeming Eve: Women Writers of the English Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 21-2. David Cressy, Literacy and the Social Order: Reading and Writing in Tudor and Stuart England, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 3, “Literacy was singled out as a tool for godliness, a weapon against anti-Christ, an essential component in leading a proper Christian life”. 8 Nell’Inghilterra del XVII secolo il 90 % delle donne non sapeva nemmeno scrivere il proprio nome. Cfr. D. Cressy, op. cit., p. 41. 9 Katharina M. Wilson (ed.), Women Writers of the Renaissance and Reformation, Athens and London, University of Georgia Press, 1987, p. XVIII; si veda anche Martine Sonnet, “L’educazione di una giovane”, in Georges Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne, Vol. III, Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davies e Arlette Farge, Bari, Laterza, 1991. 14 Introduzione Laddove la cultura maschile era proiettata all’esterno, quella femminile era proiettata all’interno, orientata al “saper fare” più che al sapere. Ad ogni essere umano doveva essere impartita un’educazione appropriata al rango di appartenenza, la “somministrazione” di conoscenza variava a seconda del sesso e della condizione sociale dell’allievo. In un trattato sull’educazione della figlia di Battista Montefeltro Malatesta, Leonardo Bruni si dimostra favorevole all’istruzione femminile ma sconsiglia alla donna lo studio della retorica – inutile vista l’incompetenza nel foro – e censura l’ostentazione pubblica dell’erudizione. Nel trattato La institutione di una fanciulla nata nobilmente, Giovanni Bruto associa la fama letteraria al vizio e alla licenziosità, sostenendo che la rocca, il fuso, l’ago e il ditale, piuttosto che la penna, sono gli strumenti che un donna onesta e virtuosa deve saper maneggiare. Tra le pagine de Il Cortegiano (1528, tradotto in inglese nel 1561) affiora un profilo della dama di corte alquanto contraddittorio: una discreta preparazione culturale nei campi dell’arte, della musica e della letteratura, non disgiunta da una certa abilità nel conversare, devono essere abbinati, secondo Baldassarre Castiglione, a un atteggiamento sempre umile e dimesso10. Nell’ottica di umanisti come Juan Luis Vives – scelto da Caterina D’Aragona come precettore della figlia avuta da Enrico VIII (Mary) – Thomas More, Richard Hyrde e Thomas Elyot, la donna doveva ritenersi esonerata dall’esercizio di funzioni pubbliche e politiche, la sua voce poteva risuonare solo tra le pareti domestiche. Perfino Elisabetta I fu costretta a difendersi dagli attacchi di chi, sull’esempio di John Knox (The First Blast against the Monstrous Regiment of Women, 1558), giudicava innaturale e “mostruoso” il governo di una donna. A costoro la reggente rispose in questi termini: “[A] woman may rule as a 10 Sulle disquisizioni degli umanisti italiani Bruni, Guazzo, Castiglione ecc. si veda l’interessante articolo di Ann Rosalind Jones, “Renaissance Gender Ideologies and Women’s Lyric”, in Lorna Hutson (ed.), Feminism and Renaissance Studies, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 317-36. Introduzione 15 magistrate, yet obey as a wife”11. Questa descrizione di sé come persona mixta, ovvero come una donna capace di affrancarsi dalla sua natura infida e troppo “fluida” (body natural) nel momento in cui è chiamata a regnare sul popolo inglese, va ricondotta al suo desiderio di farsi icona degli ideali della purezza e della costanza, body politic etereo e immortale. Semper eadem è il motto che Elisabetta scelse per indicare la sua natura immutabile, incorruttibile e proteiforme, ottenuta, come osserva Louis Montrose, “[B]y fashioning herself into a singular combination of Maiden, Matron, and Mother”. Piuttosto che perdere potere e autorità a tutto vantaggio di un marito arrogante e ambizioso, Elisabetta aveva preferito sposare la nazione per dedicarsi alla cura dello Stato come una madre si occupa della cura dei figli. Si trattava di una scelta molto coraggiosa se pensiamo che perfino i protestanti che avevano sponsorizzato la sua ascesa al trono preferivano la castità matrimoniale al celibato: For the subjects of Mary I and Elizabeth I, the problem of the authority of a married queen regnant was particularly urgent. What was her authority to be with respect to her husband, her social and political superior? [...] Elizabeth’s answer – to remain unmarried – gave her unchallenged authority but was unsatisfactory in other ways. A virgin queen regnant circumvents the political problem of uxorial subordination but she also creates a dynastic problem in failing to leave an heir. 11 Citato in Clara Mucci, Il teatro delle streghe, Napoli, Liguori, 2002, p. 69. Daniel Fischlin riporta un’altra importante affermazione della regina: “I know I have the body of a weak and feeble woman, but I have the heart and stomach of a King, and of a king of England too” (“Political Allegory, Absolutist Ideology, and the ‘Rainbow Portrait’ of Queen Elizabeth I”, Renaissance Quarterly, 50, 1, Spring 1997, pp. 175-205, p. 180). Sulla ambigua posizione giuridica e politica del female prince e, in particolare, sulle teorie di John Knox cfr. Constance Jordan, “Women’s Rule in Sixteenth-Century British Political Thought”, Renaissance Quarterly, 40, 3 (1987), pp. 421-51. Sull’opposizione body politic-body natural si veda Ernst Kantorowitz, The King’s Two Bodies: A Study of Medieval Political Theology, Princeton, Princeton University Press, 1957 e Mary Axton, The Queen’s Two Bodies: Drama and the Elizabethan Succession, London, Royal Historical Society, 1977. 16 Introduzione A Protestant virgin queen regnant represents a further anomaly, in that for Protestants married chastity is to be preferred to celibacy12. Un altro motto della regina era video e taceo, una scelta di condotta solo apparentemente in linea con le prescrizioni maschili. In realtà, l’imperscrutabilità dello sguardo della regina, unito all’ambigua potenza dei suoi silenzi, denotavano astuzia e capacità di giudizio e contribuivano a rafforzare un’autorità che si nutriva del rispetto dei sudditi, incantati al cospetto di una figura ibrida e misteriosa, tanto femminile nell’aspetto quanto determinata, fredda e “virile” nel governo del paese. Vedremo in seguito in che modo Mary Sidney Wroth ed Elizabeth Cary assimilarono la lezione di Elisabetta, facendo della costanza e dell’anelito all’indipendenza i capisaldi etici della loro condotta di vita oltre che i motivi ipogrammatici delle loro opere. 2. I riformatori e il dibattito sul ruolo della donna. Oltre al nutrito stuolo di umanisti, un altro gruppo di innovatori si interessava al problema dell’istruzione femminile. Tra i riformatori spiccano Thomas Becon (1512-1567) e Miles Coverdale (14881569), concordi nel ribadire la necessità che le donne acquisissero conoscenze utili al governo della casa e all’educazione dei figli. La Riforma luterana e calvinista incrinava l’assolutezza delle strutture religiose e sociali attraverso due nodi fondamentali che interessano molto le donne: il sacerdozio universale dei credenti e l’insegnamento impartito al popolo. Un miglior livello di istruzione avrebbe consentito a tutti di assorbire la nozione secondo la quale la vocazione al matrimonio è inscritta nella natura stessa dell’essere umano che, grazie alla fede, può conoscere e vivere pienamente tale dimensione. Mediante il patto nuziale, sostenevano teologi e predicatori nei domestic conduct books, la famiglia diventa una “chiesa domestica” governata dal patriarca. Acquisiti gli strumenti linguistici per una lettura personale dei testi sacri, non poche donne provenienti dai ceti più privilegiati, vincendo ostracismo e dimostrazioni di ostilità, 12 C. Jordan, op. cit., p. 426. Introduzione 17 prendono parte attivamente – con la predicazione e l’attuazione dei consigli evangelici – al dibattito teologico del tempo e al processo di conversione delle masse. Attraverso la traduzione di testi sacri13 e la stesura di manuali devozionali ad uso di altre donne, Lady Jane Dudley, Lady Elizabeth Colville e Mary Sidney Herbert esercitano il ministero della parola, annunciano e diffondono il Verbo, acquistano visibilità e autorità nella sfera pubblica14. Se da un lato la moglie istruita offriva al proprio marito una migliore compagnia, dall’altro si rese presto necessario circoscrivere lo spazio culturale concesso alle donne. Come osserva David Cressy, l’alfabetismo era un’arma a doppio taglio “which could lead to depravity as well as godliness, to dissipation as well as to practical improvement”15. Non pochi puritani condannavano le “bizzarre fantasie” della stampa popolare tesa a corrompere menti e indurre al vizio e all’ozio. Inoltre, l’idea che l’accesso alla cultura e la padronanza dell’arte oratoria potessero incoraggiare le donne a usurpare certe prerogative maschili generava ansie e turbamenti che trovano puntuale codificazione nei pamphlets, nelle prediche, nei sermoni e perfino nelle proclamazioni reali. Nel 1620 Giacomo I raccomandò al clero londinese di condannare l’insolenza delle donne inglesi stigmatizzando in particolare il fenomeno del cross-dressing, la manifestazione più “teatrale” di una crescente inclinazione a violare le prescrizioni relative al ruolo e alla condotta femminile16. Dietro la scelta di assumere sembianze maschili c’era tutto il desiderio di impadronirsi della propria vita scegliendo in autonomia i percorsi da intraprendere. Con l’accesso al sapere arrivò la consapevolezza dei soprusi subiti dalle donne e si moltiplicarono i motivi di conflitto 13 Betty Travitsky, The Paradise of Women, New York, Columbia University Press, 1989, p. 9. 14 Cfr. Claude Dulong, “Dalla conversazione alla creazione”, in G. Duby e M. Perrot, op. cit., pp. 422-6. 15 D. Cressy, op. cit., p. 43. 16 Cfr. Stephen Orgel, Impersonations: The Performance of Gender in Shakespeare’s England, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 26. 18 Introduzione all’interno delle pareti domestiche. Nel registrare un aumento esponenziale dei casi di ribellismo femminile, titoli come The Cruel Shrew, Hic Mulier e The Arraignment of Lewd, Idle, Froward and Uncostant Women (ristampato più volte proprio nel periodo in cui Mary Wroth ed Elizabeth Cary pubblicavano le loro prime opere originali) condannarono ogni forma di comportamento deviante e ribadirono l’importanza di piegare le bisbetiche al silenzio e alla sottomissione. Per la loro trasgressiva outspokenness le scold17 subivano la punizione dell’immersione nello stagno del paese, secondo un rituale pubblico che le macchiava per sempre agli occhi della comunità. Le streghe, nemiche del re in quanto alleate col diavolo, venivano arse al rogo18. La necessità di imporre una forte supervisione patriarcale sulle debolezze della donna segnò il ritorno alle opere di medici e filosofi come Aristotele, Ippocrate e Galeno che imputavano le imperfezioni del corpo femminile ad una eccessiva produzione di fluidi (dalle lacrime al sangue mestruale) e alla collocazione interna degli organi genitali. Come osserva Olwen Hufton, il fatto che i greci avessero una sola parola per indicare l’utero e l’isteria è particolarmente significativo: A causa di questo rapporto tra l’organo e la condizione fisica dell’isteria, l’utero divenne un elemento che determinava l’indole del17 Sulla figura della scold cfr. Lynda Boose, “Scolding Brides and Bridling Scolds: Taming the Woman’s Unruly Member”, Shakespeare Quarterly, 42, 2 (1991), pp. 179-213 e Davis Underdown, “The Taming of the Scold: the Enforcement of Patriarchal Authority in Early Modern England”, in Anthony Fletcher, John Stevenson, Order and Disorder in Early Modern England, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 116-36. 18 Spiega Clara Mucci, Il teatro delle streghe, cit., p. 15: “[…] l’Inghilterra è per Giacomo corpo femminile, signora e sposa, di cui il sovrano è the Head, il capo, la testa, il signore, in una posizione non dissimile da Dio rispetto agli uomini: come è Dio per gli uomini, scrive Giacomo, così è il re per i suoi sudditi. Dall’altra parte di Dio, nella concezione del tempo, lascito medievale, c’è il diavolo, ed è per questo che chi pecca di ribellione contro il sovrano commette peccato politico e religioso a un tempo; così come chi è dalla parte del diavolo, nell’ideologia del tempo, cioè la strega in primo luogo, è nemica del re e punibile con la morte, in quanto commette reato politico, alto tradimento”. Introduzione 19 la donna. Quel che lo rendeva problematico era il fatto di essere caratterizzato da un ciclo mensile e quindi di mettere la donna in correlazione con la luna [...]. Se ne poteva dedurre che questo rapporto esponeva le donne al rischio di essere lunatiche e inclini alla follia, perché la luna poteva esercitare un influsso sulla fantasia femminile e contribuire a una certa mancanza di controllo sulle passioni19. Le teorie pseudo-scientifiche dei filosofi greci e dei medici del Rinascimento condividevano l’onere della prova dell’inferiorità femminile con la tradizione biblica, che dalla credulità di Eva faceva derivare l’irrazionalità della donna, la cui mente debole e instabile era facile preda delle tentazioni della carne e terreno fertile per gli spiriti maligni. San Paolo, Filone Alessandrino, Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino avevano lasciato agli umanisti un’eredità di sofismi sull’inferiorità morale e ontologica della “linguacciuta” Eva. Il racconto della creazione divenne la pietra angolare del pregiudizio storico contro le donne, la cui unica possibilità di redimersi fu abilmente legata all’accettazione volontaria del loro ruolo materno. La femmina è subordinata al maschio, la sua posizione normativa è quella dell’assenza e del silenzio: “[…] le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge” (I Corinti, 14:34). L’insegnamento paolino produce posizioni di ancora più accentuata misoginia nei padri della Chiesa. Secondo Tertulliano la donna era “la porta del diavolo”, mentre Sant’Agostino individuava nel corpo femminile un costante ostacolo all’esercizio della ragione. A questi convincimenti si ispira tutta l’organizzazione della vita sociale e familiare, in un costante rapporto di subordinazione della donna all’uomo20. 19 Olwen Hufton, Destini femminili: storia delle donne in Europa 15001800, Milano, Mondadori, 1996, p. 39 [ed. orig. The Prospect before Her. A History of Women in Western Europe, Volume I 1500-1800, London, Harper & Collins, 1995]. Si veda, inoltre, Ian Maclean, “The Notion of Woman in Medicine, Anatomy, and Physiology”, in L. Hutson, op. cit., pp. 127-55. 20 Cfr. Roberto De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987, p. 216. 20 Introduzione Man mano che aumentava il livello di istruzione delle donne, per effetto delle spinte centrifughe esercitate dalle teorie di umanisti e riformatori, il compito di preservare i rapporti di potere tradizionali si faceva più arduo. Codificare nuove norme comportamentali per le donne, come per il variegato campione di masterless men e sturdy beggars che infestavano la città di Londra, non era sufficiente a ridurre l’entropia del sistema. Rimaneva un problema da affrontare: a chi delegare il compito di far rispettare i nuovi dogmi giacomiani? Non disponendo degli apparati disciplinari in grado di addestrare moltitudini mobili e confuse di corpi e di forze in una molteplicità di elementi individuali21, al sovrano non rimaneva che delegare funzioni di controllo e sorveglianza al capofamiglia, invitato a vigilare sulla condotta di mogli e figli, misurarne le qualità e sanzionarla secondo i criteri della norma patriarcale. Il nuovo assioma giacomiano si raccordava perfettamente sia all’etica protestante sia all’emergente ethos protocapitalista nel considerare il matrimonio lo stato naturale dell’uomo e nel ritagliare alla donna il ruolo marginale di silenziosa, laboriosa e parsimoniosa custode della casa: “Silence, the closed mouth, is made a sign of chastity. And silence and chastity are, in turn, 21 Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 186-7. Nel corso del XVIII secolo la ripartizione degli individui in luoghi protetti dalla monotonia disciplinare come caserme, ospedali, istituti di insegnamento e fabbriche consente di “misurare in termini di quantitativi e gerarchizzare in termini di valore le capacità, il livello, la ‘natura’ degli individui” (p. 200). Se in alcune società “l’individuazione è massimale dalla parte dove si esercita la sovranità e negli strati superiori del potere” nei regimi disciplinari del XVIII secolo “l’individuazione è discendente: nella misura in cui il potere diviene più anonimo e più funzionale, coloro sui quali si esercita tendono ad essere più fortemente individualizzati; e mediante sorveglianze, piuttosto che cerimonie; osservazioni, piuttosto che narrazioni comparative […]” (pp. 210-11). Non è azzardato ipotizzare che Giacomo I stesse tentando di instaurare un regime disciplinare pur non potendo disporre di un buon apparato di polizia; di qui l’attribuzione di compiti di controllo e sorveglianza al capofamiglia, il rappresentante del sovrano all’interno della household. Con gli Stuart ha inizio un processo di transizione storico, politico e culturale al termine del quale la società dello spettacolo si trasformerà in quella che Foucault definisce la “società della sorveglianza”. Introduzione 21 homologous to woman’s enclosure within the house”22. Rispetto alla famiglia allargata medievale, la famiglia ristretta si trasforma in microstruttura dell’ordine, immagine speculare della monarchia assoluta. La sottomissione della moglie e dei figli al capofamiglia è simbolo di quella del suddito al re e del re a Dio, come sostengono Robert Filmer in Patriarcha (scritto intorno al 1630 ma pubblicato postumo nel 1680) e Giacomo I in The Trew Law of Free Monarchies (1597), in cui l’immagine del padre che nutre, guida ed educa i figli, viene sovrapposta a quella del re che governa i suoi sudditi. A proposito dei Canoni del 1604, Susan Amussen osserva che il catechismo domenicale fu imposto ai giovani inglesi al fine di trasformarli in sudditi docili e ammaestrati: “In doing so, it asserted that the family was the fundamental social institution, and that order in families was both necessary for, and parallel to, order in the state”23. Il declino delle relazioni di parentela e lo smembramento dei gruppi familiari insieme alla scomparsa della figura del prete celibe cattolico accentuavano l’isolamento delle donne inglesi, che perdevano la protezione dei genitori e il sostegno morale del confessore rimanendo intrappolate tra le strette maglie della famiglia nucleare24. L’abitazione privata si sostituiva alla Chiesa come luogo di controllo religioso e morale mentre il marito assumeva il compito di vigilare sulle debolezze della donna e di punire i figli, nati morti alla vita divina della grazia a causa del 22 Peter Stallybrass, “Patriarchal Territories: The Body Enclosed”, in M. W. Ferguson, M. Quilligan, N. J. Vickers (eds.), Rewriting the Renaissance: The Discourses of Sexual Difference in Early Modern Europe, Chicago, Chicago University Press, 1986, pp. 123-42, p. 127. 23 Susan Dwyer Amussen, An Ordered Society: Gender and Class in Early Modern England, New York and Oxford, Basil Blackwell, 1988, p. 35. Cfr., inoltre, Jonathan Goldberg, “Fatherly Authority: The Politics of the Stuart Family Images”, in M. W. Ferguson, M. Quilligan, N. J. Vickers (eds.), op. cit., pp. 3-32. 24 Lawrence Stone, The Family, Sex and Marriage in England 1500-1800, Abr. ed., New York, Harper and Row Publishers, 1979, p. 141. Di utile consultazione Alan Macfarlane, Marriage and Love in England, 1300-1840, Oxford, Basil Blackwell, 1986 e Martin Ingram, Church Courts, Sex and Marriage in England 1570-1640, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. 22 Introduzione peccato originale. Mentre il re esercitava la sua sovranità sulla nazione inglese il capofamiglia teneva le fila degli assetti familiari, imbrigliando la voce della moglie e sanando con sistemi punitivi la volontà malata dei figli. Sebbene le teorie di Lawrence Stone, che insistono sulla fragilità e l’inconsistenza dei legami affettivi all’interno della famiglia inglese rinascimentale, siano state di recente contestate, tra gli altri, da Ralph Houlbrooke e James Sharpe25, che danno una lettura diversa del vissuto emotivo e delle dinamiche affettive all’interno delle famiglie inglesi della prima era moderna, la storia dei rapporti familiari nella società inglese rinascimentale si attorciglia intorno ad alcuni assiomi incontestabili. L’autorità patriarcale era la norma sociale del tempo. Per Thomas More, potestà maritale e castità coniugale erano il fondamento dello stato. Dopo il matrimonio l’uomo acquisiva il controllo totale delle proprietà della moglie, costretta a subire passivamente le decisioni del marito in merito alla gestione di beni mobili e immobili. Edmund Tilney (A Brief and Pleasant Discourse of Duties in Mariage, Called the Flower of Friendshippe, 1568), William Gouge (Of Domesticall Duties, 1622) e Matthew Griffith (Bethel: Or a Forme for Families, 1633), rifacendosi sempre alle Scritture, compilarono manuali tesi a insegnare ai coniugi compiti e doveri reciproci. Se il marito era tenuto a garantire il sostentamento della famiglia, la moglie doveva imparare le virtù della buona padrona di casa, mostrandosi sempre laboriosa e obbediente: “The household manuals expected women to make an important economic contribution in the household: they emphasized the wife’s role 25 Cfr. Ralph Houlbrooke, The English Family, 1450-1700, London, Longman, 1984; James A. Sharpe, Early Modern England: A Social History, 1550-1760, London, Edward Arnold, 1987. In particolare, gli studi hanno dimostrato che le madri provvedevano attivamente allo sviluppo dei figli, selezionando con attenzione le balie alle quali affidarli e, successivamente, assicurando al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere. Madri abbastanza privilegiate da avere proprietà da distribuire spesso prevedevano dei lasciti per le figlie con le quali non di rado intrecciavano legami di grande complicità. Per un approfondimento sul tema della condizione femminile nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana si rimanda a Margaret L. King, Women of the Renaissance, Chicago, Chicago University Press, 1991. Introduzione 23 in provisioning the household, and the importance of her thrift”26. Secondo William Gouge, moglie e marito erano corresponsabili del benessere e della prosperità della famiglia ma se la prima poteva occuparsi solo della gestione della casa il secondo gestiva i rapporti con l’esterno. Il dibattito sulla donna e sul matrimonio tocca il punto massimo di intensità negli anni in cui appaiono The Tragedy of Mariam e Pamphilia to Amphilanthus (1613-21), ma ha inizio nei primi decenni del 1500. I manuali e le guide del Seicento erano basati sui modelli severi della cultura puritana ma non facevano che adattare alla contemporaneità teorie e nozioni già formulate da trattati quali De Institutione Feminae Christianae (1523, opera a tiratura internazionale tradotta in inglese nel 1540) di Juan Luis Vives, vademecum per fanciulle, spose e vedove affinché riuscissero a contrastare la loro archetipica inclinazione alla frivolezza facendo leva su virtù morali quali l’umiltà e l’ubbidienza; The Book of Matrimony (1560) di Thomas Becon, che individuava nel marito la guida spirituale della famiglia raccomandando alla moglie una certa oculatezza nella gestione della casa oltre che la proverbiale modestia nel comportamento, e infine, dello stesso autore, Catechism (1560). In quest’ultimo libro appare un dettagliato elenco dei nove doveri di una ragazza nubile tra cui spiccano gli inviti al silenzio, all’operosità manuale, alla castità e all’ubbidienza ai genitori27. 3. Spazi di manovra e vie di accesso all’autorialità. Ovviamente la retorica pubblica non sempre attecchiva negli interni domestici. Il fatto di gestire alcune importanti responsabilità, in primis quella (fondamentale) di provvedere al sostentamento sia materiale che psicologico dei figli, permetteva a mogli e madri di esercitare un certo potere nella sfera privata. Molte donne di ceto medio-alto non erano disposte ad accettare le limitanti norme comportamentali imposte dal sistema patriarcale e anche in materia di gestione del patrimonio non si rassegnavano a su26 27 S. D. Amussen, op. cit., p. 41. O. Hufton, op. cit., pp. 32-3. 24 Introduzione bire passivamente le imposizioni del capofamiglia. Sposata con Richard Sackville nel 1608, Anne Clifford si rifiutò di cedere alle pressioni e ai condizionamenti del marito, del padre e perfino del re in merito alla gestione di beni ricevuti in eredità da un parente. Sackville tentò di punirla assentandosi ripetutamente da Londra, come risulta dal diario in cui Anne Clifford negoziava il suo turbolento ribellismo: All this time my Lord was in London where he had all and infinite great resort coming to him. He went much abroad to Cocking, to Bowling Alleys, to Plays and Horse Races, and commended by all the world. I stayed in the country having many times a sorrowful and heavy heart, and being condemned by most folks because I would not consent to the agreements, so as I may truly say, I am like an owl in the desert28. Nella sfida al marito e all’opinione pubblica Anne Clifford poteva contare sull’appoggio della madre e delle amiche, tra cui la stessa Mary Wroth, anche lei impantanata in una relazione travagliata, stando a quanto scrive Ben Jonson in una lettera all’amico Drummond di Hawthornden: “[…] my Lady Wroth is unworthily married to a jealous husband”29. Questo genere di “resistenza” dà un’idea della profonda ambivalenza culturale connessa al ruolo della donna nella famiglia inglese. Rispetto ad Anne Clifford, Mary Wroth godeva dei vantaggi di essere una Sidney, vantaggi che seppe sfruttare con intelligenza e acume. Più complesso è il caso di Elizabeth Cary. Dopo aver recitato per anni il ruolo della moglie devota e ubbidiente, la decisione di convertirsi al cattolicesimo le costò il boicottaggio economico e la rottura col marito che, sdegnato da tanta audacia, la abbandonò a se stessa. Ribellarsi contro la reli28 D. J. H. (ed.), The Diaries of Lady Anne Clifford, Phoenix Mill, Sutton Publishing, 2003, p. 35. Sulla figura di Ann Clifford si veda, inoltre, Martin Holmes, Proud Northern Lady. Lady Anne Clifford, 1590-1676, London and Chichester, Phillimore, 1975. 29 Riportato in Naomi Miller, Changing the Subject: Mary Wroth and the Figurations of Gender in Early Modern England, Lexington, Kentucky University Press, 1996, p. 28. Introduzione 25 gione di stato non era che un modo di manifestare la sua sete di indipendenza: “Throughout her life religion had given Cary leave to contest domestic as well as political authority”30. Elizabeth arriverà a rapire i suoi stessi figli per sottrarli alle grinfie del primogenito Lucius, che sulle orme del padre aveva abbracciato il credo protestante. Insomma: il matrimonio, come osserva Stephen Orgel31, era una “dangerous condition”, caratterizzata da una estenuante conflittualità tra i coniugi. Se solo le donne fossero state più solidali tra loro, osserva Aemilia Lanyer in Salve Deus Rex Judaeorum (1611), molti ostacoli alla libera espressività femminile sarebbero stati facilmente aggirati32. Questa consapevolezza innerva sia le poesie di Mary Wroth, nelle quali i legami con Mary Sidney Herbert, la regina Anna di Danimarca, Anne Clifford e altre dame di corte sono traslati nel rapporto tra Pamphilia e le figure allegoriche della Notte e della Fortuna, sia i versi di The Tragedy of Mariam, che, rappresentando la complicità tra l’eroina eponima e la madre, veicolano la marca simbolica dello scambio e dell’interazione femminile. Gli steccati innalzati dal regime patriarcale intorno alla prigione domestica non erano privi di crepe e fessure in cui donne istruite e consapevoli non esitavano a infilarsi così da conquistare un palcoscenico da cui dar sfogo alla propria vitalità onnivora e incidere sulla vita pubblica. Se è vero che intellettuali come Mary Sidney Herbert, Ann Bacon, Katherine Parr e Rachel Speght dovettero accontentarsi di “sfiorare” la creatività 30 Meredith Skura, “The Reproduction of Mothering in Mariam, Queen of Jewry: A Defense of ‘Biographical’ Criticism”, Tulsa Studies in Women’s Literature, 16, 1 (Spring 1997), pp. 27-56, p. 43. 31 S. Orgel, Impersonations, cit., p. 17. 32 Tina Krontiris, Oppositional Voices: Women as Writers and Translators of Literature in the English Renaissance, London and New York, Routledge, 1992, p. 111. Sulla figura di Aemilia Lanyer cfr. Susanne Woods, Lanyer: A Renaissance Woman Poet, New York and Oxford, Oxford University Press, 1999. Susanne Woods ha curato anche un’ottima edizione delle poesie di Aemilia Lanyer: The Poems of Aemilia Lanyer. Salve Deus Rex Judaeorum, New York and Oxford, Oxford University Press, 1993. Si veda, inoltre, Marshall Grossman (ed.), Aemilia Lanyer: Gender, Genre, and the Canon, Lexington, Kentucky University Press, 1998. 26 Introduzione attraverso il mecenatismo, la traduzione di testi biblici e la compilazione di opere di tipo devozionale, è altresì vero che l’esercizio di queste attività consentiva loro di accedere agli spazi aperti della sfera pubblica oltre che di confrontarsi con le implicazioni dell’autorialità33. “La traduzione”, osserva Pilar Godayol, è stata per lungo tempo una forma di discorso secondario e, pertanto, è sempre parso che le traduttrici soccombessero all’autore che marcava l’autorità del testo. Nonostante ciò, a forza di giocare con l’autorialità nel testo e di entrare nel discorso pubblico silenziosamente, le traduttrici imparano a rendersi visibili in introduzioni e dedicatorie. Per mezzo di scuse e spiegazioni umili sull’autorialità, alcune traduttrici lasciano intravedere le proprie convinzioni sui presupposti ideologici della pratica34. Schermandosi dietro una modestia apologetica onnipresente e una scelta prudente e oculata dei testi fonte, le traduttrici della prima età moderna riuscirono, seppur obliquamente, a partecipare ai discorsi sociali e culturali del potere stabilito, contribuendo a disporre un’utile segnaletica sui sentieri inesplorati della scrittura femminile. Anche nel caso di opere a carattere religioso o devozionale, la trasposizione da una lingua all’altra del testo di partenza richiede una ricerca estetica tesa ad individuare modi e metodi di una “messa in forma” dei contenuti35. 33 E. Beilin, op. cit., p. 21. Per un approfondimento sulla figura di Rachel Speght cfr. Barbara Kiefer Lewalsky (ed.), The Polemics and Poems of Rachel Speght, New York and Oxford, Oxford University Press, 1996. 34 Pilar Godayol, Spazi di frontiera: genere e traduzione, Bari, Palomar, 2002, p. 69. 35 Si veda, in proposito, quanto scrive Katharina Wilson (op. cit., p. XXX): “Translation, by and large, was considered a ‘feminine’ (because non original) endeavour, best suited for women. But Renaissance women translators, while discouraged from composing original texts, did often authenticate their works – if perhaps marginally – by adding or shifting emphasis, coining new terms, extending metaphors, omitting phrases, and successfully adapting the source language into their native idiom. They played seminally important roles in creating the literary vernaculars”. Introduzione 27 I Salmi di Mary Sidney Herbert sono componimenti di straordinaria originalità, apprezzabili per i loro meriti intrinseci piuttosto che nel rapporto con gli originali. Protetta dal prestigio di Sir Philip, da lei stessa celebrato come il vero artefice delle traduzioni, la contessa di Pembroke completava la sua prima incursione nel mondo dell’autorialità pubblicando una versione religiosa di forme letterarie secolari come il lamento d’amore petrarchesco. Alla traduzione de “Il trionfo della morte” di Petrarca è affidato il primo attacco indiretto agli stereotipi della tradizione letteraria inglese, dal momento in cui vengono decantate le virtù di Laura, prototipo di donna eloquente e vivace in netto contrasto con la figura passiva e silenziosa che influenza la caratterizzazione delle amanti celebrate da Spenser (Amoretti, 1595), Drayton (Idea’s Mirror, 1594), Daniel (Delia, 1592) e Sidney (Astrophil and Stella, 1591). Infine, le traduzioni della tragedia storica Marc Antoine di Robert Garnier e del Discours de la Vie et de la Mort di Philippe de Mornay sono rispettivamente motivate dal desiderio di commentare fatti e questioni di politica interna attraverso il filtro della storia romana e dalla volontà di denunciare gli abusi della corte inglese36. 36 Margaret P. Hannay, “‘Your Vertuous and Learned Aunt’: The Countess of Pembroke as a Mentor to Mary Wroth”, in Naomi Miller, Gary Waller, (eds.), Reading Mary Wroth: Representing Alternatives in Early Modern England, Knoxville, University of Tennessee Press, 1991, pp. 16-7. Le opere di Mary Sidney Herbert sono state raccolte nella preziosa antologia The Collected Works of Mary Sidney Herbert, Countess of Pembroke, a cura di Margaret P. Hannay, Noel J. Kinnamon, Michael G. Brennan, II Voll., Oxford, Clarendon Press, 1998. Si veda, inoltre, Danielle Clarke (ed.), Isabella Whitney, Mary Sidney and Aemilia Lanyer: Renaissance Women Poets, Harmondsworth, Penguin, 2000. Per un approfondimento sulla poetica di Mary Sidney Herbert si veda Margaret P. Hannay, Philip’s Phoenix: Mary Sidney, Countess of Pembroke, New York and Oxford, Oxford University Press, 1990; si vedano inoltre gli articoli di Diane Bornstein, “The Style of the Countess of Pembroke’s Translation of Philippe de Mornay’s Discours de la Vie et de la Mort”, in Margaret P. Hannay (ed.), Silent But for the Word: Tudor Women as Patrons, Translators, and Writers of Religious Works, Kent, Kent State University Press, 1985, pp. 126-48 e Beth Wynne Fisken, “Mary Sidney’s Psalmes: Education and Wisdom”, in Silent But for the Word, cit., pp. 166-83. 28 Introduzione Grazie alle traduzioni di Mary Sidney Herbert il panorama culturale dell’Inghilterra elisabettiana si arricchisce di nuovi e sofisticati generi letterari, ottimi “conduttori” di idee nuove e destabilizzanti: Like Queen Elizabeth, who cleverly adapted the strictures of chastity into a public relations triumph (the cult of the Virgin Queen), the Countess of Pembroke used her public role as ‘Sidneys sister Pembrokes mother’ to push back the boundaries for women, even while appearing to remain within them. If she speaks from the margins of literature, she nevertheless speaks clearly37. Sull’esempio di Margherita di Navarra, grande mecenate e protettrice di umanisti e letterati francesi fra cui il biblista Jacques Lefèvre d’Étaples, François Rabelais e il poeta Clément Marot, Mary Sidney Herbert seppe ritagliarsi una fetta di potere culturale anche in qualità di animatrice di cenacoli intellettuali. Il mecenatismo rappresentava un modo indiretto di esprimere energie creative; patrocinare un’opera letteraria era come infonderle vita, guidarla negli angusti meandri del discorso maschile, renderla visibile. Nel corso degli anni, il cenacolo di Wilton diventò un importante centro culturale frequentato da letterati e intellettuali come Daniel, Spenser, Ralegh, Jonson e Davies38. Il tortuoso cammino di emancipazione e di scoperta al femminile passava anche attraverso la predicazione religiosa. Dietro il fervore di Lady Jane Dudley, Lady Elizabeth Colville e la martire protestante Anne Askew, autrice di un’intensa autobiografia spirituale39, si cela il desiderio di esprimere la propria creatività, di far sentire la propria voce e imporre le proprie idee seguendo il percorso tracciato da scrittrici come Margherita di 37 M. P. Hannay, “‘Your Vertuous and Learned Aunt’: The Countess of Pembroke as a Mentor to Mary Wroth”, cit., pp. 17-8. 38 Sulla famiglia Pembroke e il mecenatismo letterario si veda Michael G. Brennan, Literary Patronage in the English Renaissance: The Pembroke Family, London and New York, Routledge, 1988. 39 Sulla figura di Anne Askew si veda Martin Randall (ed.), Women Writers in Renaissance England, London and New York, Longman, 1997, in particolare il capitolo “Ann Askew: The Examinations”, pp. 58-71. Introduzione 29 Navarra, che nell’Heptaméron (1542-49, pubblicato nel 1559) riuscì ad intercalare le sue tendenze mistiche a esigenze filosofico-didattiche, Teresa d’Avila, autrice di trattati in cui utilizzò una nuova simbologia per esprimere le sue esperienze religiose, ed Elisabetta I, abile traduttrice (a lei si deve la versione inglese della poesia Miroir de l’âme pécheresse, composta nel 1531 da Margherita di Navarra) nonché autrice di omelie, orazioni e poesie. La riforma protestante, che, con la sua enfasi sulla salvezza individuale e la lettura privata delle Scritture, si trasformò presto nel veicolo delle aspirazioni di un’umanità oppressa dall’ignoranza e dall’analfabetismo, trovò le donne pronte a partecipare attivamente ai suoi vorticosi processi. Sempre più di frequente mogli, madri e vedove abbandonavano la clausura domestica per dedicarsi alla predicazione itinerante o all’indottrinamento delle masse, così da conquistare, finalmente, il potere della parola. Aemilia Lanyer, in Salve Deus Rex Judaeorum, canta le lodi di Cristo ma si impegna anche in una difesa femminista di Eva. Nella sezione “Eves Apologie in Defence of Women”, dimostra come certi episodi biblici siano stati selezionati a scapito di altri per attribuire alla donna ogni responsabilità del peccato originale e della conseguente caduta dell’uomo40. Attraverso un’accurata selezione di episodi solitamente espunti dalla predicazione, Lanyer denuncia le responsabilità di Adamo, sul quale pesa il fardello della colpa in quanto investito dell’autorità. Agli uomini è attribuito anche il più grave dei peccati commessi nella storia: il tradimento e la crocifissione di Cristo. Proprio l’analisi della Passione di Gesù le consente di parlare dei torti subiti dalle donne, vittime deboli e indifese della tirannia patriarcale. La stessa Elizabeth Cary seppe ritagliarsi uno spazio di espressione partecipando a dispute e dibattiti religiosi. Nel 1630 pubblicò la traduzione di una replica del cattolico francese Jacques Davy du Perron agli attacchi indirizzati alle sue opere da Giacomo I (The Reply of the Most Illustrious Cardinall of Per40 92. The Poems of Aemilia Lanyer. Salve Deus Rex Judaeorum, cit., pp. 84- 30 Introduzione ron), dedicando il lavoro ad Enrichetta Maria di Francia, moglie cattolica del primogenito di Giacomo I, Carlo Stuart. Nella “Epistola al lettore” Cary si definisce una Cattolica e una Donna – “The first serves for mine honor, and the second, for my excuse”41 – legittimando la propria voce sovversiva mediante il riferimento alla vocazione religiosa che sentiva crescere dentro di sé e nascondendo le proprie ambizioni letterarie dietro l’adesione a stereotipati riferimenti culturali sull’inferiorità intellettuale della donna. Cary tradusse numerose opere di propaganda cattolica oltre che alcune vite dei santi. La frizione tra i suoi doveri di moglie (Sir Henry era protestante) e la sua missione sociale di paladina del cattolicesimo generò scintille che Elizabeth Cary seppe iniettare nei versi più spigolosi del dramma The Tragedy of Mariam prima che innescassero, nel 1626, la rottura definitiva col marito e con la Corte di Giacomo I, in occasione della sua conversione pubblica al cattolicesimo42. Un’ultima via d’accesso alla scena letteraria inglese del Seicento è costituita dalla produzione dei cosiddetti advice books43. Nel 1624, esce, postumo, The Mothers Legacie to her Unborn Child, un libretto che Elizabeth Joceline aveva scritto per il figlio nel caso non fosse sopravvissuta al parto. I suoi timori si rivelarono profetici; Elizabeth morì dando alla luce il primogenito. All’editore Thomas Goad non sembrava vero di poter pubblicare un volume tanto commerciale senza incorrere nelle sanzioni dell’opinione pubblica maschile, contraria alla diffusione di scritti femminili, pertanto si preoccupò di rassicurare i lettori sostenendo che l’autrice era già passata a miglior vita e che il 41 Riportato in Barry Weller, Margaret W. Ferguson (eds.), Elizabeth Cary, Lady Falkland / The Tragedy of Mariam, the Fair Queen of Jewry with The Lady Falkland: Her Life by One of Her Daughters, Berkeley, University of California Press, 1994, p. 11. 42 Mary Lamb, Gender and Authorship in the Sidney Circle, Madison, University of Wisconsin Press, 1990, p. 17. 43 Sulle modalità e le strategie di accesso alla scena letteraria inglese da parte delle scrittrici elisabettiane e giacomiane si veda, di chi scrive, “The Renaissance Englishwoman’s Entry into Print: Authorizing Strategies”, The Atlantic Critical Review, 3, 3 (July-September 2004), pp. 1-19. Introduzione 31 marito si era prodigato affinché l’opera testamentaria fosse pubblicata. Nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana una donna su quattro moriva nei primi anni di matrimonio, il decesso legittimava la pubblicazione di scritti testamentari che includevano istruzioni ai figli e manuali di condotta44. Tra i tanti advice books scritti nei primi decenni del Seicento sarà sufficiente citare Miscelanea, Meditations, Memoratives (1604) di Elizabeth Grymeston, il testamento di una madre consapevole, come altre donne del tempo, del richiamo pubblico dei suoi scritti privati. L’indottrinamento morale dei fanciulli è un compito tanto importante da giustificare un’incursione della donna nell’autorialità. Questo, in nuce, il pensiero di Dorothy Leigh, autrice di The Mothers Blessing: or The godly Counsaile of a Gentle-woman, not long since deceased, left behind her for her Children, containing many good exhortations and godly admonitions, profitable for all Parents, to leave as a Legacy to their children. La lunghezza del titolo è commisurata agli intenti apologetici di Dorothy Leigh, che cerca di giustificare questa sua ardita incursione nell’autorialità facendo leva sull’attenuante della pubblicazione postuma del libretto. 