Studi di Anglistica
collana diretta da
Leo Marchetti e Francesco Marroni
A10
129/6
6
Volume pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie
dell’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara
Massimo Verzella
“Hid as worthless rite”
Scrittura femminile
nell’Inghilterra di re Giacomo:
Elizabeth Cary e Mary Wroth
ARACNE
Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1126–3
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2007
Indice
Ringraziamenti
7
Introduzione
1. Contesto storico e culturale: l’Inghilterra elisabettiana e
giacomiana
2. I riformatori e il dibattito sul ruolo della donna
3. Spazi di manovra e vie di accesso all’autorialità
4. The stigma of print
9
16
23
31
Capitolo I
Mary Wroth
1.1 Dalla corte al cenacolo di Penshurst
1.2 L’opera e la ricezione
1.3 Pamphilia to Amphilanthus e la convenzione petrarchesca
1.4 L’esordio. Il sonetto proemiale
1.5 Il sonetto 19 (P 22)
1.6 La critica alla corte e l’affermarsi del credo protestante
1.7 Alterità e diversità perturbanti e sovversive
35
43
48
61
66
73
93
Capitolo II
Elizabeth Cary
2.1 Essere e sembrare
2.2 Una efficace metafora politica
2.3 I tortuosi percorsi dell’assertività
2.4 Tirannia patriarcale e strategie di resistenza
2.5 Mothers on top
2.6 Il ritorno del padre e il martirio di Mariam
103
115
126
133
140
146
Bibliografia
159
Indice dei nomi
181
Ringraziamenti
Il presente lavoro nasce nell’ambito del corso di Dottorato di
Ricerca in Anglistica dell’Università degli studi “G. d’Annunzio”
di Chieti-Pescara. Condotta prevalentemente presso la Senate
House Library e la British Library di Londra, l’attività di ricerca
sul tema della scrittura femminile nell’Inghilterra elisabettiana e
giacomiana è proseguita oltre i tre anni del dottorato grazie a un
assegno di ricerca ottenuto presso il Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie. Innanzi tutto desidero ringraziare il Prof. Nicola Mattoscio che, quale Presidente della fondazione Pescarabruzzo ha cofinanziato l’assegno di ricerca, consentendomi di proseguire le mie ricerche e perfezionarne gli esiti, e il Prof. Andrea
Mariani che, come Direttore del Dipartimento, non mi ha mai fatto
mancare l’appoggio e il sostegno di cui avevo bisogno.
Questo libro non sarebbe nato senza lo stimolo intellettuale, i
suggerimenti e la costante partecipazione di Clara Mucci che ha
seguito il lavoro sin dalle prime fasi di elaborazione, contribuendo al suo sviluppo con la sua lettura attenta e i suoi preziosi consigli. Il ringraziamento più grande va a Francesco Marroni, Direttore della Collana “Studi di Anglistica” e Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Anglistica. Devo al suo rigore intellettuale, alle
sue doti umane e alla sua generosa fiducia nei confronti dei giovani ricercatori l’entusiasmo con cui ho affrontato i miei studi e
lo slancio con cui ho superato le difficoltà incontrate. Alla sua
figura di appassionato e studioso dagli interessi poliedrici va la
mia stima e il mio affetto. Vorrei anche esprimere la mia riconoscenza ai Proff. Michael Hattaway e Alessandro Serpieri, per i
loro illuminanti seminari sulla drammaturgia e sulla poesia elisabettiana e giacomiana. A loro devo molte delle intuizioni e delle
idee qui confluite. Altrettanto grato sono ai docenti e ai colleghi
del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie per
8
Ringraziamenti
l’attenzione che hanno dimostrato nei confronti del mio progetto
e per aver appoggiato questa pubblicazione. Infine, un pensiero
speciale per Stefania, compagna di sempre, e per la mia famiglia.
Introduzione
1. Contesto storico e culturale: l’Inghilterra elisabettiana e
giacomiana. Le prime scrittrici inglesi a dare alle stampe le loro
opere originali sono Mary Sidney Wroth ed Elizabeth Cary. La
prima pubblica un volume contenente il poema Urania e la raccolta di sonetti Pamphilia to Amphilanthus (Londra, 1621), la
seconda un closet drama di argomento storico, The Tragedy of
Mariam (Londra, 1613). Dal momento in cui ci si accosta ai loro testi viene da chiedersi in che modo la carica eversiva di un
tipo di scrittura altro rispetto all’ordine patriarcale vigente sia
stata incanalata nei circuiti culturali dell’Inghilterra giacomiana.
L’accesso alle biblioteche di famiglia aveva aperto davanti alle
due scrittrici uno spettro disordinato di possibilità, per controllare il quale era necessario autodisciplinarsi mediante il ricorso
a mediazioni simboliche che stabilizzassero turbolenti vissuti
interiori. Se di fronte alle pressanti imposizioni di padri, mariti e
amanti, Elizabeth Cary e Mary Wroth non esitarono a far sentire
le loro voci dissenzienti, sulla pagina bianca il loro urlo iconoclasta era destinato a perdersi in una serie di significanti, topoi e
dispositivi retorici che il soggetto rinascimentale attinge dalla
Bibbia e dal pensiero greco-romano al fine di riordinare, mediante rigide metadescrizioni, idee e paradigmi che hanno acquistato eccessiva indeterminatezza. Nell’angusta cornice del
sonetto petrarchesco, norma poetica elaborata nell’ambito della
cultura maschile, l’insofferenza della Wroth nei confronti di un
amante indeciso e incostante si stempera nel lamento1, nella
stoica accettazione della mancanza e della privazione. Similmente, il ribellismo di Elizabeth Cary, filtrato nelle convenzioni
1
Proprio nel 1621 Robert Burton pubblicava The Anatomy of Melancholy,
esame scientifico di varie perturbazioni mentali che ribadisce come nella donna la depressione sia di natura fisiologica.
10
Introduzione
del closet drama di stampo senechiano, si trasforma in una più
accettabile vocazione al martirio della sua controfigura finzionale, Mariam. Solo rovistando tra le omissioni, le esitazioni e le
parole perdute che gravitano intorno ai versi di Pamphilia to
Amphilanthus e The Tragedy of Mariam è possibile recuperare
frammenti di un discorso potenzialmente sovversivo e destabilizzante. Tra le ordinate planimetrie metrico-ritmiche disegnate
da Elizabeth Cary e Mary Wroth una complessa partitura di latenze testuali segnala la presenza di pensieri e idee che scorrono
nei sotterranei di un mondo simbolico la cui capacità di generare strutturalità è continuamente minacciata dai vorticosi cambiamenti socio-politici innescati, almeno in parte, dalla riforma
protestante e dallo sviluppo dell’economia di mercato. La connessione tra un fenomeno culturale quale il rilancio dell’etica
intramondana del protestantesimo e un fenomeno economico
quale la nascita del capitalismo moderno induce a interpretare il
destino delle donne inglesi del XVI e del XVII secolo alla luce
del ruolo che erano “chiamate” a svolgere all’interno della comunità, quello di mogli e madri dedite alla gestione della household e all’allevamento dei figli2.
L’Inghilterra di Elisabetta e Giacomo I è un cantiere sempre
aperto in cui ogni progresso dei lavori rende necessaria la revisione dell’intero progetto. La chiusura dei monasteri (560 istituzioni monastiche soppresse tra il 1536 e il 1539), l’aumento
demografico (nel corso del XVI secolo la popolazione di Londra quadruplicò), lo sviluppo dell’industria tessile e la politica
delle enclosures avevano sradicato la popolazione rurale dalle
campagne e trasformato contadini, braccianti, giardinieri, vedove e donne sole in furfanti, vagabondi e prostitute costretti a ri-
2
Il singolo, secondo Lutero, è tenuto a conservare il suo stato, ad accettare
la condizione che Dio gli ha assegnato (mediante l’atto che Lutero denomina
“Beruf”, tradotto in inglese con il termine “calling”) e limitare le sue aspirazioni terrene e i suoi sforzi entro i limiti di questa rigida posizione. Scorgere
interstizi di libertà in questa teoria sociale costituisce l’arduo compito di cui si
fecero carico le donne più colte e potenti del secolo, a partire da Maria la cattolica ed Elisabetta I.
Introduzione
11
fugiarsi in una Londra sempre più caotica e sovrappopolata3.
Per soddisfare il bisogno alimentare della grande città era necessaria un’agricoltura di tipo avanzato; di qui l’importanza di
investire capitali nella coltivazione di appezzamenti di terreno
estesi e recintati. Allo stesso tempo lo sviluppo dell’industria
tessile determinava una sempre maggiore richiesta di lana, pertanto si imponeva l’urgenza di procedere alla recinzione delle
terre incolte da destinare al pascolo. Il processo è circolare: il
boom dell’industria tessile incoraggiava le recinzioni e quindi
gli sfratti che innescavano a loro volta l’onda migratoria verso
la capitale, con conseguente aumento del fabbisogno alimentare. Il tasso di crescita della popolazione urbana diventò presto
superiore al surplus agricolo, il che spiega la crescita
dell’inflazione (il livello generale dei prezzi aumentò di cinque
volte fra il 1530 e il 1640) e il conseguente innalzamento della
soglia di povertà4. Le bande mobili e confuse di mendicanti, vagabondi e disoccupati costretti a dipendere dal lavoro salariato
andavano smembrate e addestrate onde ridurre l’entropia
dell’intera struttura sociale. Di qui il susseguirsi di interventi
legislativi quali il decreto del 1531 che distingueva fra vagabondi abili al lavoro, a cui sono imposte dure pene, e poveri inabili (cui è concesso di mendicare), e la legge sul vagabondaggio del 1572, rinnovata, con qualche emendamento, nel
1597 (Act for Punishment of Rogues). Di qui, ancora, la produzione di un corpus di descrizioni e classificazioni destinate a
puntellare la scricchiolante impalcatura delle distinzioni di rango e status, appesantita altresì dal prosperare dell’emergente ceto mercantile. In particolare, furono le leggi suntuarie a favorire
il mantenimento delle differenze di classe anche se, come osserva Christopher Hill, “la frequente remissione di proclami in
materia è la dimostrazione evidente del venir meno di questo
simbolo di una società statica e gerarchica”5. In cima alla pira3
Cfr. Christopher Hill, La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al
1780, Torino, Einaudi, 1977.
4
Ibid., p. 68.
5
Ibid., p. 48.
12
Introduzione
mide sociale il sovrano godeva ancora di una visibilità privilegiata e sfruttava l’impatto simbolico di rituali pubblici quali
l’incoronazione, i funerali e altre cerimonie di sottomissione per
imporre la sudditanza come necessario correlativo del diritto
divino del Principe. Il fenomeno più rilevante ed esplicito di
questa fenomenologia della presenza visibile è lo sviluppo del
masque di corte le cui allegorie, come sostiene Stephen Orgel6,
sono sempre mirate a giustificare il potere che celebrano. Attraverso la rappresentazione teatrale il potere regale si mostrava,
creava la propria iconografia e ostentava la propria autorità in
modo da suggestionare il suddito\spettatore e piegarlo
all’ubbidienza e alla venerazione del corpo politico.
Tuttavia, l’esigenza di formulare un nuovo ordinamento disciplinare che si raccordasse con i principi basilari della riforma
protestante e con l’emergente economia protocapitalistica – i
due fenomeni, come si è detto, sono da ritenersi collegati – non
passava solo attraverso l’affermazione del potere regale, essendo legata al controllo di un ulteriore elemento instabile della società inglese rinascimentale: l’espressività femminile. La campagna di alfabetizzazione, sostenuta dalla Chiesa protestante e
dagli umanisti del Cinquecento al fine di sottrarre le donne da
uno stato di estraneità socioculturale e portarle, mediante
l’imposizione di modalità di ragionamento tipiche della comunità patriarcale, verso uno stato di integrazione e appartenenza
sociale che le allontanasse dal peccato e dalle tentazioni, rappresentò un importante fattore di trasformazione sociale. Così
Elaine Beilin:
6
Stephen Orgel, The Illusion of Power: Political Theater in the English
Renaissance, Berkeley, Los Angeles and London, University of California
Press, 1975, pp. 37-58. Laddove Elisabetta amava apparire in pubblico in occasione di cerimonie, feste e funerali, Giacomo sfruttava il masque come
strumento di propaganda politica. Sui rapporti tra teatro e potere si vedano
inoltre Loretta Innocenti, Il teatro elisabettiano, Bologna, Il Mulino, 1994, pp.
307-52 e Lucia Abbamonte, “Teatro e propaganda politica nel ’600 inglese”,
Critica Letteraria, 59 (1988).
Introduzione
13
To men and perhaps to some women, a woman’s desire for knowledge
was a frightening prospect, recalling images of Eve’s hand reaching
for the apple. But by claiming that learning would increase a woman’s
virtue (her chastity, obedience, humility), the Humanists and their
successors reassured society that a woman’s knowledge was under
control and directed only to enhancing her womanliness7.
Le osservazioni di Pico della Mirandola e altri umanisti riguardo alla dignità dell’essere umano e al valore della sua esperienza nella dimensione terrena hanno effetti positivi nella rivalutazione della donna e nel riconoscimento del contributo che può
dare all’uomo nella sua ricerca dell’ideale. Verso la fine del
XVI secolo educatori umanisti come Richard Mulcaster e Roger
Ascham cominciavano a formulare i primi programmi di scolarizzazione per le fanciulle inglesi di ceto medio-alto, incentrati
sulla lettura di testi devozionali e di classici come Plauto, Cicerone, Seneca e Plutarco. Tuttavia, se i curricoli rinascimentali
per uomini e donne andavano gradualmente confondendosi, almeno in seno alle classi sociali più elevate, le uniche davvero
interessate al processo di rinnovamento rappresentato
dall’Umanesimo8, gli obiettivi dell’educazione rimanevano profondamente diversi, come sottolinea Katharina M. Wilson: “For
men, the goals of education were almost invariably public; for
women, private”9. Nel caso della donna l’azione educativa non
era finalizzata alla trasmissione di saperi e conoscenze bensì alla formazione del carattere etico di mogli, madri e fanciulle.
7
Elaine Beilin, Redeeming Eve: Women Writers of the English Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 21-2. David Cressy,
Literacy and the Social Order: Reading and Writing in Tudor and Stuart England, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 3, “Literacy was singled out as a tool for godliness, a weapon against anti-Christ, an essential
component in leading a proper Christian life”.
8
Nell’Inghilterra del XVII secolo il 90 % delle donne non sapeva nemmeno scrivere il proprio nome. Cfr. D. Cressy, op. cit., p. 41.
9
Katharina M. Wilson (ed.), Women Writers of the Renaissance and Reformation, Athens and London, University of Georgia Press, 1987, p. XVIII; si
veda anche Martine Sonnet, “L’educazione di una giovane”, in Georges Duby
e Michelle Perrot, Storia delle donne, Vol. III, Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davies e Arlette Farge, Bari, Laterza, 1991.
14
Introduzione
Laddove la cultura maschile era proiettata all’esterno, quella
femminile era proiettata all’interno, orientata al “saper fare” più
che al sapere. Ad ogni essere umano doveva essere impartita
un’educazione appropriata al rango di appartenenza, la “somministrazione” di conoscenza variava a seconda del sesso e della condizione sociale dell’allievo.
In un trattato sull’educazione della figlia di Battista Montefeltro Malatesta, Leonardo Bruni si dimostra favorevole
all’istruzione femminile ma sconsiglia alla donna lo studio della
retorica – inutile vista l’incompetenza nel foro – e censura
l’ostentazione pubblica dell’erudizione. Nel trattato La institutione di una fanciulla nata nobilmente, Giovanni Bruto associa
la fama letteraria al vizio e alla licenziosità, sostenendo che la
rocca, il fuso, l’ago e il ditale, piuttosto che la penna, sono gli
strumenti che un donna onesta e virtuosa deve saper maneggiare. Tra le pagine de Il Cortegiano (1528, tradotto in inglese nel
1561) affiora un profilo della dama di corte alquanto contraddittorio: una discreta preparazione culturale nei campi dell’arte,
della musica e della letteratura, non disgiunta da una certa abilità nel conversare, devono essere abbinati, secondo Baldassarre
Castiglione, a un atteggiamento sempre umile e dimesso10.
Nell’ottica di umanisti come Juan Luis Vives – scelto da Caterina D’Aragona come precettore della figlia avuta da Enrico
VIII (Mary) – Thomas More, Richard Hyrde e Thomas Elyot, la
donna doveva ritenersi esonerata dall’esercizio di funzioni pubbliche e politiche, la sua voce poteva risuonare solo tra le pareti
domestiche. Perfino Elisabetta I fu costretta a difendersi dagli
attacchi di chi, sull’esempio di John Knox (The First Blast against the Monstrous Regiment of Women, 1558), giudicava innaturale e “mostruoso” il governo di una donna. A costoro la
reggente rispose in questi termini: “[A] woman may rule as a
10
Sulle disquisizioni degli umanisti italiani Bruni, Guazzo, Castiglione
ecc. si veda l’interessante articolo di Ann Rosalind Jones, “Renaissance Gender Ideologies and Women’s Lyric”, in Lorna Hutson (ed.), Feminism and
Renaissance Studies, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 317-36.
Introduzione
15
magistrate, yet obey as a wife”11. Questa descrizione di sé come
persona mixta, ovvero come una donna capace di affrancarsi
dalla sua natura infida e troppo “fluida” (body natural) nel momento in cui è chiamata a regnare sul popolo inglese, va ricondotta al suo desiderio di farsi icona degli ideali della purezza e
della costanza, body politic etereo e immortale. Semper eadem è
il motto che Elisabetta scelse per indicare la sua natura immutabile, incorruttibile e proteiforme, ottenuta, come osserva Louis
Montrose, “[B]y fashioning herself into a singular combination
of Maiden, Matron, and Mother”. Piuttosto che perdere potere e
autorità a tutto vantaggio di un marito arrogante e ambizioso,
Elisabetta aveva preferito sposare la nazione per dedicarsi alla
cura dello Stato come una madre si occupa della cura dei figli.
Si trattava di una scelta molto coraggiosa se pensiamo che perfino i protestanti che avevano sponsorizzato la sua ascesa al trono preferivano la castità matrimoniale al celibato:
For the subjects of Mary I and Elizabeth I, the problem of the authority of a married queen regnant was particularly urgent. What was her
authority to be with respect to her husband, her social and political superior? [...] Elizabeth’s answer – to remain unmarried – gave her unchallenged authority but was unsatisfactory in other ways. A virgin
queen regnant circumvents the political problem of uxorial subordination but she also creates a dynastic problem in failing to leave an heir.
11
Citato in Clara Mucci, Il teatro delle streghe, Napoli, Liguori, 2002, p.
69. Daniel Fischlin riporta un’altra importante affermazione della regina: “I
know I have the body of a weak and feeble woman, but I have the heart and
stomach of a King, and of a king of England too” (“Political Allegory, Absolutist Ideology, and the ‘Rainbow Portrait’ of Queen Elizabeth I”, Renaissance
Quarterly, 50, 1, Spring 1997, pp. 175-205, p. 180). Sulla ambigua posizione
giuridica e politica del female prince e, in particolare, sulle teorie di John
Knox cfr. Constance Jordan, “Women’s Rule in Sixteenth-Century British
Political Thought”, Renaissance Quarterly, 40, 3 (1987), pp. 421-51.
Sull’opposizione body politic-body natural si veda Ernst Kantorowitz, The
King’s Two Bodies: A Study of Medieval Political Theology, Princeton,
Princeton University Press, 1957 e Mary Axton, The Queen’s Two Bodies:
Drama and the Elizabethan Succession, London, Royal Historical Society,
1977.
16
Introduzione
A Protestant virgin queen regnant represents a further anomaly, in that
for Protestants married chastity is to be preferred to celibacy12.
Un altro motto della regina era video e taceo, una scelta di condotta solo apparentemente in linea con le prescrizioni maschili.
In realtà, l’imperscrutabilità dello sguardo della regina, unito
all’ambigua potenza dei suoi silenzi, denotavano astuzia e capacità di giudizio e contribuivano a rafforzare un’autorità che si
nutriva del rispetto dei sudditi, incantati al cospetto di una figura ibrida e misteriosa, tanto femminile nell’aspetto quanto determinata, fredda e “virile” nel governo del paese. Vedremo in
seguito in che modo Mary Sidney Wroth ed Elizabeth Cary assimilarono la lezione di Elisabetta, facendo della costanza e
dell’anelito all’indipendenza i capisaldi etici della loro condotta
di vita oltre che i motivi ipogrammatici delle loro opere.
2. I riformatori e il dibattito sul ruolo della donna. Oltre al
nutrito stuolo di umanisti, un altro gruppo di innovatori si interessava al problema dell’istruzione femminile. Tra i riformatori
spiccano Thomas Becon (1512-1567) e Miles Coverdale (14881569), concordi nel ribadire la necessità che le donne acquisissero conoscenze utili al governo della casa e all’educazione dei
figli. La Riforma luterana e calvinista incrinava l’assolutezza
delle strutture religiose e sociali attraverso due nodi fondamentali che interessano molto le donne: il sacerdozio universale dei
credenti e l’insegnamento impartito al popolo. Un miglior livello di istruzione avrebbe consentito a tutti di assorbire la nozione
secondo la quale la vocazione al matrimonio è inscritta nella natura stessa dell’essere umano che, grazie alla fede, può conoscere e vivere pienamente tale dimensione. Mediante il patto nuziale, sostenevano teologi e predicatori nei domestic conduct books, la famiglia diventa una “chiesa domestica” governata dal
patriarca. Acquisiti gli strumenti linguistici per una lettura personale dei testi sacri, non poche donne provenienti dai ceti più
privilegiati, vincendo ostracismo e dimostrazioni di ostilità,
12
C. Jordan, op. cit., p. 426.
Introduzione
17
prendono parte attivamente – con la predicazione e l’attuazione
dei consigli evangelici – al dibattito teologico del tempo e al
processo di conversione delle masse. Attraverso la traduzione di
testi sacri13 e la stesura di manuali devozionali ad uso di altre
donne, Lady Jane Dudley, Lady Elizabeth Colville e Mary Sidney Herbert esercitano il ministero della parola, annunciano e
diffondono il Verbo, acquistano visibilità e autorità nella sfera
pubblica14.
Se da un lato la moglie istruita offriva al proprio marito una
migliore compagnia, dall’altro si rese presto necessario circoscrivere lo spazio culturale concesso alle donne. Come osserva
David Cressy, l’alfabetismo era un’arma a doppio taglio “which
could lead to depravity as well as godliness, to dissipation as
well as to practical improvement”15. Non pochi puritani condannavano le “bizzarre fantasie” della stampa popolare tesa a
corrompere menti e indurre al vizio e all’ozio. Inoltre, l’idea che
l’accesso alla cultura e la padronanza dell’arte oratoria potessero incoraggiare le donne a usurpare certe prerogative maschili
generava ansie e turbamenti che trovano puntuale codificazione
nei pamphlets, nelle prediche, nei sermoni e perfino nelle proclamazioni reali. Nel 1620 Giacomo I raccomandò al clero londinese di condannare l’insolenza delle donne inglesi stigmatizzando in particolare il fenomeno del cross-dressing, la manifestazione più “teatrale” di una crescente inclinazione a violare le
prescrizioni relative al ruolo e alla condotta femminile16. Dietro
la scelta di assumere sembianze maschili c’era tutto il desiderio
di impadronirsi della propria vita scegliendo in autonomia i percorsi da intraprendere.
Con l’accesso al sapere arrivò la consapevolezza dei soprusi
subiti dalle donne e si moltiplicarono i motivi di conflitto
13
Betty Travitsky, The Paradise of Women, New York, Columbia University Press, 1989, p. 9.
14
Cfr. Claude Dulong, “Dalla conversazione alla creazione”, in G. Duby e
M. Perrot, op. cit., pp. 422-6.
15
D. Cressy, op. cit., p. 43.
16
Cfr. Stephen Orgel, Impersonations: The Performance of Gender in
Shakespeare’s England, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 26.
18
Introduzione
all’interno delle pareti domestiche. Nel registrare un aumento
esponenziale dei casi di ribellismo femminile, titoli come The
Cruel Shrew, Hic Mulier e The Arraignment of Lewd, Idle,
Froward and Uncostant Women (ristampato più volte proprio
nel periodo in cui Mary Wroth ed Elizabeth Cary pubblicavano
le loro prime opere originali) condannarono ogni forma di comportamento deviante e ribadirono l’importanza di piegare le bisbetiche al silenzio e alla sottomissione. Per la loro trasgressiva
outspokenness le scold17 subivano la punizione dell’immersione
nello stagno del paese, secondo un rituale pubblico che le macchiava per sempre agli occhi della comunità. Le streghe, nemiche del re in quanto alleate col diavolo, venivano arse al rogo18.
La necessità di imporre una forte supervisione patriarcale
sulle debolezze della donna segnò il ritorno alle opere di medici
e filosofi come Aristotele, Ippocrate e Galeno che imputavano
le imperfezioni del corpo femminile ad una eccessiva produzione di fluidi (dalle lacrime al sangue mestruale) e alla collocazione interna degli organi genitali. Come osserva Olwen Hufton, il fatto che i greci avessero una sola parola per indicare
l’utero e l’isteria è particolarmente significativo:
A causa di questo rapporto tra l’organo e la condizione fisica
dell’isteria, l’utero divenne un elemento che determinava l’indole del17
Sulla figura della scold cfr. Lynda Boose, “Scolding Brides and Bridling Scolds: Taming the Woman’s Unruly Member”, Shakespeare Quarterly,
42, 2 (1991), pp. 179-213 e Davis Underdown, “The Taming of the Scold: the
Enforcement of Patriarchal Authority in Early Modern England”, in Anthony
Fletcher, John Stevenson, Order and Disorder in Early Modern England,
Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 116-36.
18
Spiega Clara Mucci, Il teatro delle streghe, cit., p. 15: “[…]
l’Inghilterra è per Giacomo corpo femminile, signora e sposa, di cui il sovrano
è the Head, il capo, la testa, il signore, in una posizione non dissimile da Dio
rispetto agli uomini: come è Dio per gli uomini, scrive Giacomo, così è il re
per i suoi sudditi. Dall’altra parte di Dio, nella concezione del tempo, lascito
medievale, c’è il diavolo, ed è per questo che chi pecca di ribellione contro il
sovrano commette peccato politico e religioso a un tempo; così come chi è
dalla parte del diavolo, nell’ideologia del tempo, cioè la strega in primo luogo,
è nemica del re e punibile con la morte, in quanto commette reato politico,
alto tradimento”.
Introduzione
19
la donna. Quel che lo rendeva problematico era il fatto di essere caratterizzato da un ciclo mensile e quindi di mettere la donna in correlazione con la luna [...]. Se ne poteva dedurre che questo rapporto esponeva le donne al rischio di essere lunatiche e inclini alla follia, perché
la luna poteva esercitare un influsso sulla fantasia femminile e contribuire a una certa mancanza di controllo sulle passioni19.
Le teorie pseudo-scientifiche dei filosofi greci e dei medici del
Rinascimento condividevano l’onere della prova dell’inferiorità
femminile con la tradizione biblica, che dalla credulità di Eva
faceva derivare l’irrazionalità della donna, la cui mente debole e
instabile era facile preda delle tentazioni della carne e terreno
fertile per gli spiriti maligni. San Paolo, Filone Alessandrino,
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino avevano lasciato agli
umanisti un’eredità di sofismi sull’inferiorità morale e ontologica della “linguacciuta” Eva. Il racconto della creazione divenne
la pietra angolare del pregiudizio storico contro le donne, la cui
unica possibilità di redimersi fu abilmente legata
all’accettazione volontaria del loro ruolo materno. La femmina
è subordinata al maschio, la sua posizione normativa è quella
dell’assenza e del silenzio: “[…] le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge” (I Corinti, 14:34).
L’insegnamento paolino produce posizioni di ancora più accentuata misoginia nei padri della Chiesa. Secondo Tertulliano
la donna era “la porta del diavolo”, mentre Sant’Agostino individuava nel corpo femminile un costante ostacolo all’esercizio
della ragione. A questi convincimenti si ispira tutta
l’organizzazione della vita sociale e familiare, in un costante
rapporto di subordinazione della donna all’uomo20.
19
Olwen Hufton, Destini femminili: storia delle donne in Europa 15001800, Milano, Mondadori, 1996, p. 39 [ed. orig. The Prospect before Her. A
History of Women in Western Europe, Volume I 1500-1800, London, Harper
& Collins, 1995]. Si veda, inoltre, Ian Maclean, “The Notion of Woman in
Medicine, Anatomy, and Physiology”, in L. Hutson, op. cit., pp. 127-55.
20
Cfr. Roberto De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Il Saggiatore,
1987, p. 216.
20
Introduzione
Man mano che aumentava il livello di istruzione delle donne, per effetto delle spinte centrifughe esercitate dalle teorie di
umanisti e riformatori, il compito di preservare i rapporti di potere tradizionali si faceva più arduo. Codificare nuove norme
comportamentali per le donne, come per il variegato campione
di masterless men e sturdy beggars che infestavano la città di
Londra, non era sufficiente a ridurre l’entropia del sistema. Rimaneva un problema da affrontare: a chi delegare il compito di
far rispettare i nuovi dogmi giacomiani? Non disponendo degli
apparati disciplinari in grado di addestrare moltitudini mobili e
confuse di corpi e di forze in una molteplicità di elementi individuali21, al sovrano non rimaneva che delegare funzioni di controllo e sorveglianza al capofamiglia, invitato a vigilare sulla
condotta di mogli e figli, misurarne le qualità e sanzionarla secondo i criteri della norma patriarcale.
Il nuovo assioma giacomiano si raccordava perfettamente sia
all’etica protestante sia all’emergente ethos protocapitalista nel
considerare il matrimonio lo stato naturale dell’uomo e nel ritagliare alla donna il ruolo marginale di silenziosa, laboriosa e
parsimoniosa custode della casa: “Silence, the closed mouth, is
made a sign of chastity. And silence and chastity are, in turn,
21
Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino,
Einaudi, 1993, pp. 186-7. Nel corso del XVIII secolo la ripartizione degli individui in luoghi protetti dalla monotonia disciplinare come caserme, ospedali,
istituti di insegnamento e fabbriche consente di “misurare in termini di quantitativi e gerarchizzare in termini di valore le capacità, il livello, la ‘natura’ degli individui” (p. 200). Se in alcune società “l’individuazione è massimale dalla parte dove si esercita la sovranità e negli strati superiori del potere” nei regimi disciplinari del XVIII secolo “l’individuazione è discendente: nella misura in cui il potere diviene più anonimo e più funzionale, coloro sui quali si esercita tendono ad essere più fortemente individualizzati; e mediante sorveglianze, piuttosto che cerimonie; osservazioni, piuttosto che narrazioni comparative […]” (pp. 210-11). Non è azzardato ipotizzare che Giacomo I stesse
tentando di instaurare un regime disciplinare pur non potendo disporre di un
buon apparato di polizia; di qui l’attribuzione di compiti di controllo e sorveglianza al capofamiglia, il rappresentante del sovrano all’interno della household. Con gli Stuart ha inizio un processo di transizione storico, politico e culturale al termine del quale la società dello spettacolo si trasformerà in quella
che Foucault definisce la “società della sorveglianza”.
Introduzione
21
homologous to woman’s enclosure within the house”22. Rispetto
alla famiglia allargata medievale, la famiglia ristretta si trasforma in microstruttura dell’ordine, immagine speculare della monarchia assoluta. La sottomissione della moglie e dei figli al capofamiglia è simbolo di quella del suddito al re e del re a Dio,
come sostengono Robert Filmer in Patriarcha (scritto intorno al
1630 ma pubblicato postumo nel 1680) e Giacomo I in The
Trew Law of Free Monarchies (1597), in cui l’immagine del
padre che nutre, guida ed educa i figli, viene sovrapposta a
quella del re che governa i suoi sudditi. A proposito dei Canoni
del 1604, Susan Amussen osserva che il catechismo domenicale
fu imposto ai giovani inglesi al fine di trasformarli in sudditi
docili e ammaestrati: “In doing so, it asserted that the family
was the fundamental social institution, and that order in families
was both necessary for, and parallel to, order in the state”23.
Il declino delle relazioni di parentela e lo smembramento dei
gruppi familiari insieme alla scomparsa della figura del prete
celibe cattolico accentuavano l’isolamento delle donne inglesi,
che perdevano la protezione dei genitori e il sostegno morale
del confessore rimanendo intrappolate tra le strette maglie della
famiglia nucleare24. L’abitazione privata si sostituiva alla Chiesa come luogo di controllo religioso e morale mentre il marito
assumeva il compito di vigilare sulle debolezze della donna e di
punire i figli, nati morti alla vita divina della grazia a causa del
22
Peter Stallybrass, “Patriarchal Territories: The Body Enclosed”, in M.
W. Ferguson, M. Quilligan, N. J. Vickers (eds.), Rewriting the Renaissance:
The Discourses of Sexual Difference in Early Modern Europe, Chicago, Chicago University Press, 1986, pp. 123-42, p. 127.
23
Susan Dwyer Amussen, An Ordered Society: Gender and Class in
Early Modern England, New York and Oxford, Basil Blackwell, 1988, p. 35.
Cfr., inoltre, Jonathan Goldberg, “Fatherly Authority: The Politics of the Stuart Family Images”, in M. W. Ferguson, M. Quilligan, N. J. Vickers (eds.), op.
cit., pp. 3-32.
24
Lawrence Stone, The Family, Sex and Marriage in England 1500-1800,
Abr. ed., New York, Harper and Row Publishers, 1979, p. 141. Di utile consultazione Alan Macfarlane, Marriage and Love in England, 1300-1840, Oxford, Basil Blackwell, 1986 e Martin Ingram, Church Courts, Sex and Marriage in England 1570-1640, Cambridge, Cambridge University Press, 1987.
22
Introduzione
peccato originale. Mentre il re esercitava la sua sovranità sulla
nazione inglese il capofamiglia teneva le fila degli assetti familiari, imbrigliando la voce della moglie e sanando con sistemi
punitivi la volontà malata dei figli. Sebbene le teorie di Lawrence Stone, che insistono sulla fragilità e l’inconsistenza dei
legami affettivi all’interno della famiglia inglese rinascimentale,
siano state di recente contestate, tra gli altri, da Ralph Houlbrooke e James Sharpe25, che danno una lettura diversa del vissuto emotivo e delle dinamiche affettive all’interno delle famiglie inglesi della prima era moderna, la storia dei rapporti familiari nella società inglese rinascimentale si attorciglia intorno ad
alcuni assiomi incontestabili. L’autorità patriarcale era la norma
sociale del tempo. Per Thomas More, potestà maritale e castità
coniugale erano il fondamento dello stato. Dopo il matrimonio
l’uomo acquisiva il controllo totale delle proprietà della moglie,
costretta a subire passivamente le decisioni del marito in merito
alla gestione di beni mobili e immobili. Edmund Tilney (A Brief
and Pleasant Discourse of Duties in Mariage, Called the Flower of Friendshippe, 1568), William Gouge (Of Domesticall
Duties, 1622) e Matthew Griffith (Bethel: Or a Forme for Families, 1633), rifacendosi sempre alle Scritture, compilarono
manuali tesi a insegnare ai coniugi compiti e doveri reciproci.
Se il marito era tenuto a garantire il sostentamento della famiglia, la moglie doveva imparare le virtù della buona padrona di
casa, mostrandosi sempre laboriosa e obbediente: “The household manuals expected women to make an important economic
contribution in the household: they emphasized the wife’s role
25
Cfr. Ralph Houlbrooke, The English Family, 1450-1700, London,
Longman, 1984; James A. Sharpe, Early Modern England: A Social History,
1550-1760, London, Edward Arnold, 1987. In particolare, gli studi hanno dimostrato che le madri provvedevano attivamente allo sviluppo dei figli, selezionando con attenzione le balie alle quali affidarli e, successivamente, assicurando al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere. Madri
abbastanza privilegiate da avere proprietà da distribuire spesso prevedevano
dei lasciti per le figlie con le quali non di rado intrecciavano legami di grande
complicità. Per un approfondimento sul tema della condizione femminile
nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana si rimanda a Margaret L. King,
Women of the Renaissance, Chicago, Chicago University Press, 1991.
Introduzione
23
in provisioning the household, and the importance of her
thrift”26. Secondo William Gouge, moglie e marito erano corresponsabili del benessere e della prosperità della famiglia ma se
la prima poteva occuparsi solo della gestione della casa il secondo gestiva i rapporti con l’esterno.
Il dibattito sulla donna e sul matrimonio tocca il punto massimo di intensità negli anni in cui appaiono The Tragedy of Mariam e Pamphilia to Amphilanthus (1613-21), ma ha inizio nei
primi decenni del 1500. I manuali e le guide del Seicento erano
basati sui modelli severi della cultura puritana ma non facevano
che adattare alla contemporaneità teorie e nozioni già formulate
da trattati quali De Institutione Feminae Christianae (1523, opera a tiratura internazionale tradotta in inglese nel 1540) di
Juan Luis Vives, vademecum per fanciulle, spose e vedove affinché riuscissero a contrastare la loro archetipica inclinazione
alla frivolezza facendo leva su virtù morali quali l’umiltà e
l’ubbidienza; The Book of Matrimony (1560) di Thomas Becon,
che individuava nel marito la guida spirituale della famiglia
raccomandando alla moglie una certa oculatezza nella gestione
della casa oltre che la proverbiale modestia nel comportamento,
e infine, dello stesso autore, Catechism (1560). In quest’ultimo
libro appare un dettagliato elenco dei nove doveri di una ragazza nubile tra cui spiccano gli inviti al silenzio, all’operosità manuale, alla castità e all’ubbidienza ai genitori27.
3. Spazi di manovra e vie di accesso all’autorialità. Ovviamente la retorica pubblica non sempre attecchiva negli interni
domestici. Il fatto di gestire alcune importanti responsabilità, in
primis quella (fondamentale) di provvedere al sostentamento sia
materiale che psicologico dei figli, permetteva a mogli e madri
di esercitare un certo potere nella sfera privata. Molte donne di
ceto medio-alto non erano disposte ad accettare le limitanti
norme comportamentali imposte dal sistema patriarcale e anche
in materia di gestione del patrimonio non si rassegnavano a su26
27
S. D. Amussen, op. cit., p. 41.
O. Hufton, op. cit., pp. 32-3.
24
Introduzione
bire passivamente le imposizioni del capofamiglia. Sposata con
Richard Sackville nel 1608, Anne Clifford si rifiutò di cedere
alle pressioni e ai condizionamenti del marito, del padre e perfino del re in merito alla gestione di beni ricevuti in eredità da un
parente. Sackville tentò di punirla assentandosi ripetutamente da
Londra, come risulta dal diario in cui Anne Clifford negoziava
il suo turbolento ribellismo:
All this time my Lord was in London where he had all and infinite
great resort coming to him. He went much abroad to Cocking, to Bowling Alleys, to Plays and Horse Races, and commended by all the
world. I stayed in the country having many times a sorrowful and
heavy heart, and being condemned by most folks because I would not
consent to the agreements, so as I may truly say, I am like an owl in
the desert28.
Nella sfida al marito e all’opinione pubblica Anne Clifford poteva contare sull’appoggio della madre e delle amiche, tra cui la
stessa Mary Wroth, anche lei impantanata in una relazione travagliata, stando a quanto scrive Ben Jonson in una lettera
all’amico Drummond di Hawthornden: “[…] my Lady Wroth is
unworthily married to a jealous husband”29.
Questo genere di “resistenza” dà un’idea della profonda ambivalenza culturale connessa al ruolo della donna nella famiglia
inglese. Rispetto ad Anne Clifford, Mary Wroth godeva dei
vantaggi di essere una Sidney, vantaggi che seppe sfruttare con
intelligenza e acume. Più complesso è il caso di Elizabeth Cary.
Dopo aver recitato per anni il ruolo della moglie devota e ubbidiente, la decisione di convertirsi al cattolicesimo le costò il
boicottaggio economico e la rottura col marito che, sdegnato da
tanta audacia, la abbandonò a se stessa. Ribellarsi contro la reli28
D. J. H. (ed.), The Diaries of Lady Anne Clifford, Phoenix Mill, Sutton
Publishing, 2003, p. 35. Sulla figura di Ann Clifford si veda, inoltre, Martin
Holmes, Proud Northern Lady. Lady Anne Clifford, 1590-1676, London and
Chichester, Phillimore, 1975.
29
Riportato in Naomi Miller, Changing the Subject: Mary Wroth and the
Figurations of Gender in Early Modern England, Lexington, Kentucky University Press, 1996, p. 28.
Introduzione
25
gione di stato non era che un modo di manifestare la sua sete di
indipendenza: “Throughout her life religion had given Cary
leave to contest domestic as well as political authority”30. Elizabeth arriverà a rapire i suoi stessi figli per sottrarli alle grinfie
del primogenito Lucius, che sulle orme del padre aveva abbracciato il credo protestante. Insomma: il matrimonio, come osserva Stephen Orgel31, era una “dangerous condition”, caratterizzata da una estenuante conflittualità tra i coniugi. Se solo le donne
fossero state più solidali tra loro, osserva Aemilia Lanyer in
Salve Deus Rex Judaeorum (1611), molti ostacoli alla libera espressività femminile sarebbero stati facilmente aggirati32. Questa consapevolezza innerva sia le poesie di Mary Wroth, nelle
quali i legami con Mary Sidney Herbert, la regina Anna di Danimarca, Anne Clifford e altre dame di corte sono traslati nel
rapporto tra Pamphilia e le figure allegoriche della Notte e della
Fortuna, sia i versi di The Tragedy of Mariam, che, rappresentando la complicità tra l’eroina eponima e la madre, veicolano
la marca simbolica dello scambio e dell’interazione femminile.
Gli steccati innalzati dal regime patriarcale intorno alla prigione domestica non erano privi di crepe e fessure in cui donne
istruite e consapevoli non esitavano a infilarsi così da conquistare un palcoscenico da cui dar sfogo alla propria vitalità onnivora e incidere sulla vita pubblica. Se è vero che intellettuali
come Mary Sidney Herbert, Ann Bacon, Katherine Parr e Rachel Speght dovettero accontentarsi di “sfiorare” la creatività
30
Meredith Skura, “The Reproduction of Mothering in Mariam, Queen of
Jewry: A Defense of ‘Biographical’ Criticism”, Tulsa Studies in Women’s Literature, 16, 1 (Spring 1997), pp. 27-56, p. 43.
31
S. Orgel, Impersonations, cit., p. 17.
32
Tina Krontiris, Oppositional Voices: Women as Writers and Translators
of Literature in the English Renaissance, London and New York, Routledge,
1992, p. 111. Sulla figura di Aemilia Lanyer cfr. Susanne Woods, Lanyer: A
Renaissance Woman Poet, New York and Oxford, Oxford University Press,
1999. Susanne Woods ha curato anche un’ottima edizione delle poesie di Aemilia Lanyer: The Poems of Aemilia Lanyer. Salve Deus Rex Judaeorum, New
York and Oxford, Oxford University Press, 1993. Si veda, inoltre, Marshall
Grossman (ed.), Aemilia Lanyer: Gender, Genre, and the Canon, Lexington,
Kentucky University Press, 1998.
26
Introduzione
attraverso il mecenatismo, la traduzione di testi biblici e la
compilazione di opere di tipo devozionale, è altresì vero che
l’esercizio di queste attività consentiva loro di accedere agli
spazi aperti della sfera pubblica oltre che di confrontarsi con le
implicazioni dell’autorialità33. “La traduzione”, osserva Pilar
Godayol,
è stata per lungo tempo una forma di discorso secondario e, pertanto, è
sempre parso che le traduttrici soccombessero all’autore che marcava
l’autorità del testo. Nonostante ciò, a forza di giocare con l’autorialità
nel testo e di entrare nel discorso pubblico silenziosamente, le traduttrici imparano a rendersi visibili in introduzioni e dedicatorie. Per
mezzo di scuse e spiegazioni umili sull’autorialità, alcune traduttrici
lasciano intravedere le proprie convinzioni sui presupposti ideologici
della pratica34.
