SAMIZDAT
COLOGNOM
foglio semiclandestino per l’esodo
Immagine mancante
Numero 4
settembre 2001
settembre 2002
Numero 4
I messaggi in bottiglia dei primi tre
numeri di Samizdat Colognom non hanno trovato
una risposta incoraggiante qui a Cologno
Monzese, dove, abitando da lungo tempo, in
passato ho pur potuto cooperare spesso con altri,
ora in un gruppo politico ora in una rivista ora in
un’associazione culturale. Qualche riscontro
positivo è venuto invece da amici sparsi in altre
città.
Anche questo è un segno dei tempi mutati. Viene
meno una possibilità di organizzazione
intellettuale indipendente fisicamente legata ad un
territorio e forse si va delineando una forma
sostitutiva di comunicazione a distanza fra
interlocutori più isolati di prima dal contesto
territoriale.
In questo N. 4, prendo atto che l’ideazione e la
produzione della rivista (in effetti un foglio
semiclandestino come da sottotitolo) sarà forse
durevolmente opera di un singolo. Anche se
preferirei farla assieme ad altri, non voglio
rinunciare a scrivere sull’esperienza (o sul
deperimento dell’esperienza) che si fa proprio
qui, a Cologno Monzese.
Ribadisco, perciò, la mia attenzione a questa
periferia che non è mai stata veramente luogo ed è
già forse non luogo, pur sapendo quanto sia più
arduo, da solo o quasi, svolgervi quell’elementare
e indispensabile lavoro d’inchiesta prospettato nel
numero 1.
Non contraddittoriamente credo con la prospettiva
dell’esodare,
che
non
può
significare
disinteressarsi al locale, anche quando si
presentasse col volto immiserito delle beghe
comunali, per agire, disincantati e indipendenti, in
un globale più o meno eccitante. Perché senza
troppo saperlo anche qui, a Cologno, si vive già
quell’unica dimensione, cosiddetta glocale, che
esaspera e compenetra contraddittori aspetti,
miserie di periferia e scintillii tecnologici
metropolitani. Qui, ad es. , ritrovo i monolocali
costipati dove si assembrano i migranti d’oggi, gli
studioli dei professionisti, i negozi chic dei
commercianti, lo sperpero dei teatri di posa di
Mediaset.
Procedo, quindi, solo ad alcuni
aggiustamenti.
Rinuncio (provvisoriamente? definitivamente?)
all’obbiettivo di fare una rivista assieme ad altri
presenti come me su questo territorio e parlo
sempre più al singolare di quel che riesco ad
afferrare di Colognom.
Penso perciò di rendere pubblico ad un circuito
minimo di conoscenti uno zibaldone di scritture
mie o da me curate su tre direttrici, quelle
suggerite dal titolo che ho dato al foglio:
Colognom, Samizdat e Esodo.
Nella
sezione Samizdat, ho selezionato
documenti del confronto critico con gli altri
(amici, conoscenti o avversari) dove mi sembrano
manifestarsi piccoli segni di una possibile pratica
esodante quotidiana.
In quella Colognom, il materiale da me prodotto –
in passato o negli ultimi mesi - che ha un
riferimento esplicito a Cologno Monzese e al mio
rapporto con la gente che qui vi ho conosciuto o
conosco.
E infine, in quella In esodo, spunti riferibili in una
prospettiva più generale all’idea di esodo.
Questo foglio semiclandestino sarà forse ancora
meno regolare nelle sue uscite, ma l’impegno è a
tener presente l’arco di tempo che passa fra un
numero e l’altro. Per questo numero 4, risalgo al
settembre 2001, anzi al luglio dei fatti di Genova,
poco prima dell’11 settembre, della guerra in
Afghanistan, della morsa israeliano-statunitense
sui palestinesi, eccetera.
Non desisto dall’inviare ad un certo numero di
persone una copia (cartacea o per e-mail) di
Samizdat Colognom, nella speranza di essere
ancora affiancato da collaboratori, liberi di
seguire il modello, trovarsi una casella o varie
caselle dove inserirsi con le loro ricerche o
rimettere motivatamente in discussione questo
progetto.