4. The stigma of print. In ogni caso va sottolineato che pubblicare i propri scritti era tabù anche per uomini di corte e influenti aristocratici. I quattro libri di poesia più importanti del Rinascimento, Tottel’s Miscellany, Astrophil and Stella di Philip Sidney, Songs and Sonnets di John Donne e Poems di Herbert, vengono tutti pubblicati postumi. In proposito, Wendy Wall parla dello “stigma of print”45 che induceva intellettuali e 44 Wendy Wall, The Imprint of Gender: Authorship and Publication in the English Renaissance, Ithaca, Cornell University Press, 1993, p. 284. 45 Ibid., p. 17. Wendy Wall, inoltre, scrive: “It becomes clear that the ‘stigma of print’ at the end of the century was curiously produced as much by the rhetoric of printed texts themselves as by the fact that texts were actually withheld from the press. The bizarre apologies, justifications, and dedications of the early modern printed texts certainly indicate that publishing writers did indeed face a difficult problem: the fact that culturally sanctioned verse was ‘unauthored’ while authored published works were socially ‘unauthorized’”. 32 Introduzione letterati come Philip Sidney a proteggere i propri componimenti dagli immondi circuiti del mercato. A differenza dei drammaturghi o dei poeti “professionisti”, che vendevano versi ad un pubblico femminile avido di letteratura (capeggiato dalla stessa Penelope Devereux), Sidney sentiva di appartenere all’ambiente di corte, con i suoi obblighi e le sue norme, il suo frusto codice di comportamento e la sua crisi di valori. Affini ai manoscritti medievali in quanto testi fluidi e aperti a continue revisioni, i variegati prodotti della letteratura cortese si arricchivano di suggestioni e significati sempre nuovi percorrendo i circuiti culturali del tempo: Manuscript writing, particularly within the genres of romance and love poetry, was seen to constitute a bid for gentility, while publishing belied one’s reliance on a ‘common’ audience […] printing would render courtly practices obsolete because anyone with money could partake of social jokes, debates, and conversations. In reality, the press offered to make the precarious boundary between aristocracy and the lower gentry more fluid […]46. I manoscritti, prodotti collettivamente, erano, per così dire, “permeabili” al feedback dei lettori, che li sottoponevano a continue revisioni. Il loro prestigio derivava dalla loro circolazione nei cenacoli letterari, dalla loro natura elitaria. Al contrario, i testi stampati e immessi nel mercato perdevano prestigio e autorevolezza in quanto legati al merchandising e destinati a un pubblico meno selezionato ma desideroso di scalare, anche attraverso l’istruzione, la piramide sociale; uomini le cui aspirazioni erano spesso superiori alle posizioni sociali loro assegnate. Per descrivere le dinamiche di circolazione dei testi stampati si faceva spesso ricorso ad un linguaggio erotico o comunque di genere: la compravendita dei libri era associata alla prostituzione e alla mercificazione del prodotto culturale, la librerie erano considerate dei bordelli dove acquistare i piaceri della cultura. Lo stesso John Davies aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’editoria; se da un lato incoraggiò autrici come 46 Ibid., p. 12. Introduzione 33 Elizabeth Cary a pubblicare i suoi scritti, dall’altro lamentava che la pubblicazione di opere indegne avrebbe presto trasformato il mercato letterario in una pratica vile e oscena. Dopo il 1580 l’aumento delle pubblicazioni fu costante e persistente ma la vera svolta nel modo di concepire il mercato editoriale è rappresentata dalla pubblicazione dei Works di Ben Jonson nel 1616, frutto di una articolata rivalutazione del ruolo autoriale. Se pubblicare testi originali era considerato disdicevole per un intellettuale aristocratico, non è difficile immaginare a quanti rischi andasse incontro lo sparuto gruppo di autrici del tempo allorché decidevano di stampare e diffondere i propri scritti. Una volta conquistato un spazio di manovra all’interno della sfera pubblica la donna doveva difenderlo con astuzia e ostinazione. Anche dopo il matrimonio con Robert Wroth, Mary Sidney conservò il blasone della sua famiglia di origine, allo scopo di ribadire la sua appartenenza a una prestigiosa dinastia di letterati47. Il titolo esteso del poema Urania è una miniera di informazioni sui vincoli di parentela che davano licenza e autorevolezza alle imprese della scrittrice: The Contesse of Mountgomeries Urania. Written by the right honorable the Lady Mary Wroath. Daughter to the right Noble Robert Earle of Leicester. And Neece to the ever famous, and renowned Sir Phillips Sidney knight. And to the most exelent Lady Mary Contesse of Pembroke late deceased. Erede del talento letterario della famiglia e portavoce dell’idealismo di Sir Philip, Mary Wroth si sente legittimata a comporre una satira politica audace e trasgressiva. Il titolo dell’opera richiama esplicitamente il prestigioso modello letterario di riferimento, The Countess of Pembroke’s Arcadia, la cui redazione riveduta fu pubblicata nel 1593 dalla contessa di Pembroke, Mary Sidney Herbert. Molte autrici includevano nella dedica o nella premessa un’apologia che ribadiva l’inferiorità e l’indegnità del lavoro 47 Josephine Roberts (ed.), The Poems of Lady Mary Wroth, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1983, p. 11. Si veda, inoltre, Janet MacArthur, “‘A Sydney, Though Unnamed’: Lady Mary Wroth and Her Poetical Progenitors”, English Studies in Canada, 15, 1 (March 1989), p. 13. 34 Introduzione rispetto a quello di un uomo. I dedicatari degli scritti erano spesso influenti aristocratici e personaggi di spicco della scena sociale inglese. Salve Deus di Aemilia Lanyer è preceduto da nove dediche, tutte a donne di alto rango alle quali si richiedeva patrocinio48; la stessa Elizabeth Tudor dedicò la traduzione del Miroir de l’âme pécheresse alla matrigna Catherine Parr. Altre autrici si mostravano riluttanti a pubblicare e si giustificavano evidenziando la forza persuasiva di mecenati e amici influenti. È il caso di Elizabeth Cary che fece circolare il manoscritto di The Tragedy of Mariam nella ristretta cerchia di amici e conoscenti prima che l’incoraggiamento e il patrocinio di Sir John Davies la inducessero a darlo alle stampe. Le vicende umane e artistiche di Mary Wroth ed Elizabeth Cary possono essere comprese solo se collocate all’interno di un preciso quadro di riferimento, l’aristocratica società di corte, istituzione politica e centro di produzione culturale, zona franca in cui anche alle donne era concesso partecipare attivamente alla fruizione letteraria attraverso il mecenatismo, la traduzione di testi sacri e profani e, nel caso delle due autrici in questione, la composizione di opere originali. Entrambe ebbero la possibilità di dedicarsi allo studio e alla scrittura creativa, privilegi riservati esclusivamente alle donne di ceto elevato. Entrambe seppero sfruttare nel migliore dei modi il patrocinio e la protezione di importanti letterati e aristocratici del tempo, adottando tutte le precauzioni possibili affinché i propri scritti sfuggissero alla censura dell’autorità patriarcale pur veicolando alcuni temi e motivi pericolosamente sovversivi. 48 T. Krontiris, op. cit., p. 103. Capitolo I Mary Wroth 1.1 Dalla corte al cenacolo di Penshurst. L’Inghilterra giacomiana è una monarchia fondata sulla famiglia nucleare patriarcale, apparato disciplinare entro cui vengono imposte relazioni di potere e sudditanza. È in questo luogo di socializzazione primaria che si apprendono i modelli della grammatica culturale dominante, intesi come norme relazionali e regole sociali che strutturano i comportamenti secondo rapporti di potere ben delineati. Ad ogni membro della famiglia sono assegnati un posto e un ruolo, la donna è costretta a una vita ritirata, confinata tra le anguste pareti domestiche dove è chiamata ad assecondare ogni decisione del marito e vigilare affinché le regole di condotta stabilite dal capofamiglia siano sempre rispettate. Ad ogni figlio, secondo l’età e il sesso, è attribuito un rango, in seno a una gerarchia che privilegia ancora il primogenito. Il rispetto dell’autorità del genitore, a cui si deve ubbidienza incondizionata e reverenza, è il primo di una lunga serie di doveri assegnati ai figli. Il silenzio e la pazienza sono raccomandati, la loquacità e l’esuberanza castigate con punizioni corporali tese a domare l’irrequietezza infantile e a contrastare una naturale predisposizione al peccato: “La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l’allontanerà da lui” (Proverbi, 22:15). “Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà” (Proverbi, 23:13). Se gli studi più recenti in materia hanno contribuito a individuare nel rapporto madrefiglia il legame più forte all’interno del nucleo familiare, anche in virtù del fatto che, superata l’infanzia, era la madre ad assu- Capitolo I 36 mere il ruolo di educatrice1, i rapporti tra il capofamiglia e i figli erano raramente di tipo affettivo. Ma cosa accade in un ambiente domestico “illuminato” come quello dei Sidney? Qual è la consistenza dei legami affettivi che si sviluppano a Penshurst, Wilton e Baynard’s Castle? L’analisi della corrispondenza epistolare tra Robert Sidney, spesso lontano da casa in quanto chiamato a sostituire il fratello Philip nel ruolo di governatore di Flessinga2, e la moglie Barbara Gamage (cugina di Sir Walter Ralegh) mette in luce un certo grado di affetto coniugale e filiale. È sufficiente riportarne due passi particolarmente significativi: [T]here is no desyre in me so dear as the love I bear you and our children ...you are married, my dear Barbara, to a husband that is now drawn so into the world and the actions of yt as there is no way to retire myself without trying fortune further3. You must excuse mee for our matters bee so busied as I can not write so often as I would. But you shall ever bee most deer to me, and whyle I live I will have the same care of you as of mine own life. Sweete wenche farewell till I can see you4. 1 Ai livelli sociali più alti educare includeva anche insegnare ai figli come trattare con la servitù, come muoversi nella società, come presentarsi e come agire in pubblico. 2 Una delle tre cautionary towns che Elisabetta aveva chiesto agli olandesi dopo aver autorizzato l’invio di un corpo di spedizione comandato da Leicester. Le informazioni biografiche sono tratte dalle seguenti fonti: Margaret Patterson Hannay, “Mary Sidney: Lady Wroth”, in K. M. Wilson (ed.), op. cit., pp. 548-65. Marion Wynne Davies, “‘So Much Worth’: Autobiographical Narratives in the Work of Lady Mary Wroth”, in Henk Dragstra, Sheila Ottway, Helen Wilcox (eds.), Betraying Our Selves: Forms of SelfRepresentation in Early Modern English Texts, Houndmills and New York, Macmillan, 2000. Josephine A. Roberts, “The Biographical Problem of Pamphilia to Amphilanthus”, Tulsa Studies in Women’s Literature, 1, 1 (1982), pp. 43-53; Gary Waller, The Sidney Family Romance: Mary Wroth, William Herbert, and the Early Modern Construction of Gender, Detroit, Wayne State University Press, 1993. 3 Riportato in G. Waller, op. cit., p. 141. 4 Riportato in M. P. Hannay, “Mary Sidney: Lady Wroth”, cit., p. 548. Mary Wroth 37 In altre lettere inviate alla moglie, Robert si riferisce alla piccola Mary, nata nel 1587, con l’affettuoso nomignolo “little Mall” o “Malkin”. Fine umanista, poeta e patrono delle arti, il pater familias si premura di non far mancare alla figlia i libri di cui aveva bisogno per completare un percorso educativo incentrato non solo sull’apprendimento dei codici di condotta e delle regole di comportamento da seguire a corte, ma anche sulla lettura dei classici5. Il fatto che i sonetti di Pamphilia to Amphilanthus siano pieni di rimandi ai versi del canzoniere di Robert Sidney fa pensare che padre e figlia abbiano parlato di poesia di tanto in tanto. Con il beneplacito e l’incoraggiamento di Robert, Mary trascorre molto del suo tempo nei palazzi di Wilton, raffinato e prestigioso cenacolo presieduto da Mary Sidney Herbert contessa di Pembroke, e Baynard’s Castle, residenza londinese della famiglia Herbert, dove ha il privilegio di curiosare tra i volumi di un’ampia biblioteca, ascoltare conversazioni dotte e frequentare il cugino William Herbert, terzo conte di Pembroke, che molti studiosi associano al misterioso Amphilanthus, le cui gesta vengono cantate nel poema Urania e la cui inaffidabilità è stigmatizzata nel canzoniere Pamphilia to Amphilanthus. Durante le sue frequenti visite a Wilton e Baynard’s Castle, Mary ha la possibilità di seguire le varie fasi del complesso lavoro editoriale intrapreso da Mary Herbert, determinata a pubblicare le opere complete del celebre fratello Philip, venendosi a trovare nelle condizioni ideali per assorbire regole di versificazione e modalità espressive messe a punto dallo zio paterno, alla cui lezione Mary deve la preparazione logica e retorica che determina l’affermarsi di certi tratti distintivi della sua poetica. Non serve molta immaginazione per visualizzare un quadretto familiare formato da una giovane e avida lettrice pronta a lanciarsi nelle avventurose vicende narrate in Arcadia e una premurosa precet5 Il rinvenimento (P. J. Croft 1973) di un manoscritto contenente sessantasei poesie inedite firmate da Robert Sidney ha permesso di correggere il tiro di una tradizione critica che colloca Robert ai margini del sodalizio artistico siglato dai fratelli Philip e Mary. Il suo testo rimase inerte, sommerso sotto la coltre dei lavori dei Sidney ma dà sostegno all’ipotesi secondo cui egli avrebbe sempre incoraggiato le imprese letterarie della figlia. 38 Capitolo I trice disposta a soddisfare ogni richiesta della sua “pretey Daughter”6. L’attrito tra gli entusiasmi giovanili di Mary e le convenzioni che regolano il patto sociale in epoca elisabettiana e giacomiana non tardano a manifestarsi. Già dal 1599 Robert Sidney si lancia alla ricerca di un marito per la figlia. Sul piatto della bilancia i Sidney possono mettere il nome – con l’ascesa al trono di Giacomo I, Robert Sidney era stato gratificato con il titolo nobiliare di Barone di Penshurst e nominato ciambellano della regina Anna – e le connessioni giuste a corte, ma in quanto a mezzi finanziari si trovano in cattive acque. Questo fa di Mary una preda non molto appetibile per una famiglia nobile come gli Herbert, tanto ricca quanto vicina alle più alte sfere del potere. Al contrario per lo squire e parlamentare Sir Robert Wroth (1540-1606), ricco proprietario terriero7, l’alleanza con i Sidney poteva rivelarsi utile al fine di intrecciare legami con la corte e acquistare prestigio e visibilità sociale. Il matrimonio tra suo figlio Robert, nominato cavaliere da Giacomo I a Sion House nel maggio 1603, e Mary Sidney si celebra il 27 settembre 1604 a Penshurst. L’intesa tra i coniugi vacilla fin dai primi mesi di matrimonio. In una lettera alla moglie, Robert Sidney racconta di un incontro con il genero che gli appare piuttosto scontento del comportamento di Mary: Heer I found my son [in law] Wroth, come up as hee tels me to despatch some business, and wil be againe at Penshurst on Fryday. I finde by him that there was some what that doth discontent him: but the particulars I could not get out of him, onely that hee protests that hee cannot take any exceptions to his wife, nor her carriage towards him. It were very soon for any unkindness to begin; and therefore whatso6 Con questo appellativo affettuoso Mary Sidney Herbert fa riferimento alla nipote Mary in una lettera scritta a Barbara Gamage, Lady Sidney datata 9 settembre 1951 e riportata nel volume The Collected Works of Mary Sidney Herbert. Countess of Pembroke, cit., p. 286. 7 La famiglia Wroth aveva beneficiato della requisizione dei monasteri da parte della Corona, voluta e attuata da Enrico VIII dopo l’Atto di Supremazia del 1534. Mary Wroth 39 ever the matters bee, I pray you let all things be carried in the best maner til we all doe meet. For mine enemies would be very glad for such an occasion to make themselves marry at mee8. Se l’intervento provvidenziale del conte di Pembroke aveva consentito di mettere insieme una dote adeguata alle richieste dei Wroth, nessuno è in grado di sanare i contrasti fra i giovani coniugi o stemperare lo sconforto di Robert. Sulle cause di questa acrimonia sono state fatte diverse ipotesi. Alcuni studiosi suggeriscono che il matrimonio potrebbe non essere stato consumato, altri ipotizzano la scoperta di un contratto matrimoniale precedente tra Mary e il cugino William Herbert. Con ogni probabilità, Robert Wroth mal sopportava lo spirito indipendente della sua giovane sposa, la quale non accettava di trasformarsi in un’entità sociale differente in quanto membro di una nuova famiglia, risolvendosi piuttosto di conservare il blasone dei Sidney9. Tra gli altri possibili motivi di attrito fra i coniugi va annoverata una spiccata divergenza di interessi: alla lettura e alla scrittura creativa Robert Wroth preferiva passatempi quali la caccia e la pesca, passioni che condivideva con re Giacomo I, spesso ospitato nelle tenute di Laughton e Durrance per battute di caccia. L’unico libro a lui dedicato è un trattato sui cani pazzi scritto da Thomas Spackman, che intendeva celebrare le virtù di un esperto cacciatore e di un cinofilo senza pari: “[…] your place and pleasure is, to keepe many Hounds for Hare and Deare, and Spaniels for land and water”10. Già dal 1604 Mary entra stabilmente nell’entourage della regina che la invita a recitare in alcuni importanti masque rappresentati a corte: The Masque of Blackness (1605), primo lavoro del sodalizio tra Ben Jonson e Inigo Jones, e The Masque of Be8 Riportato in J. Roberts, The Poems of Lady Mary Wroth, cit., pp. 11-2. “Il matrimonio”, scrive Olwen Hufton, “non era visto solo come il destino naturale della donna ma come preciso agente metamorfico, che trasformava la donna in questione in un’entità sociale ed economica differente, come membro di una nuova famiglia, l’unità elementare alla base della società” (“Donne, lavoro e famiglia”, in G. Duby e M. Perrot, op. cit., p. 21). 10 J. Roberts, “The Biographical Problem of Pamphilia to Amphilanthus”, cit., p. 45. 9 40 Capitolo I auty (1608) in cui si conclude la perturbante storia delle dodici donne africane in cerca di una terra dove sbiancare la loro pelle nera. Dopo essere sbarcate in Inghilterra, le donne ripartono con la speranza che la luce della conoscenza emanata dal sole britannico, il re Giacomo I, sia in grado di correggere le imperfezioni di qualsiasi creatura11. The Masque of Beauty mette in scena il ritorno delle donne in Inghilterra; il loro aspetto è ora ingentilito non solo dal candore della pelle ma anche da costumi di pregiata fattura. In testa al drappello la regina fa sfoggio della sua maestà recitando finalmente nella parte di se stessa mentre le etiopi “anglicizzate” celebrano, con i loro costumi sfarzosi e le loro danze rituali, lo splendore della corte inglese. Riferimenti al primo, controverso, masque12 sono rintracciabili in numerosi sonetti di Pamphilia to Amphilanthus, e in particolare in P 25 “Like to the indians, scorched with the sunne”. Negli anni successivi, Mary assiste alle rappresentazioni di Hymenaei (1606), The Masque of Queens (1609), Oberon (1611) e, stando ad alcuni riferimenti contenuti in Urania, agli allestimenti del Lord Hay’s Masque (1607) di Thomas Campion e Tethys’ Festival (1610) di Samuel Daniel. A corte Mary apprende le regole del complesso gioco che si svolgeva attorno alle posizioni di potere. Di arrivismo, corruzione, intrighi e tradimenti si anima la vita a “palazzo”, dove ogni parola nasconde e riveste progetti volti a creare nuove consorterie e alleanze strategiche, tanto da 11 Cfr. Anna Maria Palombi Castaldi, “Spettacoli celebrativi del periodo Stuart”, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli, XXVIII (1985-6). 12 Sembra che re Giacomo fosse alquanto disturbato dalla vista della regina col volto annerito e il ventre gonfio a causa della gravidanza. A proposito del suo compiacimento per il modo in cui si conclude la vicenda in The Masque of Beauty, Lynda Boose, “‘The Getting of a Lawful Race’. Racial Discourse in Early Modern England and the Unrepresentable Black Woman”, in Margo Hendricks, Patricia Parker (eds.), Women, ‘Race’, and Writing in the Early Modern Period, London, Routledge, 1994, p. 53, osserva: “As Jonson’s text records, James was apparently so pleased that he even interrupted the show midway to insist that the ladies dance several encores. Yet what nonetheless returns to haunt the King’s response is the indigestible excess represented in the original masque by the pregnant blackamoor Queen [...]”. Mary Wroth 41 trasformare ogni contatto umano nella recita più o meno grottesca di un copione sempre uguale a se stesso. La consapevolezza della fatuità della vita di corte costituisce il nocciolo duro di tanti sonetti del canzoniere Pamphilia to Amphilanthus dedicati all’elogio della clausura, del raccoglimento e della costanza, valori che tradiscono una certa attenzione per i nuovi fermenti del protestantesimo. Il primogenito di Mary Wroth nasce nel 1614, dieci anni dopo il matrimonio e un mese prima della morte di Robert Wroth. L’insofferenza per una norma sociale che condannava la moglie al ruolo di madre e procreatrice, così da garantire il perpetuarsi della dinastia familiare e della proprietà, contribuisce a spiegare il ritardato concepimento di un erede, attribuibile, per altri versi, alla voragine affettiva che si era aperta tra i coniugi. In considerazione dell’elevata mortalità infantile che falcidiava le famiglie inglesi in epoca rinascimentale, la coppia Sidney/Wroth avrebbe dovuto cautelarsi da una pericolosa dispersione dell’eredità generando una prole ben più consistente; ma possiamo ipotizzare che Mary Wroth non intendesse sacrificare i suoi studi e le sue ambizioni letterarie per dedicarsi ad un impegno a tempo pieno come quello di allevare ed educare i figli. La relazione clandestina con William Herbert ingarbugliava ulteriormente la situazione, se consideriamo che per una dama di corte era inopportuno e sconveniente prendere un amante prima di aver adempiuto al dovere coniugale di fornire un legittimo erede maschio al marito. Tra i ranghi più alti della società l’amore illegittimo era più tollerato di quanto non lo fosse all’interno dei ceti medio bassi, ma Mary Wroth aveva trasgredito le regole in due diversi modi: aveva intrecciato una relazione con un consanguineo, il cugino William, per amore del quale aveva disatteso le aspettative del marito, che da una Sidney non poteva certo pretendere affetto ma chiedeva, in linea con le regole di condotta del tempo, ubbidienza e sottomissione. In seguito alla morte di Robert Wroth, e alla successiva morte, nel 1616, dell’erede unico, il piccolo James Wroth, l’insieme delle proprietà fondiarie passano a John Wroth, fratello di Robert, laddove il fardello di debiti contratti dal marito rimane sul- Capitolo I 42 le spalle di Lady Mary. Per sfuggire ai creditori e conservare la sua indipendenza finanziaria, quest’ultima non esita a presentare petizioni al padre Robert, al segretario di stato Sir Edward Conway e perfino al re, che, non senza qualche imbarazzo, le procurano proroghe, dilazioni e warrant of protection annualmente rinnovati. L’aiuto e l’appoggio di queste importanti figure politiche non mette freno al rapido declino della condizione sociale di Mary Wroth, segnato dall’indebolimento dei legami con l’entourage della regina Anna di Danimarca (dal 1619 non sono più registrate sue presenze a corte); perdita compensata dal rafforzamento del sodalizio di Penshurst, comunità femminile compatta e solidale in cui spiccano le figure di Susan Vere Herbert, contessa di Montgomery, a cui è dedicato il poema Urania, Anne Clifford, Isabella Rich (figlia della “Stella” di Sidney, Penelope Devereux e di Lord Robert Rich), Dorothy Percy e Bridget Vere Norris. Più o meno legate da vincoli di sangue e legami di parentela, queste donne si dimostrano sempre pronte a correre in soccorso l’una dell’altra, ad appoggiare le rivendicazioni di coloro che affermano il diritto all’autonomia (anche finanziaria) e alla scelta d’azione, o ad incoraggiare chi tentava incursioni nel mondo dell’autorialità. Sia Urania che l’inedita tragicommedia pastorale Love’s Victory, composta negli anni Venti, contengono molti riferimenti ai vari membri di questa comunità femminile13. Questi scarni dati biografici forniscono il ritratto di una donna testarda, forte e coraggiosa, tanto da accettare i rischi e affrontare le conseguenze della trasgressiva relazione col cugino William da cui ebbe due figli illegittimi, William e Catherine. Sulla natura e sui risvolti sociali di questa relazione sarà utile riportare le riflessioni di Gary Waller: “[…] first, the sexual independence it indicates, second, that their relationship was suf13 Si veda, in proposito, quanto scrive Nona Fienberg: “Wroth’s community of women recalls Christine de Pisan’s Book of the City of Ladies, where, to undo the damage misogynist texts have wrought, allegorical figures of Reason, Rectitude, and Justice appear to the author” (“Wroth and the Invention of Female Poetic Subjectivity”, in N. Miller, G. Waller, op. cit., p. 189). Mary Wroth 43 ficiently stable or at least recurring to produce two children, and third, that her lover was her cousin. Each of these was such a breach with her assigned place in her society, such an ‘adventure’ as to repay close examination”. Per la vedova Wroth avere due figli dal cugino significava rientrare a pieno titolo nella sfera dei Sidney, guscio protettivo dal quale non si sarebbe mai più staccata. Se per effetto di una legge del 1610 le madri di figli illegittimi erano confinate in case di correzione (a spese del padre), nei casi in cui la paternità era riconosciuta e il genitore si dichiarava in grado di provvedere al sostentamento del figlio le autorità erano disposte a chiudere un occhio. Va da sé che per una nobildonna come Mary Wroth partorire figli illegittimi non era così grave come per una donna di ceto medio o basso. William e Catherine avrebbero avuto le loro opportunità, non sarebbero mai stati un peso per la comunità, e soprattutto la loro storia non sarebbe stata mai registrata così da essere presto dimenticata. 1.2 L’opera e la ricezione. Le poesie raccolte nella collana Pamphilia to Amphilanthus circolarono dapprima in manoscritto a corte e nei salotti di umanisti e mecenati. Nell’elegia Lachrimae Lachrimarum (1613), Joshua Sylvester allude al talento artistico di Mary Wroth mediante l’anagramma AL-WORTH, come indicato ai margini del testo: Although I know None, but a Sidney’s Muse Worthy to sing a Sidney’s Worthyness: None but your Owne *AL-WORTH, Sidnëides [Anagram,* La. Wroth] In whom, her Uncle’s noble Veine renewes (II, 1-4)14. Una prima versione del canzoniere in manoscritto autografo si trova alla Folger Library (V. a. 104) e contiene molte correzioni e revisioni. La versione finale di Pamphilia to Amphilanthus viene pubblicata nel 1621 da John Marriott e John Grismond, 14 Riportato in J. Roberts, op. cit., pp. 18-9. Capitolo I 44 nella sezione finale di un volume dedicato principalmente al poema Urania e stranamente privo dell’insieme eteroclito di pratiche e discorsi rituali che compongono il paratesto dell’opera (istanze prefative, epistole dedicatorie, epigrafi ecc.), come se gli editori avessero fretta di stampare il manoscritto. Il paratesto, osserva Genette, è sempre portatore di un commento autoriale e “costituisce, tra il testo e ciò che ne è fuori, una zona non solo di transizione ma di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito, più o meno ben compreso e realizzato, di fare meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati”15. Prima di dare alle stampe un testo tanto denso di riferimenti a personaggi ed eventi reali sarebbe stato opportuno scegliere un dedicatario capace di garantire sostegno e protezione all’autore. Non che l’amica Susan Vere, contessa di Montgomery, nominata nel titolo esteso dell’opera di Mary Wroth (The Countess of Montgomery’s Urania), fosse una figura di scarso prestigio nell’ambito dell’aristocrazia inglese. Al contrario, la sua costante presenza presso la corte di Anna di Danimarca e il suo impegno a favore di artisti come John Donne ne facevano una delle nobildonne più in vista del tempo. Tuttavia, Susan Vere non avrebbe mai potuto difendere con efficacia l’amica Mary nel caso in cui allusioni e riferimenti agli intrighi di corte avessero contrariato aristocratici più influenti. Inoltre, volendo mettersi al riparo dalla bordata di critiche cui andava inevitabilmente incontro l’Urania, sarebbe stato logico ricorrere ad una efficace forma di autocritica preventiva da affidare alla prefazione autoriale. L’autrice avrebbe dovuto farsi perdonare l’incursione nell’autorialità ribadendo la sua appartenenza a una famiglia di letterati e mondando vicende e personaggi finzionali di ogni denotazione referenziale. Sulle ragioni di questa scelta insolita è possibile fare solo congetture. Mary Wroth potrebbe aver tentennato a lungo prima di optare per la pubblicazione, consapevole dei rischi cui anda15 Gerard Genette, Soglie, Torino, Einaudi, 1989, p. 4. Mary Wroth 45 va incontro dando alle stampe un testo originale di argomento profano. Le sue indecisioni potrebbero aver fatto spazientire gli editori, ansiosi di pubblicare un roman à clef di sicuro impatto sul pubblico in quanto denso di allusioni e riferimenti alla vita e agli intrighi di corte, e quindi determinati ad andare avanti anche senza il consenso dell’autrice che, da parte sua, avrebbe sempre potuto dirottare sul loro operato eventuali critiche dei lettori. Non volendo assumersi la responsabilità di autorizzare la diffusione della sua opera, Lady Mary potrebbe averla lasciata deliberatamente incompiuta trasformandola in un testo ibrido e informale. L’ultima pagina di Urania si interrompe, infatti, a metà frase (“Amphilanthus joying worthily in her; And” – I, iv, 558); di qui l’ipotesi che gli editori non ricevettero mai la seconda parte dell’opera, che pure era pronta ed è tuttora consultabile in un manoscritto conservato alla Newberry Library. Non è improbabile che i primi lettori del manoscritto, amici e avventori del cenacolo di Penshurst, abbiano contribuito a dissuadere Mary dal pubblicare integralmente un testo orientato a stigmatizzare le scelleratezze e i comportamenti bizzarri di importanti aristocratici e di esponenti della media nobiltà. Al contrario, Tom Parker suggerisce che la brusca conclusione del primo libro dell’Urania sarebbe dovuta alla scelta autoriale di imitare l’improvvisa interruzione con cui si chiude l’Arcadia di Philip Sidney, considerando che anche la seconda parte di Urania si conclude in questo modo16. Almeno in un caso, il velo di finzione disposto su fatti ed eventi della vita reale si rivelò troppo esile. I collegamenti tra l’episodio di Seralius e le sue fonti reali non sfuggirono ad Edward Denny, barone di Waltham, oltraggiato nel constatare che Mary Wroth aveva osato descrivere con ironia alcuni eventi della sua vita e, in particolare, le disavventure matrimoniali di sua figlia Honora, sposata allo spregevole James Hay. I comportamenti violenti e intransigenti di Lord Denny, reo di aver minacciato di morte la sua stessa figlia, macchiatasi 16 Tom Parker, Propositional Form in the Sonnets of the Sidney Circle, Oxford, Clarendon Press, 1998, p. 135. Capitolo I 46 dell’infamia di un grave adulterio, colpirono profondamente la sensibilità di Lady Mary che ne mostrò gli aspetti più grotteschi nella sua favola eroica. Denny fu tanto piccato da rispondere con due lettere e un aspro poema di vendetta (“To Pamphilia from the father-in-law of Seralius”) in cui non esitò a definire Mary Wroth una “ermafrodita” che infangava la memoria della virtuosa Mary Sidney Herbert con i suoi fatui versi: Hermaphrodite in show, in deed a monster As by thy words and works all men may conster Thy wrathfull spite conceived an Idell book Brought forth a foole which like the damme doth look17. Non solo Mary aveva usurpato una prerogativa maschile, quella di scrivere e pubblicare opere originali, ma si era spinta tanto oltre da criticare con arguzia e ironia la condotta di vita e i comportamenti di persone reali (perlopiù uomini di ceto elevato) piuttosto che dedicarsi alla lirica di ispirazione religiosa o alla letteratura dei buoni consigli. La sua infrazione è stigmatizzata mediante il ricorso a un linguaggio preso in prestito dal campo semantico della sessualità. Mary Wroth è una ermafrodita che tenta di usurpare prerogative maschili trasformandosi in una creatura ibrida e promiscua capace di generare solo mostri. Quando non convogliato su argomenti sacri, il discorso femminile si trasforma, agli occhi del pubblico maschile, in un atto sessuale che produce materiale erotico e minaccia di indebolire la fecondità biologica della donna mettendo a repentaglio l’intero processo di trasmissione dei beni ai figli legittimi. La difesa di Lady Mary si incanalò su due diversi tracciati. Le accuse furono rispedite al mittente solo dopo aver conquistato la solidarietà e la protezione di amici e patroni disposti a perorare la sua causa. In una lettera inviata al Duca di Buckingham, fidato collaboratore di Giacomo I, Lady Mary dichiarò che con la sua opera non intendeva offendere nessuno, e che le copie erano state vendute contro la sua volontà, tipica argomentazione di17 Riportato in J. Roberts, op. cit., pp. 32-3. Mary Wroth 47 fensiva cui facevano ricorso gli autori del tempo quando le cose si mettevano male. Non ci sono elementi per comprendere quale sia stato l’effetto della lettera a Buckingham, ma non è detto che il testo sia stato automaticamente ritirato dal commercio. In realtà, scrivendo al favorito del re, Mary Wroth cercava di colmare una delle lacune più gravi del paratesto dell’Urania, tentando tardivamente di ottenere il sostegno di un patrono influente: “Wroth’s rhetorical dissociation from the text allows her to position herself officially as innocent of both offence and a desire for publication, while still allowing the text to circulate”18. Al contrario di Josephine Roberts, Rosalind Smith non ritiene che la lettera a Buckingham sia stata scritta per conquistare un alleato importante da contrapporre a Denny. Dopo aver immesso sul mercato il suo testo trasgressivo e scandaloso, l’autrice aveva bisogno di stipulare una “polizza assicurativa” che la mettesse al riparo da ogni eventuale “infortunio”, ovvero dalle critiche e dagli attacchi di chi non concepiva nemmeno l’idea di un testo femminile libero di vagare nei circuiti del mercato editoriale. Al tenace gruppo di detrattori che criticavano le ambizioni di Mary Wroth si oppone un nutrito gruppo di ammiratori, tra cui spiccano i cosiddetti poeti spenseriani, nostalgici dei valori dell’Inghilterra elisabettiana in quanto sostenitori della causa protestante19. Gli Spenseriani erano convinti assertori della funzione sociale della poesia e predicavano l’indipendenza del poeta dalla politica culturale della corte di Giacomo I, definita ostile in quanto contaminata dalle ideologie devianti di alcune fazioni pro-spagnole. Nella poesia che introduce la sua traduzione di Omero (The Iliads of Homer, 1611), George Chapman celebra Lady Mary con le stesse metafore utilizzate da Sir Philip in Astrophil and Stella: “The Happy Starre, discovered in our Sydneian Asterisme”, e la definisce una sostenitrice di “true Reason, and Religion” in opposizione a “the times Apostasie”. George Wither, il più zelante tra gli Spenseriani, include Lady 18 Rosalind Smith, “Lady Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus: The Politics of Withdrawal”, English Literary Renaissance, 30, 3 (2000), p. 411. 19 Ibid., pp. 420-1. Capitolo I 48 Mary tra i dedicatari del suo Abuses Stript and Whipt (1613) e ne esalta il ruolo di patronessa delle arti. Nathaniel Baxter, che nel suo Sir Philip Sydneys Ourania (1606) si autoproclama tutore di Philip Sidney, la menziona come una delle dame più brillanti della famiglia: “Agape, with Musophila the Bride, / Ladyes of worthe, and babes of Sydneia”. Paradossalmente il più importante e influente sostenitore di Lady Mary, Ben Jonson, conosciuto in occasione dell’allestimento a corte di The Masque of Blackness, era un sostenitore della politica di re Giacomo più di quanto non lo fosse Shakespeare. The Alchemist, satira politico-religiosa dedicata a Mary Wroth, va in scena nel 1610 quando si andava concretizzando l’unione tra la principessa Elisabetta e l’elettore palatino. Al contrario della Tempesta shakespeariana, rappresentata a corte nell’ambito dei festeggiamenti per un matrimonio che rafforzava la causa protestante, The Alchemist serve apertamente gli interessi ispano-cattolici20. Sicuro di poter contare sull’appoggio di re Giacomo, da sempre incline a una politica di pacificazione con la Spagna, Jonson si schiera contro l’emergente ethos protestante e contro i nostalgici di Elisabetta. Questa presa di posizione non gli impedì di celebrare una famiglia fortemente legata ai valori dell’Inghilterra elisabettiana come i Sidney, omaggiati nei versi di “To Penshurst”, o di tessere le lodi dell’amica Lady Mary nel poema “To Sir Robert Wroth” e negli epigrammi 103 e 105. 1.3 Pamphilia to Amphilanthus e la convenzione petrarchesca. L’edizione del 1621 di Pamphilia to Amphilanthus, il primo “Canzoniere” femminile nella storia della lirica inglese, ci consegna una serie di 83 sonetti e 20 canzoni. A differenza di quanto avviene nella Vita nuova di Dante e, in parte, nei Rerum Vulgarium Fragmenta di Petrarca, il canzoniere di Mary Wroth 20 Cfr. Frances A. Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare, Torino, Einaudi, 1979. In particolare, si veda il capitolo V: “Ben Jonson e gli ultimi drammi di Shakespeare”, pp. 102-20. Mary Wroth 49 non offre una storia lineare21. Tuttavia, diversi critici hanno cercato, con esiti alterni, di raggruppare sonetti e canzoni in base al tema sviluppato. Josephine Roberts individua quattro sezioni principali: la prima, costituita dalle prime 55 poesie, illustra le emozioni conflittuali che, agitandosi nell’animo di una donna alle prese con una moltitudine di voci interne, la spingono ora ad arrendersi, ora ad affermarsi e imporre il proprio controllo sulle passioni. Dopo un interludio di canzoni si apre la seconda sezione che comprende 10 poesie (P 63-72) incentrate sulle imprese di un maligno e dispettoso Cupido Anacreontico. La terza sezione è una Corona di sonetti (P 77-90), in cui l’ultimo verso di ciascun componimento costituisce l’incipit del successivo mentre il primo verso del sonetto proemiale viene incollato nell’explicit del sonetto che chiude la Corona. Nella struttura circolare di questa collana di sonetti Mary Wroth presenta le difficoltà cui va incontro l’io poetico allorché deve orientarsi nel labirinto delle convenzioni sociali. L’ultima sezione (P 95103) veicola l’atteggiamento di rassegnazione della protagonista, determinata ad accettare con stoica determinazione la natura irrazionale di ogni umano sentimento. Il debito di Pamphilia to Amphilanthus nei confronti del suo modello principale di riferimento, la raccolta Astrophil and Stella di Philip Sidney, si palesa sin dalla scelta dei protagonisti, cui vengono assegnati nomi di derivazione greca. Con ogni probabilità, Mary Wroth voleva indurre i lettori a identificare il suo alter ego lirico con una delle scrittrici più importanti dell’antichità, Pamphilia, vissuta durante il regno di Nerone. Allo stesso tempo, la creazione di un poeta fittizio, Pamphilia (o Astrophil), è tesa a creare una certa distanza tra autore reale e autore implicito. Sidney e Mary Wroth sono al tempo stesso soggetto e oggetto di disamina; il metodo dello straniamento permette loro di guardare con una certa oggettività e distacco alle passioni umane, è un valore co21 Cfr. Heather Dubrow che, tra l’altro, scrive: “[...] the fact that all narratives are located in a mythological realm may suggest that she cannot achieve narrativity in other worlds” (Echoes of Desire: English Petrarchism and Its Counterdiscourses, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1995, p. 141). Capitolo I 50 noscitivo che rende possibile il raggiungimento della consapevolezza. Una volta stabilita l’identità e le strategie autoriali, è necessario fare un identikit del destinatario ideale delle liriche di Mary Wroth, il lettore implicito di poesie composte da una donna. Nel caso di Astrophil and Stella non è difficile individuare i destinatari delle liriche nel folto gruppo di cortigiani, aristocratici e letterati totalmente partecipi dei codici di emittenza. Più difficile risulta delineare il lettore ideale di liriche autoreferenziali come quelle di Mary Wroth, che se da un lato avrebbero dovuto abbattere gli ostacoli al riconoscimento della libera soggettualità femminile, dall’altro appaiono “relentlessly private” come sostiene Jeff Masten: “The sonnets stage a movement which is relentlessly private, withdrawing into an interiorized space; they foreground a refusal to speak in the public, exhibitionist voice of traditional Petrarchan discourse [...]”22. Il prose romance cavalleresco-pastorale The Countess of Montgomery’s Urania, che precede la raccolta di sonetti nel volume pubblicato da Marriott e Grismond nel 1621, contiene preziose informazioni sulla coppia Pamphilia/Amphilanthus. Plasmato sul modello dell’Arcadia di Philip Sidney, Urania narra la storia della carismatica regina Pamphilia, innamorata del cugino Amphilanthus (probabile alter ego di William Herbert) ma destinata, come Elisabetta I, a sposare la sua nazione23. Le vi22 Jeff Masten, “‘Shall I turne blabb?’: Circulation, Gender, and Subjectivity in Mary Wroth’s Sonnets”, in Anita Pacheco (ed.), Early Women Writers: 1600-1720, London, Longman, 1998, p. 27. 