Schermandosi dietro una modestia apologetica onnipresente e
una scelta prudente e oculata dei testi fonte, le traduttrici della
prima età moderna riuscirono, seppur obliquamente, a partecipare ai discorsi sociali e culturali del potere stabilito, contribuendo a disporre un’utile segnaletica sui sentieri inesplorati
della scrittura femminile. Anche nel caso di opere a carattere
religioso o devozionale, la trasposizione da una lingua all’altra
del testo di partenza richiede una ricerca estetica tesa ad individuare modi e metodi di una “messa in forma” dei contenuti35.
33
E. Beilin, op. cit., p. 21. Per un approfondimento sulla figura di Rachel
Speght cfr. Barbara Kiefer Lewalsky (ed.), The Polemics and Poems of Rachel
Speght, New York and Oxford, Oxford University Press, 1996.
34
Pilar Godayol, Spazi di frontiera: genere e traduzione, Bari, Palomar,
2002, p. 69.
35
Si veda, in proposito, quanto scrive Katharina Wilson (op. cit., p.
XXX): “Translation, by and large, was considered a ‘feminine’ (because non
original) endeavour, best suited for women. But Renaissance women translators, while discouraged from composing original texts, did often authenticate
their works – if perhaps marginally – by adding or shifting emphasis, coining
new terms, extending metaphors, omitting phrases, and successfully adapting
the source language into their native idiom. They played seminally important
roles in creating the literary vernaculars”.
Introduzione
27
I Salmi di Mary Sidney Herbert sono componimenti di straordinaria originalità, apprezzabili per i loro meriti intrinseci
piuttosto che nel rapporto con gli originali. Protetta dal prestigio
di Sir Philip, da lei stessa celebrato come il vero artefice delle
traduzioni, la contessa di Pembroke completava la sua prima
incursione nel mondo dell’autorialità pubblicando una versione
religiosa di forme letterarie secolari come il lamento d’amore
petrarchesco. Alla traduzione de “Il trionfo della morte” di Petrarca è affidato il primo attacco indiretto agli stereotipi della
tradizione letteraria inglese, dal momento in cui vengono decantate le virtù di Laura, prototipo di donna eloquente e vivace in
netto contrasto con la figura passiva e silenziosa che influenza
la caratterizzazione delle amanti celebrate da Spenser (Amoretti,
1595), Drayton (Idea’s Mirror, 1594), Daniel (Delia, 1592) e
Sidney (Astrophil and Stella, 1591). Infine, le traduzioni della
tragedia storica Marc Antoine di Robert Garnier e del Discours
de la Vie et de la Mort di Philippe de Mornay sono rispettivamente motivate dal desiderio di commentare fatti e questioni di
politica interna attraverso il filtro della storia romana e dalla volontà di denunciare gli abusi della corte inglese36.
36
Margaret P. Hannay, “‘Your Vertuous and Learned Aunt’: The Countess of Pembroke as a Mentor to Mary Wroth”, in Naomi Miller, Gary Waller,
(eds.), Reading Mary Wroth: Representing Alternatives in Early Modern England, Knoxville, University of Tennessee Press, 1991, pp. 16-7. Le opere di
Mary Sidney Herbert sono state raccolte nella preziosa antologia The Collected Works of Mary Sidney Herbert, Countess of Pembroke, a cura di Margaret P. Hannay, Noel J. Kinnamon, Michael G. Brennan, II Voll., Oxford,
Clarendon Press, 1998. Si veda, inoltre, Danielle Clarke (ed.), Isabella Whitney, Mary Sidney and Aemilia Lanyer: Renaissance Women Poets, Harmondsworth, Penguin, 2000. Per un approfondimento sulla poetica di Mary
Sidney Herbert si veda Margaret P. Hannay, Philip’s Phoenix: Mary Sidney,
Countess of Pembroke, New York and Oxford, Oxford University Press,
1990; si vedano inoltre gli articoli di Diane Bornstein, “The Style of the
Countess of Pembroke’s Translation of Philippe de Mornay’s Discours de la
Vie et de la Mort”, in Margaret P. Hannay (ed.), Silent But for the Word: Tudor Women as Patrons, Translators, and Writers of Religious Works, Kent,
Kent State University Press, 1985, pp. 126-48 e Beth Wynne Fisken, “Mary
Sidney’s Psalmes: Education and Wisdom”, in Silent But for the Word, cit.,
pp. 166-83.
28
Introduzione
Grazie alle traduzioni di Mary Sidney Herbert il panorama
culturale dell’Inghilterra elisabettiana si arricchisce di nuovi e
sofisticati generi letterari, ottimi “conduttori” di idee nuove e
destabilizzanti:
Like Queen Elizabeth, who cleverly adapted the strictures of chastity
into a public relations triumph (the cult of the Virgin Queen), the
Countess of Pembroke used her public role as ‘Sidneys sister Pembrokes mother’ to push back the boundaries for women, even while
appearing to remain within them. If she speaks from the margins of
literature, she nevertheless speaks clearly37.
Sull’esempio di Margherita di Navarra, grande mecenate e protettrice di umanisti e letterati francesi fra cui il biblista Jacques
Lefèvre d’Étaples, François Rabelais e il poeta Clément Marot,
Mary Sidney Herbert seppe ritagliarsi una fetta di potere culturale anche in qualità di animatrice di cenacoli intellettuali. Il
mecenatismo rappresentava un modo indiretto di esprimere energie creative; patrocinare un’opera letteraria era come infonderle vita, guidarla negli angusti meandri del discorso maschile,
renderla visibile. Nel corso degli anni, il cenacolo di Wilton diventò un importante centro culturale frequentato da letterati e
intellettuali come Daniel, Spenser, Ralegh, Jonson e Davies38.
Il tortuoso cammino di emancipazione e di scoperta al femminile passava anche attraverso la predicazione religiosa. Dietro
il fervore di Lady Jane Dudley, Lady Elizabeth Colville e la
martire protestante Anne Askew, autrice di un’intensa autobiografia spirituale39, si cela il desiderio di esprimere la propria
creatività, di far sentire la propria voce e imporre le proprie idee
seguendo il percorso tracciato da scrittrici come Margherita di
37
M. P. Hannay, “‘Your Vertuous and Learned Aunt’: The Countess of
Pembroke as a Mentor to Mary Wroth”, cit., pp. 17-8.
38
Sulla famiglia Pembroke e il mecenatismo letterario si veda Michael G.
Brennan, Literary Patronage in the English Renaissance: The Pembroke Family, London and New York, Routledge, 1988.
39
Sulla figura di Anne Askew si veda Martin Randall (ed.), Women Writers in Renaissance England, London and New York, Longman, 1997, in particolare il capitolo “Ann Askew: The Examinations”, pp. 58-71.
Introduzione
29
Navarra, che nell’Heptaméron (1542-49, pubblicato nel 1559)
riuscì ad intercalare le sue tendenze mistiche a esigenze filosofico-didattiche, Teresa d’Avila, autrice di trattati in cui utilizzò
una nuova simbologia per esprimere le sue esperienze religiose,
ed Elisabetta I, abile traduttrice (a lei si deve la versione inglese
della poesia Miroir de l’âme pécheresse, composta nel 1531 da
Margherita di Navarra) nonché autrice di omelie, orazioni e poesie. La riforma protestante, che, con la sua enfasi sulla salvezza individuale e la lettura privata delle Scritture, si trasformò
presto nel veicolo delle aspirazioni di un’umanità oppressa
dall’ignoranza e dall’analfabetismo, trovò le donne pronte a
partecipare attivamente ai suoi vorticosi processi. Sempre più di
frequente mogli, madri e vedove abbandonavano la clausura
domestica per dedicarsi alla predicazione itinerante o
all’indottrinamento delle masse, così da conquistare, finalmente, il potere della parola. Aemilia Lanyer, in Salve Deus Rex Judaeorum, canta le lodi di Cristo ma si impegna anche in una difesa femminista di Eva. Nella sezione “Eves Apologie in Defence of Women”, dimostra come certi episodi biblici siano stati
selezionati a scapito di altri per attribuire alla donna ogni responsabilità del peccato originale e della conseguente caduta
dell’uomo40. Attraverso un’accurata selezione di episodi solitamente espunti dalla predicazione, Lanyer denuncia le responsabilità di Adamo, sul quale pesa il fardello della colpa in quanto
investito dell’autorità. Agli uomini è attribuito anche il più grave dei peccati commessi nella storia: il tradimento e la crocifissione di Cristo. Proprio l’analisi della Passione di Gesù le consente di parlare dei torti subiti dalle donne, vittime deboli e indifese della tirannia patriarcale.
La stessa Elizabeth Cary seppe ritagliarsi uno spazio di espressione partecipando a dispute e dibattiti religiosi. Nel 1630
pubblicò la traduzione di una replica del cattolico francese Jacques Davy du Perron agli attacchi indirizzati alle sue opere da
Giacomo I (The Reply of the Most Illustrious Cardinall of Per40
92.
The Poems of Aemilia Lanyer. Salve Deus Rex Judaeorum, cit., pp. 84-
30
Introduzione
ron), dedicando il lavoro ad Enrichetta Maria di Francia, moglie
cattolica del primogenito di Giacomo I, Carlo Stuart. Nella “Epistola al lettore” Cary si definisce una Cattolica e una Donna –
“The first serves for mine honor, and the second, for my excuse”41 – legittimando la propria voce sovversiva mediante il riferimento alla vocazione religiosa che sentiva crescere dentro di
sé e nascondendo le proprie ambizioni letterarie dietro
l’adesione a stereotipati riferimenti culturali sull’inferiorità intellettuale della donna. Cary tradusse numerose opere di propaganda cattolica oltre che alcune vite dei santi. La frizione tra i
suoi doveri di moglie (Sir Henry era protestante) e la sua missione sociale di paladina del cattolicesimo generò scintille che
Elizabeth Cary seppe iniettare nei versi più spigolosi del dramma The Tragedy of Mariam prima che innescassero, nel 1626, la
rottura definitiva col marito e con la Corte di Giacomo I, in occasione della sua conversione pubblica al cattolicesimo42.
Un’ultima via d’accesso alla scena letteraria inglese del Seicento è costituita dalla produzione dei cosiddetti advice books43.
Nel 1624, esce, postumo, The Mothers Legacie to her Unborn
Child, un libretto che Elizabeth Joceline aveva scritto per il figlio nel caso non fosse sopravvissuta al parto. I suoi timori si
rivelarono profetici; Elizabeth morì dando alla luce il primogenito. All’editore Thomas Goad non sembrava vero di poter pubblicare un volume tanto commerciale senza incorrere nelle sanzioni dell’opinione pubblica maschile, contraria alla diffusione
di scritti femminili, pertanto si preoccupò di rassicurare i lettori
sostenendo che l’autrice era già passata a miglior vita e che il
41
Riportato in Barry Weller, Margaret W. Ferguson (eds.), Elizabeth
Cary, Lady Falkland / The Tragedy of Mariam, the Fair Queen of Jewry with
The Lady Falkland: Her Life by One of Her Daughters, Berkeley, University
of California Press, 1994, p. 11.
42
Mary Lamb, Gender and Authorship in the Sidney Circle, Madison,
University of Wisconsin Press, 1990, p. 17.
43
Sulle modalità e le strategie di accesso alla scena letteraria inglese da
parte delle scrittrici elisabettiane e giacomiane si veda, di chi scrive, “The
Renaissance Englishwoman’s Entry into Print: Authorizing Strategies”, The
Atlantic Critical Review, 3, 3 (July-September 2004), pp. 1-19.
Introduzione
31
marito si era prodigato affinché l’opera testamentaria fosse
pubblicata. Nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana una donna su quattro moriva nei primi anni di matrimonio, il decesso
legittimava la pubblicazione di scritti testamentari che includevano istruzioni ai figli e manuali di condotta44. Tra i tanti advice
books scritti nei primi decenni del Seicento sarà sufficiente citare Miscelanea, Meditations, Memoratives (1604) di Elizabeth
Grymeston, il testamento di una madre consapevole, come altre
donne del tempo, del richiamo pubblico dei suoi scritti privati.
L’indottrinamento morale dei fanciulli è un compito tanto importante da giustificare un’incursione della donna nell’autorialità.
Questo, in nuce, il pensiero di Dorothy Leigh, autrice di The
Mothers Blessing: or The godly Counsaile of a Gentle-woman,
not long since deceased, left behind her for her Children, containing many good exhortations and godly admonitions, profitable for all Parents, to leave as a Legacy to their children. La
lunghezza del titolo è commisurata agli intenti apologetici di
Dorothy Leigh, che cerca di giustificare questa sua ardita incursione nell’autorialità facendo leva sull’attenuante della pubblicazione postuma del libretto.
4. The stigma of print. In ogni caso va sottolineato che pubblicare i propri scritti era tabù anche per uomini di corte e influenti aristocratici. I quattro libri di poesia più importanti del
Rinascimento, Tottel’s Miscellany, Astrophil and Stella di Philip Sidney, Songs and Sonnets di John Donne e Poems di Herbert, vengono tutti pubblicati postumi. In proposito, Wendy
Wall parla dello “stigma of print”45 che induceva intellettuali e
44
Wendy Wall, The Imprint of Gender: Authorship and Publication in the
English Renaissance, Ithaca, Cornell University Press, 1993, p. 284.
45
Ibid., p. 17. Wendy Wall, inoltre, scrive: “It becomes clear that the
‘stigma of print’ at the end of the century was curiously produced as much by
the rhetoric of printed texts themselves as by the fact that texts were actually
withheld from the press. The bizarre apologies, justifications, and dedications
of the early modern printed texts certainly indicate that publishing writers did
indeed face a difficult problem: the fact that culturally sanctioned verse was
‘unauthored’ while authored published works were socially ‘unauthorized’”.
32
Introduzione
letterati come Philip Sidney a proteggere i propri componimenti
dagli immondi circuiti del mercato. A differenza dei drammaturghi o dei poeti “professionisti”, che vendevano versi ad un
pubblico femminile avido di letteratura (capeggiato dalla stessa
Penelope Devereux), Sidney sentiva di appartenere all’ambiente
di corte, con i suoi obblighi e le sue norme, il suo frusto codice
di comportamento e la sua crisi di valori. Affini ai manoscritti
medievali in quanto testi fluidi e aperti a continue revisioni, i
variegati prodotti della letteratura cortese si arricchivano di
suggestioni e significati sempre nuovi percorrendo i circuiti culturali del tempo:
Manuscript writing, particularly within the genres of romance and
love poetry, was seen to constitute a bid for gentility, while publishing
belied one’s reliance on a ‘common’ audience […] printing would
render courtly practices obsolete because anyone with money could
partake of social jokes, debates, and conversations. In reality, the press
offered to make the precarious boundary between aristocracy and the
lower gentry more fluid […]46.
I manoscritti, prodotti collettivamente, erano, per così dire,
“permeabili” al feedback dei lettori, che li sottoponevano a continue revisioni. Il loro prestigio derivava dalla loro circolazione
nei cenacoli letterari, dalla loro natura elitaria. Al contrario, i
testi stampati e immessi nel mercato perdevano prestigio e autorevolezza in quanto legati al merchandising e destinati a un
pubblico meno selezionato ma desideroso di scalare, anche attraverso l’istruzione, la piramide sociale; uomini le cui aspirazioni erano spesso superiori alle posizioni sociali loro assegnate. Per descrivere le dinamiche di circolazione dei testi stampati
si faceva spesso ricorso ad un linguaggio erotico o comunque di
genere: la compravendita dei libri era associata alla prostituzione e alla mercificazione del prodotto culturale, la librerie erano
considerate dei bordelli dove acquistare i piaceri della cultura.
Lo stesso John Davies aveva un atteggiamento ambivalente nei
confronti dell’editoria; se da un lato incoraggiò autrici come
46
Ibid., p. 12.
Introduzione
33
Elizabeth Cary a pubblicare i suoi scritti, dall’altro lamentava
che la pubblicazione di opere indegne avrebbe presto trasformato il mercato letterario in una pratica vile e oscena. Dopo il
1580 l’aumento delle pubblicazioni fu costante e persistente ma
la vera svolta nel modo di concepire il mercato editoriale è rappresentata dalla pubblicazione dei Works di Ben Jonson nel
1616, frutto di una articolata rivalutazione del ruolo autoriale.
Se pubblicare testi originali era considerato disdicevole per
un intellettuale aristocratico, non è difficile immaginare a quanti
rischi andasse incontro lo sparuto gruppo di autrici del tempo
allorché decidevano di stampare e diffondere i propri scritti.
Una volta conquistato un spazio di manovra all’interno della
sfera pubblica la donna doveva difenderlo con astuzia e ostinazione. Anche dopo il matrimonio con Robert Wroth, Mary Sidney conservò il blasone della sua famiglia di origine, allo scopo
di ribadire la sua appartenenza a una prestigiosa dinastia di letterati47. Il titolo esteso del poema Urania è una miniera di informazioni sui vincoli di parentela che davano licenza e autorevolezza alle imprese della scrittrice: The Contesse of Mountgomeries Urania. Written by the right honorable the Lady Mary
Wroath. Daughter to the right Noble Robert Earle of Leicester.
And Neece to the ever famous, and renowned Sir Phillips Sidney knight. And to the most exelent Lady Mary Contesse of
Pembroke late deceased. Erede del talento letterario della famiglia e portavoce dell’idealismo di Sir Philip, Mary Wroth si sente legittimata a comporre una satira politica audace e trasgressiva. Il titolo dell’opera richiama esplicitamente il prestigioso
modello letterario di riferimento, The Countess of Pembroke’s
Arcadia, la cui redazione riveduta fu pubblicata nel 1593 dalla
contessa di Pembroke, Mary Sidney Herbert.
Molte autrici includevano nella dedica o nella premessa
un’apologia che ribadiva l’inferiorità e l’indegnità del lavoro
47
Josephine Roberts (ed.), The Poems of Lady Mary Wroth, Baton Rouge,
Louisiana State University Press, 1983, p. 11. Si veda, inoltre, Janet MacArthur, “‘A Sydney, Though Unnamed’: Lady Mary Wroth and Her Poetical
Progenitors”, English Studies in Canada, 15, 1 (March 1989), p. 13.
34
Introduzione
rispetto a quello di un uomo. I dedicatari degli scritti erano
spesso influenti aristocratici e personaggi di spicco della scena
sociale inglese. Salve Deus di Aemilia Lanyer è preceduto da
nove dediche, tutte a donne di alto rango alle quali si richiedeva
patrocinio48; la stessa Elizabeth Tudor dedicò la traduzione del
Miroir de l’âme pécheresse alla matrigna Catherine Parr. Altre
autrici si mostravano riluttanti a pubblicare e si giustificavano
evidenziando la forza persuasiva di mecenati e amici influenti.
È il caso di Elizabeth Cary che fece circolare il manoscritto di
The Tragedy of Mariam nella ristretta cerchia di amici e conoscenti prima che l’incoraggiamento e il patrocinio di Sir John
Davies la inducessero a darlo alle stampe.
Le vicende umane e artistiche di Mary Wroth ed Elizabeth
Cary possono essere comprese solo se collocate all’interno di
un preciso quadro di riferimento, l’aristocratica società di corte,
istituzione politica e centro di produzione culturale, zona franca
in cui anche alle donne era concesso partecipare attivamente alla fruizione letteraria attraverso il mecenatismo, la traduzione di
testi sacri e profani e, nel caso delle due autrici in questione, la
composizione di opere originali. Entrambe ebbero la possibilità
di dedicarsi allo studio e alla scrittura creativa, privilegi riservati esclusivamente alle donne di ceto elevato. Entrambe seppero
sfruttare nel migliore dei modi il patrocinio e la protezione di
importanti letterati e aristocratici del tempo, adottando tutte le
precauzioni possibili affinché i propri scritti sfuggissero alla
censura dell’autorità patriarcale pur veicolando alcuni temi e
motivi pericolosamente sovversivi.
48
T. Krontiris, op. cit., p. 103.
Capitolo I
Mary Wroth
1.1 Dalla corte al cenacolo di Penshurst. L’Inghilterra giacomiana è una monarchia fondata sulla famiglia nucleare patriarcale, apparato disciplinare entro cui vengono imposte relazioni di potere e sudditanza. È in questo luogo di socializzazione primaria che si apprendono i modelli della grammatica culturale dominante, intesi come norme relazionali e regole sociali
che strutturano i comportamenti secondo rapporti di potere ben
delineati. Ad ogni membro della famiglia sono assegnati un posto e un ruolo, la donna è costretta a una vita ritirata, confinata
tra le anguste pareti domestiche dove è chiamata ad assecondare
ogni decisione del marito e vigilare affinché le regole di condotta stabilite dal capofamiglia siano sempre rispettate. Ad ogni
figlio, secondo l’età e il sesso, è attribuito un rango, in seno a
una gerarchia che privilegia ancora il primogenito. Il rispetto
dell’autorità del genitore, a cui si deve ubbidienza incondizionata e reverenza, è il primo di una lunga serie di doveri assegnati
ai figli. Il silenzio e la pazienza sono raccomandati, la loquacità
e l’esuberanza castigate con punizioni corporali tese a domare
l’irrequietezza infantile e a contrastare una naturale predisposizione al peccato: “La follia è legata al cuore del bambino, ma la
verga della correzione l’allontanerà da lui” (Proverbi, 22:15).
“Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la
verga, non ne morrà” (Proverbi, 23:13). Se gli studi più recenti
in materia hanno contribuito a individuare nel rapporto madrefiglia il legame più forte all’interno del nucleo familiare, anche
in virtù del fatto che, superata l’infanzia, era la madre ad assu-
Capitolo I
36
mere il ruolo di educatrice1, i rapporti tra il capofamiglia e i figli erano raramente di tipo affettivo.
Ma cosa accade in un ambiente domestico “illuminato” come quello dei Sidney? Qual è la consistenza dei legami affettivi
che si sviluppano a Penshurst, Wilton e Baynard’s Castle?
L’analisi della corrispondenza epistolare tra Robert Sidney,
spesso lontano da casa in quanto chiamato a sostituire il fratello
Philip nel ruolo di governatore di Flessinga2, e la moglie Barbara Gamage (cugina di Sir Walter Ralegh) mette in luce un certo
grado di affetto coniugale e filiale. È sufficiente riportarne due
passi particolarmente significativi:
[T]here is no desyre in me so dear as the love I bear you and our children ...you are married, my dear Barbara, to a husband that is now
drawn so into the world and the actions of yt as there is no way to retire myself without trying fortune further3.
You must excuse mee for our matters bee so busied as I can not write
so often as I would. But you shall ever bee most deer to me, and
whyle I live I will have the same care of you as of mine own life.
Sweete wenche farewell till I can see you4.
1
Ai livelli sociali più alti educare includeva anche insegnare ai figli come
trattare con la servitù, come muoversi nella società, come presentarsi e come
agire in pubblico.
2
Una delle tre cautionary towns che Elisabetta aveva chiesto agli olandesi
dopo aver autorizzato l’invio di un corpo di spedizione comandato da Leicester. Le informazioni biografiche sono tratte dalle seguenti fonti: Margaret
Patterson Hannay, “Mary Sidney: Lady Wroth”, in K. M. Wilson (ed.), op.
cit., pp. 548-65. Marion Wynne Davies, “‘So Much Worth’: Autobiographical
Narratives in the Work of Lady Mary Wroth”, in Henk Dragstra, Sheila
Ottway, Helen Wilcox (eds.), Betraying Our Selves: Forms of SelfRepresentation in Early Modern English Texts, Houndmills and New York,
Macmillan, 2000. Josephine A. Roberts, “The Biographical Problem of Pamphilia to Amphilanthus”, Tulsa Studies in Women’s Literature, 1, 1 (1982), pp.
43-53; Gary Waller, The Sidney Family Romance: Mary Wroth, William Herbert, and the Early Modern Construction of Gender, Detroit, Wayne State
University Press, 1993.
3
Riportato in G. Waller, op. cit., p. 141.
4
Riportato in M. P. Hannay, “Mary Sidney: Lady Wroth”, cit., p. 548.
Mary Wroth
37
In altre lettere inviate alla moglie, Robert si riferisce alla piccola Mary, nata nel 1587, con l’affettuoso nomignolo “little Mall”
o “Malkin”. Fine umanista, poeta e patrono delle arti, il pater
familias si premura di non far mancare alla figlia i libri di cui
aveva bisogno per completare un percorso educativo incentrato
non solo sull’apprendimento dei codici di condotta e delle regole di comportamento da seguire a corte, ma anche sulla lettura
dei classici5. Il fatto che i sonetti di Pamphilia to Amphilanthus
siano pieni di rimandi ai versi del canzoniere di Robert Sidney
fa pensare che padre e figlia abbiano parlato di poesia di tanto
in tanto. Con il beneplacito e l’incoraggiamento di Robert,
Mary trascorre molto del suo tempo nei palazzi di Wilton, raffinato e prestigioso cenacolo presieduto da Mary Sidney Herbert
contessa di Pembroke, e Baynard’s Castle, residenza londinese
della famiglia Herbert, dove ha il privilegio di curiosare tra i volumi di un’ampia biblioteca, ascoltare conversazioni dotte e frequentare il cugino William Herbert, terzo conte di Pembroke,
che molti studiosi associano al misterioso Amphilanthus, le cui
gesta vengono cantate nel poema Urania e la cui inaffidabilità è
stigmatizzata nel canzoniere Pamphilia to Amphilanthus. Durante le sue frequenti visite a Wilton e Baynard’s Castle, Mary
ha la possibilità di seguire le varie fasi del complesso lavoro editoriale intrapreso da Mary Herbert, determinata a pubblicare
le opere complete del celebre fratello Philip, venendosi a trovare nelle condizioni ideali per assorbire regole di versificazione e
modalità espressive messe a punto dallo zio paterno, alla cui lezione Mary deve la preparazione logica e retorica che determina
l’affermarsi di certi tratti distintivi della sua poetica. Non serve
molta immaginazione per visualizzare un quadretto familiare
formato da una giovane e avida lettrice pronta a lanciarsi nelle
avventurose vicende narrate in Arcadia e una premurosa precet5
Il rinvenimento (P. J. Croft 1973) di un manoscritto contenente sessantasei poesie inedite firmate da Robert Sidney ha permesso di correggere il tiro di
una tradizione critica che colloca Robert ai margini del sodalizio artistico siglato dai fratelli Philip e Mary. Il suo testo rimase inerte, sommerso sotto la
coltre dei lavori dei Sidney ma dà sostegno all’ipotesi secondo cui egli avrebbe sempre incoraggiato le imprese letterarie della figlia.
38
Capitolo I
trice disposta a soddisfare ogni richiesta della sua “pretey Daughter”6.
L’attrito tra gli entusiasmi giovanili di Mary e le convenzioni che regolano il patto sociale in epoca elisabettiana e giacomiana non tardano a manifestarsi. Già dal 1599 Robert Sidney
si lancia alla ricerca di un marito per la figlia. Sul piatto della
bilancia i Sidney possono mettere il nome – con l’ascesa al trono di Giacomo I, Robert Sidney era stato gratificato con il titolo
nobiliare di Barone di Penshurst e nominato ciambellano della
regina Anna – e le connessioni giuste a corte, ma in quanto a
mezzi finanziari si trovano in cattive acque. Questo fa di Mary
una preda non molto appetibile per una famiglia nobile come gli
Herbert, tanto ricca quanto vicina alle più alte sfere del potere.
Al contrario per lo squire e parlamentare Sir Robert Wroth
(1540-1606), ricco proprietario terriero7, l’alleanza con i Sidney
poteva rivelarsi utile al fine di intrecciare legami con la corte e
acquistare prestigio e visibilità sociale. Il matrimonio tra suo
figlio Robert, nominato cavaliere da Giacomo I a Sion House
nel maggio 1603, e Mary Sidney si celebra il 27 settembre 1604
a Penshurst.
L’intesa tra i coniugi vacilla fin dai primi mesi di matrimonio. In una lettera alla moglie, Robert Sidney racconta di un incontro con il genero che gli appare piuttosto scontento del comportamento di Mary:
Heer I found my son [in law] Wroth, come up as hee tels me to despatch some business, and wil be againe at Penshurst on Fryday. I finde
by him that there was some what that doth discontent him: but the particulars I could not get out of him, onely that hee protests that hee
cannot take any exceptions to his wife, nor her carriage towards him.
It were very soon for any unkindness to begin; and therefore whatso6
Con questo appellativo affettuoso Mary Sidney Herbert fa riferimento alla nipote Mary in una lettera scritta a Barbara Gamage, Lady Sidney datata 9
settembre 1951 e riportata nel volume The Collected Works of Mary Sidney
Herbert. Countess of Pembroke, cit., p. 286.
7
La famiglia Wroth aveva beneficiato della requisizione dei monasteri da
parte della Corona, voluta e attuata da Enrico VIII dopo l’Atto di Supremazia
del 1534.
Mary Wroth
39
ever the matters bee, I pray you let all things be carried in the best
maner til we all doe meet. For mine enemies would be very glad for
such an occasion to make themselves marry at mee8.
Se l’intervento provvidenziale del conte di Pembroke aveva
consentito di mettere insieme una dote adeguata alle richieste
dei Wroth, nessuno è in grado di sanare i contrasti fra i giovani
coniugi o stemperare lo sconforto di Robert. Sulle cause di questa acrimonia sono state fatte diverse ipotesi. Alcuni studiosi
suggeriscono che il matrimonio potrebbe non essere stato consumato, altri ipotizzano la scoperta di un contratto matrimoniale
precedente tra Mary e il cugino William Herbert. Con ogni probabilità, Robert Wroth mal sopportava lo spirito indipendente
della sua giovane sposa, la quale non accettava di trasformarsi
in un’entità sociale differente in quanto membro di una nuova
famiglia, risolvendosi piuttosto di conservare il blasone dei Sidney9. Tra gli altri possibili motivi di attrito fra i coniugi va annoverata una spiccata divergenza di interessi: alla lettura e alla
scrittura creativa Robert Wroth preferiva passatempi quali la
caccia e la pesca, passioni che condivideva con re Giacomo I,
spesso ospitato nelle tenute di Laughton e Durrance per battute
di caccia. L’unico libro a lui dedicato è un trattato sui cani pazzi
scritto da Thomas Spackman, che intendeva celebrare le virtù di
un esperto cacciatore e di un cinofilo senza pari: “[…] your place and pleasure is, to keepe many Hounds for Hare and Deare,
and Spaniels for land and water”10.
Già dal 1604 Mary entra stabilmente nell’entourage della regina che la invita a recitare in alcuni importanti masque rappresentati a corte: The Masque of Blackness (1605), primo lavoro
del sodalizio tra Ben Jonson e Inigo Jones, e The Masque of Be8
Riportato in J. Roberts, The Poems of Lady Mary Wroth, cit., pp. 11-2.
“Il matrimonio”, scrive Olwen Hufton, “non era visto solo come il destino naturale della donna ma come preciso agente metamorfico, che trasformava la donna in questione in un’entità sociale ed economica differente, come
membro di una nuova famiglia, l’unità elementare alla base della società”
(“Donne, lavoro e famiglia”, in G. Duby e M. Perrot, op. cit., p. 21).
10
J. Roberts, “The Biographical Problem of Pamphilia to Amphilanthus”,
cit., p. 45.
9
40
Capitolo I
auty (1608) in cui si conclude la perturbante storia delle dodici
donne africane in cerca di una terra dove sbiancare la loro pelle
nera. Dopo essere sbarcate in Inghilterra, le donne ripartono con
la speranza che la luce della conoscenza emanata dal sole britannico, il re Giacomo I, sia in grado di correggere le imperfezioni di qualsiasi creatura11. The Masque of Beauty mette in
scena il ritorno delle donne in Inghilterra; il loro aspetto è ora
ingentilito non solo dal candore della pelle ma anche da costumi
di pregiata fattura. In testa al drappello la regina fa sfoggio della
sua maestà recitando finalmente nella parte di se stessa mentre
le etiopi “anglicizzate” celebrano, con i loro costumi sfarzosi e
le loro danze rituali, lo splendore della corte inglese. Riferimenti al primo, controverso, masque12 sono rintracciabili in numerosi sonetti di Pamphilia to Amphilanthus, e in particolare in P
25 “Like to the indians, scorched with the sunne”. Negli anni
successivi, Mary assiste alle rappresentazioni di Hymenaei
(1606), The Masque of Queens (1609), Oberon (1611) e, stando
ad alcuni riferimenti contenuti in Urania, agli allestimenti del
Lord Hay’s Masque (1607) di Thomas Campion e Tethys’ Festival (1610) di Samuel Daniel. A corte Mary apprende le regole del complesso gioco che si svolgeva attorno alle posizioni di
potere. Di arrivismo, corruzione, intrighi e tradimenti si anima
la vita a “palazzo”, dove ogni parola nasconde e riveste progetti
volti a creare nuove consorterie e alleanze strategiche, tanto da
11
Cfr. Anna Maria Palombi Castaldi, “Spettacoli celebrativi del periodo
Stuart”, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli,
XXVIII (1985-6).
12
Sembra che re Giacomo fosse alquanto disturbato dalla vista della regina col volto annerito e il ventre gonfio a causa della gravidanza. A proposito
del suo compiacimento per il modo in cui si conclude la vicenda in The
Masque of Beauty, Lynda Boose, “‘The Getting of a Lawful Race’. Racial
Discourse in Early Modern England and the Unrepresentable Black Woman”,
in Margo Hendricks, Patricia Parker (eds.), Women, ‘Race’, and Writing in the
Early Modern Period, London, Routledge, 1994, p. 53, osserva: “As Jonson’s
text records, James was apparently so pleased that he even interrupted the
show midway to insist that the ladies dance several encores. Yet what nonetheless returns to haunt the King’s response is the indigestible excess represented in the original masque by the pregnant blackamoor Queen [...]”.
Mary Wroth
41
trasformare ogni contatto umano nella recita più o meno grottesca di un copione sempre uguale a se stesso. La consapevolezza
della fatuità della vita di corte costituisce il nocciolo duro di
tanti sonetti del canzoniere Pamphilia to Amphilanthus dedicati
all’elogio della clausura, del raccoglimento e della costanza, valori che tradiscono una certa attenzione per i nuovi fermenti del
protestantesimo.
Il primogenito di Mary Wroth nasce nel 1614, dieci anni dopo il matrimonio e un mese prima della morte di Robert Wroth.
L’insofferenza per una norma sociale che condannava la moglie
al ruolo di madre e procreatrice, così da garantire il perpetuarsi
della dinastia familiare e della proprietà, contribuisce a spiegare
il ritardato concepimento di un erede, attribuibile, per altri versi,
alla voragine affettiva che si era aperta tra i coniugi. In considerazione dell’elevata mortalità infantile che falcidiava le famiglie
inglesi in epoca rinascimentale, la coppia Sidney/Wroth avrebbe
dovuto cautelarsi da una pericolosa dispersione dell’eredità generando una prole ben più consistente; ma possiamo ipotizzare
che Mary Wroth non intendesse sacrificare i suoi studi e le sue
ambizioni letterarie per dedicarsi ad un impegno a tempo pieno
come quello di allevare ed educare i figli. La relazione clandestina con William Herbert ingarbugliava ulteriormente la situazione, se consideriamo che per una dama di corte era inopportuno e sconveniente prendere un amante prima di aver adempiuto al dovere coniugale di fornire un legittimo erede maschio al
marito. Tra i ranghi più alti della società l’amore illegittimo era
più tollerato di quanto non lo fosse all’interno dei ceti medio
bassi, ma Mary Wroth aveva trasgredito le regole in due diversi
modi: aveva intrecciato una relazione con un consanguineo, il
cugino William, per amore del quale aveva disatteso le aspettative del marito, che da una Sidney non poteva certo pretendere
affetto ma chiedeva, in linea con le regole di condotta del tempo, ubbidienza e sottomissione.
In seguito alla morte di Robert Wroth, e alla successiva morte, nel 1616, dell’erede unico, il piccolo James Wroth, l’insieme
delle proprietà fondiarie passano a John Wroth, fratello di Robert, laddove il fardello di debiti contratti dal marito rimane sul-
Capitolo I
42
le spalle di Lady Mary. Per sfuggire ai creditori e conservare la
sua indipendenza finanziaria, quest’ultima non esita a presentare petizioni al padre Robert, al segretario di stato Sir Edward
Conway e perfino al re, che, non senza qualche imbarazzo, le
procurano proroghe, dilazioni e warrant of protection annualmente rinnovati. L’aiuto e l’appoggio di queste importanti figure politiche non mette freno al rapido declino della condizione
sociale di Mary Wroth, segnato dall’indebolimento dei legami
con l’entourage della regina Anna di Danimarca (dal 1619 non
sono più registrate sue presenze a corte); perdita compensata dal
rafforzamento del sodalizio di Penshurst, comunità femminile
compatta e solidale in cui spiccano le figure di Susan Vere Herbert, contessa di Montgomery, a cui è dedicato il poema Urania, Anne Clifford, Isabella Rich (figlia della “Stella” di Sidney,
Penelope Devereux e di Lord Robert Rich), Dorothy Percy e
Bridget Vere Norris. Più o meno legate da vincoli di sangue e
legami di parentela, queste donne si dimostrano sempre pronte a
correre in soccorso l’una dell’altra, ad appoggiare le rivendicazioni di coloro che affermano il diritto all’autonomia (anche finanziaria) e alla scelta d’azione, o ad incoraggiare chi tentava
incursioni nel mondo dell’autorialità. Sia Urania che l’inedita
tragicommedia pastorale Love’s Victory, composta negli anni
Venti, contengono molti riferimenti ai vari membri di questa
comunità femminile13.
Questi scarni dati biografici forniscono il ritratto di una donna testarda, forte e coraggiosa, tanto da accettare i rischi e affrontare le conseguenze della trasgressiva relazione col cugino
William da cui ebbe due figli illegittimi, William e Catherine.
Sulla natura e sui risvolti sociali di questa relazione sarà utile
riportare le riflessioni di Gary Waller: “[…] first, the sexual independence it indicates, second, that their relationship was suf13
Si veda, in proposito, quanto scrive Nona Fienberg: “Wroth’s community of women recalls Christine de Pisan’s Book of the City of Ladies, where,
to undo the damage misogynist texts have wrought, allegorical figures of Reason, Rectitude, and Justice appear to the author” (“Wroth and the Invention of
Female Poetic Subjectivity”, in N. Miller, G. Waller, op. cit., p. 189).
Mary Wroth
43
ficiently stable or at least recurring to produce two children, and
third, that her lover was her cousin. Each of these was such a
breach with her assigned place in her society, such an ‘adventure’ as to repay close examination”. Per la vedova Wroth avere
due figli dal cugino significava rientrare a pieno titolo nella sfera dei Sidney, guscio protettivo dal quale non si sarebbe mai più
staccata. Se per effetto di una legge del 1610 le madri di figli
illegittimi erano confinate in case di correzione (a spese del padre), nei casi in cui la paternità era riconosciuta e il genitore si
dichiarava in grado di provvedere al sostentamento del figlio le
autorità erano disposte a chiudere un occhio. Va da sé che per
una nobildonna come Mary Wroth partorire figli illegittimi non
era così grave come per una donna di ceto medio o basso. William e Catherine avrebbero avuto le loro opportunità, non sarebbero mai stati un peso per la comunità, e soprattutto la loro
storia non sarebbe stata mai registrata così da essere presto dimenticata.
1.2 L’opera e la ricezione. Le poesie raccolte nella collana
Pamphilia to Amphilanthus circolarono dapprima in manoscritto a corte e nei salotti di umanisti e mecenati. Nell’elegia Lachrimae Lachrimarum (1613), Joshua Sylvester allude al talento artistico di Mary Wroth mediante l’anagramma AL-WORTH,
come indicato ai margini del testo:
Although I know None, but a Sidney’s Muse
Worthy to sing a Sidney’s Worthyness:
None but your Owne *AL-WORTH, Sidnëides [Anagram,* La. Wroth]
In whom, her Uncle’s noble Veine renewes (II, 1-4)14.
Una prima versione del canzoniere in manoscritto autografo si
trova alla Folger Library (V. a. 104) e contiene molte correzioni
e revisioni. La versione finale di Pamphilia to Amphilanthus
viene pubblicata nel 1621 da John Marriott e John Grismond,
14
Riportato in J. Roberts, op. cit., pp. 18-9.
Capitolo I
44
nella sezione finale di un volume dedicato principalmente al
poema Urania e stranamente privo dell’insieme eteroclito di
pratiche e discorsi rituali che compongono il paratesto
dell’opera (istanze prefative, epistole dedicatorie, epigrafi ecc.),
come se gli editori avessero fretta di stampare il manoscritto.
Il paratesto, osserva Genette, è sempre portatore di un commento autoriale e “costituisce, tra il testo e ciò che ne è fuori,
una zona non solo di transizione ma di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul
pubblico, con il compito, più o meno ben compreso e realizzato,
di fare meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più
pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati”15.
Prima di dare alle stampe un testo tanto denso di riferimenti a
personaggi ed eventi reali sarebbe stato opportuno scegliere un
dedicatario capace di garantire sostegno e protezione all’autore.
Non che l’amica Susan Vere, contessa di Montgomery, nominata nel titolo esteso dell’opera di Mary Wroth (The Countess of
Montgomery’s Urania), fosse una figura di scarso prestigio
nell’ambito dell’aristocrazia inglese. Al contrario, la sua costante presenza presso la corte di Anna di Danimarca e il suo impegno a favore di artisti come John Donne ne facevano una delle
nobildonne più in vista del tempo. Tuttavia, Susan Vere non avrebbe mai potuto difendere con efficacia l’amica Mary nel caso in cui allusioni e riferimenti agli intrighi di corte avessero
contrariato aristocratici più influenti. Inoltre, volendo mettersi
al riparo dalla bordata di critiche cui andava inevitabilmente incontro l’Urania, sarebbe stato logico ricorrere ad una efficace
forma di autocritica preventiva da affidare alla prefazione autoriale. L’autrice avrebbe dovuto farsi perdonare l’incursione
nell’autorialità ribadendo la sua appartenenza a una famiglia di
letterati e mondando vicende e personaggi finzionali di ogni denotazione referenziale.
Sulle ragioni di questa scelta insolita è possibile fare solo
congetture. Mary Wroth potrebbe aver tentennato a lungo prima
di optare per la pubblicazione, consapevole dei rischi cui anda15
Gerard Genette, Soglie, Torino, Einaudi, 1989, p. 4.
Mary Wroth
45
va incontro dando alle stampe un testo originale di argomento
profano. Le sue indecisioni potrebbero aver fatto spazientire gli
editori, ansiosi di pubblicare un roman à clef di sicuro impatto
sul pubblico in quanto denso di allusioni e riferimenti alla vita e
agli intrighi di corte, e quindi determinati ad andare avanti anche senza il consenso dell’autrice che, da parte sua, avrebbe
sempre potuto dirottare sul loro operato eventuali critiche dei
lettori. Non volendo assumersi la responsabilità di autorizzare la
diffusione della sua opera, Lady Mary potrebbe averla lasciata
deliberatamente incompiuta trasformandola in un testo ibrido e
informale. L’ultima pagina di Urania si interrompe, infatti, a
metà frase (“Amphilanthus joying worthily in her; And” – I, iv,
558); di qui l’ipotesi che gli editori non ricevettero mai la seconda parte dell’opera, che pure era pronta ed è tuttora consultabile in un manoscritto conservato alla Newberry Library. Non
è improbabile che i primi lettori del manoscritto, amici e avventori del cenacolo di Penshurst, abbiano contribuito a dissuadere
Mary dal pubblicare integralmente un testo orientato a stigmatizzare le scelleratezze e i comportamenti bizzarri di importanti
aristocratici e di esponenti della media nobiltà. Al contrario,
Tom Parker suggerisce che la brusca conclusione del primo libro dell’Urania sarebbe dovuta alla scelta autoriale di imitare
l’improvvisa interruzione con cui si chiude l’Arcadia di Philip
Sidney, considerando che anche la seconda parte di Urania si
conclude in questo modo16.
