SAMIZDAT COLOGNOM foglio semiclandestino per l’esodo Immagine mancante Numero 4 settembre 2001 settembre 2002 Numero 4 I messaggi in bottiglia dei primi tre numeri di Samizdat Colognom non hanno trovato una risposta incoraggiante qui a Cologno Monzese, dove, abitando da lungo tempo, in passato ho pur potuto cooperare spesso con altri, ora in un gruppo politico ora in una rivista ora in un’associazione culturale. Qualche riscontro positivo è venuto invece da amici sparsi in altre città. Anche questo è un segno dei tempi mutati. Viene meno una possibilità di organizzazione intellettuale indipendente fisicamente legata ad un territorio e forse si va delineando una forma sostitutiva di comunicazione a distanza fra interlocutori più isolati di prima dal contesto territoriale. In questo N. 4, prendo atto che l’ideazione e la produzione della rivista (in effetti un foglio semiclandestino come da sottotitolo) sarà forse durevolmente opera di un singolo. Anche se preferirei farla assieme ad altri, non voglio rinunciare a scrivere sull’esperienza (o sul deperimento dell’esperienza) che si fa proprio qui, a Cologno Monzese. Ribadisco, perciò, la mia attenzione a questa periferia che non è mai stata veramente luogo ed è già forse non luogo, pur sapendo quanto sia più arduo, da solo o quasi, svolgervi quell’elementare e indispensabile lavoro d’inchiesta prospettato nel numero 1. Non contraddittoriamente credo con la prospettiva dell’esodare, che non può significare disinteressarsi al locale, anche quando si presentasse col volto immiserito delle beghe comunali, per agire, disincantati e indipendenti, in un globale più o meno eccitante. Perché senza troppo saperlo anche qui, a Cologno, si vive già quell’unica dimensione, cosiddetta glocale, che esaspera e compenetra contraddittori aspetti, miserie di periferia e scintillii tecnologici metropolitani. Qui, ad es. , ritrovo i monolocali costipati dove si assembrano i migranti d’oggi, gli studioli dei professionisti, i negozi chic dei commercianti, lo sperpero dei teatri di posa di Mediaset. Procedo, quindi, solo ad alcuni aggiustamenti. Rinuncio (provvisoriamente? definitivamente?) all’obbiettivo di fare una rivista assieme ad altri presenti come me su questo territorio e parlo sempre più al singolare di quel che riesco ad afferrare di Colognom. Penso perciò di rendere pubblico ad un circuito minimo di conoscenti uno zibaldone di scritture mie o da me curate su tre direttrici, quelle suggerite dal titolo che ho dato al foglio: Colognom, Samizdat e Esodo. Nella sezione Samizdat, ho selezionato documenti del confronto critico con gli altri (amici, conoscenti o avversari) dove mi sembrano manifestarsi piccoli segni di una possibile pratica esodante quotidiana. In quella Colognom, il materiale da me prodotto – in passato o negli ultimi mesi - che ha un riferimento esplicito a Cologno Monzese e al mio rapporto con la gente che qui vi ho conosciuto o conosco. E infine, in quella In esodo, spunti riferibili in una prospettiva più generale all’idea di esodo. Questo foglio semiclandestino sarà forse ancora meno regolare nelle sue uscite, ma l’impegno è a tener presente l’arco di tempo che passa fra un numero e l’altro. Per questo numero 4, risalgo al settembre 2001, anzi al luglio dei fatti di Genova, poco prima dell’11 settembre, della guerra in Afghanistan, della morsa israeliano-statunitense sui palestinesi, eccetera. Non desisto dall’inviare ad un certo numero di persone una copia (cartacea o per e-mail) di Samizdat Colognom, nella speranza di essere ancora affiancato da collaboratori, liberi di seguire il modello, trovarsi una casella o varie caselle dove inserirsi con le loro ricerche o rimettere motivatamente in discussione questo progetto. SAMIZDAT Carteggiando con un editore La moltiplicazione degli scriventi (e in particolare quelli di poesia) è un fenomeno abbastanza trascurato nelle sue implicazioni antropologiche, sociologiche, estetiche e politiche. La grande editoria ha da tempo serrato il portone. La piccola si barcamena ambiguamente. Pubblico questo carteggio “personale” non per dispetto o eccessivo narcisismo, ma perché illustra a pennello quello che si sa, ma non si dice (l’economia politica spicciola) nei rapporti fra aspiranti scrittori ed editori “progressisti”. L’esodo deve avvenire anche da questi stagni, dopo averci buttato dentro un ragionato sasso. 12 aprile 2002 1 Caro Ennio, sicuramente c'è stata una corrispondenza nascosta: sul n. di aprile di "l'immaginazione", in tipografia, c'è una pagina con tue poesie. Riguardo al libro, rimanda l'edizione cartacea definitiva e vedremo il possibile. Buon lavoro, Anna Grazia D'Oria 21 maggio 2002 Cara Anna Grazia, ho riflettuto una settimana sulla questione, da me lasciata in sospeso, sulle sorti della mia raccolta di poesie e ora ti comunico la mia rinuncia a pubblicarla alle condizioni che mi hai ribadito per telefono (le stesse di un anno fa). Proprio non me la sento di accettarle, pur riconoscendo che esse sono (anche a detta di amici che ho consultato) ormai consuete e "realistiche"per la piccola editoria. Ma il principio che un poeta, per far conoscere a una cerchia più ampia di lettori una sua raccolta giudicata degna di circolare, debba pagarsi la pubblicazione, non lo riesco proprio a digerire. Avevo affacciato anche una proposta "di compromesso", che mi pareva dignitosa sia per me che per voi: io riconoscevo le difficoltà economiche e politiche del piccolo editore mio alleato e mettevo mano al portafoglio, lui fugava ogni sospetto che mi prestasse semplicemente "l'etichetta" (quasi facessi parte di una sorta di "indotto" secondario della sua attività principale). Ma non l'avete voluta o potuta prendere in considerare. Peccato. Aspetterò che qualche editore (grande o piccolo) affronti con più coraggio e senza ambiguità il fenomeno della moltitudine poetante, a cui sento di appartenere. Oppure, semplicemente, mi accontenterò di farmi ospitare nel circuito delle riviste che - come la vostra segnalano quel che in questi tempi bui eppur si muove. Ti ringrazio, in proposito, per la pubblicazione dei testi che ti avevo mandato su L'IMMAGINAZIONE di aprile e spero di collaborare in altro modo e in altre occasioni. Senza rancore, specie nei tuoi confronti, porgo cordiali saluti. Ennio 3 giugno 2002 Gentile Ennio Abate, su richiesta di Anna Grazia sempre imbarazzata quando si tratta di denarorispondo io alle sue considerazioni: ad una in particolare. Non c’è nessuna ambiguità nel nostro comportamento: noi scegliamo i libri che ci piacerebbe pubblicare, e poi facciamo una valutazione di ordine commerciale, talvolta valutiamo che il libro si venderà abbastanza da coprire i costi; talvolta valutiamo che la vendita non sarà pienamente sufficiente, ma ci saranno recensioni, presentazioni e “ritorno in immagine”; talvolta valutiamo che un libro venderà pochissime copie. Questa ultima eventualità è -per la poesia- la norma con pochissime eccezioni. Noi pubblichiamo più o meno una trentina di libri di poesia all’anno: lei pensa che potremmo -non essendo principi rinascimentali né banchierispendere 150 milioni di vecchie lire all’anno in poesia? Lei pensa che ci sia qualcuno in Italia non dico che lo faccia (perché so che non c’è) ma che sarebbe disponibile a farlo? Noi mettiamo a disposizione dell’autore che ci interessa una struttura, un’organizzazione di distribuzione, canali di promozione e diffusione, un catalogo ecc.; spendiamo quella che lei chiama “l’etichetta” (e che è la risultante di due decenni di lavoro duro e rigoroso); se l’autore lo ritiene opportuno, ci mette dei soldi di tasca sua: altrimenti perché dovrei metterli di tasca mia? Se lei non riesce a digerire l’idea che un autore debba pagarsi la pubblicazione, perché dovrei digerire io l’idea di pagare la sua pubblicazione con il mio denaro, sapendo con certezza che questo non rientrerà? Cordialità, Piero Manni 6 giugno 2002 Caro Manni, non si allarmi: la mia poesia non vuole strapparle il suo denaro. Ho rinunciato, come scrivevo ad Anna Grazia, senza drammi e senza rancori alla prevista pubblicazione presso la sua casa editrice della mia raccolta. Perciò non mi aspettavo nessuna risposta e, di certo, non la sua, così risentita. Ma ci tengo a ragionare; quindi aggiro per quel che mi è possibile la sua ostilità, e le rispondo nel merito. L’ambiguità, a cui ho accennato (in verità molto velatamente) nella mia ultima lettera, trova numerose conferme proprio in quanto lei mi scrive. Ambiguo (anche se non in senso tutto negativo) trovo il suo atteggiamento verso la poesia: lei alla poesia dà l'impressione di non essere proprio interessato e di darne una valutazione soprattutto commerciale o d'immagine; e allora perché pubblica «più o meno una trentina di libri 2 di poesia all’anno»? (Logica di mercato vorrebbe che questo "ramo secco" venisse tagliato...). Altrettanto ambiguo (in senso un po’ più negativo) mi pare il fatto che lei continui a godere in pubblico della fama di editore “controcorrente” e “resistenziale” (che, appunto, malgrado la poesia non si venda, pubblica ben una trentina di titoli di poesia all’anno), mentre la sua è in effetti una resistenza a responsabilità limitata, visto che, come “ormai fan tutti”, chiede che l’autore (beninteso: esordiente e/o sconosciuto e quindi senza potere acquisito o forza contrattuale) paghi di tasca sua la pubblicazione. Se lei, come editore, può oggi mettere a disposizione, in modi più o meno efficaci, soltanto «una struttura, un’organizzazione di distribuzione, canali di promozione e diffusione, un catalogo ecc.» e, per forza di cose e indipendentemente dalla sua volontà, deve chiedere agli autori “un contributo” per pubblicarli, perché queste condizioni non vengono rese pubbliche? S’indigna perché io non digerisco l’idea che un autore debba pagarsi la pubblicazione. E perché mai? Esistono ancora editori (grandi e piccoli) che rispettano, pur con molte tortuosità e senza il «coraggio» che io auspicherei, il principio sacrosanto per cui, fra chi produce diciamo “l’opera d’ingegno” e chi, mettendo il denaro, la fa conoscere, deve esserci un’alleanza (relativamente) paritaria e non un rapporto strumentale. Pubblicano cinque titoli all’anno invece di trenta (e magari, di questi 5, tre già sicuri e consolidati), oppure cavano il denaro per la collana di poesia (e altri generi “in disuso”) da altre operazioni più commerciali. (Io stesso condirigo la rivista INOLTRE per la Jaca Book. La rivista è in perdita, come molte riviste e le collane di poesia, ma esce; e noi che vi scriviamo, non siamo certo retribuiti, ma non paghiamo per pubblicarvi i nostri articoli). Ora io non mi scandalizzo per questo suo trapasso da editore “classico” (che, per quanto io ne sappia, in passato non faceva pagare il poeta, che aveva liberamente deciso di accogliere nella sua collana di poesia) ad editore - diciamo - “a responsabilità limitata”. Può essere stato dettato da dure necessità. Ma perché deve restare in ombra? Se prima lei “digeriva” l’idea di pagare la pubblicazione di un poeta con il suo denaro, perché da un certo momento in poi non l’ha più “digerita”? E il trapasso di cui sopra (inevitabile?), quali riflessi sta avendo proprio sull’immagine discretamente “anticapitalista” di Manni editori (quella che mi aveva spinto a proporre la mia raccolta proprio a voi)? Secondo me risulta appannata: il “passaparola” , mica tanto sotterraneo, fra scrittori e scriventi più vigili alle dinamiche editoriali, sta trasmettendo all’incirca il seguente messaggio: “Sai, ormai anche Manni fa pagare per pubblicare e, per giunta, non distribuisce”. (Solo dettata da malignità quest’ultima diceria? Resta il fatto che, per quanto mi riguarda, nel contratto che mi avevate spedito a suo tempo, oltre all’acquisto delle 200 copie da parte mia, non era chiaro – né è stato mai chiaro in seguito - quante altre voi ne avreste stampate o mandate in giro…). E, sempre a proposito di ambiguità, quante ne alimenta la Manni editori presso quella che io chiamo moltitudine poetante (o scrivente)? Il discorso sarebbe lungo, ma mi limito a dire che incoraggiare o anche cedere alla pubblicazione a proprie spese (mascherate), muoversi alla spicciolata e individualisticamente e in assenza di una seria riflessione critica sulle implicazioni profonde (etiche, politiche ed economiche) che ha assunto la dimensione di massa dello scrivere poesie nel contesto della postmodernità, rischia di aggiungere alla macrocorporazione accademica e in rovina dei Poeti solo una gregaria microcorporazione di poetanti o scriventi di massa, ignara dei suoi compiti veri. Questi sono i ragionamenti sinceri e non personalistici che mi sento, malgrado tutto, di proporre alla sua riflessione. Un’ultima precisazione. Sapendo che i tempi sono bui per tutti, anche nelle precedenti lettere ad Anna Grazia, ho evitato toni irrealistici o rivendicativi nei vostri confronti ed ho insistito sulla mia proposta“di compromesso”, sollecitando la cosa a cui più tenevo: stabilire un rapporto chiaro e dignitoso di alleanza con la Manni editori. Non avete speso - né lei né Anna Grazia - una parola al riguardo. Lei,anzi, difende le sue ragioni senza neppure il saggio (per me) imbarazzo di Anna Grazia. Preferisce respingere ogni dubbio sul suo operato, marcare brutalmente le distanze e la gerarchia esistenti fra noi («la sua pubblicazione», «il mio denaro») e fa prevalere nei miei confronti solo l’aspetto commerciale. Non mi resta per adesso che salutarla con un po’ di rammarico. Ennio Abate 10 giugno 2002 Gentile Abate, ho affisso la sua lettera in una grande bacheca che ho nella mia stanza di lavoro, che 3 affettuosamente chiamo "la bacheca degli orrori", dove ho lettere con affrancature singolari, autografi di Volponi, Cacciatore, Merini, vecchi volantini comunisti, lettere dei miei alunni detenuti; l'ho affissa accanto alla riproduzione della lettera di Gobetti a Montale nella quale l'editore chiede un sostegno economico per la pubblicazione di "Ossi di seppia", e il poeta vi si impegna. Cordialmente, Piero Manni 10 giugno 2002 PASSO E CHIUDO affisso nella bacheca degli orrori assieme a merini, volponi e cacciatori sia pur accanto a montali e gobbetti? oh, quali inaspettati onori fuori da ogni Immaginazione ricevo da Manni editori! Ennio Abate Solo un’eco di opposizione? Come opporsi a Berlusconi? Eco su Repubblica ha lanciato l’idea di non comprare le merci pubblicizzate su Mediaset. Queste le mie obiezioni all’invio di un e-mail di Enrico Peyretti di Torino, che chiedeva di sottoscrivere l’iniziativa. Un’opposizione non costosa per chi la farebbe, non dannosa per il Sistema (il migliore dei sistemi possibili ormai?) e che, concentrandosi soprattutto su un Personaggio-simbolo, tace sui restanti a lui assai simili, che opposizione è? È un’opposizione a sua maestà, tipica di una certa nobiltà complementare al sovrano. Questa mi pare – e dico subito apertamente la mia insoddisfazione - l’opposizione che Umberto Eco propone e che lei tramite e-mail ci invita a sottoscrivere. Essa non è che una variante del girotondismo di cui vorrebbe essere il superamento. Si aggira nello stesso bicchiere dell’opposizione all’acqua di rose, di cui in molti siamo sempre più stufi. (L’esempio dei risultati alle presidenziali francesi mi esime da ulteriori approfondimenti). In fin dei conti, Eco di cosa accusa Berlusconi? Come i vecchi liberali trovavano troppo rozzo Mussolini, così egli rimprovera l’attuale presidente del Consiglio di non dar prova di fair play, di essere incapace di buona educazione e sensibilità democratica, di aver deciso di usare in modo spregiudicato una forza elettorale ottenuta legalmente. La politica viene ridotta a questione di stile. Berlusconi non va, è un inconveniente aggiunto (così lo definisce Eco) perché egli soltanto avrebbe una nozione (come dire?) abbastanza autoritaria del proprio ruolo padronale. Eliminato l’inconveniente, rientreremmo nella “normalità democratica”. Ora io, vecchio e non immemore di un’epoca giovanile in cui anche Eco pareva pensoso dei limiti della democrazia anche qui da noi e non solo in Secondi o Terzi mondi, non ricordo di aver mai visto politici o manager che svolgessero un ruolo padronale senza autoritarismo; e ritengo quello di Berlusconi non dissimile dall’autoritarismo dei governanti della vecchia Dc, di Agnelli di una volta e di oggi, della Confindustria di ieri e di oggi. L’autoritarismo è del Sistema (capitalistico, mi permetto di aggiungere). Non può essere solo di Berlusconi. E allora? Allora, si dovrebbe avere non solo l’intelligenza di riconoscere, sì, che si preparano nuove forme di governo (berlusconiane da noi, bushiane in Usa, sharoniane in Israele, ecc.), ma anche di accertarsi che le nuove forme di risposta politica da opporre siano all’altezza di questi progetti regionali o mondiali. La proposta di Eco non mi pare tener conto di questo. Concreta (anzi concretissima), spiritosa, intelligente, appanna però proprio la novità per molti aspetti orribile delle nuove forme di dominio. E in un momento difficile per chi non vuole rinunciare ad una vera lotta per la libertà del genere umano, non fa che cullare il pigro senso comune di quella parte dell’elettorato non consenziente, inventando il giocattolo di una nuova opposizione tutta soft, perbene, che anche se riuscisse a penalizzare Mediaset, rifiutandosi di comperare tutte le merci pubblicizzate su quelle reti, non farebbe che spostare i bravi consumatorisudditi (questa specie gogoliana di anime morte) verso negozi e supermercati di altri padroni. Nulla di più. Significativi di quest’ambiguità politica sono poi gli argomenti con cui Eco sostiene la proposta: non costerebbe nessun sacrificio, solo un poco di attenzione; non si può avere niente per niente, un poco di sforzo è necessario; basta aver voglia di dimostrare in modo assolutamente legale il proprio dissenso; il mercato… continuerebbe a fiorire come prima; tutti continueremmo a essere ottimi consumatori, tranne che saremmo consumatori selettivi – il che è indice di maturità e di sviluppo economico. 