23 Così, in proposito, Elaine Beilin: “[...] it is significant that throughout the long course of Urania, Pamphilia and Amphilanthus never marry. Indeed in book 2, Pamphilia reveals that her idea of marriage has little to do with knights and princes, but much to do with her position as queen of Pamphilia. Here, Pamphilia tells her father why she will not marry: ‘his Maiestie had once married her before which was to the kingdome of Pamphilia, from which Husband shee could not bee diuorced, nor euer would haue her other, if it might please him to giue her leaue, to enjoy that happinesse; and besides, besought his permission, for my Lord (said shee) my people looke for me, and I must needs be with them’” (“‘The Onely Perfect Vertue’: Constancy in Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, Spenser Studies, 2, 1981, p. 241). Mary Wroth 51 cende sono ambientate in varie località dell’Europa orientale, spazi immaginari in cui vanno in scena amori, fughe, conflitti e peripezie di re, regine, principi, cavalieri e nobildonne spesso travestiti da umili pastori in modo da portare a termine inganni e raggiri di ogni tipo. Maghi, giganti e briganti arricchiscono il groviglio di personaggi e situazioni che ruota intorno agli attanti principali: Amphilanthus, principe di Napoli infatuato di Antissa, principessa di Romania, e sua cugina, Pamphilia, che lo ama con costanza e segreto trasporto anche se i suoi voti di fedeltà sono messi a dura prova dalle continue separazioni e dall’infedeltà del principe. Tra il vasto gruppo di personaggi secondari spiccano le figure di Urania, una semplice campagnola impegnata a scoprire la sua appartenenza alla famiglia reale; Bellamira, costretta a sposare il modesto Treborius sebbene infatuata di un altro uomo; Lindamira, potente cortigiana destinata a cadere in disgrazia per essersi innamorata del favorito della regina di Francia; Lisia e Limena, costrette a sposare uomini di scarso valore in conformità con le imposizioni paterne; e infine Lady Pastora che, pur sposata, intreccia una relazione adulterina con un uomo a sua volta sposato. Quasi tutti i personaggi appartengono al ceto aristocratico, mancano dunque figure come Dametas e Mopsa che, nell’Arcadia di Sidney, provvedono ad arricchire i toni solenni del poema cavalleresco-pastorale con venature di humour burlesco. Rispetto ai modelli seguiti, sia Urania che Pamphilia to Amphilanthus presentano una più rigida unità di tono. L’ironia con cui Astrophil descrive la ritrosia di Stella e il suo stesso ruolo di amante infelice e schiavo delle passioni è qui assente. Della natura di roman à clef dell’Urania già si è detto; non rimane che sottolineare quanto le scelte strutturali e tematiche siano influenzate da ragioni esistenziali e biografiche. Dietro la frustrazione di personaggi come Pamphilia e Bellamira c’è tutta l’insofferenza di Mary Wroth nei confronti di un rapporto coniugale tutt’altro che appagante. Nelle alterne vicende dei personaggi di Urania è possibile recuperare tanti frammenti di storie reali, tanti quadretti satirici di una realtà asfittica in cui perfino alle nobildonne più assetate di autonomia e indipendenza è 52 Capitolo I negato ogni spazio di manovra. Di qui il continuo lacerarsi di un tessuto sociale sfibrato dalle frustrazioni che agitano le coscienze di chi aspira a scegliere il proprio percorso di vita alla ricerca di una dimensione esistenziale più autentica. Nei componimenti di Pamphilia to Amphilanthus sono registrati i moti interiori della nobile Pamphilia, ansiosa di elaborare le disillusioni patite nel rapporto con il volubile e inaffidabile Amphilanthus mediante il ricorso ad una forma stilistica codificata dai trovatori e dai poeti italiani del Duecento e del Trecento, adattata ai suoni e ai ritmi della lingua inglese dai precursori Wyatt e Surrey, e infine adeguata all’ethos dell’aristocrazia inglese da Spenser e Sidney. In epoca giacomiana il canzoniere di poesie è un genere letterario ormai fuori moda che offre esigui margini di innovazione. Tuttavia, Mary Wroth è troppo invischiata in quello che Gary Waller definisce il “Sidney family romance” per sottrarsi alla tentazione di emulare il padre Robert e lo zio Philip o di rivaleggiare con il cugino William Herbert, anch’egli appassionato di poesia e abile versificatore. La famiglia è il centro gravitazionale attorno al quale ruotano le ambizioni e le aspirazioni di Lady Mary, determinata non solo a rinverdire le tradizioni familiari ma anche, e soprattutto, a cimentarsi con una forma letteraria rimasta a lungo in voga nell’Inghilterra di Elisabetta e considerata da sempre un modello base della grammatica culturale dominante, intesa come sistema di regole che struttura la comunicazione secondo precisi rapporti di potere. La migliore sovversione sta nel distorcere i codici, non nel distruggerli, nell’aderire alla tradizione al fine di rinnovarla, nel filtrare la realtà attraverso la memoria di altri testi per mettere a fuoco lo scarto tra le invariabili culturali del proprio tempo e le emergenti istanze femministe. Ancora nel 1621, il modello retorico petrarchesco forniva gli strumenti più adeguati ad esplorare le contraddizioni della passione che minacciano l’equilibrio razionale di ogni essere umano, ma soprattutto consentiva di travestire idee e pensieri eversivi in una forma socialmente accettabile. Non c’era motivo di cercare codici espressivi nuovi e alternativi. Mary Wroth 53 Molti argomenti, immagini e motivi di Pamphilia to Amphilanthus sono attinti da Dante, Petrarca, Bembo e dai poeti della Pléiade tramite Philip Sidney, la cui collana di poesie “utilizza per la prima volta tutte le possibilità foniche, sintattiche e lessicali della lingua inglese per piegarla entro i moduli della poesia continentale e per farne un efficace veicolo di traduzione dei topoi […] del petrarchismo”24. I modelli topici del codice petrarchesco, con i quali ogni poeta inglese è destinato a confrontarsi, nascono da un’originale combinazione dei tratti distintivi della poesia trobadorica e dello stilnovismo. Laddove Dante tendeva alla lode pura e semplice della donna senza aspirare al raggiungimento di una “ricompensa”, della gioia d’amore, Petrarca non può identificare in Laura la “Beatrice”, la donna angelo che farà da guida al suo percorso ascensionale. La donna che ama, per quanto distante e ritrosa, rimane una presenza reale nella vita dell’io poetico, intossicato dal suo fascino e dalla sua bellezza. L’insorgenza dell’Eros, in Petrarca come in Sidney, esclude ogni possibilità catartica25. Allo stesso tempo, Petrarca sembra assorbire la filosofia della Vita nuova vivendo il suo amore tutto terreno per Laura come il punto di innesco di un dissidio interiore alimentato dal contrasto tra le esigenze del corpo e i richiami dell’anima, tra colpa e redenzione. Gli stati 24 Philip Sidney, Astrophil and Stella, a cura di Vanna Gentili, Bari, Adriatica, 1965, p. 148. Tutte le citazioni dal canzoniere di Philip Sidney faranno riferimento a questa edizione. L’indicazione del sonetto e dei versi citati sarà preceduta dalla sigla AS. 25 Si veda, ad esempio, il sonetto 46 di Astrophil and Stella: “I curst thee oft, I pitie now thy case, / Blind-hitting boy, since she that thee and me / Rules with a becke, so tyrannizeth thee, / That thou must want or food, or dwelling place. / For she protests to banish thee her face, / Her face? O Love, a Rogue thou then shouldst be, / If Love learne not alone to love and see, / Without desire to feed of further grace. / Alas poore wag, that now a scholler art / To such a schoole-mistresse, whose lessons new / Thou needs must misse, and so thou needs must smart. / Yet Deare, let me his pardon get of you, / So long (though he from booke myche to desire) / Till without fewell you can make hot fire”. Si noti la connotazione sessuale dell’attributo “further” e la combinazione del verbo “to feed” con il sostantivo “desire” che suggerisce la nozione di desiderio come impulso da soddisfare. Capitolo I 54 d’animo oscillano e ondeggiano come un vascello alla deriva. La metafora della nave e del timoniere è solo uno dei numerosi luoghi comuni che attraversano le liriche del Petrarca26. Anche quando riesce ad assumere il controllo del timone il soggetto poetico non riesce a manovrarlo, in quanto la donna amata scatena una tempesta di emozioni che gli fa perdere la capacità di sottrarsi alla tirannia dei sentimenti e all’intorpidimento che ne risulta. Qui può essere interessante confrontare i modi in cui Petrarca, Philip Sidney e Mary Wroth sviluppano rispettivamente questo motivo: Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi; et al governo siede ‘l signore, anzi ‘l nimico mio. A ciascun remo un penser pronto et rio che la tempesta e ‘l fin par ch’abbi a scherno; la vela rompe un vento humido eterno di sospir’, di speranze et di desio27. (Canzoniere, P 189, vv. 1-8) I see the house, my heart thy selfe containe, Beware full sailes drowne not thy tottring barge: Least joy, by Nature apt sprites to enlarge, Thee to thy wracke beyond thy limits straine. (Astrophil and Stella, P 85, vv. 1-4) Like a ship, on Goodwines cast by wind The more she strives, more deepe in sand is prest Till she bee lost; so am I, in this kind Sunk, and devour’d, and swallow’d by unrest (Pamphilia to Amphilanthus, P 68, vv. 5-8)28. 26 Si veda, ad esempio, il sonetto 189 “Passa la nave mia colma d’oblio”. Le citazioni dal Canzoniere faranno riferimento alla seguente edizione: Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1992. 28 The Poems of Lady Mary Wroth, cit. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa edizione. L’indicazione del sonetto e dei versi citati sarà preceduta dalla sigla PA. 27 Mary Wroth 55 Un vento di sospiri e di speranze gonfia e squarcia le vele della nave di Petrarca. La forza dei desideri scardina le difese razionali dell’io e lo trasporta tra Scilla e Cariddi, i due mostri (personificazioni della forza della natura) che nel mito greco terrorizzano i naviganti al loro passaggio nello stretto di Messina. Anche Sidney pone l’accento sulla forza delle passioni e sullo stato di timore che accompagna la pregustazione della felicità. L’ansia di soddisfare i propri impulsi fa gonfiare le vele a tal punto da condurre la nave “oltre i limiti”, nel cuore della tempesta. La nave di Mary Wroth non si trova in alto mare, non ingaggia lotte con gli elementi naturali, non attraversa spazi mitici e non si lancia in avventure temerarie. È incagliata a riva, immobile. Ogni tentativo di liberarla dai lacci terreni si rivela inutile e controproducente (“The more she strives, more deepe in sand is prest”). Dal mare torniamo alla terra, elemento associato all’uomo, alla concretezza, all’autorità. I sogni e i sospiri dei poeti si insabbiano nei versi di una poetessa che sente di vivere in una atmosfera di bonaccia, ancorata al suo ruolo di moglie e madre fedele e passiva, silenziosa e immobile. La navigazione turbata dai venti simboleggia la mancata pace interiore e la frustrante percezione di una mancanza di contromisure da opporre al logoramento costante dei sensi: “Pace non trovo e non ò da far guerra” (sonetto 134) dichiara, sconfitto, il poeta che sa di non poter dare sfogo ai suoi desideri, di non poter “far guerra” all’amata. Per sublimare questa pulsione aggressiva è necessario attivare un’operazione psichica che possa consumare l’energia delle cariche aggressive canalizzando l’energia della pulsione in un’intensa attività intellettuale, in una autoanalisi che sfrutta l’invenzione della donna-specchio. Il più importante punto di contatto tra stilnovismo e petrarchismo è individuabile nell’attribuzione di ruoli che vuole l’uomo attivamente impegnato in un’avida ricerca di perfezionamento morale e la donna ridursi ad uno specchio che riflette i sentimenti del poeta-Narciso. Non c’è mutualità nelle esperienze e nei rapporti descritti nei canzonieri di Petrarca e Sidney. Petrarca ama il lauro (la poesia) e la laurea (la fama) più che la persona reale. Prima di essere donne, Laura e Stella sono nomi, 56 Capitolo I funzioni: “Laura is an idea idealized, which the fictive poet contains or absorbs, an effect, in part, of his epistemology, which assumes that knowing requires an internal replica, or image, of the known thing”29. Il ricorso al convenzionale blason30 della donna, la cui figura viene scomposta, con sineddochica metodicità, in occhi neri, labbra di rubino, denti di perla e capelli d’oro, si spiega appunto con la necessità di assorbire l’identità dell’altro al fine di mettere a fuoco la propria. È più facile assimilare ciò che è stato opportunamente smembrato e sezionato. Con un pun tipico della lirica tardo rinascimentale gli occhi dell’amata, “eyes” [ais], servono da specchi per l’individuazione dell’io – “I” [ai], il volto della donna si trasforma nel campo vitale dell’espressività maschile, è ridotto a riflettere le peripezie di una coscienza aliena: “Men make women, and make themselves through the medium of women”, osserva Louis Montrose31. Negli occhi dell’amata l’io poetico scorge i frammenti amorfi del proprio ego e dà loro forma e consistenza mediante il linguaggio. La struttura ossimorica del Canzoniere è il frutto della continua ricerca di un delicato equilibrio degli opposti che garantisca la stabilità dell’io. Lo scontrarsi di entusiasmo e disillusione, successo e fallimento, fiducia nei potenti mezzi della ragione e senso di impotenza, unità e frammentazione dell’io, produce schegge che il poeta tenta pazientemente di ricomporre fissando e stemperando il desiderio nel linguaggio dell’amor cortese in una operazione destinata a ripetersi all’infinito. La conferma di sé non sta al di là delle figure del nostro linguaggio ma in queste stesse figure, nel loro statuto tensionale, che tiene insieme il plurale e l’eterogeneo. Allo stesso tempo situazioni di sofferenza e di disagio si esprimono nella tendenza a seguire 29 Mary Moore, Desiring Voices: Women Sonneteers and Petrarchism, Carbondale, Southern Illinois University Press, 2000, p. 136. 30 Il blason è il catalogo delle bellezze femminili, genere tipico della lirica provenzale assimilato da Dante e Petrarca che ne fanno un uso ricorrente nei rispettivi canzonieri. Si vedano altresì i sonetti 9 e 77 di Astrophil and Stella. 31 Louis Montrose, “‘Shaping Fantasies’: Figurations of Gender and Power in Elizabethan Culture”, Representations, I, 2 (Spring 1983), p. 42. Mary Wroth 57 una via già tracciata, a percorrere dei binari limitanti già predisposti dal sistema culturale. La ripetitività è la prassi fondamentale del petrarchismo, a livello fonoprosodico, lessicologico, sintattico e semantico (tematico). Rivivere e verbalizzare le oscillazioni del sentimento amoroso consente di esercitare un controllo sulle passioni e sugli stati d’animo. Alla poesia Petrarca come Dante, Shakespeare come Sidney, affidano il loro processo di espansione e autoaffermazione spettacolaristica dell’io32, reso possibile dalla presenza della donna amata, specchio immobile su cui confrontare i propri timori e proiettare un’immagine di sé stabile e coesa. L’invenzione degli occhi della donna come specchi che riflettono i “connotati” dell’uomo diventa nel tempo una favola che conserva la sua efficacia se narrata fedelmente, senza mai modificarne gli esiti. La convenzione vuole che sia il soggetto maschile a parlare d’amore, a descrivere i propri contrastanti sentimenti, a osservare e desiderare la donna feticcio, sognata e temuta dal fragile io del poeta. Di qui la portata eversiva del discorso di Mary Wroth, autrice che confonde i ruoli canonici dell’amor cortese piegando i rigidi quadri del petrarchismo alle esigenze di un io lirico altro e alternativo: una principessa desiderosa di ritagliarsi un consistente spazio di azione e pronta a stigmatizzare il double standard secondo cui l’infedeltà e l’inaffidabilità degli uomini è tollerata, a differenza di quanto avviene per le donne, la cui insofferenza nei confronti di partner ottusi e distratti è puntualmente demonizzata. Nel sonetto P 53 Mary Wroth ripropone il topos dell’amante che cerca di estinguere le fiamme della passione: When hott and thirsty to a well I came Trusting by that to quench part of my flame, Butt ther I was by love afresh imbrac’d; Drinke I could nott, butt in itt I did see My self a living glass as well as shee 32 Ovvero il processo di “self-fashioning” nella definizione di Stephen Greenblatt (Renaissance Self-Fashioning. From More to Shakespeare, Chicago, University of Chicago Press, 1980). Capitolo I 58 For love to see him self in truly plac’d. L’immagine è erotica e sensuale, la poetessa decide di subire le fiamme e lasciarsi bruciare fino a quando sarà ridotta in cenere33. Ancor più dell’audacia espressiva che contraddistingue la rielaborazione della metafora della passione come fuoco che “brucia” la razionalità dell’io, colpisce il ribaltamento di uno dei luoghi comuni più radicati nella cultura inglese rinascimentale, il topos dell’immagine riflessa in uno specchio come “doppio” o “rappresentazione” dell’identità umana. In questo caso la donna non è più l’oggetto riflettente nel quale gli uomini ripongono il bisogno continuo di conferma e di approvazione. L’immagine riflessa dall’acqua non è quella del poeta che, emulo di narciso, ricalca i confini dell’io per rafforzarlo e difenderlo dall’intrusione dell’altro, ma quella di una poetessa determinata ad imporre la sua nuova identità sociale34. Per comprendere strategie e modalità di questa revisione del modello petrarchesco è necessario distinguere, con Leonard Forster, i concettismi esterni – “Praise of the lady; the lady’s accomplishments; objects belonging to the lady; celebration of the place of lovers’ meeting; meeting the beloved in dreams” – da quelli interni – “The nature of love; relations between lovers; the effects of love; rejection of the beloved; death motifs”35. Ora, se da un lato in un canzoniere come Astrophil and Stella troviamo esempi di entrambi i tipi, in Pamphilia to Amphilanthus si registra una netta prevalenza dei concettismi del secondo tipo. 33 Cfr. M. N. Paulissen, op. cit., pp. 192-200. Cfr. Saskia Schabio, che, tra l’altro, scrive: “Love’s imaginary, selfgratifying gaze is thereby subjected to Pamphilia’s perspective and interpretation, which also implies that Pamphilia becomes ‘all’. One reading of this inversion would be that Pamphilia simulates the traditional idealising gaze on the Lady, using love as an instrument of her own gratification” (“Screen over Nothingness: Self-Reflection in Lady Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, in Detlev Gohrbandt, Bruno von Lutz, Saskia Schabio (eds.), Seeing and Saying: Self-Referentiality in British and American Literature, Berlin, Peter Lang, 1998, p. 80. 35 Leonard Forster, The Icy Fire, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, p. 8. 34 Mary Wroth 59 Mary Wroth non solo ribalta le convenzioni della lirica petrarchesca assegnando ad un uomo il ruolo dell’amante passivo e silenzioso, ma va perfino oltre arrivando a espungere ogni riferimento all’aspetto o alla personalità di Amphilanthus, rifiutandosi di porre il “tu” al centro dell’esperienza che si accinge a compiere l’io narrante36. Il viaggio tortuoso e tormentato della protagonista è compiuto in solitudine, in assenza di un antagonista forte e autoritario al quale riservare tutto lo spazio interiore o sul quale misurare e controllare le proprie insicurezze. Mary Wroth non ha bisogno di espedienti drammatici per mettere in scena le proprie vicende esistenziali, i suoi sfoghi non si inscrivono in un contesto dinamico di recitazione a più voci, Amphilanthus è chiamato in causa rarissime volte nei monologhi di Pamphilia e anche in questi casi la sua presenza è subito interiorizzata nella banca dati della memoria: When last I saw thee, I did nott thee see, Itt was thine Image, which in my thoughts lay Soe lively figur’d, as noe times delay Could suffer mee in hart to parted bee; (P 24, vv 1-4) La “mente intralinguistica”37 corre al sonetto 122 del canzoniere di Shakespeare: Thy gift, thy tables, are within my brain Full charactered with lasting memory, Which shall above that idle rank remain 36 Così, in proposito, Mary Villeponteaux: “Unlike Astrophil, Pamphilia never gives birth to the beloved or to his image [...] Images of birth in Pamphilia to Amphilanthus, I would argue, consistently signify a frustrated attempt to act, to create, to love” (“Poetry’s Birth: The Maternal Subtext of Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, in Sigrid King, ed., Pilgrimage for Love: Essays in Early Modern Literature in Honor of Josephine A. Roberts, Tempe, AZ, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 1999, p. 169). 37 L’espressione appartiene a Giampaolo Sasso, La mente intralinguistica, Genova, Marietti, 1993. 60 Capitolo I Beyond all date even to eternity;38 (vv. 1-4) In questo caso il poeta affida l’immagine del fair youth alla memoria, atto distruttivo in quanto presuppone la cancellazione delle tracce esterne del fair youth, ma nel contempo costruttivo in quanto le tracce sono incorporate, assorbite nella sua mente. Al contrario, la negazione che caratterizza il primo verso del sonetto della Wroth (“I did nott thee see”) non lascia presagire il desiderio di scolpire la figura dell’amato nella memoria, rendendola così perfetta, incorruttibile e immortale. Sembra quasi che l’io lirico non voglia prendere atto dell’apparizione inafferrabile di Amphilanthus, la cui immagine viene presto accantonata negli atri più bui della memoria. Se nella seconda sezione del canzoniere di Sidney va in scena un incontro tra i due amanti – Astrophil e Stella recitano un galante dialogo rinascimentale e si scambiano romantici billets-doux – e più innanzi (P 61e 62) si ode, flebile, la voce di Stella, nell’arco dei 103 componimenti raccolti nel canzoniere di Mary Wroth, Amphilanthus viene interpellato solo tre volte (P 6, P 24 e P 30): Amphilanthus does not function as Daphne for Apollo, Laura for Petrarch, or Stella for Astrophil, as a figure whose indifference and unattainability are predicated on his chastity. While it is true that his absence provides the motive for the deployment of the commonplaces of Petrarchan despair – for the poems describing the lover’s long, sleepless nights, living death, false hope, and killing grief – Amphilanthus is not idealized or deified39. Anche i richiami dall’esterno, le lusinghe del mondo aristocratico, sono ignorati a favore di un atteggiamento contemplativo orientato a ricomporre una soggettività sgretolata dagli apparati disciplinari della famiglia e della corte. Al contrario di Philip Sidney, Mary Wroth decide ben presto di rinunciare ai propri 38 William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 2002. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa edizione. 39 J. Macarthur, op. cit., p. 14. Mary Wroth 61 desideri, ad accettare mancanze e privazioni per dedicarsi con costante assiduità alla cura del proprio animo, all’introspezione silenziosa e solitaria che porta alla scoperta di se stessi e, seppur indirettamente, alla comunione con Dio, secondo l’emergente etica protestante. 1.4 L’esordio. Il sonetto proemiale. Una volta adattati alle esigenze espressive di una scrittrice donna, è bene sottolinearlo di nuovo, i cliché del petrarchismo possono risvegliare pensieri a lungo repressi. Basta pronunciarli al rovescio per scoprire le ingegnose applicazioni a cui si prestano, basta associarli a un pensiero vivo per dar loro profondità e spessore semantico. Come osserva Bachelard, il cliché “può rivelarsi necessario, se non addirittura come termine indispensabile. E può inoltre introdurre un pensiero profondo. Può essere psicologicamente capovolto. Chiave arrugginita che apre un regno fiabesco. Talvolta, il luogo comune è il centro di convergenza dove si forma un significato nuovo, una ricchezza espressiva”40. Mary Wroth, come Petrarca, non riesce mai a presentare un io coerente e unificato, le sue rime sono sparse come i frammenti dei suoi pensieri, alimentati da una miscela di linguaggio e desiderio. Lo stallo psicologico esperito da Petrarca, pietrificato da “antichi desir” e “lagrime nove” (sonetto 118, vv. 12-14)41, paralizza anche Pamphilia che, in preda allo sconforto e alla depressione, rinuncia ad agire, rimane immobile e passiva per tutto il canzoniere pur vagheggiando il cambiamento, il superamento di uno stato mentale. Il sonetto proemiale introduce l’approccio dell’autrice al petrarchismo e all’antipetrarchismo: When nights black mantle could most darknes prove, And sleepe deaths Image did my senceses hiere 40 Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Bari, Dedalo, 1974, p. 158. Si veda anche il sonetto 112, con particolare riferimento al quarto verso: “l’aura mi volve et son pur quel ch’i’ m’era”. 41 Capitolo I 62 From knowledg of my self, then thoughts did move Swifter then those most swiftnes need require: In sleepe, a Chariot drawne by wing’d desire I sawe; wher sate bright Venus Queene of love, And att her feete her sonne, still adding fire To burning hearts which she did hold above, Butt one hart flaming more then all the rest, The goddess held, and putt itt to my brest, Deare sonne now shutt, sayd she: thus must wee winn; Hee her obay’d, and martir’d my poore hart, I, waking hop’d as dreames itt would depart, Yett since: O mee: a lover I have binn. La forma è quella del cosiddetto Italian sonnet strutturato in una ottava e una sestina introdotta dalla “svolta” all’inizio del verso 9 che annuncia uno scarto emotivo destinato ad amplificare l’argomento descritto nei primi otto versi. L’immagine della dea che depone un cuore incandescente nel petto del poeta echeggia il primo sonetto della Vita nuova di Dante e l’incipit de Il Trionfo d’amore di Petrarca42. Il motivo del sogno, abusatissimo nella letteratura umanistica, ricorre sia in Astrophil and Stella, nel trittico di sonetti P 32, P 38 e P 39, sia nel canzoniere di Shakespeare. Vale la pena di trascrivere il sonetto 38 di Astrophil and Stella nella sua interezza: This night while sleepe begins with heavy wings To hatch mine eyes, and that unbitted thought Doth fall to stray, and my chiefe powres are brought to leave the scepter of all subject things, The first that straight my fancies error brings Unto my mind, is Stellas image, wrought By Loves owne selfe, but with so curious drought, That she, me thinks, not onely shines but sings. I start, looke, hearke, but what in closde up sence Was held, in opend sense it flies away, 42 Così, in proposito, Nona Fienberg: “By envisioning her opening sonnet in implicit response to the opening visionary sonnet of Dante’s Vita Nuova, Wroth is challenging the Italianist world. Where Dante saw a man feeding Dante’s own burning heart to his beloved lady, Wroth sees a flaming heart held by Venus, then shut within the visionary speaker’s breast”, op. cit., p. 185. Mary Wroth 63 Leaving me nought but wailing eloquence: I, seeing better sights in sights decay, Cald it anew, and wooed sleepe againe: But him her host that unkind guest had slaine In Sidney il sogno consente di realizzare i desideri. L’immagine di Stella appare quasi miracolosamente, incanta la vista e innesca soavi sensazioni uditive. Allo stesso tempo, il vortice di emozioni scatenato dallo sguardo di Stella finisce per spezzare il sonno e un brusco risveglio sancisce l’irrecuperabilità della visione. Anche nel sonetto 27 di Shakespeare l’ombra del fair youth è “un gioiello appeso alla notte spettrale” (“a jewel hung in ghastly night”, v. 11) e “fa la nera notte bella e il suo vecchio volto nuovo” (“Makes black night beauteous and her old face new”, v. 12)43. Nel sonetto di Mary Wroth il coefficiente centrale dello spazio onirico non è la persona amata, la ribalta è conquistata dalla coppia Venere/Cupido. Se da un lato il sonno asseconda la volontà di ripiegamento del parlante, dall’altro produce uno stato di frustrante impotenza da cui non sarà facile uscire. Pamphilia può solo sperare che i sogni svaniscano presto senza lasciare cicatrici nella coscienza, così da riattivare in fretta lo sguardo analitico che le consente di individuare e disinnescare le trappole del reale. Il labirinto in cui sente di essersi smarrita ha una sola via di uscita, bisognerà cercarla con lucidità e stoica determinazione44. Questo il messaggio incastonato 43 Shakespeare torna sul tema nel sonetto 43: “When most I wink, then do mine eyes best see, / For all the day they view things unrespected; / But when I sleep, in dreams they look on thee, / And, darkly bright, are bright in dark directed” (vv. 1-4). Si noti la struttura ossimorica del sonetto, incentrata sull’opposizione night/day. 44 La metafora del labirinto si sviluppa in una catena paradigmatica che lega le varie argomentazioni del canzoniere, il sonetto con cui si apre la Corona (P 77 – 90) recita così: “In this strange labourinth how shall I turne?”. Invece di Teseo, osserva Robin Farabaugh, nel labirinto troviamo una donna: “That, to an audience familiar with the myth, would have called attention to the plight of the entrapped figure, a figure traditionally identified with male quests and adventuring. A woman there instead asks the readers to see her misery as equivalent in severity to the plight of the mythic hero who had found himself in the original labyrinth. The implied equivalence of the forces 64 Capitolo I nell’ultima terzina, arricchita da una serie di pronomi personali di prima persona (“my” – v. 12, “I” – v. 13, “mee” – v. 14, e ancora “I” – v. 14), che indicano l’esigenza di imporre nuove canalizzazioni al flusso irregolare dei pensieri e di ristabilire le funzioni di sorveglianza. I canzonieri di solito presentano il poeta attivamente impegnato ad inseguire un’idea di donna lontana e inaccessibile. Qui l’io lirico subisce lo stesso destino di clausura del cuore ardente “rinchiuso” (“shutt”) nel suo petto da Cupido45. Mentre Astrophil combatte per conquistare Stella e nel contempo per sfuggire alla prigionia dei sentimenti, Wroth lascia che la sua eroina subisca passivamente le monellerie e i dispetti di Cupido. Sembra quasi che Pamphilia non sia ancora pronta, o non abbia la forza di opporsi alla detronizzazione del senno. Le azioni di Venere e Cupido, osserva Heather Dubrow, non vengono contrastate in alcun modo: “Above all, the emphasis on dreaming places her in a singularly passive position. If one plot of the sonnet, her encounter with Venus and Cupid, casts her as the object of actions performed by others […] its overarching plot, the dream vision, intensifies that loss of agency”46. Pamphilia diventa il semplice bersaglio, l’oggetto delle macchinazioni degli antagonisti, che dispongono del suo animo senza incontrare resistenza. Nel sonetto 20, Astrophil non attende passivamente di essere trafitto dalla “sleale” (“wrongfull”, v. 4) pallottola sparata da Cupido, egli tenta di schivare il colpo ma non ci riesce: “But ere I could flie thence, it pierc’d my heart” (v. 14). L’io narrante è un soldato ferito a morte che implora i suoi compagni facing both the mythic hero and the female speaker superimposes Wroth’s voice on the past, asking her readers to reorder and redirect their knowledge of female experience” (“Ariadne, Venus, and the Labyrinth: Classical Sources and the Thread of Instruction in Mary Wroth’s Works”, Journal of English and Germanic Philology, 96, 2, 1997, p. 208). 45 Cfr., in proposito, quanto scrive M. Villeponteaux, op. cit., p. 170, “The idea that Pamphilia holds enclosed within her breast a burning heart recurs throughout the sequence as part of a pattern of images of enclosure, culminating in the opening line of the corona”. 46 H. Dubrow, op. cit., p. 139. Mary Wroth 65 di mettersi a riparo, “Flie, fly, my friends, I have my death wound; fly” (v. 1), è agonizzante ma pensa alla sicurezza degli altri soldati, è un combattente nobile e coraggioso, tutt’altro che arrendevole. Vivere l’esperienza d’amore nella rarefatta cornice di un sogno produce isolamento e solitudine. Le sovrane facoltà della mente perdono il controllo degli impulsi, i sensi vengono “reclutati” (“hiere”) dal sonno mentre i pensieri fuggono via rapidamente lasciando il soggetto indifeso e quindi esposto agli attacchi delle passioni irrazionali. La prima sillaba della parola “swift-er” acquista peso semantico grazia alla sostituzione del giambo col trocheo e dalla sua duplice apparizione nel verso. Si tratta della figura della anadiplosi47, che Mary Wroth utilizza spesso senza curarsi di alleggerire il dettato utilizzando sinonimi nella seconda replica del sostantivo enfatizzato, onde arricchire o modificare il senso della prima occorrenza. È un segno della sua imperizia stilistica ma al tempo stesso indica una certa dose di spontaneità, una momentanea perdita di controllo. Affastellandosi velocemente l’uno sull’altro, i versi comunicano uno stato di ansia. La precipitosa ritirata del senno di Pamphilia lascia un sibilo acuto e prolungato, ottenuto mediante la ripetizione allitterante che lega “sleep”, “saw”, “sonne” e “she”. La sintassi contratta, contraddistinta dalla mancanza di articoli e pronomi personali, è un indice ulteriore della rapidità con cui il parlante precipita nei gorghi del sonno e dell’incoscienza, inversamente proporzionale alla lenta riemersione del suo io razionale. Nel verso dodicesimo l’inversione verbo-oggetto (“He her obeyed”) è tesa a veicolare la concitazione del momento, iconicamente espressa dalla contiguità dei predicati “obeyed” e “martyred”. Le visioni notturne non svaniscono in “opend sense” (AS, P 38, v. 10) ma intrappolano l’io in un labirinto di sentimenti contrastanti. Mary Moore osserva che la sintassi tortuosa rappre47 Per l’analisi delle figure retoriche si vedano Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969 e Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2003. Capitolo I 66 senta la difficoltà di innestare il discorso femminile in una cornice linguistica forgiata ad uso e consumo del cortigiano: “The sonnet’s formal restrictions thus highlight constraint itself, difficulty in knowing, writing and fitting the female textual body into a form whose well-wrought urn was designed to hold only male ashes. Labyrinthine syntax represents the poet’s difficulty – and her craft”48. L’assenza della figura dell’amante, le valenze disforiche dell’intorpidimento dei sensi causato dal sonno, la drammatica perdita di autocoscienza e infine il desiderio di evadere al più presto dalla finzione onirica costituiscono sviluppi estranei alla tradizione petrarchesca. L’argomento del sonetto rimanda il lettore ad un certo assortimento di stampi culturali ma l’avversativa “Yett” introduce una deautomatizzazione del rituale linguistico e lascia presagire il risveglio dell’io narrante. Sorge così una complicazione della struttura: diversamente da Astrophil, che vorrebbe richiamare la visione svanita e tenta di riaddormentarsi, Pamphilia sa che è arrivato il momento di svegliarsi e di spezzare le catene della tradizione per esprimere pensieri e idee a lungo custoditi nella mente. 1.5 Il sonetto 19 (P 22). L’analisi strutturale del sonetto 19 (P 22) consente di evidenziare numerosi tratti distintivi della poetica di Mary Wroth: Come darkest night, beecoming sorrow best; Light; leave thy light; fitt for a lightsome soule; Darknes doth truly sute with mee oprest Whom absence power doth from mirthe controle: The very trees with hanging heads condole Sweet sommers parting, and of leaves distrest In dying coulers make a griefe-full role; Soe much (alas) to sorrow are they prest. Thus of dead leaves, her farewell carpett’s made: Theyr fall, theyr branches, all theyr mournings prove; 48 M. Moore, op. cit., p. 136. Mary Wroth 67 With leavles, naked bodies, whose huese vade From hopefull greene, to wither in theyr love, If trees, and leaves for absence, mourners bee Noe mervaile that I grieve, who like want see. La forma adottata è quella del sonetto all’inglese (Shakespearean sonnet) che si sviluppa in tre quartine a rime alternate e un distico finale. Mary Wroth è abile a sviluppare il parallelismo uomo-natura nell’arco di dodici versi per poi concludere l’argomentazione con un periodo ellittico e arguto. Passando alle tecniche di versificazione, notiamo come le apostrofi dei primi due versi siano abilmente rafforzate dagli spondei (“Cóme dá/rkest…”; “Líght léave…”) attraverso i quali l’autrice spezza l’equilibrio del pentametro giambico. Queste variazioni si inscrivono in una trama metrica piuttosto regolare, pertanto acquistano un forte valore connotativo. Mary Wroth, come del resto Philip Sidney, non abusa delle variazioni metriche, ma le dissemina in versi rigidamente modellati dal pentametro giambico. Nel secondo verso, l’ingegnoso intreccio del poliptoto (light-light) con la figura etimologica (light-lightsome) traduce l’atteggiamento ostinato e insistente di un soggetto poetico orientato ad offrire una rappresentazione di sé in contrasto con le aspettative del lettore. L’io sfugge alla luce, preferisce lasciarsi inghiottire dal buio per nascondersi dallo sguardo severo di chi non tollera la vista di un corpo femminile palpitante di desiderio. Alla donna “oppressa” non rimane che agire in clandestinità, vivere le proprie passioni in silenzio, senza destare clamore, esprimere i propri sentimenti in maniera obliqua, ermetica e indiretta, onde sfuggire alla censura dell’autorità patriarcale. A livello morfosintattico, il timore di manifestare la propria vulnerabilità e di esporsi allo sguardo degli altri si traducono nel ricorso all’ellissi – la figura del beloved non viene in alcun modo evocata – e all’anacoluto, evidente nella mancanza di collegamenti sintattici nel periodo che si snoda tra il terzo e il quarto verso. Nella terza quartina si registra un intorpidimento logicosintattico causato da un moltiplicarsi di pronomi di cui non è facile individuare i rispettivi referenti: “her” sostituisce “sum- Capitolo I 68 mer”, mentre i pronomi di terza persona plurale “theyr” sostituiscono rispettivamente “leaves” e “trees”, anche se l’adiacenza tra i sintagmi “theyr fall” e “theyr branches” tende a confondere i referenti e appare mirata a fare dell’ingarbugliata argomentazione un’icona dei contrastanti pensieri del parlante. Con riferimento alla struttura sintagmatica dei sonetti raccolti in Pamphilia to Amphilanthus, Mary Moore osserva: A woman creating a poetic labyrinth in a Petrarchan sonnet sequence speaks from the very center of this contradiction, transforming public self-analysis – and erotic desire – into a spiritually respectable search for self-knowledge. Wroth’s labyrinthine style dramatizes this search, engaging her reader in the very process she represents in this difficult but accomplished work of art49. Siamo al primo importante snodo del tracciato poetico disegnato nel canzoniere. I grovigli sintattici che ostacolano l’interpretazione di tanti passi dei sonetti di Pamphilia to Amphilanthus si formano ogni qual volta Mary Wroth cerca di tradurre le sue pulsioni più intime in un linguaggio fortemente codificato come quello petrarchesco. La cornice angusta del sonetto irregimenta il flusso di coscienza dell’io poetico, i cui pensieri, scontrandosi con cliché e topoi frusti e logori, diventano sempre più vischiosi fino ad impaludarsi nelle sabbie mobili della convenzione. Tuttavia, a disposizione dell’autrice rimangono una serie di dispositivi sintattici in grado di segnalare la consistenza reale del vissuto emotivo dell’io narrante. Tra questi spicca l’uso del presente indicativo che dà un senso di concretezza e immediatezza alle idee espresse nel sintagma. L’idioletto della poetessa non è particolarmente ricco, il vocabolario è semplice e disadorno. Mary Wroth non ricorre mai alla tecnica dell’overstatement, non si lascia influenzare dalla tipica “copiosità elisabettiana” che induceva poeti come Sidney e Spenser ad iterare, glossare e amplificare i propri pensieri50, 49 M. Moore, op. cit., p. 122. May Nelson Paulissen, The Love Sonnets of Lady Mary Wroth: A Critical Introduction, Salzburg, James Hogg, 1982, p. 194, scrive: “One finds no 50 Mary Wroth 69 preoccupandosi piuttosto di curare la sequenza delle sue scarne argomentazioni in modo da disporre i singoli nuclei tematici nelle caselle di un sintagma articolato e flessibile. Termini semplici ma suggestivi come “power” e “controle” alludono alla possibilità di contrastare la dispersione dell’io acquistando autocoscienza e rinunciando, con stoica rassegnazione, a sentimenti e passioni destabilizzanti. La metafora che si snoda nella seconda e terza strofa – collegate dalla congiunzione causale “thus” e dal pronome anaforico “her” riferito a “sweet sommers” – ristabilisce un tono più pacato e riflessivo. Alla natura vengono attribuiti sentimenti e sensazioni umane mediante il ricorso alla pathetic fallacy, dispositivo retorico che stabilisce una consonanza tra i ritmi esistenziali e quelli del mondo fisico in un modo meno formale e più indiretto rispetto alla figura della personificazione51. Alle “chiare, fresche et dolci acque” dove si materializza la visione beatificante di Laura, Philip Sidney e Mary Wroth oppongono una visione più dimessa del cosmo e della natura. Nel sonetto 31, Astrophil osserva i passi gravi e stanchi con cui la luna “scala” le pareti celesti. Nel sonetto 19, Pamphilia descrive alberi dai capi reclini, e foglie addolorate (“distrest”). La natura antropomorfizzata è chiamata a condividere il dolore della protagonista, la cui condizione esistenziale si dilata a dimensioni cosmiche. I pensieri viaggiano oltre i limiti del verso e si inarcano in run-on lines (4-5 verso e 11-12 verso), enjambements e cesure abilmente distribuite. Non c’è sostantivo che non sia qualificato da attributo: la notte è buia (“darkest night”), l’animo leggero (“lightsome soule”), l’estate dolce (“sweet sommers”), le foglie addolorate (“leaves distrest”), i colori morenti (“dying coulers”), mentre le foglie morte (“dead leaves”) formano un “tappeto di addio” (“farewell carpett”). L’ansia di rendere i propri stati d’animo in maniera obliqua e indiretta induce Mary Wroth borrowings, coinages, poeticisms, or compound epithets. She is concerned that her words give emotional suggestion rather than scientific reading”. 