Almeno in un caso, il velo di finzione disposto su fatti ed
eventi della vita reale si rivelò troppo esile. I collegamenti tra
l’episodio di Seralius e le sue fonti reali non sfuggirono ad Edward Denny, barone di Waltham, oltraggiato nel constatare
che Mary Wroth aveva osato descrivere con ironia alcuni eventi
della sua vita e, in particolare, le disavventure matrimoniali di
sua figlia Honora, sposata allo spregevole James Hay. I comportamenti violenti e intransigenti di Lord Denny, reo di aver
minacciato di morte la sua stessa figlia, macchiatasi
16
Tom Parker, Propositional Form in the Sonnets of the Sidney Circle,
Oxford, Clarendon Press, 1998, p. 135.
Capitolo I
46
dell’infamia di un grave adulterio, colpirono profondamente la
sensibilità di Lady Mary che ne mostrò gli aspetti più grotteschi
nella sua favola eroica. Denny fu tanto piccato da rispondere
con due lettere e un aspro poema di vendetta (“To Pamphilia
from the father-in-law of Seralius”) in cui non esitò a definire
Mary Wroth una “ermafrodita” che infangava la memoria della
virtuosa Mary Sidney Herbert con i suoi fatui versi:
Hermaphrodite in show, in deed a monster
As by thy words and works all men may conster
Thy wrathfull spite conceived an Idell book
Brought forth a foole which like the damme doth look17.
Non solo Mary aveva usurpato una prerogativa maschile, quella
di scrivere e pubblicare opere originali, ma si era spinta tanto
oltre da criticare con arguzia e ironia la condotta di vita e i
comportamenti di persone reali (perlopiù uomini di ceto elevato) piuttosto che dedicarsi alla lirica di ispirazione religiosa o
alla letteratura dei buoni consigli. La sua infrazione è stigmatizzata mediante il ricorso a un linguaggio preso in prestito dal
campo semantico della sessualità. Mary Wroth è una ermafrodita che tenta di usurpare prerogative maschili trasformandosi in
una creatura ibrida e promiscua capace di generare solo mostri.
Quando non convogliato su argomenti sacri, il discorso
femminile si trasforma, agli occhi del pubblico maschile, in un
atto sessuale che produce materiale erotico e minaccia di indebolire la fecondità biologica della donna mettendo a repentaglio
l’intero processo di trasmissione dei beni ai figli legittimi. La
difesa di Lady Mary si incanalò su due diversi tracciati. Le accuse furono rispedite al mittente solo dopo aver conquistato la
solidarietà e la protezione di amici e patroni disposti a perorare
la sua causa. In una lettera inviata al Duca di Buckingham, fidato collaboratore di Giacomo I, Lady Mary dichiarò che con la
sua opera non intendeva offendere nessuno, e che le copie erano
state vendute contro la sua volontà, tipica argomentazione di17
Riportato in J. Roberts, op. cit., pp. 32-3.
Mary Wroth
47
fensiva cui facevano ricorso gli autori del tempo quando le cose
si mettevano male. Non ci sono elementi per comprendere quale
sia stato l’effetto della lettera a Buckingham, ma non è detto che
il testo sia stato automaticamente ritirato dal commercio. In realtà, scrivendo al favorito del re, Mary Wroth cercava di colmare una delle lacune più gravi del paratesto dell’Urania, tentando
tardivamente di ottenere il sostegno di un patrono influente:
“Wroth’s rhetorical dissociation from the text allows her to position herself officially as innocent of both offence and a desire
for publication, while still allowing the text to circulate”18. Al
contrario di Josephine Roberts, Rosalind Smith non ritiene che
la lettera a Buckingham sia stata scritta per conquistare un alleato importante da contrapporre a Denny. Dopo aver immesso sul
mercato il suo testo trasgressivo e scandaloso, l’autrice aveva
bisogno di stipulare una “polizza assicurativa” che la mettesse
al riparo da ogni eventuale “infortunio”, ovvero dalle critiche e
dagli attacchi di chi non concepiva nemmeno l’idea di un testo
femminile libero di vagare nei circuiti del mercato editoriale.
Al tenace gruppo di detrattori che criticavano le ambizioni di
Mary Wroth si oppone un nutrito gruppo di ammiratori, tra cui
spiccano i cosiddetti poeti spenseriani, nostalgici dei valori
dell’Inghilterra elisabettiana in quanto sostenitori della causa
protestante19. Gli Spenseriani erano convinti assertori della funzione sociale della poesia e predicavano l’indipendenza del poeta dalla politica culturale della corte di Giacomo I, definita ostile in quanto contaminata dalle ideologie devianti di alcune fazioni pro-spagnole. Nella poesia che introduce la sua traduzione
di Omero (The Iliads of Homer, 1611), George Chapman celebra Lady Mary con le stesse metafore utilizzate da Sir Philip in
Astrophil and Stella: “The Happy Starre, discovered in our
Sydneian Asterisme”, e la definisce una sostenitrice di “true
Reason, and Religion” in opposizione a “the times Apostasie”.
George Wither, il più zelante tra gli Spenseriani, include Lady
18
Rosalind Smith, “Lady Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus: The
Politics of Withdrawal”, English Literary Renaissance, 30, 3 (2000), p. 411.
19
Ibid., pp. 420-1.
Capitolo I
48
Mary tra i dedicatari del suo Abuses Stript and Whipt (1613) e
ne esalta il ruolo di patronessa delle arti. Nathaniel Baxter, che
nel suo Sir Philip Sydneys Ourania (1606) si autoproclama tutore di Philip Sidney, la menziona come una delle dame più brillanti della famiglia: “Agape, with Musophila the Bride, / Ladyes of worthe, and babes of Sydneia”. Paradossalmente il più
importante e influente sostenitore di Lady Mary, Ben Jonson,
conosciuto in occasione dell’allestimento a corte di The Masque
of Blackness, era un sostenitore della politica di re Giacomo più
di quanto non lo fosse Shakespeare. The Alchemist, satira politico-religiosa dedicata a Mary Wroth, va in scena nel 1610 quando si andava concretizzando l’unione tra la principessa Elisabetta e l’elettore palatino. Al contrario della Tempesta shakespeariana, rappresentata a corte nell’ambito dei festeggiamenti per
un matrimonio che rafforzava la causa protestante, The Alchemist serve apertamente gli interessi ispano-cattolici20. Sicuro di
poter contare sull’appoggio di re Giacomo, da sempre incline a
una politica di pacificazione con la Spagna, Jonson si schiera
contro l’emergente ethos protestante e contro i nostalgici di Elisabetta. Questa presa di posizione non gli impedì di celebrare
una famiglia fortemente legata ai valori dell’Inghilterra elisabettiana come i Sidney, omaggiati nei versi di “To Penshurst”, o di
tessere le lodi dell’amica Lady Mary nel poema “To Sir Robert
Wroth” e negli epigrammi 103 e 105.
1.3 Pamphilia to Amphilanthus e la convenzione petrarchesca. L’edizione del 1621 di Pamphilia to Amphilanthus, il
primo “Canzoniere” femminile nella storia della lirica inglese,
ci consegna una serie di 83 sonetti e 20 canzoni. A differenza di
quanto avviene nella Vita nuova di Dante e, in parte, nei Rerum
Vulgarium Fragmenta di Petrarca, il canzoniere di Mary Wroth
20
Cfr. Frances A. Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare, Torino, Einaudi, 1979. In particolare, si veda il capitolo V: “Ben Jonson e gli ultimi
drammi di Shakespeare”, pp. 102-20.
Mary Wroth
49
non offre una storia lineare21. Tuttavia, diversi critici hanno cercato, con esiti alterni, di raggruppare sonetti e canzoni in base al
tema sviluppato. Josephine Roberts individua quattro sezioni
principali: la prima, costituita dalle prime 55 poesie, illustra le
emozioni conflittuali che, agitandosi nell’animo di una donna
alle prese con una moltitudine di voci interne, la spingono ora
ad arrendersi, ora ad affermarsi e imporre il proprio controllo
sulle passioni. Dopo un interludio di canzoni si apre la seconda
sezione che comprende 10 poesie (P 63-72) incentrate sulle imprese di un maligno e dispettoso Cupido Anacreontico. La terza
sezione è una Corona di sonetti (P 77-90), in cui l’ultimo verso
di ciascun componimento costituisce l’incipit del successivo
mentre il primo verso del sonetto proemiale viene incollato
nell’explicit del sonetto che chiude la Corona. Nella struttura
circolare di questa collana di sonetti Mary Wroth presenta le
difficoltà cui va incontro l’io poetico allorché deve orientarsi
nel labirinto delle convenzioni sociali. L’ultima sezione (P 95103) veicola l’atteggiamento di rassegnazione della protagonista, determinata ad accettare con stoica determinazione la natura
irrazionale di ogni umano sentimento. Il debito di Pamphilia to
Amphilanthus nei confronti del suo modello principale di riferimento, la raccolta Astrophil and Stella di Philip Sidney, si palesa sin dalla scelta dei protagonisti, cui vengono assegnati nomi di derivazione greca. Con ogni probabilità, Mary Wroth voleva indurre i lettori a identificare il suo alter ego lirico con una
delle scrittrici più importanti dell’antichità, Pamphilia, vissuta
durante il regno di Nerone. Allo stesso tempo, la creazione di
un poeta fittizio, Pamphilia (o Astrophil), è tesa a creare una
certa distanza tra autore reale e autore implicito. Sidney e Mary
Wroth sono al tempo stesso soggetto e oggetto di disamina; il
metodo dello straniamento permette loro di guardare con una
certa oggettività e distacco alle passioni umane, è un valore co21
Cfr. Heather Dubrow che, tra l’altro, scrive: “[...] the fact that all narratives are located in a mythological realm may suggest that she cannot achieve
narrativity in other worlds” (Echoes of Desire: English Petrarchism and Its
Counterdiscourses, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1995, p. 141).
Capitolo I
50
noscitivo che rende possibile il raggiungimento della consapevolezza.
Una volta stabilita l’identità e le strategie autoriali, è necessario fare un identikit del destinatario ideale delle liriche di
Mary Wroth, il lettore implicito di poesie composte da una donna. Nel caso di Astrophil and Stella non è difficile individuare i
destinatari delle liriche nel folto gruppo di cortigiani, aristocratici e letterati totalmente partecipi dei codici di emittenza. Più
difficile risulta delineare il lettore ideale di liriche autoreferenziali come quelle di Mary Wroth, che se da un lato avrebbero
dovuto abbattere gli ostacoli al riconoscimento della libera soggettualità femminile, dall’altro appaiono “relentlessly private”
come sostiene Jeff Masten: “The sonnets stage a movement
which is relentlessly private, withdrawing into an interiorized
space; they foreground a refusal to speak in the public, exhibitionist voice of traditional Petrarchan discourse [...]”22.
Il prose romance cavalleresco-pastorale The Countess of
Montgomery’s Urania, che precede la raccolta di sonetti nel volume pubblicato da Marriott e Grismond nel 1621, contiene preziose informazioni sulla coppia Pamphilia/Amphilanthus. Plasmato sul modello dell’Arcadia di Philip Sidney, Urania narra
la storia della carismatica regina Pamphilia, innamorata del cugino Amphilanthus (probabile alter ego di William Herbert) ma
destinata, come Elisabetta I, a sposare la sua nazione23. Le vi22
Jeff Masten, “‘Shall I turne blabb?’: Circulation, Gender, and Subjectivity in Mary Wroth’s Sonnets”, in Anita Pacheco (ed.), Early Women Writers:
1600-1720, London, Longman, 1998, p. 27.
23
Così, in proposito, Elaine Beilin: “[...] it is significant that throughout
the long course of Urania, Pamphilia and Amphilanthus never marry. Indeed
in book 2, Pamphilia reveals that her idea of marriage has little to do with
knights and princes, but much to do with her position as queen of Pamphilia.
Here, Pamphilia tells her father why she will not marry: ‘his Maiestie had
once married her before which was to the kingdome of Pamphilia, from which
Husband shee could not bee diuorced, nor euer would haue her other, if it
might please him to giue her leaue, to enjoy that happinesse; and besides, besought his permission, for my Lord (said shee) my people looke for me, and I
must needs be with them’” (“‘The Onely Perfect Vertue’: Constancy in Mary
Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, Spenser Studies, 2, 1981, p. 241).
Mary Wroth
51
cende sono ambientate in varie località dell’Europa orientale,
spazi immaginari in cui vanno in scena amori, fughe, conflitti e
peripezie di re, regine, principi, cavalieri e nobildonne spesso
travestiti da umili pastori in modo da portare a termine inganni
e raggiri di ogni tipo. Maghi, giganti e briganti arricchiscono il
groviglio di personaggi e situazioni che ruota intorno agli attanti
principali: Amphilanthus, principe di Napoli infatuato di Antissa, principessa di Romania, e sua cugina, Pamphilia, che lo ama
con costanza e segreto trasporto anche se i suoi voti di fedeltà
sono messi a dura prova dalle continue separazioni e
dall’infedeltà del principe. Tra il vasto gruppo di personaggi secondari spiccano le figure di Urania, una semplice campagnola
impegnata a scoprire la sua appartenenza alla famiglia reale;
Bellamira, costretta a sposare il modesto Treborius sebbene infatuata di un altro uomo; Lindamira, potente cortigiana destinata a cadere in disgrazia per essersi innamorata del favorito della
regina di Francia; Lisia e Limena, costrette a sposare uomini di
scarso valore in conformità con le imposizioni paterne; e infine
Lady Pastora che, pur sposata, intreccia una relazione adulterina
con un uomo a sua volta sposato. Quasi tutti i personaggi appartengono al ceto aristocratico, mancano dunque figure come
Dametas e Mopsa che, nell’Arcadia di Sidney, provvedono ad
arricchire i toni solenni del poema cavalleresco-pastorale con
venature di humour burlesco. Rispetto ai modelli seguiti, sia
Urania che Pamphilia to Amphilanthus presentano una più rigida unità di tono. L’ironia con cui Astrophil descrive la ritrosia
di Stella e il suo stesso ruolo di amante infelice e schiavo delle
passioni è qui assente.
Della natura di roman à clef dell’Urania già si è detto; non
rimane che sottolineare quanto le scelte strutturali e tematiche
siano influenzate da ragioni esistenziali e biografiche. Dietro la
frustrazione di personaggi come Pamphilia e Bellamira c’è tutta
l’insofferenza di Mary Wroth nei confronti di un rapporto coniugale tutt’altro che appagante. Nelle alterne vicende dei personaggi di Urania è possibile recuperare tanti frammenti di storie reali, tanti quadretti satirici di una realtà asfittica in cui perfino alle nobildonne più assetate di autonomia e indipendenza è
52
Capitolo I
negato ogni spazio di manovra. Di qui il continuo lacerarsi di un
tessuto sociale sfibrato dalle frustrazioni che agitano le coscienze di chi aspira a scegliere il proprio percorso di vita alla ricerca
di una dimensione esistenziale più autentica.
Nei componimenti di Pamphilia to Amphilanthus sono registrati i moti interiori della nobile Pamphilia, ansiosa di elaborare
le disillusioni patite nel rapporto con il volubile e inaffidabile
Amphilanthus mediante il ricorso ad una forma stilistica codificata dai trovatori e dai poeti italiani del Duecento e del Trecento, adattata ai suoni e ai ritmi della lingua inglese dai precursori
Wyatt e Surrey, e infine adeguata all’ethos dell’aristocrazia inglese da Spenser e Sidney. In epoca giacomiana il canzoniere di
poesie è un genere letterario ormai fuori moda che offre esigui
margini di innovazione. Tuttavia, Mary Wroth è troppo invischiata in quello che Gary Waller definisce il “Sidney family
romance” per sottrarsi alla tentazione di emulare il padre Robert
e lo zio Philip o di rivaleggiare con il cugino William Herbert,
anch’egli appassionato di poesia e abile versificatore. La famiglia è il centro gravitazionale attorno al quale ruotano le ambizioni e le aspirazioni di Lady Mary, determinata non solo a rinverdire le tradizioni familiari ma anche, e soprattutto, a cimentarsi con una forma letteraria rimasta a lungo in voga
nell’Inghilterra di Elisabetta e considerata da sempre un modello base della grammatica culturale dominante, intesa come sistema di regole che struttura la comunicazione secondo precisi
rapporti di potere. La migliore sovversione sta nel distorcere i
codici, non nel distruggerli, nell’aderire alla tradizione al fine di
rinnovarla, nel filtrare la realtà attraverso la memoria di altri testi per mettere a fuoco lo scarto tra le invariabili culturali del
proprio tempo e le emergenti istanze femministe. Ancora nel
1621, il modello retorico petrarchesco forniva gli strumenti più
adeguati ad esplorare le contraddizioni della passione che minacciano l’equilibrio razionale di ogni essere umano, ma soprattutto consentiva di travestire idee e pensieri eversivi in una forma socialmente accettabile. Non c’era motivo di cercare codici
espressivi nuovi e alternativi.
Mary Wroth
53
Molti argomenti, immagini e motivi di Pamphilia to Amphilanthus sono attinti da Dante, Petrarca, Bembo e dai poeti della
Pléiade tramite Philip Sidney, la cui collana di poesie “utilizza
per la prima volta tutte le possibilità foniche, sintattiche e lessicali della lingua inglese per piegarla entro i moduli della poesia
continentale e per farne un efficace veicolo di traduzione dei
topoi […] del petrarchismo”24. I modelli topici del codice petrarchesco, con i quali ogni poeta inglese è destinato a confrontarsi, nascono da un’originale combinazione dei tratti distintivi
della poesia trobadorica e dello stilnovismo. Laddove Dante
tendeva alla lode pura e semplice della donna senza aspirare al
raggiungimento di una “ricompensa”, della gioia d’amore, Petrarca non può identificare in Laura la “Beatrice”, la donna angelo che farà da guida al suo percorso ascensionale. La donna
che ama, per quanto distante e ritrosa, rimane una presenza reale nella vita dell’io poetico, intossicato dal suo fascino e dalla
sua bellezza. L’insorgenza dell’Eros, in Petrarca come in Sidney, esclude ogni possibilità catartica25. Allo stesso tempo, Petrarca sembra assorbire la filosofia della Vita nuova vivendo il
suo amore tutto terreno per Laura come il punto di innesco di un
dissidio interiore alimentato dal contrasto tra le esigenze del
corpo e i richiami dell’anima, tra colpa e redenzione. Gli stati
24
Philip Sidney, Astrophil and Stella, a cura di Vanna Gentili, Bari, Adriatica, 1965, p. 148. Tutte le citazioni dal canzoniere di Philip Sidney faranno riferimento a questa edizione. L’indicazione del sonetto e dei versi citati
sarà preceduta dalla sigla AS.
25
Si veda, ad esempio, il sonetto 46 di Astrophil and Stella: “I curst thee
oft, I pitie now thy case, / Blind-hitting boy, since she that thee and me / Rules
with a becke, so tyrannizeth thee, / That thou must want or food, or dwelling
place. / For she protests to banish thee her face, / Her face? O Love, a Rogue
thou then shouldst be, / If Love learne not alone to love and see, / Without desire to feed of further grace. / Alas poore wag, that now a scholler art / To
such a schoole-mistresse, whose lessons new / Thou needs must misse, and so
thou needs must smart. / Yet Deare, let me his pardon get of you, / So long
(though he from booke myche to desire) / Till without fewell you can make
hot fire”. Si noti la connotazione sessuale dell’attributo “further” e la combinazione del verbo “to feed” con il sostantivo “desire” che suggerisce la nozione di desiderio come impulso da soddisfare.
Capitolo I
54
d’animo oscillano e ondeggiano come un vascello alla deriva.
La metafora della nave e del timoniere è solo uno dei numerosi
luoghi comuni che attraversano le liriche del Petrarca26. Anche
quando riesce ad assumere il controllo del timone il soggetto
poetico non riesce a manovrarlo, in quanto la donna amata scatena una tempesta di emozioni che gli fa perdere la capacità di
sottrarsi alla tirannia dei sentimenti e all’intorpidimento che ne
risulta. Qui può essere interessante confrontare i modi in cui Petrarca, Philip Sidney e Mary Wroth sviluppano rispettivamente
questo motivo:
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ‘l signore, anzi ‘l nimico mio.
A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ‘l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze et di desio27.
(Canzoniere, P 189, vv. 1-8)
I see the house, my heart thy selfe containe,
Beware full sailes drowne not thy tottring barge:
Least joy, by Nature apt sprites to enlarge,
Thee to thy wracke beyond thy limits straine.
(Astrophil and Stella, P 85, vv. 1-4)
Like a ship, on Goodwines cast by wind
The more she strives, more deepe in sand is prest
Till she bee lost; so am I, in this kind
Sunk, and devour’d, and swallow’d by unrest
(Pamphilia to Amphilanthus, P 68, vv. 5-8)28.
26
Si veda, ad esempio, il sonetto 189 “Passa la nave mia colma d’oblio”.
Le citazioni dal Canzoniere faranno riferimento alla seguente edizione:
Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1992.
28
The Poems of Lady Mary Wroth, cit. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa edizione. L’indicazione del sonetto e dei versi citati
sarà preceduta dalla sigla PA.
27
Mary Wroth
55
Un vento di sospiri e di speranze gonfia e squarcia le vele della
nave di Petrarca. La forza dei desideri scardina le difese razionali dell’io e lo trasporta tra Scilla e Cariddi, i due mostri (personificazioni della forza della natura) che nel mito greco terrorizzano i naviganti al loro passaggio nello stretto di Messina.
Anche Sidney pone l’accento sulla forza delle passioni e sullo
stato di timore che accompagna la pregustazione della felicità.
L’ansia di soddisfare i propri impulsi fa gonfiare le vele a tal
punto da condurre la nave “oltre i limiti”, nel cuore della tempesta. La nave di Mary Wroth non si trova in alto mare, non ingaggia lotte con gli elementi naturali, non attraversa spazi mitici
e non si lancia in avventure temerarie. È incagliata a riva, immobile. Ogni tentativo di liberarla dai lacci terreni si rivela inutile e controproducente (“The more she strives, more deepe in
sand is prest”). Dal mare torniamo alla terra, elemento associato
all’uomo, alla concretezza, all’autorità. I sogni e i sospiri dei
poeti si insabbiano nei versi di una poetessa che sente di vivere
in una atmosfera di bonaccia, ancorata al suo ruolo di moglie e
madre fedele e passiva, silenziosa e immobile. La navigazione
turbata dai venti simboleggia la mancata pace interiore e la frustrante percezione di una mancanza di contromisure da opporre
al logoramento costante dei sensi: “Pace non trovo e non ò da
far guerra” (sonetto 134) dichiara, sconfitto, il poeta che sa di
non poter dare sfogo ai suoi desideri, di non poter “far guerra”
all’amata. Per sublimare questa pulsione aggressiva è necessario
attivare un’operazione psichica che possa consumare l’energia
delle cariche aggressive canalizzando l’energia della pulsione in
un’intensa attività intellettuale, in una autoanalisi che sfrutta
l’invenzione della donna-specchio.
Il più importante punto di contatto tra stilnovismo e petrarchismo è individuabile nell’attribuzione di ruoli che vuole
l’uomo attivamente impegnato in un’avida ricerca di perfezionamento morale e la donna ridursi ad uno specchio che riflette i
sentimenti del poeta-Narciso. Non c’è mutualità nelle esperienze e nei rapporti descritti nei canzonieri di Petrarca e Sidney.
Petrarca ama il lauro (la poesia) e la laurea (la fama) più che la
persona reale. Prima di essere donne, Laura e Stella sono nomi,
56
Capitolo I
funzioni: “Laura is an idea idealized, which the fictive poet contains or absorbs, an effect, in part, of his epistemology, which
assumes that knowing requires an internal replica, or image, of
the known thing”29. Il ricorso al convenzionale blason30 della
donna, la cui figura viene scomposta, con sineddochica metodicità, in occhi neri, labbra di rubino, denti di perla e capelli
d’oro, si spiega appunto con la necessità di assorbire l’identità
dell’altro al fine di mettere a fuoco la propria. È più facile assimilare ciò che è stato opportunamente smembrato e sezionato.
Con un pun tipico della lirica tardo rinascimentale gli occhi
dell’amata, “eyes” [ais], servono da specchi per l’individuazione
dell’io – “I” [ai], il volto della donna si trasforma nel campo vitale dell’espressività maschile, è ridotto a riflettere le peripezie
di una coscienza aliena: “Men make women, and make themselves through the medium of women”, osserva Louis Montrose31.
Negli occhi dell’amata l’io poetico scorge i frammenti amorfi del proprio ego e dà loro forma e consistenza mediante il linguaggio. La struttura ossimorica del Canzoniere è il frutto della
continua ricerca di un delicato equilibrio degli opposti che garantisca la stabilità dell’io. Lo scontrarsi di entusiasmo e disillusione, successo e fallimento, fiducia nei potenti mezzi della ragione e senso di impotenza, unità e frammentazione dell’io,
produce schegge che il poeta tenta pazientemente di ricomporre
fissando e stemperando il desiderio nel linguaggio dell’amor
cortese in una operazione destinata a ripetersi all’infinito. La
conferma di sé non sta al di là delle figure del nostro linguaggio
ma in queste stesse figure, nel loro statuto tensionale, che tiene
insieme il plurale e l’eterogeneo. Allo stesso tempo situazioni di
sofferenza e di disagio si esprimono nella tendenza a seguire
29
Mary Moore, Desiring Voices: Women Sonneteers and Petrarchism,
Carbondale, Southern Illinois University Press, 2000, p. 136.
30
Il blason è il catalogo delle bellezze femminili, genere tipico della lirica
provenzale assimilato da Dante e Petrarca che ne fanno un uso ricorrente nei
rispettivi canzonieri. Si vedano altresì i sonetti 9 e 77 di Astrophil and Stella.
31
Louis Montrose, “‘Shaping Fantasies’: Figurations of Gender and
Power in Elizabethan Culture”, Representations, I, 2 (Spring 1983), p. 42.
Mary Wroth
57
una via già tracciata, a percorrere dei binari limitanti già predisposti dal sistema culturale. La ripetitività è la prassi fondamentale del petrarchismo, a livello fonoprosodico, lessicologico,
sintattico e semantico (tematico). Rivivere e verbalizzare le oscillazioni del sentimento amoroso consente di esercitare un
controllo sulle passioni e sugli stati d’animo.
Alla poesia Petrarca come Dante, Shakespeare come Sidney,
affidano il loro processo di espansione e autoaffermazione spettacolaristica dell’io32, reso possibile dalla presenza della donna
amata, specchio immobile su cui confrontare i propri timori e
proiettare un’immagine di sé stabile e coesa. L’invenzione degli
occhi della donna come specchi che riflettono i “connotati”
dell’uomo diventa nel tempo una favola che conserva la sua efficacia se narrata fedelmente, senza mai modificarne gli esiti.
La convenzione vuole che sia il soggetto maschile a parlare
d’amore, a descrivere i propri contrastanti sentimenti, a osservare e desiderare la donna feticcio, sognata e temuta dal fragile io
del poeta. Di qui la portata eversiva del discorso di Mary
Wroth, autrice che confonde i ruoli canonici dell’amor cortese
piegando i rigidi quadri del petrarchismo alle esigenze di un io
lirico altro e alternativo: una principessa desiderosa di ritagliarsi
un consistente spazio di azione e pronta a stigmatizzare il double standard secondo cui l’infedeltà e l’inaffidabilità degli uomini è tollerata, a differenza di quanto avviene per le donne, la
cui insofferenza nei confronti di partner ottusi e distratti è puntualmente demonizzata. Nel sonetto P 53 Mary Wroth ripropone
il topos dell’amante che cerca di estinguere le fiamme della passione:
When hott and thirsty to a well I came
Trusting by that to quench part of my flame,
Butt ther I was by love afresh imbrac’d;
Drinke I could nott, butt in itt I did see
My self a living glass as well as shee
32
Ovvero il processo di “self-fashioning” nella definizione di Stephen
Greenblatt (Renaissance Self-Fashioning. From More to Shakespeare, Chicago, University of Chicago Press, 1980).
Capitolo I
58
For love to see him self in truly plac’d.
L’immagine è erotica e sensuale, la poetessa decide di subire le
fiamme e lasciarsi bruciare fino a quando sarà ridotta in cenere33. Ancor più dell’audacia espressiva che contraddistingue la
rielaborazione della metafora della passione come fuoco che
“brucia” la razionalità dell’io, colpisce il ribaltamento di uno
dei luoghi comuni più radicati nella cultura inglese rinascimentale, il topos dell’immagine riflessa in uno specchio come “doppio” o “rappresentazione” dell’identità umana. In questo caso la
donna non è più l’oggetto riflettente nel quale gli uomini ripongono il bisogno continuo di conferma e di approvazione.
L’immagine riflessa dall’acqua non è quella del poeta che, emulo di narciso, ricalca i confini dell’io per rafforzarlo e difenderlo
dall’intrusione dell’altro, ma quella di una poetessa determinata
ad imporre la sua nuova identità sociale34.
Per comprendere strategie e modalità di questa revisione del
modello petrarchesco è necessario distinguere, con Leonard
Forster, i concettismi esterni – “Praise of the lady; the lady’s
accomplishments; objects belonging to the lady; celebration of
the place of lovers’ meeting; meeting the beloved in dreams” –
da quelli interni – “The nature of love; relations between lovers;
the effects of love; rejection of the beloved; death motifs”35. Ora, se da un lato in un canzoniere come Astrophil and Stella troviamo esempi di entrambi i tipi, in Pamphilia to Amphilanthus
si registra una netta prevalenza dei concettismi del secondo tipo.
33
Cfr. M. N. Paulissen, op. cit., pp. 192-200.
Cfr. Saskia Schabio, che, tra l’altro, scrive: “Love’s imaginary, selfgratifying gaze is thereby subjected to Pamphilia’s perspective and interpretation, which also implies that Pamphilia becomes ‘all’. One reading of this inversion would be that Pamphilia simulates the traditional idealising gaze on
the Lady, using love as an instrument of her own gratification” (“Screen over
Nothingness: Self-Reflection in Lady Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, in Detlev Gohrbandt, Bruno von Lutz, Saskia Schabio (eds.), Seeing
and Saying: Self-Referentiality in British and American Literature, Berlin,
Peter Lang, 1998, p. 80.
35
Leonard Forster, The Icy Fire, Cambridge, Cambridge University Press,
1969, p. 8.
34
Mary Wroth
59
Mary Wroth non solo ribalta le convenzioni della lirica petrarchesca assegnando ad un uomo il ruolo dell’amante passivo e
silenzioso, ma va perfino oltre arrivando a espungere ogni riferimento all’aspetto o alla personalità di Amphilanthus, rifiutandosi di porre il “tu” al centro dell’esperienza che si accinge a
compiere l’io narrante36. Il viaggio tortuoso e tormentato della
protagonista è compiuto in solitudine, in assenza di un antagonista forte e autoritario al quale riservare tutto lo spazio interiore o sul quale misurare e controllare le proprie insicurezze.
Mary Wroth non ha bisogno di espedienti drammatici per mettere in scena le proprie vicende esistenziali, i suoi sfoghi non si
inscrivono in un contesto dinamico di recitazione a più voci,
Amphilanthus è chiamato in causa rarissime volte nei monologhi di Pamphilia e anche in questi casi la sua presenza è subito
interiorizzata nella banca dati della memoria:
When last I saw thee, I did nott thee see,
Itt was thine Image, which in my thoughts lay
Soe lively figur’d, as noe times delay
Could suffer mee in hart to parted bee;
(P 24, vv 1-4)
La “mente intralinguistica”37 corre al sonetto 122 del canzoniere
di Shakespeare:
Thy gift, thy tables, are within my brain
Full charactered with lasting memory,
Which shall above that idle rank remain
36
Così, in proposito, Mary Villeponteaux: “Unlike Astrophil, Pamphilia
never gives birth to the beloved or to his image [...] Images of birth in Pamphilia to Amphilanthus, I would argue, consistently signify a frustrated attempt to act, to create, to love” (“Poetry’s Birth: The Maternal Subtext of
Mary Wroth’s Pamphilia to Amphilanthus”, in Sigrid King, ed., Pilgrimage
for Love: Essays in Early Modern Literature in Honor of Josephine A. Roberts, Tempe, AZ, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies,
1999, p. 169).
37
L’espressione appartiene a Giampaolo Sasso, La mente intralinguistica,
Genova, Marietti, 1993.
60
Capitolo I
Beyond all date even to eternity;38
(vv. 1-4)
In questo caso il poeta affida l’immagine del fair youth alla
memoria, atto distruttivo in quanto presuppone la cancellazione
delle tracce esterne del fair youth, ma nel contempo costruttivo
in quanto le tracce sono incorporate, assorbite nella sua mente.
Al contrario, la negazione che caratterizza il primo verso del
sonetto della Wroth (“I did nott thee see”) non lascia presagire
il desiderio di scolpire la figura dell’amato nella memoria, rendendola così perfetta, incorruttibile e immortale. Sembra quasi
che l’io lirico non voglia prendere atto dell’apparizione inafferrabile di Amphilanthus, la cui immagine viene presto accantonata negli atri più bui della memoria. Se nella seconda sezione
del canzoniere di Sidney va in scena un incontro tra i due amanti – Astrophil e Stella recitano un galante dialogo rinascimentale
e si scambiano romantici billets-doux – e più innanzi (P 61e 62)
si ode, flebile, la voce di Stella, nell’arco dei 103 componimenti
raccolti nel canzoniere di Mary Wroth, Amphilanthus viene interpellato solo tre volte (P 6, P 24 e P 30):
Amphilanthus does not function as Daphne for Apollo, Laura for Petrarch, or Stella for Astrophil, as a figure whose indifference and unattainability are predicated on his chastity. While it is true that his absence provides the motive for the deployment of the commonplaces of
Petrarchan despair – for the poems describing the lover’s long, sleepless nights, living death, false hope, and killing grief – Amphilanthus
is not idealized or deified39.
Anche i richiami dall’esterno, le lusinghe del mondo aristocratico, sono ignorati a favore di un atteggiamento contemplativo
orientato a ricomporre una soggettività sgretolata dagli apparati
disciplinari della famiglia e della corte. Al contrario di Philip
Sidney, Mary Wroth decide ben presto di rinunciare ai propri
38
William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano,
Rizzoli, 2002. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa edizione.
39
J. Macarthur, op. cit., p. 14.
Mary Wroth
61
desideri, ad accettare mancanze e privazioni per dedicarsi con
costante assiduità alla cura del proprio animo, all’introspezione
silenziosa e solitaria che porta alla scoperta di se stessi e, seppur
indirettamente, alla comunione con Dio, secondo l’emergente
etica protestante.
1.4 L’esordio. Il sonetto proemiale. Una volta adattati alle
esigenze espressive di una scrittrice donna, è bene sottolinearlo
di nuovo, i cliché del petrarchismo possono risvegliare pensieri
a lungo repressi. Basta pronunciarli al rovescio per scoprire le
ingegnose applicazioni a cui si prestano, basta associarli a un
pensiero vivo per dar loro profondità e spessore semantico.
Come osserva Bachelard, il cliché “può rivelarsi necessario, se
non addirittura come termine indispensabile. E può inoltre introdurre un pensiero profondo. Può essere psicologicamente capovolto. Chiave arrugginita che apre un regno fiabesco. Talvolta, il luogo comune è il centro di convergenza dove si forma un
significato nuovo, una ricchezza espressiva”40. Mary Wroth,
come Petrarca, non riesce mai a presentare un io coerente e unificato, le sue rime sono sparse come i frammenti dei suoi pensieri, alimentati da una miscela di linguaggio e desiderio. Lo
stallo psicologico esperito da Petrarca, pietrificato da “antichi
desir” e “lagrime nove” (sonetto 118, vv. 12-14)41, paralizza anche Pamphilia che, in preda allo sconforto e alla depressione,
rinuncia ad agire, rimane immobile e passiva per tutto il canzoniere pur vagheggiando il cambiamento, il superamento di uno
stato mentale.
Il sonetto proemiale introduce l’approccio dell’autrice al petrarchismo e all’antipetrarchismo:
When nights black mantle could most darknes prove,
And sleepe deaths Image did my senceses hiere
40
Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Bari, Dedalo, 1974, p. 158.
Si veda anche il sonetto 112, con particolare riferimento al quarto verso:
“l’aura mi volve et son pur quel ch’i’ m’era”.
41
Capitolo I
62
From knowledg of my self, then thoughts did move
Swifter then those most swiftnes need require:
In sleepe, a Chariot drawne by wing’d desire
I sawe; wher sate bright Venus Queene of love,
And att her feete her sonne, still adding fire
To burning hearts which she did hold above,
Butt one hart flaming more then all the rest,
The goddess held, and putt itt to my brest,
Deare sonne now shutt, sayd she: thus must wee winn;
Hee her obay’d, and martir’d my poore hart,
I, waking hop’d as dreames itt would depart,
Yett since: O mee: a lover I have binn.
La forma è quella del cosiddetto Italian sonnet strutturato in una
ottava e una sestina introdotta dalla “svolta” all’inizio del verso
9 che annuncia uno scarto emotivo destinato ad amplificare
l’argomento descritto nei primi otto versi. L’immagine della dea
che depone un cuore incandescente nel petto del poeta echeggia
il primo sonetto della Vita nuova di Dante e l’incipit de Il
Trionfo d’amore di Petrarca42. Il motivo del sogno, abusatissimo nella letteratura umanistica, ricorre sia in Astrophil and Stella, nel trittico di sonetti P 32, P 38 e P 39, sia nel canzoniere di
Shakespeare. Vale la pena di trascrivere il sonetto 38 di Astrophil and Stella nella sua interezza:
This night while sleepe begins with heavy wings
To hatch mine eyes, and that unbitted thought
Doth fall to stray, and my chiefe powres are brought
to leave the scepter of all subject things,
The first that straight my fancies error brings
Unto my mind, is Stellas image, wrought
By Loves owne selfe, but with so curious drought,
That she, me thinks, not onely shines but sings.
I start, looke, hearke, but what in closde up sence
Was held, in opend sense it flies away,
42
Così, in proposito, Nona Fienberg: “By envisioning her opening sonnet
in implicit response to the opening visionary sonnet of Dante’s Vita Nuova,
Wroth is challenging the Italianist world. Where Dante saw a man feeding
Dante’s own burning heart to his beloved lady, Wroth sees a flaming heart
held by Venus, then shut within the visionary speaker’s breast”, op. cit., p.
185.
Mary Wroth
63
Leaving me nought but wailing eloquence:
I, seeing better sights in sights decay,
Cald it anew, and wooed sleepe againe:
But him her host that unkind guest had slaine
In Sidney il sogno consente di realizzare i desideri. L’immagine
di Stella appare quasi miracolosamente, incanta la vista e innesca soavi sensazioni uditive. Allo stesso tempo, il vortice di
emozioni scatenato dallo sguardo di Stella finisce per spezzare
il sonno e un brusco risveglio sancisce l’irrecuperabilità della
visione. Anche nel sonetto 27 di Shakespeare l’ombra del fair
youth è “un gioiello appeso alla notte spettrale” (“a jewel hung
in ghastly night”, v. 11) e “fa la nera notte bella e il suo vecchio
volto nuovo” (“Makes black night beauteous and her old face
new”, v. 12)43. Nel sonetto di Mary Wroth il coefficiente centrale dello spazio onirico non è la persona amata, la ribalta è
conquistata dalla coppia Venere/Cupido. Se da un lato il sonno
asseconda la volontà di ripiegamento del parlante, dall’altro
produce uno stato di frustrante impotenza da cui non sarà facile
uscire. Pamphilia può solo sperare che i sogni svaniscano presto
senza lasciare cicatrici nella coscienza, così da riattivare in fretta lo sguardo analitico che le consente di individuare e disinnescare le trappole del reale. Il labirinto in cui sente di essersi
smarrita ha una sola via di uscita, bisognerà cercarla con lucidità e stoica determinazione44. Questo il messaggio incastonato
43
Shakespeare torna sul tema nel sonetto 43: “When most I wink, then do
mine eyes best see, / For all the day they view things unrespected; / But when
I sleep, in dreams they look on thee, / And, darkly bright, are bright in dark
directed” (vv. 1-4). Si noti la struttura ossimorica del sonetto, incentrata
sull’opposizione night/day.
44
La metafora del labirinto si sviluppa in una catena paradigmatica che
lega le varie argomentazioni del canzoniere, il sonetto con cui si apre la Corona (P 77 – 90) recita così: “In this strange labourinth how shall I turne?”. Invece di Teseo, osserva Robin Farabaugh, nel labirinto troviamo una donna:
“That, to an audience familiar with the myth, would have called attention to
the plight of the entrapped figure, a figure traditionally identified with male
quests and adventuring. A woman there instead asks the readers to see her
misery as equivalent in severity to the plight of the mythic hero who had
found himself in the original labyrinth. The implied equivalence of the forces
64
Capitolo I
nell’ultima terzina, arricchita da una serie di pronomi personali
di prima persona (“my” – v. 12, “I” – v. 13, “mee” – v. 14, e ancora “I” – v. 14), che indicano l’esigenza di imporre nuove canalizzazioni al flusso irregolare dei pensieri e di ristabilire le funzioni di sorveglianza.
I canzonieri di solito presentano il poeta attivamente impegnato ad inseguire un’idea di donna lontana e inaccessibile. Qui
l’io lirico subisce lo stesso destino di clausura del cuore ardente
“rinchiuso” (“shutt”) nel suo petto da Cupido45. Mentre Astrophil combatte per conquistare Stella e nel contempo per sfuggire alla prigionia dei sentimenti, Wroth lascia che la sua eroina
subisca passivamente le monellerie e i dispetti di Cupido. Sembra quasi che Pamphilia non sia ancora pronta, o non abbia la
forza di opporsi alla detronizzazione del senno. Le azioni di
Venere e Cupido, osserva Heather Dubrow, non vengono contrastate in alcun modo: “Above all, the emphasis on dreaming
places her in a singularly passive position. If one plot of the
sonnet, her encounter with Venus and Cupid, casts her as the
object of actions performed by others […] its overarching plot,
the dream vision, intensifies that loss of agency”46. Pamphilia
diventa il semplice bersaglio, l’oggetto delle macchinazioni degli antagonisti, che dispongono del suo animo senza incontrare
resistenza. Nel sonetto 20, Astrophil non attende passivamente
di essere trafitto dalla “sleale” (“wrongfull”, v. 4) pallottola sparata da Cupido, egli tenta di schivare il colpo ma non ci riesce:
“But ere I could flie thence, it pierc’d my heart” (v. 14). L’io
narrante è un soldato ferito a morte che implora i suoi compagni
facing both the mythic hero and the female speaker superimposes Wroth’s
voice on the past, asking her readers to reorder and redirect their knowledge of
female experience” (“Ariadne, Venus, and the Labyrinth: Classical Sources
and the Thread of Instruction in Mary Wroth’s Works”, Journal of English
and Germanic Philology, 96, 2, 1997, p. 208).
45
Cfr., in proposito, quanto scrive M. Villeponteaux, op. cit., p. 170, “The
idea that Pamphilia holds enclosed within her breast a burning heart recurs
throughout the sequence as part of a pattern of images of enclosure, culminating in the opening line of the corona”.
46
H. Dubrow, op. cit., p. 139.
Mary Wroth
65
di mettersi a riparo, “Flie, fly, my friends, I have my death
wound; fly” (v. 1), è agonizzante ma pensa alla sicurezza degli
altri soldati, è un combattente nobile e coraggioso, tutt’altro che
arrendevole.