4 Sono tutti argomenti che tendono - diciamocelo a rassicurare i padroni, ribadendo la fedeltà al Mercato dei sudditi consumatori! Sono tutti argomenti che esorcizzano in anticipo ogni gesto sospettabile (da parte di chi?) di “estremismo” o di “minoritarismo”! Ogni gesto di rottura con le abitudini costruite dal Mercato è escluso. Chi lo proponesse o lo praticasse sceglierebbe, per opporsi alla maggioranza, di entrare a far parte di una minoranza totalmente all’oscuro di tutto! Come dire che il tutto per Eco passa per televisione e radio; e che ogni minoranza non può che muoversi inevitabilmente alla cieca! (È il 25 aprile e i partigiani – che minoranza furono – purtroppo non possono uscire dalla fossa…). In tal modo non ci resta, per opporci, che un dispetto casereccio. È questo, infatti, che viene elevato al rango di politica: invece che comprare alla bottega “berlusconiana” sotto casa, vado ad acquistare a quella dietro l’angolo (che magari, sotto altro nome, appartiene allo stesso padrone o a qualche suo socio in affari!). E questa, sì, sarebbe opposizione? Fra gli uni che ci invitano a girotondi per sudditibambini e un Eco che c’invita a fare i sudditiselettivi non c’è proprio più scampo? E se, visto che la libertà non è merce e non la si trova né nella bottega di Mediaset né in quella di mamma Rai, provassimo anche in pochi a uscire davvero ancora una volta dallo stato di minorità, che è – diceva quel Kant, di cui Eco è pallida eco – l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro? 25 aprile 2002 Il “bisogno di scriverlo” Romano Luperini ha pubblicato presso Manni editore "I salici sono piante acquatiche", un “quasi romanzo” in cui senza indulgenze fa il bilancio della sua esistenza. Questo suo abbandono del consueto, impersonale discorso accademico a me è parso positivo. Vedere una volta tanto, invece dell’uomo istituzionale, del professore universitario che discetta di ermeneutiche e canoni, un personaggio che, aggirandosi sul piano narrativo-autobiografico della memoria, rivela le sue umanissime lacerazioni, e – perché no – quasi una tensione esodante non dissimile dalla mia, me l’ha reso più simpatico. Gliel’ho scritto. 6 aprile 2002 Caro Romano, ho appena letto tutto d'un fiato il tuo libro, I salici sono piante acquatiche, che un amico libraio di Cologno mi ha proposto sapendomi "in contatto con te". Ti scrivo brevemente, vincendo l'incertezza e la ritrosia procuratemi dal senso di "fredda stima" con cui in generale ho visto accogliere da parte tua i miei tentativi di confronto. E per dirti che ho accolto il tuo libro con una certa gioia, come una conferma che una parte "in comune" c'è e non è trascurabile, anche se forse esiste ancora quasi un divieto (generazionale?) a parlarne. Non sono solo alcune immagini ed esperienze (i cavalli incappucciati, il braciere, le peripezie dolorose con il"femminile", il conflitto col padre, ecc.) a "quasi coincidere", ma proprio quel "bisogno di scriverlo" (pag.11) e di cercare, scrivendo, il possibile "significato della propria vita e altrui" (pag. 7); e in quella forma narrativa-autobiografica in senso lato, a cui - mi dicevano - tu fossi particolarmente ostile. Che poi questo bisogno assuma una forma ibrida o frammentaria, a me pare davvero diventato secondario, come mi sembrano secondarie le giustificazioni che devi darti o dare ("mi prendo una libertà altrimenti vergognosa e per me impensabile", "mi giustifica la speranza di lasciare testimonianza", pag. 11) ai lettori d’ambiente accademico. Non mi soffermo sulla forza con cui hai reso certe figure e certi nodi esistenziali; né su tante altre cose... 7 aprile 2002 Caro Ennio, ho molti sensi di colpa per quel romanzetto autobiografico. L’ho tenuto a lungo nascosto, ho boicottato più o meno consapevolmente qualsiasi tentativo di pubblicarlo presso grossi editori, poi ho ceduto ai Manni e l’ho pubblicato semiclandestinamente (sono stupito, anzi, che tu sia riuscito a venire a conoscenza della sua uscita). Insomma un atteggiamento contraddittorio e nevrotico, di cui credo di conoscere, almeno in parte, le cause psicologiche. Le tue parole mi leniscono l’ansia e la vergogna. Nel corsivo iniziale non mi giustifico con improbabili lettori accademici, ma in realtà solo con me stesso. Ma resta l’impressione di aver compiuto una cattiva azione, d’aver tradito qualcosa ecc. Né vale quello che dice Saba, che il successo legittimerebbe la confessione; no, il successo (fortunatamente impossibile) aumenterebbe solo lo scandalo. Tuttavia, se qualcosa di quel libro è passato in te e in qualche altro lettore, allora, mi dico, non ho sbagliato del tutto. Ma, si sa, le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Scusa questo 5 linguaggio ondivago, che non mi è consueto. E grazie per aver letto e aver scritto. Romano FUORI DAGLI EQUIVOCI DEL VOLONTARIATO, MA NO ALLA SIRENA DEL MERCATO Alcune obiezioni a Nicola Simoni, Tra volontariato e mercato, in Il gabellino (Dossier 6), anno IV, numero 5, maggio 2002 Il gabellino, periodico della Fondazione Bianciardi di Grosseto, è un buon alleato delle riviste di cultura alla macchia o poco note. Il dibattito sulla loro utilità e su come correggere i limiti della loro marginalità è prezioso. Le poco diplomatiche osservazioni che seguono vorrebbero incoraggiarlo. Sì, parliamo della «marginalità produttiva» delle riviste di cultura che hanno scarsa udienza, pur non destinandosi volutamente a cerchie ristrette di persone; e soprattutto di alcune riviste, quelle promosse dall’intellettualità di massa e redatte di solito da chi fa anche «un altro lavoro» (per campare innanzitutto e ricavare il tempo e il denaro anche per fare la rivista). Ma diciamo con chiarezza che «tra volontariato e mercato» la scelta da ribadire oggi è a favore dell’”ambiguo”, “moralistico” volontariato, a meno che non si voglia passare dall’altra sponda e raggiungere quanti negli ultimi decenni, persuasi che “il tempo delle riviste” sia finito, hanno rinunciato non solo a produrne fuori dal mercato o ai suoi margini, ma predicano – magari senza più nominarlo – che il capitale è l’unica «realtà effettuale delle cose». Chiarito questo, consideriamo pure le nostre miserie e i nostri difetti. Manchiamo di lettori? Non li troveremo inseguendo la “gente”. I nostri potenziali lettori, che oggi c’ignorano o perché ostaggi in mano ai potenti gestori della società dello spettacolo o perché alle prese con percorsi che non s’incrociano coi nostri, vanno costruiti attraverso pazienti contatti con gruppi amicali, con quel poco che resta di una dispersa “sinistra” , con i “movimenti”. L’ampliamento del loro numero deve avvenire in coerenza con l’attività di laboratorio che la rivista organizza: abbiamo bisogno di buoni lettori per un buon saggio, una buona poesia, una buona discussione, un buon seminario. Il nostro rifiuto del mercato ha, da rivista a rivista, forme variabili e motivazioni eterogenee? Alcune ne fanno una bandiera, altre lo dichiarano quasi a malincuore; c’è chi pensa al recupero di una nobile Tradizione umanistica (antimercantile o non del tutto mercantile), chi ad una nuova religione dei colti, chi a nicchie “autonome”, chi ad un (utopico?) oltrepassamento del mercato (capitalistico)? Discutiamo queste impostazioni e le pratiche che ne discendono o le accompagnano: le riviste hanno avuto sempre la meritoria funzione di filtro delle idee e delle pratiche più adatte ad afferrare la realtà in mutamento, anticipandone se possibile le metamorfosi. C’è poi il peso della marginalità con le sue innegabili ambiguità, sulle quali Simoni troppo ironizza e insiste. È vero, la retorica sul «valore del volontariato nella società civile odierna» è a volte asfissiante, e in questo si può concordare con lui. Spesso i suoi apologeti presentano un bisogno, fortemente ma solo potenzialmente diretto verso la liberazione individuale e comune, come fosse già realizzato in quella forma approssimativa che è riuscito ad assumere. Ma dal fastidioso alone degli ideologismi o del «moralismo e astrattismo» che ci accompagna possiamo liberarci senza andare a ripetizione dai manager del marketing. Ad esempio, è bene che si rifletta apertamente sul fatto che il lavoro nelle nostre riviste di cultura (e, in genere, nelle attività di volontariato non-profit, ecc.) è quasi sempre lavoro non pagato o sottopagato proprio come quello - che so - delle casalinghe; che esso resta in varia misura coatto o comunque controllato o controllabile da chi dall’esterno più o meno con tolleranza lo “sponsorizza” (fondazioni, case editrici, enti pubblici) e che, pertanto, sia pur in modi ridimensionati, conserva il marchio del lavoro subordinato); e, ancora, che in certi casi può somigliare tantissimo e semplicemente ad «un secondo lavoro volontario, che spesso meriterebbe il più banale nome di hobby». Da qui l’oscillazione tra proclamato rifiuto dello sfruttamento e un certo autosfruttamento “amichevole”, a volte mascherato da autodisciplina o dalle condivise ideologie della ricerca della libertà, dell’autonomia, del dono, della militanza, ecc. Questo dobbiamo saperlo, e dircelo e ripeterlo a quanti ingenuamente o in malafede negano ogni parentela del lavoro volontario con il lavoro subordinato e sognano di trovarsi già – che facciano una rivista “libera” o lavorino nei settori non-profit o del lavoro “immateriale” – in una zona franca, esente dalle spietate leggi del mercato che continuerebbero a piegare solo le schiene degli altri lavoratori (quelli “materiali”). E 6 dimenticano che, a causa del permanente e anzi rafforzato controllo di quanti sfruttano in vari modi tutto il lavoro altrui, quella “loro” zona è parziale e precaria; e non può essere idealizzata e magnificata in sé. Non ci sono isole felici, si diceva una volta. Ci sono al massimo isolotti in cui la lotta (diciamo anche per la felicità) è solo più intensa e più chiara nelle sue premesse e nei suoi obiettivi. La consapevolezza delle ambiguità in cui avvengono tutte queste esperienze non le danneggerà; né cancellerà la genuina spinta di fondo alla liberazione, il grado variabile di verità e di cooperazione antiélitaria in esse raggiungibile, la volontà soggettiva di militanza e di ribellione allo sfruttamento, all’ingiustizia, all’ipocrisia, che solo praticando tale resistenza al mercato possiamo (non è garantito…) rendere concreta. Solo questo conta davvero. E deve essere anche chiaro che queste cose (spinte di liberazione, verità, cooperazione, militanza, ribellione) non sono prodotte quotidianamente solo da chi opera nel settore no-profit. Staremmo freschi! Si producono ovunque, negli interstizi di tutte le varie forme che ha assunto o va assumendo oggi il lavoro: “salariato”, “autonomo”, “precario”, “volontario”, “servile”, “alternativo”, “immateriale”, ecc. Quindi attenzione a tralasciare, quando parliamo di cultura, i sotterranei legami fra attività, troppo sbrigativamente considerate “libere”, e attività, necessarie ed imposte, finendo quasi per contrapporle. Fra “lavoro volontario” e lavoro subordinato c’è solo differenza di grado e dentro uno stesso sistema. Parteggiare per l’uno contro l’altro e accusare soltanto quello “volontario” di essere «di impronta idealistica» per il suo “rifiuto” della «monetarizzazione della produzione» mi pare sbagliato. (E fa benissimo la Fondazione Bianciardi a tentare di evidenziare i possibili legami tra le riviste di cultura e la scuola, cioè tra il lavoro “libero” e quello “meno libero”…). Non so fino a che punto ci sia coincidenza sicura fra far rivista di cultura, volontariato e pratica “alternativa” della Rete; ma di comune tali esperienze hanno un merito: indicano l’irrazionalità delle leggi del mercato e possono svelare e costruire un’altra “realtà effettuale delle cose”, visto che quella esistente è un prodotto del volontariato dei padroni. Il problema è ancora oggi la liberazione dallo sfruttamento capitalistico di tutte le forme del lavoro o più semplicemente del lavoro. No, la «razionalità» («il bambino»), anche se non sta già nel “lavoro volontario”, di sicuro non si trova più nell’«acqua sporca del profitto». E la critica alle ideologie del volontariato e della rete è monca e rischiosa, se tace le sofferenze e lo spreco che il mercato capitalistico globalizzato, oggi sempre più di guerra, continua a imporre all’umanità. A quando, dunque, una seria riflessione sulla degradazione del lavoro (Bravermann), quello “volontario” e quello “professionale”, dovuta alla perdurante sottomissione al capitale? E a quando un ripensamento delle troppo taciute potenzialità di liberazione proprie del lavoro? 21 giugno 2002 COLOGNOM DIARIO 15 ottobre 2001 La bomba cade la bomba cade, l'afghano muore il mercante d'armi brinda, il papa prega il terrorista si prepara, il pacifista manifesta il poeta scrive versi ispirati alla bomba che cade all'afghano che muore al mercante d'armi che brinda al papa che prega al terrorista che si prepara al pacifista che manifesta contro la bomba che cade sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc. che muore che non brinda, che non manifesta, che non scrive versi che lontano, lontano riceve la bomba della nostra intelligenza 28 novembre 2001 Su Ranchetti (leggendo La mente musicale e Verbale) Il mondo s'è strappato dagli occhi l’uomo religioso. Ne serba incubo e reliquia in lingua morta. Eremitaggi così addosso alla pelle della morte provammo nell’infanzia 7 degli esilii in sé. Poi uscita e fuga da terrori di fiabe contadine e latino di preti. Per esplosione. Ora in quotidiani altrui raccatto semi bruciati d’una vietata storia. Nota. Cos'è una scrittura di morte, addosso alla morte, sotto la morte. Come "morire" per intendere questa scrittura. Presa mortale di questo pensare la morte. Accettare una ampia zona di oscurità nella poesia di Ranchetti. Che tipo di oscurità è, però? 2 febbraio 2002 Sogno Obbligo ad essere amanti immobili. Luce di lampada (ovviamente fioca, ad altezza del viso, come quella metallica verde della cucina di Vicolo Adda) e non di luna. Obbligano due energumeni nerastri. Ma litigano, si rincorrono attorno a noi due amanti e al tavolo (c'è nel sogno il tavolo o è un'aggiunta?) Strappa giù il lampadario e al buio baciamoci. 1 marzo 2002 Sogno Carabinieri travestiti vanno a disturbare un corteo di pacifisti. Contrasto un fascista che parla bene della Decima Mas. Lui ed un complice mi assalgono. Vorrei chiedere aiuto, ma il corteo dei manifestanti è troppo lontano. Sulle beghe “politiche” del teatrino comunale di Cologno Volevo rispondere per le rime alla lettera che il Sindaco ha spedito a tutti i “cittadini” per spiegare la sua scelta di alta moralità evangelica: sbarazzarsi del centro sinistra che l’aveva eletto e passare al centro destra che l’aspettava a braccia aperte. Mi sono mancate le parole. Volevo rivolgermi ai sette consiglieri che si sono alla fine dimessi, dopo numerosi attestati di stima al Sindaco. Le parole erano troppo grosse. L'esodo non passa di qui. Ho detto la mia a Michele Papagna di Cologno città solidale e all’assessore Vittorio Beretta. (Cfr. più avanti, pag. 25 e 29). 21 marzo 2002 A Firenze per la mostra dei disegni di Ranchetti In treno continuo la lettura di Impero di Hardt e Negri. Oscillazione. Se questo mondo postmoderno è una realtà, mi ritrovo in una collocazione che non è entusiasmante. Le esperienze anni 60-70 che Negri esalta mi sono rimaste in gran parte estranee. I disegni di Ranchetti fanno pensare al Klee prima maniera e al segno di Casorati. All’inaugurazione c’è molta gente dall’aria colta e pensosa. Ambiente da universitari o ex. Conosco solo Nava e sua moglie Tullia. Tornando a Milano in treno intervengo in una discussione di alcuni studenti sulla riforma Moratti. Sono i leader di organismi studenteschi cattolici. Li accompagna il loro preside. Martello di obiezioni il più accanito e spocchioso che difendeva una scuola fatta solo per chi ha voglia di studiare. Ma la “scuola per tutti”, mi dico, è diventata davvero un’astrazione. La “fuga dalla scuola” è una realtà. 3 aprile 2002 Le teste battevano [Palestina]. nelle vecchie bufere. 8 aprile 2002 mentre dalla Palestina quotidiane stragi (1) Chiedesti: e possiamo tacere sui palestinesi noi che siamo qui convenuti per parlare di scritture e realtà? L’avvocato che in passato aveva difeso tanti brigatisti ribattè sprezzante contro il “miserabilismo di sinistra”. Lodò di quei due giorni del convegno il dibattito così ben fatto Se ne faranno altri, concluse. A noi i dibattiti. A loro le stragi. Samizdat Colognom La percezione del luogo in cui abito si deve spostare da quel minimo che colgo da passante o automobilista che lo percorre per tragitti minimi 8 ed obbligati (accompagnare Matteo al nido, andare da mia figlia Elena, fare la spesa all’Esselunga di viale Lombardia). La percezione del luogo in cui abitiamo si potrà mai spostare dai percorsi obbligati che facciamo da passanti, da automobilisti? 9 aprile 2002-07-18 mentre dalla Palestina quotidiani stragi (2) Anche Fortini de I cani del Sinai (1967) e di Un luogo sacro1(1990) risulterebbe oggi inadeguato di fronte a quest’orrore? Non so. Non so neppure se quanto lì accade è una conferma del tracollo degli stati-nazione, come dice Impero, o una riprova che siamo tutti dentro la vecchia, sporca storia dei nazionalismi. Riordinadiario Rilettura veloce del diario 1978. Qui ero davvero dentro Colognom e la crisi della militanza da nuova sinistra. Attenzione da cronista. Isolamento. Caparbia ricerca di organizzare una qualche resistenza. Un solitario e faticoso autoriconoscimento della mia condizione di intellettuale di massa. 30 giugno 2002 Matteo Mentre andiamo in auto a Loano. - Dove vanno a finire le parole che tu dici, quando escono dalla bocca? - Nella bocca della mamma. - E se la mamma non c’è? - Sugli alberi. 4 maggio 2002 Solmi Mi lascio trascinare al Palazzo dello sport di Sesto S. Giovanni, dove si tiene un meeting dell’Ulivo mirato soprattutto alle prossime elezioni amministrative. Lo faccio per cortesia verso Renato. Lo critico per questa sua battaglia antiberlusconiana che a me appare all’ombra dei DS, ma non me la sento di contrastare di petto la sua passione politica. Con una meticolosità d’altri tempi ha schedato – quaderni e quaderni - tutti gli e-mail ricevuti per l’iniziativa di boicottaggio a Mediaset. Come sospettavo, gli organizzatori ulivisti della manifestazione sestese ovviamente non gli permettono di leggere l’intervento che egli sperava di fare dal palco. Il pubblico è in prevalenza di anziani. Il rituale americanizzato. Ho visto solo distrattamente in qualche spezzone televisivo queste ovazioni all’ingresso dei leader, lo sventolio di lunghi bandieroni, i salamelecchi dal palco degli artisti (in questo caso Ottavia Piccolo e Vecchioni, mi pare di ricordare). A vederli dal vivo, mi sento imbarazzato, come se tornassi in chiesa. Sentimenti miei: di antipatia, di ostilità. Colgo soprattutto l’ipocrisia da ceto medio alto professionale. Appena un po’ di curiosità per i volti di quelli seduti accanto a me. Vedo di sfuggita anche Stefano Facchi e Camillo Piazza, i “verdastri”partoriti secoli fa dal nostro defunto lavoro politico extraparlamentare a Cologno. Rivista: Gomorra giugno 1998 «Il cuore del sistema è “un software scritto su piattaforma Macintosh Quadra, uno stack [Mucchio? Gran quantità?] di hypercard [Iperbiglietti? Ipercarte?] che comprende al momento una ventina di torsi e altrettanti bacini, sia maschili che femminili” (Velena, 1995) e, mentre una finestra di visualizzazione ci permette di vedere il corpo di rappresentazione del/la ciberamante, eventualmente zumando e ruotandolo a piacere, attraverso il mouse si agisce con una stimolazione dell’area prescelta» (pag.99) Periferie. Non c’è solo la “mia” (ancora montaldiana?). Questi giovani (suppongo) ricercatori romani ne raccolgono (con sguardo un po’ pasoliniano e un po’ settantasettino alla Andrea Pazienza e alla Frigidaire) gli squarci più attuali (la descrizione della vita notturna dei trans al Flaminio, pag. 92). 