51 Cfr. la voce ‘Pathetic fallacy’ in M. H. Abrams, A Glossary of Literary Terms, Forth Worth, Harcourt Brace College Publishers, 1993, p. 142. Capitolo I 70 a convertire i sostantivi in gruppi nominali, a calcare i contorni di ogni significante, nella speranza che possa evocare oscuri stati d’animo senza per questo cedere alla pressione esercitata dalla massa incandescente di significati che arde nei sotterranei del linguaggio poetico. Le isotopie semiche che generano la struttura del testo si articolano nell’opposizione Light vs Dark e Mirth vs Sorrow ma l’archisema del testo, l’ipogramma, è la descrizione del lamento funebre52. Wroth costruisce una vera e propria cerimonia funebre a cui partecipano il parlante, angosciato dall’assenza dell’amato, e gli alberi. Questi ultimi, dotati di una sensibilità umana, elaborano il dolore per la fine della bella stagione spogliandosi dei loro orpelli e rimanendo nudi e spogli al centro di un manto di foglie morte53. Il senso si accumula intorno a questa matrice concettuale che si manifesta sin dagli esordi del sonetto con insolito nitore. Non si sfugge alla vita, il dolore va elaborato, riconosciuto e vissuto con stoica sopportazione. Auspicando l’arrivo della notte, il soggetto lirico si rivela determinato ad affrontare la perdita di un legame affettivo che si fa sempre più rarefatto e inconsistente, in quanto indebolito dalle pressioni di una società ipocrita. Laddove il parlante dei sonetti di Shakespeare è torturato e oppresso sia dalla luce diurna che dal buio notturno (sonetto 28) e lo stesso Astrophil soffre “evils both of the day and night” (sonetto 89, v. 9), Pamphilia lascia che l’oscurità del proprio essere si confonda alle tenebre notturne; impara a nascondersi e quindi a difendersi dalle presenze e dai fenomeni che la accerchiano per influenzarne le scelte. Dallo sfondo nero della notte si staglia solo la figura di una donna sola e pensosa, assorbita nell’ascolto dei flebili mormorii dell’anima. Il silenzio e la solitudine sono necessari per disto52 1983. Cfr. Michael Riffaterre, Semiotica della poesia, Bologna, Il Mulino, 53 Vengono in mente i versi del sonetto 73 di Shakespeare: “That time of year thou mayst in me behold, / When yellow leaves, or none, or few, do hang / Upon those boughs which shake against the cold, / Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang”. Mary Wroth 71 glierla dai ritmi della quotidianità e innescare una meditazione tesa a garantirle una presa stabile e sicura sul reale. Sul piano intratestuale notiamo che in Pamphilia to Amphilanthus la “Notte” è spesso personificata fino a diventare una figura femminile al pari di “Fortune” (P 36) e “Time”54. Così Naomi Miller: “Unlike the male lover, these alternate figures of female authority and companionship offer a complex support for the female speaker’s attempts to claim a position of her own”55. Pamphilia supera la polarizzazione notte/giorno e dà il benvenuto alle tenebre: “Then wellcome Night, and farwell flattring day” (P 13). La Notte, il Tempo e la Fortuna diventano gli alter ego di Ann Clifford, Susan Vere Herbert, Isabella Rich, e tutte le altre nobili dame del cenacolo di Penshurst, atomi di una comunità femminile che si aggrega attorno al desiderio di libertà e autonomia, nocciolo duro di un’alleanza tesa a destabilizzare il rigido codice di comportamento imposto dalla legge patriarcale. Da questa comunità femminile viene estromessa la figura cardine del beloved, mobile e sfuggente nella maggior parte dei canzonieri rinascimentali ma sempre metonimicamente evocata mediante il blason, il catalogo delle attrattive del corpo femminile. Una certa dose di self-enclosure è tipica del genere in sé; solo nel canzoniere shakespeariano, nel quale emerge una struttura attanziale triangolare, si registra una maggiore frequenza del pronome personale you56. Nei canzonieri di Drayton, Daniel, Spenser e Sidney raramente c’è allocuzione, la figura dell’amata distante e inaccessibile è smontata e ricomposta dallo sguardo analitico del poeta che ne controlla la fenomenologia 54 Nel drammatico sonetto 31 (P 36) la Fortuna offre conforto all’io narrante: “Till, ‘rise, sayd she, Reward to thee doth send / By mee the servante of true lovers, joy: / Bannish all clowds of doubt, all feares destroy, / And now on fortune, and on Love depend” (vv. 9-12). È così ribaltata la rappresentazione misogina che associa la figura allegorica di “Lady Fortune” ad una sgualdrina pronta a concedere i suoi favori al miglior offerente. 55 N. Miller, Changing the Subject, cit., p. 196. 56 Cfr. Alessandro Serpieri, I sonetti dell’immortalità. Il problema dell’arte e della denominazione in Shakespeare, Milano, Bompiani, 1998; e Giorgio Melchiori, L’uomo e il potere, Torino, Einaudi, 1973. Capitolo I 72 e ne illustra i tratti in maniera frammentaria e sineddochica. Al contrario, in Pamphilia to Amphilanthus l’amante assente “occupies a more substantial than usual gap, as noted earlier. He never appears descriptively, as in the blazons of male sonneteers, a kind of poem that clearly can be adapted to the female poet’s purposes. Nor does Wroth’s beloved become narrative presence, punning name, visual icon. This absence further isolates and encloses Pamphilia in her own complexity”57. Solo in un piccolo gruppo di sonetti Pamphilia si rivolge direttamente ad Amphilanthus, personaggio che non ha nulla di eroico, di idealizzato, in linea con la caratterizzazione che emerge in Urania, dove è presentato come un volgare donnaiolo. I lessemi “well” e “will” potrebbero alludere a William Herbert, ma al cospetto di una sequenza tanto areferenziale quanto Pamphilia to Amphilanthus è arduo trovare riscontri. Ciò che manca, dunque, è un equivalente di Stella, un destinatario facilmente individuabile: “Noticeably absent in Wroth’s poetry is a clearly defined lover. Stella, as the object of Astrophil’s passion, occupies an ever present position in Sidney’s poems”58. Le liriche sono di fatto autoreferenziali, come l’ultima sezione dei sonetti di Shakespeare dedicati al fair youth, nella quale l’io lirico abbandona gradualmente ogni intento encomiastico per ingaggiare una personale lotta contro le devastazioni del tempo e la transitorietà. L’isolamento consente al cantore del fair youth come a Pamphilia di contrastare le forze che minacciano l’integrità del sé: la paura di invecchiare e di morire, nel caso dei sonetti shakespeariani, i condizionamenti e le pressioni di padri, mariti e amanti, nel caso dei sonetti di Mary Wroth. L’isolamento è il preludio alla conoscenza di sé, la premessa e il punto di partenza di ogni trasformazione, di ogni rottura con l’ordine. 57 M. Moore, op. cit., p. 135. Paula Harms Payne, “Finding a Poetic Voice of Her Own: Lady Mary Wroth’s Urania and Pamphilia to Amphilanthus, in S. King (ed.), op. cit., p. 215. 58 Mary Wroth 73 1.6 La critica alla corte e l’affermarsi del credo protestante. Nell’Inghilterra del XVI secolo la posizione sociale e lo status finanziario dei sudditi erano variabili soggette ai capricci della Fortuna, non a caso associata alla figura della sgualdrina intenta a concedere e negare i suoi favori arbitrariamente. Non era difficile cadere in disgrazia allorché si perdeva l’appoggio politico e il sostegno finanziario del sovrano o del patrono aristocratico. L’autorità era conferita dal favore reale e la linea politica era definita dal sovrano in accordo con i più fidati collaboratori. La distribuzione di monopoli, l’assegnazione di terre, le attribuzioni di incarichi, la concessione di onori e privilegi attiravano ogni genere di parassiti a corte, unico centro di potere della nazione. Tra le diverse fazioni che si consolidavano attorno alle figure dei più potenti aristocratici, il re sceglieva di volta in volta il suo entourage di consiglieri. La competizione era aspra e sfociava spesso nella violenza, fino a quando una fazione riusciva a prevalere sulle altre conquistando i favori del sovrano. Diventare il favorito del re richiedeva astuzia e tempismo. Bisognava conquistarsi l’accesso alla Privy Chamber, far visita al sovrano continuamente, estorcere con l’adulazione la sua attenzione e la sua fiducia, saper sfruttare il momento giusto per attaccare i leader delle altre fazioni. Va detto che la regina Elisabetta non era particolarmente vulnerabile alle pressioni dei cortigiani; quando si sentiva eccessivamente incalzata da richieste continue e insistenti si ritirava nelle sue stanze private per pensare e decidere in autonomia. Ben più malleabile appare Giacomo I, incapace di regolare l’equilibro tra le fazioni opposte mediante una oculata distribuzione di favori e privilegi, e quindi responsabile del malcontento di numerosi gruppi della élite nobiliare del tempo, tagliati fuori dal governo del paese a tutto vantaggio di una singola fazione politica piegata agli interessi spagnoli. Per gli emarginati il Parlamento si rivelava l’istituzione più utile a disarcionare i favoriti dai loro posti di potere e conquistare l’attenzione del re. Ma, come noto, tra il 1611 e 1621 l’assemblea fu convocata una sola volta, di qui l’inasprirsi dell’opposizione a Giacomo. Capitolo I 74 Anche umanisti e letterati di diversa estrazione sociale ma attratti dal miraggio comune di una sicura e stabile sistemazione si ingegnavano a estorcere favori e finanziamenti sfruttando il linguaggio suadente e persuasivo della poesia encomiastica. Da semplice codice del canto d’amore, nel corso degli anni il sonetto si trasforma in veicolo di elogi al mecenate ed elaborate celebrazioni di principi e potenti cortigiani. Se ne servono poeti come Sidney, Spenser e Jonson per rafforzare la loro posizione in seno alle diverse fazioni nobiliari; se ne serve perfino Elisabetta I, dal momento in cui associa ai termini chiave del codice petrarchesco un sistema di denotati orientato ad offrire un’immagine di sé come body politic etereo e immortale che si mostra ai cavalieri per essere continuamente lodato e incensato. Per rafforzare i propri diritti e la propria autorità nei confronti dell’aristocrazia di corte Elisabetta si trasforma in Laura, creatura magica di infinita bellezza, madonna pudica e saggia, feticcio da venerare e desiderare con costante devozione. Presentata da artisti, poeti e cortigiani come Cynthia, Flora, Diana, Astrea e Gloriana, la regina viene a incarnare la purezza della religione riformata, perno teologico della cultura elisabettiana. La speranza di conquistare il cuore della “regina vergine” deve indurre tutti i sudditi a sposarne il credo religioso e ad amarla e servirla incondizionatamente, senza riserve59. Anche Sir Philip Sidney, icona vivente della “dottrina” cavalleresco-protestante, ha bisogno di costruire un’immagine nitida di sé, anch’egli ha bisogno di un palcoscenico sul quale mostrarsi ed essere riconosciuto, nonché di un pubblico di interlocutori con cui dibattere e confrontarsi. Ma questa volta è l’uomo a dirigere il rituale del corteggiamento mentre la donna lodata si trasforma nello specchio in cui si riflettono le virtù dell’io poetico. Il setting delle sue liriche è sempre la Corte, cerchio magico all’interno del quale tutti cercano di ritagliarsi un piccolo spazio, iterandone e celebrandone norme e regole in via di declino ma pur sempre essenziali. Il “palazzo” offre “spa- 59 H. Dubrow, op. cit., p. 27. Mary Wroth 75 zi scenici” e spettatori sempre pronti ad apprezzare l’eloquenza dell’attore o ad applaudire le gesta dell’abile torneatore: Theatricality, in the sense of both disguise and histrionic selfpresentation, arose from conditions common to almost all Renaissance courts: a group of men and women alienated from the customary roles and revolving uneasily around a center of power, a constant struggle for recognition and attention, and a virtually fetishistic emphasis upon manner. The manuals of court behaviour which became popular in the sixteenth century are essentially handbooks for actors, practical guides for a society whose members were nearly always on stage60. Gli interlocutori ai quali si rivolge Sidney in Astrophil and Stella, il “friend” del sonetto 14 o i “curious wits” del sonetto 23, assistono a tanti quadretti drammatici che rappresentano le disarmonie di una mente sospesa tra realtà e finzione, richiami della carne e fedeltà ai valori del puritanesimo cavalleresco. L’aspirazione a condurre un’esistenza convenzionale, incarnando l’ideale rinascimentale del gentleman, si misura con le debolezze e le passioni irrazionali di una personalità oscillante fra i due poli del nascosto e dell’esibito. La volontà di dissimulare e mistificare è contrastata da una fatalità dell’espressione naturale, il narcisismo attenuato dall’esigenza di occultare i propri stati d’animo. Di qui la condanna espressa nei confronti di coloro che assumono pose esteriori e sfruttano l’artificiosità dei motivi del petrarchismo per accattivarsi il favore dei potenti, per fiaccare la resistenza della corte/sgualdrina e godere dei suoi servigi. Nel sonetto 54 il bersaglio della satira è proprio la figura dell’amante convenzionale, sempre pronto ad ostentare sospiri, languori e sofferenze di ogni tipo: Because I breathe not love to everie one, Nor do not use set colours for to weare, Nor nourish speciall lockes of vowed haire, Nor give each speech a full point of a grone, The courtly Nymphs, acquainted with the mone Of them, who in their lips Loves standerd beare; 60 S. Greenblatt, op. cit., p. 162. 76 Capitolo I What he? Say they of me, now I dare sweare, He cannot love: no, no, let him alone. (AS, P 54, vv. 1-8) La critica è diretta sia ai comportamenti affettati di aspiranti cortigiani sia al codice poetico in cui prendono forma encomi, omaggi, dediche e genuflessioni. L’affettazione di indipendenza dai cliché del petrarchismo si fa ancor più diretta in altri sonetti di Sidney: Not at the first sight, nor with a dribbed shot Love gave the wound, which while I breathe will bleed: But knowne worth did in mine of time proceed, Till by degrees it had full conquest got. (AS, P 2, vv. 1-4) Hart rent thy self, thou doest thy selfe but right, No lovely Paris made thy Hellen his: No force, no fraud, robd thee of thy delight, Nor Fortune of thy fortune author is: But to my selfe my selfe did give the blow (AS, P 33, vv. 5-9) What may words say, or what may words not say, Where truth it selfe must speake like flatterie? Within what bounds can one his liking stay, Where nature doth with infinite agree? (AS, P 34, vv. 1-4) Astrophil non si innamora a prima vista, il sentimento ha bisogno di tempo per germogliare. L’infelicità non gli è imposta da una forza sovrannaturale, ma si nutre delle sue umane debolezze. Sotto accusa non è solo il vocabolario del petrarchismo, ma la possibilità stessa di esprimere sentimenti profondi in un linguaggio ormai frusto e logoro in quanto contaminato dal virus dell’artificiosità. Una simile sfiducia nei confronti delle trappole predisposte dalla convenzione poetica traspare nel sonetto 39 (P 45) di Pamphilia to Amphilanthus: Iff I were giv’n to mirthe ‘t’wowld bee more cross Thus to bee robbed of my chiefest joy; Mary Wroth 77 Butt silently I beare my greatest loss Who’s us’d to sorrow, griefe will nott destroy; Nor can I as those pleasant witts injoy My owne fram’d words, which I account the dross Of purer thoughts, or recken them as moss While they (witt sick) them selves to breath imploy, Alas, think I, your plenty shewes your want, For wher most feeling is, words are more scant, Yett pardon mee, Live, and your pleasure take, Grudg nott, if I neglected, envy show ‘T’is nott to you that I dislike doe owe Butt crost my self, wish some like mee to make. Non fidandosi delle sue stesse “parole contraffatte” (“fram’d words”), definite, con i neoplatonici, “escrescenze di pensieri più puri” (“which I account the dross / Of purer thoughts”), Mary Wroth denuncia le ridotte capacità espressive di un codice ormai inadeguato a veicolare il vissuto emotivo del parlante senza nasconderne i tratti specifici dietro un fitto strato di complimenti galanti, qui identificati al muschio (“moss”)61. La parola del padre, il linguaggio simbolico, non riescono più a regolare e contenere le spinte dell’immaginario, innescate da fermenti sociali ed “esplosioni” culturali quali l’aumento dell’alfabetizzazione, lo sviluppo dell’editoria, l’avanzata del puritanesimo, la conquista di nuovi mondi e l’espansione dei mercati. L’abbondanza di parole, osserva Pamphilia, cela un ottundimento emotivo che nasce nel linguaggio. Il telaio di cliché e formulette consumate dal tempo non riesce più a contenere una massa di idee in continua espansione. Il parlante si affanna nella ricerca di significanti vivi, ancora freschi di conio e quindi pronti ad assorbire le marche di un fascio di pensieri che, filtrati dal prisma emotivo, si diversificano e si arricchiscono di tutte le sfumature dello spettro luminoso. Ma Lady Mary questi significanti non li trova, o forse sente di non poterli nemmeno cercare, dovendosi attenere, in 61 La metafora è particolarmente suggestiva. In natura il muschio “ammorbidisce” gli spigoli e le scabrosità di rocce e alberi proprio come i rivestimenti retorici del petrarchismo attenuano e addolciscono turbolenti vissuti emotivi. Capitolo I 78 quanto donna, al protocollo espressivo fissato dal padre e dal marito. Non le rimane che scusarsi per il suo sfogo, attribuibile all’invidia di una nobildonna allontanata dalla corte, e cancellare ogni traccia di sé: Following her direct attack on her male colleagues Pamphilia withdraws her criticism and asks for pardon if she has insulted them, encouraging other writers to compose their verses as they wish. Unlike Astrophil, who argues throughout his sequence for others to follow his advice for formulating persuasive poetry, Pamphilia blames only herself and ends her sonnet with another apology, typical of a female self-representation62. Come si è accennato, i limiti del codice cortese cavalleresco affiorano anche dai versi di Philip Sidney ma l’icona stessa dell’ethos elisabettiano non avrebbe mai potuto scontrarsi con un sistema culturale al quale sentiva di appartenere nonostante ne percepisse l’ossificazione. Da centro propulsore degli studi umanistici, la corte si stava lentamente trasformando nel regno dell’arrivismo, della falsità e della corruzione. I pensieri e le parole espunte dal canzoniere di Sidney sarebbero state presto raccolti dai drammaturghi del XVI secolo, pronti a captare i segnali di insofferenza lanciati dal popolo63. Più vicina ai sentimenti anticourt dei puritani appare Mary Wroth: Itt is nott love which you poore fooles do deeme That doth apeare by fond, and outward showes Of kissing, toying, or by swearings glose, O noe thes are farr off from loves esteeme; Alas they ar nott such that can redeeme Love lost, or wining keepe those chosen blowes Though oft with face, and lookes love overthrowse Yett soe slight conquest doth nott him beeseeme, ‘T’is nott a showe of sighes, or teares can prove Who loves indeed which blasts of fained love Increase, or dy as favors from them slide; 62 P. Harms Payne, op. cit., p. 216. Cfr. Clara Mucci, Liminal personae: marginalità e sovversione nel teatro elisabettiano e giacomiano, Napoli, E.S.I., 1995. Si vedano, in particolare, i capitoli dedicati a John Webster. 63 Mary Wroth 79 Butt in the soule true love in safety lies Guarded by faith which to desart still hies, And yett kinde lookes doe many blessings hide. (PA, P 46, corsivi miei) Occultare il proprio volto in una maschera di lacrime e sospiri rivela l’aspirazione ad essere altro da ciò che si è. L’inganno, l’adulazione (“glose”) e la dissimulazione (“swearings”), conducono all’artificialità, al grado zero dell’espressività. A forza di recitare sempre lo stesso ruolo, i “poore fooles” del sonetto 40 (P 46) e i “pleasant witts” del sonetto 39 (P 45) si trasformano nei personaggi stereotipati di una commedia di Ben Jonson64, flat characters incapaci di evolvere, marionette in balia del grande manovratore (Giacomo I). Alla piatta e disforica caratterizzazione del cortigiano, Mary Wroth oppone una descrizione di Pamphilia imperniata sull’isotopia dell’isolamento e dell’interiorità. Tra le pareti chiuse dell’anima, fortezza circondata dal “deserto” e protetta dalla fede, l’amore, sinonimo di debolezza e vulnerabilità, perché porta a scoprirsi ed è fonte di continue disillusioni, “giace” in sicurezza (“in safety lies”)65. La rete semantica dell’apparire, costituita da lessemi e locuzioni di marca negativa quali “apeare”, “outward showes”, “showe of sighes”, “fained”, si annulla in quella del ripiegamento interiore, fulcro etico della dottrina protestante. L’adesione di Mary Wroth ai principi dell’etica calvinista traspare con insolita chiarezza nel secondo sonetto della Corona: Is to leave all, and take the thread of love Which line straite leads unto the soules content Wher choyse delights with pleasures wings doe move, And idle phant’sie never roome had lent, When chaste thoughts guide us, then owr minds ar bent To take that good which ills from us remove: 64 Penso a Every Man in His Humour (rappresentato nel 1558 ma pubblicato nel 1616) con i suoi personaggi concepiti secondo la teoria degli umori. 65 Così Pamphilia in P 35: “A worthy love butt worth pretends” (v. 17). Capitolo I 80 Light of true love, brings fruite which none repent Butt constant lovers seeke, and wish to prove; Love is the shining starr of blessings light, The fervent fire of zeale, the roote of peace, The lasting lampe, fed with the oyle of right; Image of fayth, and wombe for joyes increase. Love is true vertu, and his ends delight; His flames are joyes, his bands true lovers might. (PA, P 78, corsivi miei) Le gioie dei sensi e le oziose fantasie sono espulse dalla fortezza dell’anima da un esercito di pensieri casti. Con un’abile fusione dei simbolismi del neoplatonismo e del puritanesimo, l’amore è associato ad una stella che brilla di luce benedetta e guida il soggetto nel suo percorso ascensionale, al fuoco dello zelo e ai bagliori della lampada eterna, alimentata dall’olio della ragione critica66. Ma l’amore è anche il ventre dove germoglia la gioia e l’entusiasmo del credente. La complessa catena associativa che lega la donna all’avidità, alla corruzione e alla corte è dunque ribaltata. Sono gli uomini, con la loro inaffidabilità, la loro promiscuità e i loro “outward showes” a determinare il degradarsi delle istituzioni67. La fecondità femminile è associata alla spiritualità, la capacità di donare vita all’atto di fede. Dopo aver descritto i momenti di uno scontro tra dissolutezza e castità, nella terza quartina Mary Wroth sbroglia il groviglio dei suoi pensieri ed esprime in maniera chiara e lineare la sua idea di amore, la sua visione della vita. 66 Sull’idea neoplatonica di amore si veda La filosofia del Rinascimento, a cura di Germana Ernst, Roma, Carocci, 2003, e, in particolare, il capitolo curato da Teodoro Katinis: “Marsilio Ficino e la rinascita del platonismo”, pp. 29-47. 67 “Amphilanthus belongs wholly to mutability and is in fact responsible for some of its manifestations. In giving this sequence of sonnets to Pamphilia, Wroth allows her to create a new – and female – world of constancy to answer the old – and preponderantly male – world of change in the Urania. Amphilanthus’ notable absence in the sequence is a deliberate exclusion, for Pamphilia’s purpose is not to woo him, win him, or transform him in any way. He has no place within the scheme of constancy, because he represents change”, E. Beilin, “‘The Onely Perfect Virtue’”, cit., p. 240. Mary Wroth 81 È il sonetto più filosofico della raccolta, nello spazio di pochi versi l’autrice espone il suo credo religioso e la sua poetica dell’autenticità. Il valore della costanza, della fedeltà a se stessi piuttosto che a una identità sociale in cui il soggetto non vuole più riconoscersi, è veicolato dall’aggettivo “lasting” che modifica uno dei termini chiave del simbolismo puritano: la lampada ad olio che illumina i passi della nostra esistenza. Nella bibbia di re Giacomo si registrano ben 44 occorrenze del lessema “lamp”. Il Salmo 119:105 recita: “Thy word is a lamp unto my feet, and a light unto my path”. Nel suo pellegrinaggio spirituale il fedele è guidato dalla luce del verbo ma deve armarsi di zelo e perseveranza: “For he put on righteousness as a breastplate, and an helmet of salvation upon his head; and he put on the garments of vengeance for clothing, and was clad with zeal as a cloak” (Isaia, 59:17). La lampada è anche segno di attesa e vigilanza, stati mentali attraverso i quali Mary Wroth tenta di vincere le tentazioni della carne e i richiami della mondanità. La liturgia utilizza la viva luce del fuoco come simbolo di stabilità e forza interiore: ciascuno deve essere “lampada a se stesso”, conquistare da solo la pace dello spirito nell’impegno personale, nel sentirsi responsabile della propria vita, senza troppo ‘appoggiarsi’ agli altri o alle istituzioni (la corte). Il richiamo alla responsabilità individuale si oppone alla deresponsabilizzazione personale e rafforza la causa della donna “protestante”, desiderosa di compiere il suo viaggio di purificazione in solitudine in modo da non subire condizionamenti. A metà strada fra l’esperienza descritta dal Tyndale di Obedience of a Christian Man e dal Bunyan di The Pilgrim’s Progress, Mary Wroth scrive la sua autobiografia spirituale implicita, spinta dall’esigenza di fare uno scrutinio di sé, e raggiungere una pienezza spirituale da sempre negata alle donne: [...] the characteristic male as well as national dream is for an unshakable self-sufficiency that would render all relations with other superfluous [...] The single self, the affirmation of wholeness or stoic apathy or quiet of mind, is a rhetorical construct designed to enhance the speaker’s power, allay his fear, disguise his need. The man’s singleness is played off against the woman’s doubleness – the fear that she Capitolo I 82 embodies a destructive mutability, that she wears a mask, that she must not under any circumstances be trusted, that she inevitably repays love with betrayal68. Mary Wroth inverte questo paradigma associando i sèmi della mutevolezza e dell’inaffidabilità alla condotta del cortigiano intrigante e dissimulatore. In Urania sono gli uomini a tradire, a non essere degni di fiducia. In Pamphilia to Amphilanthus non c’è più posto per loro, e il percorso di self-fashioning intrapreso dell’eroina può finalmente compiersi in solitudine69. Pamphilia non elabora nuovi modelli di comportamento, si limita a rifiutare quelli canonici, non tenta di scardinare la fenomenologia della simulazione, ma ne lamenta la desemantizzazione: Bee you all pleas’d? your pleasures grieve nott mee: Doe you delight? I envy nott your joy: Have you content? contentment with you bee: Hope you for bliss? hope still, and still injoye: Lett sad misfortune, haples mee destroy, Leave crosses to rule mee, and still rule free, While all delights theyr contrairies imploy To keepe good back, and I butt torments see, Joyes are beereav’d, harmes doe only tarry; Dispaire takes place, disdaine hath gott the hand; Yett firme love holds my sences in such band As since dispis’ed, I with sorrow marry; Then if with griefe I now must coupled bee, Sorrow I’le wed; Dispaire thus governs mee. (PA, P 10) Come osserva Lotman, le ripetizioni di vario grado adempiono “una funzione preminente nell’organizzazione del testo”70. Nella prima quartina un parallelismo sintattico evidente nonché una serie di iterazioni e chiasmi danno slancio e compattezza alla 68 S. Greenblatt, op. cit., p. 141. Per un approfondimento sul tema del rapporto Mary Wroth/poeti spenseriani si veda R. Smith, op. cit., p. 420. 70 Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990, p. 240. 69 Mary Wroth 83 tesi sostenuta da Mary Wroth, che individua nell’ozio dello spirito e nell’indolenza dei cortigiani, qui evocati dal prudente “you”, il tarlo della società. La figura dell’antitesi permette di isolare, nella prima quartina, due contrastanti aree semantiche, l’una connessa al piacere e alla spensieratezza, l’altra al travaglio interiore. La prima area semantica è collegata al pronome “you”, l’altra a pronomi o espressioni pronominali di prima persona di cui si registrano ben dieci occorrenze. Con un’abile permutazione delle marche i lessemi “pleasures”, “delight”, “joy”, “contentment” e “bliss” descrivono il mondo esterno come il regno dell’ozio e dell’escapismo. L’organizzazione sintattica delle unità di senso è funzionale al disvelamento del contrasto tra l’io testuale e gli altri cortigiani. L’anadiplosi (…X/X…) del terzo verso si intreccia al chiasmo (“Have you content? contentment with you bee”; x y z / z y x) e alla figura etimologica (content/contentment) che agiscono da rinforzo tematico e ritmico al fuoco di fila delle domande di Pamphilia. L’io lirico scredita la fenomenologia della corte, collocata sotto la cifra dell’effimero. La seconda quartina mette in scena l’occultamento dell’altro, del diverso da sé; il sonetto si chiude al rapporto diretto e torna a veicolare le meditazioni dell’io poetico. Il tono si fa più sofferto, l’occorrimento anaforico di “still” sembra estendere lo stallo emotivo dei cortigiani (v. 4) ai sentimenti del parlante, intrappolato in un labirinto di frustrazioni da cui cerca ostinatamente di fuggire. In Pamphilia to Amphilanthus è raro riscontrare momenti dinamici, scelte, cambiamenti di rotta, non c’è un reale sviluppo diegetico, non c’è storia. C’è solo la descrizione del travaglio mentale di un soggetto impegnato a reprimere i propri slanci emotivi e i propri desideri più intimi per approdare ad una stoica accettazione della solitudine e della privazione. Dando voce ai suoi pensieri in una forma poetica tanto stilizzata Mary Wroth aveva penetrato il mondo simbolico dalla porta principale. Le sue incursioni in una pratica culturale da sempre appannaggio degli uomini e il suo desiderio di scrivere “nel nome del padre” potevano essere soddisfatti solo a patto di rinunciare a una parte di sé, reprimere i propri impulsi emotivi Capitolo I 84 per adeguarsi alla norma patriarcale, farla propria per passarla al setaccio, alla ricerca di passi da riscrivere, spazi bianchi da riempire e campi semantici da ibridare e arricchire, onde ribaltare convinzioni e credenze assiomatiche della cultura rinascimentale. Il secondo emistichio dell’ottavo verso, che appare slegato dal periodo che si snoda nella seconda quartina, introduce una nota di sconforto che preconizza l’amaro sfogo dei vv. 9 e 10 dove il ricorso alla coordinazione sfocia nel terribile asindeto: “Joyes are beereav’d, harmes doe only tarry; / Dispaire takes place, disdaine hath gott the hand”. L’incalzante triplicazione della dentale [d] (dispaire, disdaine) comunica un senso di inevitabilità che si scontra con l’avversativa “Yett” che in extremis cambia il tono del sonetto e rimette tutto in discussione. A proposito di questi continui e repentini sbalzi della curva emotiva, Naomi Miller parla di “attempts to master the self”71. Mary Wroth appare timorosa e insicura quando si tratta di fustigare i vizi e la corruzione dei cortigiani, in fondo quel regno di dissimulazione è stato il palcoscenico sul quale lei stessa ha interpretato l’ambito ruolo della cortigiana favorita della regina. Le memorie del passato invadono il presente e innescano un dinamismo ossimorico che smussa gli spigoli della critica. Le sorprese non mancano nemmeno all’interno di un singolo verso. Nel sintagma “sorrow marry”, che intrattiene un rapporto chiastico con “sorrow I’le wed” dell’ultimo verso, si scontrano valori connotativi di segno opposto. L’oggetto “sorrow” annulla un componente semantico essenziale del predicato “marry” disorientando il lettore. Il sonetto P 26 si offre come un ideale sviluppo dei temi affrontati in P 10. In questo caso l’altro, il diverso da sé, diventa “every one”, mentre i riferimenti alla natura effimera dei tipici passatempi di corte si fanno più espliciti: When every one to pleasing pastime hies Some hunt, some hauke, some play, while some delight 71 N. Miller, Changing the Subject, cit., p. 155. Mary Wroth 85 In sweet discourse, and musique showes joys might Yett I my thoughts doe farr above thes prise. The joy which I take, is that free from eyes I sitt, and wunder att this daylike night Soe to dispose them-selves, as voyd of right; And leave true pleasure for poore vanities; When others hunt, my thoughts I have in chase; If hauke, my minde att wished end doth fly, Discourse, I with my spiritt tauke, and cry While others, musique choose as greatest grace. O God, say I, can thes fond pleasures move? Or musique bee butt in sweet thoughts of love? Il discorso infrange le barriere del verso e si snoda in un periodo tortuoso, spezzato da incidentali e parentetiche, come se l’io narrante stesse per cedere alla pressione esercitata dai pensieri. L’antitesi dei soggetti grammaticali, “I” vs “every one”, è ancora in primo piano ma si arricchisce di nuovi motivi nel momento in cui il primo è associato a “thoughts”, il secondo a “pastime”. Il testo parla delle pose, delle idee e delle tattiche comuni ai componenti del “branco”, ma sta in realtà discorrendo della decadenza della corte di Giacomo I, dominata da fazioni procattoliche72. L’ascesa al trono di Giacomo I aveva portato all’unificazione della Scozia e dell’Inghilterra nonché alla pace con la Spagna. Il nuovo sovrano aveva tre figli, due maschi e una femmina, che avrebbero garantito il perpetuarsi della stirpe. La prospettiva di un futuro libero dalle controversie e dalle incertezze circa la successione al trono di Inghilterra non poteva che confortare un popolo quanto mai desideroso di stabilità. Tuttavia, gli elisabettiani erano profondamente turbati dal mutamento di temperie innescato dalla politica prudente del sovrano, nient’affatto interessato ad assumere il ruolo di capo dell’Europa protestante. Giacomo non abbracciò alcun’idea di missione di riforma uni72 R. Smith, op. cit., p. 417. “Through genre”, osserva Rosalind Smith, “Wroth capitalizes upon a cultural nostalgia for the ‘golden age’ of Elizabethan rule and uses the discourse of withdrawal and banishment to express a disenfranchisement from Jacobean rule”. Capitolo I 86 versale o di sostegno del protestantesimo europeo; la prudenza gli suggeriva di evitare qualsiasi scontro con le potenze cattoliche ispano-asburgiche. Il suo obiettivo era quello di raggiungere la pace generale mediante complesse alleanze matrimoniali e abili interventi diplomatici, secondo un progetto articolato in più fasi, la più importante delle quali prevedeva le nozze tra il principe Carlo, l’erede al trono, e Maria, l’Infanta di Spagna, cattolica73. Umanisti e letterati come Sir Walter Ralegh e Fulke Greville temevano che queste manovre avrebbero portato al crollo dei valori del puritanesimo cavalleresco elisabettiano, gli stessi per cui Philip Sidney aveva sacrificato la vita. Va da sé che l’opposizione di Giacomo al Puritanesimo non si basava su questioni teologiche ma su esigenze politiche. L’assolutismo regio era incompatibile con una Chiesa organizzata dal basso e attraversata da fermenti democratici. Non che i cattolici fossero entusiasti della politica reale, se consideriamo che nel 1605 un gruppo di nobili di parte gesuita guidati da Guy Fawkes organizzò la “congiura delle polveri”, atto terroristico volto a eliminare l’intera classe dirigente, monarca incluso74. Le 73 L’unione sfumò a causa di insanabili divergenze politiche e religiose. Carlo sposerà la principessa cattolica Enrichetta Maria di Francia. Sulle relazioni anglo-spagnole nei primi anni del regno di Giacomo si veda A. S. Loomie, “Toleration and Diplomacy. Religious Issue in Anglo-Spanish Relations, 1603-1605”, in Transactions of the American Philosophical Society, LIII, part. 6, 1969, pp. 3-60. 74 Il progetto era quello di far saltare in aria il parlamento il giorno della seduta di apertura con 36 barili di esplosivo. Il piano fu scoperto e i ribelli furono catturati e giustiziati. Sulla politica religiosa di Giacomo I si vedano S. J. La Rocca, “‘Who Can’t Pray With Me, Can’t Love Me’: Toleration and Early Jacobean Recusancy Policy”, in Journal of British Studies, 23, 1984, pp. 2236; K. Fincham, P. Lake, “The Ecclesiastical Policy of King James I”, Journal of British Studies, 24, 1985, pp. 169-207; R. Petrs, “Some Catholic Opinions of King James VI and I”, in Recusant History, X, 5 (1970), pp. 292-303 e L. Peck (ed.), The Mental World of the Jacobean Court, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Sulla “tassonomia religiosa” inglese del tempo si vedano C. Questier, Conversion, Politics and Religion in England, 1580-1625, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; A. Milton, Catholic and Reformed. The Roman and Protestant Churches in English Protestant Thought, 1600-1640, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; T. H. Clancy, Mary Wroth 87 tensioni col parlamento, la crescita esponenziale dei debiti di guerra e della disoccupazione, i traffici di titoli e la frettolosa concessione di monopoli – il cui effetto era quello di assicurare profitti a una ristretta cricca di cortigiani e di rallentare lo sviluppo dell’industria violando il principio della libertà commerciale – completano il disastroso bilancio politico del gruppo guidato da re Giacomo. I fasti di corte non potevano più mascherare una realtà corrotta e instabile, la propaganda eretta intorno al sovrano e i discorsi sul diritto divino dei regnanti non raggiunsero lo scopo di trasferire la devozione per i Tudor alla nuova dinastia. Chiunque poteva accorgersi della profonda differenza tra la vita di corte al tempo di Elisabetta, con l’accentuazione dei valori della castità e della dignità, e gli eccessi dei cortigiani al tempo di re Giacomo, ai quali Mary Wroth indirettamente allude allorché dice di preferire la quiete della tomba alla “lothed company who allways jarr / Upon the string of mirthe that pastime gave” (P 44, vv. 7-8). Nel 1606, in occasione dei festeggiamenti per la visita del re di Danimarca, Giacomo I, il suo ospite e un gran numero di cortigiani e cortigiane, storditi dall’alcol, si lasciarono andare a eccessi di ogni tipo75. Questo genere di intemperanze non era tollerato durante “Papist-Protestant-Puritan: English Religious Taxonomy, 1565-1665”, in Recusant History, XIII, 4 (1976), pp. 227-53. 