Vivere l’esperienza d’amore nella rarefatta cornice di un sogno produce isolamento e solitudine. Le sovrane facoltà della
mente perdono il controllo degli impulsi, i sensi vengono “reclutati” (“hiere”) dal sonno mentre i pensieri fuggono via rapidamente lasciando il soggetto indifeso e quindi esposto agli attacchi delle passioni irrazionali. La prima sillaba della parola
“swift-er” acquista peso semantico grazia alla sostituzione del
giambo col trocheo e dalla sua duplice apparizione nel verso. Si
tratta della figura della anadiplosi47, che Mary Wroth utilizza
spesso senza curarsi di alleggerire il dettato utilizzando sinonimi nella seconda replica del sostantivo enfatizzato, onde arricchire o modificare il senso della prima occorrenza. È un segno
della sua imperizia stilistica ma al tempo stesso indica una certa
dose di spontaneità, una momentanea perdita di controllo. Affastellandosi velocemente l’uno sull’altro, i versi comunicano uno
stato di ansia. La precipitosa ritirata del senno di Pamphilia lascia un sibilo acuto e prolungato, ottenuto mediante la ripetizione allitterante che lega “sleep”, “saw”, “sonne” e “she”. La sintassi contratta, contraddistinta dalla mancanza di articoli e pronomi personali, è un indice ulteriore della rapidità con cui il
parlante precipita nei gorghi del sonno e dell’incoscienza, inversamente proporzionale alla lenta riemersione del suo io razionale. Nel verso dodicesimo l’inversione verbo-oggetto (“He
her obeyed”) è tesa a veicolare la concitazione del momento,
iconicamente espressa dalla contiguità dei predicati “obeyed” e
“martyred”.
Le visioni notturne non svaniscono in “opend sense” (AS, P
38, v. 10) ma intrappolano l’io in un labirinto di sentimenti contrastanti. Mary Moore osserva che la sintassi tortuosa rappre47
Per l’analisi delle figure retoriche si vedano Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969 e Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2003.
Capitolo I
66
senta la difficoltà di innestare il discorso femminile in una cornice linguistica forgiata ad uso e consumo del cortigiano: “The
sonnet’s formal restrictions thus highlight constraint itself, difficulty in knowing, writing and fitting the female textual body
into a form whose well-wrought urn was designed to hold only
male ashes. Labyrinthine syntax represents the poet’s difficulty
– and her craft”48.
L’assenza della figura dell’amante, le valenze disforiche
dell’intorpidimento dei sensi causato dal sonno, la drammatica
perdita di autocoscienza e infine il desiderio di evadere al più
presto dalla finzione onirica costituiscono sviluppi estranei alla
tradizione petrarchesca. L’argomento del sonetto rimanda il lettore ad un certo assortimento di stampi culturali ma
l’avversativa “Yett” introduce una deautomatizzazione del rituale linguistico e lascia presagire il risveglio dell’io narrante.
Sorge così una complicazione della struttura: diversamente da
Astrophil, che vorrebbe richiamare la visione svanita e tenta di
riaddormentarsi, Pamphilia sa che è arrivato il momento di svegliarsi e di spezzare le catene della tradizione per esprimere
pensieri e idee a lungo custoditi nella mente.
1.5 Il sonetto 19 (P 22). L’analisi strutturale del sonetto 19
(P 22) consente di evidenziare numerosi tratti distintivi della
poetica di Mary Wroth:
Come darkest night, beecoming sorrow best;
Light; leave thy light; fitt for a lightsome soule;
Darknes doth truly sute with mee oprest
Whom absence power doth from mirthe controle:
The very trees with hanging heads condole
Sweet sommers parting, and of leaves distrest
In dying coulers make a griefe-full role;
Soe much (alas) to sorrow are they prest.
Thus of dead leaves, her farewell carpett’s made:
Theyr fall, theyr branches, all theyr mournings prove;
48
M. Moore, op. cit., p. 136.
Mary Wroth
67
With leavles, naked bodies, whose huese vade
From hopefull greene, to wither in theyr love,
If trees, and leaves for absence, mourners bee
Noe mervaile that I grieve, who like want see.
La forma adottata è quella del sonetto all’inglese (Shakespearean sonnet) che si sviluppa in tre quartine a rime alternate e un
distico finale. Mary Wroth è abile a sviluppare il parallelismo
uomo-natura nell’arco di dodici versi per poi concludere
l’argomentazione con un periodo ellittico e arguto. Passando
alle tecniche di versificazione, notiamo come le apostrofi dei
primi due versi siano abilmente rafforzate dagli spondei (“Cóme
dá/rkest…”; “Líght léave…”) attraverso i quali l’autrice spezza
l’equilibrio del pentametro giambico. Queste variazioni si inscrivono in una trama metrica piuttosto regolare, pertanto acquistano un forte valore connotativo. Mary Wroth, come del resto Philip Sidney, non abusa delle variazioni metriche, ma le
dissemina in versi rigidamente modellati dal pentametro giambico. Nel secondo verso, l’ingegnoso intreccio del poliptoto
(light-light) con la figura etimologica (light-lightsome) traduce
l’atteggiamento ostinato e insistente di un soggetto poetico orientato ad offrire una rappresentazione di sé in contrasto con le
aspettative del lettore. L’io sfugge alla luce, preferisce lasciarsi
inghiottire dal buio per nascondersi dallo sguardo severo di chi
non tollera la vista di un corpo femminile palpitante di desiderio. Alla donna “oppressa” non rimane che agire in clandestinità, vivere le proprie passioni in silenzio, senza destare clamore,
esprimere i propri sentimenti in maniera obliqua, ermetica e indiretta, onde sfuggire alla censura dell’autorità patriarcale.
A livello morfosintattico, il timore di manifestare la propria
vulnerabilità e di esporsi allo sguardo degli altri si traducono nel
ricorso all’ellissi – la figura del beloved non viene in alcun modo evocata – e all’anacoluto, evidente nella mancanza di collegamenti sintattici nel periodo che si snoda tra il terzo e il quarto
verso. Nella terza quartina si registra un intorpidimento logicosintattico causato da un moltiplicarsi di pronomi di cui non è
facile individuare i rispettivi referenti: “her” sostituisce “sum-
Capitolo I
68
mer”, mentre i pronomi di terza persona plurale “theyr” sostituiscono rispettivamente “leaves” e “trees”, anche se l’adiacenza
tra i sintagmi “theyr fall” e “theyr branches” tende a confondere
i referenti e appare mirata a fare dell’ingarbugliata argomentazione un’icona dei contrastanti pensieri del parlante. Con riferimento alla struttura sintagmatica dei sonetti raccolti in Pamphilia to Amphilanthus, Mary Moore osserva:
A woman creating a poetic labyrinth in a Petrarchan sonnet sequence
speaks from the very center of this contradiction, transforming public
self-analysis – and erotic desire – into a spiritually respectable search
for self-knowledge. Wroth’s labyrinthine style dramatizes this search,
engaging her reader in the very process she represents in this difficult
but accomplished work of art49.
Siamo al primo importante snodo del tracciato poetico disegnato nel canzoniere. I grovigli sintattici che ostacolano
l’interpretazione di tanti passi dei sonetti di Pamphilia to Amphilanthus si formano ogni qual volta Mary Wroth cerca di tradurre le sue pulsioni più intime in un linguaggio fortemente codificato come quello petrarchesco. La cornice angusta del sonetto irregimenta il flusso di coscienza dell’io poetico, i cui pensieri, scontrandosi con cliché e topoi frusti e logori, diventano
sempre più vischiosi fino ad impaludarsi nelle sabbie mobili
della convenzione. Tuttavia, a disposizione dell’autrice rimangono una serie di dispositivi sintattici in grado di segnalare la
consistenza reale del vissuto emotivo dell’io narrante. Tra questi spicca l’uso del presente indicativo che dà un senso di concretezza e immediatezza alle idee espresse nel sintagma.
L’idioletto della poetessa non è particolarmente ricco, il vocabolario è semplice e disadorno. Mary Wroth non ricorre mai
alla tecnica dell’overstatement, non si lascia influenzare dalla
tipica “copiosità elisabettiana” che induceva poeti come Sidney
e Spenser ad iterare, glossare e amplificare i propri pensieri50,
49
M. Moore, op. cit., p. 122.
May Nelson Paulissen, The Love Sonnets of Lady Mary Wroth: A Critical Introduction, Salzburg, James Hogg, 1982, p. 194, scrive: “One finds no
50
Mary Wroth
69
preoccupandosi piuttosto di curare la sequenza delle sue scarne
argomentazioni in modo da disporre i singoli nuclei tematici
nelle caselle di un sintagma articolato e flessibile. Termini semplici ma suggestivi come “power” e “controle” alludono alla
possibilità di contrastare la dispersione dell’io acquistando autocoscienza e rinunciando, con stoica rassegnazione, a sentimenti e passioni destabilizzanti. La metafora che si snoda nella
seconda e terza strofa – collegate dalla congiunzione causale
“thus” e dal pronome anaforico “her” riferito a “sweet sommers” – ristabilisce un tono più pacato e riflessivo. Alla natura
vengono attribuiti sentimenti e sensazioni umane mediante il
ricorso alla pathetic fallacy, dispositivo retorico che stabilisce
una consonanza tra i ritmi esistenziali e quelli del mondo fisico
in un modo meno formale e più indiretto rispetto alla figura della personificazione51. Alle “chiare, fresche et dolci acque” dove
si materializza la visione beatificante di Laura, Philip Sidney e
Mary Wroth oppongono una visione più dimessa del cosmo e
della natura. Nel sonetto 31, Astrophil osserva i passi gravi e
stanchi con cui la luna “scala” le pareti celesti. Nel sonetto 19,
Pamphilia descrive alberi dai capi reclini, e foglie addolorate
(“distrest”). La natura antropomorfizzata è chiamata a condividere il dolore della protagonista, la cui condizione esistenziale
si dilata a dimensioni cosmiche.
I pensieri viaggiano oltre i limiti del verso e si inarcano in
run-on lines (4-5 verso e 11-12 verso), enjambements e cesure
abilmente distribuite. Non c’è sostantivo che non sia qualificato
da attributo: la notte è buia (“darkest night”), l’animo leggero
(“lightsome soule”), l’estate dolce (“sweet sommers”), le foglie
addolorate (“leaves distrest”), i colori morenti (“dying coulers”), mentre le foglie morte (“dead leaves”) formano un “tappeto di addio” (“farewell carpett”). L’ansia di rendere i propri
stati d’animo in maniera obliqua e indiretta induce Mary Wroth
borrowings, coinages, poeticisms, or compound epithets. She is concerned
that her words give emotional suggestion rather than scientific reading”.
51
Cfr. la voce ‘Pathetic fallacy’ in M. H. Abrams, A Glossary of Literary
Terms, Forth Worth, Harcourt Brace College Publishers, 1993, p. 142.
Capitolo I
70
a convertire i sostantivi in gruppi nominali, a calcare i contorni
di ogni significante, nella speranza che possa evocare oscuri stati d’animo senza per questo cedere alla pressione esercitata dalla massa incandescente di significati che arde nei sotterranei del
linguaggio poetico.
Le isotopie semiche che generano la struttura del testo si articolano nell’opposizione Light vs Dark e Mirth vs Sorrow ma
l’archisema del testo, l’ipogramma, è la descrizione del lamento
funebre52. Wroth costruisce una vera e propria cerimonia funebre a cui partecipano il parlante, angosciato dall’assenza
dell’amato, e gli alberi. Questi ultimi, dotati di una sensibilità
umana, elaborano il dolore per la fine della bella stagione spogliandosi dei loro orpelli e rimanendo nudi e spogli al centro di
un manto di foglie morte53. Il senso si accumula intorno a questa matrice concettuale che si manifesta sin dagli esordi del sonetto con insolito nitore. Non si sfugge alla vita, il dolore va elaborato, riconosciuto e vissuto con stoica sopportazione. Auspicando l’arrivo della notte, il soggetto lirico si rivela determinato ad affrontare la perdita di un legame affettivo che si fa
sempre più rarefatto e inconsistente, in quanto indebolito dalle
pressioni di una società ipocrita. Laddove il parlante dei sonetti
di Shakespeare è torturato e oppresso sia dalla luce diurna che
dal buio notturno (sonetto 28) e lo stesso Astrophil soffre “evils
both of the day and night” (sonetto 89, v. 9), Pamphilia lascia
che l’oscurità del proprio essere si confonda alle tenebre notturne; impara a nascondersi e quindi a difendersi dalle presenze e
dai fenomeni che la accerchiano per influenzarne le scelte. Dallo sfondo nero della notte si staglia solo la figura di una donna
sola e pensosa, assorbita nell’ascolto dei flebili mormorii
dell’anima. Il silenzio e la solitudine sono necessari per disto52
1983.
Cfr. Michael Riffaterre, Semiotica della poesia, Bologna, Il Mulino,
53
Vengono in mente i versi del sonetto 73 di Shakespeare: “That time of
year thou mayst in me behold, / When yellow leaves, or none, or few, do hang
/ Upon those boughs which shake against the cold, / Bare ruined choirs, where
late the sweet birds sang”.
Mary Wroth
71
glierla dai ritmi della quotidianità e innescare una meditazione
tesa a garantirle una presa stabile e sicura sul reale.
Sul piano intratestuale notiamo che in Pamphilia to Amphilanthus la “Notte” è spesso personificata fino a diventare una
figura femminile al pari di “Fortune” (P 36) e “Time”54. Così
Naomi Miller: “Unlike the male lover, these alternate figures of
female authority and companionship offer a complex support
for the female speaker’s attempts to claim a position of her
own”55. Pamphilia supera la polarizzazione notte/giorno e dà il
benvenuto alle tenebre: “Then wellcome Night, and farwell flattring day” (P 13). La Notte, il Tempo e la Fortuna diventano gli
alter ego di Ann Clifford, Susan Vere Herbert, Isabella Rich, e
tutte le altre nobili dame del cenacolo di Penshurst, atomi di una
comunità femminile che si aggrega attorno al desiderio di libertà e autonomia, nocciolo duro di un’alleanza tesa a destabilizzare il rigido codice di comportamento imposto dalla legge patriarcale. Da questa comunità femminile viene estromessa la figura cardine del beloved, mobile e sfuggente nella maggior parte dei canzonieri rinascimentali ma sempre metonimicamente
evocata mediante il blason, il catalogo delle attrattive del corpo
femminile. Una certa dose di self-enclosure è tipica del genere
in sé; solo nel canzoniere shakespeariano, nel quale emerge una
struttura attanziale triangolare, si registra una maggiore frequenza del pronome personale you56. Nei canzonieri di Drayton,
Daniel, Spenser e Sidney raramente c’è allocuzione, la figura
dell’amata distante e inaccessibile è smontata e ricomposta dallo sguardo analitico del poeta che ne controlla la fenomenologia
54
Nel drammatico sonetto 31 (P 36) la Fortuna offre conforto all’io narrante: “Till, ‘rise, sayd she, Reward to thee doth send / By mee the servante of
true lovers, joy: / Bannish all clowds of doubt, all feares destroy, / And now
on fortune, and on Love depend” (vv. 9-12). È così ribaltata la rappresentazione misogina che associa la figura allegorica di “Lady Fortune” ad una
sgualdrina pronta a concedere i suoi favori al miglior offerente.
55
N. Miller, Changing the Subject, cit., p. 196.
56
Cfr. Alessandro Serpieri, I sonetti dell’immortalità. Il problema
dell’arte e della denominazione in Shakespeare, Milano, Bompiani, 1998; e
Giorgio Melchiori, L’uomo e il potere, Torino, Einaudi, 1973.
Capitolo I
72
e ne illustra i tratti in maniera frammentaria e sineddochica. Al
contrario, in Pamphilia to Amphilanthus l’amante assente “occupies a more substantial than usual gap, as noted earlier. He
never appears descriptively, as in the blazons of male sonneteers, a kind of poem that clearly can be adapted to the female
poet’s purposes. Nor does Wroth’s beloved become narrative
presence, punning name, visual icon. This absence further isolates and encloses Pamphilia in her own complexity”57. Solo in
un piccolo gruppo di sonetti Pamphilia si rivolge direttamente
ad Amphilanthus, personaggio che non ha nulla di eroico, di idealizzato, in linea con la caratterizzazione che emerge in Urania, dove è presentato come un volgare donnaiolo. I lessemi
“well” e “will” potrebbero alludere a William Herbert, ma al
cospetto di una sequenza tanto areferenziale quanto Pamphilia
to Amphilanthus è arduo trovare riscontri. Ciò che manca, dunque, è un equivalente di Stella, un destinatario facilmente individuabile: “Noticeably absent in Wroth’s poetry is a clearly defined lover. Stella, as the object of Astrophil’s passion, occupies
an ever present position in Sidney’s poems”58. Le liriche sono di
fatto autoreferenziali, come l’ultima sezione dei sonetti di Shakespeare dedicati al fair youth, nella quale l’io lirico abbandona
gradualmente ogni intento encomiastico per ingaggiare una personale lotta contro le devastazioni del tempo e la transitorietà.
L’isolamento consente al cantore del fair youth come a Pamphilia di contrastare le forze che minacciano l’integrità del sé: la
paura di invecchiare e di morire, nel caso dei sonetti shakespeariani, i condizionamenti e le pressioni di padri, mariti e amanti,
nel caso dei sonetti di Mary Wroth. L’isolamento è il preludio
alla conoscenza di sé, la premessa e il punto di partenza di ogni
trasformazione, di ogni rottura con l’ordine.
57
M. Moore, op. cit., p. 135.
Paula Harms Payne, “Finding a Poetic Voice of Her Own: Lady Mary
Wroth’s Urania and Pamphilia to Amphilanthus, in S. King (ed.), op. cit., p.
215.
58
Mary Wroth
73
1.6 La critica alla corte e l’affermarsi del credo protestante. Nell’Inghilterra del XVI secolo la posizione sociale e lo
status finanziario dei sudditi erano variabili soggette ai capricci
della Fortuna, non a caso associata alla figura della sgualdrina
intenta a concedere e negare i suoi favori arbitrariamente. Non
era difficile cadere in disgrazia allorché si perdeva l’appoggio
politico e il sostegno finanziario del sovrano o del patrono aristocratico. L’autorità era conferita dal favore reale e la linea politica era definita dal sovrano in accordo con i più fidati collaboratori. La distribuzione di monopoli, l’assegnazione di terre, le
attribuzioni di incarichi, la concessione di onori e privilegi attiravano ogni genere di parassiti a corte, unico centro di potere
della nazione. Tra le diverse fazioni che si consolidavano attorno alle figure dei più potenti aristocratici, il re sceglieva di volta
in volta il suo entourage di consiglieri. La competizione era aspra e sfociava spesso nella violenza, fino a quando una fazione
riusciva a prevalere sulle altre conquistando i favori del sovrano. Diventare il favorito del re richiedeva astuzia e tempismo.
Bisognava conquistarsi l’accesso alla Privy Chamber, far visita
al sovrano continuamente, estorcere con l’adulazione la sua attenzione e la sua fiducia, saper sfruttare il momento giusto per
attaccare i leader delle altre fazioni.
Va detto che la regina Elisabetta non era particolarmente
vulnerabile alle pressioni dei cortigiani; quando si sentiva eccessivamente incalzata da richieste continue e insistenti si ritirava nelle sue stanze private per pensare e decidere in autonomia. Ben più malleabile appare Giacomo I, incapace di regolare
l’equilibro tra le fazioni opposte mediante una oculata distribuzione di favori e privilegi, e quindi responsabile del malcontento di numerosi gruppi della élite nobiliare del tempo, tagliati
fuori dal governo del paese a tutto vantaggio di una singola fazione politica piegata agli interessi spagnoli. Per gli emarginati
il Parlamento si rivelava l’istituzione più utile a disarcionare i
favoriti dai loro posti di potere e conquistare l’attenzione del re.
Ma, come noto, tra il 1611 e 1621 l’assemblea fu convocata una
sola volta, di qui l’inasprirsi dell’opposizione a Giacomo.
Capitolo I
74
Anche umanisti e letterati di diversa estrazione sociale ma
attratti dal miraggio comune di una sicura e stabile sistemazione
si ingegnavano a estorcere favori e finanziamenti sfruttando il
linguaggio suadente e persuasivo della poesia encomiastica. Da
semplice codice del canto d’amore, nel corso degli anni il sonetto si trasforma in veicolo di elogi al mecenate ed elaborate celebrazioni di principi e potenti cortigiani. Se ne servono poeti
come Sidney, Spenser e Jonson per rafforzare la loro posizione
in seno alle diverse fazioni nobiliari; se ne serve perfino Elisabetta I, dal momento in cui associa ai termini chiave del codice
petrarchesco un sistema di denotati orientato ad offrire
un’immagine di sé come body politic etereo e immortale che si
mostra ai cavalieri per essere continuamente lodato e incensato.
Per rafforzare i propri diritti e la propria autorità nei confronti
dell’aristocrazia di corte Elisabetta si trasforma in Laura, creatura magica di infinita bellezza, madonna pudica e saggia, feticcio da venerare e desiderare con costante devozione. Presentata
da artisti, poeti e cortigiani come Cynthia, Flora, Diana, Astrea
e Gloriana, la regina viene a incarnare la purezza della religione
riformata, perno teologico della cultura elisabettiana. La speranza di conquistare il cuore della “regina vergine” deve indurre
tutti i sudditi a sposarne il credo religioso e ad amarla e servirla
incondizionatamente, senza riserve59.
Anche Sir Philip Sidney, icona vivente della “dottrina” cavalleresco-protestante, ha bisogno di costruire un’immagine nitida di sé, anch’egli ha bisogno di un palcoscenico sul quale
mostrarsi ed essere riconosciuto, nonché di un pubblico di interlocutori con cui dibattere e confrontarsi. Ma questa volta è
l’uomo a dirigere il rituale del corteggiamento mentre la donna
lodata si trasforma nello specchio in cui si riflettono le virtù
dell’io poetico. Il setting delle sue liriche è sempre la Corte,
cerchio magico all’interno del quale tutti cercano di ritagliarsi
un piccolo spazio, iterandone e celebrandone norme e regole in
via di declino ma pur sempre essenziali. Il “palazzo” offre “spa-
59
H. Dubrow, op. cit., p. 27.
Mary Wroth
75
zi scenici” e spettatori sempre pronti ad apprezzare l’eloquenza
dell’attore o ad applaudire le gesta dell’abile torneatore:
Theatricality, in the sense of both disguise and histrionic selfpresentation, arose from conditions common to almost all Renaissance
courts: a group of men and women alienated from the customary roles
and revolving uneasily around a center of power, a constant struggle
for recognition and attention, and a virtually fetishistic emphasis upon
manner. The manuals of court behaviour which became popular in the
sixteenth century are essentially handbooks for actors, practical guides
for a society whose members were nearly always on stage60.
Gli interlocutori ai quali si rivolge Sidney in Astrophil and Stella, il “friend” del sonetto 14 o i “curious wits” del sonetto 23,
assistono a tanti quadretti drammatici che rappresentano le disarmonie di una mente sospesa tra realtà e finzione, richiami
della carne e fedeltà ai valori del puritanesimo cavalleresco.
L’aspirazione a condurre un’esistenza convenzionale, incarnando l’ideale rinascimentale del gentleman, si misura con le debolezze e le passioni irrazionali di una personalità oscillante fra i
due poli del nascosto e dell’esibito. La volontà di dissimulare e
mistificare è contrastata da una fatalità dell’espressione naturale, il narcisismo attenuato dall’esigenza di occultare i propri stati d’animo. Di qui la condanna espressa nei confronti di coloro
che assumono pose esteriori e sfruttano l’artificiosità dei motivi
del petrarchismo per accattivarsi il favore dei potenti, per fiaccare la resistenza della corte/sgualdrina e godere dei suoi servigi. Nel sonetto 54 il bersaglio della satira è proprio la figura
dell’amante convenzionale, sempre pronto ad ostentare sospiri,
languori e sofferenze di ogni tipo:
Because I breathe not love to everie one,
Nor do not use set colours for to weare,
Nor nourish speciall lockes of vowed haire,
Nor give each speech a full point of a grone,
The courtly Nymphs, acquainted with the mone
Of them, who in their lips Loves standerd beare;
60
S. Greenblatt, op. cit., p. 162.
76
Capitolo I
What he? Say they of me, now I dare sweare,
He cannot love: no, no, let him alone.
(AS, P 54, vv. 1-8)
La critica è diretta sia ai comportamenti affettati di aspiranti
cortigiani sia al codice poetico in cui prendono forma encomi,
omaggi, dediche e genuflessioni. L’affettazione di indipendenza
dai cliché del petrarchismo si fa ancor più diretta in altri sonetti
di Sidney:
Not at the first sight, nor with a dribbed shot
Love gave the wound, which while I breathe will bleed:
But knowne worth did in mine of time proceed,
Till by degrees it had full conquest got.
(AS, P 2, vv. 1-4)
Hart rent thy self, thou doest thy selfe but right,
No lovely Paris made thy Hellen his:
No force, no fraud, robd thee of thy delight,
Nor Fortune of thy fortune author is:
But to my selfe my selfe did give the blow
(AS, P 33, vv. 5-9)
What may words say, or what may words not say,
Where truth it selfe must speake like flatterie?
Within what bounds can one his liking stay,
Where nature doth with infinite agree?
(AS, P 34, vv. 1-4)
Astrophil non si innamora a prima vista, il sentimento ha bisogno di tempo per germogliare. L’infelicità non gli è imposta da
una forza sovrannaturale, ma si nutre delle sue umane debolezze. Sotto accusa non è solo il vocabolario del petrarchismo, ma
la possibilità stessa di esprimere sentimenti profondi in un linguaggio ormai frusto e logoro in quanto contaminato dal virus
dell’artificiosità. Una simile sfiducia nei confronti delle trappole
predisposte dalla convenzione poetica traspare nel sonetto 39 (P
45) di Pamphilia to Amphilanthus:
Iff I were giv’n to mirthe ‘t’wowld bee more cross
Thus to bee robbed of my chiefest joy;
Mary Wroth
77
Butt silently I beare my greatest loss
Who’s us’d to sorrow, griefe will nott destroy;
Nor can I as those pleasant witts injoy
My owne fram’d words, which I account the dross
Of purer thoughts, or recken them as moss
While they (witt sick) them selves to breath imploy,
Alas, think I, your plenty shewes your want,
For wher most feeling is, words are more scant,
Yett pardon mee, Live, and your pleasure take,
Grudg nott, if I neglected, envy show
‘T’is nott to you that I dislike doe owe
Butt crost my self, wish some like mee to make.
Non fidandosi delle sue stesse “parole contraffatte” (“fram’d
words”), definite, con i neoplatonici, “escrescenze di pensieri
più puri” (“which I account the dross / Of purer thoughts”),
Mary Wroth denuncia le ridotte capacità espressive di un codice
ormai inadeguato a veicolare il vissuto emotivo del parlante
senza nasconderne i tratti specifici dietro un fitto strato di complimenti galanti, qui identificati al muschio (“moss”)61. La parola del padre, il linguaggio simbolico, non riescono più a regolare e
contenere le spinte dell’immaginario, innescate da fermenti sociali
ed “esplosioni” culturali quali l’aumento dell’alfabetizzazione, lo
sviluppo dell’editoria, l’avanzata del puritanesimo, la conquista di
nuovi mondi e l’espansione dei mercati. L’abbondanza di parole,
osserva Pamphilia, cela un ottundimento emotivo che nasce nel
linguaggio. Il telaio di cliché e formulette consumate dal tempo
non riesce più a contenere una massa di idee in continua espansione. Il parlante si affanna nella ricerca di significanti vivi, ancora freschi di conio e quindi pronti ad assorbire le marche di
un fascio di pensieri che, filtrati dal prisma emotivo, si diversificano e si arricchiscono di tutte le sfumature dello spettro luminoso. Ma Lady Mary questi significanti non li trova, o forse
sente di non poterli nemmeno cercare, dovendosi attenere, in
61
La metafora è particolarmente suggestiva. In natura il muschio “ammorbidisce” gli spigoli e le scabrosità di rocce e alberi proprio come i rivestimenti retorici del petrarchismo attenuano e addolciscono turbolenti vissuti
emotivi.
Capitolo I
78
quanto donna, al protocollo espressivo fissato dal padre e dal
marito. Non le rimane che scusarsi per il suo sfogo, attribuibile
all’invidia di una nobildonna allontanata dalla corte, e cancellare ogni traccia di sé:
Following her direct attack on her male colleagues Pamphilia withdraws her criticism and asks for pardon if she has insulted them, encouraging other writers to compose their verses as they wish. Unlike
Astrophil, who argues throughout his sequence for others to follow his
advice for formulating persuasive poetry, Pamphilia blames only herself and ends her sonnet with another apology, typical of a female
self-representation62.
Come si è accennato, i limiti del codice cortese cavalleresco
affiorano anche dai versi di Philip Sidney ma l’icona stessa
dell’ethos elisabettiano non avrebbe mai potuto scontrarsi con
un sistema culturale al quale sentiva di appartenere nonostante
ne percepisse l’ossificazione. Da centro propulsore degli studi
umanistici, la corte si stava lentamente trasformando nel regno
dell’arrivismo, della falsità e della corruzione. I pensieri e le parole espunte dal canzoniere di Sidney sarebbero state presto
raccolti dai drammaturghi del XVI secolo, pronti a captare i segnali di insofferenza lanciati dal popolo63. Più vicina ai sentimenti anticourt dei puritani appare Mary Wroth:
Itt is nott love which you poore fooles do deeme
That doth apeare by fond, and outward showes
Of kissing, toying, or by swearings glose,
O noe thes are farr off from loves esteeme;
Alas they ar nott such that can redeeme
Love lost, or wining keepe those chosen blowes
Though oft with face, and lookes love overthrowse
Yett soe slight conquest doth nott him beeseeme,
‘T’is nott a showe of sighes, or teares can prove
Who loves indeed which blasts of fained love
Increase, or dy as favors from them slide;
62
P. Harms Payne, op. cit., p. 216.
Cfr. Clara Mucci, Liminal personae: marginalità e sovversione nel teatro elisabettiano e giacomiano, Napoli, E.S.I., 1995. Si vedano, in particolare,
i capitoli dedicati a John Webster.
63
Mary Wroth
79
Butt in the soule true love in safety lies
Guarded by faith which to desart still hies,
And yett kinde lookes doe many blessings hide.
(PA, P 46, corsivi miei)
Occultare il proprio volto in una maschera di lacrime e sospiri
rivela l’aspirazione ad essere altro da ciò che si è. L’inganno,
l’adulazione (“glose”) e la dissimulazione (“swearings”), conducono all’artificialità, al grado zero dell’espressività. A forza
di recitare sempre lo stesso ruolo, i “poore fooles” del sonetto
40 (P 46) e i “pleasant witts” del sonetto 39 (P 45) si trasformano nei personaggi stereotipati di una commedia di Ben Jonson64,
flat characters incapaci di evolvere, marionette in balia del
grande manovratore (Giacomo I). Alla piatta e disforica caratterizzazione del cortigiano, Mary Wroth oppone una descrizione
di Pamphilia imperniata sull’isotopia dell’isolamento e
dell’interiorità. Tra le pareti chiuse dell’anima, fortezza circondata dal “deserto” e protetta dalla fede, l’amore, sinonimo di
debolezza e vulnerabilità, perché porta a scoprirsi ed è fonte di
continue disillusioni, “giace” in sicurezza (“in safety lies”)65. La
rete semantica dell’apparire, costituita da lessemi e locuzioni di
marca negativa quali “apeare”, “outward showes”, “showe of
sighes”, “fained”, si annulla in quella del ripiegamento interiore, fulcro etico della dottrina protestante.
L’adesione di Mary Wroth ai principi dell’etica calvinista
traspare con insolita chiarezza nel secondo sonetto della Corona:
Is to leave all, and take the thread of love
Which line straite leads unto the soules content
Wher choyse delights with pleasures wings doe move,
And idle phant’sie never roome had lent,
When chaste thoughts guide us, then owr minds ar bent
To take that good which ills from us remove:
64
Penso a Every Man in His Humour (rappresentato nel 1558 ma pubblicato nel 1616) con i suoi personaggi concepiti secondo la teoria degli umori.
65
Così Pamphilia in P 35: “A worthy love butt worth pretends” (v. 17).
Capitolo I
80
Light of true love, brings fruite which none repent
Butt constant lovers seeke, and wish to prove;
Love is the shining starr of blessings light,
The fervent fire of zeale, the roote of peace,
The lasting lampe, fed with the oyle of right;
Image of fayth, and wombe for joyes increase.
Love is true vertu, and his ends delight;
His flames are joyes, his bands true lovers might.
(PA, P 78, corsivi miei)
Le gioie dei sensi e le oziose fantasie sono espulse dalla fortezza dell’anima da un esercito di pensieri casti. Con un’abile fusione dei simbolismi del neoplatonismo e del puritanesimo,
l’amore è associato ad una stella che brilla di luce benedetta e
guida il soggetto nel suo percorso ascensionale, al fuoco dello
zelo e ai bagliori della lampada eterna, alimentata dall’olio della
ragione critica66. Ma l’amore è anche il ventre dove germoglia
la gioia e l’entusiasmo del credente. La complessa catena associativa che lega la donna all’avidità, alla corruzione e alla corte
è dunque ribaltata. Sono gli uomini, con la loro inaffidabilità, la
loro promiscuità e i loro “outward showes” a determinare il degradarsi delle istituzioni67. La fecondità femminile è associata
alla spiritualità, la capacità di donare vita all’atto di fede. Dopo
aver descritto i momenti di uno scontro tra dissolutezza e castità, nella terza quartina Mary Wroth sbroglia il groviglio dei suoi
pensieri ed esprime in maniera chiara e lineare la sua idea di
amore, la sua visione della vita.
66
Sull’idea neoplatonica di amore si veda La filosofia del Rinascimento, a
cura di Germana Ernst, Roma, Carocci, 2003, e, in particolare, il capitolo curato da Teodoro Katinis: “Marsilio Ficino e la rinascita del platonismo”, pp.
29-47.
67
“Amphilanthus belongs wholly to mutability and is in fact responsible
for some of its manifestations. In giving this sequence of sonnets to Pamphilia, Wroth allows her to create a new – and female – world of constancy to
answer the old – and preponderantly male – world of change in the Urania.
Amphilanthus’ notable absence in the sequence is a deliberate exclusion, for
Pamphilia’s purpose is not to woo him, win him, or transform him in any way.
He has no place within the scheme of constancy, because he represents
change”, E. Beilin, “‘The Onely Perfect Virtue’”, cit., p. 240.
Mary Wroth
81
È il sonetto più filosofico della raccolta, nello spazio di pochi versi l’autrice espone il suo credo religioso e la sua poetica
dell’autenticità. Il valore della costanza, della fedeltà a se stessi
piuttosto che a una identità sociale in cui il soggetto non vuole
più riconoscersi, è veicolato dall’aggettivo “lasting” che modifica uno dei termini chiave del simbolismo puritano: la lampada
ad olio che illumina i passi della nostra esistenza. Nella bibbia
di re Giacomo si registrano ben 44 occorrenze del lessema
“lamp”. Il Salmo 119:105 recita: “Thy word is a lamp unto my
feet, and a light unto my path”. Nel suo pellegrinaggio spirituale
il fedele è guidato dalla luce del verbo ma deve armarsi di zelo
e perseveranza: “For he put on righteousness as a breastplate,
and an helmet of salvation upon his head; and he put on the
garments of vengeance for clothing, and was clad with zeal as a
cloak” (Isaia, 59:17). La lampada è anche segno di attesa e vigilanza, stati mentali attraverso i quali Mary Wroth tenta di vincere le tentazioni della carne e i richiami della mondanità. La liturgia utilizza la viva luce del fuoco come simbolo di stabilità e
forza interiore: ciascuno deve essere “lampada a se stesso”,
conquistare da solo la pace dello spirito nell’impegno personale, nel sentirsi responsabile della propria vita, senza troppo ‘appoggiarsi’ agli altri o alle istituzioni (la corte). Il richiamo alla
responsabilità individuale si oppone alla deresponsabilizzazione
personale e rafforza la causa della donna “protestante”, desiderosa di compiere il suo viaggio di purificazione in solitudine in
modo da non subire condizionamenti.
A metà strada fra l’esperienza descritta dal Tyndale di Obedience of a Christian Man e dal Bunyan di The Pilgrim’s Progress, Mary Wroth scrive la sua autobiografia spirituale implicita, spinta dall’esigenza di fare uno scrutinio di sé, e raggiungere
una pienezza spirituale da sempre negata alle donne:
[...] the characteristic male as well as national dream is for an unshakable self-sufficiency that would render all relations with other superfluous [...] The single self, the affirmation of wholeness or stoic apathy or quiet of mind, is a rhetorical construct designed to enhance the
speaker’s power, allay his fear, disguise his need. The man’s singleness is played off against the woman’s doubleness – the fear that she
Capitolo I
82
embodies a destructive mutability, that she wears a mask, that she
must not under any circumstances be trusted, that she inevitably repays love with betrayal68.
Mary Wroth inverte questo paradigma associando i sèmi della
mutevolezza e dell’inaffidabilità alla condotta del cortigiano intrigante e dissimulatore. In Urania sono gli uomini a tradire, a
non essere degni di fiducia. In Pamphilia to Amphilanthus non
c’è più posto per loro, e il percorso di self-fashioning intrapreso
dell’eroina può finalmente compiersi in solitudine69.
Pamphilia non elabora nuovi modelli di comportamento, si
limita a rifiutare quelli canonici, non tenta di scardinare la fenomenologia della simulazione, ma ne lamenta la desemantizzazione:
Bee you all pleas’d? your pleasures grieve nott mee:
Doe you delight? I envy nott your joy:
Have you content? contentment with you bee:
Hope you for bliss? hope still, and still injoye:
Lett sad misfortune, haples mee destroy,
Leave crosses to rule mee, and still rule free,
While all delights theyr contrairies imploy
To keepe good back, and I butt torments see,
Joyes are beereav’d, harmes doe only tarry;
Dispaire takes place, disdaine hath gott the hand;
Yett firme love holds my sences in such band
As since dispis’ed, I with sorrow marry;
Then if with griefe I now must coupled bee,
Sorrow I’le wed; Dispaire thus governs mee.
(PA, P 10)
Come osserva Lotman, le ripetizioni di vario grado adempiono
“una funzione preminente nell’organizzazione del testo”70. Nella prima quartina un parallelismo sintattico evidente nonché una
serie di iterazioni e chiasmi danno slancio e compattezza alla
68
S. Greenblatt, op. cit., p. 141.
Per un approfondimento sul tema del rapporto Mary Wroth/poeti spenseriani si veda R. Smith, op. cit., p. 420.
70
Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990,
p. 240.
69
Mary Wroth
83
tesi sostenuta da Mary Wroth, che individua nell’ozio dello spirito e nell’indolenza dei cortigiani, qui evocati dal prudente
“you”, il tarlo della società. La figura dell’antitesi permette di
isolare, nella prima quartina, due contrastanti aree semantiche,
l’una connessa al piacere e alla spensieratezza, l’altra al travaglio interiore. La prima area semantica è collegata al pronome
“you”, l’altra a pronomi o espressioni pronominali di prima persona di cui si registrano ben dieci occorrenze. Con un’abile
permutazione delle marche i lessemi “pleasures”, “delight”,
“joy”, “contentment” e “bliss” descrivono il mondo esterno come il regno dell’ozio e dell’escapismo. L’organizzazione sintattica delle unità di senso è funzionale al disvelamento del contrasto tra l’io testuale e gli altri cortigiani. L’anadiplosi (…X/X…)
del terzo verso si intreccia al chiasmo (“Have you content? contentment with you bee”; x y z / z y x) e alla figura etimologica
(content/contentment) che agiscono da rinforzo tematico e ritmico al fuoco di fila delle domande di Pamphilia. L’io lirico
scredita la fenomenologia della corte, collocata sotto la cifra
dell’effimero.
La seconda quartina mette in scena l’occultamento dell’altro,
del diverso da sé; il sonetto si chiude al rapporto diretto e torna
a veicolare le meditazioni dell’io poetico. Il tono si fa più sofferto, l’occorrimento anaforico di “still” sembra estendere lo
stallo emotivo dei cortigiani (v. 4) ai sentimenti del parlante,
intrappolato in un labirinto di frustrazioni da cui cerca ostinatamente di fuggire. In Pamphilia to Amphilanthus è raro riscontrare momenti dinamici, scelte, cambiamenti di rotta, non c’è un
reale sviluppo diegetico, non c’è storia. C’è solo la descrizione
del travaglio mentale di un soggetto impegnato a reprimere i
propri slanci emotivi e i propri desideri più intimi per approdare
ad una stoica accettazione della solitudine e della privazione.
Dando voce ai suoi pensieri in una forma poetica tanto stilizzata
Mary Wroth aveva penetrato il mondo simbolico dalla porta
principale. Le sue incursioni in una pratica culturale da sempre
appannaggio degli uomini e il suo desiderio di scrivere “nel
nome del padre” potevano essere soddisfatti solo a patto di rinunciare a una parte di sé, reprimere i propri impulsi emotivi
Capitolo I
84
per adeguarsi alla norma patriarcale, farla propria per passarla al
setaccio, alla ricerca di passi da riscrivere, spazi bianchi da
riempire e campi semantici da ibridare e arricchire, onde ribaltare convinzioni e credenze assiomatiche della cultura rinascimentale.
Il secondo emistichio dell’ottavo verso, che appare slegato
dal periodo che si snoda nella seconda quartina, introduce una
nota di sconforto che preconizza l’amaro sfogo dei vv. 9 e 10
dove il ricorso alla coordinazione sfocia nel terribile asindeto:
“Joyes are beereav’d, harmes doe only tarry; / Dispaire takes
place, disdaine hath gott the hand”. L’incalzante triplicazione
della dentale [d] (dispaire, disdaine) comunica un senso di inevitabilità che si scontra con l’avversativa “Yett” che in extremis
cambia il tono del sonetto e rimette tutto in discussione. A proposito di questi continui e repentini sbalzi della curva emotiva,
Naomi Miller parla di “attempts to master the self”71. Mary
Wroth appare timorosa e insicura quando si tratta di fustigare i
vizi e la corruzione dei cortigiani, in fondo quel regno di dissimulazione è stato il palcoscenico sul quale lei stessa ha interpretato l’ambito ruolo della cortigiana favorita della regina. Le
memorie del passato invadono il presente e innescano un dinamismo ossimorico che smussa gli spigoli della critica. Le sorprese non mancano nemmeno all’interno di un singolo verso.
Nel sintagma “sorrow marry”, che intrattiene un rapporto chiastico con “sorrow I’le wed” dell’ultimo verso, si scontrano valori connotativi di segno opposto. L’oggetto “sorrow” annulla un
componente semantico essenziale del predicato “marry” disorientando il lettore.
Il sonetto P 26 si offre come un ideale sviluppo dei temi affrontati in P 10. In questo caso l’altro, il diverso da sé, diventa
“every one”, mentre i riferimenti alla natura effimera dei tipici
passatempi di corte si fanno più espliciti:
When every one to pleasing pastime hies
Some hunt, some hauke, some play, while some delight
71
N. Miller, Changing the Subject, cit., p. 155.
Mary Wroth
85
In sweet discourse, and musique showes joys might
Yett I my thoughts doe farr above thes prise.
The joy which I take, is that free from eyes
I sitt, and wunder att this daylike night
Soe to dispose them-selves, as voyd of right;
And leave true pleasure for poore vanities;
When others hunt, my thoughts I have in chase;
If hauke, my minde att wished end doth fly,
Discourse, I with my spiritt tauke, and cry
While others, musique choose as greatest grace.
O God, say I, can thes fond pleasures move?
Or musique bee butt in sweet thoughts of love?
Il discorso infrange le barriere del verso e si snoda in un periodo
tortuoso, spezzato da incidentali e parentetiche, come se l’io
narrante stesse per cedere alla pressione esercitata dai pensieri.
L’antitesi dei soggetti grammaticali, “I” vs “every one”, è ancora in primo piano ma si arricchisce di nuovi motivi nel momento in cui il primo è associato a “thoughts”, il secondo a “pastime”. Il testo parla delle pose, delle idee e delle tattiche comuni
ai componenti del “branco”, ma sta in realtà discorrendo della
decadenza della corte di Giacomo I, dominata da fazioni procattoliche72.
L’ascesa al trono di Giacomo I aveva portato all’unificazione
della Scozia e dell’Inghilterra nonché alla pace con la Spagna. Il
nuovo sovrano aveva tre figli, due maschi e una femmina, che
avrebbero garantito il perpetuarsi della stirpe. La prospettiva di
un futuro libero dalle controversie e dalle incertezze circa la
successione al trono di Inghilterra non poteva che confortare un
popolo quanto mai desideroso di stabilità. Tuttavia, gli elisabettiani erano profondamente turbati dal mutamento di temperie
innescato dalla politica prudente del sovrano, nient’affatto interessato ad assumere il ruolo di capo dell’Europa protestante.