1 luglio 2002 Lavorando a Riordinadiario 1978 Registravo i mutamenti. Non coglievo i segnali di morte che essi già, a frammenti, contenevano. Alcuni temi qui presenti li ho già sviluppati di più narrativamente, ad es in Prof Samidat (attorno al ’90). E sono ancora carichi di sviluppi. Ma certe notazioni impressionistiche? Pura descrizione? Dove li inquadro? In Proletari a Colognom? Nella forma del diario essi si presentano sparpagliati nei giorni o negli anni e non trovano un senso. 26 giugno 2002 2 luglio 2002 1 In Extrema ratio, Garzanti, Milano, 1990 9 Lavorando a Riordinadiario. Rivedo la mia tesi sui Quaderni Rossi (anno acc. ’68-’69) Ci ritrovo le radici della mia tensione politica marxista-operaista delineatasi proprio in quei due anni e che ha potuto alimentarsi solo su fonti indirette o esperienze “sporche”: nella militanza in un’organizzazione operaista-leninista come AO, nel lavoro di base a Cologno in quell’ottica, nel metodo dell’inchiesta di Montaldi (non a caso passato per i Q.R.), nella ripresa dell’attenzione alla letteratura in chiave fortiniana, nel seguire le ricerche dell’area operaista (dal Primo maggio di Sergio Bologna, a Negri a Virno e con più riserve a Tronti). La tesi sui Q.R. mi sottraeva all’influenza dell’area PCI della Statale. Passai dal tema dei consigli di fabbrica gramsciani, che avrei dovuto preparare con Della Peruta, alla tesi con Catalano sotto l’influenza dell’avvicinamento ad Avanguardia Operaia e alle prime esperienze davanti alle fabbriche. Non so quando sentii parlare dei Quaderni rossi la prima volta. Ricordo che avevo conosciuto Banfi e la Bianca Beccalli. Avevano avuto contatti diretti con i torinesi dei Q.R. Quel lavoro lo preparai in fretta (forse due mesi) e da studente-lavoratore. Fu sicuramente libresco. Non ebbi tempo (né avevo i contatti giusti) per interrogare o discutere con alcuni dei partecipanti a quell’esperienza. Né Catalano, che mi fece da relatore, doveva essere molto interessato. Fu una sorta di apprendistato convulso della cultura operaista alle sue origini da parte di un intellettuale immigrato che di fabbrica e di problemi industriali conosceva ben poco, anche se lavoravo da operaio notturnista alla SIP. La documentazione della tesi mi pare ancora oggi buona, ma cronistica. Deboli invece sono il commento critico e la contestualizzazione sul piano culturale. Testimonia la scelta di un orientamento politico personale: un leninismo, forse già derivatomi da AO, che mi fa prendere una qualche distanza da Panzieri e soprattutto da Tronti. Non consideravo l’effetto che poteva avere sugli accademici a cui mi presentavo, quasi tutti del PCI di allora, né la loro svalutazione delle questioni sindacali e di fabbrica. Ricordo la sufficienza con cui Salinari, al momento della discussione, parlò delle «oscurità» del linguaggio di Panzieri. 3 luglio 2002 Il computer mi fa dannare Il computer si ferma appena comincio a scrivere Si ferma dopo un po’ che scrivo Ho paura di scrivere Non riesco a completare il riordinadiario 1978 E invece su altri files funziona Cosa ha questo computer? Cosa ha questo programma xp? 7 lug. 2002 Riordinadiario Il diario è stata la forma di scrittura da me più usata perché isolato. Il diario è per me il supporto del lavoro sulla memoria personale che sempre mi propongo di fare. Il diario è stato il punto base di partenza per altre forme di scrittura (nel mio caso poeterie e narratorio) Il diario è rivedibile e riordinabile da chi lo scrive se campa e lo rilegge. RIORDINADIARIO maggio 1978 - 2002 1.4. 1978 Dopo assemblea della Costituente di Democrazia Proletaria con Mangano a Villa Casati Curiosità, voglia di ritrovarsi fra compagni. Ma i discorsi di Sacristani, Stefano Facchi e anche di Mangano sono nel vecchio stile pedante, comiziesco, d’appello all’emergenza. Dubbi sull’opportunità di costruire oggi un altro partito, proletario dopo il fallimento della costruzione di quello rivoluzionario. Mangano ha affinità con i compagni del manifesto. Potrei lavorare con lui. Ma con gli altri? Se l’ipotesi di un collettivo locale di Democrazia Proletaria avesse avuto qualche fondamento, poteva essere fatta prima della rottura fra Avanguardia operaia e Pdup2. Le spinte burocratiche e settarie prevalsero allora e sono sempre all’opera anche oggi. Bisogna porsi seriamente il problema di andare oltre il PCI3; e per farlo non basta andarci contro. Come dice Eugenio Grandinetti, la nuova sinistra non sa costruire un suo progetto e continua a muoversi in funzione del PCI. Può sembrare una pretesa, ma penso che dobbiamo andare anche oltre quel che hanno fatto Lotta Continua, Avanguardia Operaia e Pdup. È vano lavare e stirare ancora i panni smessi di queste organizzazioni. Troppe macchie burocratiche. 2 3 Partito di unità proletaria. Partito comunista italiano. 10 La vicenda di Corvisieri4 dà da pensare. Come mai un frutto cresciuto sul nostro stesso albero è diventato così “marcio”? Corvisieri scopre la bontà della via pacifica al socialismo proprio quando essa degenera nel compromesso storico. Come degenera purtroppo la via rivoluzionaria nel militarismo delle Brigate Rosse5 e proprio quando lo Stato democristiano svela la sua putrefazione. È impossibile attestarsi sulle “modeste certezze” (il PCI che s’aggrappa allo Stato nato dalla resistenza, Democrazia Proletaria che s’aggrappa alla costruzione del partito). Non hanno funzionato negli ultimi trent’anni, figuriamoci adesso. Fortini Rifletto sulla sua esortazione a «scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio allora una problematica etica». Sì, dobbiamo evitare, proprio come fanno femministe e giovani, i ritorni frettolosi alla politica. L’idea di costruire il partito è inacidita. Ce ne dobbiamo liberare, specie noi che per dieci anni abbiamo lavorato su questa ipotesi. Riproposta, scatena i soliti comportamenti: sensi di colpa, pretese egemoniche verso i “vicini di casa”, divaricazione fra spinte avventuriste e burocratiche. Essere drastici: il periodo del marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse Tung è morto. Non serve colmare le lacune della precedente militanza. Anche se volessimo riaccostarci con più serietà agli stessi testi di Marx, Lenin o Mao, letti troppo in fretta o male in passato, dovremmo prima ripulirci dagli schemi ideologici di questi anni vissuti da militanti di partito. E lo stesso vale per i temi oggi ritenuti “importanti”: femminismo, teoria dei bisogni. Non possiamo affrontarli col “taglio da partito”. Non basta cercarsi neppure interlocutori rispettabili nella nuova sinistra. Guardare a compagni ancora più ai margini. Fortini, per me, è uno. Ma dobbiamo cercarne altri; e non tanto fra le masse (che è un concetto anch’esso inseparabile da quello di partito), ma fra gli individui concreti e sempre più spesso fuori dalla cerchia dei politicizzati. 2.4. 1978 L’esperienza di Avanguardia Operaia. I bilanci di Vinci e Campi6 Allora quel mio disagio presente fin dagli inizi non era solo il segno di una debolezza personale. Che errore aver proseguito. Ciao maschio di Ferreri In un cinema di Monza con Donato, Rosa, Titina e altre maestre. È una favola contemporanea. Quindi amara e inquietante, perché immettere nella favola aspetti spietati del mondo contemporaneo significa stravolgere il genere. Di cose inquietanti ce n’erano anche nelle favole che leggevo da ragazzo, ma facevano tutt’uno con un passato mitico. Uno dietro di noi: «Questo non è un film da sabato sera, ma da lunedì mattina…». Hinterland, due ragazze: G. e C. G. ha una corporatura minuta, l’aria triste, ma intelligente e sensibile. È l’autrice di un quaderno di poesie che la C. mi aveva dato in lettura mesi fa. Lavora in fabbrica a Cologno, dopo aver interrotto gli studi. È la prima di cinque figli. Genitori meridionali e possessivi: alle 20 di sera deve rientrare a casa. Ha deciso che fra un anno se ne andrà a vivere da sola. Vorrebbe scrivere, fare la giornalista. Per adesso raccoglie esperienze di vita di altre donne. Le dò una mia poesia e un vecchio numero del nostro bollettino. Le chiedo anche se è disponibile a tenere un diario delle sue giornate in fabbrica. Parlando, viene fuori che è una delle ragazze della media di Via Rossini, qui a Cologno, che mobilitammo sei o sette anni fa per protestare contro i doppi turni e le inadeguate strutture scolastiche (Le classi erano in appartamenti al primo piano di un condominio, come succedeva spesso… Anch’io insegnai per un anno in situazione analoga a Cinisello). Piacere per questi incontri improvvisati, anche se ci accorgiamo – io e R – dell’accresciuta distanza fra la nostra e la loro generazione. Ghetto e ribellione Siamo nel ghetto. Sul serio o per modo di dire? E perché non tutti reagiscono come facciamo noi? Ma è poi vero che noi reagiamo al ghetto ribellandoci? E se la nostra è ribellione, perché quella degli altri ci pare meno evidente? Forse la nostra è così evidente e visibile? Lo è, certo, in alcuni momenti, su alcuni aspetti. È già molto intellettuale rispetto a quella di chi ha ragioni materiali più urgenti (quelli senza casa o 4 Uno dei dirigenti fondatori di Avanguardia Operaia passato in quei mesi al PCI. 5 Organizzazione comunista clandestina che praticò in quegli anni la lotta armata. 6 Dirigenti di Avanguardia Operaia, protagonisti dello scontro che portò alla sua spaccatura. Vinci confluì in Democrazia Proletaria, Campi nel Pdup e poi nel PCI. 11 sfrattati). Chi crede che la ribellione si costruisce solo sulla miseria è fuori strada. Proprio come chi crede che essa debba imboccare, quasi automaticamente, la via del voto o della pacata manifestazione di protesta. Hinterland, Sesto S. Giovanni Al corso di aggiornamento sulla didattica dell’italiano. Noia. La collega: «Al lunedì tutti i bar chiusi! Ed io che cerco sempre qualcuno con cui prendere assieme il caffè…». Militanza di sezione Gigi della GBC di Cinisello. Distribuisce volantini e mi vende un bollettino sull’ opposizione proletaria. Riconosco uno stile: i fatti locali che, incorniciati in quelli nazionali, sembrano avere più importanza; e invece restano delle aggiunte. È lo stile delle sezioni dei vari partiti. I responsabili operano, anche loro malgrado forse, come caporali che devono badare alla loro squadra. I carrieristi si affacciano in queste situazioni occasionalmente e per breve tempo. Si ripete così una solida ma ambigua tradizione di vita da partito. All’inizio la sezione pare un guscio rassicurante e dopotutto provvisorio per far maturare tutti. Ma il ricambio di idee e di esperienze è sempre parziale. La base rimane quasi inevitabilmente per anni la stessa, con defezioni e aggiunte quasi fisiologiche (amici, figli, parenti, qualche immigrato che s’aggiinge..). C’è una vita vischiosa (d’interessi economici, di affetti, di ambizioni) che prolunga questi legami, anche quando sono insoddisfacenti. Non è facile smontare un rapporto che è al contempo di fiducia e subordinazione rispetto ai dirigenti. Questi vengono quasi sempre nominati dall’alto e provengono da altre città, danno una certa presenza fisica più o meno generosa, orientano le discussioni e le scelte e poi vanno altrove, dove il Partito li richiede in base ad esigenze che quasi sempre sfuggono alla comprensione della base. Fu un’illusione sperare che la sezione di Cologno di Avanguardia Operaia sarebbe rimasta compatta e indenne dagli scazzi del gruppo dirigente al momento della mancata unificazione col Pdup. Presto le tensioni oscure presenti nel vivo dei legami fra i militanti si svelarono divisioni inconciliabili. Il legame gerarchico purtroppo funzionò. Le rotture al centro si ripresentarono al livello locale. La sorte di chi che agiva nell’ambito di una ventina di kmq era legata rigidamente alle scelte dei pochi che viaggiavano a livello nazionale. Un tipo diverso d’esperienza me lo giocai al momento in cui aderii ad Avanguardia Operaia. Ma era forse possibile in Lotta Continua o nel Pdup? 4.4.1978 Ricordo Mio padre, ex carabiniere in congedo, che tornava a casa alle due del pomeriggio dal negozio di accessori idraulici dove aveva dovuto lavorare come commesso nel dopoguerra per integrare la magra pensione e, prima di mangiare, si cambiava la maglia di lana grezza sudata, si faceva asciugare da mia madre che era più bassa e faticava e poi si lavava più volte e rumorosamente la faccia. Operai, muratori Quelli che escono dal bar qui sotto casa mia, in Corso Roma 93. Mai più getterò su di loro uno sguardo amoroso o troppo rispettoso o umiliato o colpevolizzato. Collettivo Itis a casa di G. Siamo solo alcuni pezzi del Collettivo. Si discute di Brigate Rosse. Hanno metodi ottocenteschi, si dice. Io ho delle riserve a scaricare l’Ottocento. Penso a tante altre violenze, a tanti massacri. G. ricorda dei suoi colloqui angoscianti con compagni palestinesi. Dobbiamo disfarci - e così in fretta e furia, quasi a comando - di tutti i discorsi fatti in questi anni sulla violenza proletaria, di tutte le analisi storiche sulla sua presenza nella storia, nei rapporti umani? Abbiamo tutti la sensazione di essere tagliati fuori dagli sviluppi che ha preso la situazione. Le cose decisive si giocano fra PCI, DC, PSI e Brigate Rosse. Che ne facciamo adesso di tutta la riflessione circolata nelle organizzazioni extraparlamentari e sulla quale ci siamo formati politicamente? La sensazione è di essere trattati come bambini o semplici truppe di rincalzo. Sentimento angoscioso di essere finiti in una retrovia e in mezzo a compagni dalle idee confuse. Come pretendiamo di orientare gli altri? Ci aggrappiamo al discorso sulla democrazia reale contro quello che simpatizza (senza dirlo) per la lotta armata. Ma nella difesa della democrazia reale saremo da soli o ci troveremo assieme ai riformisti? Documento della direzione del Pdup sulla crisi italiana dopo il rapimento di Moro (il manifesto 4 aprile 1978) Delusione. È un ricalco intelligente delle posizioni del PCI, sulla cui posizione di fermezza si sorvola. Parlano di terrorismo (che ha manifestazioni attuali) e di golpismo (che pare inteso come 12 un’eventualità). I due fenomeni sembrano posti sullo stesso piano. Criticano la posizione «né con le Br né con lo Stato»: che smarrirebbe la distinzione fra «regime democristiano o vecchio stato burocratico sopravvissuto al fascismo e quelle istituzioni e quelle prassi democratiche che sono cresciute attraverso la lotta di massa». C’è accordo pieno con il PCI: in questa fase la difesa della democrazia coincide con la difesa delle «istituzioni di questa costituzione». Nessun accenno al grado di democraticità reale di tali istituzioni. 5.4.1978 Esorcismi Tutti esorcizzano il discorso su morte e violenza che le Brigate Rosse hanno imposto come elemento centrale nella lotta di classe. Vedo falsa coscienza in tanti episodi di quest’ultimo anno: dibattito del manifesto sul terrorismo prima del rapimento di Moro, discorsi sui servizi segreti strumentalizzatori delle BR, letture delle azioni delle BR come spettacoli. Anche la riflessione sulla democrazia di Stame7 assume toni idealistici. I dubbi che ho sui discorsi reticenti dei democratici e il fatto che tutte le posizioni mi appaiono precostituite e ricattatorie m’inducono a non schierarmi. L’appello di Cases, che doveva apparire sul manifesto pare sia stato bloccato. Ritrovo la sua firma sotto un appello pubblicato da Quotidiano dei lavoratori e Lotta continua. Sta diventando luogo comune dire che non esiste più una sinistra rivoluzionaria. Io pure tendo ad usare l’espressione ex sinistra rivoluzionaria o nuova sinistra come equivalenti. La colognosità Il rigore nelle piccole scelte quotidiane sembra meno necessario nella situazione periferica. E invece lo è. Il Collettivo Bandiera Rossa8 è già un guscio vuoto. Ognuno ci mette i discorsi a cui fa riferimento. M. quello del manifesto in versione scolastica (l’inquietudine di questo compagno mi sa che durerà solo fin quando troverà una buona offerta per la sua acquisita professione…). Tagliaferri il suo legame con Democrazia Proletaria. Manenti il desiderio di discutere fra amici, senza più conseguenze militanti. 7 Su Quaderni Piacentini. Un gruppo, che ebbe vita brevissima, composto da ex compagni della locale sezione di Avanguardia Operaia di Cologno che aveva rifiutato la suddivisione in due tronconi dell’organizzazione e la scelta di stare o con Vinci o con Campi. 8 Il rapporto con loro mi suscita un rovello. Tengono il piede in diverse scarpe o tendono all’attivismo solito. Io vorrei una separazione chiara dallo stile da partito e puntare allo studio per articolare nuove idee. Mi resta la fiducia nella “parola semplice”, di denuncia. A volte m’illudo che una poesia, una lettera aperta, un intervento “provocatorio” possa cambiare certi loro atteggiamenti. Ma le strade si dividono. I loro atteggiamenti sono fortemente radicati nella situazione locale e incoraggiati dai legami d’amicizia o di frequentazione con la Sinistra colognese che io non ho oppure ho decisamente interrotto. Le frequentazioni della Libreria Celes o del bar Paoletto9 consolidano questi legami. Quelle che io giudico forme residuali o di routine dell’attività politica locale per loro sono invece le uniche forme “reali” e veramente politiche per non rimanere isolati e inascoltati. 