75 L’episodio è riportato da E. W. Ives, “Shakespeare and History: Divergences and Agreements”, Shakespeare Survey, 38 (1985), p. 20. Sul tema dell’immorale sregolatezza del sovrano e dei suoi cortigiani vale quanto scrive J. P. Kenyon: “The elaborate masques of Inigo Jones, which were a feature of the reign, could not be ignored by the public – in fact their function was to be noticed; as was the lavish scale of Court entertainment, reaching new heights in 1604 for the Spanish peace delegation, and in 1606 for the state visit of James’ brother-in-law, the king of Denmark. His courtiers, gladly throwing off the restrictions imposed by Elizabeth, emulated his example; they built houses, it was said, ‘like Nebuchadnezzar’s’, they threw away fortunes on gambling, on such vulgar displays as the ‘double supper’ or at the tilts [...] To a certain degree this was acceptable; the King’s prestige was the nation’s prestige, and the nation could not afford to seem pauper. On the other hand, there was a growing body of opinion, puritan in tone if not ‘Puritan’ in religion, which argued that if kings were indeed God’s vice-regents they should model their lives on His, and keep in mind the Christian virtues of abstemiousness, 88 Capitolo I il regno di Elisabetta. L’austero contegno della regina contribuì a dare credibilità all’associazione tra la reggente e l’immortale Gloriana ed era un ricordo vivo quando si trattò di demistificare le finzioni di Giacomo I. Il mito del diritto divino del sovrano non poteva più attecchire nelle menti di un popolo sempre più informato e politicizzato grazie alla crescita dell’alfabetizzazione e al rapido sviluppo della stampa periodica e pamphlettistica. Al gioviale cameratismo della corte di re Giacomo, l’io lirico contrappone la meditazione privata e solitaria, per dirla con Elizabeth Hanson: “What’s being rejected here is social activity of any kind”76. Mary Wroth si concede tempo per riflettere, per ripensare alla propria condizione di emarginata e magari immaginare i tempi d’oro del regno elisabettiano, segnati dalle imprese eroiche dei militanti del protestantesimo. Tempi in cui la vita di corte non offriva solo immagini di licenziosa spensieratezza e non era segnata dalle macchinazioni di una nobiltà sempre più corrotta e decadente. Pamphilia “siede e sogna” (“I sitt, and wunder”) al riparo da sguardi indiscreti (“Free from eyes”), rimane immobile, preferisce la stasi allo spostamento meccanico e a senso unico, la notte al giorno. Il suo pensiero libero sfugge alla tirannia delle convenzioni sociali e “vola” via libero e indipendente77. Si noti come al verbo neutro “consider” Mary Wroth preferisca “prise” in modo da accentuare il valore della libertà di pensiero, conquistata, bisogna sottolinearlo, al prezzo di una morte sociale che produce un trauma da distacco solo parzialmente superato: sobriety and charity. Moreover [...] too many of James’s courtiers were handsomely rewarded without offering any apparent service in return” (Stuart England, Harmondsworth, Penguin, 1978, pp. 55-6). 76 Elizabeth Hanson, “Boredom and Whoredom: Reading Renaissance Women’s Sonnet Sequences”, The Yale Journal of Criticism, 10 (1997), p. 183. 77 Jeff Masten osserva che Pamphilia è immobile anche in Urania: “In an extremely public narrative – detailing the wanderings of innumerable characters across a seemingly boundaryless Eurasian landscape – she is remarkably immobile, and her poetic process is closely linked with retirement” (op. cit., p. 33). Mary Wroth 89 Truly poore Night thou wellcome art to mee: [...] I love thy grave, and saddest lookes to see, Which seems my soule, and dying hart intire, Like to the ashes of some happy fire That flam’d in joy, butt quench’d in miserie (P 17, vv. 1-8) Allontanarsi dalla corte equivale ad uscire di scena, abbandonare il palcoscenico e sparire dietro le quinte, negli spazi bui dell’anonimato. Smettere di recitare il ruolo della perfetta cortigiana per ritirarsi nella sfera privata della meditazione solitaria richiede una notevole elasticità mentale da parte di una nobildonna introdotta a corte fin dalla tenera età, anche se va detto che nel caso di Mary Wroth gli scompensi legati al deteriorarsi della sua immagine fittizia furono presto compensati da una nuova fioritura di pensieri e idee: What pleasure can a bannish’d creature have In all the pastimes that invented arr By witt or learning, absence making warr Against all peace that may a biding crave; Can wee delight butt in a wellcome grave, Wher wee may bury paines, and soe bee farr From lothed company who allways jarr Upon the string of mirthe that pastime gave (PA, P 44, vv. 1-8) Mettiamo a confronto questo sfogo di Mary Wroth con l’invettiva lanciata da John Donne all’amico che gli rimprovera una certa incuria per gli affari del mondo: For Godsake hold your tongue, and let me love, Or chide my palsie, or my gout, My five gray haires, or ruin’d fortune flout, With wealth your state, your minde with Arts improve, Take you a course, get you a place, Observe his honour, or his grace, Or the Kings reall, or his stamped face Contemplate, what you will, approve, Capitolo I 90 So you will let me love78. (Songs and Sonnets, “The Canonization”, vv. 1-9) Entrambi i poeti tentano di elaborare il senso di frustrazione che deriva dal sentirsi tagliati fuori dal “giro” che conta. Entrambi provano ad autoconvincersi di aver fatto la scelta giusta rinunciando alla sfera pubblica per quella privata79. Da una posizione esterna al “palazzo” Mary Wroth scorge i segni del cedimento strutturale che di lì a poco avrebbe determinato il crollo della monarchia Stuart ma il suo ritirarsi a vita privata non contribuisce a dare continuità e stabilità al suo tormentato rapporto con William Herbert. Dopo la morte del marito, seguita a ruota da quella del loro unico erede, ella si trovò a dover fronteggiare da sola un esercito di creditori determinati a destabilizzare la sua preziosa indipendenza finanziaria pur di essere saldati. Al contrario John Donne aveva ottenuto ciò che più desiderava dalla vita, un legame forte e duraturo con Ann More, ma rispetto a Mary Wroth, che poteva sempre contare sull’appoggio di una buona schiera di amici importanti, trovò ben più arduo accettare la rinuncia ai privilegi (economici e sociali) che solo una carriera da cortigiano gli avrebbe garantito80. 78 John Donne, Selected Poetry, a cura di John Hayward, Harmondsworth, Penguin, 1985, pp. 28-30. 79 Maureen Quilligan tesse un interessante confronto tra John Donne e Mary Wroth: “Wroth had fallen in love with her first cousin, and Donne had fallen in love and married the sixteen-year-old niece of the Lord for whom he worked as secretary. As a member of a great household, than, Donne’s breach in stealing the affections of a teenage girl without her father’s consent is something akin to the trespass against the exogamous traffic in women Wroth also caused when she bore to her first cousin two illegitimate children. Donne’s wife’s father had him arrested and then went so far as to have Lord Egerton dismiss him from his position as secretary, a scandal from which Donne’s career never fully recovered. Both transgressed against the social rules prescribing conduct in the selection of appropriate mates – both then in some profoundly similar sense, transgressed against the patriarchal system run by incest taboos” (“Completing the Conversation”, Shakespeare Studies, 25, 1997, p. 43). 80 Dayton Haskin fornisce una serie di prove circostanziali che dimostrano come Donne non tardò a pentirsi della sua frettolosa decisione di sposare se- Mary Wroth 91 I componimenti offrono due interessanti variazioni sul tema della perdita di prestigio sociale. Nella versione di Mary Wroth si registra una tensione tra l’impulso ad evadere dalla “lothed company” dei cortigiani e la nostalgia per un mondo da cui il parlante si sente inevitabilmente tagliato fuori. Pamphilia non descrive se stessa come “lonely” o “exiled creature”, ma come “bannish’d creature”, quasi a voler evidenziare i condizionamenti esterni che la hanno indotta a lasciare la corte. Il participio passato “bannished” esclude ogni idea di scelta autonoma e individuale. Ma c’è di più. L’assenza, la lontananza dalla corte e dalla “lothed company”, scrive Pamphilia, “guerreggia con la pace”, produce ansia e instabilità nel suo animo, confessione che corrode il rivestimento retorico della successiva interrogazione: “Can we delight butt in a wellcome grave?”. L’argomentazione sviluppata nella prima quartina induce il lettore a rispondere “no” a questa domanda. Se il credo religioso spinge il parlante verso un degretamente la figlia di Sir George More: “In 1602, writing to Sir Thomas Egerton after his dismissal, Donne spoke of his having ‘died’ after contracting in Egerton’s household the ‘sickness’ of his love. A decade later, Donne used the same metaphor in a letter to Goodere: ‘I must confess, that I dyed ten years ago’. About 1608, writing to Lord Hay, Donne referred to his marriage as ‘that intemperate and hastie act of mine’. This letter suggests that the error was well known at court. ‘I have been told’, Donne remarks to Hay, ‘that when your Lordship did me that extream favour, of presenting my name, his Majestie remembred me, by the worst part of my historie, which was my disorderlie proceedings, seaven years since, in my non-age’” (“A History of Donne’s ‘Canonization’ from Izaak Walton to Cleanth Brooks”, The Journal of English and Germanic Philology, 92, 1993. Il saggio è consultabile anche in rete: http://www.geocities.com/milleldred/donnehaskin.html). Dietro alla critica aspra e pungente della corte, osserva Douglas L. Peterson, si nasconde la frustrazione per una perdita impossibile da compensare: “In contrast to Greville, whose Caelica is the history of his shifting from a courtly to a noncourtly position, Donne never reveals any sympathy with the Court as a cultural institution. He is an outsider who speaks of the world of courtly and political preferment with all of the vehemence of one whose expectations in that world, and we know that they were once very promising, have been disappointed” (The English Lyric from Wyatt to Donne, East Lansing, Colleagues Press, 1990, p. 287). Si vedano, inoltre, R. C. Bald, John Donne: A Life, Oxford, Oxford University Press, 1986 e Arthur F. Marotti, John Donne, Coterie Poet, Madison, University of Wisconsin Press, 1986. 92 Capitolo I stino di reclusione e meditazione solitaria, i fasti e l’euforica spensieratezza della vita mondana (“the ashes of some happy fire / that flam’d in joy [...]” P 17, vv. 7-8) non cessano di esercitare un’attrazione difficile da contrastare. Mary Wroth desidera far parte del mondo in cui vive, incidere sul reale, mostrarsi e interagire con gli altri, far sentire la propria voce in pubblico, è per questo motivo che fa stampare i suoi manoscritti. Se l’anelito al ripiegamento interiore afferisce al regime del dover essere, l’impulso a socializzare afferisce al regime dell’essere81. Per quanto cerchi di convincere se stessa di aver finalmente conquistato le vette di una dimensione esistenziale più autentica, Mary Wroth non può che avere nostalgia per il suo passato di favorita della regina. Al contrario, John Donne tenta di trasformare la sua rinuncia alla sfera pubblica nel trampolino di lancio per una ricerca del piacere fisico e una rincorsa all’appagamento dei sensi non disgiunte da un’aura di spiritualità. Pur calati nella temporalità di un’esistenza tutta terrena, gli amanti si difendono dall’aggressione del tempo e dalla morte sfruttando l’energia sacra dell’Eros: “Wee dye and rise the same, and prove \ Mysterious by this love”. La rabbia e il disappunto del carrierista frustrato sfociano in questa frase blasfema volta a ridimensionare la sacralità della resurrezione di Cristo: anche gli amanti possono affrontare e sconfiggere la morte. Nelle ultime due stanze l’amaro sfogo del poeta si diluisce in un’argomentazione più distesa: Our legend bee, it will be fit for verse; And if no peece of Chronicle wee prove, We’ll build in sonnets pretty roomes, As well a well wrought urne becomes The greatest ashes, as halfe-acre tombes, 81 Cfr. Jurij M. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, Venezia, Marsilio, 1994, p. 106. Si veda, inoltre, quanto scrive, in proposito, Janet Macarthur: “Instead of producing a series of calculated attempts at tropological seduction, sexual frustration is turned upon itself, making the tone of Pamphilia to Amphilanthus very hopeless and static. There is more longing for death and more living death in this poem than is usual in Petrarchan sonnet sequences” (op. cit., p. 14). Mary Wroth 93 And by these hymnes, all shall approve Us Canoniz’d for Love (vv. 30-6) La morte è qui l’anticamera della “canonizzazione” degli amanti, una tappa fondamentale del loro pellegrinaggio spirituale: “There will be rest in grave, and something more – official reinstatement: a place in the establishment at last. Donne imagines himself and the girl being invoked as saints in the future ages”82. Il non detto del canzoniere di Mary Wroth si esplicita nella poesia di un altro importante intellettuale precocemente caduto in disgrazia. Se da un lato John Donne si pente di aver infranto le regole basilari del patto sociale e lamenta il suo status di emarginato, dall’altro fa tesoro della libertà involontariamente conquistata, celebrando l’amore passionale senza più ricorrere ai travestimenti retorici del petrarchismo e inoculando valenze sacre nel suo amore tutto terreno per Ann More. È ovvio che una nobildonna del XVII secolo non poteva mai sentirsi completamente libera dai vincoli della norma patriarcale. Agli “outward showes” (P 46, v. 2) dei cortigiani Mary Wroth può contrapporre solo gli “inward showes” dell’anima. Il desiderio di assertività (fisica e psichica) è costretto a celarsi dietro la spessa coltre dell’ethos puritano e del codice d’amore (i “painted outsids” del sonetto 15, P 17, v. 4) ma è pur sempre vivo, e colma ogni latenza testuale. 1.7 Alterità e diversità perturbanti e sovversive. Nell’Inghilterra di Elisabetta e di Giacomo il teatro e la corte sono i luoghi dove si rappresentano e si attribuiscono identità sulla base di un patto culturale. Nei sonetti dedicati al fair youth, Shakespeare si autorappresenta come “un imperfetto attore sulla scena / che per paura scorda la usa parte” (sonetto 23, vv. 1-2). La vita di corte è artificiale quanto la finzione dram82 John Carey, John Donne: Life, Mind and Art, London, Faber and Faber, 1985, p. 43. Capitolo I 94 matica: tutti sono tenuti a partecipare ai suoi complessi rituali con l’obbligo di recitare la propria “parte” con diligenza. Dopo essere stata a lungo una figura di spicco dell’entourage di Anna di Danimarca, Mary Wroth, consapevole di aver ormai perso i favori reali, si sente finalmente libera di esprimere la sua insofferenza per l’atmosfera soffocante della Corte, ambiente infestato da intrighi, corruzione e macchinazioni di ogni genere: “This stage of woe / Wher sad disasters have theyr open showe [...]” (PA, P 48, vv. 12-3). Le fastose cerimonie e i futili passatempi dei cortigiani mascherano solo parzialmente la realtà instabile di una istituzione in decadenza, inarcata attorno alla figura di un monarca, Giacomo I, tanto incapace da riuscire ad alienarsi sia i Puritani sia i Cattolici con le sue decisioni intempestive e la sua politica accentratrice. In ogni caso, furono proprio le esperienze maturate a Corte a segnare profondamente la sensibilità di Mary Wroth. Il fatto stesso di recitare nel ruolo di Baryte in The Masque of Blackness di Ben Jonson, rappresentato a Whitehall nel 1605, costituisce un momento epifanico nella sua quest di conoscenza e consapevolezza. In primo luogo, il masque era una forma teatrale aperta alla recitazione femminile, le speaking parts erano ancora lasciate ai ragazzi della cappella reale, ma calcare il palcoscenico e comunicare i propri sentimenti con il linguaggio del corpo e dei gesti era una conquista importante per le fanciulle della nobiltà più ansiose di mostrarsi vive e attive allo sguardo del selezionato drappello di spettatori83. In secondo luogo, va sottolineato che molte scrittrici del tempo si erano dimostrate particolarmente sensibili al tema della “diversità”, e cercavano di mettere a fuoco le implicazioni culturali del loro stesso coin83 Sul significato culturale della danza vale quanto scrive Jean-Paul Desaive: “[...] la danza è l’unico linguaggio del corpo che consenta alla donna di esprimersi alla pari con l’uomo e in perfetta complementarità con lui; infatti la forzata inattività delle dame si estende a tutti gli esercizi fisici praticati dagli uomini, dalla pallacorda al torneo [...] Il ballo offre quindi un’occasione unica per affermare che anch’esse possono muoversi, e possono farlo con grazia, vivacità, brio o slancio” (“Le ambiguità del discorso letterario”, in Duby e Perrot, op. cit., p. 285). Mary Wroth 95 volgimento nel discorso della differenza razziale. Qual era lo spazio assegnato alla nobildonna bianca nel campo semantico che ha come perno fisso l’opposizione fairness/blackness e dove il secondo termine è associato all’alterità e all’inferiorità razziale? In che modo era possibile sfruttare le suggestioni di queste nuove costruzioni culturali per conquistare uno spazio di azione all’interno della sfera sociale? Così come il maschio bianco conquista il potere individuando e isolando un altro da sé (donne bianche e blackmoores), così la donna reclama potere e autorità individuando, nelle sue rivali, il negativo sulla base del quale sviluppare la propria soggettualità e mettendo in luce la loro alterità culturale e razziale. È quanto accade in The Tragedy of Mariam di Elizabeth Cary, dove la competizione tra la nobile e candida (“fair”) Mariam e la “bruna” Cleopatra si nutre e si alimenta del lessico della differenza razziale. Le straniere rappresentavano una ulteriore minaccia alla condizione già subordinata delle donne inglesi, che assumono un atteggiamento fortemente competitivo nei loro confronti, come si vedrà nella sezione dedicata all’opera di Elizabeth Cary84. La donna desiderata e prescelta dal maschio era di norma associata alla bellezza e alla purezza razziale, mentre quella sconfitta e rifiutata era associata all’altro razziale-nero, alla diversità perturbante e all’eccesso sessuale. Ogni scontro o rivalità tra donne, ogni sexual slander, a prescindere da reali differenze di razza, si articolava sull’opposizione fair vs dark. Nelle corti ecclesiastiche comportamenti devianti venivano descritti e denunciati facendo ampio ricorso al campo semantico della sessualità, ovvero 84 Dal 1563, anno in cui John Hawkins comincia il traffico di schiavi africani, alla fine del XVI secolo, il numero dei “Negars” e “Blackamoors” rozzi e infedeli che infestavano l’Inghilterra era tanto cresciuto da suscitare lo sdegno della stessa regina Elisabetta che ordinò diverse deportazioni (1596 e 1601) per “ripulire” il suo regno. Cfr. Eldred D. Jones, The Elizabethan Image of Africa, Washington, Folger Library, 1971 (in particolare le pp. 18-20) e Folarin Shyllon, Black People in Britain 1555-1833, London, Oxford University Press, 1977. Capitolo I 96 ai topoi della whoredom, della blackness e dell’uncleanliness85. Il sexual slander era uno dei canali in cui convogliare l’esigenza di imporre la propria assertività, affermare la propria supremazia e il proprio valore contestando alla donna rivale una promiscuità sessuale spesso connessa ad una presunta alterità razziale. L’associazione blackness=slander emerge con nitore nei sonetti 127 e 131 del canzoniere di William Shakespeare: In the old age black was not counted fair, Or, if it were, it bore not beauty’s name; But now is black beauty’s successive heir, And beauty slandered with a bastard shame (sonetto 127, vv. 1-4) In nothing art thou black save in thy deeds, And thence this slander, as I think, proceeds. (sonetto 131, vv. 13-14) Nel sonetto 127 Shakespeare allude per la prima volta al colore bruno della pelle della sua amante. Il nero è subito associato alla diffamazione, alla vergogna, all’illegittimità. È il colore della trasgressione, della carnalità opposta alla spiritualità, dell’istintività, della libido e della lussuria che inducono il poeta a “sprecare” il suo spirito “in vergognoso scempio” (“Th’expense of spirit in a waste of shame / Is lust in action [...], son. 129, vv. 1-2)86. La rappresentazione di The Masque of Blackness esercitò un forte impatto sociale. Vedere la regina interpretare il ruolo di una donna di colore, il volto e le mani dipinte di nero, si rivelò un’operazione molto ardita perfino per il drammaturgo più legato e gradito agli Stuart, Ben Jonson. Il suo scopo era quello di esaltare la grandezza dell’impero inglese contrapponendola alla diversità culturale dei popoli assoggettati. L’approdo delle do85 Cfr. Laura Gowing, “Language, Power, and the Law: Women’s Slander Litigation in Early Modern London”, in L. Hutson, op. cit., pp. 428-45. 86 Cfr. Marvin Hunt, “Be Dark but Not Too Dark: Shakespeare’s Dark Lady as a Sign of Color”, in James Schiffer (ed.), Shakespeare’s Sonnets. Critical Essays, New York and London, Garland, 1998, pp. 369-89. Mary Wroth 97 dici “figlie del Niger” nel regno britannico avrebbe avviato un processo di “lattificazione” in grado di trasformare l’aspetto di ognuna di loro. La copertura ideologica fondamentale era quella dell’uomo bianco portatore di civiltà, capace di riscattare e addomesticare donne doppiamente inferiori come le etiopi. Infatti, ecco che in The Masque of Beauty la perturbante immagine della dark lady etiope si trasforma in una visione quasi onirica della regina Anna, il capo adornato da una splendida corona ricca di gemme preziose, in testa a una nobile schiera di dame eleganti e aggraziate. Va detto che le profonde implicazioni culturali del primo masque non furono del tutto annullate dal suo ideale sviluppo. Nella memoria di alcuni commentatori del tempo rimaneva l’immagine perturbante della regina nera. Con procedimento analogo, Mary Wroth tenta di risolvere l’ingorgo emotivo descritto nei sonetti della seconda sezione in una Corona di sonetti, griglia poetica dalla struttura rigida e circolare, pensata per attenuare e irregimentare impulsi segreti e passioni irrazionali. In realtà, già nel sonetto proemiale (P 77) si delinea un setting, il labirinto, in cui è difficile orientarsi: “In this strange labourinth how shall I turne?” (v. 1). La forma non può mai assimilare del tutto i contenuti, che sfuggono alle gabbie ideologiche predisposte dalla mente razionale mediante il linguaggio analitico. La regina nera di The Masque of Blackness evoca la figura di Cleopatra, eroina di tanti drammi rinascimentali. Curiosamente, il paradigma dell’alterità razziale di Cleopatra emerge con forza solo nelle opere di scrittrici come Mary Sidney, Emilia Lanyer ed Elizabeth Cary, che le contrappongono l’onesta e “bianca” Ottavia. Come ha notato Kim Hall, sia nell’Antoine di Mary Sidney che in Salve Deus Rex Judaeorum di Aemilia Lanyer la negritudine di Cleopatra e la dissolutezza morale di Antonio sono costantemente evidenziate87. Come spiegare questo squilibrio tematico nella produzione letteraria del tempo? Quali spe87 Kim Hall, “‘I Rather Would Wish to be a Black-Moor’: Beauty, Race, and Rank in Lady Mary Wroth’s Urania”, in M. Hendricks, P. Parker (eds.), op. cit., p. 182. 98 Capitolo I cificità culturali rendono l’immagine della donna di colore che seduce l’uomo bianco tanto più perturbante dell’inverso abbinamento maschio nero/femmina bianca? Anche se l’eccesso di sessualità e la mostruosa diversità di Otello è messa in rilievo fin dai primi 126 versi del dramma shakespeariano, il Moro è pur sempre ideologicamente bianco in quanto cristiano e al servizio dello stato di Venezia di cui ha “sposato” perfino il linguaggio e, di conseguenza, la forma mentis. La sua unione con Desdemona dovrebbe consolidare la sua trasformazione “from the monstrous black and ‘Islamic other’ to the valiant noble white Moor of Venice”88, e la sua “acquisition of the body of white masculinity” se non fosse che la donna bianca, eroina radicale, linguacciuta e trasgressiva, diventa ben presto più “nera” di lui agli occhi della comunità patriarcale. Avendo trasgredito la norma culturale razziale oltre che la regola dell’obbedienza filiale, Desdemona è solo apparentemente bianca. Questa consapevolezza non può che attenuare le ansie generate dalla sua scandalosa unione col Moro, repertoriabile nell’ambito di un coinvolgimento sentimentale romantico e trasgressivo: Elizabethan literary representation does, certainly, include deprecations of the black man. But curiously enough, the black male–white female union is, throughout this period and earlier, most frequently depicted as the ultimate romantic-transgressive model of erotic love. Othello is the romantic hero of his play who wins the love of Desdemona; the Prince of Morocco is placed into the position of one of three suitors who dare to venture the romantic quest for Portia [...]89. Ben più destabilizzante per le fondamenta dell’ideologia patriarcale è l’immagine della donna nera che seduce l’uomo bianco fino all’inevitabile “miscegenation”, in cui convergono 88 Maurizio Calbi, “Speaking in Terror: Femininity, Monstrosity and ‘Race’ in Early Modern Culture”, in Maria Teresa Chialant (a cura di), Incontrare i mostri. Variazioni sul tema nella letteratura e cultura inglese e angloamericana, Napoli, ESI, 2002, p. 72. Si veda anche il capitolo “Othello, o la tragedia di Desdemona ed Emilia”, in C. Mucci, Il teatro delle streghe, cit., pp. 87-107. 89 L. E. Boose, op. cit., pp. 41-2. Mary Wroth 99 le ansie di sprecare il seme maschile nel ventre immondo della donna negra. Il desiderio di generare una perfetta replica di sé naufraga nei profondi abissi del corpo femminile doppiamente corrotto e impuro. La donna viola e nega l’autorità patriarcale dei bianchi dando alla luce una creatura mostruosa che perde ogni legame col genitore, e diventa irriconoscibile, dunque indegna di ricevere l’eredità patrimoniale, indegna perfino di inverdire la linea dinastica da cui proviene. Anche nei drammi in cui appare, alla figura mostruosa della donna di colore sono assegnati ruoli secondari, servi lascivi come Zanche in The White Devil di John Webster, Zanthia in The Wonder of Women; or, The Tragedy of Sophonisba (1606) di John Marston o infine la mora che in The Battle of Alcazar di George Peele ibrida e corrompe la dinastia del marito dando alla luce un figlio di colore che finirà per tradire il padre. Alla stessa Cleopatra shakespeariana, una delle poche eroine di colore individuabile nella drammaturgia inglese del tempo, non è attribuita una precisa identità razziale, l’unica allusione al colore della sua pelle è una descrizione del suo volto come “tawny front” (I, i, 6). È importante sottolineare che il lessema “tawny” acquista senso e spessore semantico proprio in rapporto all’aggettivo che sostituisce, ‘black’, rispetto al quale denota un certo neutro ibridismo razziale. Si comprende ora l’originalità del masque di Ben Jonson che osa consegnare il palcoscenico alle dodici etiopi in cerca di una terra dove “lattificare” la propria negritudine. Le donne non saranno accettate finché non indosseranno la maschera che l’uomo bianco ha forgiato per loro, assumendo il contegno che è stato loro prescritto fin dalla nascita. Cambiare il colore della propria pelle equivale a piegare la propria personalità alle esigenze e alle imposizioni del sistema patriarcale. Di qui il clamoroso rifiuto di Pamphilia, pronta a schierarsi, nell’Urania (dove esclama orgogliosa: “I rather would wish to be a Black-moor”), come nel sonetto 22 (P 25), con gli indiani “bruciati dal sole”, con i reietti, gli emarginati e le donne diffamate in cerca di riscatto: 100 Capitolo I Like to the Indians, scorched with the sunne, The sunn which they doe as theyr God adore Soe am I us’d by love, for ever more I worship him, less favors have I wunn, Better are they who thus to blacknes runn, And soe can only whitenes want deplore Then I who pale, and white am with griefs store, Nor can have hope, butt to see hopes undunn; Beesids theyr sacrifies receavd’s in sight Of theyr chose sainte: Mine hid as worthles rite; Grant mee to see wher I my offrings give, Then lett mee weare the marke of Cupids might In hart as they in skin of Phoebus light Nott ceasing offrings to love while I Live. Laddove gli altri, gli indiani, adorano il sole, simbolo di Giacomo I, Wroth/Pamphilia adora e venera Cupido. Entrambi i soggetti lirici sono in qualche modo traditi dalle divinità evocate che non dispensano favori e grazie. Il re pretende rispetto e adulazione ma non dà niente in cambio, non rispetta le promesse fatte, stimola e pungola i sudditi ma poi delude le loro aspettative, proprio come fa il dispettoso Cupido Anacreontico. Il rituale della sottomissione al sole è pubblico, comune a tutti. Quello del parlante viene elaborato internamente, attraverso la pratica solitaria e individuale della scrittura: “Mine hid as worthles rite”. I puns worth/Wroth e rite/write traducono una professione di modestia da parte dell’autrice che si ritiene indegna di scrivere ma, al tempo stesso, lascia intendere di essere determinata ad elaborare i suoi tormenti interiori attraverso il linguaggio simbolico. La norma patriarcale le impone di screditare i suoi versi ma il rivestimento retorico si rivela esile come carta velina e ogni professione di umiltà si trasforma in un’affermazione dei propri diritti. Il diritto di fissare i pensieri sulla pagina bianca, il diritto di pubblicare i propri versi, diffonderli e condividerli con gli altri in modo da arricchire le potenzialità espressive del codice linguistico con i discorsi alternativi di una soggettività altra. Il sonetto offre un riassunto dei temi più cari a Mary Wroth. In primo luogo, è qui ribadita l’opposizione alla politica di re Mary Wroth 101 Giacomo, reo di sfruttare i sudditi come Cupido “usa” Pamphilia. In secondo luogo, ad essere esplorato è il paradigma oppositivo fairness/blackness su cui si avvita l’intero canzoniere. Postulata nella prima quartina, l’equazione io poetico=indiani è puntualmente negata nel settimo verso, nel punto in cui Pamphilia ribadisce di essere “pallida” e “bianca”, e quindi afferma la sua superiorità nei confronti dell’altro razziale. Mary Wroth è bianca, appartiene ad una famiglia nobile e prestigiosa come i Sidney ed è stata un’importante cortigiana, dunque ha il diritto di apparire in pubblico, di ritagliarsi uno spazio scenico sul quale presentarsi come soggetto attivo e produttivo. In terzo luogo l’autrice ripropone il motivo della “privatezza” etico-religiosa. Il protestante deve sopportare da solo il peso dei suoi peccati, il rito deve rimanere nascosto (“hid”), il rapporto con la trascendenza diretto e personale, fuori dalla teatralità ecclesiastica della fede cristiana, fatta di cerimoniali e rituali pubblici. L’esperienza religiosa più autentica si riduce a un soliloquio coscienziale dialogizzato nell’io-Tu, credente-divinità. Il motivo della “privatezza”, nel quale Jeff Masten individua il filo rosso della raccolta Pamphilia to Amphilanthus, non può che intrattenere un rapporto ossimorico con la decisione di consegnare il canzoniere nella mani degli editori Marriott e Grismond insieme al manoscritto dell’Urania. Riemerge, ancora una volta, la dialettica tra interiorità ed esteriorità, tipica di una coscienza mista di egocentrismo e pavidità, in bilico tra il desiderio di imporsi socialmente e quello di rifugiarsi nel mondo iperuranico degli ideali. Mary Wroth cerca di dar forma a tutto ciò che è esteriore, ma al tempo stesso desidera esternare tutto ciò che è interiore, palesare i suoi impulsi e inscrivere la sua esistenza nella storicità del mondo. Attraverso il linguaggio e la scrittura l’io si autoespone, si confronta con l’alterità per collaudare la propria efficienza sociale. Dopo essersi ritirata dalla sfera sociale al fine di ritrovare la sua identità, Mary Wroth vi fa ritorno per lasciarsi avvolgere dall’abbraccio del molteplice e imprimervi l’impronta della propria personalità. Dopo aver ascoltato in solitudine i discorsi dell’anima e congelato le idee più trasgressive nei ghiacciai della convenzione petrarchesca è 102 Capitolo I pronta ad aprire il suo vissuto emotivo allo sguardo degli altri. Per vivere in una società occorre inibire certe pulsioni sessuali e aggressive, sublimandole in mete e oggetti diversi da quelli originari, la costanza, l’abnegazione di sé, la rinuncia. Ma contro l’atteggiamento prevalentemente passivo e rinunciatario dei sonetti si ergono sia la decisione di scrivere, sia la scelta di pubblicare e diffondere i propri testi, tappe di un percorso che conduce dall’interiorità all’esteriorità. Il fine ultimo della coraggiosa e singolare impresa artistica di Mary Wroth non è quello di tramandare un’immagine di sé come madonna pura, costante e passiva, ma di arare e dissodare il terreno arido della norma patriarcale per concimarlo con idee nuove e prepararlo ad una nuova fioritura culturale. L’interiorità è solo la piattaforma da cui lanciarsi nella sfera pubblica, il camerino dove smettere i panni della spettatrice passiva della fruizione culturale e vestire quelli dell’eroina dell’azione. Capitolo II Elizabeth Cary 2.1 Essere e sembrare. Elizabeth Cary è la prima donna inglese a scrivere e pubblicare un dramma originale. The Tragedy of Mariam, the Fair Queen of Jewry, scritto tra il 1602 e il 1605, viene stampato a Londra nel 1613. Diversamente da quanto accade per le altre scrittrici del tempo, inclusa Mary Wroth, informazioni sulla vita e sulla personalità di Elizabeth Cary sono facilmente reperibili nella biografia scritta da una delle sue quattro figlie tra il 1643 e il 1650, edita e pubblicata da Richard Simpson nel 1861 con il titolo The Lady Falkland: Her Life. Si tratta di una biografia romanzata, un’agiografia scritta da una suora benedettina determinata a presentare la madre come una martire cattolica più che come una coraggiosa autrice di opere originali. Per dirla con Margaret W. Ferguson la biografia sarebbe “a rhetorically complex instance of didactic religious discourse (the ‘exemplary Catholic life’)”1, ovvero un’agiografia tesa a rappresentare la “Passione” di una martire che ha tradito il marito per la seguire la sua profonda vocazione religiosa. Il testo, sostiene l’editore Richard Simpson, potrebbe essere stato emendato da Patrick Cary, fratello dell’autrice, che ne avrebbe eliminato i passaggi più “trasgressivi”. In ogni caso, l’assenza di riferimenti a The Tragedy of Mariam è di per sé indice di una consapevolezza da parte della biografa di quanto severe fossero le prescrizioni relative alla pubblicazione di testi femminili. 1 Margaret W. Ferguson, “Running On with Almost Public Voice: The Case of ‘E. C.’”, in Florence Howe (ed.), Tradition and the Talents of Women, Urbana, University of Illinois Press, 1991, p. 39. 104 Capitolo II Figlia unica di Lawrence Tanfield, facoltoso avvocato dell’Oxfordshire, ed Elizabeth Symondes, appartenente al ceto della piccola nobiltà terriera, Elizabeth nasce nel 1586, un anno prima di Mary Wroth, e rivela subito un carattere avido di conoscenza. In assenza di fratelli ha il vantaggio di prendere il loro posto come ereditiera unica dei beni di famiglia, nonché quello di godere di maggiore libertà rispetto a tante altre donne costrette a subire il controllo e le imposizioni del primogenito oltre che del padre2. Ambizioso carrierista, Lord Tanfield è temuto e odiato dagli abitanti dei villaggi confinanti con le sue proprietà, regolarmente citati in giudizio per abusivismo, nonché spogliati di diritti e piccoli privilegi conquistati a prezzi elevatissimi. Nonostante ciò, il ritratto del padre che prende corpo nella biografia è quello di un genitore pronto a sostenere e appoggiare le pressanti richieste dell’unica figlia, nei confronti della quale nutre una tale stima da concederle di difendere una donna dall’accusa di stregoneria in un processo da lui presieduto nel 1596. La dodicenne Elizabeth riesce, con un’abile argomentazione e una sorprendente abilità oratoria, a far scagionare l’imputata: Being once present when she was (about) ten year old, when a poor old woman was brought before her father for a witch, and, being accused for having bewitched two or three to death, the witness not being found convincing, her father asked the woman what she said for herself? She falling down before him trembling and weeping confessed all to be true, desiring him to be good to her and she would mend. Then he asking her particularly, did you bewitch such a one to 2 Si veda quanto scrive, in proposito, Meredith Skura: “Brotherless heiresses would have been more accustomed to leadership insofar as they had fewer occasions to submit and more opportunity to identify with their fathers along with the other men who ran the world” (“The Reproduction of Mothering in Mariam, Queen of Jewry: A Defense of ‘Biographical’ Criticism”, Tulsa Studies in Women’s Literature, 16, 1, 1997, p. 37). Per le informazioni biografiche mi avvalgo dell’ampia introduzione che correda l’edizione di The Tragedy of Mariam curata da Barry Weller e Margaret W. Ferguson: The Tragedy of Mariam, the Fair Queen of Jewry with The Lady Falkland: Her Life by One of Her Daughters, Berkeley, University of California Press, 1994. Tutte le citazioni da The Tragedy of Mariam sono tratte da questa edizione. Elizabeth Cary 105 death? she answered yes. He asked her how she did it? One of her accusers, preventing her, said, “Did you not send your familiar in the shape of a black dog, a hare or a (toad) cat, and he finding him asleep, licked his hand, or breathed on him, or stepped over him, and he presently came home sick and languished away?” She, quaking, begging pardon, acknowledged all, and the same of each particular accusation, with a several manner of doing it. Then the standers-by said, what would they have more than her own confession? But the child, seeing the poor woman in so terrible a fear, and in so simple a manner confess all, thought fear had made her idle, so she whispered her father and desired him to ask her whether she had bewitched to death Mr John Symondes of such a place (her uncle that was one of the standers-by). He did so, to which she said yes, just as she had done to the rest, promising to do so no more if they would have pity on her. He asked how she did it? She told one of her former stories; then (all the company laughing) he asked her what she ailed to say so? told her the man was alive, and stood there. She cried, “Alas, sir, I knew him not, I said so because you asked me.” Then he, “Are you no witch then?” says he “No, God knows,” says she, “I know no more what belongs to it than the child newborn.” “Nor did you never see the devil?” She answered , “No, God bless me, never in all my life.” Then he examined her what she meant to confess all this, if it were false? She answered they had threatened her if she would not confess, and said, if she would, she should have mercy showed her – which she said with such simplicity that (the witness brought against her being of little force, and her own confession appearing now to be of less) she was easily believed innocent, and acquitted3. L’unico torto che Lord Tanfield avrebbe commesso nei confronti della figlia, secondo la ricostruzione della Life, sarebbe stato quello di maritarla ad un uomo sconosciuto che l’avrebbe scelta “only for being an heir, for he had no acquaintance with her (she scarce ever having spoke to him) and she was nothing handsome, though then very fair” (p. 188). I rapporti con la madre non sono altrettanto buoni. Elizabeth Symondes è una donna fredda e altera, infastidita dalla industriosità puritana del marito, costretto a vivere dei proventi del suo lavoro ma abile a riscattare la sua condizione di secondogenito accumulando, con astuzia e abnegazione, un patrimonio 3 The Lady Falkland: Her Life, in B. Weller, M. W. Ferguson (eds.), op. cit., pp. 186-7. D’ora in avanti citato come Life nel testo. 106 Capitolo II che negli anni diviene sempre più cospicuo. Anche nei confronti della figlia, regolarmente invitata ad inginocchiarsi al suo cospetto, Elizabeth Symondes assume un atteggiamento ostile, al punto di negarle le candele per la notte così da sottrarre tempo prezioso alla sua passione per le lettere. Piuttosto che ribellarsi apertamente alla madre, atto rischioso che avrebbe fortemente destabilizzato i già fragili equilibri familiari, Elizabeth trova più saggio corrompere la servitù per recuperarne almeno un paio, quanto basta per trascorrere parte delle ore notturne in compagnia dei preziosi libri ricevuti in dono dal padre. È la prima sfida lanciata all’autorità, che sia quella materna, paterna, maritale o religiosa. Nell’arco di pochi anni Elizabeth impara il francese, l’italiano, lo spagnolo, il latino e l’ebraico, traduce testi dal latino (le Epistole di Seneca) e dal francese (Le Miroir du Monde di Abraham Ortelius), ravvisa contraddizioni e aporie nel testo Institutes of Religion di Calvino dopo averlo sottoposto al vaglio della sua mente analitica4. Nel 1602, ligia alle disposizioni familiari, Elizabeth sposa Henry Cary. L’alleanza è vantaggiosa per entrambe le famiglie: il capitale pazientemente accumulato da Lawrence Tanfield consente ad Henry, quanto mai bisognoso di fondi con cui liquidare i suoi creditori e mantenere la proprietà fondiaria di famiglia, di entrare di diritto nel cerchio magico della nobiltà britannica fino a ricevere il titolo di visconte di Falkland, e ricevere l’incarico di vicereggente d’Irlanda (1622). A loro volta i Tanfield salgono di un gradino la scala sociale e conquistano una posizione stabile all’interno della piccola nobiltà terriera. 