Giacomo non abbracciò alcun’idea di missione di riforma uni72
R. Smith, op. cit., p. 417. “Through genre”, osserva Rosalind Smith,
“Wroth capitalizes upon a cultural nostalgia for the ‘golden age’ of Elizabethan rule and uses the discourse of withdrawal and banishment to express a
disenfranchisement from Jacobean rule”.
Capitolo I
86
versale o di sostegno del protestantesimo europeo; la prudenza
gli suggeriva di evitare qualsiasi scontro con le potenze cattoliche ispano-asburgiche. Il suo obiettivo era quello di raggiungere
la pace generale mediante complesse alleanze matrimoniali e
abili interventi diplomatici, secondo un progetto articolato in
più fasi, la più importante delle quali prevedeva le nozze tra il
principe Carlo, l’erede al trono, e Maria, l’Infanta di Spagna,
cattolica73. Umanisti e letterati come Sir Walter Ralegh e Fulke
Greville temevano che queste manovre avrebbero portato al
crollo dei valori del puritanesimo cavalleresco elisabettiano, gli
stessi per cui Philip Sidney aveva sacrificato la vita.
Va da sé che l’opposizione di Giacomo al Puritanesimo non
si basava su questioni teologiche ma su esigenze politiche.
L’assolutismo regio era incompatibile con una Chiesa organizzata dal basso e attraversata da fermenti democratici. Non che i
cattolici fossero entusiasti della politica reale, se consideriamo
che nel 1605 un gruppo di nobili di parte gesuita guidati da Guy
Fawkes organizzò la “congiura delle polveri”, atto terroristico
volto a eliminare l’intera classe dirigente, monarca incluso74. Le
73
L’unione sfumò a causa di insanabili divergenze politiche e religiose.
Carlo sposerà la principessa cattolica Enrichetta Maria di Francia. Sulle relazioni anglo-spagnole nei primi anni del regno di Giacomo si veda A. S.
Loomie, “Toleration and Diplomacy. Religious Issue in Anglo-Spanish Relations, 1603-1605”, in Transactions of the American Philosophical Society,
LIII, part. 6, 1969, pp. 3-60.
74
Il progetto era quello di far saltare in aria il parlamento il giorno della
seduta di apertura con 36 barili di esplosivo. Il piano fu scoperto e i ribelli furono catturati e giustiziati. Sulla politica religiosa di Giacomo I si vedano S. J.
La Rocca, “‘Who Can’t Pray With Me, Can’t Love Me’: Toleration and Early
Jacobean Recusancy Policy”, in Journal of British Studies, 23, 1984, pp. 2236; K. Fincham, P. Lake, “The Ecclesiastical Policy of King James I”, Journal
of British Studies, 24, 1985, pp. 169-207; R. Petrs, “Some Catholic Opinions
of King James VI and I”, in Recusant History, X, 5 (1970), pp. 292-303 e L.
Peck (ed.), The Mental World of the Jacobean Court, Cambridge, Cambridge
University Press, 1991. Sulla “tassonomia religiosa” inglese del tempo si vedano C. Questier, Conversion, Politics and Religion in England, 1580-1625,
Cambridge, Cambridge University Press, 1996; A. Milton, Catholic and Reformed. The Roman and Protestant Churches in English Protestant Thought,
1600-1640, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; T. H. Clancy,
Mary Wroth
87
tensioni col parlamento, la crescita esponenziale dei debiti di
guerra e della disoccupazione, i traffici di titoli e la frettolosa
concessione di monopoli – il cui effetto era quello di assicurare
profitti a una ristretta cricca di cortigiani e di rallentare lo sviluppo dell’industria violando il principio della libertà commerciale – completano il disastroso bilancio politico del gruppo
guidato da re Giacomo. I fasti di corte non potevano più mascherare una realtà corrotta e instabile, la propaganda eretta intorno al sovrano e i discorsi sul diritto divino dei regnanti non
raggiunsero lo scopo di trasferire la devozione per i Tudor alla
nuova dinastia. Chiunque poteva accorgersi della profonda differenza tra la vita di corte al tempo di Elisabetta, con
l’accentuazione dei valori della castità e della dignità, e gli eccessi dei cortigiani al tempo di re Giacomo, ai quali Mary
Wroth indirettamente allude allorché dice di preferire la quiete
della tomba alla “lothed company who allways jarr / Upon the
string of mirthe that pastime gave” (P 44, vv. 7-8). Nel 1606, in
occasione dei festeggiamenti per la visita del re di Danimarca,
Giacomo I, il suo ospite e un gran numero di cortigiani e cortigiane, storditi dall’alcol, si lasciarono andare a eccessi di ogni
tipo75. Questo genere di intemperanze non era tollerato durante
“Papist-Protestant-Puritan: English Religious Taxonomy, 1565-1665”, in
Recusant History, XIII, 4 (1976), pp. 227-53.
75
L’episodio è riportato da E. W. Ives, “Shakespeare and History: Divergences and Agreements”, Shakespeare Survey, 38 (1985), p. 20. Sul tema
dell’immorale sregolatezza del sovrano e dei suoi cortigiani vale quanto scrive
J. P. Kenyon: “The elaborate masques of Inigo Jones, which were a feature of
the reign, could not be ignored by the public – in fact their function was to be
noticed; as was the lavish scale of Court entertainment, reaching new heights
in 1604 for the Spanish peace delegation, and in 1606 for the state visit of
James’ brother-in-law, the king of Denmark. His courtiers, gladly throwing
off the restrictions imposed by Elizabeth, emulated his example; they built
houses, it was said, ‘like Nebuchadnezzar’s’, they threw away fortunes on
gambling, on such vulgar displays as the ‘double supper’ or at the tilts [...] To
a certain degree this was acceptable; the King’s prestige was the nation’s prestige, and the nation could not afford to seem pauper. On the other hand, there
was a growing body of opinion, puritan in tone if not ‘Puritan’ in religion,
which argued that if kings were indeed God’s vice-regents they should model
their lives on His, and keep in mind the Christian virtues of abstemiousness,
88
Capitolo I
il regno di Elisabetta. L’austero contegno della regina contribuì
a dare credibilità all’associazione tra la reggente e l’immortale
Gloriana ed era un ricordo vivo quando si trattò di demistificare
le finzioni di Giacomo I. Il mito del diritto divino del sovrano
non poteva più attecchire nelle menti di un popolo sempre più informato e politicizzato grazie alla crescita dell’alfabetizzazione e
al rapido sviluppo della stampa periodica e pamphlettistica.
Al gioviale cameratismo della corte di re Giacomo, l’io lirico contrappone la meditazione privata e solitaria, per dirla con
Elizabeth Hanson: “What’s being rejected here is social activity
of any kind”76. Mary Wroth si concede tempo per riflettere, per
ripensare alla propria condizione di emarginata e magari immaginare i tempi d’oro del regno elisabettiano, segnati dalle imprese eroiche dei militanti del protestantesimo. Tempi in cui la vita
di corte non offriva solo immagini di licenziosa spensieratezza e
non era segnata dalle macchinazioni di una nobiltà sempre più
corrotta e decadente. Pamphilia “siede e sogna” (“I sitt, and
wunder”) al riparo da sguardi indiscreti (“Free from eyes”), rimane immobile, preferisce la stasi allo spostamento meccanico
e a senso unico, la notte al giorno. Il suo pensiero libero sfugge
alla tirannia delle convenzioni sociali e “vola” via libero e indipendente77. Si noti come al verbo neutro “consider” Mary
Wroth preferisca “prise” in modo da accentuare il valore della
libertà di pensiero, conquistata, bisogna sottolinearlo, al prezzo
di una morte sociale che produce un trauma da distacco solo
parzialmente superato:
sobriety and charity. Moreover [...] too many of James’s courtiers were handsomely rewarded without offering any apparent service in return” (Stuart England, Harmondsworth, Penguin, 1978, pp. 55-6).
76
Elizabeth Hanson, “Boredom and Whoredom: Reading Renaissance
Women’s Sonnet Sequences”, The Yale Journal of Criticism, 10 (1997), p.
183.
77
Jeff Masten osserva che Pamphilia è immobile anche in Urania: “In an
extremely public narrative – detailing the wanderings of innumerable characters across a seemingly boundaryless Eurasian landscape – she is remarkably
immobile, and her poetic process is closely linked with retirement” (op. cit., p.
33).
Mary Wroth
89
Truly poore Night thou wellcome art to mee:
[...]
I love thy grave, and saddest lookes to see,
Which seems my soule, and dying hart intire,
Like to the ashes of some happy fire
That flam’d in joy, butt quench’d in miserie
(P 17, vv. 1-8)
Allontanarsi dalla corte equivale ad uscire di scena, abbandonare il palcoscenico e sparire dietro le quinte, negli spazi bui
dell’anonimato. Smettere di recitare il ruolo della perfetta cortigiana per ritirarsi nella sfera privata della meditazione solitaria
richiede una notevole elasticità mentale da parte di una nobildonna introdotta a corte fin dalla tenera età, anche se va detto
che nel caso di Mary Wroth gli scompensi legati al deteriorarsi
della sua immagine fittizia furono presto compensati da una
nuova fioritura di pensieri e idee:
What pleasure can a bannish’d creature have
In all the pastimes that invented arr
By witt or learning, absence making warr
Against all peace that may a biding crave;
Can wee delight butt in a wellcome grave,
Wher wee may bury paines, and soe bee farr
From lothed company who allways jarr
Upon the string of mirthe that pastime gave
(PA, P 44, vv. 1-8)
Mettiamo a confronto questo sfogo di Mary Wroth con
l’invettiva lanciata da John Donne all’amico che gli rimprovera
una certa incuria per gli affari del mondo:
For Godsake hold your tongue, and let me love,
Or chide my palsie, or my gout,
My five gray haires, or ruin’d fortune flout,
With wealth your state, your minde with Arts improve,
Take you a course, get you a place,
Observe his honour, or his grace,
Or the Kings reall, or his stamped face
Contemplate, what you will, approve,
Capitolo I
90
So you will let me love78.
(Songs and Sonnets, “The Canonization”, vv. 1-9)
Entrambi i poeti tentano di elaborare il senso di frustrazione che
deriva dal sentirsi tagliati fuori dal “giro” che conta. Entrambi
provano ad autoconvincersi di aver fatto la scelta giusta rinunciando alla sfera pubblica per quella privata79. Da una posizione
esterna al “palazzo” Mary Wroth scorge i segni del cedimento
strutturale che di lì a poco avrebbe determinato il crollo della
monarchia Stuart ma il suo ritirarsi a vita privata non contribuisce a dare continuità e stabilità al suo tormentato rapporto con
William Herbert. Dopo la morte del marito, seguita a ruota da
quella del loro unico erede, ella si trovò a dover fronteggiare da
sola un esercito di creditori determinati a destabilizzare la sua
preziosa indipendenza finanziaria pur di essere saldati. Al contrario John Donne aveva ottenuto ciò che più desiderava dalla
vita, un legame forte e duraturo con Ann More, ma rispetto a
Mary Wroth, che poteva sempre contare sull’appoggio di una
buona schiera di amici importanti, trovò ben più arduo accettare
la rinuncia ai privilegi (economici e sociali) che solo una carriera da cortigiano gli avrebbe garantito80.
78
John Donne, Selected Poetry, a cura di John Hayward, Harmondsworth,
Penguin, 1985, pp. 28-30.
79
Maureen Quilligan tesse un interessante confronto tra John Donne e
Mary Wroth: “Wroth had fallen in love with her first cousin, and Donne had
fallen in love and married the sixteen-year-old niece of the Lord for whom he
worked as secretary. As a member of a great household, than, Donne’s breach
in stealing the affections of a teenage girl without her father’s consent is
something akin to the trespass against the exogamous traffic in women Wroth
also caused when she bore to her first cousin two illegitimate children.
Donne’s wife’s father had him arrested and then went so far as to have Lord
Egerton dismiss him from his position as secretary, a scandal from which
Donne’s career never fully recovered. Both transgressed against the social
rules prescribing conduct in the selection of appropriate mates – both then in
some profoundly similar sense, transgressed against the patriarchal system run
by incest taboos” (“Completing the Conversation”, Shakespeare Studies, 25,
1997, p. 43).
80
Dayton Haskin fornisce una serie di prove circostanziali che dimostrano
come Donne non tardò a pentirsi della sua frettolosa decisione di sposare se-
Mary Wroth
91
I componimenti offrono due interessanti variazioni sul tema
della perdita di prestigio sociale. Nella versione di Mary Wroth
si registra una tensione tra l’impulso ad evadere dalla “lothed
company” dei cortigiani e la nostalgia per un mondo da cui il
parlante si sente inevitabilmente tagliato fuori. Pamphilia non
descrive se stessa come “lonely” o “exiled creature”, ma come
“bannish’d creature”, quasi a voler evidenziare i condizionamenti esterni che la hanno indotta a lasciare la corte. Il participio passato “bannished” esclude ogni idea di scelta autonoma e
individuale. Ma c’è di più. L’assenza, la lontananza dalla corte e
dalla “lothed company”, scrive Pamphilia, “guerreggia con la pace”, produce ansia e instabilità nel suo animo, confessione che corrode il rivestimento retorico della successiva interrogazione: “Can
we delight butt in a wellcome grave?”. L’argomentazione sviluppata nella prima quartina induce il lettore a rispondere “no” a questa domanda. Se il credo religioso spinge il parlante verso un degretamente la figlia di Sir George More: “In 1602, writing to Sir Thomas Egerton after his dismissal, Donne spoke of his having ‘died’ after contracting
in Egerton’s household the ‘sickness’ of his love. A decade later, Donne used
the same metaphor in a letter to Goodere: ‘I must confess, that I dyed ten
years ago’. About 1608, writing to Lord Hay, Donne referred to his marriage
as ‘that intemperate and hastie act of mine’. This letter suggests that the error
was well known at court. ‘I have been told’, Donne remarks to Hay, ‘that
when your Lordship did me that extream favour, of presenting my name, his
Majestie remembred me, by the worst part of my historie, which was my disorderlie proceedings, seaven years since, in my non-age’” (“A History of
Donne’s ‘Canonization’ from Izaak Walton to Cleanth Brooks”, The Journal
of English and Germanic Philology, 92, 1993. Il saggio è consultabile anche
in rete: http://www.geocities.com/milleldred/donnehaskin.html). Dietro alla
critica aspra e pungente della corte, osserva Douglas L. Peterson, si nasconde
la frustrazione per una perdita impossibile da compensare: “In contrast to
Greville, whose Caelica is the history of his shifting from a courtly to a noncourtly position, Donne never reveals any sympathy with the Court as a cultural institution. He is an outsider who speaks of the world of courtly and political preferment with all of the vehemence of one whose expectations in that
world, and we know that they were once very promising, have been disappointed” (The English Lyric from Wyatt to Donne, East Lansing, Colleagues
Press, 1990, p. 287). Si vedano, inoltre, R. C. Bald, John Donne: A Life, Oxford, Oxford University Press, 1986 e Arthur F. Marotti, John Donne, Coterie
Poet, Madison, University of Wisconsin Press, 1986.
92
Capitolo I
stino di reclusione e meditazione solitaria, i fasti e l’euforica
spensieratezza della vita mondana (“the ashes of some happy
fire / that flam’d in joy [...]” P 17, vv. 7-8) non cessano di esercitare un’attrazione difficile da contrastare. Mary Wroth desidera far parte del mondo in cui vive, incidere sul reale, mostrarsi e
interagire con gli altri, far sentire la propria voce in pubblico, è
per questo motivo che fa stampare i suoi manoscritti. Se
l’anelito al ripiegamento interiore afferisce al regime del dover
essere, l’impulso a socializzare afferisce al regime dell’essere81.
Per quanto cerchi di convincere se stessa di aver finalmente
conquistato le vette di una dimensione esistenziale più autentica, Mary Wroth non può che avere nostalgia per il suo passato
di favorita della regina.
Al contrario, John Donne tenta di trasformare la sua rinuncia
alla sfera pubblica nel trampolino di lancio per una ricerca del
piacere fisico e una rincorsa all’appagamento dei sensi non disgiunte da un’aura di spiritualità. Pur calati nella temporalità di
un’esistenza tutta terrena, gli amanti si difendono dall’aggressione
del tempo e dalla morte sfruttando l’energia sacra dell’Eros: “Wee
dye and rise the same, and prove \ Mysterious by this love”. La
rabbia e il disappunto del carrierista frustrato sfociano in questa
frase blasfema volta a ridimensionare la sacralità della resurrezione di Cristo: anche gli amanti possono affrontare e sconfiggere la morte. Nelle ultime due stanze l’amaro sfogo del poeta
si diluisce in un’argomentazione più distesa:
Our legend bee, it will be fit for verse;
And if no peece of Chronicle wee prove,
We’ll build in sonnets pretty roomes,
As well a well wrought urne becomes
The greatest ashes, as halfe-acre tombes,
81
Cfr. Jurij M. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, Venezia, Marsilio, 1994, p. 106. Si veda, inoltre, quanto scrive, in proposito, Janet
Macarthur: “Instead of producing a series of calculated attempts at tropological seduction, sexual frustration is turned upon itself, making the tone of Pamphilia to Amphilanthus very hopeless and static. There is more longing for
death and more living death in this poem than is usual in Petrarchan sonnet
sequences” (op. cit., p. 14).
Mary Wroth
93
And by these hymnes, all shall approve
Us Canoniz’d for Love
(vv. 30-6)
La morte è qui l’anticamera della “canonizzazione” degli amanti, una tappa fondamentale del loro pellegrinaggio spirituale:
“There will be rest in grave, and something more – official reinstatement: a place in the establishment at last. Donne imagines
himself and the girl being invoked as saints in the future
ages”82. Il non detto del canzoniere di Mary Wroth si esplicita
nella poesia di un altro importante intellettuale precocemente
caduto in disgrazia. Se da un lato John Donne si pente di aver
infranto le regole basilari del patto sociale e lamenta il suo status di emarginato, dall’altro fa tesoro della libertà involontariamente conquistata, celebrando l’amore passionale senza più ricorrere ai travestimenti retorici del petrarchismo e inoculando
valenze sacre nel suo amore tutto terreno per Ann More. È ovvio che una nobildonna del XVII secolo non poteva mai sentirsi
completamente libera dai vincoli della norma patriarcale. Agli
“outward showes” (P 46, v. 2) dei cortigiani Mary Wroth può
contrapporre solo gli “inward showes” dell’anima. Il desiderio
di assertività (fisica e psichica) è costretto a celarsi dietro la
spessa coltre dell’ethos puritano e del codice d’amore (i “painted outsids” del sonetto 15, P 17, v. 4) ma è pur sempre vivo, e
colma ogni latenza testuale.
1.7 Alterità e diversità perturbanti e sovversive.
Nell’Inghilterra di Elisabetta e di Giacomo il teatro e la corte
sono i luoghi dove si rappresentano e si attribuiscono identità
sulla base di un patto culturale. Nei sonetti dedicati al fair
youth, Shakespeare si autorappresenta come “un imperfetto attore sulla scena / che per paura scorda la usa parte” (sonetto 23,
vv. 1-2). La vita di corte è artificiale quanto la finzione dram82
John Carey, John Donne: Life, Mind and Art, London, Faber and Faber,
1985, p. 43.
Capitolo I
94
matica: tutti sono tenuti a partecipare ai suoi complessi rituali
con l’obbligo di recitare la propria “parte” con diligenza. Dopo
essere stata a lungo una figura di spicco dell’entourage di Anna
di Danimarca, Mary Wroth, consapevole di aver ormai perso i
favori reali, si sente finalmente libera di esprimere la sua insofferenza per l’atmosfera soffocante della Corte, ambiente infestato da intrighi, corruzione e macchinazioni di ogni genere: “This
stage of woe / Wher sad disasters have theyr open showe [...]”
(PA, P 48, vv. 12-3). Le fastose cerimonie e i futili passatempi
dei cortigiani mascherano solo parzialmente la realtà instabile di
una istituzione in decadenza, inarcata attorno alla figura di un
monarca, Giacomo I, tanto incapace da riuscire ad alienarsi sia i
Puritani sia i Cattolici con le sue decisioni intempestive e la sua
politica accentratrice.
In ogni caso, furono proprio le esperienze maturate a Corte a
segnare profondamente la sensibilità di Mary Wroth. Il fatto
stesso di recitare nel ruolo di Baryte in The Masque of Blackness di Ben Jonson, rappresentato a Whitehall nel 1605, costituisce un momento epifanico nella sua quest di conoscenza e
consapevolezza. In primo luogo, il masque era una forma teatrale aperta alla recitazione femminile, le speaking parts erano ancora lasciate ai ragazzi della cappella reale, ma calcare il palcoscenico e comunicare i propri sentimenti con il linguaggio del
corpo e dei gesti era una conquista importante per le fanciulle
della nobiltà più ansiose di mostrarsi vive e attive allo sguardo
del selezionato drappello di spettatori83. In secondo luogo, va
sottolineato che molte scrittrici del tempo si erano dimostrate
particolarmente sensibili al tema della “diversità”, e cercavano
di mettere a fuoco le implicazioni culturali del loro stesso coin83
Sul significato culturale della danza vale quanto scrive Jean-Paul Desaive: “[...] la danza è l’unico linguaggio del corpo che consenta alla donna di
esprimersi alla pari con l’uomo e in perfetta complementarità con lui; infatti la
forzata inattività delle dame si estende a tutti gli esercizi fisici praticati dagli
uomini, dalla pallacorda al torneo [...] Il ballo offre quindi un’occasione unica
per affermare che anch’esse possono muoversi, e possono farlo con grazia,
vivacità, brio o slancio” (“Le ambiguità del discorso letterario”, in Duby e
Perrot, op. cit., p. 285).
Mary Wroth
95
volgimento nel discorso della differenza razziale. Qual era lo
spazio assegnato alla nobildonna bianca nel campo semantico
che ha come perno fisso l’opposizione fairness/blackness e dove il secondo termine è associato all’alterità e all’inferiorità razziale? In che modo era possibile sfruttare le suggestioni di queste nuove costruzioni culturali per conquistare uno spazio di azione all’interno della sfera sociale? Così come il maschio bianco conquista il potere individuando e isolando un altro da sé
(donne bianche e blackmoores), così la donna reclama potere e
autorità individuando, nelle sue rivali, il negativo sulla base del
quale sviluppare la propria soggettualità e mettendo in luce la
loro alterità culturale e razziale. È quanto accade in The Tragedy of Mariam di Elizabeth Cary, dove la competizione tra la
nobile e candida (“fair”) Mariam e la “bruna” Cleopatra si nutre
e si alimenta del lessico della differenza razziale. Le straniere
rappresentavano una ulteriore minaccia alla condizione già subordinata delle donne inglesi, che assumono un atteggiamento
fortemente competitivo nei loro confronti, come si vedrà nella
sezione dedicata all’opera di Elizabeth Cary84.
La donna desiderata e prescelta dal maschio era di norma associata alla bellezza e alla purezza razziale, mentre quella sconfitta e rifiutata era associata all’altro razziale-nero, alla diversità
perturbante e all’eccesso sessuale. Ogni scontro o rivalità tra
donne, ogni sexual slander, a prescindere da reali differenze di
razza, si articolava sull’opposizione fair vs dark. Nelle corti ecclesiastiche comportamenti devianti venivano descritti e denunciati
facendo ampio ricorso al campo semantico della sessualità, ovvero
84
Dal 1563, anno in cui John Hawkins comincia il traffico di schiavi africani, alla fine del XVI secolo, il numero dei “Negars” e “Blackamoors” rozzi
e infedeli che infestavano l’Inghilterra era tanto cresciuto da suscitare lo sdegno della stessa regina Elisabetta che ordinò diverse deportazioni (1596 e
1601) per “ripulire” il suo regno. Cfr. Eldred D. Jones, The Elizabethan Image
of Africa, Washington, Folger Library, 1971 (in particolare le pp. 18-20) e
Folarin Shyllon, Black People in Britain 1555-1833, London, Oxford University Press, 1977.
Capitolo I
96
ai topoi della whoredom, della blackness e dell’uncleanliness85. Il
sexual slander era uno dei canali in cui convogliare l’esigenza
di imporre la propria assertività, affermare la propria supremazia e il proprio valore contestando alla donna rivale una promiscuità sessuale spesso connessa ad una presunta alterità razziale.
L’associazione blackness=slander emerge con nitore nei sonetti
127 e 131 del canzoniere di William Shakespeare:
In the old age black was not counted fair,
Or, if it were, it bore not beauty’s name;
But now is black beauty’s successive heir,
And beauty slandered with a bastard shame
(sonetto 127, vv. 1-4)
In nothing art thou black save in thy deeds,
And thence this slander, as I think, proceeds.
(sonetto 131, vv. 13-14)
Nel sonetto 127 Shakespeare allude per la prima volta al colore
bruno della pelle della sua amante. Il nero è subito associato alla
diffamazione, alla vergogna, all’illegittimità. È il colore della
trasgressione, della carnalità opposta alla spiritualità,
dell’istintività, della libido e della lussuria che inducono il poeta
a “sprecare” il suo spirito “in vergognoso scempio”
(“Th’expense of spirit in a waste of shame / Is lust in action
[...], son. 129, vv. 1-2)86.
La rappresentazione di The Masque of Blackness esercitò un
forte impatto sociale. Vedere la regina interpretare il ruolo di
una donna di colore, il volto e le mani dipinte di nero, si rivelò
un’operazione molto ardita perfino per il drammaturgo più legato e gradito agli Stuart, Ben Jonson. Il suo scopo era quello di
esaltare la grandezza dell’impero inglese contrapponendola alla
diversità culturale dei popoli assoggettati. L’approdo delle do85
Cfr. Laura Gowing, “Language, Power, and the Law: Women’s Slander
Litigation in Early Modern London”, in L. Hutson, op. cit., pp. 428-45.
86
Cfr. Marvin Hunt, “Be Dark but Not Too Dark: Shakespeare’s Dark
Lady as a Sign of Color”, in James Schiffer (ed.), Shakespeare’s Sonnets.
Critical Essays, New York and London, Garland, 1998, pp. 369-89.
Mary Wroth
97
dici “figlie del Niger” nel regno britannico avrebbe avviato un
processo di “lattificazione” in grado di trasformare l’aspetto di
ognuna di loro. La copertura ideologica fondamentale era quella
dell’uomo bianco portatore di civiltà, capace di riscattare e addomesticare donne doppiamente inferiori come le etiopi. Infatti,
ecco che in The Masque of Beauty la perturbante immagine della dark lady etiope si trasforma in una visione quasi onirica della regina Anna, il capo adornato da una splendida corona ricca
di gemme preziose, in testa a una nobile schiera di dame eleganti e aggraziate. Va detto che le profonde implicazioni culturali
del primo masque non furono del tutto annullate dal suo ideale
sviluppo. Nella memoria di alcuni commentatori del tempo rimaneva l’immagine perturbante della regina nera. Con procedimento analogo, Mary Wroth tenta di risolvere l’ingorgo emotivo descritto nei sonetti della seconda sezione in una Corona di
sonetti, griglia poetica dalla struttura rigida e circolare, pensata
per attenuare e irregimentare impulsi segreti e passioni irrazionali. In realtà, già nel sonetto proemiale (P 77) si delinea un setting, il labirinto, in cui è difficile orientarsi: “In this strange labourinth how shall I turne?” (v. 1). La forma non può mai assimilare del tutto i contenuti, che sfuggono alle gabbie ideologiche predisposte dalla mente razionale mediante il linguaggio
analitico.
La regina nera di The Masque of Blackness evoca la figura di
Cleopatra, eroina di tanti drammi rinascimentali. Curiosamente,
il paradigma dell’alterità razziale di Cleopatra emerge con forza
solo nelle opere di scrittrici come Mary Sidney, Emilia Lanyer
ed Elizabeth Cary, che le contrappongono l’onesta e “bianca”
Ottavia. Come ha notato Kim Hall, sia nell’Antoine di Mary
Sidney che in Salve Deus Rex Judaeorum di Aemilia Lanyer la
negritudine di Cleopatra e la dissolutezza morale di Antonio sono costantemente evidenziate87. Come spiegare questo squilibrio tematico nella produzione letteraria del tempo? Quali spe87
Kim Hall, “‘I Rather Would Wish to be a Black-Moor’: Beauty, Race,
and Rank in Lady Mary Wroth’s Urania”, in M. Hendricks, P. Parker (eds.),
op. cit., p. 182.
98
Capitolo I
cificità culturali rendono l’immagine della donna di colore che
seduce l’uomo bianco tanto più perturbante dell’inverso abbinamento maschio nero/femmina bianca? Anche se l’eccesso di
sessualità e la mostruosa diversità di Otello è messa in rilievo
fin dai primi 126 versi del dramma shakespeariano, il Moro è
pur sempre ideologicamente bianco in quanto cristiano e al servizio dello stato di Venezia di cui ha “sposato” perfino il linguaggio e, di conseguenza, la forma mentis. La sua unione con
Desdemona dovrebbe consolidare la sua trasformazione “from
the monstrous black and ‘Islamic other’ to the valiant noble
white Moor of Venice”88, e la sua “acquisition of the body of
white masculinity” se non fosse che la donna bianca, eroina radicale, linguacciuta e trasgressiva, diventa ben presto più “nera”
di lui agli occhi della comunità patriarcale. Avendo trasgredito
la norma culturale razziale oltre che la regola dell’obbedienza
filiale, Desdemona è solo apparentemente bianca. Questa consapevolezza non può che attenuare le ansie generate dalla sua
scandalosa unione col Moro, repertoriabile nell’ambito di un
coinvolgimento sentimentale romantico e trasgressivo:
Elizabethan literary representation does, certainly, include deprecations of the black man. But curiously enough, the black male–white
female union is, throughout this period and earlier, most frequently
depicted as the ultimate romantic-transgressive model of erotic love.
Othello is the romantic hero of his play who wins the love of Desdemona; the Prince of Morocco is placed into the position of one of
three suitors who dare to venture the romantic quest for Portia [...]89.
Ben più destabilizzante per le fondamenta dell’ideologia patriarcale è l’immagine della donna nera che seduce l’uomo
bianco fino all’inevitabile “miscegenation”, in cui convergono
88
Maurizio Calbi, “Speaking in Terror: Femininity, Monstrosity and
‘Race’ in Early Modern Culture”, in Maria Teresa Chialant (a cura di), Incontrare i mostri. Variazioni sul tema nella letteratura e cultura inglese e angloamericana, Napoli, ESI, 2002, p. 72. Si veda anche il capitolo “Othello, o la
tragedia di Desdemona ed Emilia”, in C. Mucci, Il teatro delle streghe, cit.,
pp. 87-107.
89
L. E. Boose, op. cit., pp. 41-2.
Mary Wroth
99
le ansie di sprecare il seme maschile nel ventre immondo della
donna negra. Il desiderio di generare una perfetta replica di sé
naufraga nei profondi abissi del corpo femminile doppiamente
corrotto e impuro. La donna viola e nega l’autorità patriarcale
dei bianchi dando alla luce una creatura mostruosa che perde
ogni legame col genitore, e diventa irriconoscibile, dunque indegna di ricevere l’eredità patrimoniale, indegna perfino di inverdire la linea dinastica da cui proviene. Anche nei drammi in
cui appare, alla figura mostruosa della donna di colore sono assegnati ruoli secondari, servi lascivi come Zanche in The White
Devil di John Webster, Zanthia in The Wonder of Women; or,
The Tragedy of Sophonisba (1606) di John Marston o infine la
mora che in The Battle of Alcazar di George Peele ibrida e corrompe la dinastia del marito dando alla luce un figlio di colore
che finirà per tradire il padre. Alla stessa Cleopatra shakespeariana, una delle poche eroine di colore individuabile nella
drammaturgia inglese del tempo, non è attribuita una precisa
identità razziale, l’unica allusione al colore della sua pelle è una
descrizione del suo volto come “tawny front” (I, i, 6). È importante sottolineare che il lessema “tawny” acquista senso e spessore semantico proprio in rapporto all’aggettivo che sostituisce,
‘black’, rispetto al quale denota un certo neutro ibridismo razziale.
Si comprende ora l’originalità del masque di Ben Jonson che
osa consegnare il palcoscenico alle dodici etiopi in cerca di una
terra dove “lattificare” la propria negritudine. Le donne non saranno accettate finché non indosseranno la maschera che
l’uomo bianco ha forgiato per loro, assumendo il contegno che
è stato loro prescritto fin dalla nascita. Cambiare il colore della
propria pelle equivale a piegare la propria personalità alle esigenze e alle imposizioni del sistema patriarcale. Di qui il clamoroso rifiuto di Pamphilia, pronta a schierarsi, nell’Urania (dove
esclama orgogliosa: “I rather would wish to be a Black-moor”),
come nel sonetto 22 (P 25), con gli indiani “bruciati dal sole”,
con i reietti, gli emarginati e le donne diffamate in cerca di riscatto:
100
Capitolo I
Like to the Indians, scorched with the sunne,
The sunn which they doe as theyr God adore
Soe am I us’d by love, for ever more
I worship him, less favors have I wunn,
Better are they who thus to blacknes runn,
And soe can only whitenes want deplore
Then I who pale, and white am with griefs store,
Nor can have hope, butt to see hopes undunn;
Beesids theyr sacrifies receavd’s in sight
Of theyr chose sainte: Mine hid as worthles rite;
Grant mee to see wher I my offrings give,
Then lett mee weare the marke of Cupids might
In hart as they in skin of Phoebus light
Nott ceasing offrings to love while I Live.
Laddove gli altri, gli indiani, adorano il sole, simbolo di Giacomo I, Wroth/Pamphilia adora e venera Cupido. Entrambi i
soggetti lirici sono in qualche modo traditi dalle divinità evocate che non dispensano favori e grazie. Il re pretende rispetto e
adulazione ma non dà niente in cambio, non rispetta le promesse fatte, stimola e pungola i sudditi ma poi delude le loro aspettative, proprio come fa il dispettoso Cupido Anacreontico. Il
rituale della sottomissione al sole è pubblico, comune a tutti.
Quello del parlante viene elaborato internamente, attraverso la
pratica solitaria e individuale della scrittura: “Mine hid as
worthles rite”. I puns worth/Wroth e rite/write traducono una
professione di modestia da parte dell’autrice che si ritiene indegna di scrivere ma, al tempo stesso, lascia intendere di essere
determinata ad elaborare i suoi tormenti interiori attraverso il
linguaggio simbolico. La norma patriarcale le impone di screditare i suoi versi ma il rivestimento retorico si rivela esile come
carta velina e ogni professione di umiltà si trasforma in
un’affermazione dei propri diritti. Il diritto di fissare i pensieri
sulla pagina bianca, il diritto di pubblicare i propri versi, diffonderli e condividerli con gli altri in modo da arricchire le potenzialità espressive del codice linguistico con i discorsi alternativi di una soggettività altra.
Il sonetto offre un riassunto dei temi più cari a Mary Wroth.
In primo luogo, è qui ribadita l’opposizione alla politica di re
Mary Wroth
101
Giacomo, reo di sfruttare i sudditi come Cupido “usa” Pamphilia. In secondo luogo, ad essere esplorato è il paradigma oppositivo fairness/blackness su cui si avvita l’intero canzoniere. Postulata nella prima quartina, l’equazione io poetico=indiani è
puntualmente negata nel settimo verso, nel punto in cui Pamphilia ribadisce di essere “pallida” e “bianca”, e quindi afferma la
sua superiorità nei confronti dell’altro razziale. Mary Wroth è
bianca, appartiene ad una famiglia nobile e prestigiosa come i
Sidney ed è stata un’importante cortigiana, dunque ha il diritto
di apparire in pubblico, di ritagliarsi uno spazio scenico sul quale presentarsi come soggetto attivo e produttivo. In terzo luogo
l’autrice ripropone il motivo della “privatezza” etico-religiosa.
Il protestante deve sopportare da solo il peso dei suoi peccati, il
rito deve rimanere nascosto (“hid”), il rapporto con la trascendenza diretto e personale, fuori dalla teatralità ecclesiastica della fede cristiana, fatta di cerimoniali e rituali pubblici.
L’esperienza religiosa più autentica si riduce a un soliloquio coscienziale dialogizzato nell’io-Tu, credente-divinità.
Il motivo della “privatezza”, nel quale Jeff Masten individua
il filo rosso della raccolta Pamphilia to Amphilanthus, non può
che intrattenere un rapporto ossimorico con la decisione di consegnare il canzoniere nella mani degli editori Marriott e Grismond insieme al manoscritto dell’Urania. Riemerge, ancora
una volta, la dialettica tra interiorità ed esteriorità, tipica di una
coscienza mista di egocentrismo e pavidità, in bilico tra il desiderio di imporsi socialmente e quello di rifugiarsi nel mondo
iperuranico degli ideali. Mary Wroth cerca di dar forma a tutto
ciò che è esteriore, ma al tempo stesso desidera esternare tutto
ciò che è interiore, palesare i suoi impulsi e inscrivere la sua esistenza nella storicità del mondo. Attraverso il linguaggio e la
scrittura l’io si autoespone, si confronta con l’alterità per collaudare la propria efficienza sociale. Dopo essersi ritirata dalla
sfera sociale al fine di ritrovare la sua identità, Mary Wroth vi
fa ritorno per lasciarsi avvolgere dall’abbraccio del molteplice e
imprimervi l’impronta della propria personalità. Dopo aver ascoltato in solitudine i discorsi dell’anima e congelato le idee
più trasgressive nei ghiacciai della convenzione petrarchesca è
102
Capitolo I
pronta ad aprire il suo vissuto emotivo allo sguardo degli altri.
Per vivere in una società occorre inibire certe pulsioni sessuali e
aggressive, sublimandole in mete e oggetti diversi da quelli originari, la costanza, l’abnegazione di sé, la rinuncia. Ma contro
l’atteggiamento prevalentemente passivo e rinunciatario dei sonetti si ergono sia la decisione di scrivere, sia la scelta di pubblicare e diffondere i propri testi, tappe di un percorso che conduce dall’interiorità all’esteriorità. Il fine ultimo della coraggiosa e singolare impresa artistica di Mary Wroth non è quello di
tramandare un’immagine di sé come madonna pura, costante e
passiva, ma di arare e dissodare il terreno arido della norma patriarcale per concimarlo con idee nuove e prepararlo ad una
nuova fioritura culturale. L’interiorità è solo la piattaforma da
cui lanciarsi nella sfera pubblica, il camerino dove smettere i
panni della spettatrice passiva della fruizione culturale e vestire
quelli dell’eroina dell’azione.
Capitolo II
Elizabeth Cary
2.1 Essere e sembrare. Elizabeth Cary è la prima donna inglese a scrivere e pubblicare un dramma originale. The Tragedy
of Mariam, the Fair Queen of Jewry, scritto tra il 1602 e il
1605, viene stampato a Londra nel 1613. Diversamente da
quanto accade per le altre scrittrici del tempo, inclusa Mary
Wroth, informazioni sulla vita e sulla personalità di Elizabeth
Cary sono facilmente reperibili nella biografia scritta da una
delle sue quattro figlie tra il 1643 e il 1650, edita e pubblicata
da Richard Simpson nel 1861 con il titolo The Lady Falkland:
Her Life. Si tratta di una biografia romanzata, un’agiografia
scritta da una suora benedettina determinata a presentare la madre come una martire cattolica più che come una coraggiosa autrice di opere originali. Per dirla con Margaret W. Ferguson la
biografia sarebbe “a rhetorically complex instance of didactic
religious discourse (the ‘exemplary Catholic life’)”1, ovvero
un’agiografia tesa a rappresentare la “Passione” di una martire
che ha tradito il marito per la seguire la sua profonda vocazione
religiosa. Il testo, sostiene l’editore Richard Simpson, potrebbe
essere stato emendato da Patrick Cary, fratello dell’autrice, che
ne avrebbe eliminato i passaggi più “trasgressivi”. In ogni caso,
l’assenza di riferimenti a The Tragedy of Mariam è di per sé indice di una consapevolezza da parte della biografa di quanto severe fossero le prescrizioni relative alla pubblicazione di testi
femminili.
1
Margaret W. Ferguson, “Running On with Almost Public Voice: The
Case of ‘E. C.’”, in Florence Howe (ed.), Tradition and the Talents of Women,
Urbana, University of Illinois Press, 1991, p. 39.
104
Capitolo II
Figlia unica di Lawrence Tanfield, facoltoso avvocato
dell’Oxfordshire, ed Elizabeth Symondes, appartenente al ceto
della piccola nobiltà terriera, Elizabeth nasce nel 1586, un anno
prima di Mary Wroth, e rivela subito un carattere avido di conoscenza. In assenza di fratelli ha il vantaggio di prendere il loro
posto come ereditiera unica dei beni di famiglia, nonché quello
di godere di maggiore libertà rispetto a tante altre donne costrette a subire il controllo e le imposizioni del primogenito oltre che
del padre2. Ambizioso carrierista, Lord Tanfield è temuto e odiato dagli abitanti dei villaggi confinanti con le sue proprietà,
regolarmente citati in giudizio per abusivismo, nonché spogliati
di diritti e piccoli privilegi conquistati a prezzi elevatissimi.
Nonostante ciò, il ritratto del padre che prende corpo nella biografia è quello di un genitore pronto a sostenere e appoggiare le
pressanti richieste dell’unica figlia, nei confronti della quale nutre una tale stima da concederle di difendere una donna
dall’accusa di stregoneria in un processo da lui presieduto nel
1596. La dodicenne Elizabeth riesce, con un’abile argomentazione e una sorprendente abilità oratoria, a far scagionare
l’imputata:
Being once present when she was (about) ten year old, when a poor
old woman was brought before her father for a witch, and, being accused for having bewitched two or three to death, the witness not being found convincing, her father asked the woman what she said for
herself? She falling down before him trembling and weeping confessed all to be true, desiring him to be good to her and she would
mend. Then he asking her particularly, did you bewitch such a one to
2
Si veda quanto scrive, in proposito, Meredith Skura: “Brotherless heiresses would have been more accustomed to leadership insofar as they had
fewer occasions to submit and more opportunity to identify with their fathers
along with the other men who ran the world” (“The Reproduction of Mothering in Mariam, Queen of Jewry: A Defense of ‘Biographical’ Criticism”,
Tulsa Studies in Women’s Literature, 16, 1, 1997, p. 37). Per le informazioni
biografiche mi avvalgo dell’ampia introduzione che correda l’edizione di The
Tragedy of Mariam curata da Barry Weller e Margaret W. Ferguson: The
Tragedy of Mariam, the Fair Queen of Jewry with The Lady Falkland: Her
Life by One of Her Daughters, Berkeley, University of California Press, 1994.
Tutte le citazioni da The Tragedy of Mariam sono tratte da questa edizione.
Elizabeth Cary
105
death? she answered yes. He asked her how she did it? One of her accusers, preventing her, said, “Did you not send your familiar in the
shape of a black dog, a hare or a (toad) cat, and he finding him asleep,
licked his hand, or breathed on him, or stepped over him, and he presently came home sick and languished away?” She, quaking, begging
pardon, acknowledged all, and the same of each particular accusation,
with a several manner of doing it. Then the standers-by said, what
would they have more than her own confession? But the child, seeing
the poor woman in so terrible a fear, and in so simple a manner confess all, thought fear had made her idle, so she whispered her father
and desired him to ask her whether she had bewitched to death Mr
John Symondes of such a place (her uncle that was one of the standers-by). He did so, to which she said yes, just as she had done to the
rest, promising to do so no more if they would have pity on her. He
asked how she did it? She told one of her former stories; then (all the
company laughing) he asked her what she ailed to say so? told her the
man was alive, and stood there. She cried, “Alas, sir, I knew him not, I
said so because you asked me.” Then he, “Are you no witch then?”
says he “No, God knows,” says she, “I know no more what belongs to
it than the child newborn.” “Nor did you never see the devil?” She answered , “No, God bless me, never in all my life.” Then he examined
her what she meant to confess all this, if it were false? She answered
they had threatened her if she would not confess, and said, if she
would, she should have mercy showed her – which she said with such
simplicity that (the witness brought against her being of little force,
and her own confession appearing now to be of less) she was easily
believed innocent, and acquitted3.