6.4.1978 Leggendo da Fortini (Una volta per sempre) Dunque viviamo in universi di linguaggio diversi/ io sono lì ad espormi in molteplici inseguitive parole per cogliere il segno che mi trattenga/ che non scivoli più/ tu in quest’obbligatorio esercizio in una condizionatissima ginnastica …. Entrare nel PCI Donato: «Ho letto il documento di quelli della Celes. Propongono che PCI e PSI entrino a far parte della cooperativa. Sacristani vuole garantirsi i lettori del PCI e del PSI. Io gliel’ho detto: è meglio Corvisieri, almeno le sue scelte sono chiare». Politica locale del piccolo cabotaggio. Quello che dicevo in poesia sulla libreria e che li aveva così offesi era centrato. C’è uno scivolamento delle coscienze. Con l’attuale confusione finiremo o tagliati fuori o a fare da pedine nei progetti altrui. Bisogna “espatriare”, costruirsi un’altra mentalità. Le idee del ’77, come quelle del ’68, oggi servono poco. Possono essere la base, non l’intero edificio. L’ingresso (e ora poi!) nel PCI pare a qualcuno come il passaggio delle Colonne d’Ercole. Altri invece rifiutano, ma non basta sputare addosso a Corvisieri e non entrare nel PCI per pensare e agire in modi non subordinati. 9 Due luoghi di ritrovo dei compagni extraparlamentari di Cologno in quegli anni. 13 Le analisi del manifesto sono quelle rituali, di prima delle elezioni del 20 giugno scorso. Malgrado tutte le “gravi” scelte, sembra che questo PCI abbia tanta democrazia depositata nei suoi scantinati da poterla sprecare senza danni. La nostra deriva - sia nella forma del ritorno al PCI, sia in quelle di scelte “tattiche” subordinate o organizzativistiche - è rovinosa. Anche una scelta di studio so che non basta. Lo scontro decisivo fra una democrazia ormai autoritaria e il terrorismo rende pura testimonianza ogni appello ad una democrazia reale. Siamo costretti a scelte di sopravvivenza, siano esse l’isolamento personale o stare nel mucchietto della ex-Democrazia Proletaria o tenere in vita il Collettivo Bandiera rossa come minuscolo salvagente. Ma la democrazia di base, che è stata la giustificazione teorica di un gruppo locale, è già morta per le scelte compiute in alto. Vedi anche l’impotenza di Comuni, consigli di fabbrica, sezioni sindacali e circoli giovanili. C. «Oggi ti arrestano anche se sei contro le BR, basta essere contro lo Stato». Sulle BR: «saranno peggiori di noi, ma non dello Stato». Uno che ha scritto tanto e ha sempre cercato di costruire assieme agli altri, può finire simpatizzante delle BR? Ha ragione Sciascia. Tutto il suo lavoro testimonia del suo pensiero. E Lama lo squalifica! Schierarsi è cedere al ricatto. A Villa Casati: comitato antifascista etcetera sul terrorismo. Parecchio pubblico, in prevalenza del PCI e della DC. Cassio10 sta introducendo. Sottolinea con orgoglio le voci autocritiche che si levano dalla sinistra. Vedete L’Espresso di questa settimana, leggete le dichiarazioni di Colletti, di Amendola. Parla poi di necessità di tener distinta la politica dall’utopia. Il primo intervento è di un professore repubblicano. Vuole dimostrare che gli extraparlamentari sono i padri del terrorismo. Lo interrompo, chiedendogli di chi è la paternità della strage di Piazza Fontana. Diventa rosso. Trambusto. Cassio ricorda che ora anche Democrazia Proletaria siede in parlamento: quindi non bisogna «offendere» chi interviene. Dopo un discorso appena accettabile di uno del PSI, parla Chittò del PCI. Dichiara che i comunisti hanno sempre difeso questo Stato, anche quando non erano nell’area di governo, figurarsi oggi che «è in pericolo». Poi è il turno del figlio di 10 Allora capogruppo in Consiglio comunale della Democrazia Cristiana. Patané11. Declama, come ho visto fare a militanti poco istruiti e imbeccati dai dirigenti, le cazzate che qualcuno gli ha scritto su un foglietto. Intervengo: non si possono assolvere i 30 anni di regime democristiano; le leggi contro il terrorismo sono anticostituzionali; la campagna dei partiti dell’arco costituzionale contro le posizioni di dissenso viene condotta in modi ricattatori e antidemocratici; quelli che dissentono non sono quattro gatti; lo slogan «Né con le BR né con lo Stato» è già stato corretto con quello «Contro lo Stato e contro le BR»; la partita che si gioca è fra democrazia autoritaria e democrazia di massa; gli unici a preoccuparsi paradossalmente della vita di Moro sono stati proprio gli extraparlamentari. Poi parla Tremolada: sottolinea la sua scelta di stare nel PCI ma da cattolico. È uscito dalla DC perché questa appoggia il capitalismo. (Il PCI invece…! – mi viene da chiedergli). Parlano poi le due mamme del Leoncavallo e la Pina Canu. Discorsi emotivi, ma in rottura col clima cerimonioso e falso. Al margine una scenetta fra il grottesco e il penoso. Il portinaio del condominio dove abita D., che si era messo a battere le mani da solo e ad annuire esageratamente quando Cassio aveva introdotto il dibattito, mentre il repubblicano inviperito dalla mia interruzione inveiva contro gli extraparlamentari, ha cominciato a urlare: «Questi extraparlamentari hanno rubato per strada la borsa a mia moglie!». Poi, quando, arrivato il suo turno, gli hanno dato la parola, fra risa e sogghigni, s’è sbracato in gesti offensivi contro le donne che lo interrompevano. 8.4. 1978 Parlare consunto La vecchia zitella alla bambina: «Ah, ho capito perché non uscivi dalla macelleria… perché c’era il cane… hai paura… hai paura di tutto… Su… Sali da sola?... Ah, quanto sei brava, sei brava tu!». Con un tono così stanco… E il pensiero dov’è? Dove naviga il pensiero della zitella impenetrabile, dal saluto svelto e sfuggente? Parlare a esplosione La gente ieri sera a Villa Casati. Che miscela emotiva veniva fuori quando parlava! Non preparata a ribellarsi, costretta a tacere per anni nelle riunioni di partito o a parlare in tempi stretti e controllati dai dirigenti o sempre approssimativamente nei luoghi più informali, quando poi ha un’occasione grida, bestemmia, 11 Un esponente del Psdi (Partito socialdemocratico italiano). 14 spara cazzate. E viene subito censurata. Ancora una volta non si esprime o lo fa in modi che le lasciano vergogna o incertezza. E la prossima volta capiterà la stessa cosa. La trappola è sempre quella: o taci o applaudi o intervieni sotto minaccia. Agglutinazione (a proposito di Marquez) Saldatura di più elementi linguistici in una stessa parola. 9.4.1978 BR Dire «Né con le BR…» non vuol dire provare simpatia. Ma una contraddizione c’è. Abbiamo parlato di transizione, di presa del potere, di violenza proletaria negli anni passati. Abbiamo preso in considerazione la produzione di eventi che prevedevano la morte dei nemici (e nostra o di nostri amici). Altri, in clandestinità, hanno preparati eventi di questo tipo. E ce li hanno imposti, sopravanzandoci, giocando il tutto per tutto, in forme certo da noi non pensate, ma in teoria non sideralmente distanti. Tra un seminario su Stato e rivoluzione12 e le azioni delle BR non c’è discontinuità. O forse era previsto che i nostri seminari sullo stesso libro di Lenin rimanessero soltanto platonici? Certo le pratiche della violenza nella storia sono varie e non si può assimilare un’azione cospirativa di pochi ad un’azione violenta di massa. Né i diversi contesti storici in cui avvengono. Ma siamo sul piano delle distinzioni importanti per gli storici, troppo “raffinate” e del tutto inascoltate nel clima attuale di tensione… Retorica (cattiva) «Il passivo e insano slogan né con le Br né con lo Stato va combattuto con un’efficace iniziativa politica, con la pratica della democrazia, con il funzionamento delle istituzioni repubblicane, con la tangibile dimostrazione che lo stato è in grado di sconfiggere le disuguaglianze sociali, le evasioni fiscali, la disoccupazione giovanile e meridionale….. Convincere i più freddi, i più estranei a comprendere che questo Stato offre le più ampie possibilità di lotta politica democratica, mentre il vero sbocco a cui si perviene, perdurando il terrorismo delle BR, è lo stato autoritario» ( Bentivogli, Repubblica, 9.4.1978) Garantisti per sconfitta Garantista è la posizione in cui, senza grande soddisfazione e in mancanza di meglio, ci siamo attestati. È la posizione di Stame, del manifesto, di DP. Con sfumature nel giudicare lo Stato: soprattutto repressivo con aggiunta di consenso; anche repressivo ma capace di consenso. D’altra parte siamo stati così spiazzati dagli avvenimenti che le nostre posizioni non possono che essere subordinate: ai democratici, con cui ancora parliamo; agli autonomi, coi quali neppure riusciamo a parlare. Non ci potrà essere nessuna nostra rimonta rispetto alle BR. Ogni discorso sulla violenza anche armata, magari solo chirurgica, come si diceva, per il momento e per noi, è svuotato. Siamo ridotti a spettatori di una feroce corrida fra “eroi” e “mostri”. I nostri ex compagni possono indicarci il terreno della democrazia, ma non viene meno il sospetto per il loro opportunismo. Oggi che dovevano essere più leninisti che mai, s’accucciano ai piedi del PCI. Hinterland, lesioni X., che aveva partecipato alla lotta per la Scuola materna al Quartiere Stella nel ’68 e a cui poi avevo abbuonato le sue ambiguità, ha tentato il suicidio. Per mesi l’abbiamo visto fermarsi, sfuggendo ai nostri sguardi, al bar qui sotto casa a bere. Adesso ne parla come di un incidente. Eppure si vede che non padroneggia né il suo corpo né la sua mente. Letture: DWF, numero 5 ott.-dic. 1977 su movimento e istituzioni «Che farmene di un comunismo che non segni anche la liberazione del mio corpo mercificato, mutilato, represso» (pag. 129) Hinterland, sfaccendati Scese giù al portone. Erano in sei, tutti a guardare in direzione della Seicento che stava per partire. - Adesso entra anche lui – fece quello coi capelli neri e l’aria torva. Mauro dice che i giovani che stanno qui sotto al bar tutte le sere sono fascistelli. Hanno soldi da spendere. Fanno gruppo. Aria spavalda. Controllano i passanti, soprattutto le ragazze. Hanno già imbrattato i manifesti che quelli di Democrazia Proletaria affiggono sul muro fra le saracinesche dei negozi. 11. 4. 1978 Sogni 12 Opera di Lenin. 15 Cifronti (è il consigliere di DP a Brugherio) viene a casa mia con i suoi due figli. Sono stanchi. Devo farli dormire in qualche modo. Quasi al buio mi affanno a riordinare la stanza. In un angolo trovo merda e piscio della mia cagnetta. Ad un’assemblea o ad un comizio. Distribuivano uno strano depliant elettorale. Aprendolo mostrava delle antiche colonne di un tempio classico. I ruderi che si vedevano a sinistra man mano apparivano restaurati e riprendevano il loro aspetto intatto spostandosi a destra. Era un messaggio di restaurazione, mi dicevo. Mi hanno zittito. Quello era un depliant del PCI e del PSI. Ma proprio per questo – ho esclamato – non posso tacere. In un paese del Sud, forse a Salerno. Pareva che la mafia avesse organizzato un attentato durante una manifestazione. Vedevo da un balcone un’immensa folla (come quella che si vede nelle foto dei funerali di Fausto e Iaio13). I compagni di Cologno filmavano la scena. Ero angosciato perché sapevo quello che stava per avvenire di lì a poco. Ed infatti ho sentito prima un botto e poi spari. La sensazione è che la scena si sia ripetuta due volte: dapprima senza folla e poi con la folla. Visite. Bilanci. Fallimento delle mie recenti visite. La B. non s’è fatta viva. O., che ho colto di sorpresa forse, ha barcollato sotto contenuto cupo delle mie poesie. I miei scritti sono lontani dai suoi modi sornioni e olimpici. Possiamo rivederci, ma ognuno resterà nel suo brodo. G. è di un’altra epoca e ha un’impostazione più scientifica. Avremo colloqui fruttuosi, ma circoscritti. G. e L. sono aperti a dialoghi occasionali, ma non mostrano interesse a collaborare con me in una periferia. Fortini non mi sento di andarlo a scocciare. Potrò colmare con la lettura dei suoi scritti la distanza che sento da lui e dalla sua generazione? Trazza, Sandri ed Emilia Borghi: sono solo delle comparse, proprio delle comparse nella mia esperienza scolastica. Il mio isolamento si è cristallizzato. Le occasioni di uscirne si riducono. L’immagine del quasi quarantenne che va al circolo La Comune14 a fare interviste a giovani sui ventenni appare a me stesso ridicola e patetica. 13 I due giovani del Leoncavallo di Milano uccisi proprio in quei mesi. 14 Era un centro frequentato dai giovani che ruotavano attorno ad Avanguardia Operaia di Cologno. Sorgeva nello spazio dell’ex cinema di Via don Giudici da noi occupato. Interruzioni B. di nuovo in malattia. L. pure. Il Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) viaggia imperterrito e aereo nel tifone. Il collettivo ITIS di Sesto sonnecchia. Il collettivo Bandiera Rossa di Cologno ha saltato la sua riunione settimanale, ma anche i suoi propositi di convocare un dibattito sul rapimento di Moro. Anche i redattori del suo bollettino non si sono visti e dichiarano dubbi. Troppe coincidenze per non pensare a tante candele che si spengono in successione. È il clima generale che ci macina e porta via speranze e volontà. Restano le spoglie dei fatti e l’isolamento. E se tutti questi propositi di continuare a fare, a discutere fossero solo il sintomo che il legame fra di noi è ormai perduto? Generazione che invecchia scivola accanto a turpi e veloci vicende di altre generazioni/ intiepidendosi muoiono. Hanno lasciato segni impercettibili nei vicoli, nei paesini, nelle periferie. 12. 4.1978 Alla Biblioteca Sormani di Milano Ci vado per sfuggire alla mia stanza di studio. Per uno come me poter frequentare una biblioteca silenziosa è una boccata d’aria. Eppure, che serve ad un’insegnante d’ITIS studiarsi fior di libri di linguistica che poco utilizzerà nella sua professione in sfacelo? Sfumature! «Per lui [un certo Minopoli, dirigente della FGCI15] il terrorismo non può avere basi ideologiche o culturali, né tanto meno può essere fatto risalire ad una tradizione terzinternazionalistica o stalinista: è solo delinquenza comune, criminalità politica, finanziata da centrali segrete» ( Lotta continua, 12.4. 1978) La bibliotecaria dai capelli rossi Mi hai umiliato! – ho detto sorpreso alla bibliotecaria, la direttrice, una compagna, che mi ha subito scovato, con aria trionfante, il libro che cercavo: 24 voci per un dizionario di lettere di Fortini. - E poi non parlar male della biblioteca di Cologno! - ha aggiunto – Per quanto tempo lo vuoi? Un mese? Tanto sei il primo a leggerlo… Imbarazzato, dimentico le altre due domande che volevo farle: come potersi riunire nel locale che la 15 Era la Federazione giovanile del PCI. 16 Biblioteca mette a disposizione; se un libro non è nel catalogo, la biblioteca dove lo recupera. Mi sento pieno di benevolenza e mi accorgo di quanto un certo mio odio per il ghetto di Cologno è astratto. Domani sera viene Sanga a parlare di tradizione popolare 13.4. 1978 Ricordo «Bive dint’a a coccia e paret’e». Così mio padre (o mia madre?) mi raccontavano l’episodio del re vincitore che aveva preso in sposa la figlia del suo nemico sconfitto. Amalasunta, lei? Alarico, lui? Boh! Letture: Vittorio Strada, Se il messaggio delirante viene dall’antiterrorista, Repubblica 13.4.1978) Uno che parla chiaro. I terrorismo è la spia di problemi irrisolti. All’ospedale di Niguarda: la madre di Donato si opera al cuore Sono andato con lui e le sue bambine. Mi vengono in mente le visite che da ragazzo facevo a Salerno con mia madre e mio fratello a parenti ricoverati: zia Luigia agli Ospedali Riuniti per una frattura al braccio cadendo da un albero; zio Vincenzo in una clinica privata. Una certa paralisi del pensiero quando entro in questi luoghi. Niguarda ha edifici spettrali. L’architettura è del periodo fascista (le palazzine INCIS a Salerno…). Gruppi di parenti disorientati o in conciliabolo accanto ai letti dei malati. Immondizia nei sacchi di plastica grigia affastellati ai pianerottoli. Una scritta polemica a pennarello su un muro. In spazi così trasandati le bambine non sembrano subire questo clima per me di vicinanza angosciosa alla morte e di accumulo di dolore. Gridano, recitano, vagano per il corridoio intralciando qualche infermiera di passaggio. Uno, parlando della Stramilano: «Credono di tornare giovani… ma sai quanti si buscano un infarto…». La mamma di Donato vorrebbe offrire un pezzo di formaggio a una delle nipotine: «Non l’ha toccato, la nonna…». Titina è silenziosa. Non ha potuto parlare col medico che a giorni opererà sua madre. Da Bisaccia è arrivata anche una zia, sorella della madre di Donato. Abito nero. Tentativi di rincuorare. Un altro parente, invece, parla da disperato. Anche lui è già stato in ospedale. Gli hanno trovato un calcolo al fegato e dovrà essere nuovamente operato. «Magari ce ne andiamo tutti e due insieme all’altro mondo» dice amaro. Cerco di informarmi, ma non trovo parole che vadano bene. Me ne sto zitto e, seduto, mi faccio distrarre dai movimenti delle bambine. Figli Elena: «…delle merde meno scrugnanti». E l’altra mattina: «La sveglia ha visto che eravamo giù tutti in piedi e perciò non ha suonato». Fabio. Oggi non è andato a scuola e ha lavorato tranquillo in casa a preparare tavole per educazione artistica. Ripenso per contrasto alla mia vita ansiosa di studente: l’atto quasi sacrale della firma di mio padre sul libretto delle giustificazioni, la febbre d’ansia e di curiosità al momento dell’acquisto all’inizio della scuola dei libri, della cartella. 15.4. 1978 Colloquio con T. Se si tace e si osserva in un altro contesto la gente, la si riscopre. Siamo entrambi della generazione stagionata del ’68 e non ancora rassegnati al lento deperimento che ci hanno preparato. Non ci siamo associati al coro restauratore. Però i parametri culturali sono sconvolti. Non è facile rimettersi al passo con questa realtà. Tutti e due abbiamo lasciato perdere il movimento del ’77. Abbiamo sfiorato l’elemento tragico che sta al fondo di quel che chiamiamo comunismo. Lo possiamo riaccostare nella memoria del passato o con una spinta utopistica. Se ce ne distraiamo ancora, faremo chiacchiere. O strisceremo verso il futuro come vermi. Lasciamo ad altri le doppiezze sulla verità: una per i dirigenti, un’altra per la base. Rapporti Quanti tentativi malriusciti di costruirne, di “appiccicarmi” a gruppi o a individui appena incontrati. Quasi sempre lo sforzo d’avvicinamento è venuto soprattutto da me. Una spiegazione tutta esistenzialistica dei fallimenti (incomunicabilità, ecc.) non mi soddisfa. Una certa indifferenza o distanza dagli altri la provo anch’io in generale. Ma non mi pare insuperabile. C’è piuttosto l’esperienza diretta (e di solito subita) della sopraffazione o la percezione dei rischi della devozione o della strumentalizzazione a farmi cauto. Rapporti improntati al rispetto, alla cautela alla concordanza verificata possono vivere solo negli interstizi e forse per brevi tempi. E sempre hanno addosso l’ombra proiettata dai rapporti “normali”. 