4 Nella prefazione dedicatoria Calvino si rivolge a Francesco I, re di Francia, chiedendogli di riconoscere che papi, cardinali, vescovi, abati e preti si rifacevano a una dottrina empia, che avrebbe portato la rovina e la distruzione della Chiesa. Peter Partner osserva che i “fermenti riformisti mutarono le condizioni che governavano i negoziati fra i principi e gli esponenti del clero, perlopiù a spese dei prelati” (Duemila anni di Cristianesimo, Torino, Einaudi, 2001, p. 182). Nel macrocosmo sociale inglese furono i sudditi a patire le conseguenze di questa svolta verso l’assolutismo monarchico mentre nel microcosmo familiare le donne lamentarono la perdita del rapporto privilegiato col confessore, che da sempre offriva loro aiuto e conforto. Elizabeth Cary 107 Appena sposati, Henry ed Elizabeth sono costretti a separarsi. Il primo, emulo di Philip e Robert Sidney, raggiunge le truppe inglesi di stanza nei Paesi Bassi per battersi nella guerra anglo-spagnola (1585-1604). In seguito alla sua cattura, Elizabeth è costretta a stornare la somma richiesta per il riscatto dai fondi della dote matrimoniale. A questo dispendioso soccorso economico fanno seguito una serie di interventi finanziari volti a sanare i debiti accumulati da un uomo del tutto privo delle virtù borghesi di equilibrio e moderazione, incarnate dal sobrio e ostinato giudice Tanfield. In attesa del ritorno del marito, Elizabeth si rassegna a convivere con la suocera, Lady Katherine Cary, donna autoritaria e irascibile che non sopportava la vista di una donna intenta a leggere e scrivere, attività da sempre appannaggio dei soli uomini. Dietro suo ordine ad Elizabeth è negato il diritto di intrecciare una corrispondenza epistolare col marito in modo da impedirle di far sfoggio di un’erudizione che mal si accordava al suo ruolo di moglie devota, silenziosa e sottomessa. Se l’impresa di smussare certe sue scabrosità caratteriali appariva piuttosto ardua, ciò nondimeno era necessario nascondere a Sir Henry il temperamento indipendente della moglie. Sulla linea di collegamento che va da una condizione femminile all’altra, Elizabeth scava una frattura in cui precipitano gli insegnamenti e le prescrizioni materne. Laddove Anne Clifford e Mary Wroth potevano contare sull’appoggio rispettivamente della madre e della zia (Mary Sidney, contessa di Pembroke), Elizabeth Cary affronta in solitudine il percorso di emancipazione che si staglia sullo sfondo delle sue ambizioni letterarie5 e del suo embrionale entusiasmo per i valori del cattolicesimo. 5 Qui va detto che Kurt Weber, biografo del primogenito Lucius Cary, colloca in questo periodo i primi contatti con la contessa di Pembroke, sotto la cui ala protettrice Elizabeth avrebbe compiuto i primi passi della sua carriera di scrittrice. In ogni caso, le sue incursioni nel salotto letterario più prestigioso del tempo devono essere state assai rare dato che, al contrario di Mary Wroth, Elizabeth spendeva gran parte del suo tempo nell’educazione dei suoi undici figli: “When she had some children, she and her husband went to keep house by themselves, where she taking the care of her family, which at first was but 108 Capitolo II Alla luce di questi fatti, stupisce che al suo ritorno in patria Sir Henry abbia trovato una donna tanto incline a recitare il ruolo della moglie operosa e ubbidiente. Fatte proprie le celeberrime “istruzioni” di Vives, Elizabeth fa di tutto per assecondare i desideri del marito: indossa gli abiti più eleganti, anche se, come scrive la figlia “[d]ressing was all her life a torture to her” (Life, p. 194), si rassegna ad imparare a cavalcare, si fa carico dei suoi doveri di moglie e di madre rubando tempo prezioso ai suoi studi e alle sessioni di scrittura creativa, fa perfino incidere il motto “be and seem” sull’anello nuziale della figlia come a ribadire l’importanza di soffocare l’essere nell’apparire. Nel momento in cui Sir Henry si accingeva a trasferirsi a Dublino per assumere l’incarico di vicereggente d’Irlanda, Elizabeth arriva perfino a ipotecare l’usufrutto di vedovanza ricevuto dal padre al fine di finanziare i progetti ambiziosi del marito. Roso dal pensiero che la figlia stesse pericolosamente assottigliando un patrimonio accumulato col duro lavoro di una vita, Lawrence Tanfield non esita a diseredare Elizabeth a tutto vantaggio del nipote, Lucius Cary. Come tante altre donne del tempo, Elizabeth si trova a percorrere il suo itinerario esistenziale sul confine che separa le esigenze della famiglia di origine da quelle della famiglia d’arrivo, costretta, suo malgrado, ad imporre un arbitrato volto ad evitare “invasioni” e ingerenze negli affari reciproci. Entrato nelle grazie del duca di Buckingham, il favorito di Giacomo I, Sir Henry è abile ad inserirsi nel gruppo di cortigiani avidi, inetti e corrotti che circuiscono i primi re Stuart: “Such men observed the external forms of the old chivalric supporters of the throne, but their motives smacked of the increasingly capitalistic atmosphere of the time, and service at court was for them as much a profit-making enterprise as a duty imposed by little, did seem to show herself capable of what she would apply herself to. She was very careful and diligent in the disposition of the affairs of her house of all sorts; and she herself would work hard, together with her women and her maids, curious pieces of work, teaching them and directing all herself; nor was her care of her children less, to whom she was so much a mother that she nursed them all herself, but only her eldest son [...]” (Life, p. 192). Elizabeth Cary 109 family or tradition”6. Entra a far parte, insomma, di quella “loathsome company” dalla quale la puritana Mary Wroth fugge inorridita, preferendo l’isolamento alla convivialità licenziosa di una nuova stirpe di cortigiani corrotti e dissoluti. Nel frattempo Elizabeth si dedica all’educazione dei nove figli che raggiungono l’età adulta. In un perverso ed estenuante gioco di sottrazione e dedizione riesce ad alternare l’adempimento dei suoi doveri domestici alla lettura di testi sacri e profani, la partecipazione ai rituali della chiesa riformata alla ricerca di un nuovo percorso spirituale. Al vaglio della sua sensibilità religiosa, il trauma subito in occasione della morte della figlia maggiore Catherine si trasforma nella terribile punizione che Dio le aveva riservato per aver partecipato ai rituali dell’eresia protestante. Il duro processo di espiazione della colpa, accompagnato alla rilettura dei punti nodali della storia della Chiesa e da un rinnovato interesse per la produzione agiografica (Passioni e Vite di Santi), accorcia i tempi della conversione alla fede cattolica7. L’impossibilità di identificarsi con due figure materne ostili e asfissianti, la difficoltà a relazionarsi con un marito autoritario e intollerante (“He was very absolute, and though she had a strong will, she had learnt to make it obey his”; Life, p. 194), rafforzano il suo desiderio di affrancarsi, ideologicamente e materialmente, dalla famiglia. In fin dei conti, ribellarsi alla religione di stato non era che il modo più “spettacolare” di affermare la propria indipendenza nei confronti delle autorità domestiche e politiche del tempo. All’indomani della conversione al cattolicesimo, Elizabeth si preoccupa di offrire ad un selezionato pubblico di lettori una nuova immagine di sé come martire, vittima sacrificale di 6 M. W. Ferguson, “Running On with Almost Public Voice: The Case of ‘E. C.’”, cit., p. 41. 7 Sofia Boesch Gajano spiega che alle “critiche della Riforma la cultura cattolica non rispose solo riaffermando il significato teologico della santità e del culto dei santi: essa passò per così dire al contrattacco, impegnandosi a dare sicuro fondamento storico all’identità di ciascun santo, vagliando la veridicità delle testimonianze a lui relative, l’antichità del culto, l’autenticità delle reliquie” (La santità, Bari, Laterza, 1999, p. 35). 110 Capitolo II una società incapace di riconoscere il profondo valore etico della sua scelta di campo. La decisione di scrivere poemi sulle vite di Santa Elisabetta di Portogallo, Santa Agnese e Santa Maria Maddalena è attribuibile proprio al desiderio di assimilare modelli archetipici di donne pronte a sacrificare la vita pur di non tradire i propri valori etici e spirituali. Per individuare raccordi e scambi tra il percorso esistenziale di Elizabeth Cary e quelli delle sante studiate è necessario compiere un breve detour storicoagiografico. Secondo la convinzione prevalente di studiosi ed esegeti delle Sacre Scritture, l’anonima “peccatrice” del Vangelo di Luca (7, 36-50) alla quale vengono “perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato”, non deve essere identificata né con Maria di Magdala, la prima donna nominata nel seguito di Gesù, né con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta. L’errata interpretazione dei testi ha fatto sì che le tre donne fossero accomunate nella liturgia. Così Maria Maddalena o di Magdala, che seguì e assistette Gesù fino alla crocifissione, si è gradualmente trasformata nella peccatrice redenta e come tale è ricordata per secoli nel culto, nella letteratura, nell’arte. Agli occhi di Elizabeth Cary, sicuramente consapevole dell’errore esegetico che aveva ibridato l’identità della santa, Maria di Magdala si trasforma in un’icona dell’assertività femminile, una contro-eroina in un mondo di oppressione maschile. La prima testimone della resurrezione di Cristo era una donna forte ed autoritaria che sapeva guidare gli apostoli facendosi mediatrice del Logos incarnato e osava diffondere il verbo in un contesto culturale ostile alla predicazione e al sacerdozio femminile. Per questo la Chiesa latina decise di sovrapporre alla sua figura carismatica l’immagine della peccatrice summenzionata. Il mito della Maddalena andava decostruito in fretta onde scoraggiare pericolosi atti emulativi8. 8 Sulla figura di Maria di Magdala si veda Carla Ricci, Maria di Magdala e le molte altre. Donne sul cammino di Gesù, Napoli, D’Auria, 2002. Su Sant’Agnese e Santa Elisabetta di Portogallo si vedano Il grande libro dei santi. Dizionario Enciclopedico, a cura di C. Leonardi, A. Riccardi, G. Zarri, Elizabeth Cary 111 Fra le innumerevoli vergini che hanno sacrificato la vita per la fede di Gesù Cristo spicca la figura di Sant’Agnese, nata a Roma verso la fine del III secolo. Ancora giovinetta, Agnese consacra al Signore la sua verginità e mantiene il suo voto anche in piena persecuzione, quando molti fedeli e il clero stesso s’abbandonavano in massa alla defezione. È il figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto con fermezza, a denunciarla come cristiana. L’iconografia del suo doppio martirio (di castità e di fede) è particolarmente suggestiva: Agnese subisce prima l’esposizione “a infame ludibrio” in un luogo malfamato presso il Circo Agonale, poi la prova del fuoco; uscita illesa da entrambe le prove, è condannata alla pena capitale per decollazione. Insomma: Agnese era riuscita là dove Elizabeth sente di aver fallito, ovvero nella scelta di non appartenere a nessun uomo per seguire la propria vocazione in piena libertà e autonomia, senza condizionamento alcuno. Qualche cenno, infine, sulla figura di Santa Elisabetta di Portogallo. Pietro III di Aragona, suo padre, la dà in moglie a Dionigi re del Portogallo, buon sovrano ma pessimo marito, “distratto” da numerose relazioni extraconiugali e padre di numerosi figli illegittimi. Nonostante questo, Elisabetta rimane fedele a Dionigi, dedicandosi con entusiasmo sia all’educazione dei figli Alfonso e Costanza, sia all’assistenza e alla cura dei sofferenti. In seguito alla morte del sovrano (1325), piuttosto che recitare il prestigioso ruolo di regina madre nel regno di Alfonso IV, Elisabetta si fa pellegrina e penitente. Maria Maddalena, Agnese ed Elisabetta di Portogallo sono donne che lottano per rivendicare il diritto di controllare il proprio destino, il diritto di seguire la propria vocazione in totale autonomia, il diritto di diffondere le proprie idee senza incorrere nella censura dell’autorità patriarcale, il diritto di emanciparsi dalle attività mondane per dedicarsi alla cura di sé o per donarsi 3 Voll., Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998; Bibliotheca Sanctorum, 14 Voll., Roma, Città Nuova Editrice, 1961-1970 e D. H. Farmer, Dizionario Oxford dei santi, Padova, Muzzio, 1989. 112 Capitolo II agli altri, ai sofferenti e agli emarginati9. Sono donne che assumono una dimensione politica e istituzionale sfuggendo al controllo messo in atto dagli ordini maschili e dalla gerarchia ecclesiastica, soprattutto attraverso i confessori, preoccupati di tutte le forme attraverso le quali le donne, escluse dal sacerdozio, tendevano all’unione diretta con Dio e acquistavano di fatto un ruolo nella vita della Chiesa e nella società. Si passa da atteggiamenti di diffidenza [...] a una costante tutela [...] fino alla sistematica discriminazione nei confronti di manifestazioni di presunta origine divina o diabolica, che porteranno in età moderna all’individuazione di una nuova forma di ‘devianza’ religiosa, la simulazione di santità10. Minore interesse Elizabeth mostra nei confronti degli affari del marito, tanto che la sua missione a Londra (1625), dove avrebbe dovuto convincere i consiglieri del re a inviare ulteriori sovvenzioni a Dublino, fallisce miseramente. Al posto dei soldi che aspettava con bramosia, Sir Henry riceve la notizia infausta della pubblica conversione al cattolicesimo della moglie, stufa di dover praticare il suo credo religioso in condizioni di semiclandestinità. Sentendosi screditato e delegittimato a ricoprire la carica di vicereggente – sarà parso improbabile che un uomo incapace di piegare le simpatie cattoliche della propria moglie potesse imporre agli irlandesi la conformità all’autorità ecclesiastica anglicana – Sir Henry non tarda a prendere le distanze da una donna affetta, come confida ai membri del Privy Council, da cronica irrequietezza. 9 A proposito dell’impegno di Elizabeth Cary a favore degli orfanelli irlandesi si veda quanto scrive la figlia nella Life: “Here chiefly the desire of the benefit and commodity of that nation set her upon a great design. It was to bring up the use of all trades in that country, which is fain to be beholding to others for the smallest commodities. To this end she procured some of each kind to come from those other places where those trades are exercised [...] at the very beginning; and for this purpose she took of beggar children (with which that country swarms) more than 8 score prentices, refusing none above seven year old, and taking some less [...]”, (p. 197). Si veda, inoltre, M. Skura, op. cit., p. 44. 10 S. B. Gajano, op. cit., p. 75. Elizabeth Cary 113 Espulsa dalla casa di famiglia, privata della compagnia e dell’affetto dei figli e perso ogni privilegio legato al suo rango, Elizabeth Cary, ormai quarantenne, si trasferisce, con l’unica domestica rimasta al suo servizio, in un piccolo cottage di Londra dopo aver scartato con fermezza l’ipotesi di tornare nella confortevole villa di campagna della madre. Piuttosto che subire passivamente un destino di povertà e isolamento, Elizabeth fa istanza alla Corte (rivolgendosi in particolare alla regina cattolica Enrichetta Maria) per ottenere aiuti finanziari dal marito e nel contempo scende nell’arena del dibattito teologico traducendo alcuni testi chiave della propaganda cattolica. Alcune copie della sua traduzione della Réplique à la response du Sérénissime Roy de la Grand Bretagne del cardinale Jaques Davy du Perron11 (stampata a Douay nel 1620) vengono pubblicamente bruciate per ordine dell’arcivescovo Abbot. Nell’introduzione al suo lavoro, astutamente dedicato alla sposa cattolica del primogenito di Giacomo, Elizabeth scrive: “I will not make use of that worne-out form of saying I printed it against my will, mooved by the importunitie of Friends; I was mooved to it by my beleefe that it might make those English that understand not French, whereof there are many even in our universities, reade Perron”12. L’affermazione denota grande coraggio anche se nella sua condizione di emarginata e diseredata Cary non aveva più molto da perdere. Nell’“Epistola al lettore” l’autrice corregge leggermente il tiro e precisa che la sua ennesima incursione nel mondo dell’editoria non è certo motivata dal desiderio di inserirsi nei discorsi della cultura maschile ma è il frutto di una vocazione religiosa giunta ormai a completa maturazione. Avuta la notizia della morte improvvisa del marito (1633), Elizabeth fa irruzione nella villa di famiglia quando il corpo del defunto è ancora caldo e si riprende le figlie rimaste in custodia 11 In questo opuscolo il prelato francese difende con forza i suoi scritti teologici dagli attacchi lanciati da Giacomo I. 12 Citato in B. Weller, M. W. Ferguson (eds.), op. cit., p. 11, e Nancy Cotton Pearse, “Elizabeth Cary, Renaissance Playwright”, Texas Studies in Language and Literature, 18, 4 (Winter 1977), p. 606. 114 Capitolo II dal padre. Per riavere i due maschi di 11 e 12 anni, affidati alla potestà del figlio maggiore Lucius, arriverà a farli rapire da un paio di malviventi per poi mandarli, a dispetto delle disposizioni governative, in Francia, dove avrebbero risposto alla chiamata del Signore abbracciando l’ordine dei benedettini. Di fronte al Consiglio della Corona, Elizabeth respinge l’accusa di aver rapito i figli con una contro-argomentazione scarna ma efficace: se è vero che i figli appartengono ai genitori ed è altresì vero che Sir Henry Cary è passato a miglior vita, come può una vedova essere ritenuta colpevole di aver rubato ciò che è suo di diritto? Suzanne Gosset offre un penetrante commento di questo episodio: Whatever their legal status, Cary’s actions fulfilled what I suspect remains one of the deepest fears of men, loss of children to maternal control. Whether seen psychoanalytically as the terrifying trace of a preoedipal union threatening renewed absorption, or in Lacanian terms as the persistence of the culture-lacking, pre-phallic imaginary stage, or anthropologically as challenging the kinship systems of patriarchy that demand male control of lineage [...] maternal power over children raises the specter of female resistance to the social, psychological, and ideological imperatives of an encultured gender system13. Sulla scacchiera sociale del tempo la pubblicazione di testi originali di argomento profano, la conversione al cattolicesimo e il rapimento dei figli rappresentano le mosse disperate escogitate da chi intende proteggere ad ogni costo il proprio spazio di espressione dall’aggressione di padri e mariti. Grazie alla sua personalità camaleontica, Elizabeth Cary sfugge alle gabbie ideologiche predisposte dall’autorità patriarcale interpretando, all’occorrenza, i ruoli più diversi e antitetici: la moglie silenziosa e ubbidiente sa essere una madre severa e autoritaria, la prudente autrice di closet dramas14 non rinuncia a scendere 13 Suzanne Gosset, “Resistant Mothers and Hidden Children”, in S. King (ed.), op. cit., pp. 192-3. 14 Secondo la legge consuetudinaria i figli appartengono al padre che ha un ruolo attivo nella procreazione. Elizabeth Cary 115 nell’arena del dibattito teologico per difendere le sue idee “blasfeme” e sovversive. 2.2 Una efficace metafora politica. The Tragedy of Mariam appare nel 1613. Nella relativa voce del Register of the Stationers’ Company sono riportate solo le iniziali del nome dell’autore, “E. C.”, mentre il sonetto dedicatorio, indirizzato alla cognata Elizabeth Bland Cary compare solo in due copie del libro15. Non è possibile stabilire se il manoscritto sia stato stampato dietro autorizzazione dell’autrice, in ogni caso non sarà mai rappresentato. Nancy Cotton Pearse16 attribuisce alla mecenate Mary Sidney Herbert il merito di aver saputo incoraggiare una folta schiera di letterati, tra cui John Davies di Hereford – regolare avventore del circolo di Pembroke nonché writing master della giovane Elizabeth Tanfield –, a pubblicare tragedie di stile senechiano. Nella lettera dedicatoria che precede Muse’s Sacrifice, or Divine Meditation (1612), Davies distribuisce lodi sia alla contessa di Pembroke sia ad Elizabeth Cary. Un anno dopo, nel 1613, appare The Tragedy of Mariam, testo che presenta una perfetta saldatura fra temi e strutture tipiche del closet drama e della tragedia storica di stile senechiano, generi che il drammaturgo francese Robert Garnier (1545-1590)17 aveva am15 Valerie Lucas, “Alone of all her Sex: Elizabeth Cary, the Viscountess of Falkland”, in Christopher Cairns (ed.), The Renaissance Theatre: Texts, Performance, Design, I: English and Italian Theatre, Aldershot, Ashgate, 1999, p. 70. 16 N. C. Pearse, op. cit., pp. 606-7 17 Cfr. Madeleine Lazard, Le Théâtre en France au XVI Siècle, Paris, PUF, 1980, pp. 109-10. Sulla fortuna di Robert Garnier la studiosa scrive: “Aucun n’a été plus souvent joué au XVI siècle, aucun avant Corneille n’a eu un tel succès de libraire, aucun n’a vu ses pièces aussi fréquemment réimprimées. Quatre éditions collectives se succèdent avant sa mort, de 1580 à 1585. De 1592 à 1620, il en paraît une trentaine, à Lyon, à Rouen, à Saumur, à Paris, à Anvers, qui ont du avoir quelques milliers de lecteurs [...] Son oeuvre, largement imitée en France, en Angleterre, en Allemagne et aux Pays-Bas, devait exercer une influence durable sur le théâtre et aussi sur la poésie lyrique et sur l’éloquence” (p. 105). 116 Capitolo II piamente coltivato e diffuso in Inghilterra anche grazie al contributo della contessa di Pembroke che traduce Marc Antoine nel 1590. Tra la settima e l’ottava guerra di religione, in un clima politico-culturale particolarmente instabile Garnier, fervente cattolico, scrive la sua più famosa tragedia storica, Les Juifves (1583). L’argomento è preso dai capitoli 24 e 25 del Libro dei Re, da alcune sezioni del Libro delle Cronache e del Libro di Geremia oltre che da alcuni capitoli del decimo libro delle Antichità giudaiche dello storiografo ebreo Giuseppe Flavio. Dietro la rielaborazione drammatica della storia biblica della presa di Gerusalemme da parte dell’esercito babilonese di Nabucodonosor (in seguito al tradimento di Sedecia) c’è l’urgenza di sviluppare temi e argomentazioni funzionali ad una analisi critica di fatti e questioni della contemporaneità: Cet enseignement religieux, Garnier a soin d’en faire continuellement l’application à l’actualité. Le peuple juif a renoncé au vrai Dieu pour adorer Baal, où les Réformés voyaient la préfiguration de l’Eglise romaine, et le catholique Garnier celle de l’hérésie, comme l’indique sa dédicace: les guerres fratricides des Français viennent de ce qu’ils ont ‘abandonné leur Dieu’. Mais le repentir, le retour à la vraie foi, peut ramener la paix après l’épreuve. Tel est l’espoir que doivent faire naître pour l’avenir de la France et pour l’humanité entière la punition et le malheur d’Israël18. In Inghilterra, il filone della tragedia storica di stampo senechiano include opere come Iphigenia at Aulis (1549), versione inglese di un dramma di Euripide a firma della cattolica Jane Lumley19, The Tragedy of Cleopatra (1594) e Philotas (1604) di Samuel Daniel, Mustapha (1596) e Alaham (1601) di Fulke Greville e, soprattutto, Antonius (scritto nel 1590 e pubblicato nel 1592) di Mary Sidney. Sul modello di drammi come La vita di Cleopatra di Giulio Landi (Venezia, 1551), Cleopatra Tra18 Ibid., p. 129. Così Weller e Ferguson nell’introduzione a The Tragedy of Mariam (cit., p. 27): “Like Cary’s Mariam, Lumley’s Iphigenia partly succeeds in rhetorically transforming herself from a political victim to a Christlike martyr”. 19 Elizabeth Cary 117 gedia di Geraldi Cinthio (1542), Cleopatra di Cesare de Caesari (1552), Marc’Antonio e Cleopatra di Celso Pistorelli (1576) e Cléopâtre Captive (1552) di Étienne Jodelle20, sia Antonius di Mary Sidney che Marc Antoine (1578) di Garnier presentano una struttura drammatica estremamente semplice e lineare; risultano poveri di azione in senso proprio. La storia di Antonio e Cleopatra, mutuata dalla Vita di Antonio di Plutarco attraverso la traduzione di Sir Thomas North (Plutarch’s Lives of the Noble Grecians and Romanes, 1579, testo a cui attinge anche Shakespeare per i suoi drammi storici), non subisce forti trasformazioni attanziali o transcodificazioni sceniche. L’indagine psicologica, condotta in modo fortemente stilizzato e con riferimento alle passioni universali (amore, ambizione ecc.), prevale sullo svolgimento esteriore: molti eventi e sviluppi tragici sono evocati da lunghi soliloqui e monologhi privi di impatto drammatico, laddove i dialoghi tra protagonisti e personaggi secondari nutrono un articolato dibattito su questioni etiche e morali: “The humanists who followed a Senecan model deliberately downplayed narrative to emphasize rhetoric and didacticism, a combination that proved enormously popular in the sixteenth century”21. Laurie J. Shannon riassume così gli attributi formali del closet drama: “Lyrical and expository narration largely replace energetic stage action, and the roles of the nuntius and chorus can expand to fill in plot development. Rather than emphasizing dramatic interaction or even dialogue, closet 20 Sulla tipologia di queste opere si veda l’introduzione ad Antonius in The Collected Works of Mary Sidney Herbert. Countess of Pembroke, cit., p. 139: “These works, and later tragedies on the theme by Samuel Daniel and Samuel Brandon, follow the model of Seneca’s historical tragedy Octavia. Written in five acts separated by choruses, they dramatize the final section of Plutarch’s Life of Antony. Most of these tragedies, including Garnier’s, introduce a philosopher, include debate on moral issues, avoid dramatic action or interaction between the major characters, and are comprised of ‘rhetorical set pieces’. None the less, they allow more scope for the exploration of human dignity than does Seneca. Their protagonists tend to be held responsible for their actions, rather than simply blaming fate, and they usually repent for the harm they have caused others”. 21 Ibid., p. 141. 118 Capitolo II drama makes use of long monologues and sparsely populated scenes to elaborate intellectual or philosophical issues”22. Personaggio composito e collettivo, il coro è da considerarsi come la personificazione dei pensieri morali che l’azione ispira, la sua funzione è quella di ribadire il sapere comune e il punto di vista legittimo rispetto agli avvenimenti rappresentati. Sia in Antonius sia in Mariam le autrici non sono interessate a rappresentare profondità scenica, non allestiscono spazi adeguati al gesto e all’azione. I pochi deittici che troviamo nei testi non sono sufficienti a realizzare una rappresentazione dinamica degli eventi narrati. L’interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramezzata di discorsi solenni e frasi altisonanti; lo scopo, in linea col modello senechiano e la lezione di Philip Sidney, è didattico. All’assenza degli accadimenti fenomenici si surroga con l’intensità di una proliferazione verbale che riduce le fratture diegetiche causate dalle prolungate latitanze dei protagonisti. In Antonius, come in The Tragedy of Mariam, le emozioni più estreme si sprigionano in assenza dei personaggi principali: In the first half of the play, the absence of Herod is more powerful, even terrifying, than his presence, and in the last act, the absence of Mariam is more poignant, more devastating, to the audience than her presence. In the first half, all the action revolves around Herod’s absence; in the second half, it all revolves around Mariam’s. In Antonie, the authority and dramatic power of absence is conventional to the plot [...] in Antonius’ last scene, he plays to the absent Cleopatra, and in Cleopatra’s, she plays to the dead Antonius. In terms of theatricality, and performative notions of identity, it is deeply ironic that the most powerful drama of these plays is evoked by the invisible, motionless, even dead or presumed dead, absent central characters23. 22 Laurie J. Shannon, “The Tragedie of Mariam: Cary’s Critique of the Terms of Founding Social Discourses”, English Literary Renaissance, 24, 1 (1994), p. 144. 23 Kathy Acheson, “‘Outrage your face’: Anti-Theatricality and Gender in Early Modern Closet Drama by Women”, Early Modern Literary Studies, 6, 3 (January 2001). Secondo la Acheson nei drammi di Mary Sidney ed Elizabeth Cary la mancanza di azione “can be seen as a form of critique of Aristotelian Elizabeth Cary 119 Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi femminili, va detto che rispetto ad una tradizione letteraria orientata a presentare Cleopatra come la dominatrice assoluta di Antonio, la donna ambiziosa, lussuriosa e peccaminosa che non esita a sfruttare il proprio fascino sessuale per realizzare i suoi scopi politici, l’eroina di Mary Sidney e Robert Garnier è una figura parzialmente idealizzata. Se agli occhi di Antonio appare sempre come una scaltra seduttrice, in talune scene è presentata come una “moglie dal cuore gentile” (“wife kindhearted”, Antonius, II, v. 556)24 e una madre premurosa che non ha niente in comune con la “lasciva giumenta d’Egitto”25 (“Yon ribaudred nag of Egypt”; Antony and Cleopatra, III, x, v. 10) descritta da Shakespeare. Antonio è il suo “caro marito” (“deare husband”, Antonius, V, v. 1802) e il padre dei suoi bambini piuttosto che il “buffone d’una cortigiana” (“a strumpet’s fool”, Antony and Cleopatra, I, i, v. 13). Questa caratterizzazione ibrida del personaggio contribuisce ad offuscare l’immagine della seduttrice e a presentare una nuova figura di sposa legittima determinata a incarnare i valori positivi dell’affettività e della cura domestica. Ciò che accomuna i drammi di Shakespeare e Mary Sidney è la messa in rilievo della diversità di aspetto e di comportamento della regina, dotata di un eloquio suadente e di una abilità persuasiva cui fa ricorso per tenere Antonio legato a sé. La sua voce esotica e ammaliante, i suoi slanci passionali “intorpidiscono” la mente del triumviro e intaccano la virilità dell’uomo, seand humanist conceptions of virtue as active, rather than passive, a conception possibly prejudicial to women, whose activity was circumscribed”. 24 Mary Sidney Herbert, Antonius, in The Collected Works of Mary Sidney Herbert, cit., pp. 139-207. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa edizione. 25 William Shakespeare, Antonio e Cleopatra, a cura di Gabriele Baldini, Milano, Bur, 2002. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa traduzione. I riferimenti al testo originale sono tratti dalla “Arden Shakespeare”, a cura di M. R. Ridley, London, Methuen, 1974. Per un approfondimento di temi e motivi di Antonio e Cleopatra e degli altri drammi romani si veda I drammi romani, a cura di Alessandro Serpieri, Keir Elam e Claudia Corti, Parma, Pratiche, 1993. 120 Capitolo II dotto dalla mollezza lasciva di un ambiente femminile. Di qui l’augurio che la stessa Roma “si sciolga nel Tevere”, frase che implicitamente rende conto dell’ossessione elisabettiana e romana di una femminilizzazione della propria cultura26. Tuttavia, in alcuni momenti cruciali del dramma, Robert Garnier e Mary Sidney appiattiscono il corpo di Cleopatra, lo privano della terza dimensione, della profondità in cui si nascondono gli immondi e corruttori fluidi del corpo femminile così da porre enfasi sulla purezza “bidimensionale” di una donna che diventa immagine, figura testuale, un significante quanto mai scisso dal significato che lo ha fondato. Proprio come Pamphilia, protagonista del canzoniere di Mary Wroth, Cleopatra desidera aderire al prototipo ideale dell’amante fedele, modesta e costante, vorrebbe frenare la sua esuberanza verbale27 e sessuale, ma l’istinto amoroso finisce col prevalere su quello materno: Charmion: Live for your sonnes. Cleopatra: Nay for their father die. Charmion: Hardhearted mother! Cleopatra: Wife, kindhearted I. Charmion: Then will you them deprive of royall right? Cleopatra: Do I deprive them? No, it’s dest’nies might. (Antonius, II, 562-5) La complicità tra autore e personaggio finzionale si indebolisce nel momento in cui viene evidenziata l’indifferenza della regina nei confronti delle istanze del popolo. Philostratus, il retore che analizza e commenta gli eventi senza mai prendervi parte, de26 Cfr. Michele Stanco che, fra l’altro, scrive: “In sintesi, sembra di poter concludere che, all’interno della rappresentazione che la romanità elabora di sé in quanto cultura maschile, è inclusa la virtualità, da esorcizzare, che i valori maschili delle origini possano essere corrotti attraverso il contatto e l’influenza di circostanti culture femminili” (“L’Antoniade shakespeariana: Antony and Cleopatra tra miti di fondazione e miti di decadenza”, Passaggi, XII, 1-2, ottobre 1998), pp. 54-67, p. 59. 27 Con una metafora particolarmente suggestiva Shakespeare associa la lingua di Cleopatra alla “piuma d’un cigno che galleggia sui flutti nell’alta marea” (Antonio e Cleopatra, III, ii, v. 47). Elizabeth Cary 121 nuncia le sofferenze arrecate al popolo egiziano e ai soldati romani da una condotta politica scellerata e irrazionale: Strange are the evils the fates on us have brought, O but alas! how farre more strange the cause! Love, love (alas, who ever would have thought?) Hath lost this Realme inflamed with his fire. Love, playing love, which men say kindles not But in soft harts, ashes made our townes. And his sweet shafts, with whose shot none are kill’d, Which ulcer not, with deaths our lands have fill’d. [...] Yea even this night while all the Cittie stoode Opprest with terror, horror, servile feare, Deepe silence over all: the sounds were heard Of diverse songs, and divers instruments, Within the voide of aire: and howling noise, Such as madde Bacchus priests in Bacchus feasts On Nisa make: and (seem’d) the company, Our Cittie lost, went to the enemie. So we forsaken both of Gods and men, So are we in the mercy of our foes: And we hencefoorth obedient must become To lawes of them who have us overcome. (Antonius, II, vv. 281-84; vv. 313-24) Alle sollecitazioni di Philostratus il coro risponde celebrando le qualità taumaturgiche del lamento rituale, l’unica forma di contestazione politica tollerata dal potere: Lament we our mishaps, Drowne we with teares our woe: For Lamentable happes Lamented easie growe: And much lesse torment bring Then when they first did spring. (Antonius, II, vv. 326-31) Sulla scia di Robert Garnier, dapprima Mary Sidney e, successivamente, Elizabeth Cary, partecipano al dibattito sul tema dei diritti e dei doveri del sovrano e si chiedono, seppure in maniera 122 Capitolo II indiretta, fino a che punto sia giusto rispettare l’autorità di un principe dispotico e passionale28. A partire dal XVI secolo una pletora di giuristi al servizio delle monarchie nazionali, tra cui spicca la figura di Jean Bodin (1529-1596), in relazione a eventi storici ben individuabili e in risposta ad esigenze sociali, politiche e religiose ben precise, definiscono la sovranità come supremo potere sui sudditi; un potere che non ammette né controlli politici e giurisdizionali né ambiti di condivisione. Jonathan Dewald osserva che “nella prima età moderna i sovrani tendono a conferire una crescente magnificenza alla monarchia, a porre l’accento sulla sacralità delle proprie funzioni e a creare pertanto un’enorme distanza del monarca anche dai suoi sudditi appartenenti alla più alta aristocrazia”29. In Inghilterra i primi riformatori protestanti, quanto mai bisognosi dell’appoggio del potere secolare per diffondere il loro insegnamento, predicano la subordinazione assoluta al potere monarchico e negano ai signori feudali e al papa il diritto di contestare le decisioni del re. Secondo il martire protestante William Tyndale il sovrano era al di sopra della legge e doveva rendere conto solo a Dio del suo operato30. Lo stesso Lutero prescrive la cieca ubbidienza del suddito nei confronti di un potere destinato a reprimere il disordine introdotto nel mondo dal peccato. Secondo le teorie assolutistiche, l’ordine sociale promana integralmente dal sovrano che agisce in piena autonomia entro i 28 In proposito, Margaret Ferguson scrive: “Cary’s exception has analogues in numerous Protestant works that challenged the doctrine of absolutist royal sovereignty by positing for the individual (male) subject a limited right of passive disobedience to the prince or magistrate on grounds of Christian conscience” (“Running On with Almost Public Voice: The Case of ‘E. C.’”, cit., p. 54). 29 Jonathan Dewald, La nobiltà europea in età moderna, Torino, Einaudi, 2001, p. 174. 30 Si veda, in proposito, Stephen Greenblatt, op. cit., p. 88, che scrive: “Where in his later career More exalts the existing institution of the Catholic Church and identifies heresy as the alien force that must be destroyed, Tyndale for his part, exalts the monarchy as the essential, saving secular institution and defines the Catholic Church as the demonic other”. Elizabeth Cary 123 limiti costituiti dalla legge di Dio e da un codice di principi ideali. Pensando alla metafora organicistica – proposta per la prima volta nell’Instituto Traiani, un opuscolo compilato a Roma intorno al 400, e ripresa in molti altri specula principum, tra cui il Policratus (1195) di Giovanni di Salisbury – che presenta la società politica come un corpo umano di cui il re è la testa, viene da chiedersi (con Mariam ed Elizabeth Cary): cosa accade quando dalla “mente sovrana” partono onde negative che si diffondono e corrompono il corpo sociale? Secondo Erasmo da Rotterdam “il sovrano che gestisce il potere nel proprio interesse, e non nell’interesse della collettività, è un masnadiero, non un principe”. Più innanzi sempre rivolto al principe ammonisce: “Non prenda iniziative sotto lo stimolo dell’odio, dell’amore, della collera o sotto l’impulso di qualsiasi passione”31. Come le mogli più istruite e “consapevoli” hanno il diritto di ribellarsi a mariti ottusi e autoritari, così il popolo può esercitare il diritto di resistenza e opporsi al tiranno che non sappia liberarsi dal giogo delle passioni, ponendosi al servizio dell’interesse generale. Non è dunque azzardato ipotizzare che nell’assolutismo monarchico e nella de-cattolicizzazione della società Elizabeth Cary vedesse due forze in grado di disgregare la comunità e creare una nuova società atomizzata di sudditi docili e disciplinati che lottano per la propria salvezza privatamente. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo la Chiesa perde prestigio e potere, le corporazioni e tutte quelle associazioni in cui si intrecciano legami e alleanze politiche scompaiono o sono ridotte al rango di istituzioni private, circoscritte e limitate; su tutto vigila lo Stato, nella persona del monarca. Perfino l’autorità spirituale del papa è gradualmente assorbita dal sovrano mentre il capofamiglia eredita dal prete cattolico la funzione di guida spirituale del “regno” domestico. In altri termini, il binarismo oppositivo master/servant si stava fatalmente sbilanciando a tutto vantaggio del potere. Visto in questa prospettiva, The Tragedy of 31 Erasmo da Rotterdam, “Re o matti si nasce” (1515), in Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, riportato in G. Ernst, op. cit., pp. 122-3. 124 Capitolo II Mariam appare come una efficace metafora politica più che un testo vagamente protofemminista. Come Mary Wroth aveva fatto tesoro del lavoro editoriale che la contessa di Pembroke aveva compiuto sui sonetti di Sir Philip Sidney, assimilando le convenzioni e i cliché di un genere altamente stilizzato per riattivarne la funzionalità con pensieri e idee originali, così Elizabeth Cary inserisce i suoi discorsi “femminili” e le sue idee politiche in un genere particolarmente permeabile alle nuove istanze presentate da una nuova generazione di scrittrici. Nelle griglie strutturali del closet drama i contrasti matrimoniali tra il re idumeo Erode il Grande e la principessa asmonea Mariamne, registrati da Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche32, acquistano un significato altamente simbolico e rimandano sia all’oppressione dei cattolici (associati ai Maccabei) da parte dei riformatori (associati agli Edomiti) nell’Inghilterra protestante dei secoli XVI e XVII, sia allo scontro privato tra Sir Henry ed Elizabeth, quanto mai determinata a conquistare quello spazio di manovra che le era sempre stato negato. Una breve digressione sulla figura storica di Erode il Grande consente una più immediata comprensione delle ragioni che possono aver indotto l’autrice alla scelta del soggetto. Erode era un piccolo vassallo di padre idumeo e madre araba, arrivato alla corte asmonea di Gerusalemme con l’astuzia e l’intraprendenza33. Nel 41 a.C. ottenne da Marco Antonio il titolo di tetrarca. Due anni dopo, eliminati tutti i possibili pretendenti al trono della Giudea, fu proclamato re dal Senato Romano. Tuttavia, solo dopo tre anni di lotte ininterrotte e di terribili stragi poté ascendere al trono di Giudea e regnare per 33 anni, dal 37 a.C. (anno in cui conquistò, con l’ausilio delle truppe 32 Le descrizioni che Flavio Giuseppe fornisce dell’oppressione dei giudei sotto i romani (mi riferisco in particolare alle opere La Guerra giudaica, scritta tra il 75 e il 79 d.C., e Antichità giudaiche, scritta tra il 93 e il 94 d.C. e tradotta in inglese da Thomas Lodge nel 1602) offrono a Elizabeth Cary un ricco patrimonio di allegorie spendibili per illustrare la difficile condizione dei cattolici nell’Inghilterra elisabettiana. 