L’unico torto che Lord Tanfield avrebbe commesso nei confronti della figlia, secondo la ricostruzione della Life, sarebbe
stato quello di maritarla ad un uomo sconosciuto che l’avrebbe
scelta “only for being an heir, for he had no acquaintance with
her (she scarce ever having spoke to him) and she was nothing
handsome, though then very fair” (p. 188).
I rapporti con la madre non sono altrettanto buoni. Elizabeth
Symondes è una donna fredda e altera, infastidita dalla industriosità puritana del marito, costretto a vivere dei proventi del
suo lavoro ma abile a riscattare la sua condizione di secondogenito accumulando, con astuzia e abnegazione, un patrimonio
3
The Lady Falkland: Her Life, in B. Weller, M. W. Ferguson (eds.), op.
cit., pp. 186-7. D’ora in avanti citato come Life nel testo.
106
Capitolo II
che negli anni diviene sempre più cospicuo. Anche nei confronti
della figlia, regolarmente invitata ad inginocchiarsi al suo cospetto, Elizabeth Symondes assume un atteggiamento ostile, al
punto di negarle le candele per la notte così da sottrarre tempo
prezioso alla sua passione per le lettere. Piuttosto che ribellarsi
apertamente alla madre, atto rischioso che avrebbe fortemente
destabilizzato i già fragili equilibri familiari, Elizabeth trova più
saggio corrompere la servitù per recuperarne almeno un paio,
quanto basta per trascorrere parte delle ore notturne in compagnia dei preziosi libri ricevuti in dono dal padre. È la prima sfida lanciata all’autorità, che sia quella materna, paterna, maritale
o religiosa. Nell’arco di pochi anni Elizabeth impara il francese,
l’italiano, lo spagnolo, il latino e l’ebraico, traduce testi dal latino (le Epistole di Seneca) e dal francese (Le Miroir du Monde
di Abraham Ortelius), ravvisa contraddizioni e aporie nel testo
Institutes of Religion di Calvino dopo averlo sottoposto al vaglio della sua mente analitica4.
Nel 1602, ligia alle disposizioni familiari, Elizabeth sposa
Henry Cary. L’alleanza è vantaggiosa per entrambe le famiglie:
il capitale pazientemente accumulato da Lawrence Tanfield
consente ad Henry, quanto mai bisognoso di fondi con cui liquidare i suoi creditori e mantenere la proprietà fondiaria di famiglia, di entrare di diritto nel cerchio magico della nobiltà britannica fino a ricevere il titolo di visconte di Falkland, e ricevere l’incarico di vicereggente d’Irlanda (1622). A loro volta i
Tanfield salgono di un gradino la scala sociale e conquistano
una posizione stabile all’interno della piccola nobiltà terriera.
4
Nella prefazione dedicatoria Calvino si rivolge a Francesco I, re di Francia, chiedendogli di riconoscere che papi, cardinali, vescovi, abati e preti si
rifacevano a una dottrina empia, che avrebbe portato la rovina e la distruzione
della Chiesa. Peter Partner osserva che i “fermenti riformisti mutarono le condizioni che governavano i negoziati fra i principi e gli esponenti del clero, perlopiù a spese dei prelati” (Duemila anni di Cristianesimo, Torino, Einaudi,
2001, p. 182). Nel macrocosmo sociale inglese furono i sudditi a patire le conseguenze di questa svolta verso l’assolutismo monarchico mentre nel microcosmo familiare le donne lamentarono la perdita del rapporto privilegiato col
confessore, che da sempre offriva loro aiuto e conforto.
Elizabeth Cary
107
Appena sposati, Henry ed Elizabeth sono costretti a separarsi. Il primo, emulo di Philip e Robert Sidney, raggiunge le truppe inglesi di stanza nei Paesi Bassi per battersi nella guerra anglo-spagnola (1585-1604). In seguito alla sua cattura, Elizabeth
è costretta a stornare la somma richiesta per il riscatto dai fondi
della dote matrimoniale. A questo dispendioso soccorso economico fanno seguito una serie di interventi finanziari volti a sanare i debiti accumulati da un uomo del tutto privo delle virtù
borghesi di equilibrio e moderazione, incarnate dal sobrio e ostinato giudice Tanfield. In attesa del ritorno del marito, Elizabeth si rassegna a convivere con la suocera, Lady Katherine
Cary, donna autoritaria e irascibile che non sopportava la vista
di una donna intenta a leggere e scrivere, attività da sempre appannaggio dei soli uomini. Dietro suo ordine ad Elizabeth è negato il diritto di intrecciare una corrispondenza epistolare col
marito in modo da impedirle di far sfoggio di un’erudizione che
mal si accordava al suo ruolo di moglie devota, silenziosa e sottomessa. Se l’impresa di smussare certe sue scabrosità caratteriali appariva piuttosto ardua, ciò nondimeno era necessario nascondere a Sir Henry il temperamento indipendente della moglie. Sulla linea di collegamento che va da una condizione
femminile all’altra, Elizabeth scava una frattura in cui precipitano gli insegnamenti e le prescrizioni materne. Laddove Anne
Clifford e Mary Wroth potevano contare sull’appoggio rispettivamente della madre e della zia (Mary Sidney, contessa di
Pembroke), Elizabeth Cary affronta in solitudine il percorso di
emancipazione che si staglia sullo sfondo delle sue ambizioni
letterarie5 e del suo embrionale entusiasmo per i valori del cattolicesimo.
5
Qui va detto che Kurt Weber, biografo del primogenito Lucius Cary, colloca in questo periodo i primi contatti con la contessa di Pembroke, sotto la
cui ala protettrice Elizabeth avrebbe compiuto i primi passi della sua carriera
di scrittrice. In ogni caso, le sue incursioni nel salotto letterario più prestigioso
del tempo devono essere state assai rare dato che, al contrario di Mary Wroth,
Elizabeth spendeva gran parte del suo tempo nell’educazione dei suoi undici
figli: “When she had some children, she and her husband went to keep house
by themselves, where she taking the care of her family, which at first was but
108
Capitolo II
Alla luce di questi fatti, stupisce che al suo ritorno in patria
Sir Henry abbia trovato una donna tanto incline a recitare il ruolo della moglie operosa e ubbidiente. Fatte proprie le celeberrime “istruzioni” di Vives, Elizabeth fa di tutto per assecondare i
desideri del marito: indossa gli abiti più eleganti, anche se, come scrive la figlia “[d]ressing was all her life a torture to her”
(Life, p. 194), si rassegna ad imparare a cavalcare, si fa carico
dei suoi doveri di moglie e di madre rubando tempo prezioso ai
suoi studi e alle sessioni di scrittura creativa, fa perfino incidere
il motto “be and seem” sull’anello nuziale della figlia come a
ribadire l’importanza di soffocare l’essere nell’apparire. Nel
momento in cui Sir Henry si accingeva a trasferirsi a Dublino
per assumere l’incarico di vicereggente d’Irlanda, Elizabeth arriva perfino a ipotecare l’usufrutto di vedovanza ricevuto dal
padre al fine di finanziare i progetti ambiziosi del marito. Roso
dal pensiero che la figlia stesse pericolosamente assottigliando
un patrimonio accumulato col duro lavoro di una vita, Lawrence
Tanfield non esita a diseredare Elizabeth a tutto vantaggio del
nipote, Lucius Cary. Come tante altre donne del tempo, Elizabeth si trova a percorrere il suo itinerario esistenziale sul confine che separa le esigenze della famiglia di origine da quelle della famiglia d’arrivo, costretta, suo malgrado, ad imporre un arbitrato volto ad evitare “invasioni” e ingerenze negli affari reciproci.
Entrato nelle grazie del duca di Buckingham, il favorito di
Giacomo I, Sir Henry è abile ad inserirsi nel gruppo di cortigiani avidi, inetti e corrotti che circuiscono i primi re Stuart: “Such
men observed the external forms of the old chivalric supporters
of the throne, but their motives smacked of the increasingly
capitalistic atmosphere of the time, and service at court was for
them as much a profit-making enterprise as a duty imposed by
little, did seem to show herself capable of what she would apply herself to.
She was very careful and diligent in the disposition of the affairs of her house
of all sorts; and she herself would work hard, together with her women and
her maids, curious pieces of work, teaching them and directing all herself; nor
was her care of her children less, to whom she was so much a mother that she
nursed them all herself, but only her eldest son [...]” (Life, p. 192).
Elizabeth Cary
109
family or tradition”6. Entra a far parte, insomma, di quella
“loathsome company” dalla quale la puritana Mary Wroth fugge
inorridita, preferendo l’isolamento alla convivialità licenziosa di
una nuova stirpe di cortigiani corrotti e dissoluti. Nel frattempo
Elizabeth si dedica all’educazione dei nove figli che raggiungono l’età adulta. In un perverso ed estenuante gioco di sottrazione e dedizione riesce ad alternare l’adempimento dei suoi doveri domestici alla lettura di testi sacri e profani, la partecipazione
ai rituali della chiesa riformata alla ricerca di un nuovo percorso
spirituale.
Al vaglio della sua sensibilità religiosa, il trauma subito in
occasione della morte della figlia maggiore Catherine si trasforma nella terribile punizione che Dio le aveva riservato per
aver partecipato ai rituali dell’eresia protestante. Il duro processo di espiazione della colpa, accompagnato alla rilettura dei
punti nodali della storia della Chiesa e da un rinnovato interesse
per la produzione agiografica (Passioni e Vite di Santi), accorcia i tempi della conversione alla fede cattolica7. L’impossibilità
di identificarsi con due figure materne ostili e asfissianti, la difficoltà a relazionarsi con un marito autoritario e intollerante
(“He was very absolute, and though she had a strong will, she
had learnt to make it obey his”; Life, p. 194), rafforzano il suo
desiderio di affrancarsi, ideologicamente e materialmente, dalla
famiglia. In fin dei conti, ribellarsi alla religione di stato non era
che il modo più “spettacolare” di affermare la propria indipendenza nei confronti delle autorità domestiche e politiche del
tempo. All’indomani della conversione al cattolicesimo, Elizabeth si preoccupa di offrire ad un selezionato pubblico di lettori
una nuova immagine di sé come martire, vittima sacrificale di
6
M. W. Ferguson, “Running On with Almost Public Voice: The Case of
‘E. C.’”, cit., p. 41.
7
Sofia Boesch Gajano spiega che alle “critiche della Riforma la cultura
cattolica non rispose solo riaffermando il significato teologico della santità e
del culto dei santi: essa passò per così dire al contrattacco, impegnandosi a
dare sicuro fondamento storico all’identità di ciascun santo, vagliando la veridicità delle testimonianze a lui relative, l’antichità del culto, l’autenticità delle
reliquie” (La santità, Bari, Laterza, 1999, p. 35).
110
Capitolo II
una società incapace di riconoscere il profondo valore etico della sua scelta di campo. La decisione di scrivere poemi sulle vite
di Santa Elisabetta di Portogallo, Santa Agnese e Santa Maria
Maddalena è attribuibile proprio al desiderio di assimilare modelli archetipici di donne pronte a sacrificare la vita pur di non
tradire i propri valori etici e spirituali. Per individuare raccordi e
scambi tra il percorso esistenziale di Elizabeth Cary e quelli delle sante studiate è necessario compiere un breve detour storicoagiografico.
Secondo la convinzione prevalente di studiosi ed esegeti delle Sacre Scritture, l’anonima “peccatrice” del Vangelo di Luca
(7, 36-50) alla quale vengono “perdonati i suoi molti peccati,
poiché ha molto amato”, non deve essere identificata né con
Maria di Magdala, la prima donna nominata nel seguito di Gesù, né con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta.
L’errata interpretazione dei testi ha fatto sì che le tre donne fossero accomunate nella liturgia. Così Maria Maddalena o di Magdala, che seguì e assistette Gesù fino alla crocifissione, si è
gradualmente trasformata nella peccatrice redenta e come tale è
ricordata per secoli nel culto, nella letteratura, nell’arte. Agli
occhi di Elizabeth Cary, sicuramente consapevole dell’errore
esegetico che aveva ibridato l’identità della santa, Maria di Magdala si trasforma in un’icona dell’assertività femminile, una
contro-eroina in un mondo di oppressione maschile. La prima
testimone della resurrezione di Cristo era una donna forte ed autoritaria che sapeva guidare gli apostoli facendosi mediatrice del
Logos incarnato e osava diffondere il verbo in un contesto culturale ostile alla predicazione e al sacerdozio femminile. Per
questo la Chiesa latina decise di sovrapporre alla sua figura carismatica l’immagine della peccatrice summenzionata. Il mito
della Maddalena andava decostruito in fretta onde scoraggiare
pericolosi atti emulativi8.
8
Sulla figura di Maria di Magdala si veda Carla Ricci, Maria di Magdala
e le molte altre. Donne sul cammino di Gesù, Napoli, D’Auria, 2002. Su
Sant’Agnese e Santa Elisabetta di Portogallo si vedano Il grande libro dei
santi. Dizionario Enciclopedico, a cura di C. Leonardi, A. Riccardi, G. Zarri,
Elizabeth Cary
111
Fra le innumerevoli vergini che hanno sacrificato la vita per
la fede di Gesù Cristo spicca la figura di Sant’Agnese, nata a
Roma verso la fine del III secolo. Ancora giovinetta, Agnese
consacra al Signore la sua verginità e mantiene il suo voto anche in piena persecuzione, quando molti fedeli e il clero stesso
s’abbandonavano in massa alla defezione. È il figlio del prefetto
di Roma, invaghitosi di lei ma respinto con fermezza, a denunciarla come cristiana. L’iconografia del suo doppio martirio (di
castità e di fede) è particolarmente suggestiva: Agnese subisce
prima l’esposizione “a infame ludibrio” in un luogo malfamato
presso il Circo Agonale, poi la prova del fuoco; uscita illesa da
entrambe le prove, è condannata alla pena capitale per decollazione. Insomma: Agnese era riuscita là dove Elizabeth sente di
aver fallito, ovvero nella scelta di non appartenere a nessun uomo per seguire la propria vocazione in piena libertà e autonomia, senza condizionamento alcuno.
Qualche cenno, infine, sulla figura di Santa Elisabetta di
Portogallo. Pietro III di Aragona, suo padre, la dà in moglie a
Dionigi re del Portogallo, buon sovrano ma pessimo marito,
“distratto” da numerose relazioni extraconiugali e padre di numerosi figli illegittimi. Nonostante questo, Elisabetta rimane fedele a Dionigi, dedicandosi con entusiasmo sia all’educazione
dei figli Alfonso e Costanza, sia all’assistenza e alla cura dei
sofferenti. In seguito alla morte del sovrano (1325), piuttosto
che recitare il prestigioso ruolo di regina madre nel regno di Alfonso IV, Elisabetta si fa pellegrina e penitente.
Maria Maddalena, Agnese ed Elisabetta di Portogallo sono
donne che lottano per rivendicare il diritto di controllare il proprio destino, il diritto di seguire la propria vocazione in totale
autonomia, il diritto di diffondere le proprie idee senza incorrere
nella censura dell’autorità patriarcale, il diritto di emanciparsi
dalle attività mondane per dedicarsi alla cura di sé o per donarsi
3 Voll., Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998; Bibliotheca Sanctorum,
14 Voll., Roma, Città Nuova Editrice, 1961-1970 e D. H. Farmer, Dizionario
Oxford dei santi, Padova, Muzzio, 1989.
112
Capitolo II
agli altri, ai sofferenti e agli emarginati9. Sono donne che assumono una dimensione politica e istituzionale sfuggendo al
controllo messo in atto dagli ordini maschili e dalla gerarchia ecclesiastica, soprattutto attraverso i confessori, preoccupati di tutte le forme
attraverso le quali le donne, escluse dal sacerdozio, tendevano
all’unione diretta con Dio e acquistavano di fatto un ruolo nella vita
della Chiesa e nella società. Si passa da atteggiamenti di diffidenza
[...] a una costante tutela [...] fino alla sistematica discriminazione nei
confronti di manifestazioni di presunta origine divina o diabolica, che
porteranno in età moderna all’individuazione di una nuova forma di
‘devianza’ religiosa, la simulazione di santità10.
Minore interesse Elizabeth mostra nei confronti degli affari del
marito, tanto che la sua missione a Londra (1625), dove avrebbe
dovuto convincere i consiglieri del re a inviare ulteriori sovvenzioni a Dublino, fallisce miseramente. Al posto dei soldi che aspettava con bramosia, Sir Henry riceve la notizia infausta della
pubblica conversione al cattolicesimo della moglie, stufa di dover praticare il suo credo religioso in condizioni di semiclandestinità. Sentendosi screditato e delegittimato a ricoprire la carica
di vicereggente – sarà parso improbabile che un uomo incapace
di piegare le simpatie cattoliche della propria moglie potesse
imporre agli irlandesi la conformità all’autorità ecclesiastica
anglicana – Sir Henry non tarda a prendere le distanze da una
donna affetta, come confida ai membri del Privy Council, da
cronica irrequietezza.
9
A proposito dell’impegno di Elizabeth Cary a favore degli orfanelli irlandesi si veda quanto scrive la figlia nella Life: “Here chiefly the desire of the
benefit and commodity of that nation set her upon a great design. It was to
bring up the use of all trades in that country, which is fain to be beholding to
others for the smallest commodities. To this end she procured some of each
kind to come from those other places where those trades are exercised [...] at
the very beginning; and for this purpose she took of beggar children (with
which that country swarms) more than 8 score prentices, refusing none above
seven year old, and taking some less [...]”, (p. 197). Si veda, inoltre, M. Skura,
op. cit., p. 44.
10
S. B. Gajano, op. cit., p. 75.
Elizabeth Cary
113
Espulsa dalla casa di famiglia, privata della compagnia e
dell’affetto dei figli e perso ogni privilegio legato al suo rango,
Elizabeth Cary, ormai quarantenne, si trasferisce, con l’unica
domestica rimasta al suo servizio, in un piccolo cottage di Londra dopo aver scartato con fermezza l’ipotesi di tornare nella
confortevole villa di campagna della madre. Piuttosto che subire
passivamente un destino di povertà e isolamento, Elizabeth fa
istanza alla Corte (rivolgendosi in particolare alla regina cattolica Enrichetta Maria) per ottenere aiuti finanziari dal marito e
nel contempo scende nell’arena del dibattito teologico traducendo alcuni testi chiave della propaganda cattolica. Alcune copie della sua traduzione della Réplique à la response du Sérénissime Roy de la Grand Bretagne del cardinale Jaques Davy du
Perron11 (stampata a Douay nel 1620) vengono pubblicamente
bruciate per ordine dell’arcivescovo Abbot. Nell’introduzione al
suo lavoro, astutamente dedicato alla sposa cattolica del primogenito di Giacomo, Elizabeth scrive: “I will not make use of
that worne-out form of saying I printed it against my will,
mooved by the importunitie of Friends; I was mooved to it by
my beleefe that it might make those English that understand not
French, whereof there are many even in our universities, reade
Perron”12. L’affermazione denota grande coraggio anche se nella sua condizione di emarginata e diseredata Cary non aveva più
molto da perdere. Nell’“Epistola al lettore” l’autrice corregge
leggermente il tiro e precisa che la sua ennesima incursione nel
mondo dell’editoria non è certo motivata dal desiderio di inserirsi nei discorsi della cultura maschile ma è il frutto di una vocazione religiosa giunta ormai a completa maturazione.
Avuta la notizia della morte improvvisa del marito (1633),
Elizabeth fa irruzione nella villa di famiglia quando il corpo del
defunto è ancora caldo e si riprende le figlie rimaste in custodia
11
In questo opuscolo il prelato francese difende con forza i suoi scritti teologici dagli attacchi lanciati da Giacomo I.
12
Citato in B. Weller, M. W. Ferguson (eds.), op. cit., p. 11, e Nancy Cotton Pearse, “Elizabeth Cary, Renaissance Playwright”, Texas Studies in Language and Literature, 18, 4 (Winter 1977), p. 606.
114
Capitolo II
dal padre. Per riavere i due maschi di 11 e 12 anni, affidati alla
potestà del figlio maggiore Lucius, arriverà a farli rapire da un
paio di malviventi per poi mandarli, a dispetto delle disposizioni
governative, in Francia, dove avrebbero risposto alla chiamata
del Signore abbracciando l’ordine dei benedettini. Di fronte al
Consiglio della Corona, Elizabeth respinge l’accusa di aver rapito i figli con una contro-argomentazione scarna ma efficace:
se è vero che i figli appartengono ai genitori ed è altresì vero
che Sir Henry Cary è passato a miglior vita, come può una vedova essere ritenuta colpevole di aver rubato ciò che è suo di
diritto? Suzanne Gosset offre un penetrante commento di questo
episodio:
Whatever their legal status, Cary’s actions fulfilled what I suspect remains one of the deepest fears of men, loss of children to maternal
control. Whether seen psychoanalytically as the terrifying trace of a
preoedipal union threatening renewed absorption, or in Lacanian
terms as the persistence of the culture-lacking, pre-phallic imaginary
stage, or anthropologically as challenging the kinship systems of patriarchy that demand male control of lineage [...] maternal power over
children raises the specter of female resistance to the social, psychological, and ideological imperatives of an encultured gender system13.
Sulla scacchiera sociale del tempo la pubblicazione di testi originali di argomento profano, la conversione al cattolicesimo e il
rapimento dei figli rappresentano le mosse disperate escogitate
da chi intende proteggere ad ogni costo il proprio spazio di espressione dall’aggressione di padri e mariti. Grazie alla sua
personalità camaleontica, Elizabeth Cary sfugge alle gabbie ideologiche predisposte dall’autorità patriarcale interpretando,
all’occorrenza, i ruoli più diversi e antitetici: la moglie silenziosa e ubbidiente sa essere una madre severa e autoritaria, la prudente autrice di closet dramas14 non rinuncia a scendere
13
Suzanne Gosset, “Resistant Mothers and Hidden Children”, in S. King
(ed.), op. cit., pp. 192-3.
14
Secondo la legge consuetudinaria i figli appartengono al padre che ha
un ruolo attivo nella procreazione.
Elizabeth Cary
115
nell’arena del dibattito teologico per difendere le sue idee “blasfeme” e sovversive.
2.2 Una efficace metafora politica. The Tragedy of Mariam
appare nel 1613. Nella relativa voce del Register of the Stationers’ Company sono riportate solo le iniziali del nome
dell’autore, “E. C.”, mentre il sonetto dedicatorio, indirizzato
alla cognata Elizabeth Bland Cary compare solo in due copie
del libro15. Non è possibile stabilire se il manoscritto sia stato
stampato dietro autorizzazione dell’autrice, in ogni caso non sarà mai rappresentato. Nancy Cotton Pearse16 attribuisce alla mecenate Mary Sidney Herbert il merito di aver saputo incoraggiare una folta schiera di letterati, tra cui John Davies di Hereford
– regolare avventore del circolo di Pembroke nonché writing
master della giovane Elizabeth Tanfield –, a pubblicare tragedie
di stile senechiano. Nella lettera dedicatoria che precede Muse’s
Sacrifice, or Divine Meditation (1612), Davies distribuisce lodi
sia alla contessa di Pembroke sia ad Elizabeth Cary. Un anno
dopo, nel 1613, appare The Tragedy of Mariam, testo che presenta una perfetta saldatura fra temi e strutture tipiche del closet
drama e della tragedia storica di stile senechiano, generi che il
drammaturgo francese Robert Garnier (1545-1590)17 aveva am15
Valerie Lucas, “Alone of all her Sex: Elizabeth Cary, the Viscountess of
Falkland”, in Christopher Cairns (ed.), The Renaissance Theatre: Texts, Performance, Design, I: English and Italian Theatre, Aldershot, Ashgate, 1999,
p. 70.
16
N. C. Pearse, op. cit., pp. 606-7
17
Cfr. Madeleine Lazard, Le Théâtre en France au XVI Siècle, Paris,
PUF, 1980, pp. 109-10. Sulla fortuna di Robert Garnier la studiosa scrive:
“Aucun n’a été plus souvent joué au XVI siècle, aucun avant Corneille n’a eu
un tel succès de libraire, aucun n’a vu ses pièces aussi fréquemment réimprimées. Quatre éditions collectives se succèdent avant sa mort, de 1580 à 1585.
De 1592 à 1620, il en paraît une trentaine, à Lyon, à Rouen, à Saumur, à Paris,
à Anvers, qui ont du avoir quelques milliers de lecteurs [...] Son oeuvre, largement imitée en France, en Angleterre, en Allemagne et aux Pays-Bas, devait
exercer une influence durable sur le théâtre et aussi sur la poésie lyrique et sur
l’éloquence” (p. 105).
116
Capitolo II
piamente coltivato e diffuso in Inghilterra anche grazie al contributo della contessa di Pembroke che traduce Marc Antoine
nel 1590. Tra la settima e l’ottava guerra di religione, in un clima
politico-culturale particolarmente instabile Garnier, fervente cattolico, scrive la sua più famosa tragedia storica, Les Juifves (1583).
L’argomento è preso dai capitoli 24 e 25 del Libro dei Re, da alcune sezioni del Libro delle Cronache e del Libro di Geremia oltre
che da alcuni capitoli del decimo libro delle Antichità giudaiche
dello storiografo ebreo Giuseppe Flavio. Dietro la rielaborazione
drammatica della storia biblica della presa di Gerusalemme da parte dell’esercito babilonese di Nabucodonosor (in seguito al tradimento di Sedecia) c’è l’urgenza di sviluppare temi e argomentazioni funzionali ad una analisi critica di fatti e questioni della contemporaneità:
Cet enseignement religieux, Garnier a soin d’en faire continuellement
l’application à l’actualité. Le peuple juif a renoncé au vrai Dieu pour
adorer Baal, où les Réformés voyaient la préfiguration de l’Eglise romaine, et le catholique Garnier celle de l’hérésie, comme l’indique sa
dédicace: les guerres fratricides des Français viennent de ce qu’ils ont
‘abandonné leur Dieu’. Mais le repentir, le retour à la vraie foi, peut
ramener la paix après l’épreuve. Tel est l’espoir que doivent faire naître pour l’avenir de la France et pour l’humanité entière la punition et
le malheur d’Israël18.
In Inghilterra, il filone della tragedia storica di stampo senechiano include opere come Iphigenia at Aulis (1549), versione
inglese di un dramma di Euripide a firma della cattolica Jane
Lumley19, The Tragedy of Cleopatra (1594) e Philotas (1604)
di Samuel Daniel, Mustapha (1596) e Alaham (1601) di Fulke
Greville e, soprattutto, Antonius (scritto nel 1590 e pubblicato
nel 1592) di Mary Sidney. Sul modello di drammi come La vita
di Cleopatra di Giulio Landi (Venezia, 1551), Cleopatra Tra18
Ibid., p. 129.
Così Weller e Ferguson nell’introduzione a The Tragedy of Mariam
(cit., p. 27): “Like Cary’s Mariam, Lumley’s Iphigenia partly succeeds in
rhetorically transforming herself from a political victim to a Christlike martyr”.
19
Elizabeth Cary
117
gedia di Geraldi Cinthio (1542), Cleopatra di Cesare de Caesari
(1552), Marc’Antonio e Cleopatra di Celso Pistorelli (1576) e
Cléopâtre Captive (1552) di Étienne Jodelle20, sia Antonius di
Mary Sidney che Marc Antoine (1578) di Garnier presentano
una struttura drammatica estremamente semplice e lineare; risultano poveri di azione in senso proprio. La storia di Antonio e
Cleopatra, mutuata dalla Vita di Antonio di Plutarco attraverso
la traduzione di Sir Thomas North (Plutarch’s Lives of the Noble Grecians and Romanes, 1579, testo a cui attinge anche
Shakespeare per i suoi drammi storici), non subisce forti trasformazioni attanziali o transcodificazioni sceniche. L’indagine
psicologica, condotta in modo fortemente stilizzato e con riferimento alle passioni universali (amore, ambizione ecc.), prevale sullo svolgimento esteriore: molti eventi e sviluppi tragici sono evocati da lunghi soliloqui e monologhi privi di impatto
drammatico, laddove i dialoghi tra protagonisti e personaggi secondari nutrono un articolato dibattito su questioni etiche e morali: “The humanists who followed a Senecan model deliberately downplayed narrative to emphasize rhetoric and didacticism, a combination that proved enormously popular in the sixteenth century”21. Laurie J. Shannon riassume così gli attributi
formali del closet drama: “Lyrical and expository narration
largely replace energetic stage action, and the roles of the nuntius and chorus can expand to fill in plot development. Rather
than emphasizing dramatic interaction or even dialogue, closet
20
Sulla tipologia di queste opere si veda l’introduzione ad Antonius in The
Collected Works of Mary Sidney Herbert. Countess of Pembroke, cit., p. 139:
“These works, and later tragedies on the theme by Samuel Daniel and Samuel
Brandon, follow the model of Seneca’s historical tragedy Octavia. Written in
five acts separated by choruses, they dramatize the final section of Plutarch’s
Life of Antony. Most of these tragedies, including Garnier’s, introduce a philosopher, include debate on moral issues, avoid dramatic action or interaction
between the major characters, and are comprised of ‘rhetorical set pieces’.
None the less, they allow more scope for the exploration of human dignity
than does Seneca. Their protagonists tend to be held responsible for their actions, rather than simply blaming fate, and they usually repent for the harm
they have caused others”.
21
Ibid., p. 141.
118
Capitolo II
drama makes use of long monologues and sparsely populated
scenes to elaborate intellectual or philosophical issues”22. Personaggio composito e collettivo, il coro è da considerarsi come
la personificazione dei pensieri morali che l’azione ispira, la sua
funzione è quella di ribadire il sapere comune e il punto di vista
legittimo rispetto agli avvenimenti rappresentati.
Sia in Antonius sia in Mariam le autrici non sono interessate
a rappresentare profondità scenica, non allestiscono spazi adeguati al gesto e all’azione. I pochi deittici che troviamo nei testi
non sono sufficienti a realizzare una rappresentazione dinamica
degli eventi narrati. L’interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramezzata di discorsi solenni e frasi altisonanti; lo scopo, in linea col modello senechiano e la lezione di
Philip Sidney, è didattico. All’assenza degli accadimenti fenomenici si surroga con l’intensità di una proliferazione verbale
che riduce le fratture diegetiche causate dalle prolungate latitanze dei protagonisti. In Antonius, come in The Tragedy of Mariam, le emozioni più estreme si sprigionano in assenza dei personaggi principali:
In the first half of the play, the absence of Herod is more powerful,
even terrifying, than his presence, and in the last act, the absence of
Mariam is more poignant, more devastating, to the audience than her
presence. In the first half, all the action revolves around Herod’s absence; in the second half, it all revolves around Mariam’s. In Antonie,
the authority and dramatic power of absence is conventional to the
plot [...] in Antonius’ last scene, he plays to the absent Cleopatra, and
in Cleopatra’s, she plays to the dead Antonius. In terms of theatricality, and performative notions of identity, it is deeply ironic that the
most powerful drama of these plays is evoked by the invisible, motionless, even dead or presumed dead, absent central characters23.
22
Laurie J. Shannon, “The Tragedie of Mariam: Cary’s Critique of the
Terms of Founding Social Discourses”, English Literary Renaissance, 24, 1
(1994), p. 144.
23
Kathy Acheson, “‘Outrage your face’: Anti-Theatricality and Gender in
Early Modern Closet Drama by Women”, Early Modern Literary Studies, 6, 3
(January 2001). Secondo la Acheson nei drammi di Mary Sidney ed Elizabeth
Cary la mancanza di azione “can be seen as a form of critique of Aristotelian
Elizabeth Cary
119
Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi femminili, va detto che rispetto ad una tradizione letteraria orientata a
presentare Cleopatra come la dominatrice assoluta di Antonio,
la donna ambiziosa, lussuriosa e peccaminosa che non esita a
sfruttare il proprio fascino sessuale per realizzare i suoi scopi
politici, l’eroina di Mary Sidney e Robert Garnier è una figura
parzialmente idealizzata. Se agli occhi di Antonio appare sempre come una scaltra seduttrice, in talune scene è presentata
come una “moglie dal cuore gentile” (“wife kindhearted”, Antonius, II, v. 556)24 e una madre premurosa che non ha niente in
comune con la “lasciva giumenta d’Egitto”25 (“Yon ribaudred
nag of Egypt”; Antony and Cleopatra, III, x, v. 10) descritta da
Shakespeare. Antonio è il suo “caro marito” (“deare husband”,
Antonius, V, v. 1802) e il padre dei suoi bambini piuttosto che il
“buffone d’una cortigiana” (“a strumpet’s fool”, Antony and
Cleopatra, I, i, v. 13). Questa caratterizzazione ibrida del personaggio contribuisce ad offuscare l’immagine della seduttrice e a
presentare una nuova figura di sposa legittima determinata a incarnare i valori positivi dell’affettività e della cura domestica.
Ciò che accomuna i drammi di Shakespeare e Mary Sidney è
la messa in rilievo della diversità di aspetto e di comportamento
della regina, dotata di un eloquio suadente e di una abilità persuasiva cui fa ricorso per tenere Antonio legato a sé. La sua voce esotica e ammaliante, i suoi slanci passionali “intorpidiscono” la mente del triumviro e intaccano la virilità dell’uomo, seand humanist conceptions of virtue as active, rather than passive, a conception
possibly prejudicial to women, whose activity was circumscribed”.
24
Mary Sidney Herbert, Antonius, in The Collected Works of Mary Sidney
Herbert, cit., pp. 139-207. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a
questa edizione.
25
William Shakespeare, Antonio e Cleopatra, a cura di Gabriele Baldini,
Milano, Bur, 2002. Tutte le susseguenti citazioni faranno riferimento a questa
traduzione. I riferimenti al testo originale sono tratti dalla “Arden Shakespeare”, a cura di M. R. Ridley, London, Methuen, 1974. Per un approfondimento
di temi e motivi di Antonio e Cleopatra e degli altri drammi romani si veda I
drammi romani, a cura di Alessandro Serpieri, Keir Elam e Claudia Corti,
Parma, Pratiche, 1993.
120
Capitolo II
dotto dalla mollezza lasciva di un ambiente femminile. Di qui
l’augurio che la stessa Roma “si sciolga nel Tevere”, frase che
implicitamente rende conto dell’ossessione elisabettiana e romana di una femminilizzazione della propria cultura26. Tuttavia,
in alcuni momenti cruciali del dramma, Robert Garnier e Mary
Sidney appiattiscono il corpo di Cleopatra, lo privano della terza dimensione, della profondità in cui si nascondono gli immondi e corruttori fluidi del corpo femminile così da porre enfasi sulla purezza “bidimensionale” di una donna che diventa
immagine, figura testuale, un significante quanto mai scisso dal
significato che lo ha fondato. Proprio come Pamphilia, protagonista del canzoniere di Mary Wroth, Cleopatra desidera aderire
al prototipo ideale dell’amante fedele, modesta e costante, vorrebbe frenare la sua esuberanza verbale27 e sessuale, ma l’istinto
amoroso finisce col prevalere su quello materno:
Charmion: Live for your sonnes.
Cleopatra: Nay for their father die.
Charmion: Hardhearted mother!
Cleopatra: Wife, kindhearted I.
Charmion: Then will you them deprive of royall right?
Cleopatra: Do I deprive them? No, it’s dest’nies might.
(Antonius, II, 562-5)
La complicità tra autore e personaggio finzionale si indebolisce
nel momento in cui viene evidenziata l’indifferenza della regina
nei confronti delle istanze del popolo. Philostratus, il retore che
analizza e commenta gli eventi senza mai prendervi parte, de26
Cfr. Michele Stanco che, fra l’altro, scrive: “In sintesi, sembra di poter
concludere che, all’interno della rappresentazione che la romanità elabora di
sé in quanto cultura maschile, è inclusa la virtualità, da esorcizzare, che i valori maschili delle origini possano essere corrotti attraverso il contatto e
l’influenza di circostanti culture femminili” (“L’Antoniade shakespeariana:
Antony and Cleopatra tra miti di fondazione e miti di decadenza”, Passaggi,
XII, 1-2, ottobre 1998), pp. 54-67, p. 59.
27
Con una metafora particolarmente suggestiva Shakespeare associa la
lingua di Cleopatra alla “piuma d’un cigno che galleggia sui flutti nell’alta
marea” (Antonio e Cleopatra, III, ii, v. 47).
Elizabeth Cary
121
nuncia le sofferenze arrecate al popolo egiziano e ai soldati romani da una condotta politica scellerata e irrazionale:
Strange are the evils the fates on us have brought,
O but alas! how farre more strange the cause!
Love, love (alas, who ever would have thought?)
Hath lost this Realme inflamed with his fire.
Love, playing love, which men say kindles not
But in soft harts, ashes made our townes.
And his sweet shafts, with whose shot none are kill’d,
Which ulcer not, with deaths our lands have fill’d.
[...]
Yea even this night while all the Cittie stoode
Opprest with terror, horror, servile feare,
Deepe silence over all: the sounds were heard
Of diverse songs, and divers instruments,
Within the voide of aire: and howling noise,
Such as madde Bacchus priests in Bacchus feasts
On Nisa make: and (seem’d) the company,
Our Cittie lost, went to the enemie.
So we forsaken both of Gods and men,
So are we in the mercy of our foes:
And we hencefoorth obedient must become
To lawes of them who have us overcome.
(Antonius, II, vv. 281-84; vv. 313-24)
Alle sollecitazioni di Philostratus il coro risponde celebrando le
qualità taumaturgiche del lamento rituale, l’unica forma di contestazione politica tollerata dal potere:
Lament we our mishaps,
Drowne we with teares our woe:
For Lamentable happes
Lamented easie growe:
And much lesse torment bring
Then when they first did spring.
(Antonius, II, vv. 326-31)
Sulla scia di Robert Garnier, dapprima Mary Sidney e, successivamente, Elizabeth Cary, partecipano al dibattito sul tema dei
diritti e dei doveri del sovrano e si chiedono, seppure in maniera
122
Capitolo II
indiretta, fino a che punto sia giusto rispettare l’autorità di un
principe dispotico e passionale28.
A partire dal XVI secolo una pletora di giuristi al servizio
delle monarchie nazionali, tra cui spicca la figura di Jean Bodin
(1529-1596), in relazione a eventi storici ben individuabili e in
risposta ad esigenze sociali, politiche e religiose ben precise,
definiscono la sovranità come supremo potere sui sudditi; un
potere che non ammette né controlli politici e giurisdizionali né
ambiti di condivisione. Jonathan Dewald osserva che “nella
prima età moderna i sovrani tendono a conferire una crescente
magnificenza alla monarchia, a porre l’accento sulla sacralità
delle proprie funzioni e a creare pertanto un’enorme distanza
del monarca anche dai suoi sudditi appartenenti alla più alta aristocrazia”29. In Inghilterra i primi riformatori protestanti, quanto
mai bisognosi dell’appoggio del potere secolare per diffondere
il loro insegnamento, predicano la subordinazione assoluta al
potere monarchico e negano ai signori feudali e al papa il diritto
di contestare le decisioni del re. Secondo il martire protestante
William Tyndale il sovrano era al di sopra della legge e doveva
rendere conto solo a Dio del suo operato30. Lo stesso Lutero
prescrive la cieca ubbidienza del suddito nei confronti di un potere destinato a reprimere il disordine introdotto nel mondo dal
peccato.
Secondo le teorie assolutistiche, l’ordine sociale promana integralmente dal sovrano che agisce in piena autonomia entro i
28
In proposito, Margaret Ferguson scrive: “Cary’s exception has analogues in numerous Protestant works that challenged the doctrine of absolutist
royal sovereignty by positing for the individual (male) subject a limited right
of passive disobedience to the prince or magistrate on grounds of Christian
conscience” (“Running On with Almost Public Voice: The Case of ‘E. C.’”,
cit., p. 54).
29
Jonathan Dewald, La nobiltà europea in età moderna, Torino, Einaudi,
2001, p. 174.
30
Si veda, in proposito, Stephen Greenblatt, op. cit., p. 88, che scrive:
“Where in his later career More exalts the existing institution of the Catholic
Church and identifies heresy as the alien force that must be destroyed, Tyndale for his part, exalts the monarchy as the essential, saving secular institution and defines the Catholic Church as the demonic other”.
Elizabeth Cary
123
limiti costituiti dalla legge di Dio e da un codice di principi ideali. Pensando alla metafora organicistica – proposta per la prima
volta nell’Instituto Traiani, un opuscolo compilato a Roma intorno al 400, e ripresa in molti altri specula principum, tra cui il
Policratus (1195) di Giovanni di Salisbury – che presenta la società politica come un corpo umano di cui il re è la testa, viene
da chiedersi (con Mariam ed Elizabeth Cary): cosa accade
quando dalla “mente sovrana” partono onde negative che si diffondono e corrompono il corpo sociale? Secondo Erasmo da
Rotterdam “il sovrano che gestisce il potere nel proprio interesse, e non nell’interesse della collettività, è un masnadiero, non
un principe”. Più innanzi sempre rivolto al principe ammonisce:
“Non prenda iniziative sotto lo stimolo dell’odio, dell’amore,
della collera o sotto l’impulso di qualsiasi passione”31. Come le
mogli più istruite e “consapevoli” hanno il diritto di ribellarsi a
mariti ottusi e autoritari, così il popolo può esercitare il diritto di
resistenza e opporsi al tiranno che non sappia liberarsi dal giogo
delle passioni, ponendosi al servizio dell’interesse generale.
Non è dunque azzardato ipotizzare che nell’assolutismo monarchico e nella de-cattolicizzazione della società Elizabeth Cary
vedesse due forze in grado di disgregare la comunità e creare
una nuova società atomizzata di sudditi docili e disciplinati che
lottano per la propria salvezza privatamente. Tra la fine del XVI
e l’inizio del XVII secolo la Chiesa perde prestigio e potere, le
corporazioni e tutte quelle associazioni in cui si intrecciano legami e alleanze politiche scompaiono o sono ridotte al rango di
istituzioni private, circoscritte e limitate; su tutto vigila lo Stato,
nella persona del monarca. Perfino l’autorità spirituale del papa
è gradualmente assorbita dal sovrano mentre il capofamiglia eredita dal prete cattolico la funzione di guida spirituale del “regno” domestico. In altri termini, il binarismo oppositivo
master/servant si stava fatalmente sbilanciando a tutto vantaggio del potere. Visto in questa prospettiva, The Tragedy of
31
Erasmo da Rotterdam, “Re o matti si nasce” (1515), in Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, riportato in G. Ernst, op. cit., pp. 122-3.
124
Capitolo II
Mariam appare come una efficace metafora politica più che un
testo vagamente protofemminista.
Come Mary Wroth aveva fatto tesoro del lavoro editoriale
che la contessa di Pembroke aveva compiuto sui sonetti di Sir
Philip Sidney, assimilando le convenzioni e i cliché di un genere altamente stilizzato per riattivarne la funzionalità con pensieri
e idee originali, così Elizabeth Cary inserisce i suoi discorsi
“femminili” e le sue idee politiche in un genere particolarmente
permeabile alle nuove istanze presentate da una nuova generazione di scrittrici. Nelle griglie strutturali del closet drama i
contrasti matrimoniali tra il re idumeo Erode il Grande e la
principessa asmonea Mariamne, registrati da Flavio Giuseppe
nelle Antichità giudaiche32, acquistano un significato altamente
simbolico e rimandano sia all’oppressione dei cattolici (associati ai Maccabei) da parte dei riformatori (associati agli Edomiti)
nell’Inghilterra protestante dei secoli XVI e XVII, sia allo scontro privato tra Sir Henry ed Elizabeth, quanto mai determinata a
conquistare quello spazio di manovra che le era sempre stato
negato. Una breve digressione sulla figura storica di Erode il
Grande consente una più immediata comprensione delle ragioni
che possono aver indotto l’autrice alla scelta del soggetto.