17.4. 1978 17 Leggere Cologno 18 aprile 1978 È il giornale locale di DP. Una scrittura d’impronta localistica, lontana dai problemi che mi pongo. Me lo studio attentamente. Terribile. Raccoglie i luoghi comuni e le velleità residue di far politica nel cantuccio che resta “a sinistra del PCI”. Si accontenta di attizzare la polemica locale e tirare l’orecchio ai burocrati dei partiti di sinistra. 19.4.1978 Moro ucciso? I partiti hanno già pronta la campagna d’orientamento e d’intimidazione. Attenzione alle posizioni eccentriche di Moravia e Sciascia. Ma il grosso si svolgerà sui binari già ribaditi nelle ultime settimane. I fatti incalzano. I compagni di Cologno volatilizzati. Riunione con il MCE al Leonardo di Milano Prepariamo un’altra esercitazione interdisciplinare per imparare a distinguere linguaggio scientifico da linguaggio narrativo. Mi ricordo di quel saggio di Enzensberger sulla distinzione fra linguaggio dello storico e linguaggio del narratore. Letto sul Menabò (1964?). Simbolo e realtà Un buon esempio della facile confusione fra simbolo e realtà: un automobilista che, appena al semaforo spunta il verde, si precipitasse a partire senza assicurarsi che effettivamente gli altri rispettino la convenzione segnaletica. G. Ha un figlio chiuso a San Vittore. Va a trovarlo ogni domenica. Mi dice che il vicecomandante delle guardie ucciso dalle BR era «una carogna». Le cose, la storia vissute qui in basso non sono meno pesanti. TG1: Appello del papa, dichiarazioni della DC Vogliono soltanto persuaderci che sono i più forti e per questo sarebbero anche nel giusto. Sono sordi. Trasmettono anche un filmato: una cittadina sovietica che s’incatena al cancello di un’ambasciata straniera a Mosca. La figlia disperata urla contro i poliziotti che la portano via. Anche vissute solo attraverso Tv e giornali, le cose sono tremende. 23.4. 1978 Dal diario al racconto Il passaggio va costruito senza smorzare il rapporto con la fluidità del reale. Timore di imbalsamare il reale. Non è che col diario sono più addosso alla realtà. Con esso rendo in modi meno censurati il mio corpo a corpo con la realtà. Scrittura, forma e rapimento Moro Scrivo prevalentemente (e provvisoriamente?) in forma di appunti, di diario e di lettera ad amici. Spero di passare ad altre forme(poesia, narrazione) che adesso mi appaiono poco motivate o non posso permettermi per mancanza di tempo. Ipotesi di scrivere in forma narrativa e saggistica sul rapimento di Moro. È un modo di difendermi. La vicenda mi ha colpito molto e ne ho seguito quotidianamente lo svolgimento da radio, giornali e TV. Il tema potrebbe aiutarmi nella riflessione sul mio rapporto con la politica (modello che ho in mente: I cani del Sinai di Fortini). Il rapimento è avvenuto quasi a conclusione di un processo di deterioramento anche personale (spaccatura di Avanguardia Operaia e mia autoesclusione dalla militanza, rottura di legami di amicizia nella scuola e a Cologno; e c’è anche la coincidenza fra fine della mia militanza e l’operazione all’occhio sinistro per distacco di retina). Tento ora il recupero della mia precedente ricerca (poetica, artistica, letteraria). Mi ripeto: è autodifesa. (Da bambino e da malato mi mettevo tante coperte addosso). Ho sentito questo evento come l’inizio di un’aggressione dei potenti alla vita quotidiana. Il potere s’affaccia mostruoso come un King Kong alla mia finestra mentre sto alzando la tapparella. Penso alle perquisizioni in corso, ai posti di blocco visti sulla Palmanova o su Via Di Vittorio a Sesto, mentre andavo a scuola. Il rapimento di Moro è stato l’allarmante conferma di un bubbone (chiamato terrorismo). Nella nostra area politica, chi pensava che le BR potessero tanto? Contro tutte le tendenze esorcistiche, anche provenienti da voci autorevoli del movimento operaio, leggo il fatto come esplosione di una nostra malattia. Mi dico: non dobbiamo rinunciare ad una ricerca della verità, anche se dovesse rimanere isolata o clandestina. (Penso alla vicenda degli eretici conosciuta studiando Cantimori e Bainton). Parlando con Donato: rapimento Moro e Linda Panzeri Donato mi dà notizia che questa compagna di Cusano Milanino (aveva lavorato anche a qui a Cologno attorno al ’70) ha tentato il suicidio ed è in coma. L’avevo vista muoversi silenziosa e un po’ assente in mezzo alla folla di piazza Duomo durante la manifestazione indetta per il rapimento 18 di Moro. Donato sul rapimento ha scelto senza tentennamenti «l’opzione democratica» e parla di «diritto alla vita tutti». Io non riesco ad accettare l’ambiguità di questi discorsi. Ammetto di avere qualcosa in comune anche con i nemici di classe, ma non me la sento di affermare che «bisogna difendere la vita dell’operaio come quella del deputato (democristiano)». Arriva mio suocero. Michele ci racconta della manifestazione a Cologno per il 25 aprile. Donato: «E allora, hai chiesto la pensione alle BR? In questa situazione sono loro lo Stato…». Dai bersagli delle sue battute, quasi sempre Autonomia, ecc., afferro l’evoluzione in corso di Donato. Concede di aver imparato tanto in questi dieci anni di militanza extraparlamentare, ma il ricordo di quanto si è imparato sta diventando confuso. Misuro solo le distanze. Non ho rimedi. Villa reale di Monza: Mostra degli Alinari Dinanzi a queste nitide visioni di luoghi e cose e alle immagini di persone doppiamente immobili (nella fissità richiesta dalla tecnica di fine Ottocento, nel richiamo della morte che immancabilmente mi suscitano) viene da pensare ai nostri figli o nipoti o alla gente anonima che guarderanno forse qualche nostra foto. Al ritorno, quel volto di bimba che si affacciava al vetro rigato di pioggia dell’auto in attesa al semaforo davanti alla mia… Hinterland: una coppia Visita di A. e P. con le loro bambine. Rapporti distratti, di finzione fra loro due. Lei ha un amante. R. mi dice che la finzione prevale anche in quel che resta del loro collettivo di donne. P. continua a portar acqua al mulino del PSI locale. E quando hai maturato la coscienza dei cittadini – gli obietto – e il tuo compagno dirigente in Parlamento ti ribalta le scelte fatte? Anche I. e A. si separano. Hinterland: un dirigente locale del PCI Diffidente, viscido, solido nella sua miseria di burocrate. Davanti ai calcinacci caduti «per la bomba» messa di notte alla cooperativa Rinascita non escludeva che potesse essere stato qualcuno di noi. Gita al rifugio Alpi Corte, Val Canale, Bergamo, m. 1400 Il nostro corpo è fottuto. A salire su una montagna, in mezzo alla neve, il cuore batte forte, troppo forte. Dobbiamo reggerci a vicenda, ridendo della nostra inabilità. I bambini filano avanti fino a scomparire alla vista. E chi ha avuto tempo di guardare le montagne, gli abeti, la neve! I miei occhi non sopportano. La neve s’è infiltrata nelle scarpe. Non avevamo neppure gli abiti adatti. Spendiamo 61mila lire per polenta, vino, un piatto di brasato, un caffè e una fettina di torta. Ci mostriamo il conto fingendo ironia. Alla fine R vomita. Preparo camomilla e tre bicchieri di tè. Con un masochismo da brivido, assaggiamo le gioie da week end dell’infima piccola borghesia. Eppure i bambini si divertono. Si divertono? «Si calandrano» Calandrare, lavorare alla calandra metalli, materie plastiche, tessuti. Calandra, macchina formata da una serie di rulli per la laminazione di metalli e di materie plastiche e per la lisciatura dei tessuti e della carta. Quando il mondo si schiaccia In che merdume ci stiamo risvegliando. Via corazze ideologiche, aloni protettivi di organizzazioni, nervoso rincorrersi di riunioni, incontri, colloqui, allarmi. Ci guardiamo i volti. Fisicamente stanchi, deteriorati. Un incidente minimo, la rottura improvvisa della routine (e della disciplina che ci siamo costruiti per evitarne l’angoscia) e si scorge la falla. Oggi, quando si rompeva lo specchietto retrovisore proprio mentre si andava in autostrada per la gita con gli amici. Pensieri scuri subito. E ieri, a Monza, a quello stop che non avevo visto. Ero già pronto ad aggredire il tizio che aveva completamente ragione. Quando vado a Monza, che sento città borghese, sono più rozzo e in difesa del solito. Mi lascio trascinare in una gita con amici che rincontrerò forse fra molti mesi e di cui conosco vicende amare di cui non possiamo parlare. A fine mese ci ritroveremo come al solito con pochi o senza soldi. I nostri cervelli marceranno ancora più a vuoto. Figli, moglie. Altri limiti. Con dolore m’accorgo della gabbia: loro (i miei due figli) sono nella mia gabbia, io sono entrato in quella dove viveva R e la sua famiglia. Il mondo si schiacciava per me già allora, quando mi ero licenziato con un colpo di testa dall’impiego al Comune di Milano. Fragile disoccupato senza agganci. Paragonarmi a quelli che mi stanno attorno? Ritrovarmi ora appena più fortunato, o più scettico, o più indurito? Milligrammi di diversità da loro. Non mi tiro fuori da una condizione che sento cupa, spappolata. Banalità degli incidenti. Svelamento. Basta muoversi appena per alcuni chilometri in più del solito e il mondo mi rinfaccia la mia inesperienza di turista, di automobilista, la staticità della mia condizione e la complessità ignota del mondo attorno. 19 Augusto fa l’impiegato ed è andato persino in Messico. 25.4.1978 Sogno Io e Donato entravamo in un locale. C’erano vecchi dirigenti di Avanguardia Operaia. Avevano un’aria derisoria e sorniona verso di noi, che eravamo andati là per contribuire ad una sottoscrizione. 26.4.1978 Pensieri labili «Erano in cinquantamila in piazza Duomo. Questa democrazia non è bella, ma resiste. Io non voglio vedere i miei libri bruciati come in Cile».È il ragionamento che corre. Non riesco a rassegnarmi alla democrazia o a questa democrazia? Perché in essa mi sento un clandestino? Personaggio Un personaggio, autobiografico o meno, è una delimitazione. Se volessi inseguire il flusso reale dei pensieri, delle azioni l’idea del personaggio salterebbe. Nell’appartamento accanto al suo abitava il barista. Aveva due auto, due box, il bar, la casa di proprietà. Correva voce che facesse un po’ di contrabbando. In un isolato basso, accanto al condominio, c’era un meccanico. L’edificio era a due piani. Sopra un appartamento con molti locali. Ci abitava con moglie e figli adulti. Sotto aveva l’autorimessa, la verniciatura e l’officina per le riparazioni. Usciva sempre con una moto di grossa cilindrata. Cercava di vedersi dentro la città e confrontare la sua condizione di vita con quella poco indagata degli altri. Sì, lui aveva la cultura, una professione, anche se poco redditizia e sminuita. In una città di periferia di 60mila abitanti con un forte tasso di analfabetismo, pochi avevano tanti libri e i libri presenti poi nella sua biblioteca. La Biblioteca civica, allora appena agli inizi, ne aveva un numero appena superiore. E pochi la frequentavano. Era compiaciuto di quei libri. Si sforzava di leggerli. Indicavano l’appartenenza ad un mondo che contrastava con quello della periferia. Non c’erano quasi libri nelle case degli operai che conosceva. Girando per le strade di Milano trafficate e rumorose, se ci s’intrufola – per curiosità, per qualche occasione straordinaria – nell’atrio di certi portoni signorili o di qualche edificio pubblico, può capitare di vedere giardini con alberi secolari. Questi luoghi conducono un’esistenza appartata, meno mutevole di quella del mondo circostante fatto di bar, panetterie, grandi magazzini, banche in quasi perenne ristrutturazione. Forse la sua biblioteca era una di queste schegge attorniata da un mondo estraneo e indifferente al senso che quei libri conservavano. Ma solo per chi li avesse letti. Il personaggio in questione si era costruito attraverso un complicato processo. Poteva servire delineare le tappe di quella formazione? Visto che doveva farlo lui, c’erano un po’ di incertezze fra personaggio e autore. L’autore non si sentiva ancora di staccarsi dal flusso in corso delle vicende, che pure erano diventate meno convulse e attraenti. Faticava a lavorare al suo personaggio, delimitarlo, dirgli quel che aveva fatto e non poteva più fare. Incertezza. Gli avvenimenti potevano di nuovo impedire quel lavoro di coppia fra personaggio e autore. Bastava un nonnulla perché l’autore fosse preso da altre faccende – il lavoro per campare, le incombenze quotidiane, qualche malattia – e piantasse in asso il personaggio. Il quale poi era abbastanza permaloso e esigente. Aveva in mente ancora le idee del mondo scomparso a cui aveva partecipato e non se ne voleva sbarazzare. Voleva una sua morale. L’autore era più scettico. Le idee le voleva aggirare o comprimere. Non mi far scrivere un trattato di politica – ribatteva al personaggio che se la rimenava con Marx, Lenin e tanti altri. E sulla morale non voleva far brutta figura con i suoi contemporanei. Per favore non ti posso presentare col ceffo arcigno di un Savonarola. E poi c’erano le intromissioni dell’inconscio. Bisognava tenerne conto, suggeriva l’autore. Quanto al linguaggio, vabbé, tira pure fuori alla rinfusa le cose che ti passano per la mente, come le ricordi, mostrami anche gli appunti che hai preso mentre rotolavi nel gorgo dei fatti. Ma poi fammi lavorare, ripulire, sistemare il tutto. Non puoi fare il rozzo, il sincero, lo schematico. L’autore mentre cercava di narrare quel passato – che era stato certo del personaggio, ma un po’ aveva toccato anche lui – e di rincollare quelle schegge era continuamente interrotto, perché continuava a vivere. Purtroppo? Troppo vicino e complice del personaggio? L’ansia del presente si rubava l’autore e lo stordiva, con altri avvenimenti, di fronte ai quali quelli che il personaggio aveva vissuto e voleva a tutti i costi far raccontare all’autore parevano ben misera cosa. 20 R Sulla poltrona. Volto ovale, pallido. Le lancio un dischetto di plastica. L’afferra. Me lo rilancia. Eccola! Guardala. È pronta al gioco d’amore. Roberto Cerasoli Rivedo Cerasoli, uno dei primi quadri della nascente Avanguardia Operaia esterni che vennero da Milano a dare una mano all’appena fondato Gruppo operai e studenti di Cologno. Teneva seminari su Marx e riunioni con gli operai delle piccole fabbriche. È invecchiato. Ha fatto un viaggio a Cuba ed è in Villa Casati per commentare le diapositive che ha scattato. Lo trovo ancor più approssimativo di un tempo, ma ancora simpatico. Le diapositive sono troppe. I temi sono quelli: il partito, l’attività che svolge in mezzo alle masse. Abbondano foto di manifestazioni, di studenti in divisa e immagini troppo convenzionali della vita urbana e agricola. I compagni lo incalzano con domande scettiche: la condizione dei dissidenti, le scelte militari di Cuba in Africa. Cerasoli risponde da neofita. È innamorato di quel «popolo meraviglioso». Ne diffido. Penso alle letture ben più severe e critiche di Fortini e della Masi sulla Cina maoista. E poi sono ostile al turismo politico. Sarà perché sono un sedentario. Tuffo a Milano, il mio “estero” agli inizi degli anni ’60 e poi stop. Neppure i soliti viaggi che tutti i compagni facevano in Spagna, in Jugoslavia. Sono convinto che l’evasione dalla routine quotidiana che accompagna un qualsiasi viaggio comporti una deformazione non facile da controllare: fa trovare quello che si vede altrove più interessante e la gente più gentile o interessante o simpatica. Certo il nostro socialismo non può essere quello – ammette Roberto verso la fine della serata, dopo aver ricordato lui stesso certi aspetti della vita di Cuba: il contrabbando legato al turismo, i cubani che a fine settimana vanno in giro per alberghi perché non hanno altri modi per spendere i loro soldi, la crescente voglia di consumi. scoppiano momenti di crisi, chiamano noi. Contano sulla nostra capacità di ascoltare i loro sfoghi e incensano la franchezza dei giudizi miei e di R. Ci sento la sottile idealizzazione che i “borghesi”, alle prese con situazioni complesse e nevrotizzanti e costretti a comportamenti calcolati e cinici, fanno dei “proletari”, presentandoli o vivendoli come “semplici e schietti”. È una strumentalizzazione che sopporto malvolentieri: spesso, superato il momento critico, questi “amici” non si fanno più sentire per lunghi periodi (fino alla successiva crisi) e quasi mai ti restituiscono in qualche forma l’attenzione che tu gli hai offerto. La tua situazione, che deve apparirgli in fondo troppo “elementare” non li incuriosisce davvero. [Ho notato questo “stile” anche in altri: PDG ad es.] Non una scrittura qualsiasi Per noi che in questi ultimi anni siamo stati dei militanti politici, la scrittura (il ritornare a praticarla) non può essere copertura, finzione, gioco e basta. Se scrivere aiuta a chiarire il problema che stiamo confusamente vivendo (la crisi del nostro ruolo in mezzo agli altri), si giustifica. Se no, bisogna smettere di scrivere e affrontare apertamente, in altri modi, il problema. Non scrivere come ripiego per non affrontarlo. Dopo anni di militanza, non possiamo tornare insegnanti qualsiasi, così non possiamo tornare a scrivere in una maniera qualsiasi o praticare la scrittura nei modi totalizzanti dell’adolescenza. Giudico Fortini uno scrittore forte proprio perché lascia trasparire attraverso la sua scrittura una scelta di fondo (etico-politica nel suo caso) che impregna, dirige e corregge la sua intera attività di scrittore. 28.4.1978 Nuccia Pelazza «Quel nuovo insegnante ha toccato il seno a due ragazze. È successo un puttanaio. Ne abbiamo discusso pubblicamente e Filippo [Bozzuto, Itis Sesto S. Giovanni] se n’è uscito dicendo che sono loro, le ragazze, che provocano. Apriti cielo!» S. Che situazione alla Dostoewskij. Sembra impossibile che vivano un lungo periodo di calma. Adesso il dramma ruota attorno al fratello. Ancora alcolismo. Rispetto a loro la situazione qui in periferia appare “pulita”, come diceva Enrico Profumo, dopo aver conosciuto da vicino miserie e intrighi del gruppo dirigente milanese di Avanguardia Operaia. Fastidio e scetticismo per questi elogi dei compagni di periferia. Anche S. e F., quando Ogni tanto questi problemi, che restano sempre nelle pieghe delle nostre parole (e nel sottofondo dei nostri sguardi sugli altri, sulle altre) affiorano. Ma sono insolubili. Si affacciano e subito vengono messi a tacere. Anche quando se ne discute, l’armamentario di concetti a disposizione dei “tradizionalisti” e degli “innovatori” è così prefissato, banale o astratto che - dopo le scaramucce – non si va oltre. O condanna scandalizzata o complicità sotterranea col senso comune. 