33 Sulla figura di Erode si veda G. Firpo, Le rivolte giudaiche, Roma-Bari, Laterza, 1999. Elizabeth Cary 125 romane di Sosio, la città di Gerusalemme) al 4 a.C. L’inarrestabile ascesa al potere non attenuò l’ossessione che Erode nutriva nei confronti della dinastia asmonea, i discendenti dei leggendari Maccabei. Pur consapevole di occupare un incarico cui non aveva diritto (a causa della sua origine idumea), egli rimase sempre tenacemente attaccato alla sua corona arrivando a far perseguitare e uccidere ogni presunto rivale, fossero anche amici, parenti o gli stessi familiari34. Erode temeva complotti e vedeva minacce ovunque, ad ogni manifestazione di rancore popolare rispondeva con ulteriori rivalse e vendette tanto che la tradizione ebraica e i primi cristiani presero a rappresentarlo come un mostro assetato di sangue. In questo contesto si deve interpretare il suo turbamento circa la notizia ricevuta dai Magi della nascita del “re dei Giudei” e la conseguente “strage degli innocenti” (i bambini betlemiti dai due anni in giù) che gli attribuisce l’evangelista Matteo (2: 16-18)35. Morto Erode, le regioni Galilea e Perea furono affidate a Erode Antipa. Le relazioni adulterine di quest’ultimo tetrarca con Erodiade, moglie di suo fratello Erode Filippo, suscitarono grande scandalo tra gli ebrei e gli attirarono le critiche di Giovanni Battista, che al tempo aveva un grande seguito di popolo. Erode Antipa, temendo la forza rivoluzionaria della sua predicazione, fece imprigionare Giovanni ma non osò ucciderlo. Tuttavia, come racconta il Vangelo di Marco (6: 17-29), in occasione di un banchetto per i grandi del34 Gli Edomiti o Idumei discendevano da Esaù che per diritto avrebbe dovuto ereditare la benedizione del padre Isacco, se non avesse ceduto la primogenitura per un piatto di lenticchie. Suo fratello Giacobbe divenne così il capostipite degli Israeliti mentre Esaù divenne epitome del profano che non sa apprezzare i valori spirituali. 35 L’evento appare del tutto collimante con il suo agire precedente: nel 29 a.C. Erode aveva fatto uccidere la moglie Mariamne, nel 7 a.C. dispose la stessa sorte per i due figli avuti da lei, Alessandro e Aristobulo. Cinque giorni prima di morire fece giustiziare anche un altro suo figlio, Antipatro, avuto da Doris, una delle sue mogli. Infine Giuseppe Flavio nelle Guerre giudaiche (I – 33, 6) riferisce che il re, sentendosi prossimo alla morte, ordinò alla sorella Salomè di convocare a Gerico tutti i grandi del regno conferendole il mandato di farli uccidere tutti appena lui fosse spirato. Salomè, come noto, non eseguì l’ordine. 126 Capitolo II la sua corte Erode fu tanto colpito dall’esibizione della figlia di primo letto di Erodiade da concederle un desiderio che promise di esaudire. Dopo aver chiesto consiglio alla madre, Salomè chiese a Erode la testa di Giovanni Battista. Il re ne fu rattristato ma non volle tirarsi indietro così diede ordine di decapitare il predicatore e consegnare la testa alla giovane danzatrice. L’episodio è particolarmente interessante in quanto presenta un altro personaggio femminile che influenza la caratterizzazione della Salomè di Mariam, basata sulla figura storica della sorella di Erode il Grande. Nella storia della Redenzione, Giovanni Battista è tra le personalità più singolari: è l’ultimo profeta e il primo apostolo, in quanto precede il Messia e gli rende testimonianza. Nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio presenta il personaggio in un suo quadro ideologico: un predicatore innocente, vittima politica del potere degenerato di Erode Antipa. Il Nuovo Testamento ne offre un ritratto più complesso. Matteo lo presenta come l’ultimo profeta ebreo, Luca come un proto-cristiano; infine l’evangelista Giovanni precisa che il Battista non fu solo il precursore, ma soprattutto il testimone del Cristo. Sul modello martiriale offerto da Gesù e Giovanni Battista, Elizabeth Cary elabora la “passione” di Mariam, un’altra figura esemplare perseguitata dal tiranno violento e sanguinario in cui confluiscono le figure storiche di Erode il Grande, il re della “strage degli innocenti” ed Erode Antipa, il giustiziere di Giovanni Battista. 2.3 I tortuosi percorsi dell’assertività. In The Tragedy of Mariam Elizabeth Cary rispetta le unità aristoteliche. L’azione si svolge nel tempo reale di un singolo giorno; all’intrigo principale si intrecciano pochi intrighi accessori, prevalentemente incentrati sulle macchinazioni di Salomè. I primi due atti sono dedicati alla presentazione dei personaggi e all’esposizione dei conflitti e delle rivalità che porteranno al martirio di Mariam. Se il prezzo da pagare per diffondere le proprie idee schivando i fendenti della censura è quello di ibridare il soliloquio incipitario della protagonista con qualche tributo allo stereotipo secon- Elizabeth Cary 127 do cui le facoltà intellettive della donna sarebbero nettamente inferiori a quelle dell’uomo, Elizabeth Cary non si tira certo indietro, nella convinzione che l’atto emancipatore sia scrivere un’opera originale e darla alle stampe: How oft have I with public voice run on To censure Rome’s last hero for deceit: Because he wept when Pompey’s life was gone, Yet when he liv’d, he thought his name too great. But now I do recant, and, Roman lord Excuse too rash a judgement in a woman: My sex pleads pardon, pardon then afford, Mistaking is with us but too too common. (I, i, vv. 1-8) Mariam sostiene di essersi occupata troppe volte di politica e fa ammenda per aver espresso in pubblico le proprie considerazioni su fatti e personaggi storici. Alla sua appartenenza al sesso debole è imputata la “naturale” tendenza all’errore valutativo. Sull’equazione donna=natura, opposta e complementare a quella uomo=cultura vale quanto scrive Sherry Ortner: It all begins of course with the body and the natural procreative functions specific to women alone. We can sort out for discussion three levels at which this absolute physiological fact has significance: (1) woman’s body and its functions, more involved more of the time with “species life”, seem to place her closer to nature, in contrast to man’s physiology, which frees him more completely to take up the projects of culture; (2) woman’s body and its functions place her in social roles that in turn are considered to be at a lower order of the cultural process than man’s; (3) and woman’s traditional social roles, imposed because of her body and its functions, in turn give her a different psychic structure, which, like her physiological nature and her social roles, is seen as being closer to nature36. Informata della presunta morte del marito, al quale Ottaviano non avrebbe perdonato l’alleanza con Marco Antonio, Mariam 36 Sherry B. Ortner, “Is Female to Male as Nature to Culture?”, in M. Z. Rosaldo and L. Lamphere, Woman, Culture and Society, Stanford, Stanford University Press, 1974, pp. 73-4. 128 Capitolo II scopre di nutrire sentimenti contrastanti nei confronti di Erode, marito affettuoso ma sovrano crudele e sospettoso, tanto da far assassinare il giovane Aristobolus (fratello di Mariam), per liberarsi di ogni possibile avversario di stirpe asmonea. Come vedova Mariam piange la morte del marito ma in quanto sorella di Aristobolus e nipote di Hircanus gioisce per la morte dell’uomo che ha fatto uccidere i suoi più stretti familiari. La caratterizzazione del personaggio è dunque complessa. Dal suo ingresso nel simbolico Mariam è costretta a recitare tre ruoli: quello di moglie fedele al sovrano, quello di figlia vincolata al rispetto delle sue responsabilità dinastiche, e infine quello di regina del popolo giudaico. Le tre diverse identità in cui è scissa la soggettualità dell’eroina entrano in conflitto allorché il sistema socio-culturale che le ha prodotte diventa instabile per via dell’assenza di chi detiene il controllo della rappresentazione, il sovrano. Allorché viene a mancare l’autorità, nella piattaforma sociale si aprono crepe e fenditure da cui affiorano istinti e pulsioni a lungo repressi. Nella seconda scena entra in gioco il personaggio di Alexandra, figlia del nobile Hircanus (ultimo re asmoneo) e madre di Mariam e Aristobolus che, irritata dalla vista della figlia in lacrime, si lancia in un’invettiva orientata a smascherare i reati commessi da un re illegittimo, un “vile idumeo” (“base edomite”, v. 84). Si tratta del primo riferimento al discorso della purezza razziale, che riaffiora nei momenti climactici del dramma. Erode è un discendente di Esaù, che per aver negato la risurrezione ed aver messo in dubbio il compimento futuro delle promesse di Dio a Israele, è diventato “figura” di coloro che non vedono al di là dell’orizzonte terreno e disprezzano i valori dello spirito. A causa della sua carnagione rossiccia fu chiamato anche Edom (cioè rosso). Allo stesso modo fu chiamata la terra dove si stabilì dopo essersi allontanato dalle terre che spettavano al fratello. In Malachia 1:1-4 il paese di Edom è definito il “territorio dell’empietà” e gli edomiti (o idumei) il “popolo contro il quale il Signore è sdegnato per sempre”. Di qui la caratterizzazione di Erode come un uomo schiavo delle sue passioni e delle sue insicurezze, incostante e inaffidabile come una donna; violento e dispotico come un tiranno: Elizabeth Cary 129 What kingdom’s right could cruel Herod claim, Was he not Esau’s issue, heir of hell? Then what succession can he have but shame? Did not his ancestors his birth right sell? Oh yes, he doth from Edom’s name derive His cruel nature which with blood is fed: That made him me of sire and son deprive, He ever thirsts for blood, and blood is red. [...] I know by fits he show’d some signs of love, And yet not love, but raging lunacy: And this his hate to thee may justly prove, That sure he hates Hircanus’ family. Who knows if he, unconstant wavering lord, His love to Doris had renew’d again? And that he might his bed to her afford, Perchance he wish’d that Mariam might be slain. (I, ii, vv. 99-130) Nel contesto culturale dell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana i difetti che Alexandra attribuisce a Erode sono regolarmente associati al sesso femminile. Dal XV secolo in poi, una lunga serie di pamphlets sul ruolo della donna, ben coadiuvati dalla pubblicazione di opere pseudo-scientifiche sul dimorfismo sessuale, costruiscono una iconografia del corpo femminile come debole e inaffidabile in quanto composto di umori freddi e umidi. Liquefatta e intorbidita dagli immondi fluidi che circolano nel suo corpo, la mente femminile subisce l’influsso della ciclicità delle fasi lunari e tende ad essere instabile e irrazionale37. Non sorprende che il comportamento di Salomè aderisca perfettamente all’immagine stereotipata della donna disordinata e sregolata, ma quando il virus della volubilità contagia anche la mente del re Erode dalla sommità della piramide sociale parte una scossa che minaccia di destabilizzare le fondamenta stesse del regno di Giudea. Informata dei piani criminali di Erode, che ha dato ordine di ucciderla nel caso non fosse mai tornato da Roma, Mariam accoglie con sollievo la morte del tiranno ma 37 Cfr. I. Maclean, op. cit., pp. 127-55. 130 Capitolo II piange la scomparsa dell’uomo a cui è legata dal sacro vincolo matrimoniale. Nei corridoi angusti di un intricato labirinto linguistico la sua ansia di autonomia si intreccia con l’esigenza di farsi carico delle proprie responsabilità familiari e dinastiche. Nella terza scena del primo atto registriamo il primo scontro tra la coppia Alexandra-Mariam, che afferisce all’idea di una solidarietà femminile costruita sulle solide basi di un forte sentimento di appartenenza ad una famiglia (e una dinastia) di eletti, e il raggruppamento Salomè-Erode, che afferisce all’area dell’illegittimità, dell’eccesso e dell’alterità razziale. Salomè accusa Alexandra e Mariam di aver approfittato dell’assenza di Erode per trasgredire la legge patriarcale che le vuole sottomesse e passive. Mariam risponde definendo la rivale una “bastarda” mezza ebrea e mezza idumea (“parti-Jew, and partiEdomite”, I, iii, v. 235), progenie di una stirpe ripudiata da Dio: “Thy ancestors against the Heavens did fight, / And thou like them wilt heavenly birth disgrace” (I, iii, vv. 237-38). Con grande abilità Salomè decostruisce questa accusa e spiazza Mariam con una allusione allo loro comune discendenza da Isacco: “What odds betwix your ancestors and mine?” (I, iii, v. 240). Mariam, disorientata, preferisce aggirare la domanda e arricchire di nuovi contenuti una caratterizzazione della rivale imperniata sul paradigma dell’impurità: “I favour thee when nothing else I say, / With thy black acts I’ll not pollute my breath” (I, iii, vv. 244-45). Ogni azione compiuta da Salomè è nera come il peccato che macchia la coscienza dell’impuro. L’emergenza dell’opposizione fairness/blackness, dove il secondo termine è associato all’alterità e all’inferiorità razziale risulta funzionale al desiderio di screditare la rivale assegnandole una posizione esterna e marginale rispetto alla comunità, mettendo in luce la sua non appartenenza al popolo degli eletti38. Mentre la fase di espansione coloniale era ancora al suo stato embrionale, la ricerca di appigli pseudo-scientifici per affermare la portata culturale delle differenze razziali si era già messa in 38 Cfr. Kim Hall, Things of Darkness: Economies of Race and Gender in Early Modern England, Ithaca, Cornell University Press, 1995, pp. 184-5. Elizabeth Cary 131 moto onde far fronte alle paure irrazionali innescate dalla scoperta di popolazioni e culture “altre”. L’intero mondo scientifico medico-biologico fu coinvolto, più o meno consapevolmente, in concettualizzazioni discriminanti volte a stringere gli anelli di una catena ideologica che al colore della pelle associava l’impurità e l’inferiorità culturale. Ripudiata ogni forma di mescolanza che potesse contaminare il sangue del “bianco”, si iniziò a fantasticare su una sorta di purezza che classificava l’umanità in specie isolate artificialmente. Ammesso che sia legittimo parlare di razzismo solo dal XVIII secolo, quando viene elaborata una teoria che nella genetica individua la ragione dell’inferiorità biologica (e quindi culturale) dei popoli assoggettati e la giustificazione delle efferatezze compiute nelle varie imprese coloniali, è importante sottolineare che, a partire dal XVII secolo, il timore irrazionale nei confronti dello straniero (potenzialmente) usurpatore confluì presto in una demonizzazione della blackness: “White Racism has been, from its origin, a story about male competition. Thus the black male, imputed competitor for possession of the white male’s prerogatives of power, wealth, and the assumed ownership of white females, poses the threat that marks the space where projected racial anathema begins”39. Il soggetto rinascimentale ha bisogno di forme su cui esercitare, collaudare e verificare la sua “forza”. L’io deve riconoscere l’autonomia della sua soggettività in un rapporto che lo colleghi ad una alterità nel confronto con la quale rafforzare la sua “relativa potenza”. Per non ridursi a meccanica contrapposizione di forze, la competizione sociale tra donne, come quella tra uomini, aveva bisogno di svilupparsi in nuovi discorsi e nuove metafore di forte impatto emotivo. Il codice linguistico e ideologico del sexual slander, pratica culturale che nasce dall’esigenza di screditare le rivendicazioni di nemiche e rivali affermando nel contempo l’autorità verbale e legale dell’accusatrice, non tardò ad assimilare i numerosi significanti che orbitano intorno alla sequenza associativa donna / nero / impurità / corruzione / peccato / animalità. A proposito dei nume39 L. E. Boose, op. cit., p. 41. 132 Capitolo II rosi casi di diffamazione discussi nelle corti ecclesiastiche, Laura Gowing scrive: In a culture where a host of prescriptions limited women’s words, and where women’s participation in the law was explicitly restricted, sexual insult and legal action represented particular opportunities. Women in London used those opportunities, in conjunction with a set of established customary and practical powers to claim a verbal and legal authority that was at once powerful and fragile40. Il codice della diffamazione sessuale offriva alle donne un socioletto particolarmente adatto a veicolare il desiderio di dar libero (e pubblico) sfogo a passioni e rancori personali senza incorrere nelle sanzioni previste per la scold. A corte, conclude la Gowing, “litigation provided a way of shifting personal, semipublic disputes into a much broader, official sphere to which women rarely had access”41. Scambiandosi reciprocamente accuse, le donne sfuggivano all’accerchiamento della censura e clandestinamente partecipavano al dibattito politico e culturale del tempo42. Nel corso degli anni sia il sexual/racial slander che le azioni legali intraprese per difendere la reputazione di presunte streghe e scold diventano i canali ufficiali dell’assertività femminile. 40 L. Gowing, op. cit., p. 430. Ibid., p. 445. 42 In proposito, Naomi J. Miller scrive: “The mothers’ voices serve to surround and in some sense to balance the voices of those female characters whose speech is directed primarily, and erotically, toward the men – whether the sexually dynamic Salome or the sexually passive Graphina. Whereas the men tend to perceive motherhood as a physical state which bears witness to their own sexual potency, the women claim maternity as a condition for speech, directed most specifically not toward their husbands and male lovers, but rather toward each other [...] Only the mothers seem able to begin to redraw the boundaries of domestic authority which frame the patriarch’s power so as to establish speaking positions for themselves not already overdetermined by roles as receptacles for masculine desire. The conflicted discourse of the mothers thus exposes not only their rivalry, but also their capacity to frame their desires in language which deflects the ruling supremacy of the tyrant” (“Domestic Politics in Elizabeth Cary’s The Tragedy of Mariam”, Studies in English Literature, 1500-1900, 37, 2,1997, pp. 361-2). 41 Elizabeth Cary 133 L’intervento di Alexandra chiude il primo scontro tra le due protagoniste del dramma mediante un’altra allusione all’inferiorità di Salomè, sineddochicamente associata al piede, ovvero alla corporeità e alla sudditanza, laddove Mariam è la testa che guida l’azione. 2.4 Tirannia patriarcale e strategie di resistenza. La scena quarta si apre con un soliloquio di Salomè incentrato sul tema della vergogna (“shame”) che da tempo arrossa la sua fronte. Dopo aver fatto condannare a morte il primo marito Josephus, reo di aver rivelato a Mariam i piani segreti di Erode, Salomè, spesso indotta all’errore dalla sua “wavering mind” (I, vi, v. 497) e dal suo “wandering heart” (I, iv, v. 321), sposa Constabarus al quale presto preferisce Silleus. Col passare del tempo, l’urgenza di reimpadronirsi della propria vita era gradualmente confluita in una scelta di indocilità che, in assenza del re, sfocia nella denuncia scagliata contro la legge ebraica: He loves, I love; what then can be the cause Keeps me from being the Arabian’s wife? It is the principles of Moses’ laws, For Constabarus still remains in life. If he to me did bear as earnest hate, As I to him, for him there were an ease; A separating bill might free his fate From such a yoke that did so much displease. Why should such privilege to man be given? Or given to them, why barr’d from women then? Are men than we in greater grace with Heaven? Or cannot women hate as well as men? I’ll be the custom-breaker: and begin To show my sex the way to freedom’s door [...] (I, iv, vv. 297-310). In The Taming of the Shrew la bisbetica Kate “sovverte l’universo maschile simbolico rivoltando le metafore come un guanto, usando il gioco verbale per sfidare e mettere in questione un sistema binario che codifica e racchiude il potere maschi- 134 Capitolo II le”43. Qui, al contrario, Salomè si limita a invertire il binarismo ordine/disordine con argomentazioni semplici e dirette, così da collocare i suoi discorsi e la sua stessa identità sul polo negativo del “custom-breaker”. Contestare la gerarchia che vuole la donna sottomessa al marito e lamentare l’ingiustizia della legge mosaica equivale a invalidare le proprie rivendicazioni, accolte come il frutto di una unruly mind votata all’eccesso verbale e sessuale. A Constabarus non rimane che opporre all’antimodello incarnato da Salomè il ritratto stereotipato della moglie ideale, la cui funzione, secondo le Scritture (Proverbi, 12:4), sarebbe quella di rafforzare il prestigio sociale del marito allo stesso modo in cui la corona accresce la regalità del sovrano: “Our wisest prince did say, and true he said. / A virtuous woman crowns her husband’s head” (I, vi, vv. 395-96)44. Di fronte alla riduzione della sua soggettività a semplice accessorio della potestà maritale, Salomè reagisce esplosivamente: Thou shalt no hour longer call me wife, Thy jealousy procures my hate so deep: That I from thee do mean to free my life, By a divorcing bill before I sleep. (I, vi, vv. 417-20) 43 C. Mucci, Il teatro delle streghe, cit., p. 67. Un penetrante commento di questa metafora biblica è fornito da Karen Newman: “The Biblical verse from Proverbs represents woman metonymically as the crown of her husband. A crown is first an ornament for the head. Worn not simply for personal adornment, it is a mark of the wearer’s honour or achievement. A good wife, then, is a mark of her husband’s achievement, and the handbooks’ emphasis on the role of the husband in educating and moulding his wife to obedience, submission, and good housewifery witnesses such a view of that role. A crown is also a token worn by a monarch as a sign of sovereignty; thus the figure also sustains the patriarchal organization of the household in early modern England and the microcosm/macrocosm analogy on which it depends” (Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, Chicago and London, University of Chicago Press, 1991, p. 15). Sul tema del divorzio nei closet dramas di Milton ed Elizabeth Cary si veda Susan B. Iwanisziw, “Conscience and the Disobedient Female Consort in the Closet Dramas of John Milton and Elizabeth Cary”, Milton Studies, 36 (1998), pp. 109-22. 44 Elizabeth Cary 135 Nella letteratura edificante del XVI secolo il divorzio è associato allo scioglimento del patto politico e religioso che lega le diverse componenti sociali. La teoria medievale che individuava nel celibato una condizione superiore a quella del matrimonio aveva ormai ceduto il passo all’esigenza, avvertita da riformisti e controriformisti, di procedere ad un accurato riordinamento del matrimonio monogamico a partire da un consolidamento dell’autorità patriarcale. Il capofamiglia ottiene precise garanzie circa la trasmissione del nome e del patrimonio alla progenie laddove alla donna i riformatori mostrano un percorso di redenzione che proprio nel matrimonio e nella maternità ha i suoi due snodi fondamentali. Nel raccomandare alle mogli di rivolgere al marito un amore riverente e rispettoso nella consapevolezza di essere state create da una costola situata sotto il braccio dell’uomo – l’arto con cui questi dirige e ammaestra i suoi sottoposti – San Francesco di Sales definisce il matrimonio “il vivaio del cristianesimo”. Per Lutero rappresenta la condizione naturale dell’uomo, purché la famiglia sia governata da un rigoroso patriarcato. Proprio negli anni in cui Elizabeth Cary scrive The Tragedy of Mariam torna in auge anche il culto della Sacra Famiglia, imperniato sull’idea di San Giuseppe come “falegname virtuoso e padre terreno che insegnò a Cristo il suo mestiere e salvò la Vergine Maria dal disonore di questa terra”45. Anche l’analogia tra household e commonwealth, famiglia patriarcale e regalità, continua a rafforzarsi. Così William Gouge: “A family is [...] a little Commonwealth [...] a school wherein the first principles and grounds of government and subjection are learned [...] So we may say of inferiors that cannot be subject in a family; they will hardly be brought to yield such subjection as they ought in Church or Commonwealth”46. Secondo Robert Clever e John Dod (A Godly Forme of Household Government: for the Ordering of Private Families, According to the Direction of God’s Word, 1612) il marito è il “chief governor” della 45 O. Hufton, op. cit., p. 37. William Gouge, Of Domesticall Duties, 1622. Riportato in S. D. Amussen, op. cit., p. 37. 46 136 Capitolo II famiglia mentre la moglie, definita “fellow-helper”, è condannata ad una condizione di dipendenza e sudditanza nei confronti del master. Il libro God and the King (1615), in cui Richard Mocket sviluppa nuove argomentazioni a sostegno della teoria che individua nel re l’emissario di Dio in terra e nel patriarca il sovrano della household, incontra immediatamente l’approvazione di Giacomo I, tanto da trasformarsi in una sorta di bibbia dell’assolutismo monarchico adottata da ogni ordine di scuole e università. Ancora nel 1642, Robert Filmer basava la sua difesa del potere assoluto del re insistendo sull’equazione tra sudditi e prole, per dimostrare quanto la subordinazione al sovrano non fosse più “innaturale” dell’ubbidienza che ogni figlio deve al proprio genitore47. Così come la donna non ha il diritto di divorziare dal proprio marito, i sudditi non possono ripudiare il sovrano legittimo anche nel caso in cui l’unto del signore si sia trasformato in un tiranno crudele e sanguinario. Come insegna Vives in Linguae Latinae Exercitatio (1539), l’unica forma di resistenza al dispotismo del sovrano è individuabile nella sofferenza e nel sacrificio di sé. In questa prospettiva va inquadrato il martirio di Mariam, che incarna il modello delle prodigiose sante medievali che sfuggono alla tirannia coniugale senza mai venir meno al principio dell’ubbidienza. Diverso è il caso di Salomè. Alla luce delle prescrizioni scritturali sull’istituto matrimoniale e rispetto alla metaforica articolazione dei rapporti di potere all’interno della famiglia, il suo desiderio di divorziare da Constabarus per sposare Silleus risulta tanto illegittimo quanto politicamente destabilizzante, di conseguenza è immediatamente imputato al suo carattere passionale e alla sua voracità sessuale. La disubbidienza della moglie al marito, unita alla trasgressione della legge mosaica, rappresentano una “versione attenuata” del reato noto come petty treason, formula ideata per enfatizzare la gravità dell’assassinio del padrone (=marito) da parte del servitore (=moglie), crimine che, al pari di qualsiasi altro assalto al governo tende a destabi47 1642. Robert Filmer, Patriarcha, or the Natural Power of Kings, London, Elizabeth Cary 137 lizzare l’ordine sociale48. I rapporti di potere tra maschio e femmina riassumono tutti gli altri binarismi fondanti la cultura rinascimentale: padrone/servo sovrano/suddito cultura/natura, razionale/irrazionale ecc49. L’appropriarsi delle mansioni e delle prerogative del maschio dominante da parte di una donna sregolata, o una “woman on top”50, non fa che innescare la controffensiva del potere orientata a sedare ogni dinamismo familiare. Se la donna riesce a tenere testa al marito, anche il suddito riuscirà ad opporsi all’autorità del sovrano e l’intera gerarchia dei rapporti di forza sarà rimessa in discussione. I meccanismi omeostatici messi a punto per stroncare l’assertività femminile si basano sulla repressione di ogni comportamento deviante, e sfruttano le suggestioni esercitate da punizioni esemplari e “spettacolari”. La scold subisce la punizione del ducking stool; ovvero viene legata ad una sedia e immersa nello stagno del paese: Modern research into the early history of the ducking-stool has revealed that, in fact, there was great variety of usage in different manors, boroughs and cities. In some places the aim was primarily to exhibit the offenders to public ridicule, which might be achieved either by placing them in a fixed position in some prominent place or by carrying them about the town: Elsewhere the emphasis was on the ducking of the culprits, the effect of which might be simply to soak them or, more brutally, to defile them with mud or filth. These objects were achieved by means of a wide variety of engines and contraptions, not always chair-like in form, their precise nature depending on local traditions and available resources51. 48 Si veda quanto scrive Clara Mucci in merito all’omicidio di Arden di Faversham da parte della moglie Alice in “Alice di Faversham” (Il teatro delle streghe, cit., pp. 37-62). 49 Cfr. Stuart Clark, “Inversion, Misrule and the Meaning of Witchcraft”, Past and Present, 87 (May 1980), pp. 98-128. 50 Cfr. Natalie Zemon Davis, “Women on Top: Symbolic Sexual Inversion and Political Disorder in Early Modern Europe”, in N. Z. Davis, Society and Culture in Early Modern France, Stanford, Stanford University Press, 1975, pp. 124-151 (trad. it. Le culture del popolo. Saperi, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1980). 51 Martin Ingram, “‘Scolding women cucked or washed’: A Crisis in Gender Relations in Early Modern England?”, in Garthine Walker & Jenny Ker- 138 Capitolo II Salomè non è solo una moglie assertiva e tirannica, al pari delle streghe di Macbeth è portatrice di un ribaltamento assiologico che Constabarus teme possa innescare un terremoto culturale tanto violento da scuotere le immutabili gerarchie del potere: Are Hebrew women now transformed to men? Why do you not as well our battles fight, And wear our armour? Suffer this, and then Let all the world be topsy-turvèd quite. Let fishes graze, beasts [swim], and birds descend, Let fire burn downwards whilst the earth aspires: Let winter’s heat and summer’s cold offend, Let thistles grow on vines, and grapes on briars, Set us to spin or sew, or at the best Make us wood-hewers, water-bearing wights: For sacred service let us take no rest, Use us as Joshua did the Gibonites. (I, vi, vv. 421-32) Nel contesto culturale inglese della prima era moderna le rivendicazioni di Salomè non hanno gambe per camminare, risultano non pertinenti e ingiustificate soprattutto se confrontate con quelle di Mariam. Quest’ultima ha tutto il diritto di affrancarsi da un marito crudele e sospettoso senza per questo attentare all’Ordine della regalità simbolica. Erode, il re indegno, il “vile idumeo” che ha usurpato il trono eliminando ogni altro pretendente alla corona e ha acquistato legittimità con la sua scaltra politica di alleanze matrimoniali, non ha dato più notizie di sé; in Giudea tutti lo credono morto, assassinato per ordine di Ottaviano. La trasgressione di Mariam, il suo atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità del master è giustificato da mille attenuanti, la sua è una indocilità “controllata” e razionale piuttosto che passionale, il suo non è un volere comunque ma un volere a condizione52. mode, Women, Crime and the Courts in Early Modern England, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1994, pp. 58-9. 52 Cfr. l’analisi di Alessandro Serpieri della personalità di Macbeth in Retorica e immaginario, cit., pp. 209-10. Dympna Callaghan individua un’altra Elizabeth Cary 139 A conclusione del primo atto si registra il primo intervento del Coro, la cui funzione, come si è accennato, è quella di esprimere luoghi comuni e una interpretazione dei fatti del tutto parziale e per certi versi fuorviante. Le accuse rivolte a Mariam corrispondono a colpe attribuibili a Salomè, antagonista che dà voce all’inconfessabile ribellismo della protagonista. Nel secondo atto entrano in scena altri due importanti personaggi: Pheroras, fratello di Erode, e Graphina, la donna di umili origini che quest’ultimo vorrebbe prendere in moglie. Ormai rassegnato a sposare, per motivi politico-dinastici, la sua stessa nipote (figlia di Erode), Pheroras accoglie con entusiasmo la notizia della presunta morte del tiranno e tenta subito di curare il suo io ferito esortando Graphina a dar voce alla sua soddisfazione. Quest’ultima rassicura il suo amante costruendo un’immagine di sé come donna docile e sottomessa, consapevole della sua inferiorità biologica e culturale: “You have preserved me pure at my request, / Though you so weak a vassal might constrain / To yield to your high will [...]” (II, i, vv. 62-4). Graphina è l’incarnazione stessa del modello femminile proposto dai trattati attenuante per la trasgressiva ribellione di Mariam: “Within the conventions of renaissance culture, Jewish women seem to be portrayed in a far more positive light – as literally less racialized – than the invariably patriarchal Jewish males. For example, Jessica, daughter of Shylock, who converts to Christianity in Shakespeare’s Merchant of Venice, and Abigail, the daughter of Barabas, who flees to a convent in Marlowe’s The Jew of Malta, are identified with Christianity rather than Judaism; their fathers do not have the same propensity towards conversion and assimilation. The archetypal Jewish patriarch is Abraham, of course, to whom gentiles bear an inescapably filial relationship. He is, as saint Paul writes, ‘the father of us all’. Yet Abraham is hardly benevolent. He figures in Christian mythology as the murderous patriarch who circumcises Isaac and later ties him to the altar fully prepared to wield his knife, his hand stayed only by the timely intervention of the angel of the Lord. The significant parallels between Herod and the conventional, racialized representation of the Jew as the tyrannical patriarch (though he is not, of course, Mariam’s father) make her insubordination quite legitimate [...]” (“Re-reading Elizabeth Cary’s The Tragedy of Mariam, Faire Queene of Jewry”, in M. Hendricks, P. Parker (eds.), op. cit., p. 170. 140 Capitolo II e dai manuali di condotta, è casta e silenziosa53, passiva e ubbidiente; non parla se non è invitata a farlo, non agisce se non per eseguire ordini o servire l’amante. Agli occhi di Pheroras appare come una moglie modello da contrapporre alla “mostruosa” Salomè. Il nome Graphina è plasmato sul verbo greco gràphia, e segnala la prigionia del soggetto nelle strutture del linguaggio, contrassegnate da imperativi sociali, regole rigide e immutabili: Graphina è una pagina bianca su cui Pheroras proietta le sue fantasie, “scrive” la sua storia e disegna il ritratto della compagna ideale. La sua indole naturale è stata perfettamente assimilata nel culturale: “Graphina is the ideal woman as written by men, the ideal wife of the conduct books, a blank space to be filled in by (male) ideas of femininity”54. 2.5 Mothers on top. Nelle scene terza e quarta si conclude la lunga presentazione dei personaggi: è il turno di Doris, la prima moglie di Erode, e di Silleus, amato passionalmente da Salomè. Dopo Alexandra, un’altra madre scende in campo per difendere gli interessi dei figli. Laddove nei drammi di Shakespeare spicca l’assenza delle madri, in linea con l’assioma principale della 53 La parola “silence” è associata a Graphina cinque volte in meno di trenta versi. 54 Cfr. Kim Walker, Women Writers of the English Renaissance, New York, Twayne-Simon and Schuster MacMillan, 1996, pp. 136-7. Si veda, inoltre quanto scrive, in proposito, Jonathan Golberg: “When writing is equated with an absence of speech, women’s writing is eo ipso declared already less than fully representative of women, a sign of absence, and somehow therefore in itself not entirely there. In such formulations, writing disappears into representation of female silence, rather than testifying to the fact that some women did write and that these texts have undeniable material existence and therefore have a kind of priority over the law they violate” (Desiring Women Writing: English Renaissance Examples, Stanford, Stanford University Press, 1997, pp. 165-6). Sul tema della simbolizzazione del maschile-femminile vale quanto scrive Sherry B. Ortner: “In other words, woman’s consciousness – her membership, as it were, in culture – is evidenced in part by the very fact that she accepts her own devaluation and takes culture’s point of view” (op. cit., p. 76). Elizabeth Cary 141 cultura patriarcale secondo cui l’unica figura investita di autorità all’interno della famiglia è il padre, in The Tragedy of Mariam molti personaggi femminili sono madri che si battono le une contro le altre per tutelare gli interessi dei figli. Nelle one parent families dei romances shakespeariani, osserva Carol Thomas Neely, mothers are not merely absent but are dead or else die or apparently die in the course of the play. If the death occurs before the play’s action, it is noted and remembered. These deaths and mock deaths are prominent determinants of plot and theme. The absence of mothers in the romances causes broken nuptials in the older generation, allows female sexuality to be represented by the chaste innocence of young daughters, and shifts emotional and dramatic emphasis to fatherdaughter bonds. Mock deaths in the romances symbolize separation and engender reconciliation not only in the heterosexual bond but in the mother-child bond as well55. Il timore di essere risucchiati e annullati nel ventre materno e il turbamento provocato dal confronto con la “minacciosa” e perturbante sessualità femminile induce Pericle, Leontes e Prospero a rifugiarsi nel guscio protettivo di un rapporto per sua natura gerarchico e quindi più rassicurante per l’uomo, quello con la figlia casta e immacolata: “Marina, Perdita, and Miranda of the romances are accessory to their fathers’ development as characters, rather than characters developed for their own sakes, and their spheres of action are restricted”56. Grazie alla presenza della figlia, l’esilio di Prospero si trasforma in un idillio che va 55 Carol Thomas Neely, Broken Nuptials in Shakespeare’s Plays, New Haven and London, Yale University Press, 1985, p. 171. Sul tema delle one parent families shakespeariane vale la pena riportare quanto scrive Stephen Orgel: “Most families in Shakespeare have only one parent, the very few that include both parents generally have only one child, and when that configuration appears, it tends to be presented, as Leontes’ marriage is presented, as exceedingly dangerous to the child” (Impersonations, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 17). 56 Coppélia Kahn, “The Providential Tempest and the Shakespearean Family”, in Murray M. Schwartz and C. Kahn (eds.), Representing Shakespeare. New Psychoanalytic Essays, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1980, p. 218. 142 Capitolo II in scena negli spazi protetti e sicuri di un’isola lontana dal regno di Milano, scenario in cui Prospero è costretto a definire il suo ruolo e la sua identità in relazione col materno: Miranda: Sir, are you not my father? Prospero: Thy mother was a piece of virtue, and She said thou wast my daughter; and thy father Was Duke of Milan, and his only heir And princess no worse issued57. (I, ii, vv. 56-9) L’assenza della madre permette a Prospero di porre un’ipoteca sul capitale energetico della figlia; Miranda, scrive David Sundelson, “is the ideal listener; she has no critical faculty of her own, and her responses are invariably just what her father wants”58. In questo Miranda fa pensare a Graphina, innocua e passiva figura femminile capace di esercitare una potente attrazione su Pheroras, quanto mai desideroso di placare i turbamenti psichici provocati dal contrastato rapporto con la sorella Salomè – il prototipo stesso della donna sessualmente vorace e assertiva – prendendo in sposa una donna che non chiede altro se non di servirlo con devozione e costanza59. Spesso tagliate fuori dalla sfera sociale, confinate ad amministrare il regno domestico, in The Tragedy of Mariam le figure 57 L’edizione di The Tempest qui seguita è quella della Oxford University Press, a cura di Stephen Orgel, Oxford and New York, 1994. Stessa edizione per The Winter’s Tale, sempre a cura di Stephen Orgel, Oxford and New York, 1996. 58 David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”, in M. Schwartz, C. Kahn, op. cit., p. 197. 