Erode era un piccolo vassallo di padre idumeo e madre araba, arrivato alla corte asmonea di Gerusalemme con l’astuzia e
l’intraprendenza33. Nel 41 a.C. ottenne da Marco Antonio il titolo di tetrarca. Due anni dopo, eliminati tutti i possibili pretendenti al trono della Giudea, fu proclamato re dal Senato Romano. Tuttavia, solo dopo tre anni di lotte ininterrotte e di terribili
stragi poté ascendere al trono di Giudea e regnare per 33 anni,
dal 37 a.C. (anno in cui conquistò, con l’ausilio delle truppe
32
Le descrizioni che Flavio Giuseppe fornisce dell’oppressione dei giudei
sotto i romani (mi riferisco in particolare alle opere La Guerra giudaica, scritta tra il 75 e il 79 d.C., e Antichità giudaiche, scritta tra il 93 e il 94 d.C. e tradotta in inglese da Thomas Lodge nel 1602) offrono a Elizabeth Cary un ricco
patrimonio di allegorie spendibili per illustrare la difficile condizione dei cattolici nell’Inghilterra elisabettiana.
33
Sulla figura di Erode si veda G. Firpo, Le rivolte giudaiche, Roma-Bari,
Laterza, 1999.
Elizabeth Cary
125
romane di Sosio, la città di Gerusalemme) al 4 a.C. L’inarrestabile
ascesa al potere non attenuò l’ossessione che Erode nutriva nei
confronti della dinastia asmonea, i discendenti dei leggendari
Maccabei. Pur consapevole di occupare un incarico cui non aveva diritto (a causa della sua origine idumea), egli rimase sempre tenacemente attaccato alla sua corona arrivando a far perseguitare e uccidere ogni presunto rivale, fossero anche amici, parenti o gli stessi familiari34. Erode temeva complotti e vedeva
minacce ovunque, ad ogni manifestazione di rancore popolare
rispondeva con ulteriori rivalse e vendette tanto che la tradizione ebraica e i primi cristiani presero a rappresentarlo come un
mostro assetato di sangue. In questo contesto si deve interpretare il suo turbamento circa la notizia ricevuta dai Magi della nascita del “re dei Giudei” e la conseguente “strage degli innocenti” (i bambini betlemiti dai due anni in giù) che gli attribuisce
l’evangelista Matteo (2: 16-18)35. Morto Erode, le regioni Galilea e Perea furono affidate a Erode Antipa. Le relazioni adulterine di quest’ultimo tetrarca con Erodiade, moglie di suo fratello
Erode Filippo, suscitarono grande scandalo tra gli ebrei e gli attirarono le critiche di Giovanni Battista, che al tempo aveva un
grande seguito di popolo. Erode Antipa, temendo la forza rivoluzionaria della sua predicazione, fece imprigionare Giovanni
ma non osò ucciderlo. Tuttavia, come racconta il Vangelo di
Marco (6: 17-29), in occasione di un banchetto per i grandi del34
Gli Edomiti o Idumei discendevano da Esaù che per diritto avrebbe
dovuto ereditare la benedizione del padre Isacco, se non avesse ceduto la primogenitura per un piatto di lenticchie. Suo fratello Giacobbe divenne così il
capostipite degli Israeliti mentre Esaù divenne epitome del profano che non sa
apprezzare i valori spirituali.
35
L’evento appare del tutto collimante con il suo agire precedente: nel 29
a.C. Erode aveva fatto uccidere la moglie Mariamne, nel 7 a.C. dispose la
stessa sorte per i due figli avuti da lei, Alessandro e Aristobulo. Cinque giorni
prima di morire fece giustiziare anche un altro suo figlio, Antipatro, avuto da
Doris, una delle sue mogli. Infine Giuseppe Flavio nelle Guerre giudaiche (I –
33, 6) riferisce che il re, sentendosi prossimo alla morte, ordinò alla sorella
Salomè di convocare a Gerico tutti i grandi del regno conferendole il mandato
di farli uccidere tutti appena lui fosse spirato. Salomè, come noto, non eseguì
l’ordine.
126
Capitolo II
la sua corte Erode fu tanto colpito dall’esibizione della figlia di
primo letto di Erodiade da concederle un desiderio che promise
di esaudire. Dopo aver chiesto consiglio alla madre, Salomè
chiese a Erode la testa di Giovanni Battista. Il re ne fu rattristato
ma non volle tirarsi indietro così diede ordine di decapitare il
predicatore e consegnare la testa alla giovane danzatrice.
L’episodio è particolarmente interessante in quanto presenta un
altro personaggio femminile che influenza la caratterizzazione
della Salomè di Mariam, basata sulla figura storica della sorella
di Erode il Grande.
Nella storia della Redenzione, Giovanni Battista è tra le personalità più singolari: è l’ultimo profeta e il primo apostolo, in
quanto precede il Messia e gli rende testimonianza. Nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio presenta il personaggio in un
suo quadro ideologico: un predicatore innocente, vittima politica del potere degenerato di Erode Antipa. Il Nuovo Testamento
ne offre un ritratto più complesso. Matteo lo presenta come
l’ultimo profeta ebreo, Luca come un proto-cristiano; infine
l’evangelista Giovanni precisa che il Battista non fu solo il precursore, ma soprattutto il testimone del Cristo. Sul modello
martiriale offerto da Gesù e Giovanni Battista, Elizabeth Cary
elabora la “passione” di Mariam, un’altra figura esemplare perseguitata dal tiranno violento e sanguinario in cui confluiscono
le figure storiche di Erode il Grande, il re della “strage degli innocenti” ed Erode Antipa, il giustiziere di Giovanni Battista.
2.3 I tortuosi percorsi dell’assertività. In The Tragedy of
Mariam Elizabeth Cary rispetta le unità aristoteliche. L’azione
si svolge nel tempo reale di un singolo giorno; all’intrigo principale si intrecciano pochi intrighi accessori, prevalentemente
incentrati sulle macchinazioni di Salomè. I primi due atti sono
dedicati alla presentazione dei personaggi e all’esposizione dei
conflitti e delle rivalità che porteranno al martirio di Mariam. Se
il prezzo da pagare per diffondere le proprie idee schivando i
fendenti della censura è quello di ibridare il soliloquio incipitario della protagonista con qualche tributo allo stereotipo secon-
Elizabeth Cary
127
do cui le facoltà intellettive della donna sarebbero nettamente
inferiori a quelle dell’uomo, Elizabeth Cary non si tira certo indietro, nella convinzione che l’atto emancipatore sia scrivere
un’opera originale e darla alle stampe:
How oft have I with public voice run on
To censure Rome’s last hero for deceit:
Because he wept when Pompey’s life was gone,
Yet when he liv’d, he thought his name too great.
But now I do recant, and, Roman lord
Excuse too rash a judgement in a woman:
My sex pleads pardon, pardon then afford,
Mistaking is with us but too too common.
(I, i, vv. 1-8)
Mariam sostiene di essersi occupata troppe volte di politica e fa
ammenda per aver espresso in pubblico le proprie considerazioni su fatti e personaggi storici. Alla sua appartenenza al sesso
debole è imputata la “naturale” tendenza all’errore valutativo.
Sull’equazione donna=natura, opposta e complementare a quella uomo=cultura vale quanto scrive Sherry Ortner:
It all begins of course with the body and the natural procreative functions specific to women alone. We can sort out for discussion three
levels at which this absolute physiological fact has significance: (1)
woman’s body and its functions, more involved more of the time with
“species life”, seem to place her closer to nature, in contrast to man’s
physiology, which frees him more completely to take up the projects
of culture; (2) woman’s body and its functions place her in social
roles that in turn are considered to be at a lower order of the cultural
process than man’s; (3) and woman’s traditional social roles, imposed
because of her body and its functions, in turn give her a different psychic structure, which, like her physiological nature and her social
roles, is seen as being closer to nature36.
Informata della presunta morte del marito, al quale Ottaviano
non avrebbe perdonato l’alleanza con Marco Antonio, Mariam
36
Sherry B. Ortner, “Is Female to Male as Nature to Culture?”, in M. Z.
Rosaldo and L. Lamphere, Woman, Culture and Society, Stanford, Stanford
University Press, 1974, pp. 73-4.
128
Capitolo II
scopre di nutrire sentimenti contrastanti nei confronti di Erode,
marito affettuoso ma sovrano crudele e sospettoso, tanto da far
assassinare il giovane Aristobolus (fratello di Mariam), per liberarsi di ogni possibile avversario di stirpe asmonea. Come vedova Mariam piange la morte del marito ma in quanto sorella di
Aristobolus e nipote di Hircanus gioisce per la morte dell’uomo
che ha fatto uccidere i suoi più stretti familiari. La caratterizzazione del personaggio è dunque complessa. Dal suo ingresso nel
simbolico Mariam è costretta a recitare tre ruoli: quello di moglie fedele al sovrano, quello di figlia vincolata al rispetto delle
sue responsabilità dinastiche, e infine quello di regina del popolo giudaico. Le tre diverse identità in cui è scissa la soggettualità
dell’eroina entrano in conflitto allorché il sistema socio-culturale
che le ha prodotte diventa instabile per via dell’assenza di chi detiene il controllo della rappresentazione, il sovrano. Allorché viene
a mancare l’autorità, nella piattaforma sociale si aprono crepe e
fenditure da cui affiorano istinti e pulsioni a lungo repressi.
Nella seconda scena entra in gioco il personaggio di Alexandra, figlia del nobile Hircanus (ultimo re asmoneo) e madre di
Mariam e Aristobolus che, irritata dalla vista della figlia in lacrime, si lancia in un’invettiva orientata a smascherare i reati
commessi da un re illegittimo, un “vile idumeo” (“base edomite”, v. 84). Si tratta del primo riferimento al discorso della purezza razziale, che riaffiora nei momenti climactici del dramma.
Erode è un discendente di Esaù, che per aver negato la risurrezione ed aver messo in dubbio il compimento futuro delle promesse di Dio a Israele, è diventato “figura” di coloro che non
vedono al di là dell’orizzonte terreno e disprezzano i valori dello spirito. A causa della sua carnagione rossiccia fu chiamato
anche Edom (cioè rosso). Allo stesso modo fu chiamata la terra
dove si stabilì dopo essersi allontanato dalle terre che spettavano al fratello. In Malachia 1:1-4 il paese di Edom è definito il
“territorio dell’empietà” e gli edomiti (o idumei) il “popolo contro il quale il Signore è sdegnato per sempre”. Di qui la caratterizzazione di Erode come un uomo schiavo delle sue passioni e
delle sue insicurezze, incostante e inaffidabile come una donna;
violento e dispotico come un tiranno:
Elizabeth Cary
129
What kingdom’s right could cruel Herod claim,
Was he not Esau’s issue, heir of hell?
Then what succession can he have but shame?
Did not his ancestors his birth right sell?
Oh yes, he doth from Edom’s name derive
His cruel nature which with blood is fed:
That made him me of sire and son deprive,
He ever thirsts for blood, and blood is red.
[...]
I know by fits he show’d some signs of love,
And yet not love, but raging lunacy:
And this his hate to thee may justly prove,
That sure he hates Hircanus’ family.
Who knows if he, unconstant wavering lord,
His love to Doris had renew’d again?
And that he might his bed to her afford,
Perchance he wish’d that Mariam might be slain.
(I, ii, vv. 99-130)
Nel contesto culturale dell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana i difetti che Alexandra attribuisce a Erode sono regolarmente
associati al sesso femminile. Dal XV secolo in poi, una lunga
serie di pamphlets sul ruolo della donna, ben coadiuvati dalla
pubblicazione di opere pseudo-scientifiche sul dimorfismo sessuale, costruiscono una iconografia del corpo femminile come
debole e inaffidabile in quanto composto di umori freddi e umidi. Liquefatta e intorbidita dagli immondi fluidi che circolano
nel suo corpo, la mente femminile subisce l’influsso della ciclicità delle fasi lunari e tende ad essere instabile e irrazionale37.
Non sorprende che il comportamento di Salomè aderisca perfettamente all’immagine stereotipata della donna disordinata e
sregolata, ma quando il virus della volubilità contagia anche la
mente del re Erode dalla sommità della piramide sociale parte
una scossa che minaccia di destabilizzare le fondamenta stesse
del regno di Giudea. Informata dei piani criminali di Erode, che
ha dato ordine di ucciderla nel caso non fosse mai tornato da
Roma, Mariam accoglie con sollievo la morte del tiranno ma
37
Cfr. I. Maclean, op. cit., pp. 127-55.
130
Capitolo II
piange la scomparsa dell’uomo a cui è legata dal sacro vincolo
matrimoniale. Nei corridoi angusti di un intricato labirinto linguistico la sua ansia di autonomia si intreccia con l’esigenza di
farsi carico delle proprie responsabilità familiari e dinastiche.
Nella terza scena del primo atto registriamo il primo scontro
tra la coppia Alexandra-Mariam, che afferisce all’idea di una
solidarietà femminile costruita sulle solide basi di un forte sentimento di appartenenza ad una famiglia (e una dinastia) di eletti, e il raggruppamento Salomè-Erode, che afferisce all’area
dell’illegittimità, dell’eccesso e dell’alterità razziale. Salomè
accusa Alexandra e Mariam di aver approfittato dell’assenza di
Erode per trasgredire la legge patriarcale che le vuole sottomesse e passive. Mariam risponde definendo la rivale una “bastarda” mezza ebrea e mezza idumea (“parti-Jew, and partiEdomite”, I, iii, v. 235), progenie di una stirpe ripudiata da Dio:
“Thy ancestors against the Heavens did fight, / And thou like
them wilt heavenly birth disgrace” (I, iii, vv. 237-38). Con
grande abilità Salomè decostruisce questa accusa e spiazza Mariam con una allusione allo loro comune discendenza da Isacco:
“What odds betwix your ancestors and mine?” (I, iii, v. 240).
Mariam, disorientata, preferisce aggirare la domanda e arricchire di nuovi contenuti una caratterizzazione della rivale imperniata sul paradigma dell’impurità: “I favour thee when nothing
else I say, / With thy black acts I’ll not pollute my breath” (I, iii,
vv. 244-45). Ogni azione compiuta da Salomè è nera come il
peccato che macchia la coscienza dell’impuro. L’emergenza
dell’opposizione fairness/blackness, dove il secondo termine è
associato all’alterità e all’inferiorità razziale risulta funzionale
al desiderio di screditare la rivale assegnandole una posizione
esterna e marginale rispetto alla comunità, mettendo in luce la
sua non appartenenza al popolo degli eletti38.
Mentre la fase di espansione coloniale era ancora al suo stato
embrionale, la ricerca di appigli pseudo-scientifici per affermare
la portata culturale delle differenze razziali si era già messa in
38
Cfr. Kim Hall, Things of Darkness: Economies of Race and Gender in
Early Modern England, Ithaca, Cornell University Press, 1995, pp. 184-5.
Elizabeth Cary
131
moto onde far fronte alle paure irrazionali innescate dalla scoperta di popolazioni e culture “altre”. L’intero mondo scientifico medico-biologico fu coinvolto, più o meno consapevolmente, in concettualizzazioni discriminanti volte a stringere gli anelli di una catena ideologica che al colore della pelle associava
l’impurità e l’inferiorità culturale. Ripudiata ogni forma di mescolanza che potesse contaminare il sangue del “bianco”, si iniziò a fantasticare su una sorta di purezza che classificava
l’umanità in specie isolate artificialmente. Ammesso che sia legittimo parlare di razzismo solo dal XVIII secolo, quando viene
elaborata una teoria che nella genetica individua la ragione
dell’inferiorità biologica (e quindi culturale) dei popoli assoggettati e la giustificazione delle efferatezze compiute nelle varie
imprese coloniali, è importante sottolineare che, a partire dal
XVII secolo, il timore irrazionale nei confronti dello straniero
(potenzialmente) usurpatore confluì presto in una demonizzazione della blackness: “White Racism has been, from its origin,
a story about male competition. Thus the black male, imputed
competitor for possession of the white male’s prerogatives of
power, wealth, and the assumed ownership of white females,
poses the threat that marks the space where projected racial
anathema begins”39. Il soggetto rinascimentale ha bisogno di
forme su cui esercitare, collaudare e verificare la sua “forza”.
L’io deve riconoscere l’autonomia della sua soggettività in un
rapporto che lo colleghi ad una alterità nel confronto con la quale rafforzare la sua “relativa potenza”.
Per non ridursi a meccanica contrapposizione di forze, la competizione sociale tra donne, come quella tra uomini, aveva bisogno
di svilupparsi in nuovi discorsi e nuove metafore di forte impatto
emotivo. Il codice linguistico e ideologico del sexual slander, pratica culturale che nasce dall’esigenza di screditare le rivendicazioni
di nemiche e rivali affermando nel contempo l’autorità verbale e
legale dell’accusatrice, non tardò ad assimilare i numerosi significanti che orbitano intorno alla sequenza associativa donna / nero /
impurità / corruzione / peccato / animalità. A proposito dei nume39
L. E. Boose, op. cit., p. 41.
132
Capitolo II
rosi casi di diffamazione discussi nelle corti ecclesiastiche,
Laura Gowing scrive:
In a culture where a host of prescriptions limited women’s words, and
where women’s participation in the law was explicitly restricted, sexual insult and legal action represented particular opportunities.
Women in London used those opportunities, in conjunction with a set
of established customary and practical powers to claim a verbal and
legal authority that was at once powerful and fragile40.
Il codice della diffamazione sessuale offriva alle donne un socioletto particolarmente adatto a veicolare il desiderio di dar libero (e pubblico) sfogo a passioni e rancori personali senza incorrere nelle sanzioni previste per la scold. A corte, conclude la
Gowing, “litigation provided a way of shifting personal, semipublic disputes into a much broader, official sphere to which
women rarely had access”41. Scambiandosi reciprocamente accuse, le donne sfuggivano all’accerchiamento della censura e
clandestinamente partecipavano al dibattito politico e culturale
del tempo42. Nel corso degli anni sia il sexual/racial slander che
le azioni legali intraprese per difendere la reputazione di presunte streghe e scold diventano i canali ufficiali dell’assertività
femminile.
40
L. Gowing, op. cit., p. 430.
Ibid., p. 445.
42
In proposito, Naomi J. Miller scrive: “The mothers’ voices serve to surround and in some sense to balance the voices of those female characters
whose speech is directed primarily, and erotically, toward the men – whether
the sexually dynamic Salome or the sexually passive Graphina. Whereas the
men tend to perceive motherhood as a physical state which bears witness to
their own sexual potency, the women claim maternity as a condition for
speech, directed most specifically not toward their husbands and male lovers,
but rather toward each other [...] Only the mothers seem able to begin to redraw the boundaries of domestic authority which frame the patriarch’s power
so as to establish speaking positions for themselves not already overdetermined by roles as receptacles for masculine desire. The conflicted discourse of
the mothers thus exposes not only their rivalry, but also their capacity to frame
their desires in language which deflects the ruling supremacy of the tyrant”
(“Domestic Politics in Elizabeth Cary’s The Tragedy of Mariam”, Studies in
English Literature, 1500-1900, 37, 2,1997, pp. 361-2).
41
Elizabeth Cary
133
L’intervento di Alexandra chiude il primo scontro tra le due
protagoniste del dramma mediante un’altra allusione all’inferiorità
di Salomè, sineddochicamente associata al piede, ovvero alla corporeità e alla sudditanza, laddove Mariam è la testa che guida
l’azione.
2.4 Tirannia patriarcale e strategie di resistenza. La scena
quarta si apre con un soliloquio di Salomè incentrato sul tema
della vergogna (“shame”) che da tempo arrossa la sua fronte.
Dopo aver fatto condannare a morte il primo marito Josephus,
reo di aver rivelato a Mariam i piani segreti di Erode, Salomè,
spesso indotta all’errore dalla sua “wavering mind” (I, vi, v.
497) e dal suo “wandering heart” (I, iv, v. 321), sposa Constabarus al quale presto preferisce Silleus. Col passare del tempo,
l’urgenza di reimpadronirsi della propria vita era gradualmente
confluita in una scelta di indocilità che, in assenza del re, sfocia
nella denuncia scagliata contro la legge ebraica:
He loves, I love; what then can be the cause
Keeps me from being the Arabian’s wife?
It is the principles of Moses’ laws,
For Constabarus still remains in life.
If he to me did bear as earnest hate,
As I to him, for him there were an ease;
A separating bill might free his fate
From such a yoke that did so much displease.
Why should such privilege to man be given?
Or given to them, why barr’d from women then?
Are men than we in greater grace with Heaven?
Or cannot women hate as well as men?
I’ll be the custom-breaker: and begin
To show my sex the way to freedom’s door [...]
(I, iv, vv. 297-310).
In The Taming of the Shrew la bisbetica Kate “sovverte
l’universo maschile simbolico rivoltando le metafore come un
guanto, usando il gioco verbale per sfidare e mettere in questione un sistema binario che codifica e racchiude il potere maschi-
134
Capitolo II
le”43. Qui, al contrario, Salomè si limita a invertire il binarismo
ordine/disordine con argomentazioni semplici e dirette, così da
collocare i suoi discorsi e la sua stessa identità sul polo negativo
del “custom-breaker”. Contestare la gerarchia che vuole la donna sottomessa al marito e lamentare l’ingiustizia della legge
mosaica equivale a invalidare le proprie rivendicazioni, accolte
come il frutto di una unruly mind votata all’eccesso verbale e
sessuale. A Constabarus non rimane che opporre all’antimodello
incarnato da Salomè il ritratto stereotipato della moglie ideale, la
cui funzione, secondo le Scritture (Proverbi, 12:4), sarebbe quella
di rafforzare il prestigio sociale del marito allo stesso modo in cui
la corona accresce la regalità del sovrano: “Our wisest prince did
say, and true he said. / A virtuous woman crowns her husband’s
head” (I, vi, vv. 395-96)44. Di fronte alla riduzione della sua soggettività a semplice accessorio della potestà maritale, Salomè reagisce esplosivamente:
Thou shalt no hour longer call me wife,
Thy jealousy procures my hate so deep:
That I from thee do mean to free my life,
By a divorcing bill before I sleep.
(I, vi, vv. 417-20)
43
C. Mucci, Il teatro delle streghe, cit., p. 67.
Un penetrante commento di questa metafora biblica è fornito da Karen
Newman: “The Biblical verse from Proverbs represents woman metonymically as the crown of her husband. A crown is first an ornament for the head.
Worn not simply for personal adornment, it is a mark of the wearer’s honour
or achievement. A good wife, then, is a mark of her husband’s achievement,
and the handbooks’ emphasis on the role of the husband in educating and
moulding his wife to obedience, submission, and good housewifery witnesses
such a view of that role. A crown is also a token worn by a monarch as a sign
of sovereignty; thus the figure also sustains the patriarchal organization of the
household in early modern England and the microcosm/macrocosm analogy
on which it depends” (Fashioning Femininity and English Renaissance
Drama, Chicago and London, University of Chicago Press, 1991, p. 15). Sul
tema del divorzio nei closet dramas di Milton ed Elizabeth Cary si veda Susan
B. Iwanisziw, “Conscience and the Disobedient Female Consort in the Closet
Dramas of John Milton and Elizabeth Cary”, Milton Studies, 36 (1998), pp.
109-22.
44
Elizabeth Cary
135
Nella letteratura edificante del XVI secolo il divorzio è associato allo scioglimento del patto politico e religioso che lega le diverse componenti sociali. La teoria medievale che individuava
nel celibato una condizione superiore a quella del matrimonio
aveva ormai ceduto il passo all’esigenza, avvertita da riformisti
e controriformisti, di procedere ad un accurato riordinamento
del matrimonio monogamico a partire da un consolidamento
dell’autorità patriarcale. Il capofamiglia ottiene precise garanzie
circa la trasmissione del nome e del patrimonio alla progenie
laddove alla donna i riformatori mostrano un percorso di redenzione che proprio nel matrimonio e nella maternità ha i suoi due
snodi fondamentali. Nel raccomandare alle mogli di rivolgere al
marito un amore riverente e rispettoso nella consapevolezza di
essere state create da una costola situata sotto il braccio
dell’uomo – l’arto con cui questi dirige e ammaestra i suoi sottoposti – San Francesco di Sales definisce il matrimonio “il vivaio del cristianesimo”. Per Lutero rappresenta la condizione
naturale dell’uomo, purché la famiglia sia governata da un rigoroso patriarcato. Proprio negli anni in cui Elizabeth Cary scrive
The Tragedy of Mariam torna in auge anche il culto della Sacra
Famiglia, imperniato sull’idea di San Giuseppe come “falegname virtuoso e padre terreno che insegnò a Cristo il suo mestiere
e salvò la Vergine Maria dal disonore di questa terra”45. Anche
l’analogia tra household e commonwealth, famiglia patriarcale e
regalità, continua a rafforzarsi. Così William Gouge: “A family
is [...] a little Commonwealth [...] a school wherein the first
principles and grounds of government and subjection are
learned [...] So we may say of inferiors that cannot be subject in
a family; they will hardly be brought to yield such subjection as
they ought in Church or Commonwealth”46. Secondo Robert
Clever e John Dod (A Godly Forme of Household Government:
for the Ordering of Private Families, According to the Direction of God’s Word, 1612) il marito è il “chief governor” della
45
O. Hufton, op. cit., p. 37.
William Gouge, Of Domesticall Duties, 1622. Riportato in S. D. Amussen, op. cit., p. 37.
46
136
Capitolo II
famiglia mentre la moglie, definita “fellow-helper”, è condannata ad una condizione di dipendenza e sudditanza nei confronti
del master. Il libro God and the King (1615), in cui Richard
Mocket sviluppa nuove argomentazioni a sostegno della teoria
che individua nel re l’emissario di Dio in terra e nel patriarca il
sovrano
della
household,
incontra
immediatamente
l’approvazione di Giacomo I, tanto da trasformarsi in una sorta
di bibbia dell’assolutismo monarchico adottata da ogni ordine di
scuole e università. Ancora nel 1642, Robert Filmer basava la
sua difesa del potere assoluto del re insistendo sull’equazione
tra sudditi e prole, per dimostrare quanto la subordinazione al
sovrano non fosse più “innaturale” dell’ubbidienza che ogni figlio deve al proprio genitore47. Così come la donna non ha il diritto di divorziare dal proprio marito, i sudditi non possono ripudiare il sovrano legittimo anche nel caso in cui l’unto del signore si sia trasformato in un tiranno crudele e sanguinario.
Come insegna Vives in Linguae Latinae Exercitatio (1539),
l’unica forma di resistenza al dispotismo del sovrano è individuabile nella sofferenza e nel sacrificio di sé. In questa prospettiva va inquadrato il martirio di Mariam, che incarna il modello
delle prodigiose sante medievali che sfuggono alla tirannia coniugale senza mai venir meno al principio dell’ubbidienza.
Diverso è il caso di Salomè. Alla luce delle prescrizioni
scritturali sull’istituto matrimoniale e rispetto alla metaforica
articolazione dei rapporti di potere all’interno della famiglia, il
suo desiderio di divorziare da Constabarus per sposare Silleus
risulta tanto illegittimo quanto politicamente destabilizzante, di
conseguenza è immediatamente imputato al suo carattere passionale e alla sua voracità sessuale. La disubbidienza della moglie al marito, unita alla trasgressione della legge mosaica, rappresentano una “versione attenuata” del reato noto come petty
treason, formula ideata per enfatizzare la gravità dell’assassinio
del padrone (=marito) da parte del servitore (=moglie), crimine
che, al pari di qualsiasi altro assalto al governo tende a destabi47
1642.
Robert Filmer, Patriarcha, or the Natural Power of Kings, London,
Elizabeth Cary
137
lizzare l’ordine sociale48. I rapporti di potere tra maschio e
femmina riassumono tutti gli altri binarismi fondanti la cultura
rinascimentale: padrone/servo sovrano/suddito cultura/natura,
razionale/irrazionale ecc49. L’appropriarsi delle mansioni e delle
prerogative del maschio dominante da parte di una donna sregolata, o una “woman on top”50, non fa che innescare la controffensiva del potere orientata a sedare ogni dinamismo familiare.
Se la donna riesce a tenere testa al marito, anche il suddito riuscirà ad opporsi all’autorità del sovrano e l’intera gerarchia dei
rapporti di forza sarà rimessa in discussione. I meccanismi omeostatici messi a punto per stroncare l’assertività femminile si basano sulla repressione di ogni comportamento deviante, e sfruttano le suggestioni esercitate da punizioni esemplari e “spettacolari”. La scold subisce la punizione del ducking stool; ovvero viene legata ad una sedia e immersa nello stagno del paese:
Modern research into the early history of the ducking-stool has revealed that, in fact, there was great variety of usage in different manors, boroughs and cities. In some places the aim was primarily to exhibit the offenders to public ridicule, which might be achieved either
by placing them in a fixed position in some prominent place or by carrying them about the town: Elsewhere the emphasis was on the ducking of the culprits, the effect of which might be simply to soak them
or, more brutally, to defile them with mud or filth. These objects were
achieved by means of a wide variety of engines and contraptions, not
always chair-like in form, their precise nature depending on local traditions and available resources51.
48
Si veda quanto scrive Clara Mucci in merito all’omicidio di Arden di
Faversham da parte della moglie Alice in “Alice di Faversham” (Il teatro delle
streghe, cit., pp. 37-62).
49
Cfr. Stuart Clark, “Inversion, Misrule and the Meaning of Witchcraft”,
Past and Present, 87 (May 1980), pp. 98-128.
50
Cfr. Natalie Zemon Davis, “Women on Top: Symbolic Sexual Inversion
and Political Disorder in Early Modern Europe”, in N. Z. Davis, Society and
Culture in Early Modern France, Stanford, Stanford University Press, 1975,
pp. 124-151 (trad. it. Le culture del popolo. Saperi, rituali e resistenze nella
Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1980).
51
Martin Ingram, “‘Scolding women cucked or washed’: A Crisis in Gender Relations in Early Modern England?”, in Garthine Walker & Jenny Ker-
138
Capitolo II
Salomè non è solo una moglie assertiva e tirannica, al pari delle
streghe di Macbeth è portatrice di un ribaltamento assiologico
che Constabarus teme possa innescare un terremoto culturale
tanto violento da scuotere le immutabili gerarchie del potere:
Are Hebrew women now transformed to men?
Why do you not as well our battles fight,
And wear our armour? Suffer this, and then
Let all the world be topsy-turvèd quite.
Let fishes graze, beasts [swim], and birds descend,
Let fire burn downwards whilst the earth aspires:
Let winter’s heat and summer’s cold offend,
Let thistles grow on vines, and grapes on briars,
Set us to spin or sew, or at the best
Make us wood-hewers, water-bearing wights:
For sacred service let us take no rest,
Use us as Joshua did the Gibonites.
(I, vi, vv. 421-32)
Nel contesto culturale inglese della prima era moderna le rivendicazioni di Salomè non hanno gambe per camminare, risultano
non pertinenti e ingiustificate soprattutto se confrontate con
quelle di Mariam. Quest’ultima ha tutto il diritto di affrancarsi
da un marito crudele e sospettoso senza per questo attentare
all’Ordine della regalità simbolica. Erode, il re indegno, il “vile
idumeo” che ha usurpato il trono eliminando ogni altro pretendente alla corona e ha acquistato legittimità con la sua scaltra
politica di alleanze matrimoniali, non ha dato più notizie di sé;
in Giudea tutti lo credono morto, assassinato per ordine di Ottaviano. La trasgressione di Mariam, il suo atteggiamento ribelle
nei confronti dell’autorità del master è giustificato da mille attenuanti, la sua è una indocilità “controllata” e razionale piuttosto che passionale, il suo non è un volere comunque ma un volere a condizione52.
mode, Women, Crime and the Courts in Early Modern England, Chapel Hill,
University of North Carolina Press, 1994, pp. 58-9.
52
Cfr. l’analisi di Alessandro Serpieri della personalità di Macbeth in Retorica e immaginario, cit., pp. 209-10. Dympna Callaghan individua un’altra
Elizabeth Cary
139
A conclusione del primo atto si registra il primo intervento
del Coro, la cui funzione, come si è accennato, è quella di esprimere luoghi comuni e una interpretazione dei fatti del tutto
parziale e per certi versi fuorviante. Le accuse rivolte a Mariam
corrispondono a colpe attribuibili a Salomè, antagonista che dà
voce all’inconfessabile ribellismo della protagonista. Nel secondo atto entrano in scena altri due importanti personaggi:
Pheroras, fratello di Erode, e Graphina, la donna di umili origini
che quest’ultimo vorrebbe prendere in moglie. Ormai rassegnato a sposare, per motivi politico-dinastici, la sua stessa nipote
(figlia di Erode), Pheroras accoglie con entusiasmo la notizia
della presunta morte del tiranno e tenta subito di curare il suo io
ferito esortando Graphina a dar voce alla sua soddisfazione.
Quest’ultima rassicura il suo amante costruendo un’immagine
di sé come donna docile e sottomessa, consapevole della sua inferiorità biologica e culturale: “You have preserved me pure at
my request, / Though you so weak a vassal might constrain / To
yield to your high will [...]” (II, i, vv. 62-4). Graphina è
l’incarnazione stessa del modello femminile proposto dai trattati
attenuante per la trasgressiva ribellione di Mariam: “Within the conventions of
renaissance culture, Jewish women seem to be portrayed in a far more positive
light – as literally less racialized – than the invariably patriarchal Jewish
males. For example, Jessica, daughter of Shylock, who converts to Christianity in Shakespeare’s Merchant of Venice, and Abigail, the daughter of Barabas, who flees to a convent in Marlowe’s The Jew of Malta, are identified with
Christianity rather than Judaism; their fathers do not have the same propensity
towards conversion and assimilation. The archetypal Jewish patriarch is Abraham, of course, to whom gentiles bear an inescapably filial relationship. He is,
as saint Paul writes, ‘the father of us all’. Yet Abraham is hardly benevolent.
He figures in Christian mythology as the murderous patriarch who circumcises Isaac and later ties him to the altar fully prepared to wield his knife, his
hand stayed only by the timely intervention of the angel of the Lord. The significant parallels between Herod and the conventional, racialized representation of the Jew as the tyrannical patriarch (though he is not, of course,
Mariam’s father) make her insubordination quite legitimate [...]” (“Re-reading
Elizabeth Cary’s The Tragedy of Mariam, Faire Queene of Jewry”, in M.
Hendricks, P. Parker (eds.), op. cit., p. 170.
140
Capitolo II
e dai manuali di condotta, è casta e silenziosa53, passiva e ubbidiente; non parla se non è invitata a farlo, non agisce se non per
eseguire ordini o servire l’amante. Agli occhi di Pheroras appare come una moglie modello da contrapporre alla “mostruosa”
Salomè. Il nome Graphina è plasmato sul verbo greco gràphia,
e segnala la prigionia del soggetto nelle strutture del linguaggio,
contrassegnate da imperativi sociali, regole rigide e immutabili:
Graphina è una pagina bianca su cui Pheroras proietta le sue
fantasie, “scrive” la sua storia e disegna il ritratto della compagna ideale. La sua indole naturale è stata perfettamente assimilata nel culturale: “Graphina is the ideal woman as written by
men, the ideal wife of the conduct books, a blank space to be
filled in by (male) ideas of femininity”54.
2.5 Mothers on top. Nelle scene terza e quarta si conclude la
lunga presentazione dei personaggi: è il turno di Doris, la prima
moglie di Erode, e di Silleus, amato passionalmente da Salomè.
Dopo Alexandra, un’altra madre scende in campo per difendere
gli interessi dei figli. Laddove nei drammi di Shakespeare spicca l’assenza delle madri, in linea con l’assioma principale della
53
La parola “silence” è associata a Graphina cinque volte in meno di
trenta versi.
54
Cfr. Kim Walker, Women Writers of the English Renaissance, New
York, Twayne-Simon and Schuster MacMillan, 1996, pp. 136-7. Si veda, inoltre quanto scrive, in proposito, Jonathan Golberg: “When writing is equated
with an absence of speech, women’s writing is eo ipso declared already less
than fully representative of women, a sign of absence, and somehow therefore
in itself not entirely there. In such formulations, writing disappears into representation of female silence, rather than testifying to the fact that some women
did write and that these texts have undeniable material existence and therefore
have a kind of priority over the law they violate” (Desiring Women Writing:
English Renaissance Examples, Stanford, Stanford University Press, 1997, pp.
165-6). Sul tema della simbolizzazione del maschile-femminile vale quanto
scrive Sherry B. Ortner: “In other words, woman’s consciousness – her membership, as it were, in culture – is evidenced in part by the very fact that she
accepts her own devaluation and takes culture’s point of view” (op. cit., p.
76).
Elizabeth Cary
141
cultura patriarcale secondo cui l’unica figura investita di autorità all’interno della famiglia è il padre, in The Tragedy of Mariam molti personaggi femminili sono madri che si battono le
une contro le altre per tutelare gli interessi dei figli. Nelle one
parent families dei romances shakespeariani, osserva Carol
Thomas Neely,
mothers are not merely absent but are dead or else die or apparently
die in the course of the play. If the death occurs before the play’s action, it is noted and remembered. These deaths and mock deaths are
prominent determinants of plot and theme. The absence of mothers in
the romances causes broken nuptials in the older generation, allows
female sexuality to be represented by the chaste innocence of young
daughters, and shifts emotional and dramatic emphasis to fatherdaughter bonds. Mock deaths in the romances symbolize separation
and engender reconciliation not only in the heterosexual bond but in
the mother-child bond as well55.
Il timore di essere risucchiati e annullati nel ventre materno e il
turbamento provocato dal confronto con la “minacciosa” e perturbante sessualità femminile induce Pericle, Leontes e Prospero a rifugiarsi nel guscio protettivo di un rapporto per sua natura
gerarchico e quindi più rassicurante per l’uomo, quello con la
figlia casta e immacolata: “Marina, Perdita, and Miranda of the
romances are accessory to their fathers’ development as characters, rather than characters developed for their own sakes, and
their spheres of action are restricted”56. Grazie alla presenza
della figlia, l’esilio di Prospero si trasforma in un idillio che va
55
Carol Thomas Neely, Broken Nuptials in Shakespeare’s Plays, New
Haven and London, Yale University Press, 1985, p. 171. Sul tema delle one
parent families shakespeariane vale la pena riportare quanto scrive Stephen
Orgel: “Most families in Shakespeare have only one parent, the very few that
include both parents generally have only one child, and when that configuration appears, it tends to be presented, as Leontes’ marriage is presented, as
exceedingly dangerous to the child” (Impersonations, Cambridge, Cambridge
University Press, 1996, p. 17).
56
Coppélia Kahn, “The Providential Tempest and the Shakespearean Family”, in Murray M. Schwartz and C. Kahn (eds.), Representing Shakespeare.
New Psychoanalytic Essays, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1980, p. 218.
142
Capitolo II
in scena negli spazi protetti e sicuri di un’isola lontana dal regno di Milano, scenario in cui Prospero è costretto a definire il
suo ruolo e la sua identità in relazione col materno:
Miranda: Sir, are you not my father?
Prospero: Thy mother was a piece of virtue, and
She said thou wast my daughter; and thy father
Was Duke of Milan, and his only heir
And princess no worse issued57.
(I, ii, vv. 56-9)
L’assenza della madre permette a Prospero di porre un’ipoteca
sul capitale energetico della figlia; Miranda, scrive David Sundelson, “is the ideal listener; she has no critical faculty of her
own, and her responses are invariably just what her father
wants”58. In questo Miranda fa pensare a Graphina, innocua e
passiva figura femminile capace di esercitare una potente attrazione su Pheroras, quanto mai desideroso di placare i turbamenti psichici provocati dal contrastato rapporto con la sorella Salomè – il prototipo stesso della donna sessualmente vorace e assertiva – prendendo in sposa una donna che non chiede altro se
non di servirlo con devozione e costanza59.
Spesso tagliate fuori dalla sfera sociale, confinate ad amministrare il regno domestico, in The Tragedy of Mariam le figure
57
L’edizione di The Tempest qui seguita è quella della Oxford University
Press, a cura di Stephen Orgel, Oxford and New York, 1994. Stessa edizione
per The Winter’s Tale, sempre a cura di Stephen Orgel, Oxford and New
York, 1996.
58
David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”, in
M. Schwartz, C. Kahn, op. cit., p. 197.
59
In The Winter’s Tale il perturbante corpo materno di Hermione è inizialmente presente ma perde progressivamente la sua fluida vitalità fino a pietrificarsi in statua. Il modello è quello di una donna in cui, come nelle stilizzate dame provenzali o nelle sante anoressiche del Medioevo, lo spirito trionfa
attraverso l’annullamento del corpo fragile e instabile. Nella morte la donna
trascende l’aspetto terreno e, liberata da ogni impura brama e palpitazione,
conquista finalmente una purezza ideale: “If one by one you wedded all the
world, / Or from the all that are took something good / To make a perfect
woman, she you killed / Would be unparalleled (V, i, 14-7)”.
Elizabeth Cary
143
materne riconquistano il palcoscenico e ricorrono alla forza
simbolica dell’autorità paterna per guidare i figli e salvaguardare i loro interessi. La differenza tra le coppie Doris/Antipater e
Alexandra/Mariam non è rinvenibile nel comportamento delle
madri, determinate ad investire tutte le loro risorse psichiche per
sostenere i diritti e le rivendicazioni dei figli, ma nella disponibilità di Antipater e Mariam ad ascoltare e condividere angosce
e tormenti interiori. Se per il maschio l’abbandono del corpo infantile passa attraverso il rifiuto della madre e il desiderio di acquisire autonomia nei confronti della famiglia, per la femmina il
processo è inverso. La figlia, osserva Nancy Chodorow, non
avverte il bisogno di differenziarsi dalla madre per sviluppare la
sua identità:
The development of a girl’s gender identity contrasts with that of a
boy. Most important, femininity and female role activities are immediately apprehensible in the world of her daily life. Her final role identification is with her mother and women, that is, with the person or
people with whom she also has her earliest relationship of infantile
dependence. The development of her gender identity does not involve
a rejection of this early identification, however60.
La giovane donna è culturalmente indotta a identificarsi con la
madre mentre il figlio maschio si identifica solo con il ruolo del
padre e definisce la sua personalità attraverso la competizione
con i coetanei del suo stesso ceto sociale. Sul diagramma cartesiano delle relazioni interpersonali il maschio si colloca
sull’asse orizzontale del confronto “culturale” con i suoi pari
mentre la femmina è integrata verticalmente nelle gerarchie del
mondo adulto. Dopo aver osservato che la personalità femminile non si forma attraverso la differenziazione dall’altro da sé ma
attraverso il confronto con le altre figure familiari – madri, zie e
nonne costantemente impegnate a forgiare l’identità relazionale
della giovane donna (che deve essere sempre figlia, moglie o
60
Nancy Chodorow, “Family Structure and Feminine Personality”, in M.
Z. Rosaldo and L. Lamphere, op. cit., p. 51.
144
Capitolo II
madre di qualcuno) – Nancy Chodorow sviluppa così la sua argomentazione:
As if the woman does not differentiate herself clearly from the rest of
the world, she feels a sense of guilt and responsibility for situations
that did not come about through her actions and without relation to her
actual ability to determine the course of events. This happens, in the
most familiar instance, in a sense of diffuse responsibility for everything connected to the welfare of her family and the happiness and
success of her children61.
Nelle parole pronunciate da Doris nella scena terza del secondo
atto non c’è solo il desiderio di vendetta nei confronti di chi ha
preso il suo posto nella famiglia reale. Presto il pensiero va alle
sorti del primogenito, la cui ascesa al trono è ostacolata dalla
progenie di Mariam:
With thee, sweet boy, I came, and came to try
If thou before his bastards might be truly plac’d
In Herod’s royal seat and dignity.
But Mariam’s infants are only grac’d,
And now for us there doth no hope remain:
Yet we will not return till Herod’s end
Be more confirm’d. Perchance he is not slain;
So glorious fortunes may my boy attend.
For if he live, he’ll think it doth suffice,
That he to Doris shows no cruelty:
For as he did my wretched life despise,
So do I know I shall despised die.
Let him but prove as natural to thee,
As cruel to thy miserable mother:
His cruelty shall not upbraided be
But in thy fortunes. I his faults will smother.