21 Le studentesse in un Itis sono poche, gli insegnanti molto depressi, gli studenti sono frenati dalle famiglie che però ne ignorano le pulsioni profonde. Altrove, nei licei, le cose stanno diversamente? 29.4.1978 Suicidio: Linda Panzeri Arriva la conferma del suicidio. Pochi i dubbi. Pezzi di noi si staccano e scompaiono definitivamente. Sussurriamo malinconicamente qualche commento prima della nostra striminzita riunione (io, Donato, R e Titina). «Pare che fosse stata già ricoverata». «E chi s’era accorto del suo dolore? I compagni della Candy sono pieni di rimorsi: stare insieme in tanti anni di riunioni e non capire nulla…». Recuperando il numero da una vecchia agenda, telefono alla Tiziana di Cormano: «È stata una cosa inaspettata. Viveva con Walter e Daniela. Se l’ha fatto davvero, deve essere stata inconsapevole. Cinque minuti prima aveva chiesto il medico». Adulti e giovani. G. Durante un intervallo a scuola si confida sul giovane (19 anni) che ha sotto tutela. Non lavora, non ha la patente, ma s’è comprato l’auto e continua a chiedergli soldi. È in dubbio. Continuare a mostrarsi tollerante o fare il muso duro? Ma se non c’è scambio, contrapporsi permette almeno che un giovane s’accorga di noi. Penso che valga anche per gli studenti. Non sarà decisivo, perché la loro formazione dipende da tante cose. Ma forse rimarrà nella loro esperienza la traccia di un adulto diverso, che gli chiedeva alcune cose precise e non faceva parte del mucchio dei prof. Penso a D., che in modo squallido e sfacciato ogni sabato si assenta da scuola per seguire le sue attività di architetto intrallazzato con i socialisti. Compagni, colognosità A. e P. non si fanno più vedere alle riunioni dopo che gli ho detto cosa pensavo della loro pressante e indefinita richiesta di studiare “tutto Marx”. M., M. e T. saltano la prevista riunione e, incontrati per strada, neppure vi accennano. Sono questi i modi in cui si prendono le decisioni. Senza neppure dirle. Del resto, anche quando facevamo Avanguardia operaia, notavo (più distrattamente però…) lo stillicidio di questi abbandoni senza alcuna spiegazioni. Ed erano, sono proprio scelte. Non credo che debba dimostrargli di essere “più umano” (comprensivo, insistente, desideroso di capire le loro ragioni). Li ho già fatti certi vani “pellegrinaggi” casa per casa per tentare di evitare l’allora imminente spaccatura di Avanguardia Operaia anche a Cologno. Ogni proposta di discussione viene sfuggita: o per timore di dover fare qualche spiacevole passo indietro o perché già si è decisi a marciare in altro modo. POETERIE Milano, Corea a Danilo Montaldi qui mutoli stemmo i corpi sfibrati di fatica le sopraccoperte a fiorami delle brande le collezioni di tiepide bamboline in credenze vetrate la sterpaglia/ i cantieri guardammo prigionieri che il vuoto d’aria attorno all'improvviso restringersi del mondo spengono occhi cuori e voleri. o nuotatori sprofondanti nella muscolatura serrata che trattengono in un unico spasimo persino l'azzurro respirato dai loro padri CANTIERI Mentre accumulo appunti nella mia stanza solitario di fronte a me, imponente altri hanno elevato un palazzaccio. M’accorgo trasalendo quanto cemento d'oggi, dimensioni d'oggi l'enorme quinta ha sigillato il rettangolo di mutevole cielo della mia finestra e come due ore quasi prima sottrae alla vista il sole i casermoni ingentili dall'uso un prato che pur fioriva a primavera la sua tenace esistenza e la visione di battaglieri nugoli di bimbi in movimento impavido fra stagioni di luci e nebbie. Undici piani. Lavoro a un centinaio di muratori e tecnici. Appartamenti per famiglie, seicento. Profitti per la cooperativa che mai la coscienza illuminerà. Per quasi due anni il braccio della gru ha ruotato lento seminando carichi, un altoparlante ha distribuito annunci 22 la sirena centinaia di intervalli. Una vicina di vicolo Adda E ho visto spesso i muratori entrare e uscire lentamente o di corsa fantocci cari a Breughel accanto ai fuochi mattutini venutimi davanti vivi al bar, dal panettiere contemporanei, non più fotografabili o televisive sagome sui ponteggi affacciarsi a gruppi, guidare i moti della carrucola e scomparire nelle cornici spoglie in spazi d'altra luce. E dai bimbi ho saputo la leggenda dei cani da guardia di notte ululanti: una cagna ha figliato, poi è morta e il cane nero l'ha vegliata a lungo. se dall’involucro a motore noto il traballio delle sue gambe (una volta cadde e poi dopo giorni ricadde e mai si capì dove fosse fragile per dimenticarsi dei gradini, dei marciapiedi e perché così facilmente si distraesse dal mondo col quale s’intratteneva ad alta voce, urlando - perché da tutti inascoltata? perché tutta palese fosse la disperata voglia di comandarlo? -) e la vedo avanzare fra le pozzanghere del vicolo (impregnatosi delle loro storie malate quanto e più della mia di professore precipitato ad osservare il mondo rasoterra) cauto mi faccio col manubrio cauto deposito la mia domanda sul freno e sento dolente lo stridore del mio intelletto contro il suo sguardo sfuggente, stanco in apparenza poco ostile Fra breve gli appartamenti pronti. tratterranno parte della vita normalmente orrenda di seicento famiglie, che hanno risparmiato e litigato per risparmiare. Anche i miei appunti stesi nell' ombra incombente del palazzaccio tratterranno parte della mia vita normalmente orrenda di questi due anni e l' interrogazionesu quella a noi tutti mancante. Periferici Si fecero piccoli, per farsi sentire. Passarono inosservati. Neppure i supposti piccoli s’accorsero di loro. Era di moda la grandezza. Il sociale S’ormeggiano nel mio portafoglio sonnecchiano nel mio portafoglio le tessere che mi rendono sociale. Lana Luigi Il vecchietto presidente dell’ anpi locale che mi giunge trafelato e preoccupato (ha battuto il ginocchio per strada) e mi dice del suo diario partigiano delle pergamene costate tanto dei giovani presto stufati di far storia orale agli anziani pensionati e quasi m’implora di depositare presto in qualche carta la sua memoria in disfacimento. Storia di colognom la ragnatela di storia che ho sognato era un rettangolo fitto di contorti filamenti un archivio di poveri eventi e di rozzi o amari commenti l’avevo stesa fra uno scaffale ed un altro nella civica di colognom e pregavo un pubblico deambulante e sovrappensiero che di certo l’avrebbe disfatta di passarvi sotto abbassandosi un poco cautamente come si faceva da bambini fra le lenzuola stese da mia madre sul terrazzo qui a stento/ come intruso sfuggito a tecnologiche pulizie m’ospitano in un angolo/ me e la mia tela e non vogliono quasi che la mostri ragno / incaricato a tempo perso di tessere ancora / ammesso che gli riesca una storia che a nessuno più interessa e / se tanto insistessi/ di narrare pure assieme ad essa il mio sminuito io sapeste che lavoro ho fatto in quel lenzuolo della città futura disfatta 23 che li attrae. mettetevi qui allora/ controluce ammiratene la tessitura da lì /al buio/ mai vedreste/ insistevo il mio invisibile lavoro compare solo ad una certa/ amichevole disposizione del bel sole di primavera che ecco ora viene dal rettangolo gemello della finestra e ve lo svela APPUNTI PER UN FILM SU COLOGNOM Giro del 14 giu. 2002: da Vicolo Adda a Piazza XI Febbraio 1. Parco di via Dalla Chiesa. Una signora anziana, un albero (nome?) dal tronco storto. L’anziana affaticata sudata signora dal volto devastato che subito ci ricorda vedendo Nazareno che monta il cavalletto: ah, mio marito quanto ci ha lavorato con quelli di legno. È in panchina, seduta ora sguardo sperso nel passato o sul prato? (dove l’albero che non sappiamo nominare incurva il suo splendido tronco) Nel frattempo al presente: la ragazza col cane al guinzaglio e altri abbaianti botoli incalzano… 2. Metropolitana Cologno centro. Uscita pendolari. Giovani neri venditori di borsette e CD-Rom. Una volta venivano fuori così dalle fabbriche. Una volta, i venditori delle cosiddette cianfrusaglie (no?) erano qui meridionali o veneti poveri. Vi filmiamo, eh, nulla in contrario? Da quale mondo lento con quale sguardo da villaggio africano ci risponde pacato e indifferente. Stanno fra di loro calmi e diligenti estranei alle nostre cose veloci - senza nomi loro, senza nomi noi per loro. Forse vecchi ronzanti mosconi culturali noi. Eppure i giovani si fermano, contrattano. Nulla sai tu della merce CD (cianfrusaglie, no?) 3. Metropolitana Cologno centro. Interno. Uscita di pendolari dalle scale della stazione. Scendono scappano. Afferra gli sguardi i moti meccanici della porta che sbatte all’inizio del flusso, alla fine. Di trenta, quaranta, uno ne conosci e ti fermi a parlare. Una pausa nell’intrico del bosco. 4. Parco dietro il cimitero vecchio di Cologno centro. Giovani pattinatori che fanno lo scivolo sulla rampa. Due lusingati dai loro corpi atletici intimiditi gli altri acquattati uccelli, rapaci a riposo, in alto sul terrazzino immobili. Beh, tu che sei stato prof sai come prenderli. La vigoria dei puledri. La nostra stanchezza intelligente ma a rischio di ridicolo. Ehi, minchioni! Poi si rivedono volteggianti figurine sul piccolo schermo della cinepresa. La mettiamo sul tecnico nel rapporto stroncato di due generazioni che si scivolano accanto: Ah, la glisse! 5. Via Piave. Negozio arabo di macelleria e rosticceria. La frase del Corano, la raccolta di fondi per i Palestinesi. L’arghilé decora il negozio sperduto fra merci come in tutti gli altri. Il giovane padrone è cordialmente diffidente: si capisce dall’infittirsi del suo dialogo in arabo con gli altri. Traduce un giovane albanese: Sì, ci vengo anch’io qui si mangia bene si spende poco. 6. Via Piave. Negozio dell’elettricista Nava. Il Paolo Nava è morto già da cinque anni. Non pensavo che il figlio si commovesse tanto al ricordo. 24 Il negozio ha un ordine polveroso e scolorito. Hanno rifiutato di apparire aggiornati. Si sono fermati al latino o al dialetto del commercio. I cimeli storici sono quelli del boom anni ’50-‘60 quando si lavorava in fretta: questi i fili, questo il tubo eroso dal metano che fra non molto si sarebbe disperso nei muri… 7. Piazza XI febbraio. Panchine con giovani e anziane donne. Prenditi questa immagine casta di piazzetta paesana accerchiata da negozi del terziario, occhio stanco e vecchio poco televisivo. Guardati le due giovani sulle panchine di pietra rosata. Guardati le vecchiette che restano imperturbabili ma con cipiglio di rimprovero. Cosa vogliono ‘sti due che ci filmano di soppiatto? 8. Corte di Piazza XI Febbraio. Laboratorio odontotecnico. Tutto sul bancone – elencherai poi nominerai poi ogni oggetto: dal televisore sempre acceso - lavorando dà uno sguardo ai mondiali (il ciabattino di Porta Rotese ascoltava, allo stesso modo di Coppi alla radio) alla foto di famiglia – un bimbo che conosco, un gruppo che s’è messo in posa chissà quando, con imbarazzo ai gatti stupefatti dalla nostra irruzione. 9. Corte di Piazza XI Febbraio. Laboratorio della vecchia selleria e valigeria. Quando c’erano i campi e c’erano i cavalli e c’erano i collari, le briglie. Ora non ci sono più, se non al maneggio lì, sulla strada per Cernusco. Ma gli strumenti del sellaio stanno ora in fila sul bancone e il discendente (foto del nonno morto nel ’40) si presta ad una dimostrazione d’efficacia. Ah, il lavoro com’è cambiato! E quanta passione in esso s’è sprecata. L’ingiustizia non si mostra Nella tecnica affiora sublime l’ignoranza del tempo perduto. Sul sindaco decappottabile e altre cosucce locali. Lettera a Michele di "Cologno Città solidale", fine dic. 2001 Caro Michele, rispondo subito al tuo "L'altro appello", sperando come sempre nel valore della critica sincera. 1. No, non credo proprio che «si debba e possa partire» dall'appello pre-elettorale del 18 dic. '98, che tu accludi alla tua ultima lettera. Quell'appello è la prova che anche "Cologno città solidale" - proponendo in sostanza di promuovere Milan ad «altre istituzioni più adeguate e importanti alla prima occasione possibile» e Vittorio Beretta alla carica di sindaco - stava allo stesso gioco politico e finiva nella trappola della ricerca del personaggio "buono" o "meno peggio" all'interno di un ceto politico, che con gli anni è diventato "pessimo" (ostile cioè agli interessi dei lavoratori) e "ottimo" invece per far parte della «nuova classe politica dirigente nazionale ed europea». Milan di questa "nuova classe" faceva parte in pectore già dal primo mandato e ora è con essa pienamente integrato. Beretta no. I diessini neppure. I rifondatori neppure. Voi di "Cologno città solidale" neppure. Ma tutti - accettando il giochino per cui Milan malgrado ex-democristiano e manager - era "sempre meglio" di uno "di destra", di Forza Italia l'avete o appoggiato (diessini) o subìto (rifondatori) o tentato di "condizionare" (voi: prima con la vostra proposta "Milan in parlamento (o giù di lì) e Beretta sindaco" e poi con l'inutile tallonamento della coppia Milan-Madella16, risultata vincente alle ultime elezioni, per ottenere il riconoscimento e il finanziamento della cooperativa equo-solidale nella palazzina di Via Milano17). 2. Ora che Milan sembra avviarsi ad essere davvero Milan (Il Milan non è forse di Berlusconi?!) e a dare il benservito all'Inter ("di sinistra"?), si deve non solo constatare - come tu fai - il «fallimento politico del Centro-sinistra-Sinistra» (e non solo a 16 Madella è stato vicesindaco diessino nella precedente giunta di centro-sinistra guidata da Milan. 17 Quella dove avrebbe dovuto sorgere la Casa della Cultura o Casa dei giovani (Cfr. pag.27). 25 Cologno), ma anche la vostra subordinazione al personaggio e al mondo politico dell' "azienda Italia» che egli rappresenta. Ve la sentite ora di affrontare la fatica di staccarvi intellettualmente, emotivamente e praticamente dalla deriva o agonia della cosiddetta "sinistra" e dal trasformismo dei vincenti, che essa ha appoggiato? È da anni che questo compito viene eluso. E non solo dai diessini "indipendenti" o dai rifondatori "oppositori" (istituzionalizzati), ma anche - scusa la durezza - da "Cologno città solidale". Tu parli (con troppa enfasi, secondo me) del movimento "un altro modo è possibile, costruiamolo insieme" , che andrebbe appoggiato, ma anche criticato per i molti paraocchi che non si vuol togliere. Sicuramente è una piccola speranza, ma piccola e io la accolgo per quel che converge con la mia prospettiva esodante. Ma se "Cologno città solidale" voleva essere portavoce su questo territorio di questo movimento in gestazione, essa per tre anni ha sprecato vanamente quasi tutte le sue energie dietro questa Giunta di Centro-sinistra, proprio come hanno fatto diessini e rifondatori. Fai l'esempio di padre Alex Zanotelli. Beh, non mi pare che pratichi il pedinamento dei governanti nazionali o locali, come avete fatto voi in questi tre anni. Lui l'esodo mi pare che lo sta facendo sul serio. E allora perché non partite dalle nascoste Nairobi di Cologno Monzese, invece di bazzicare sempre attorno a villa Casati? P.s. Ti accludo, a mo' di documentazione di un'alternativa costretta al silenzio o alla clandestinità: 1. una lettera a Roberto Grossi del 1999, indicativa del mio atteggiamento di apertura verso la vostra proposta ma di critica delle ambiguità che la caratterizzava e che hanno influito nel vostro rapporto con la Giunta; 2. l'ipotesi di lettera aperta per un'iniziativa chiarificatrice sulla Casa della Cultura da me stilata, purtroppo bocciata dai membri di Ipsilon. 1. Lettera a Roberto Grossi del 25 giu. 1999 Caro Roberto, eliminiamo subito un equivoco: non disprezzo l’elemento commerciale né quello istituzionale e non disdegnerei neppure eventuali finanziamenti europei. Chiedo di far luce e di gestire senza superficialità l’ambiguità del rapporto che si stabilisce su questi piani con individui o gruppi sociali che mettono al primo posto il guadagno, il potere, la finanza così com’è. Non credo alla costruzione di «spazi liberati e visibili», ma ad un processo di lotta entro gli spazi esistenti siano essi istituzionali o sedicenti “alternativi”. In tal senso il Leoncavallo può anche far credere di costituire già adesso uno spazio “liberato” e pubblicizzarsi in quanto tale, ma, se ci credesse sul serio, s’illuderebbe e illuderebbe. Esso per me vale quanto uno che lotta in un consiglio comunale o in una scuola. Lo misuro dagli effetti, non dalle intenzioni. L’ideologizzazione della (l’autoinganno sulla) propria azione di lotta è una trappola che gli anarco-libertari (e forse tutti gli “innovatori” o “rivoluzionari”) evitano con difficoltà. Meglio riconoscere l’ambiguità costante di tutti i processi di liberazione. Meglio non fissare «i confini» una volta per tutta, ma volta per volta, ricorrendo al massimo di analisi concreta della situazione in cui operiamo e misurando appena possibile la distanza fra valori (principi, intenzioni, desideri) professati e pratica possibile o realizzata. In tal senso, nel vostro documento, mi è parso che lo scarto fra idee generali («condizione alienata dell’uomo contemporaneo», ecc.) e questione spicciola, locale, concreta non sia stato tenuto sotto controllo; e che, dunque, i valori risultano generici e vaghi e la pratica proposta del tutto convenzionale e subordinata al senso comune corrente di amministratori e ceto politico arruffone di Cologno. Quanto alla cultura, a Ipsilon e al minoritarismo bisogna intendersi. Mi pare che tu a volte parli in modo generico di «far circolare cultura» (senza specificarla, per cui si può pensare che tutto vada bene per Cologno, tanto la situazione è “incolta”). Altre volte svaluti il tentativo di far cultura critica tentato da Ipsilon, perché non ha «aggregato» o non è stato «capace di spostare culturalmente l’opinione dei colognesi» (da qui l’accusa di «crogiolarsi nel minoritarismo» invece di capire che fare critica (un “fare” essenziale e non un “lusso” o un “optional”) oggi è necessariamente funzione di minoranze o addirittura di individui solitari). Altre volte polemizzi contro la «cultura aulica» le librerie-salotti o i caffe letterari (trascurando quanto condizionino i modi di essere, gli stili e gli stessi consumi librari!). Altre volte ancora sembri proporre – come ho fatto notare nella precedente lettera – una «Cultura del terzo settore o del non 26 profit» come nuova via da imboccare per uscire da questi vicoli ciechi. In concreto nella palazzina della cultura di via Milano quale cultura deve essere incoraggiata? Tu dici «la cultura come strumento e pratica quotidiana per comprendere e trasformare la realtà», che è una formula nobile, ma indefinita e illusoria (non è la cultura che trasforma di per sé la realtà; spesso accompagna in ritardo le trasformazioni, altre volte ne è il termometro). E quella di Ipsilon, malgrado il minoritarismo, dovrebbe rientrare o no nella palazzina? Secondo i canoni correnti no, perché non ha «aggregato» , ecc. L’unica che mi pare rientrarvi a pieno titolo – e non lo dico con astio o vittimismo da escluso – sembra proprio essere quella che ho chiamato del non profit e del commercio equo-solidale, tant’è vero che tutto il progetto è ad essa improntato. Qui “dogmatico” e paraleninista sembri essere proprio tu. Io ritengo (e non sono il solo) che questa cultura del Terzo settore e del non profit sia «una nebulosa che andrebbe indagata e non divulgata in quanto “nebulosa». Quindi parliamone, analizziamo, vediamo i chiari e gli scuri delle esperienze in corso. Tu invece fai l’apologia del commercio equosolidale «che rappresenta a tutt’oggi l’unica rete mondiale di lotta allo sfruttamento dell’uomo e della natura» (come se essere gli unici volesse dire di per sé che si è imboccata la via giusta...); vanti interlocutori di prestigio come i Sem terra e i contadini del Chiapas (ai quali m’inchino, ma per chiedermi subito dopo come faccio qui a smuovere «la gente, la moltitudine, i proletari [che] sono con Clinton e con il suo modello di società»,); mi parli del non profit come di «un tentativo di ribaltare la voglia di denaro e di utili che ci ha pervaso» (mentre io t’inviterei ad andarci cauto, perché voglia di denaro e di utili “etici” si annidano anche in quest’area). 