59 In The Winter’s Tale il perturbante corpo materno di Hermione è inizialmente presente ma perde progressivamente la sua fluida vitalità fino a pietrificarsi in statua. Il modello è quello di una donna in cui, come nelle stilizzate dame provenzali o nelle sante anoressiche del Medioevo, lo spirito trionfa attraverso l’annullamento del corpo fragile e instabile. Nella morte la donna trascende l’aspetto terreno e, liberata da ogni impura brama e palpitazione, conquista finalmente una purezza ideale: “If one by one you wedded all the world, / Or from the all that are took something good / To make a perfect woman, she you killed / Would be unparalleled (V, i, 14-7)”. Elizabeth Cary 143 materne riconquistano il palcoscenico e ricorrono alla forza simbolica dell’autorità paterna per guidare i figli e salvaguardare i loro interessi. La differenza tra le coppie Doris/Antipater e Alexandra/Mariam non è rinvenibile nel comportamento delle madri, determinate ad investire tutte le loro risorse psichiche per sostenere i diritti e le rivendicazioni dei figli, ma nella disponibilità di Antipater e Mariam ad ascoltare e condividere angosce e tormenti interiori. Se per il maschio l’abbandono del corpo infantile passa attraverso il rifiuto della madre e il desiderio di acquisire autonomia nei confronti della famiglia, per la femmina il processo è inverso. La figlia, osserva Nancy Chodorow, non avverte il bisogno di differenziarsi dalla madre per sviluppare la sua identità: The development of a girl’s gender identity contrasts with that of a boy. Most important, femininity and female role activities are immediately apprehensible in the world of her daily life. Her final role identification is with her mother and women, that is, with the person or people with whom she also has her earliest relationship of infantile dependence. The development of her gender identity does not involve a rejection of this early identification, however60. La giovane donna è culturalmente indotta a identificarsi con la madre mentre il figlio maschio si identifica solo con il ruolo del padre e definisce la sua personalità attraverso la competizione con i coetanei del suo stesso ceto sociale. Sul diagramma cartesiano delle relazioni interpersonali il maschio si colloca sull’asse orizzontale del confronto “culturale” con i suoi pari mentre la femmina è integrata verticalmente nelle gerarchie del mondo adulto. Dopo aver osservato che la personalità femminile non si forma attraverso la differenziazione dall’altro da sé ma attraverso il confronto con le altre figure familiari – madri, zie e nonne costantemente impegnate a forgiare l’identità relazionale della giovane donna (che deve essere sempre figlia, moglie o 60 Nancy Chodorow, “Family Structure and Feminine Personality”, in M. Z. Rosaldo and L. Lamphere, op. cit., p. 51. 144 Capitolo II madre di qualcuno) – Nancy Chodorow sviluppa così la sua argomentazione: As if the woman does not differentiate herself clearly from the rest of the world, she feels a sense of guilt and responsibility for situations that did not come about through her actions and without relation to her actual ability to determine the course of events. This happens, in the most familiar instance, in a sense of diffuse responsibility for everything connected to the welfare of her family and the happiness and success of her children61. Nelle parole pronunciate da Doris nella scena terza del secondo atto non c’è solo il desiderio di vendetta nei confronti di chi ha preso il suo posto nella famiglia reale. Presto il pensiero va alle sorti del primogenito, la cui ascesa al trono è ostacolata dalla progenie di Mariam: With thee, sweet boy, I came, and came to try If thou before his bastards might be truly plac’d In Herod’s royal seat and dignity. But Mariam’s infants are only grac’d, And now for us there doth no hope remain: Yet we will not return till Herod’s end Be more confirm’d. Perchance he is not slain; So glorious fortunes may my boy attend. For if he live, he’ll think it doth suffice, That he to Doris shows no cruelty: For as he did my wretched life despise, So do I know I shall despised die. Let him but prove as natural to thee, As cruel to thy miserable mother: His cruelty shall not upbraided be But in thy fortunes. I his faults will smother. (II, iii, vv. 255-70) Doris è angosciata dall’idea che la sua inadeguatezza a recitare il ruolo di regina di Giudea (“Was I not fair enough to be a queen?”; v. 235) abbia nuociuto agli interessi di Antipater. Mariam è l’ultima discendente di una stirpe di re, una principessa 61 Ibid., p. 59. Elizabeth Cary 145 asmonea a cui Erode si è legato per legittimare e rafforzare la sua sovranità. Dal punto di vista dinastico Doris è “impura” ma può sempre sperare che la caduta in disgrazia della rivale dia legittimità alle rivendicazioni del figlio. Pur di vedere realizzate le sue aspirazioni materne Doris sarebbe disposta perfino a dimenticare i torti subiti come moglie. Solo un futuro glorioso per il figlio potrebbe lenire i tormenti del suo io ustionato dal continuo riaffiorare dell’incandescente magma dei passati insuccessi. All’atteggiamento prudente e attendista di Doris, che si limita a sperare in un improbabile ritorno di Erode, Antipater oppone il suo risoluto pragmatismo. La convinzione che il re sia effettivamente morto lo induce a escogitare un complotto per eliminare i figli di Mariam: Each mouth within the city loudly cries That Herod’s death is certain: therefore we Had best some subtle hidden plot devise, That Mariam’s children might subverted be, By poison drink, or else by murderous knife [...] (II, iii, vv. 271-75) I tormenti materni sono scivolati sulla mente di Antipater senza lasciare tracce, il figlio non è disposto ad intrecciare una pericolosa e destabilizzante relazione con la madre e si rifugia in una competitività orizzontale con i suoi avversari “politici”, nei confronti dei quali scarica tutta la sua aggressività. L’accento cade sul fare, sul desiderio di violare l’ordine simbolico per farsi re. A differenza di Lady Macbeth, che assume una funzione direttiva affinché l’atto sacrilego sia compiuto, Doris ferma la mano assassina del figlio: They are too strong to be by us remov’d, Or else revenge’s foulest spotted face By our detested wrongs might be approved, But weakness must to greater power give place. But let us now retire to grieve alone, For solitariness best fitteth moan. (II, iii, vv. 279-84) 146 Capitolo II Doris sa quando è il momento di fermarsi. Sa che ci sono delle regole che non possono essere sovvertite, conduce la sua battaglia entro i confini della legalità senza mai pensare di varcarli. All’azione preferisce l’attesa, la solitudine e il pianto rituale. In questo il suo atteggiamento ricorda quello di Mariam e della stessa Elizabeth Cary, il cui obiettivo era quello di ridefinire (non ribaltare) il ruolo della donna all’interno di un sistema sociale troppo rigido per accogliere le prime rivendicazioni femminili. 2.6 Il ritorno del padre e il martirio di Mariam. Nel secondo atto Elizabeth Cary suggerisce come l’assenza del repadre abbia fermato la fuga in avanti del tempo consentendo la riemersione del cronotopo infantile, spazio utopico al quale aspira un’esistenza votata alla solidarietà e alla condivisione di beni e risorse. Così Constabarus rivolto al primo figlio di Baba: Oh, how you wrong our friendship, valiant youth! With friend there is not such a word a “debt”: Where amity is tied with bond of truth, All benefits are there in common set. Then is the golden age with them renew’d, All names of properties are banish’d quite: Division, and distinction, are eschew’d: Each hath to what belongs to others right [...] (II, ii, vv. 99-106) Più innanzi, la complicità maschile si specchia nella contestazione dell’altro sessuale che si fa portavoce delle istanze dell’età adulta, l’ingresso nella quale comporta l’instaurazione di rapporti diversi da quelli infantili: You creatures made to be the human curse, You tigers, lionesses, hungry bears, Tear-massacring hyenas: nay, far worse, For they for prey do shed their feigned tears. [...] You stay’d in office of a second flood. You giddy creatures, sowers of debate, Elizabeth Cary 147 You’ll love today, and for no other cause But for you yesterday did deeply hate; You are the wreck of order, breach of laws. [your] best are foolish, froward, wanton, vain, Your worst adulterous, murderous, cunning, proud [...] (IV, vi, vv. 315-34) L’invettiva di Constabarus non è diretta alla donna in quanto tale, ma alla moglie pestifera e incostante, in opposizione alla quale l’uomo forgia la sua identità razionale. I complotti di Salomè accelerano il processo di integrazione del soggetto in un modello razionalistico di mondo basato sui concetti di sovranità e sudditanza. Ad ogni livello della gerarchia corrisponde un grado diverso di potere e un fascio specifico di diritti e doveri. Le azioni compiute da un vassallo del re si caricano di un valore simbolico che in nessun caso può essere azzerato. Constabarus ha violato due volte il patto di lealtà stipulato con il sovrano legittimo di Giudea: alla sua trasgressiva alleanza con i figli di Baba, sui quali pende una condanna a morte, si aggiunge l’aggravante di essersi alienato la stima e il rispetto di sua moglie Salomè, sorella di Erode. L’invettiva di Constabarus contro le donne rivela un atteggiamento ostile nei confronti dei legami eterosessuali, fortemente istituzionalizzati, gerarchici e di norma chiusi ad ogni investimento emotivo. A livello domestico-famigliare una istintiva adesione a idee e valori egualitari inibisce l’esercizio della potestà istituzionalmente spettantegli. Constabarus non è abbastanza forte da piegare la moglie all’ubbidienza e al rispetto della legge patriarcale ma appare quanto mai risoluto quando si tratta di venir meno agli obblighi della subordinazione nel nome di una utopistica sussidiarietà orizzontale. Sfidato a duello da Silleus, che intende difendere l’onore di Salomè, rifiuta di battersi “for a cause so low” e chiede al rivale di motivare in maniera più convincente l’urgenza di un confronto fisico tra pari: “What needest thou for Salome to fight? / Thou hast her, and may’st keep her, none strives for her: / I willingly to thee resign my right, / For in my very soul I do abhor her”. (II, iv, vv. 359-62). Con tono quasi implorante Constabarus invoca un ripensamento da parte di Sil- 148 Capitolo II leus ma questi si rivela sordo ad ogni richiesta di riconciliazione. Se le parole spuntate di Constabarus vanno a vuoto, la sua spada affilata colpisce più volte il bersaglio. Il dolore fisico e la sofferenza piegano la resistenza di Silleus che, ferito e sanguinante, scorge il valore e le doti umane dell’“amico” Constabarus: “Thanks, noble Jew, I see a courteous foe, / Stern enmity to friendship can no art: / Had not my heart and tongue engag’d me so, / I would from thee no foe, but friend depart. [...] (II, iv, vv. 389-92). Se non fosse stato accecato dalle sue passioni irrazionali e stordito dal suo temperamento “femminile”, Silleus avrebbe stretto con il suo pseudo-rivale un legame di amicizia del tutto antitetico agli onerosi rapporti gerarchici (sovrano/suddito, marito/moglie, padre/figli) in cui è imprigionato. A questa conclusione giunge Jonathan Goldberg che scrive: “Friendship would seem to name the ideal form of a relationship of equality, one explicitly resistant, as Constabarus further notes, both to the law of the sovereign and of the father [...]”62. Il sogno di arricchire l’egualitaria comunità maschile di nuovi adepti deve fare i conti con le forze disgreganti prodotte dall’Ordine simbolico per scomporre ogni struttura collettiva in una molteplicità di elementi individuali. Il ritorno di Erode interrompe una serie di processi fantasmatizzanti che improvvisamente appaiono quanto mai svincolati dal reale. Non appena gli ingranaggi del tempo si rimettono in funzione la sfida al potere sublima nell’ossequiosità mentre il riscatto dal disonore passa attraverso una indiscriminata attribuzione di colpe. In cambio dell’intercessione di Salomè presso Erode, Pheroras, reo di aver sposato una donna di ceto sociale inferiore, denuncia Constabarus di aver nascosto e protetto i figli di Baba, condannati a morte dal re anni addietro. La donna assertiva e ribelle diventa il bisturi con cui recidere il cordone che lega il maschio al corpo infantile; l’altro da sé sul quale ricondurre devianti pulsioni verso un’unione omosessuale. Il confronto con la sessualità femminile segna l’abbandono della “innocence”, la fine di un 62 J. Goldberg, op. cit., p. 176. Elizabeth Cary 149 gemellaggio affettivo che afferisce al campo semantico della naturalezza e va quindi razionalizzato e istituzionalizzato. Il potere della norma agisce mediante un’accurata classificazione dei soggetti e una meticolosa distribuzione dei ranghi, operazioni destinate a contrastare la deriva entropica dei rapporti sociali. Ogni impulso naturale va estinto nel culturale, ogni legame di tipo paritario-affettivo va ricondotto ad una ruolizzazione volta a scindere la coppia nel binomio servo/padrone. L’insofferenza per questa artificiosa modellizzazione dei rapporti interpersonali costituisce il nucleo ipogrammatico dell’intera macrosequenza dedicata all’amicizia tra Constabarus e i figli di Baba. Sull’esempio di Constabarus, che ripudia il suo status di marito della sorella del re, Mariam si mostra restia a riprendere il ruolo di moglie. Ai processi fantasmatizzanti di Erode, che vorrebbe fare di lei l’amante seducente e passiva della convenzione petrarchesca, oppone un atteggiamento trasparente ma, nel contempo, sobrio e misurato: Herod: And here she comes indeed: happily met, My best and dearest half: what ails my dear? Thou dost the difference certainly forget ‘Twixt dusky habits and a time so clear. Mariam: My lord, I suit my garment to my mind, And there no cheerful colours can I find. (IV, iii, vv. 87-92) Solo l’immorale Salomè osa inveire contro il marito. Doris si limita a denunciare la discriminante iniquità della legge sul divorzio che permette al marito di ripudiare la moglie arbitrariamente; Mariam ascrive la sua ritrosia nei confronti del sovrano al ricordo dei gravi lutti subiti: “No, had you wish’d the wretched Mariam glad, / Or had your love to her been truly tied: / Nay, had you not desir’d to make her sad, / My brother nor my grandsire had not died” (IV, iii, vv. 113-6)63. 63 Commentando queste battute, Gwynne Kennedy ha scritto: “Aristobolus’s murder appears to stand in for other injuries and emotions [...] which she does not voice to Herod. In addition, his death provides a way for Mariam to rebut Herod’s claim to love her and for her to assert that he does not. Mariam 150 Capitolo II Mariam decostruisce le iperboliche dichiarazioni d’amore del marito sfruttando le strategie dell’understatement, ben consapevole di non poter dar sfogo ad un risentimento che raggiunge le vette del parossismo nel momento in cui sono smascherati, grazie alla complicità di Constabarus, i piani criminali di Erode, tanto folle da chiedere che la moglie fosse uccisa nel caso in cui Ottaviano lo avesse condannato a morte: “I cannot frame disguise, nor never taught / My face a look dissenting from my thought” (IV, iii, 145-6). Erode vorrebbe vedere la propria soddisfazione riflessa sul volto di Mariam e ascoltare il proprio entusiasmo risuonare in dolci parole di benvenuto ma i suoi accorati appelli si perdono nel contegno fiero e distaccato della moglie, nei suoi occhi spenti, nelle sue labbra contratte, nel suo rifiuto di indossare la maschera della donna gentile e ossequiosa cantata nei canzonieri poetici64. Dopo una lunga assenza dal regno di Giudea, egli avverte l’urgenza di rinsaldare il suo ruolo di re e di marito ma per far questo ha bisogno di restaurare un’identità che la lontananza e la permanenza in terra straniera hanno reso instabile e “fatiscente”. Secondo i manuali e i trattati del tempo Mariam avrebbe dovuto adeguare la sua condotta alle esigenze del marito, rispondendo alle sue incalzanti sollecitazioni e nutrendo il suo narcisismo con dimostrazioni di affettuoso rispetto in modo da ricondurre le spinte disgreganti innescate dalle trasgressioni di Pheroras, Salomè e Constabarus nei circuiti inerziali dell’omeostasi familiare e politica. Tuttavia, in assenza del re, Mariam è riuscita ad affrancarsi dal rigido sistema di controllo che per anni ha tenuto in scacco il tentativo di comporre i tasselli del suo io in una cornice altra rispetto a quella forgiata dall’ideologia patriarcale. Dalle crepe del simbolico è is rightly being cautious here, for a frank explanation of her anger and hostility to a tyrant like Herod would be risky. The play suggests that direct expressions of anger and hatred by a wife, even one with defensible reasons, simply cannot be voiced safely in Mariam’s world [...]”. G. Kennedy, Just Anger: Representing Women’s Anger in Early Modern England, Carbondale and Edwardsville, Southern Illinois University Press, 2000, p. 66. 64 Cfr. Danielle Clarke, The Politics of Early Modern Women’s Writing, Harlow, Longman, 2001, pp. 101-3. Elizabeth Cary 151 riemerso un fluido emotivo che ha fertilizzato la mente inaridita dell’eroina, portando a maturazione sentimenti e passioni rimasti in incubazione per molto, troppo tempo. Razionalizzare questo nuovo e perturbante paesaggio psichico non è impresa da poco, bisognerebbe estirpare una ad una le profonde radici di un rancore intrecciato ad un desiderio di assertività a lungo represso. È un’operazione che richiede tempo e pazienza, mentre il re è come stordito dall’urgenza di ricostruire la sua autorità e imporre la sua parola monologica sulla progettualità sovversiva dei suoi pseudo-avversari politici. Sin dalle prime battute scambiate con Erode i feedback negativi di Mariam tendono a coagularsi intorno al principio della differenza, un tarlo che corrode i cardini emotivi di un uomo improvvisamente privato della rigida griglia su cui era solito disporre e organizzare i suoi impulsi contrastanti. In seguito alla scoperta dell’irriducibile diversità dell’altro, l’io amputato del sovrano comincia a barcollare. I suoi pensieri e le sue decisioni si disperdono in un groviglio intricato di atti illocutori attraversati da una forte tensione ossimorica: Soldier: You bade We should conduct her to her death, my lord. Herod: Why, sure I did not, Herod was not mad. Why should she feel the fury of the sword? Oh, now the grief returns into my heart And pulls me piecemeal: love and hate do fight: And now hath love acquir’d the greater part, Yet now hath hate affection conquer’d quite. And therefore bear her hence: and, Hebrew, why Seize you with lion’s paws the fairest lamb Of all the flock? She must not, shall not, die. Without her I most miserable am, And with her more than most. Away, away, But bear her but to prison, not to death: And is she gone indeed? Stay, villains, stay, Her looks alone preserv’d your sovereign’s breath. Well, let her go, but yet she shall not die; I cannot think she meant to poison me: But certain ‘tis she liv’d too wantonly, And therefore shall she never more be free. (IV, iv, vv. 240-58) 152 Capitolo II Come osserva Boyd Berry, “the patriarch is lunatic”65. A partire dalla scarna rivelazione del maggiordomo, secondo cui Sohemus avrebbe gettato discredito sulla figura del re (“Sohemus told the tale that did displease”; IV, iv, v. 170), Erode ricostruisce le trame improbabili di una relazione adulterina tra il suo uomo di fiducia e Mariam. L’assenza di un malcontent misogino votato ad infestare la mente del sovrano di dubbi e incertezze relative alla fedeltà e all’affidabilità della regina è altamente significativa66. Né si può attribuire questo ruolo a Salomè, che non sente il bisogno di alimentare gli incubi del fratello con altre immagini perturbanti, limitandosi a proporre supplizi più o meno spettacolari per la sua rivale di sempre: Herod: Nay, she shall die. Die, quoth you? That she shall: But for the means. The means! Methinks ‘tis hard To find a means to murder her withal, Therefore I am resolv’d she shall be spar’d. Salome: Why, let her be beheaded. Herod: That were well Think you that swords are miracles like you? Her skin will ev’ry curtl’ax edge refell, And then your enterprise you well may rue [...] Salome: Why, drown her then. Herod: Indeed, a sweet device. Why, would not ev’ry river turn her course Rather than do her beauty prejudice, And be reverted to the proper source? [...] Salome: Then let the fire devour her. Herod: ‘Twill not be: Flame is from her deriv’d into my heart: Thou nursest flame, flame will not murder thee, My fairest Mariam, fullest of desert. (IV, vii, vv. 357-80) 65 Boyd M. Berry, “Feminine Construction of Patriarchy, Or What’s Comic in The Tragedy of Mariam”, Medieval and Renaissance Drama in England, 7 (1995), p. 262. 66 Sulla figura del malcontent si veda C. Mucci, Liminal Personae, cit., in particolare le pp. 143-52. Elizabeth Cary 153 Al primo, embrionale, riconoscimento della straordinarietà fisica e spirituale di Mariam si contrappone il racial slander di Salomè: Your thoughts do rave with doting on the queen. Her eyes are ebon-hued, and you’ll confess: A sable star hath been but seldom seen. Then speak of reason more, of Mariam less. (IV, vii, vv. 453-6) La risposta di Erode è orientata ad esaltare la purezza razziale di Mariam, tanto più evidente se rapportata ai lineamenti marcati e alla carnagione scura di Salomè, che assume un aspetto perfino scimmiesco ogni qual volta si accosta alla figura esile e pallida della regina. Insomma: Salomè è lo sfondo nero su cui si staglia la luminosa icona di un’eroina dotata di straordinari poteri spirituali: Yourself are held a goodly creature here, Yet so unlike my Mariam in your shape That when to her you have approached near, Myself hath often ta’en you for an ape. And yet you prate of beauty: go your ways, You are to her a sun-burnt blackamoor: Your paintings cannot equal Mariam’s praise, Her nature is so rich, you are so poor. Let her be stay’d from death, for if she die, We do we know not what to stop her breath: A world cannot another Mariam buy; Why stay you ling’ring? Countermand her death. (IV, vii, vv. 457-68) Erode è il primo patrocinatore della santità di Mariam, il primo a fare del suo corpo vivo un oggetto di venerazione. La sua parola autorevole fornisce nuovi argomenti in favore della “canonizzazione” di una donna capace di dominare le proprie passioni e preferire il martirio al tradimento dei propri valori spirituali. Tutto il quinto atto è dedicato al racconto della “passione” di Mariam. Elizabeth Cary arricchisce il testo fonte con una serie 154 Capitolo II di dettagli volti ad esaltare l’eroismo cristologico dell’eroina. Il maggiordomo che aveva accusato la regina di aver tentato di avvelenare Erode non regge al peso dei rimorsi e si impicca ad un albero, proprio come Giuda. Diversamente da Josephus, Cary pone molta enfasi sulla scelta del supplizio inflitto a Mariam: la decapitazione. Secondo Margaret Ferguson questa scelta è riconducibile al desiderio di rileggere il destino di Mariam alla luce dei martiri di Mary Stuart, la vittima più illustre della tirannia protestante, e Giovanni Battista, fatto decapitare da Erode Antipa per compiacere Salomè, figlia di Erodiade: “Infused with rich but obscurely coded theological and political meanings, Cary’s play surrounds Mariam’s death with an aura of sanctification altogether absent from Josephus’s narrative”67. Valerie Lucas individua ulteriori significati simbolici nella morte per decapitazione: Although the text never makes this explicit, Herod’s choice of punishment is one particularly befitting a woman who defies patriarchal order. In Puritan preaching, in conduct books such as Dod and Cleaver’s, and in Richard Mulcaster’s, Jean Bodin’s, and Robert Filmer’s discussions of the subject’s relation to his superior, the metaphor of the head ruling the body is used to express the proper relationship of sovereign to subject and of husband to wife. Those who will not be ruled by their rightful head shall lose their own rebellious one68. Nel caso specifico di Mariam queste osservazioni non sembrano del tutto convincenti. Quest’ultima, al contrario di Salomè, non si ribella apertamente al sovrano, abbandona il suo letto ma non mette in discussione la sua autorità e, soprattutto, non pensa mai al divorzio. Piuttosto che “incatenare Erode con un sorriso” (“enchain him with a smile”, III, iii, v. 163) o “imprigionarlo con una parola gentile” (“lead him captive with a gentle word”, 67 Margaret W. Ferguson, “The Spectre of Resistance: The Tragedy of Mariam (1613)”, in David Scott Kastan, Peter Stallybrass (eds.), Staging the Renaissance: Reinterpretations of Elizabethan and Jacobean Drama, New York, Routledge, 1991, p. 245. 68 V. Lucas, op. cit., p. 74. Elizabeth Cary 155 III, iii, v. 164), Mariam smette i panni della dissimulatrice per aprirsi all’uomo che lei stessa ha accompagnato sul trono di Giudea, dopo aver “innestato” il suo ignobile lignaggio nell’albero genealogico della prestigiosa dinastia asmonea così da legittimare e rafforzare il suo diritto ad esercitare la sovranità sul popolo ebraico. In qualità di moglie silenziosa e devota, Mariam ha cercato di seppellire i reati del marito negli strati più profondi della memoria ma la notizia della sua morte ha liberato un flusso di ricordi difficile da arginare. Dopo tanti anni trascorsi nell’angosciante consapevolezza di dovere sempre e in ogni caso accettare e rispettare le scelte del sovrano, Mariam avverte tutto il peso del voluminoso fardello dei torti subiti da Erode – carnefice di Aristobolus e Hircanus – un idumeo torturato dall’idea di aver usurpato il trono e di essere indegno di guidare il popolo eletto. Inquadrato sullo sfondo scuro dei trattati sulla condotta femminile, l’atteggiamento di Mariam appare trasgressivo in quanto caratterizzato da una schiettezza del tutto inappropriata per una donna. Tuttavia, se è vero che questo eccesso di parola le viene contestato a più riprese e che, come sostiene Sohemus, “unbridled speech is Mariam’s worst disgrace” (III, iii, v. 183), è altrettanto vero che nel quarto atto Mariam si pente di essere stata tanto orgogliosa da ricorrere all’arte oratoria per sostenere le sue rivendicazioni: “Had I but with humility been grac’d, / As well as fair I might have prov’d me wise: / But I did think because I knew me chaste, / One virtue for a woman might suffice” (IV, viii, v. 559-62). Va sottolineato, inoltre, che nel quinto atto il suo “eloquio sbrigliato” si spegne in un silenzio impenetrabile. Mariam incassa i rimproveri di Alexandra senza nemmeno tentare di difendersi; sua madre la accusa di aver osato contrariare il sovrano legittimo di Giudea e di non aver osservato il motto “be and seem”, che la stessa Elizabeth Cary aveva fatto incidere sull’anello nuziale della figlia. Ma a ben vedere è proprio questa insofferenza nei confronti della natura finzionale di ogni relazione umana a fare di lei una figura quasi sovrannaturale nella sua determinazione a coltivare virtù che i manuali e i trattati del tempo trascuravano puntualmente, 156 Capitolo II l’onestà e la coerenza. Soltanto con la morte Mariam si affranca dal severo codice di condotta che ha sempre dovuto rispettare. Le ultime parole proferite prima di spirare sono indirizzate proprio a Erode: Nuntio: “Tell thou my lord thou saw’st me loose my breath” Herod: Oh, that I could that sentence now control. Nuntio: “If guiltily, eternal be my death” Herod: I hold her chaste ev’n in my inmost soul. Nuntio: “By three days hence, if wishes could revive, I know himself would make me oft alive”. (V, i, vv. 73-8). Soffermandosi sulla prima asserzione della regina, Maureen Quilligan attribuisce al lessema “loose” un doppio significato. Da un lato, Mariam vuole che il re si confronti con le sue colpe ma, dall’altro, lo spelling del verbo “to lose”, che diventa “loose”, rimanda all’aggettivo inglese per “lento”, “lasco”, “allentato” e denota la maturata consapevolezza, da parte della protagonista, di essersi finalmente liberata dai vincoli imposti dall’Ordine simbolico69. La chiusura del sipario segna la fine della recita e l’inizio di un’esperienza ultraterrena più autentica e profonda; con il martirio si compie un cammino di perfezione verso Dio di cui Erode scorge soltanto ora le tappe fondamentali: “Her excellencies wrought her timeless fall” (V, i, v. 229). La morte per fede si salda con la certezza della resurrezione: “By three days hence, if wishes could revive, / I know himself would make me oft alive” (V, i, vv. 77-8). Nel giro di tre giorni lo spirito di Mariam risorgerà nel cuore del marito; la scelta del martirio è infine confluita nell’assunzione del modello cristologico, mentre la scelta di opporre una resistenza passiva e non (verbalmente) violenta all’autorità patriarcale ha finalmente acquisito sostegno scritturale e valenze archetipiche. L’esecuzione 69 Maureen Quilligan, “Staging Gender: William Shakespeare and Elizabeth Cary”, in James Grantham Turner (ed.), Sexuality and Gender in Early Modern Europe: Institutions, Texts, Images, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 227. Elizabeth Cary 157 pubblica fa del suppliziato un oggetto di pietà e di ammirazione, il corpo straziato del condannato, marchiato dai segni dell’oppressione politica70 e religiosa, disegna la figura simmetrica e inversa del tiranno. Dal momento in cui ordina la separazione del “corpo” sociale dalla testa che lo governa – “Her body is divided from her head” (V, i, v. 90) – Erode perde il controllo politico del regno e vede i lumi della ragione spegnersi in una notte senza fine: “I’ll muffle up myself in endless night, / And never let mine eyes behold the light” (V, i, vv. 247-8). Il supplizio di Mariam e le allusioni alla decapitazione di Giovanni Battista e alla “strage degli innocenti” lasciano una scia di sangue che ingrossandosi trasforma il regno di Giudea nel palcoscenico della violenza sacrilega. Nella sua volontà di potenza Erode assume i tratti del Dio-padre biblico del Vecchio Testamento, severo e implacabile con chi osa trasgredire alle sue leggi. Alla figura “disumana” del tiranno altezzoso e distante, Elizabeth Cary oppone una donna che vuol farsi mediatrice tra il sovrano e il suddito, così da avvicinare l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Dal modello cristologico i Santi e i martiri del cristianesimo ereditano la vocazione a interpellare ogni uomo perché accolga e partecipi al Regno di Dio ripercorrendo in direzione opposta il tragitto intrapreso dal Messia per farsi uomo. Fatte queste premesse, non è azzardato esplicitare il non detto politico e culturale nascosto tra le latenze testuali di The Tragedy of Mariam: al suddito (=figlio; =moglie) che aspira a partecipare alla vita politica e culturale del regno, il sovrano (=padre; =marito), sull’esempio del Dio del Vangelo, dovrebbe sempre tendere una mano, così da stabilire un contatto tra cielo e terra, tra chi detiene il potere e chi, di norma, lo subisce. Grazie ad un’operazione ideologica condotta con sapiente 70 Nell’introduzione all’edizione Penguin di The Tragedy of Mariam, Diane Purkiss scrive: “Mariam’s death is a signifier of tyranny and also a sign that a more just state may ensue. The marks of state power on the body of the martyred were not affirmations of that power, but signifiers of tyranny, an idea deployed by John Foxe on behalf of the Marian martyrs and also by Catholic martyrology” (Three Tragedies by Renaissance Women, Harmondsworth, Penguin, 1998, pp. xxxv-xxxvi). 158 Capitolo II equilibrio, il sogno di partecipare attivamente alla vita pubblica e il desiderio di condividere responsabilità e prerogative maschili si caricano di valenze religiose che danno peso, vigore e profondità storica alle prime, timide rivendicazioni protofemministe espresse da Elizabeth Cary. Bibliografia Testi primari Mary Wroth Lady Mary Wroth, Poems. A Modernized Edition, ed. R. E. Pritchard, Keele, Keele University Press, 1996. Pamphilia to Amphilanthus, ed. Gary Waller, Salzburg, Universität Salzburg, 1977. The Poems of Lady Mary Wroth, ed. Josephine Roberts, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1983. 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C., 91n Baldini, Daniele, 119n Baxter, Nathaniel, 48 Becon, Thomas, 16, 23 Beilin, Elaine, 12, 13n, 26n, 50n, 80n Bembo, Pietro, 53 Bodin, Jean, 122 Boose, Lynda E., 18n, 40n, 98n, 131 Bornstein, Diane, 27n Boyd, Berry M., 152 e n Brennan, Michael G., 27n, 28n Bruni, Leonardo, 14 e n Bruto, Giovanni, 14 Bunyan, John, 81 Burton, Robert, 9n Cairns, Christopher, 115n Calbi, Maurizio, 98n Callaghan, Dympna, 138n Calvino, Giovanni, 106 e n Campion, Thomas, 40 Carey, John, 93n Carlo Stuart, Principe d’Inghilterra, 86 Cary, Catherine, Lady Home, 109 Cary, Elizabeth, The Tragedy of Mariam, 115-58 Cary, Elizabeth Bland, 115 Cary, sir Henry, visconte di Falkland, 30, 106, 107, 108, 112, 114, 124 Cary, Lady Katherine, 107 Cary, Lucius, 25, 107n, 108, 114 Cary, Patrick, 103 Castiglione, Baldassarre, 14 e n Caterina d’Aragona, regina d’Inghilterra, 14 Chapman, George, 47 Chialant, Maria Teresa, 98n Chodorow, Nancy, 143 e n, 144 Cicerone, 13 Giraldi, Giambattista, detto Cinzio, 117 Clancy, T. H., 87n Clark, Stuart, 137n Clarke, Danielle, 27n, 150n Clever, Robert, 135 Clifford, Anne, 24 e n, 25, 42, 71, 107 Colville, Elizabeth, 17, 28 Contini, Gianfranco, 54n Corti, Claudia, 119 Pearse, Nancy Cotton, 113n, 115 e n Coway, Edward, 42 Coverdale, Miles, 16 182 Indice dei nomi Cressy, David, 13n, 17 e n Croft, P. J., 37n Daniel, Samuel, 27, 28, 40, 71, 116 Dante Alighieri, 48, 53, 56n, 57, 62 Davies, John, di Hereford, 115 Davies, sir John, 28, 32, 34 Davies, Marion W., 36n Davy, Jacques (Cardinal du Perron), 29, 113 de Caesari, Cesare, 117 De Maio, Roberto, 19n Denny, Edward, barone di Waltham, 45, 46, 47 Denny, Honora, 45 Desaive, Jean-Paul, 94n Dewald, Jonathan, 122 e n Dionigi, re di Portogallo, 111 Dod, John, 135 Donne, John, 44, 89, 90 e n, 92, 93 Dragstra, Henk, 36n Drayton, Michael, 27, 71 Drummond, William, di Hawthornden, 24 Dubrow, Heather, 49n, 64 e n, 74n Duby, Georges, 13n, 17n, 39n, 94n Dudley, Jane, 17, 28 Dulong, Claude, 17n Elam, Keir, 119 Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 10 e n, 12n, 14, 15, 16, 25, 29, 34, 36n, 48, 50, 52, 73, 87, 88, 93, 95n Elisabetta di Portogallo, Santa, 110, 111 Elisabetta Stuart, Elettrice Palatina, 48 Enrichetta Maria di Francia, 29, 86n, 113 Elyot, sir Thomas, 14 Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra, 14, 38n Erasmo da Rotterdam, 123 e n Ernst, Germana, 80n, 123n Erode il Grande, 124 e n, 125 e n, 126 Erode Antipa, 125, 126, 154 Erode Filippo, 125 Euripide, 116 Farabaugh, Robin, 63n Farge, Arlette, 13n Farmer, D. H., 111n Fawkes, Guy, 86 Ferguson, Margaret W., 21n, 30n, 103 e n, 104n, 105n, 109n, 113n, 116n, 122, 154 e n Fienberg, Nona, 42n, 62n Filmer, Robert, 21, 136 e n Filone Alessandrino, 19 Fincham, K., 86n Firpo, Luigi, 124n Fischlin, Daniel, 15n Fisken Wynne, Beth, 27n Fletcher, Anthony, 18n Forster, Leonard, 58n Foucault, Michel, 20n Francesco I di Francia, 106 Francesco di Sales, santo, 135 Gajano, Sofia B., 109n, 112n, Galeno, 18 Garnier, Robert, 27, 115 e n, 116, 117, 119, 120, 121 Genette, Gérard, 44 e n Gentili, Vanna, 53n Gesù Cristo, 30, 93, 110, 111, 126, 135 Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 10, 12n, 17, 18, 20n, 21, 29, 30, 38, 39, 40 e n, 46, 47, 48, 73, 79, 81, 85, 86 e n, 87, 88, 93, 94, 100, 101, 108, 136 Giovanni Battista, 125, 126, 154, 157 Giovanni di Salisbury, 123 Giovanni, evangelista, 126 Giuseppe Flavio, 124 e n, 125n, 126 Goad, Thomas, 30 Godayol, Pilar, 26 e n Gohrbandt, Detlev, 58n Goldberg, Jonathan, 21n, 140n, 148 e n Gosset, Suzanne, 114 e n Gouge, William, 22, 23, 135 e n Indice dei nomi Gowing, Laura, 96n, 132 e n Greenblatt, Stephen, 57n, 75n, 82n, 122n Greville, Fulke, 86, 116 Griffith, Matthew, 22 Grismond, John, 43, 50, 101 Grymeston, Elizabeth, 31 Grossman, Marshall, 25n Guazzo, Stefano14 e n Hall, Kim, 97 e n, 130 Hay, James, 45 Hayward, John, 90n Hendricks, Margo, 40n, 97n, 139n Hannay, Margaret P., 27n, 28n, 36n Hanson, Elizabeth, 88 e n Haskin, Dayton, 90n Hawkins, John, 95n Herbert, Mary Sidney, contessa di Pembroke, 17, 25, 26, 27 e n, 28, 33, 36, 37, 38n, 46, 97, 107 e n, 115, 116, 117, 118n, 119 e n, 120, 121, 124 Herbert Vere, Susan, contessa di Montgomery, 42, 44, 71 Herbert, William, conte di Pembroke, 31, 37, 39, 41, 42, 50, 52, 72, 90 Hill, Christopher, 11 e n Holmes, Martin, 24n Houlbrooke, Ralph, 22 e n Howard, Henry, conte di Surrey, 52, 84 Howe, Florence, 103n., Hufton, Olwen, 18, 19n, 23n, 39n Hunt, Marvin, 96n Hutson, Lorna, 14n, 19, 96n Hyrde, Richard, 14 Ingram, Martin, 21n, 137n Innocenti, Loretta, 12n Ippocrate, 18 Ives, E. W., 87n Iwanisziw, Susan B., 134 Joceline, Elizabeth, 30 Jodelle, Étienne, 117 183 Jones, Ann Rosalind, 14n Jones, Eldred D., 95n Jones, Inigo, 39 Jonson, Ben, 24, 28, 32, 48, 74, 79, 94, 96, 99 Jordan, Constance, 15n, 16n Kahn, Coppélia, 141n, 142n Kantorowitz, Ernst, 15n Kastan, David S., 154n Katinis, Teodoro, 80n Kennedy, Gwynne, 149n, 150n Kenyon, J. P., 87n Kermode, Jenny, 137n King, Margaret L., 22n King, Sigrid, 59n, 72n, 114n Kinnamon, Noel J., 27n Knox, John, 14, 15n Krontiris, Tina, 25n, 34n Lake, P., 86n La Rocca, S. J., 86n Lamb, Mary, 30n Lamphere, L., 127n, 143n Landi, Giulio, 116 Lanyer, Aemilia, 25, 29, 33, 97 Lausberg, Heinrich, 65n Lazard, Madeleine, 115n Lefèvre d’Étaples, Jacques, 28 Leigh, Dorothy, 31 Leonardi, C., 110n Lewalsky, Barbara K, 26n Lodge, T., 124n Loomie, A. S., 86n Lotman, Jurij M., 82 e n, 92n Luca, evangelista, 110, 126 Lucas, Valerie, 115n, 154 e n Lumley, Jane, 116 Lutero, Martin, 10n, 122, 135 Macarthur, Janet, 33n, 60n, 92n Macfarlane, Alan, 21n Maclean, Ian, 19n, 129n Margherita d’Angoulême, regina di Navarra, 28, 29 Maria, Infanta di Spagna, 86 Maria Maddalena, Santa 110, 111 184 Indice dei nomi Maria Stuart, regina di Scozia, 154 Maria I Tudor, regina d’Inghilterra, 10n Marot, Clément, 28 Marotti, Arthur F., 91n Marriot, John, 43, 50, 101 Marston, John, 99 Masten, Jeff, 50 e n, 88n, 101 Matteo, evangelista, 125, 126 Melchiori, Giorgio, 71n Miller, Naomi, 24n, 27n, 42n, 71 e n, 84 e n, 132n Milton, A., 86n Milton, John, 134n Mocket, Richard, 136 Montrose, Louis, 15, 56 e n Moore, Mary, 56n, 65, 66n, 68 e n, 72n More, Ann, 90, 93 More, sir George, 91n More, Thomas, 14, 22 Mornay, Philippe du Plessis de, 27 e n Mortara Garavelli, Bice, 65n Mucci, Clara, 15n, 18n, 78n, 98n, 134, 137n, 152n Mulcaster, Richard, 13 Neely, Carol T., 141 e n Nerone, imperatore, 49 Newman, Karen, 134 North, sir Thomas, 117 Norris Vere, Bridget, 42 Omero, 47 Orgel, Stephen, 12 e n, 17n, 25 e n, 141n, 142n Ortelius, Abraham, 106 Ortner, Sherry B., 127 e n, 140n Ottway, Sheila, 36n Pacheco, Anita, 50n Paolo di Tarso, 19 Payne, Paula H., 72n, 78n Palombi Castaldi, Anna Maria, 40n Pamphilia, 49 Parker, Patricia, 40n, 97n, 139n Parker, Tom, 45 e n Parr, Katherine, 25, 26, 34 Partner, Peter, 106n Paulissen, May Nelson, 58n, 68n Peck, L., 86n Percy, Dorothy, 42 Perrot, Michelle, 13n, 17n, 39n, 94n Peterson, Douglas L., 91n Petrarca, Francesco, 27, 48, 53, 54 e n, 55, 56n, 57, 61, 62 Petrs, R., 86n Pico della Mirandola, Giovanni, 13 Pietro III di Aragona, 111 Pistorelli, Celso, 117 Plauto, 13 Plutarco, 13, 117 Purkiss, Diane, 157n Questier, C., 86n Quilligan, Maureen, 21n, 90n, 156 e n Rabelais, François, 28 Ralegh, sir Walter, 28, 36, 86 Randall, Martin, 28n Ricci, Carla, 110n Ricciardi, A., 110n Rich, Penelope Devereux, 32, 42 Rich, Isabella, 42, 71 Rich, Robert, 42 Ridley, M. R., 119n Riffaterre, Michael, 70n Roberts, Josephine, 33n, 36n, 39n, 43n, 46n, 47, 49 Rosaldo, M. Z., 127n, 143n Sackville, Richard, 24 Sasso, Giampaolo, 59n Schabio, Saskia, 58n Schiffer, James, 96n Schwartz, Murray M., 141n, 142n Seneca, 13, 106 Serpieri, Alessandro, 60n, 71n, 119n, 138n Shakespeare, William, 48, 57, 59, 60n, 62, 63 e n, 70n, 72, 93, 96, 117, 119 e n, 120n, 140 Shannon, Laurie J., 117, 118n Indice dei nomi Sharpe, James, 22 e n Shyllon, Folarin, 95n Sidney, Barbara Gamage, 36, 38n Sidney, sir Philip, 27, 31, 32, 33, 36, 37, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53 e n, 54, 55, 57, 60, 63, 67, 68, 69, 71, 74, 75, 76, 78, 86, 107, 118, 124 Sidney, Robert, 36, 37, 38, 39, 42, 52, 107 Simpson, Richard, 103 Skura, Meredith, 25n, 104n, 112n Smith, Rosalind, 47 e n, 82n, 85n Sonnet, Martin, 13n Speckman, Thomas, 39 Speght, Rachel, 25, 26n Spenser, Edmund, 27, 28, 52, 68, 71, 74 Stallybrass, Peter, 21n, 154n Stanco, Michele, 120n Stevenson, John, 18n Stone, Lawrence, 21n, 22 Sundelson, David, 142 e n Sylvester, Joshua, 43 Symondes, Elizabeth, 104, 105, 106 Tanfield, Lawrence, 104, 105, 106, 107, 108 Teresa d’Avila, santa, 28 Tertulliano, 19 Tilney, Edmund, 22 Tommaso d’Aquino, 19 Travitsky, Betty, 17n Turner, James G., 156n Tyndale, William, 81, 122 Underdown, Davis, 18n Verzella, Massimo, 30n 185 Vickers, Nancy J., 21n Villeponteaux, Mary, 59n, 64n Villiers, George, duca di Buckingham, 46, 47, 108 Vives, Juan Luis, 14, 23, 108, 136 von Lutz, Bruno, 58n Walker, Garthine, 137n Walker, Kim, 140n Wall, Wendy, 31 e n Waller, Gary, 27n, 36n, 42 e n, 52 Weber, Kurt, 107n Webster, John, 78n, 99 Weller, Barry, 30n, 104n, 105n, 113n, 116n Wilcox, Helen, 36n Wither, George, 47 Wilson, Katharina M., 13 e n, 26n, 36 Woods, Susan, 25n Wroth, James, 40 Wroth, John, 41 Wroth, Mary Sidney, Pamphilia to Amphilanthus: P 68, 54; P 53, 57-8; P 24, 59-60; P 1, 61-6; P 22, 66-72; P 45, 76-8; P 46, 78-9; P 78, 79-82, P 10, 82-4; P 26, 84-5; P 44, 87, 89; P 17, 89; 92; P 48, 94; P 77, 97; P 25, 99-102; Urania, 43-8 Wroth, sir Robert, 33, 38, 39, 40, 41 Wyatt, sir Thomas, 52 Yates, Frances A., 48n Zarri, G., 110n Zemon Davies, Natalie, 13n, 137n Studi di Anglistica collana diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni 1. Topografie per Joyce a cura di Leo Marchetti 2. The Poetry of Matthew Arnold Renzo D’Agnillo 3. La letteratura vittoriana e i mezzi di trasporto: dalla nave all’astronave a cura di Mariaconcetta Costantini, Renzo D’Agnillo, Francesco Marroni 4. Great Expectations: nel laboratorio di Charles Dickens a cura di Francesco Marroni 5. John Ruskin: ricerca estetica e mito di Venezia Michela Marroni 6. “Hid as worthless rite” Scrittura femminile nell’Inghilterra di re Giacomo: Elizabeth Cary e Mary Wroth Massimo Verzella Finito di stampare nel mese di aprile del 2007 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma CARTE Copertina: Digit Linen 270 g/mq Interno: Usomano bianco Selena 80 g/mq Allestimento: legatura a filo di refe / brossura