(II, iii, vv. 255-70)
Doris è angosciata dall’idea che la sua inadeguatezza a recitare
il ruolo di regina di Giudea (“Was I not fair enough to be a
queen?”; v. 235) abbia nuociuto agli interessi di Antipater. Mariam è l’ultima discendente di una stirpe di re, una principessa
61
Ibid., p. 59.
Elizabeth Cary
145
asmonea a cui Erode si è legato per legittimare e rafforzare la
sua sovranità. Dal punto di vista dinastico Doris è “impura” ma
può sempre sperare che la caduta in disgrazia della rivale dia
legittimità alle rivendicazioni del figlio. Pur di vedere realizzate
le sue aspirazioni materne Doris sarebbe disposta perfino a dimenticare i torti subiti come moglie. Solo un futuro glorioso per
il figlio potrebbe lenire i tormenti del suo io ustionato dal continuo riaffiorare dell’incandescente magma dei passati insuccessi.
All’atteggiamento prudente e attendista di Doris, che si limita a sperare in un improbabile ritorno di Erode, Antipater oppone il suo risoluto pragmatismo. La convinzione che il re sia effettivamente morto lo induce a escogitare un complotto per eliminare i figli di Mariam:
Each mouth within the city loudly cries
That Herod’s death is certain: therefore we
Had best some subtle hidden plot devise,
That Mariam’s children might subverted be,
By poison drink, or else by murderous knife [...]
(II, iii, vv. 271-75)
I tormenti materni sono scivolati sulla mente di Antipater senza
lasciare tracce, il figlio non è disposto ad intrecciare una pericolosa e destabilizzante relazione con la madre e si rifugia in una
competitività orizzontale con i suoi avversari “politici”, nei confronti dei quali scarica tutta la sua aggressività. L’accento cade
sul fare, sul desiderio di violare l’ordine simbolico per farsi re.
A differenza di Lady Macbeth, che assume una funzione direttiva affinché l’atto sacrilego sia compiuto, Doris ferma la mano
assassina del figlio:
They are too strong to be by us remov’d,
Or else revenge’s foulest spotted face
By our detested wrongs might be approved,
But weakness must to greater power give place.
But let us now retire to grieve alone,
For solitariness best fitteth moan.
(II, iii, vv. 279-84)
146
Capitolo II
Doris sa quando è il momento di fermarsi. Sa che ci sono delle
regole che non possono essere sovvertite, conduce la sua battaglia entro i confini della legalità senza mai pensare di varcarli.
All’azione preferisce l’attesa, la solitudine e il pianto rituale. In
questo il suo atteggiamento ricorda quello di Mariam e della
stessa Elizabeth Cary, il cui obiettivo era quello di ridefinire
(non ribaltare) il ruolo della donna all’interno di un sistema sociale troppo rigido per accogliere le prime rivendicazioni femminili.
2.6 Il ritorno del padre e il martirio di Mariam. Nel secondo atto Elizabeth Cary suggerisce come l’assenza del repadre abbia fermato la fuga in avanti del tempo consentendo la
riemersione del cronotopo infantile, spazio utopico al quale aspira un’esistenza votata alla solidarietà e alla condivisione di
beni e risorse. Così Constabarus rivolto al primo figlio di Baba:
Oh, how you wrong our friendship, valiant youth!
With friend there is not such a word a “debt”:
Where amity is tied with bond of truth,
All benefits are there in common set.
Then is the golden age with them renew’d,
All names of properties are banish’d quite:
Division, and distinction, are eschew’d:
Each hath to what belongs to others right [...]
(II, ii, vv. 99-106)
Più innanzi, la complicità maschile si specchia nella contestazione dell’altro sessuale che si fa portavoce delle istanze
dell’età adulta, l’ingresso nella quale comporta l’instaurazione
di rapporti diversi da quelli infantili:
You creatures made to be the human curse,
You tigers, lionesses, hungry bears,
Tear-massacring hyenas: nay, far worse,
For they for prey do shed their feigned tears.
[...]
You stay’d in office of a second flood.
You giddy creatures, sowers of debate,
Elizabeth Cary
147
You’ll love today, and for no other cause
But for you yesterday did deeply hate;
You are the wreck of order, breach of laws.
[your] best are foolish, froward, wanton, vain,
Your worst adulterous, murderous, cunning, proud [...]
(IV, vi, vv. 315-34)
L’invettiva di Constabarus non è diretta alla donna in quanto
tale, ma alla moglie pestifera e incostante, in opposizione alla
quale l’uomo forgia la sua identità razionale.
I complotti di Salomè accelerano il processo di integrazione
del soggetto in un modello razionalistico di mondo basato sui
concetti di sovranità e sudditanza. Ad ogni livello della gerarchia corrisponde un grado diverso di potere e un fascio specifico di diritti e doveri. Le azioni compiute da un vassallo del re si
caricano di un valore simbolico che in nessun caso può essere
azzerato. Constabarus ha violato due volte il patto di lealtà stipulato con il sovrano legittimo di Giudea: alla sua trasgressiva
alleanza con i figli di Baba, sui quali pende una condanna a
morte, si aggiunge l’aggravante di essersi alienato la stima e il
rispetto di sua moglie Salomè, sorella di Erode. L’invettiva di
Constabarus contro le donne rivela un atteggiamento ostile nei
confronti dei legami eterosessuali, fortemente istituzionalizzati,
gerarchici e di norma chiusi ad ogni investimento emotivo. A
livello domestico-famigliare una istintiva adesione a idee e valori egualitari inibisce l’esercizio della potestà istituzionalmente
spettantegli. Constabarus non è abbastanza forte da piegare la
moglie all’ubbidienza e al rispetto della legge patriarcale ma
appare quanto mai risoluto quando si tratta di venir meno agli
obblighi della subordinazione nel nome di una utopistica sussidiarietà orizzontale. Sfidato a duello da Silleus, che intende difendere l’onore di Salomè, rifiuta di battersi “for a cause so
low” e chiede al rivale di motivare in maniera più convincente
l’urgenza di un confronto fisico tra pari: “What needest thou for
Salome to fight? / Thou hast her, and may’st keep her, none
strives for her: / I willingly to thee resign my right, / For in my
very soul I do abhor her”. (II, iv, vv. 359-62). Con tono quasi
implorante Constabarus invoca un ripensamento da parte di Sil-
148
Capitolo II
leus ma questi si rivela sordo ad ogni richiesta di riconciliazione. Se le parole spuntate di Constabarus vanno a vuoto, la sua
spada affilata colpisce più volte il bersaglio. Il dolore fisico e la
sofferenza piegano la resistenza di Silleus che, ferito e sanguinante, scorge il valore e le doti umane dell’“amico” Constabarus: “Thanks, noble Jew, I see a courteous foe, / Stern enmity to
friendship can no art: / Had not my heart and tongue engag’d
me so, / I would from thee no foe, but friend depart. [...] (II, iv,
vv. 389-92).
Se non fosse stato accecato dalle sue passioni irrazionali e
stordito dal suo temperamento “femminile”, Silleus avrebbe
stretto con il suo pseudo-rivale un legame di amicizia del tutto
antitetico agli onerosi rapporti gerarchici (sovrano/suddito, marito/moglie, padre/figli) in cui è imprigionato. A questa conclusione giunge Jonathan Goldberg che scrive: “Friendship would
seem to name the ideal form of a relationship of equality, one
explicitly resistant, as Constabarus further notes, both to the law
of the sovereign and of the father [...]”62.
Il sogno di arricchire l’egualitaria comunità maschile di
nuovi adepti deve fare i conti con le forze disgreganti prodotte
dall’Ordine simbolico per scomporre ogni struttura collettiva in
una molteplicità di elementi individuali. Il ritorno di Erode interrompe una serie di processi fantasmatizzanti che improvvisamente appaiono quanto mai svincolati dal reale. Non appena
gli ingranaggi del tempo si rimettono in funzione la sfida al potere sublima nell’ossequiosità mentre il riscatto dal disonore
passa attraverso una indiscriminata attribuzione di colpe. In
cambio dell’intercessione di Salomè presso Erode, Pheroras, reo
di aver sposato una donna di ceto sociale inferiore, denuncia
Constabarus di aver nascosto e protetto i figli di Baba, condannati a morte dal re anni addietro. La donna assertiva e ribelle
diventa il bisturi con cui recidere il cordone che lega il maschio
al corpo infantile; l’altro da sé sul quale ricondurre devianti pulsioni verso un’unione omosessuale. Il confronto con la sessualità femminile segna l’abbandono della “innocence”, la fine di un
62
J. Goldberg, op. cit., p. 176.
Elizabeth Cary
149
gemellaggio affettivo che afferisce al campo semantico della
naturalezza e va quindi razionalizzato e istituzionalizzato. Il potere della norma agisce mediante un’accurata classificazione dei
soggetti e una meticolosa distribuzione dei ranghi, operazioni
destinate a contrastare la deriva entropica dei rapporti sociali.
Ogni impulso naturale va estinto nel culturale, ogni legame di
tipo paritario-affettivo va ricondotto ad una ruolizzazione volta
a scindere la coppia nel binomio servo/padrone. L’insofferenza
per questa artificiosa modellizzazione dei rapporti interpersonali
costituisce il nucleo ipogrammatico dell’intera macrosequenza
dedicata all’amicizia tra Constabarus e i figli di Baba.
Sull’esempio di Constabarus, che ripudia il suo status di marito della sorella del re, Mariam si mostra restia a riprendere il
ruolo di moglie. Ai processi fantasmatizzanti di Erode, che vorrebbe fare di lei l’amante seducente e passiva della convenzione
petrarchesca, oppone un atteggiamento trasparente ma, nel contempo, sobrio e misurato:
Herod: And here she comes indeed: happily met,
My best and dearest half: what ails my dear?
Thou dost the difference certainly forget
‘Twixt dusky habits and a time so clear.
Mariam: My lord, I suit my garment to my mind,
And there no cheerful colours can I find.
(IV, iii, vv. 87-92)
Solo l’immorale Salomè osa inveire contro il marito. Doris si
limita a denunciare la discriminante iniquità della legge sul divorzio che permette al marito di ripudiare la moglie arbitrariamente; Mariam ascrive la sua ritrosia nei confronti del sovrano
al ricordo dei gravi lutti subiti: “No, had you wish’d the wretched Mariam glad, / Or had your love to her been truly tied: /
Nay, had you not desir’d to make her sad, / My brother nor my
grandsire had not died” (IV, iii, vv. 113-6)63.
63
Commentando queste battute, Gwynne Kennedy ha scritto: “Aristobolus’s murder appears to stand in for other injuries and emotions [...] which she
does not voice to Herod. In addition, his death provides a way for Mariam to
rebut Herod’s claim to love her and for her to assert that he does not. Mariam
150
Capitolo II
Mariam decostruisce le iperboliche dichiarazioni d’amore
del marito sfruttando le strategie dell’understatement, ben consapevole di non poter dar sfogo ad un risentimento che raggiunge le vette del parossismo nel momento in cui sono smascherati,
grazie alla complicità di Constabarus, i piani criminali di Erode,
tanto folle da chiedere che la moglie fosse uccisa nel caso in cui
Ottaviano lo avesse condannato a morte: “I cannot frame disguise, nor never taught / My face a look dissenting from my
thought” (IV, iii, 145-6). Erode vorrebbe vedere la propria soddisfazione riflessa sul volto di Mariam e ascoltare il proprio entusiasmo risuonare in dolci parole di benvenuto ma i suoi accorati appelli si perdono nel contegno fiero e distaccato della moglie, nei suoi occhi spenti, nelle sue labbra contratte, nel suo rifiuto di indossare la maschera della donna gentile e ossequiosa
cantata nei canzonieri poetici64. Dopo una lunga assenza dal regno di Giudea, egli avverte l’urgenza di rinsaldare il suo ruolo
di re e di marito ma per far questo ha bisogno di restaurare
un’identità che la lontananza e la permanenza in terra straniera
hanno reso instabile e “fatiscente”. Secondo i manuali e i trattati
del tempo Mariam avrebbe dovuto adeguare la sua condotta alle
esigenze del marito, rispondendo alle sue incalzanti sollecitazioni e nutrendo il suo narcisismo con dimostrazioni di affettuoso rispetto in modo da ricondurre le spinte disgreganti innescate
dalle trasgressioni di Pheroras, Salomè e Constabarus nei circuiti inerziali dell’omeostasi familiare e politica. Tuttavia, in assenza del re, Mariam è riuscita ad affrancarsi dal rigido sistema
di controllo che per anni ha tenuto in scacco il tentativo di comporre i tasselli del suo io in una cornice altra rispetto a quella
forgiata dall’ideologia patriarcale. Dalle crepe del simbolico è
is rightly being cautious here, for a frank explanation of her anger and hostility to a tyrant like Herod would be risky. The play suggests that direct expressions of anger and hatred by a wife, even one with defensible reasons, simply
cannot be voiced safely in Mariam’s world [...]”. G. Kennedy, Just Anger:
Representing Women’s Anger in Early Modern England, Carbondale and Edwardsville, Southern Illinois University Press, 2000, p. 66.
64
Cfr. Danielle Clarke, The Politics of Early Modern Women’s Writing,
Harlow, Longman, 2001, pp. 101-3.
Elizabeth Cary
151
riemerso un fluido emotivo che ha fertilizzato la mente inaridita
dell’eroina, portando a maturazione sentimenti e passioni rimasti in incubazione per molto, troppo tempo. Razionalizzare questo nuovo e perturbante paesaggio psichico non è impresa da
poco, bisognerebbe estirpare una ad una le profonde radici di un
rancore intrecciato ad un desiderio di assertività a lungo represso. È un’operazione che richiede tempo e pazienza, mentre il re
è come stordito dall’urgenza di ricostruire la sua autorità e imporre la sua parola monologica sulla progettualità sovversiva
dei suoi pseudo-avversari politici.
Sin dalle prime battute scambiate con Erode i feedback negativi di Mariam tendono a coagularsi intorno al principio della
differenza, un tarlo che corrode i cardini emotivi di un uomo
improvvisamente privato della rigida griglia su cui era solito disporre e organizzare i suoi impulsi contrastanti. In seguito alla
scoperta dell’irriducibile diversità dell’altro, l’io amputato del
sovrano comincia a barcollare. I suoi pensieri e le sue decisioni
si disperdono in un groviglio intricato di atti illocutori attraversati da una forte tensione ossimorica:
Soldier: You bade
We should conduct her to her death, my lord.
Herod: Why, sure I did not, Herod was not mad.
Why should she feel the fury of the sword?
Oh, now the grief returns into my heart
And pulls me piecemeal: love and hate do fight:
And now hath love acquir’d the greater part,
Yet now hath hate affection conquer’d quite.
And therefore bear her hence: and, Hebrew, why
Seize you with lion’s paws the fairest lamb
Of all the flock? She must not, shall not, die.
Without her I most miserable am,
And with her more than most. Away, away,
But bear her but to prison, not to death:
And is she gone indeed? Stay, villains, stay,
Her looks alone preserv’d your sovereign’s breath.
Well, let her go, but yet she shall not die;
I cannot think she meant to poison me:
But certain ‘tis she liv’d too wantonly,
And therefore shall she never more be free.
(IV, iv, vv. 240-58)
152
Capitolo II
Come osserva Boyd Berry, “the patriarch is lunatic”65. A partire
dalla scarna rivelazione del maggiordomo, secondo cui Sohemus avrebbe gettato discredito sulla figura del re (“Sohemus
told the tale that did displease”; IV, iv, v. 170), Erode ricostruisce le trame improbabili di una relazione adulterina tra il suo
uomo di fiducia e Mariam. L’assenza di un malcontent misogino votato ad infestare la mente del sovrano di dubbi e incertezze
relative alla fedeltà e all’affidabilità della regina è altamente significativa66. Né si può attribuire questo ruolo a Salomè, che
non sente il bisogno di alimentare gli incubi del fratello con altre immagini perturbanti, limitandosi a proporre supplizi più o
meno spettacolari per la sua rivale di sempre:
Herod: Nay, she shall die. Die, quoth you? That she shall:
But for the means. The means! Methinks ‘tis hard
To find a means to murder her withal,
Therefore I am resolv’d she shall be spar’d.
Salome: Why, let her be beheaded.
Herod: That were well
Think you that swords are miracles like you?
Her skin will ev’ry curtl’ax edge refell,
And then your enterprise you well may rue [...]
Salome: Why, drown her then.
Herod: Indeed, a sweet device.
Why, would not ev’ry river turn her course
Rather than do her beauty prejudice,
And be reverted to the proper source? [...]
Salome: Then let the fire devour her.
Herod: ‘Twill not be:
Flame is from her deriv’d into my heart:
Thou nursest flame, flame will not murder thee,
My fairest Mariam, fullest of desert.
(IV, vii, vv. 357-80)
65
Boyd M. Berry, “Feminine Construction of Patriarchy, Or What’s
Comic in The Tragedy of Mariam”, Medieval and Renaissance Drama in England, 7 (1995), p. 262.
66
Sulla figura del malcontent si veda C. Mucci, Liminal Personae, cit., in
particolare le pp. 143-52.
Elizabeth Cary
153
Al primo, embrionale, riconoscimento della straordinarietà fisica e spirituale di Mariam si contrappone il racial slander di Salomè:
Your thoughts do rave with doting on the queen.
Her eyes are ebon-hued, and you’ll confess:
A sable star hath been but seldom seen.
Then speak of reason more, of Mariam less.
(IV, vii, vv. 453-6)
La risposta di Erode è orientata ad esaltare la purezza razziale di
Mariam, tanto più evidente se rapportata ai lineamenti marcati e
alla carnagione scura di Salomè, che assume un aspetto perfino
scimmiesco ogni qual volta si accosta alla figura esile e pallida
della regina. Insomma: Salomè è lo sfondo nero su cui si staglia
la luminosa icona di un’eroina dotata di straordinari poteri spirituali:
Yourself are held a goodly creature here,
Yet so unlike my Mariam in your shape
That when to her you have approached near,
Myself hath often ta’en you for an ape.
And yet you prate of beauty: go your ways,
You are to her a sun-burnt blackamoor:
Your paintings cannot equal Mariam’s praise,
Her nature is so rich, you are so poor.
Let her be stay’d from death, for if she die,
We do we know not what to stop her breath:
A world cannot another Mariam buy;
Why stay you ling’ring? Countermand her death.
(IV, vii, vv. 457-68)
Erode è il primo patrocinatore della santità di Mariam, il primo
a fare del suo corpo vivo un oggetto di venerazione. La sua parola autorevole fornisce nuovi argomenti in favore della “canonizzazione” di una donna capace di dominare le proprie passioni e preferire il martirio al tradimento dei propri valori spirituali.
Tutto il quinto atto è dedicato al racconto della “passione” di
Mariam. Elizabeth Cary arricchisce il testo fonte con una serie
154
Capitolo II
di dettagli volti ad esaltare l’eroismo cristologico dell’eroina. Il
maggiordomo che aveva accusato la regina di aver tentato di
avvelenare Erode non regge al peso dei rimorsi e si impicca ad
un albero, proprio come Giuda. Diversamente da Josephus,
Cary pone molta enfasi sulla scelta del supplizio inflitto a Mariam: la decapitazione. Secondo Margaret Ferguson questa scelta è riconducibile al desiderio di rileggere il destino di Mariam
alla luce dei martiri di Mary Stuart, la vittima più illustre della
tirannia protestante, e Giovanni Battista, fatto decapitare da Erode Antipa per compiacere Salomè, figlia di Erodiade: “Infused with rich but obscurely coded theological and political
meanings, Cary’s play surrounds Mariam’s death with an aura
of sanctification altogether absent from Josephus’s narrative”67.
Valerie Lucas individua ulteriori significati simbolici nella morte per decapitazione:
Although the text never makes this explicit, Herod’s choice of punishment is one particularly befitting a woman who defies patriarchal
order. In Puritan preaching, in conduct books such as Dod and
Cleaver’s, and in Richard Mulcaster’s, Jean Bodin’s, and Robert Filmer’s discussions of the subject’s relation to his superior, the metaphor of the head ruling the body is used to express the proper relationship of sovereign to subject and of husband to wife. Those who will
not be ruled by their rightful head shall lose their own rebellious
one68.
Nel caso specifico di Mariam queste osservazioni non sembrano
del tutto convincenti. Quest’ultima, al contrario di Salomè, non
si ribella apertamente al sovrano, abbandona il suo letto ma non
mette in discussione la sua autorità e, soprattutto, non pensa mai
al divorzio. Piuttosto che “incatenare Erode con un sorriso”
(“enchain him with a smile”, III, iii, v. 163) o “imprigionarlo
con una parola gentile” (“lead him captive with a gentle word”,
67
Margaret W. Ferguson, “The Spectre of Resistance: The Tragedy of
Mariam (1613)”, in David Scott Kastan, Peter Stallybrass (eds.), Staging the
Renaissance: Reinterpretations of Elizabethan and Jacobean Drama, New
York, Routledge, 1991, p. 245.
68
V. Lucas, op. cit., p. 74.
Elizabeth Cary
155
III, iii, v. 164), Mariam smette i panni della dissimulatrice per
aprirsi all’uomo che lei stessa ha accompagnato sul trono di
Giudea, dopo aver “innestato” il suo ignobile lignaggio
nell’albero genealogico della prestigiosa dinastia asmonea così
da legittimare e rafforzare il suo diritto ad esercitare la sovranità
sul popolo ebraico. In qualità di moglie silenziosa e devota, Mariam ha cercato di seppellire i reati del marito negli strati più
profondi della memoria ma la notizia della sua morte ha liberato
un flusso di ricordi difficile da arginare. Dopo tanti anni trascorsi nell’angosciante consapevolezza di dovere sempre e in
ogni caso accettare e rispettare le scelte del sovrano, Mariam
avverte tutto il peso del voluminoso fardello dei torti subiti da
Erode – carnefice di Aristobolus e Hircanus – un idumeo torturato dall’idea di aver usurpato il trono e di essere indegno di
guidare il popolo eletto.
Inquadrato sullo sfondo scuro dei trattati sulla condotta
femminile, l’atteggiamento di Mariam appare trasgressivo in
quanto caratterizzato da una schiettezza del tutto inappropriata
per una donna. Tuttavia, se è vero che questo eccesso di parola
le viene contestato a più riprese e che, come sostiene Sohemus,
“unbridled speech is Mariam’s worst disgrace” (III, iii, v. 183),
è altrettanto vero che nel quarto atto Mariam si pente di essere
stata tanto orgogliosa da ricorrere all’arte oratoria per sostenere
le sue rivendicazioni: “Had I but with humility been grac’d, / As
well as fair I might have prov’d me wise: / But I did think because I knew me chaste, / One virtue for a woman might suffice” (IV, viii, v. 559-62). Va sottolineato, inoltre, che nel quinto atto il suo “eloquio sbrigliato” si spegne in un silenzio impenetrabile. Mariam incassa i rimproveri di Alexandra senza
nemmeno tentare di difendersi; sua madre la accusa di aver osato contrariare il sovrano legittimo di Giudea e di non aver osservato il motto “be and seem”, che la stessa Elizabeth Cary aveva fatto incidere sull’anello nuziale della figlia. Ma a ben vedere è proprio questa insofferenza nei confronti della natura finzionale di ogni relazione umana a fare di lei una figura quasi
sovrannaturale nella sua determinazione a coltivare virtù che i
manuali e i trattati del tempo trascuravano puntualmente,
156
Capitolo II
l’onestà e la coerenza. Soltanto con la morte Mariam si affranca
dal severo codice di condotta che ha sempre dovuto rispettare.
Le ultime parole proferite prima di spirare sono indirizzate proprio a Erode:
Nuntio: “Tell thou my lord thou saw’st me loose my
breath”
Herod: Oh, that I could that sentence now control.
Nuntio: “If guiltily, eternal be my death”
Herod: I hold her chaste ev’n in my inmost soul.
Nuntio: “By three days hence, if wishes could revive,
I know himself would make me oft alive”.
(V, i, vv. 73-8).
Soffermandosi sulla prima asserzione della regina, Maureen
Quilligan attribuisce al lessema “loose” un doppio significato.
Da un lato, Mariam vuole che il re si confronti con le sue colpe
ma, dall’altro, lo spelling del verbo “to lose”, che diventa “loose”, rimanda all’aggettivo inglese per “lento”, “lasco”, “allentato” e denota la maturata consapevolezza, da parte della protagonista, di essersi finalmente liberata dai vincoli imposti
dall’Ordine simbolico69. La chiusura del sipario segna la fine
della recita e l’inizio di un’esperienza ultraterrena più autentica
e profonda; con il martirio si compie un cammino di perfezione
verso Dio di cui Erode scorge soltanto ora le tappe fondamentali: “Her excellencies wrought her timeless fall” (V, i, v. 229).
La morte per fede si salda con la certezza della resurrezione:
“By three days hence, if wishes could revive, / I know himself
would make me oft alive” (V, i, vv. 77-8). Nel giro di tre giorni
lo spirito di Mariam risorgerà nel cuore del marito; la scelta del
martirio è infine confluita nell’assunzione del modello cristologico, mentre la scelta di opporre una resistenza passiva e non
(verbalmente) violenta all’autorità patriarcale ha finalmente acquisito sostegno scritturale e valenze archetipiche. L’esecuzione
69
Maureen Quilligan, “Staging Gender: William Shakespeare and Elizabeth Cary”, in James Grantham Turner (ed.), Sexuality and Gender in Early
Modern Europe: Institutions, Texts, Images, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 227.
Elizabeth Cary
157
pubblica fa del suppliziato un oggetto di pietà e di ammirazione,
il corpo straziato del condannato, marchiato dai segni
dell’oppressione politica70 e religiosa, disegna la figura simmetrica e inversa del tiranno. Dal momento in cui ordina la separazione del “corpo” sociale dalla testa che lo governa – “Her body
is divided from her head” (V, i, v. 90) – Erode perde il controllo
politico del regno e vede i lumi della ragione spegnersi in una
notte senza fine: “I’ll muffle up myself in endless night, / And
never let mine eyes behold the light” (V, i, vv. 247-8).
Il supplizio di Mariam e le allusioni alla decapitazione di
Giovanni Battista e alla “strage degli innocenti” lasciano una
scia di sangue che ingrossandosi trasforma il regno di Giudea
nel palcoscenico della violenza sacrilega. Nella sua volontà di
potenza Erode assume i tratti del Dio-padre biblico del Vecchio
Testamento, severo e implacabile con chi osa trasgredire alle
sue leggi. Alla figura “disumana” del tiranno altezzoso e distante, Elizabeth Cary oppone una donna che vuol farsi mediatrice
tra il sovrano e il suddito, così da avvicinare l’infinitamente
grande all’infinitamente piccolo. Dal modello cristologico i
Santi e i martiri del cristianesimo ereditano la vocazione a interpellare ogni uomo perché accolga e partecipi al Regno di Dio
ripercorrendo in direzione opposta il tragitto intrapreso dal
Messia per farsi uomo. Fatte queste premesse, non è azzardato
esplicitare il non detto politico e culturale nascosto tra le latenze
testuali di The Tragedy of Mariam: al suddito (=figlio; =moglie)
che aspira a partecipare alla vita politica e culturale del regno, il
sovrano (=padre; =marito), sull’esempio del Dio del Vangelo,
dovrebbe sempre tendere una mano, così da stabilire un contatto
tra cielo e terra, tra chi detiene il potere e chi, di norma, lo subisce. Grazie ad un’operazione ideologica condotta con sapiente
70
Nell’introduzione all’edizione Penguin di The Tragedy of Mariam,
Diane Purkiss scrive: “Mariam’s death is a signifier of tyranny and also a sign
that a more just state may ensue. The marks of state power on the body of the
martyred were not affirmations of that power, but signifiers of tyranny, an
idea deployed by John Foxe on behalf of the Marian martyrs and also by
Catholic martyrology” (Three Tragedies by Renaissance Women, Harmondsworth, Penguin, 1998, pp. xxxv-xxxvi).
158
Capitolo II
equilibrio, il sogno di partecipare attivamente alla vita pubblica
e il desiderio di condividere responsabilità e prerogative maschili si caricano di valenze religiose che danno peso, vigore e
profondità storica alle prime, timide rivendicazioni protofemministe espresse da Elizabeth Cary.
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Abbamonte, Lucia, 12n
Abbot, George, Arcivescovo di
Canterbury, 113
Abrams, M. H., 69n
Acheson, Kathy, 118
Agnese, Sant’, 110, 111
Agostino d’Ippona, 19
Amussen, Susan D., 21 e n, 22n,
135n
Anna di Danimarca, 25, 42, 44,
94, 97
Aristotele, 18
Ascham, Roger, 13
Askew, Anne, 28 e n
Axton, Mary, 15n
Bachelard, Gaston, 61 e n
Bacon, Ann, 25
Bald, R. C., 91n
Baldini, Daniele, 119n
Baxter, Nathaniel, 48
Becon, Thomas, 16, 23
Beilin, Elaine, 12, 13n, 26n, 50n,
80n
Bembo, Pietro, 53
Bodin, Jean, 122
Boose, Lynda E., 18n, 40n, 98n,
131
Bornstein, Diane, 27n
Boyd, Berry M., 152 e n
Brennan, Michael G., 27n, 28n
Bruni, Leonardo, 14 e n
Bruto, Giovanni, 14
Bunyan, John, 81
Burton, Robert, 9n
Cairns, Christopher, 115n
Calbi, Maurizio, 98n
Callaghan, Dympna, 138n
Calvino, Giovanni, 106 e n
Campion, Thomas, 40
Carey, John, 93n
Carlo Stuart, Principe
d’Inghilterra, 86
Cary, Catherine, Lady Home, 109
Cary, Elizabeth, The Tragedy of
Mariam, 115-58
Cary, Elizabeth Bland, 115
Cary, sir Henry, visconte di Falkland, 30, 106, 107, 108, 112, 114,
124
Cary, Lady Katherine, 107
Cary, Lucius, 25, 107n, 108, 114
Cary, Patrick, 103
Castiglione, Baldassarre, 14 e n
Caterina d’Aragona, regina d’Inghilterra, 14
Chapman, George, 47
Chialant, Maria Teresa, 98n
Chodorow, Nancy, 143 e n, 144
Cicerone, 13
Giraldi, Giambattista, detto Cinzio,
117
Clancy, T. H., 87n
Clark, Stuart, 137n
Clarke, Danielle, 27n, 150n
Clever, Robert, 135
Clifford, Anne, 24 e n, 25, 42, 71,
107
Colville, Elizabeth, 17, 28
Contini, Gianfranco, 54n
Corti, Claudia, 119
Pearse, Nancy Cotton, 113n, 115 e n
Coway, Edward, 42
Coverdale, Miles, 16
182
Indice dei nomi
Cressy, David, 13n, 17 e n
Croft, P. J., 37n
Daniel, Samuel, 27, 28, 40, 71, 116
Dante Alighieri, 48, 53, 56n, 57, 62
Davies, John, di Hereford, 115
Davies, sir John, 28, 32, 34
Davies, Marion W., 36n
Davy, Jacques (Cardinal du Perron), 29, 113
de Caesari, Cesare, 117
De Maio, Roberto, 19n
Denny, Edward, barone di
Waltham, 45, 46, 47
Denny, Honora, 45
Desaive, Jean-Paul, 94n
Dewald, Jonathan, 122 e n
Dionigi, re di Portogallo, 111
Dod, John, 135
Donne, John, 44, 89, 90 e n, 92, 93
Dragstra, Henk, 36n
Drayton, Michael, 27, 71
Drummond, William, di Hawthornden, 24
Dubrow, Heather, 49n, 64 e n, 74n
Duby, Georges, 13n, 17n, 39n, 94n
Dudley, Jane, 17, 28
Dulong, Claude, 17n
Elam, Keir, 119
Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 10 e
n, 12n, 14, 15, 16, 25, 29, 34, 36n,
48, 50, 52, 73, 87, 88, 93, 95n
Elisabetta di Portogallo, Santa,
110, 111
Elisabetta Stuart, Elettrice Palatina,
48
Enrichetta Maria di Francia, 29,
86n, 113
Elyot, sir Thomas, 14
Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra,
14, 38n
Erasmo da Rotterdam, 123 e n
Ernst, Germana, 80n, 123n
Erode il Grande, 124 e n, 125 e n,
126
Erode Antipa, 125, 126, 154
Erode Filippo, 125
Euripide, 116
Farabaugh, Robin, 63n
Farge, Arlette, 13n
Farmer, D. H., 111n
Fawkes, Guy, 86
Ferguson, Margaret W., 21n, 30n,
103 e n, 104n, 105n, 109n, 113n,
116n, 122, 154 e n
Fienberg, Nona, 42n, 62n
Filmer, Robert, 21, 136 e n
Filone Alessandrino, 19
Fincham, K., 86n
Firpo, Luigi, 124n
Fischlin, Daniel, 15n
Fisken Wynne, Beth, 27n
Fletcher, Anthony, 18n
Forster, Leonard, 58n
Foucault, Michel, 20n
Francesco I di Francia, 106
Francesco di Sales, santo, 135
Gajano, Sofia B., 109n, 112n,
Galeno, 18
Garnier, Robert, 27, 115 e n, 116,
117, 119, 120, 121
Genette, Gérard, 44 e n
Gentili, Vanna, 53n
Gesù Cristo, 30, 93, 110, 111,
126, 135
Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 10,
12n, 17, 18, 20n, 21, 29, 30, 38, 39, 40
e n, 46, 47, 48, 73, 79, 81, 85, 86 e n,
87, 88, 93, 94, 100, 101, 108, 136
Giovanni Battista, 125, 126, 154,
157
Giovanni di Salisbury, 123
Giovanni, evangelista, 126
Giuseppe Flavio, 124 e n, 125n, 126
Goad, Thomas, 30
Godayol, Pilar, 26 e n
Gohrbandt, Detlev, 58n
Goldberg, Jonathan, 21n, 140n,
148 e n
Gosset, Suzanne, 114 e n
Gouge, William, 22, 23, 135 e n
Indice dei nomi
Gowing, Laura, 96n, 132 e n
Greenblatt, Stephen, 57n, 75n,
82n, 122n
Greville, Fulke, 86, 116
Griffith, Matthew, 22
Grismond, John, 43, 50, 101
Grymeston, Elizabeth, 31
Grossman, Marshall, 25n
Guazzo, Stefano14 e n
Hall, Kim, 97 e n, 130
Hay, James, 45
Hayward, John, 90n
Hendricks, Margo, 40n, 97n, 139n
Hannay, Margaret P., 27n, 28n,
36n
Hanson, Elizabeth, 88 e n
Haskin, Dayton, 90n
Hawkins, John, 95n
Herbert, Mary Sidney, contessa di
Pembroke, 17, 25, 26, 27 e n, 28,
33, 36, 37, 38n, 46, 97, 107 e n,
115, 116, 117, 118n, 119 e n, 120,
121, 124
Herbert Vere, Susan, contessa di
Montgomery, 42, 44, 71
Herbert, William, conte di Pembroke, 31, 37, 39, 41, 42, 50, 52,
72, 90
Hill, Christopher, 11 e n
Holmes, Martin, 24n
Houlbrooke, Ralph, 22 e n
Howard, Henry, conte di Surrey,
52, 84
Howe, Florence, 103n.,
Hufton, Olwen, 18, 19n, 23n, 39n
Hunt, Marvin, 96n
Hutson, Lorna, 14n, 19, 96n
Hyrde, Richard, 14
Ingram, Martin, 21n, 137n
Innocenti, Loretta, 12n
Ippocrate, 18
Ives, E. W., 87n
Iwanisziw, Susan B., 134
Joceline, Elizabeth, 30
Jodelle, Étienne, 117
183
Jones, Ann Rosalind, 14n
Jones, Eldred D., 95n
Jones, Inigo, 39
Jonson, Ben, 24, 28, 32, 48, 74,
79, 94, 96, 99
Jordan, Constance, 15n, 16n
Kahn, Coppélia, 141n, 142n
Kantorowitz, Ernst, 15n
Kastan, David S., 154n
Katinis, Teodoro, 80n
Kennedy, Gwynne, 149n, 150n
Kenyon, J. P., 87n
Kermode, Jenny, 137n
King, Margaret L., 22n
King, Sigrid, 59n, 72n, 114n
Kinnamon, Noel J., 27n
Knox, John, 14, 15n
Krontiris, Tina, 25n, 34n
Lake, P., 86n
La Rocca, S. J., 86n
Lamb, Mary, 30n
Lamphere, L., 127n, 143n
Landi, Giulio, 116
Lanyer, Aemilia, 25, 29, 33, 97
Lausberg, Heinrich, 65n
Lazard, Madeleine, 115n
Lefèvre d’Étaples, Jacques, 28
Leigh, Dorothy, 31
Leonardi, C., 110n
Lewalsky, Barbara K, 26n
Lodge, T., 124n
Loomie, A. S., 86n
Lotman, Jurij M., 82 e n, 92n
Luca, evangelista, 110, 126
Lucas, Valerie, 115n, 154 e n
Lumley, Jane, 116
Lutero, Martin, 10n, 122, 135
Macarthur, Janet, 33n, 60n, 92n
Macfarlane, Alan, 21n
Maclean, Ian, 19n, 129n
Margherita d’Angoulême, regina
di Navarra, 28, 29
Maria, Infanta di Spagna, 86
Maria Maddalena, Santa 110, 111
184
Indice dei nomi
Maria Stuart, regina di Scozia,
154
Maria I Tudor, regina
d’Inghilterra, 10n
Marot, Clément, 28
Marotti, Arthur F., 91n
Marriot, John, 43, 50, 101
Marston, John, 99
Masten, Jeff, 50 e n, 88n, 101
Matteo, evangelista, 125, 126
Melchiori, Giorgio, 71n
Miller, Naomi, 24n, 27n, 42n, 71
e n, 84 e n, 132n
Milton, A., 86n
Milton, John, 134n
Mocket, Richard, 136
Montrose, Louis, 15, 56 e n
Moore, Mary, 56n, 65, 66n, 68 e
n, 72n
More, Ann, 90, 93
More, sir George, 91n
More, Thomas, 14, 22
Mornay, Philippe du Plessis de,
27 e n
Mortara Garavelli, Bice, 65n
Mucci, Clara, 15n, 18n, 78n, 98n,
134, 137n, 152n
Mulcaster, Richard, 13
Neely, Carol T., 141 e n
Nerone, imperatore, 49
Newman, Karen, 134
North, sir Thomas, 117
Norris Vere, Bridget, 42
Omero, 47
Orgel, Stephen, 12 e n, 17n, 25 e
n, 141n, 142n
Ortelius, Abraham, 106
Ortner, Sherry B., 127 e n, 140n
Ottway, Sheila, 36n
Pacheco, Anita, 50n
Paolo di Tarso, 19
Payne, Paula H., 72n, 78n
Palombi Castaldi, Anna Maria, 40n
Pamphilia, 49
Parker, Patricia, 40n, 97n, 139n
Parker, Tom, 45 e n
Parr, Katherine, 25, 26, 34
Partner, Peter, 106n
Paulissen, May Nelson, 58n, 68n
Peck, L., 86n
Percy, Dorothy, 42
Perrot, Michelle, 13n, 17n, 39n,
94n
Peterson, Douglas L., 91n
Petrarca, Francesco, 27, 48, 53,
54 e n, 55, 56n, 57, 61, 62
Petrs, R., 86n
Pico della Mirandola, Giovanni, 13
Pietro III di Aragona, 111
Pistorelli, Celso, 117
Plauto, 13
Plutarco, 13, 117
Purkiss, Diane, 157n
Questier, C., 86n
Quilligan, Maureen, 21n, 90n, 156 e n
Rabelais, François, 28
Ralegh, sir Walter, 28, 36, 86
Randall, Martin, 28n
Ricci, Carla, 110n
Ricciardi, A., 110n
Rich, Penelope Devereux, 32, 42
Rich, Isabella, 42, 71
Rich, Robert, 42
Ridley, M. R., 119n
Riffaterre, Michael, 70n
Roberts, Josephine, 33n, 36n,
39n, 43n, 46n, 47, 49
Rosaldo, M. Z., 127n, 143n
Sackville, Richard, 24
Sasso, Giampaolo, 59n
Schabio, Saskia, 58n
Schiffer, James, 96n
Schwartz, Murray M., 141n, 142n
Seneca, 13, 106
Serpieri, Alessandro, 60n, 71n,
119n, 138n
Shakespeare, William, 48, 57, 59,
60n, 62, 63 e n, 70n, 72, 93, 96,
117, 119 e n, 120n, 140
Shannon, Laurie J., 117, 118n
Indice dei nomi
Sharpe, James, 22 e n
Shyllon, Folarin, 95n
Sidney, Barbara Gamage, 36, 38n
Sidney, sir Philip, 27, 31, 32, 33, 36,
37, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53 e n,
54, 55, 57, 60, 63, 67, 68, 69, 71, 74,
75, 76, 78, 86, 107, 118, 124
Sidney, Robert, 36, 37, 38, 39, 42,
52, 107
Simpson, Richard, 103
Skura, Meredith, 25n, 104n, 112n
Smith, Rosalind, 47 e n, 82n, 85n
Sonnet, Martin, 13n
Speckman, Thomas, 39
Speght, Rachel, 25, 26n
Spenser, Edmund, 27, 28, 52, 68,
71, 74
Stallybrass, Peter, 21n, 154n
Stanco, Michele, 120n
Stevenson, John, 18n
Stone, Lawrence, 21n, 22
Sundelson, David, 142 e n
Sylvester, Joshua, 43
Symondes, Elizabeth, 104, 105, 106
Tanfield, Lawrence, 104, 105,
106, 107, 108
Teresa d’Avila, santa, 28
Tertulliano, 19
Tilney, Edmund, 22
Tommaso d’Aquino, 19
Travitsky, Betty, 17n
Turner, James G., 156n
Tyndale, William, 81, 122
Underdown, Davis, 18n
Verzella, Massimo, 30n
185
Vickers, Nancy J., 21n
Villeponteaux, Mary, 59n, 64n
Villiers, George, duca di Buckingham, 46, 47, 108
Vives, Juan Luis, 14, 23, 108, 136
von Lutz, Bruno, 58n
Walker, Garthine, 137n
Walker, Kim, 140n
Wall, Wendy, 31 e n
Waller, Gary, 27n, 36n, 42 e n, 52
Weber, Kurt, 107n
Webster, John, 78n, 99
Weller, Barry, 30n, 104n, 105n,
113n, 116n
Wilcox, Helen, 36n
Wither, George, 47
Wilson, Katharina M., 13 e n,
26n, 36
Woods, Susan, 25n
Wroth, James, 40
Wroth, John, 41
Wroth, Mary Sidney, Pamphilia to
Amphilanthus: P 68, 54; P 53, 57-8;
P 24, 59-60; P 1, 61-6; P 22, 66-72;
P 45, 76-8; P 46, 78-9; P 78, 79-82,
P 10, 82-4; P 26, 84-5; P 44, 87, 89;
P 17, 89; 92; P 48, 94; P 77, 97; P
25, 99-102; Urania, 43-8
Wroth, sir Robert, 33, 38, 39, 40, 41
Wyatt, sir Thomas, 52
Yates, Frances A., 48n
Zarri, G., 110n
Zemon Davies, Natalie, 13n, 137n
Studi di Anglistica
collana diretta da
Leo Marchetti e Francesco Marroni
1. Topografie per Joyce
a cura di Leo Marchetti
2. The Poetry of Matthew Arnold
Renzo D’Agnillo
3. La letteratura vittoriana e i mezzi di trasporto:
dalla nave all’astronave
a cura di Mariaconcetta Costantini, Renzo D’Agnillo, Francesco Marroni
4. Great Expectations: nel laboratorio di Charles Dickens
a cura di Francesco Marroni
5. John Ruskin: ricerca estetica e mito di Venezia
Michela Marroni
6. “Hid as worthless rite” Scrittura femminile nell’Inghilterra di re
Giacomo: Elizabeth Cary e Mary Wroth
Massimo Verzella
Finito di stampare nel mese di aprile del 2007
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
CARTE
Copertina: Digit Linen 270 g/mq
Interno: Usomano bianco Selena 80 g/mq
Allestimento: legatura a filo di refe / brossura
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