2. Bozza documento di Ipsilon del 21 ottobre 1999 CASA DELLA CULTURA? GIOVANI? UNA PROPOSTA18 Lettera Ipsilon aperta CASA dell’Associazione DEI culturale A tutte le associazioni culturali di Cologno. 18 Il documento è già uscito, in altro contesto, nel N.2 di SAMIZDATO COLOGNOM del sett.2000 Finalmente l’edificio che dovrebbe ospitare la tanto attesa Casa della cultura è pronto. Ma sarà davvero Casa della cultura, magari tradizionale ma ben caratterizzata? E si può essere soddisfatti del metodo con cui la si è pensata, progettata e messa in cantiere? I dubbi sono tanti. E li accresce la discutibile trasparenza, con cui l’Assessorato alla Cultura, assieme ad alcuni fidi (e ben pagati) esperti, coordinati – chissà perché – da uno psichiatra, il dott. Cirlà, ha preparato il progetto, che sta trapelando a bocconi e all’ultimo momento, quando cioè la disposizione degli spazi, le attrezzature e la gestione delle attività previste nell’edificio ristrutturato di via Milano “sembrano”già cosa fatta. A quanto si sa dai «si dice» e «pare che» di corridoio, esso prevede al piano terra una libreria, un bar-sala riunione, una sala multimediale con videogiochi e postazioni per Internet da far gestite ad una costituenda cooperativa. Il primo piano verrebbe rioccupato da Eta-Beta, l’ufficio comunale informagiovani; e il secondo andrebbe alle (o ad alcune?) associazioni culturali. Salta immediatamente all’occhio che, invece di una Casa della cultura pare venga fuori una sorta di Casa dei giovani, per cui disomogenee esigenze commerciali, di svago e intrattenimento giovanile, di associazionismo, di servizio pubblico settoriale verranno ammucchiate in un medesimo luogo. Il progetto ci pare criticabile per molti aspetti. Ad esempio: è appropriata la palazzina di via Milano per le diverse esigenze che vi dovrebbero convivere? quanto si conciliano gli spazi chiusi di una palazzina con alcune delle attività e l’afflusso del prevedibile pubblico? e i giovani (quali? in quanti?), abituati a scorazzare in spazi aperti, davvero hanno voglia di recludersi in minisalette? e dov’è l’integrazione fra le funzioni della casa della cultura e quelle di altre istituzioni affini (scuola, biblioteca civica, ecc.) per evitare doppioni e sovrapposizioni)? e si è pensato davvero agli “altri”, quelli che isolati o in difficoltà si escludono o vengono esclusi dalla vita culturale? Si potrebbe continuare. Ma «quale cultura serve oggi a Cologno?» resta la domanda di fondo e prioritaria e la risposta praticata di fatto (e da tempo) e per vie burocratiche dall’Assessorato ci sembra preoccupante, anche se alla moda. Infatti, per assessore ed esperti, una certa cultura quella critica, fondata sulla ricerca, attenta a una mediazione non al ribasso con i bisogni sociali, che non si riduca a fare da cinghia di trasmissione alla cultura-merce (sia essa pessima o abilmente preconfezionata) – va seppellita senza tante 27 cerimonie o messa in qualche loculo (magari ai piani alti, insomma, o in soffitta, che è tutto dire!). Quella che va incoraggiata, sostenuta economicamente e politicamente, anche qui a Cologno, dovrebbe essere la cultura “giovanilistica” dell’intrattenimento, dello svago, dello snobismo di massa. Quindi, alè con il videogiochismo o le ludoteche per giovanotti “barbari”, con i caffè letterari per periferici, con la Internet-mania! È “culturale” incentivare queste tendenze? A noi tutto ciò pare una americanizzazione da provinciali che va contrastata. Come va contrastato il corollario economico ferreo che ne è alla base: siccome si deve spendere il meno possibile, appaltiamo ad una volenterosa cooperativa la gestione di una parte o dell’intera palazzina. Così si incentiva irresponsabilmente la solita gara fra imprenditori (più o meno) no profit e ricomincia la tombola della lottizzazione interpartitica per designare le «forze sane» che si sbraneranno nella costituenda cooperativa! E le associazioni culturali? Restino nel loro brodo o sgomitino per spartirsi l’ultima fettina della misera torta: il secondo piano della palazzina. (Per farne cosa, visto che molte di loro hanno già sedi proprie o concesse dal Comune e spesso inutilizzate?). La nostra associazione si appella a tutte le altre associazioni culturali di Cologno. Promuoviamo un confronto pubblico su quale idea di cultura debba oggi “abitare” nella palazzina ristrutturata di via Milano. Le nostre ipotesi, che vogliamo confrontare con tutti, sono queste: - Bisogna costruire una Casa della cultura (o meglio una Casa delle culture e – meglio ancora e senza spaventarsi del termine, per alcuni abusato o sospetto – una Libera Università) per difendere la cultura di ricerca, i saperi e i bisogni conoscitivi meno effimeri e le pratiche culturali più vivaci e originali, esistenti o possibili su questo territorio; - Bisogna respingere l’ipotesi di una Casa dei giovani, non per ostilità ai giovani ma al “giovanilismo”. (Perché i bisogni culturali dei giovani devono essere settorializzati o ghettizzati istituzionalmente?) - Bisogna che il progetto di attività per la Casa della cultura (o Casa delle culture o Libera università) sia integrato con le istituzioni culturali già esistenti sul territorio (scuole, biblioteca civica, ecc.). Né deve trascurare – contrastando la logica corporativa del “come stiamo bene fra noi che già ci capiamo e - facciamo tante cose belle» – i bisogni culturali dei gruppi sociali o degli individui atomizzati più distanti o meno raggiunti dalle istituzioni. Il rinnovamento della vita culturale cittadina va pensato e praticato in tutti i pori istituzionali e sociali; Bisogna dire con chiarezza che l’economia è a sostegno del progetto culturale, evitando le ormai evidenti ambiguità delle imprese no profit o dei mezzi appalti: quindi o piena copertura economica del Comune della Casa della cultura (o Casa delle culture o Libera Università) o una limpida convenzione fra Comune e costituente delle associazioni culturali (o, in caso contrario – spartano ma inevitabile – l’autofinanziamento di chi ci sta a far crescere una libera cultura). Sul sindaco decappottabile. Dimissioni di un assessore. 18 febbraio 2002 Caro Beretta, apprezzo l'onesta e la coerenza morale con cui reagisci al cosiddetto "ribaltone", ma la tua presa di distanze «senza acredine» dal sindaco Milan a me pare neutra e reticente sul piano politico. Al punto in cui si è giunti, non si tratta credo - di "salvarsi l'anima" a livello personale, ma di far capire ai cittadini perché Milan e i suoi "fedeli" o "tifosi" che ora lo sostengono in consiglio comunale si possono permettere di fare una scelta così grave. Conoscendoti e stimandoti, mi permetto perciò di farti una serie di osservazioni. Mi sembra che i problemi da chiarire al momento delle tue dimissioni siano due: - se la «cultura della solidarietà» verso i più "deboli" ha ottenuto davvero più risultati mettendosi all'ombra della politica del centro sinistra; - perché ad un certo punto - improvvisamente? - il sindaco del centro sinistra "salta il fosso" e va con gli avversari, chiedendoti una solidarietà «non sul programma ma sul governare comunque» (un'espressione davvero troppo vaga). Sulla prima questione, tu rispondi, sottolineando giustamente «l'impegno per la sperimentazione del reddito minimo di inserimento, l'osservatorio dei bisogni con la Caritas, i coordinamenti per il volontariato, carcere e territorio, Comuni per la pace, intercomunale per la casa ecc.», malgrado le «tante difficoltà». Bene. 28 Ma sulla seconda, non si riesce a capire dalla tua dichiarazione perché ora tu sia costretto a dimetterti, a smettere di coltivare i diritti dei "deboli" da Villa Casati e a proseguire l'impegno solo al livello della cosiddetta «società civile». Non pronunciandoti su questo e limitandoti a dire che Milan ti "ha dimesso", a mio avviso, il tuo chiarimento ai cittadini sulla crisi risulta indebolito e parziale. Credo poi che tu sbagli a non «collocare dentro una crisi tra i partiti» «quanto sta succedendo a Cologno Monzese» (più precisamente: quanto sta succedendo dentro il ceto politico di Cologno Monzese, che si dilania ottusamente al suo interno proprio perché ignora o conosce approssimativamente quanto sta succedendo non solo a Cologno Monzese ma nel mondo). E che non ti giovi neppure insistere retoricamente sul tuo «non essere "iscritto ad alcun partito"». Dopotutto hai operato per lungo tempo «come assessore alle politiche sociali su proposta del sindaco Milan». E ammetterai che a tanti cittadini "senza partito" non viene fatta così facilmente una proposta del genere da parte di un sindaco o di un partito. La tua stessa accettazione dell'incarico «con entusiasmo» e «in una logica di servizio» dimostra che ti sei collocato all'interno del sistema dei partiti o del sistema parapartitico (associazionismo, volontariato, ecc.), condividendo per forza di cose, fino al momento delle dimissioni, l'operato della "squadra" di Milan. Da chi se non da te e da altri con ruoli simili ai tuoi può venire un vero chiarimento sul "ribaltone", premessa minima per una scelta più oculata in futuro non solo di sindaci e di "squadre" ma di un'opposizione convinta e intelligente contro i "ribaltatori"? Altri tirano fuori una spiegazione "psicologica": l'arroganza personale di Milan, di cui sento tanto parlare (vittimisticamente) . Ma il "ribaltone" non può dipendere da un'arroganza, che c'è sempre stata, fin da quando Milan era democristiano. Era ed è, il suo, uno stile di vita adottato da tanti uomini (e ora anche donne) che ai meccanismi del potere dei "forti" si adattano con più disinvoltura. Come mai prima era "accettabile" e solo ora è divenuto "insopportabile" agli occhi dei suoi exsostenitori? Hanno contato o no nell'"aumento" di tale arroganza gli interessi materiali che i più "forti" si preparano a far valere su Piano regolatore e compagnia bella? E cosa avete fatto voi (e non solo tu) che eravate nella Giunta di centro-sinistra per evitare che la crisi degenerasse e maturasse invece in una soluzione meno squallida? Non era meglio muoversi ai primi segni del vento che mutava? Tu ed altri assessori o consiglieri, giustamente "infedeli", non potete non pronunciarvi su questi punti, se volete chiarire le idee ai cittadini. PER L’ESODO Gli amici, Genova e la guerra Della corrispondenza intercorsa fra me ed alcuni amici sul dopo Genova, l’11 settembre 2001 e la successiva guerra in Afghanistan scelgo alcuni testi (qua e là semplificati) e senza mie precisazioni o ulteriori commenti. Documentino gli umori, le aspettative, i timori, le convinzioni di quanti – vicini o distanti dall’idea di esodo – considero miei interlocutori indispensabili. La collocazione in questa sezione non suoni, perciò, annessione o strumentalizzazione per nessuno di loro. Da Laura Cantelmo, Milano, luglio 2001 Compianto Per Carlo Giuliani Fiammata di rose abbandonate il tuo sangue sull’asfalto acceso accanto alla pistola nera che ti ha finito. Onde bianche di mani si sono levate contro il sibilo turpe degli scudi. Vile la voce di chi ti voleva muto: di te hanno detto infamie che ho scordato. Di te, caro agli dei nei tuoi vent’anni, avvinto al sogno di una più giusta terra, come tanti, nel vuoto scandito dall’assalto. Ti ho eletto figlio: sulla riva del mare ho pianto, con la sabbia appuntita, con le onde ho pianto. Ho pianto la tua fronte di conchiglia, l’azzurro tremito del cuore, l’ombra vermiglia del sorriso, la birra sorseggiata, il tuo sangue stupito. Ghermita nell’abbraccio della 29 marea, Genova è sola, già postuma nel vento e ferita. Ed ecco, nella nausea del set televisivo, sulla ruggine dei containers, impunite falcheggiano le ombre. Sul G8: credo che sia stato un momento di costruzione della Fortezza Europa,sostanzialmente (dal punto di vista degli apparati) - come p.e. si vede nel balletto di dichiarazioni di Schily, il ministro degli int. tedesco (che fu un avvocato della RAF, se non mi sbaglio)- con in più interessanti conflitti con gli USA di Bush in stretta simpatia con Berlusconi; e ora l'inizio di dichiarazioni ONU sul rimando/non rimando del vertice FAO. E dall'altro punto di vista? Forse sostanzialmente una enorme scuola di cosa sono i rapporti e le strutture di potere, un passaggio dal vuoto della solitudine o dei discorsi o delle onde elettriche di Internet alla materialità di storie, oggetti, corpi: incontri e scontri. In questo senso gli effetti di verità si estendono da quelle strade piazze edifici a chi ne era fisicamente distante. Era in questo senso che parlavo di terribile bellezza: è stato variamente lacerato il velo della naturalità del dominio (e non solo, e non principalmente, dalle cosiddette tute nere ma, soprattutto, dalla determinazione di chi là ha voluto testimoniare il desiderio/bisogno/necessità di un mondo e una vita diversi - centinaia di migliaia di persone, appunto). In un certo senso, il discorso sugli 'eccessi' della polizia rischia di velare il punto chiave, che è quello. Del resto, come di tanto in tanto si sente dire, non è 'normale' che in questura picchino (extracomunitari, marginali etc. di solito)? Che poi vi sia il discorso pure del rischio di una deriva francamente autoritaria, OK, ma comunque una buona fetta della popolazione del pianeta, sotto il dominio delle multinazionali, degli stati, di organizzazioni come l'FMI (e nei conflitti terribili che li contrappongono) vive già in uno stato d'assedio permanente; non c'è nessuna legge di natura che gli occidentali bianchi ne siano esentati (anzi, se ripensiamo alle lotte durissime che si sono svolte nelle metropoli). E dunque? Non so, forse tutto questo deve sedimentare, coagulare in reti e discorsi e pratiche e rapporti. Genova è stata una grande scuola per me, appunto. Ciao. G. Da Eugenio Grandinetti, Milano, gennaio 2002 I rumori della vita ora mi paiono lontani , anche se hanno il frastuono di un aeroplano che s’abbatte su un grattacielo e lo sgretola. Eppure c’erano uomini nell’aereo, nel grattacile e sono morti, come d’altra parte ogni giorno muoiono a migliaia altri uomini, uccisi da altre guerre, da malattie, da fame, e ci restano estranei, non perché la campana della loro morte non suoni anche per noi, ma perché noi siamo impotenti, inermi. Sono altri quelli che decidono e ci dicono che anche noi siamo coinvolti, e noi non riusciamo a capire il perché ma pure ci sentiamo colpevoli. Si levano intanto dalle macerie grida disperate, lamenti che col tempo si affievoliscono, si spengono. E poi più nulla se non il rumorio d’altre voci che urlano fingendo dolore e collera, ma è credibile il dolore di quelli la cui voce supera ogni lontananza? Abbiamo visto altre macerie da cui si levavano altre grida e tutto era soltanto spettacolo breve e poi silenzio. Ma ci sono al di fuori di me, di noi, uomini che attendono, che soffrono, che muoiono magari, ma che restano solo numeri di una statistica, immagini effimere di uno spettacolo televisivo. Forse converrebbe cambiare canale per vedere se ci sono altrove altri spettacoli meno deprimenti, ma dappertutto c’è lo stesso spettacolo di uomini che uccidono per denaro, per potere ma nascondendosi dietro la maschera del volere di un dio o del valore della democrazia. Ci sarà un’altra guerra presto: una guerra di conquista ma che noi chiameremo di restaurazione della giustizia ferita, con la scusa che non c’è pace senza giustizia. Scorreranno fiumi di sangue, fiumi di parole, fiumi di immagini sulla televisione e, quel che conta, fiumi di denaro per vendere armamenti e forniture militari, e per comprare a prezzo di recessione le azioni dei piccoli risparmiatori e concentrare nelle mani di pochi capitali sempre maggiori e abbattere il potere contrattuale dei lavoratori, per restaurare 30 in un modo possibilmente più iniquo gli equilibri antichi di un mondo diseguale. Da Velio Abati, Grosseto, 4 sett. 2002 Ti ringrazio del tuo documento19 che ho letto con interesse. Ho due osservazioni da fare. La prima riguarda il tuo approccio che credo di aver colto generalmente, in queste cose. Mi sembra che tu ti preoccupi sempre (eccessivamente, vorrei dire) di prendere le distanze dalle diverse posizioni politiche della sinistra. Eccessivamente, anche perché non sei esponente di un partito, né ti rivolgi a chi vuole formare gruppi politici. La seconda è nel merito. Io credo che si debba essere più generosi con questo movimento, sia per la sua capacità di radicamento, sia per la sua importanza rispetto al panorama mefitico in cui si afferma. Che le critiche possano e debbano essere fatte, ma che riguardino, più che le forme del manifestare, le sue debolezze e dimenticanze teoriche, che concernono i rapporti di produzione. Da Massimo