SAMIZDAT
Carteggiando con un editore
La moltiplicazione degli scriventi (e in
particolare quelli di poesia) è un fenomeno
abbastanza trascurato nelle sue implicazioni
antropologiche, sociologiche, estetiche e
politiche. La grande editoria ha da tempo serrato
il portone. La piccola si barcamena
ambiguamente. Pubblico questo carteggio
“personale” non per dispetto o eccessivo
narcisismo, ma perché illustra a pennello quello
che si sa, ma non si dice (l’economia politica
spicciola) nei rapporti fra aspiranti scrittori ed
editori “progressisti”. L’esodo deve avvenire
anche da questi stagni, dopo averci buttato dentro
un ragionato sasso.
12 aprile 2002
1
Caro Ennio, sicuramente c'è stata una
corrispondenza nascosta: sul n. di aprile di
"l'immaginazione", in tipografia, c'è una pagina
con tue poesie.
Riguardo al libro, rimanda l'edizione cartacea
definitiva e vedremo il possibile.
Buon lavoro,
Anna Grazia D'Oria
21 maggio 2002
Cara Anna Grazia,
ho riflettuto una settimana sulla questione, da me
lasciata in sospeso, sulle sorti della mia raccolta di
poesie e ora ti comunico la mia rinuncia a
pubblicarla alle condizioni che mi hai ribadito per
telefono (le stesse di un anno fa).
Proprio non me la sento di accettarle, pur
riconoscendo che esse sono (anche a detta di
amici che ho consultato) ormai consuete e
"realistiche"per la piccola editoria.
Ma il principio che un poeta, per far conoscere a
una cerchia più ampia di lettori una sua raccolta
giudicata degna di circolare, debba pagarsi la
pubblicazione, non lo riesco proprio a digerire.
Avevo affacciato anche una proposta "di
compromesso", che mi pareva dignitosa sia per
me che per voi: io riconoscevo le difficoltà
economiche e politiche del piccolo editore mio
alleato e mettevo mano al portafoglio, lui fugava
ogni sospetto che mi prestasse semplicemente
"l'etichetta" (quasi facessi parte di una sorta
di "indotto"
secondario della
sua
attività
principale). Ma non l'avete voluta o potuta
prendere in considerare.
Peccato. Aspetterò che qualche editore (grande o
piccolo) affronti con più coraggio e senza
ambiguità il fenomeno della moltitudine poetante,
a
cui
sento
di
appartenere. Oppure,
semplicemente, mi accontenterò di farmi ospitare
nel circuito delle riviste che - come la vostra segnalano quel che in questi tempi bui eppur si
muove.
Ti ringrazio, in proposito, per la pubblicazione dei
testi
che
ti
avevo
mandato su
L'IMMAGINAZIONE di aprile e spero di
collaborare in altro modo e in altre occasioni.
Senza rancore, specie nei tuoi confronti, porgo
cordiali saluti.
Ennio
3 giugno 2002
Gentile Ennio Abate, su richiesta di Anna Grazia sempre imbarazzata quando si tratta di denarorispondo io alle sue considerazioni: ad una in
particolare.
Non c’è nessuna ambiguità nel nostro
comportamento: noi scegliamo i libri che ci
piacerebbe pubblicare, e poi facciamo una
valutazione di ordine commerciale, talvolta
valutiamo che il libro si venderà abbastanza da
coprire i costi; talvolta valutiamo che la vendita
non sarà pienamente sufficiente, ma ci saranno
recensioni, presentazioni e “ritorno in immagine”;
talvolta valutiamo che un libro venderà
pochissime copie.
Questa ultima eventualità è -per la poesia- la
norma con pochissime eccezioni.
Noi pubblichiamo più o meno una trentina di libri
di poesia all’anno: lei pensa che potremmo -non
essendo principi rinascimentali né banchierispendere 150 milioni di vecchie lire all’anno in
poesia? Lei pensa che ci sia qualcuno in Italia non
dico che lo faccia (perché so che non c’è) ma che
sarebbe disponibile a farlo?
Noi mettiamo a disposizione dell’autore che ci
interessa una struttura, un’organizzazione di
distribuzione, canali di promozione e diffusione,
un catalogo ecc.; spendiamo quella che lei chiama
“l’etichetta” (e che è la risultante di due decenni di
lavoro duro e rigoroso); se l’autore lo ritiene
opportuno, ci mette dei soldi di tasca sua:
altrimenti perché dovrei metterli di tasca mia? Se
lei non riesce a digerire l’idea che un autore debba
pagarsi la pubblicazione, perché dovrei digerire io
l’idea di pagare la sua pubblicazione con il mio
denaro, sapendo con certezza che questo non
rientrerà?