Parizzi, Milano, 6 sett. 2001 Tornato da pochi giorni ho trovato i tuoi e-mail. Con tutta l'amicizia e la stima che, credo tu lo sappia, ho per te, non sono né in sintonia né d'accordo con quello che dici. Pressoché su tutto. (Ma l'avrai previsto.). Mi sembra tu pensi che la radicalità delle forme di lotta sia sinonimo di radicalità. Sulla base di che? Il movimento ora rappresentato dal GSF è a mio parere, e nel suo insieme, non soltanto radicale ma proprio rivoluzionario. E in ogni senso storico che si possa dare al termine. Perché le sue richieste e la sua sensibilità implicano una vera e propria rivoluzione degli attuali assetti socio-economici. Punto. Non ha chiara la strada che dal lavoro quotidiano di gruppi, associazioni ecc., dalla piazza, dai rapporti con le istituzioni ecc. ecc. possa portare a una "rivoluzione"? Ma nessuno ce l'ha e nessuno può ora averla chiara. Per questo a me sembra importante praticare tutte le strade aperte e che aprono, compresi preghiere in chiesa per chi ci crede e rapporti cauti con le istituzioni. La violenza mi sembra una strada chiusa e che chiude. Io non sono un non-violento assoluto: penso che a volte la violenza sia una triste e trista necessità. Ma ora non è nemmeno questo: è nel migliore dei casi una distrazione (di energie, pensieri ecc.) e un'illusione. Tralascio quello che è nel peggiore dei casi, perché penso che tu lo sappia benissimo: 19 Il tarlo di Genova 2. Commento in Samizdat Colognom 3 una trappola. E una ripetizione: in che senso sarebbe una nuova forma di lotta? A me sembra la più vecchia. E in che senso sarebbe "meno simbolica"? Sfasciare una banca è qualcosa di meno simbolico che digiunare in una chiesa? E l'"urto inevitabile con i dominatori" significa soltanto fare a cazzotti? Via! Quest'urto è tanto inevitabile che questo movimento lo pratica fin dalla sua nascita, e semplicemente perché è nato in urto con i dominatori. Per tutto questo non mi piace il tuo sforzo di dividere il GSF in buoni e cattivi, o buonisti e non, oratoriali, neopopulisti ecc. ecc. (divisione che tra l'altro accusi altri di compiere in senso inverso). Anche qui, non è che sono contrario per principio alle divisioni: ma divisioni sulla base di che e perché e con che prospettive? Hai, ha qualcuno, in mente una strada che permetta di definire altre strade sbagliate, fuorvianti? Una strada intendo. Non le distinzioni fra disobbedienza civile e non-violenza, preghiere in chiesa (non a casa: la chiesa di Boccadasse era sul percorso del corteo a Genova) e marcia per le strade ecc. ecc. Queste non sono strade alternative, sono varie forme. Il black bloc è un altro discorso. Adesso fanno la figura di esclusi, reietti e, già, a tanti viene voglia di mettersi subito dalla parte degli esclusi, dei reietti. Ma dalla parte in che senso? Anche a me piacerebbe, e ritengo importante, sapere e capire chi sono, che cosa vogliono, come e perché; e anche a me non piacciono i paternalismi che li fanno esempi del "disagio giovanile". Ma, appunto, se il rapporto più corretto con loro sta nel riconoscerli per come si manifestano, nel riconoscere che pensano che il modo migliore di contrapporsi al capitalismo stia nello sfasciare tutto, compreso un corteo di duecentomila persone, allora, senza paternalismi: stiano alla larga. Già una volta poche centinaia di persone, armate solo di qualche pistola, hanno chiuso la bocca ad altre centinaia di migliaia: e per decenni. Insomma, in numerosa, buona o cattiva compagnia, io penso che uno dei problemi attuali maggior del movimento sia quello di non farsi trascinare sul terreno della "guerriglia", altro che "aprirsi o sopportare forme di vicinanza o di tolleranza o di appoggio a comportamenti più guerriglieri"! Una "strategia politica di grande respiro" è, a mio parere, quella capace di catalizzare la maggior parte delle energie e sensibilità anticapitalistiche trasformandole, appunto, in "politica". Ovvero, lo dico provocatoriamente, trasformare tutti gli antiglobalizzatori in antiglobalizzatori "buoni". Da Giacomo Conserva, Parma, 13 sett. 2001 31 Il mio stato caotico è apparentemente di gran lunga superato dallo stato caotico del mondo. Ieri (o stamattina?) mi è venuto in mente il lamento su Babilonia che c'è nell'Apocalisse: 'E caduta, è caduta Babilonia la grande... Naturalmente gli Usa non sono caduti (o il sistema mondiale di dominio)- parecchie persone sono morte, edifici sono stati distrutti (trovavo molto belle le Twin Towers), fra un poco verosimilmente in Afganistan o Irak o in tanti posti contemporaneamente molte altre persone moriranno (ho letto analisi su riviste militari inglesi e americane: si va dall'ipotizzare bombardamenti nucleari a bombe a tappeto per giorni a sbarco di forze speciali a invasioni tout court). Sulla lista movimento (l'hai mai vista?) uno ha mandato un messaggio intitolato 'il più bel giorno della mia vita'. Altri, naturalmente, dicono tutt'altro. I palestinesi che brindavano e mangiavano la torta (che siano o non siano maggioritari) avevano certo le loro ragioni- io comunque trovo il tutto un po' triste, anche se la guerra ha un effetto elettrizzante, per certi aspetti (la guerra come festa, di cui parlava Caillois). Da Giacomo Conserva, Parma, 25 sett. 2001 A tutto ci si abitua, così ci si abitua in fretta pure alla vita nelle retrovie. Strano. Però la guerra dei potenti contro il resto del mondo sarà lunga e dura; è un fatto p.e. che non mi sono mai arrivati tanti virus per e-mail come ora (fortunatamente avevo tempo fa installato un anti-virus adeguato). Anche quando scoppiò la 1a guerra mondiale si parlava di lotta contro la barbarie; è l'esempio che mi viene irresistibilmente in mente. Bush e i talebani: lupi contro lupi... Molto edificante. (Un aspetto interessante: due persone che seguo in terapia, entrambe con cariche aggressive molto forti- e entrambe con spinte parapolitiche antisistema, tendono a -quasi-identificarsi con i tal.: "sì, opprimono le donne, sì etc etcPERO'...").Spero che le armi ABC (atomiche biologiche chimiche) siano risparmiate a noi e al resto del mondo, ma più che sperare al momento, o lanciare appelli,non sembra fattibile. Forse semplicemente ci vuole tempo per portarsi al livello di questa altezza di scontro; non so. Da Giacomo Conserva, Parma 28 sett. 2001 Ciao Ennio. Io a questo punto (forse irresponsabilmente) non sono troppo preoccupato. In fondo le guerre ci sono sempre state- basta leggere qualunque testo di storia antico, come sto facendo ora: Polibio, Appiano, Senofonte...- e finora l'umanità in qualche modo ne è sempre venuta fuori. A prezzo di sofferenze terribili a volte, certo; ma anche la nostra pace ne procura infinite (i morti per fame, gli oppressi , le vittime dell'embargo in Irak etc etc). Ed è pure normale che all'inizio di una guerra vi sia un entusiasmo e un consenso di massa- in parte spontaneo, in parte molto accortamente orchestrato e diretto. Credo che si tratti per un verso di porsi in un 'altro luogo' mentale, per tirare avanti in modo dignitoso e umanamente significativo; e poi di capire le nervature profonde del conflitto (e farle capire); e, certo, organizzare risposte politiche adeguate, se e quando e nella misura in cui sarà possibile. Credo pure che bisogni superare il modo politically correct di gestire il multiculturalismo (cfr Prodi ieri: tutte le culture sono ugualmente valide e importanti) e portare avanti processi di confronto, interazione, trasformazione reciproca, confusione. Fra le altre cose, sono tornato alle mie liste di parole arabe: kabir, akbar, qasr, naft, faransi...Sia il c.d. riflusso identitario che il differenzialismo (per cui ciascuno viene ascritto a un determinato gruppo non comunicante con gli altri, e finita lì) non mi appagano, li vivo come violenze alla mia libertà di autoprogettarmi e autoinventarmi, e li trovo pure estremamente pericolosi. (Non mi piace nemmeno la pura e semplice identificazione con l'Altro, pure tanto di moda nella sinistra radicale). P.S. nessuna infatuazione per la guerra. Da Giacomo Conserva, Parma 29 ott. 2001 1.la guerra è sempre esistita (con una varietà di forme, naturalmente: le scorrerie degli Irochesi avevano caratteristiche molto diverse dal blitzkrieg del ’40, tanto per dire; ed è indubbio che vi siano state popolazioni mediamente più pacifiche di altre, o periodi meno duri); con il corteo di assassini, violenze, privazioni, furti organizzati e di piccolo gruppo, orrori vari. 2. inizio così perché l’attacco agli USA mi pare incontestabilmente un atto di guerra (fatto con i mezzi a disposizione: certo se avessero avuto una divisione aerotrasportata magari avrebbero occupato Washington; se avessero avuto una bomba al neutrone l’avrebbero gettata etc) 3. lungi dal nascere da categorie psicologiche esso mi pare nascere da un calcolo razionale (che non vuol dire giusto) di mezzi e fini. Del resto, dal punto di vista tecnico il tutto è stato tanto spettacolarmente efficiente dal far nascere il sospetto di complicità a qualche livello, o di via libera data (‘E VERO che Pearl Harbor fu sfruttata per portare una popolazione riluttante in guerra) 32 4. e cosa è in ballo? Be’, in un conflitto ci sono sempre diversi lati. Qui, a livello elementare, direi che c’è il gruppo che attualmente controlla il pianeta vs. altri gruppi che ne vogliono una fetta (o il tutto) 5. vi sono svariati aspetti collaterali del problema; per citarne alcuni: il petrolio dell’Asia Centrale; il raffreddamento Usa-Arabia Saudita; le ambizioni di sottopotenze varie; il fallimento delle politiche progressiste per lo sviluppo, e del socialismo nazionalista nel c.d. 3° mondo; il legame che si è stabilito fra integralisti e strati poveri, ovvero fra integralisti e esercito in vari stati; le conseguenze materiali, sociali, psicologiche della globalizzazione (cfr. i talebani che sparano alle donne riottose e distruggono le televisioni; o i satelliti che trasmettono notizie-più o meno manipolate-, pubblicità diretta e indiretta, spettacoli, pornografia…) 6 per non parlare delle contraddizioni nel campo dei potenti: USA/Europa occ.; Russia; Cina; etc. 7 Ogni ordine imperiale si fantastica stabile in eterno, oltre che giusto e santo. Bisogna vedere se lo sa essere davvero, e per quanto tempo. Bisogna vedere pure cosa ne pensano gli altri attori in gioco (che non è detto siano migliori, ma non è automatico nemmeno siano peggiori). 8 Credo che questa guerra vada sabotata, da tutte le parti. Esattamente come credo che società paternalistica e teocrazia vadano combattute. (Ma non con gli Stealth!) 9 ‘E indubbio che i valori ‘occidentali’, già emersi dal colonialismo, sono collegati con libero mercato, multinazionali, finanziarizzazione etc etc. Non possono non suonare vacui in buona parte della terra. 10 Un’altra cosa da fare, penso, è diminuire la barriera di non conoscenza rispetto all’ “Altro”. Il che vuol dire p.e. studiare arabo o urdu, leggere il Corano e la storia di quella parte del mondo che per noi è largamente una terra incognita etc etc. (e, ovviamente, parlare con gli “Altri”) 11 Non è detto che tutto ciò serva a qualcosa a livello immediato. L’evoluzione della situazione politico-militare resta molto dubbia, anche per la pluralità di attori in gioco, e la molteplicità dei luoghi (p.e. si pensi alla Cina, all’estrema destra americana- che dopo tutto pare capace di fare pure lei grossi danni-, alle sottopotenze regionali, e via andare). Inoltre bisogna cercare di essere lucidi, e il meno isolati possibile. Questo mentre la guerra di propaganda infuria non solo in alcune moschee, come si dice, ma sui nostri schermi TV in continuazione, con disinformazione manipolazione elusione continua. 12 ciascuno ha la propria riserva di immagini apocalittiche, o i propri bisogni religiosi: ma bisogna assolutamente distinguere tutto ciò da una valutazione razionale delle situazioni. E credo non ci si possa identificare troppo con nessuno degli idoli tribali- siano propri o altrui. Da Luca Lenzini, Siena, novembre 2001 Come ogni volta “Nulla sarà più come prima”. Questa frase l’ho sentita più volte, a partire dall’89. In occasione della caduta del Muro di Berlino, quell’anno; ma poco dopo e con accento diverso, passando da un evento festoso e incruento a tutt’altro genere di vicenda, all’epoca della guerra del Golfo. Poi, con sempre maggiore sgomento, per la guerra in Kossovo; di nuovo ora per l’11 settembre e la guerra in Afghanistan. L’espressione ritorna nei discorsi ormai ciclicamente, così annullando l’intenzione di esprimere uno choc, un cambiamento irreversibile. Il tentativo di dire l’inconcepibile, o meglio l’inconcepito, ricade su se stesso, circolarmente, come nel ritornello di un girotondo infantile (“Casca il mondo…”) – ed ogni volta si ricomincia. Il senso della ‘svolta’ è insieme evocato e contraddetto, mentre il momento dello strappo rispetto al passato si ritualizza e del futuro non si avverte nemmeno un timido alito: prevale una sorta di frastornata o attonita constatazione, come di fronte ad un movimento franoso che sconvolge il paesaggio conosciuto senza che se ne intraveda uno nuovo. Ciò che si rinnova è una figura del lutto: il nulla è ben più minaccioso, ingombrante e incalzante di ciò che eventualmente sarà. Durante la guerra in Kossovo, negli uffici postali vedevi persone anziane - a cui ogni giorno la radio e la televisione annunciavano la necessità di tagli nei servizi sociali - fare versamenti per gli “aiuti umanitari”, devolvendo una quota della pensione a missioni gestite e pubblicizzate dagli stessi biechi politicanti – volevo dire i professionisti della politica - che spedivano aerei a bombardare altra gente di là dall’Adriatico, e di qua si preoccupavano per i cali del flusso turistico. Da una parte, la mobilitazione tramite i media dell’emarginato ridotto a massa da manipolare; dall’altra, tra la gente un grumo diffuso, spugnoso, d’indifferenza, il qualunquismo che si accanisce a negare ogni speranza e solo dalla negazione trae un brivido di godimento. Ma poi riecco come sempre i kamikaze del sabato sera, i dibattiti televisivi del giovedì, le lezioni serali di disincanto da parte degli ex-idéologues… tutto si ripete con tranquillizzante normalità. Niente di nuovo, non è vero? Mobilitazione e 33 manipolazione e cinismo in scala industriale sono ingredienti peculiari e necessari dei regimi ‘populistici’: solo che un tal genere di regimi li conoscevamo in contesti di arretratezza, legati a duci e caudillos, o a celebri dittatori, non alla democrazia. Ma per far vivere una democrazia non bastano un parlamento, dei partiti ed i media a loro disposizione: il loro strapotere può allontanarla, oscurarla sino a renderla un mero simulacro, anzi una play-station. Nel duplice gesto del distruggere e del donare, ormai consuetudinario per catastrofi e guerre, si fa leggere una verità stravolta, o forse meglio l’emersione di una verità rimossa; e per un banale incanto – l’inganno è patente ed efficace - si compie la sua neutralizzazione. La distruzione manifesta in modo spettacolare e drammatico la violenza implicita nello sfruttamento della natura e degli esseri umani, di una parte del mondo su un’altra parte. Il sistema del dono ‘umanitario’ implica questa lacerante realtà ma, allo stesso tempo, importa l’avvenuto accecamento del cittadino sul proprio ruolo, si arrende al fatto compiuto, consente il dominio del sempre-uguale. La guerra e la pace sono egualmente necessarie e necessariamente contemporanee. La macchina dei consumi non può fermarsi un attimo, l’economia non tollera rallentamenti. Oscuramente o cinicamente devi sentire o sapere che per poter continuare a vivere, altri devono morire. Accettare che niente sia come prima, perché nulla cambi. Ma chi pianifica la storia potrebbe anche aver sbagliato i calcoli. Già in una generazione svezzata al ritmo dei jingles c’è chi non crede più allo spot progressista. Nella ‘rete’ circolano messaggi e discussioni di persone che non leggono più i loschi opinionisti dei quotidiani nazionali, né guardano gli inguardabili telegiornali. Persone: quelle che muoiono negli attentati, nelle guerre, ogni giorno. Per molti di loro le parole-feticcio del palinsesto quotidiano non hanno più senso, perché il senso di ognuna di esse – destra e sinistra, comunismo o liberismo, democrazia o patria - dev’essere riguadagnato nel presente, ogni volta. Indice Pag. 1 NUMERO 4 SAMIZDAT Pag. 1 CARTEGGIANDO CON UN EDITORE. Pag. 4 SOLO UN’ECO DI OPPOSIZIONE? Pag. 5 IL “BISOGNO DI SCRIVERLO”. Pag. 6 FUORI DAGLI EQUIVOCI DEL VOLONTARIATO, MA NO ALLA SIRENA DEL MERCATO. COLOGNOM Pag. 7 DIARIO (Da 28 nov. 2001 a 7 lug. 2002) Pag. 10 RIORDINADIARIO maggio 1978 - 2002 Pag. 22 POETERIE Pag. 24 APPUNTI PER UN FILM SU COLOGNOM Pag. 25 SUL SINDACO DECAPOTTABILE E ALTRE COSUCCE LOCALI. LETTERA A MICHELE PAPAGNA DI "COLOGNO CITTÀ SOLIDALE", FINE DIC. 2001 Pag. 26 LETTERA A ROBERTO GROSSI DEL 25 GIU. 1999 Pag. 27 BOZZA DOCUMENTO DI IPSILON SULLA CASA DELLA CULTURA DEL 21 OTTOBRE 1999 PER L’ ESODO Gli amici, Genova e la guerra Pag. 29 Da Laura Cantelmo, Milano, luglio 2001 Pag. 30 Da Giacomo Conserva, Parma, 7 ag. 2001 Pag. 30 Da Eugenio Grandinetti, Milano, gennaio 2002 Pag. 31 Da Velio Abati, Grosseto, 4 sett. 2002 Pag. 31 Da Massimo Parizzi, Milano, 6 sett. 2001 Pag. 31 Da Giacomo Conserva, Parma, 13 sett. 2001 Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma, 25 sett. 2001 Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma 28 sett. 2001 Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma 29 ott. 2001 Pag. 33 Da Luca Lenzini, Siena, novembre 2001 34 SAMIZDAT? È termine russo. Indicava gli opuscoli della comunicazione dissidente nei paesi dell’Est e della ex Urss. Letteralmente significa autoedizione. Qui è assunto in entrambi i significati : foglio di pensiero critico e forma di pubblicazione non cortigiana. COLOGNOM? Abbreviazione straniante di Cologno Monzese. Allude al luogo/non luogo nel quale il foglio viene scritto, alla sua problematica perifericità, ai mutamenti decostruttivi e costruttivi possibili in questo spazio ibrido. ESODO? La parola rimanda alle migrazioni passate e presenti, al rifiuto di chiudersi o lasciarsi chiudere nell’intrasformabile mondo esistente dei padroni. Samizdat Colognom esce in edizione cartacea come supplemento a INOLTRE, rivista edita dalla Jaca Book. È presente anche su Internet al sito web http: digilander.libero.it /samizdatcolognom È curato da Ennio Abate Via Pirandello, 6 – 20093 Cologno Monzese Tel. 02.26700095 E-mail: [email protected] 2