Cordialità,
Piero Manni
6 giugno 2002
Caro Manni,
non si allarmi: la mia poesia non
vuole strapparle il suo denaro.
Ho rinunciato, come scrivevo ad Anna Grazia,
senza drammi e senza rancori alla prevista
pubblicazione presso la sua casa editrice della mia
raccolta. Perciò non mi aspettavo nessuna risposta
e, di certo, non la sua, così risentita. Ma ci tengo a
ragionare; quindi aggiro per quel che mi è
possibile la sua ostilità, e le rispondo nel merito.
L’ambiguità, a cui ho accennato (in verità
molto velatamente) nella mia ultima lettera, trova
numerose conferme proprio in quanto lei mi
scrive.
Ambiguo (anche se non in senso tutto negativo)
trovo il suo atteggiamento verso la poesia: lei alla
poesia dà l'impressione di non essere proprio
interessato e di darne una valutazione soprattutto
commerciale
o
d'immagine;
e
allora
perché pubblica «più o meno una trentina di libri
2
di poesia all’anno»? (Logica di mercato vorrebbe
che questo "ramo secco" venisse tagliato...).
Altrettanto ambiguo (in senso un po’ più
negativo) mi pare il fatto che lei continui a godere
in pubblico della fama di editore “controcorrente”
e “resistenziale” (che, appunto, malgrado la poesia
non si venda, pubblica ben una trentina di titoli di
poesia all’anno), mentre la sua è in effetti una
resistenza a responsabilità limitata, visto che,
come “ormai fan tutti”, chiede che l’autore
(beninteso: esordiente e/o sconosciuto e quindi
senza potere acquisito o forza contrattuale) paghi
di tasca sua la pubblicazione.
Se lei, come editore, può oggi
mettere a
disposizione, in modi più o meno efficaci, soltanto
«una struttura, un’organizzazione di distribuzione,
canali di promozione e diffusione, un catalogo
ecc.» e, per forza di cose e indipendentemente
dalla sua volontà, deve chiedere agli autori “un
contributo” per pubblicarli, perché queste
condizioni non vengono rese pubbliche?
S’indigna perché io non digerisco l’idea
che un autore debba pagarsi la pubblicazione. E
perché mai?
Esistono ancora editori (grandi e piccoli) che
rispettano, pur con molte tortuosità e senza il
«coraggio» che io auspicherei, il principio
sacrosanto per cui, fra chi produce diciamo
“l’opera d’ingegno” e chi, mettendo il denaro, la
fa
conoscere,
deve
esserci
un’alleanza
(relativamente) paritaria e non un rapporto
strumentale.
Pubblicano cinque titoli all’anno invece di trenta
(e magari, di questi 5, tre già sicuri e consolidati),
oppure cavano il denaro per la collana di poesia (e
altri generi “in disuso”) da altre operazioni più
commerciali. (Io stesso condirigo la rivista
INOLTRE per la Jaca Book. La rivista è in perdita,
come molte riviste e le collane di poesia, ma esce;
e noi che vi scriviamo, non siamo certo retribuiti,
ma non paghiamo per pubblicarvi i nostri articoli).
Ora io non mi scandalizzo per questo suo
trapasso da editore “classico” (che, per quanto io
ne sappia, in passato non faceva pagare il poeta,
che aveva liberamente deciso di accogliere nella
sua collana di poesia) ad editore - diciamo - “a
responsabilità limitata”. Può essere stato dettato
da dure necessità. Ma perché deve restare in
ombra? Se prima lei “digeriva” l’idea di pagare la
pubblicazione di un poeta con il suo denaro,
perché da un certo momento in poi non l’ha più
“digerita”? E il trapasso di cui sopra
(inevitabile?), quali riflessi sta avendo proprio
sull’immagine discretamente “anticapitalista” di
Manni editori (quella che mi aveva spinto a
proporre la mia raccolta proprio a voi)?
Secondo me risulta appannata: il
“passaparola” , mica tanto sotterraneo,
fra
scrittori e scriventi più vigili alle dinamiche
editoriali, sta trasmettendo all’incirca il seguente
messaggio: “Sai, ormai anche Manni fa pagare per
pubblicare e, per giunta, non distribuisce”. (Solo
dettata da malignità quest’ultima diceria? Resta il
fatto che, per quanto mi riguarda, nel contratto che
mi avevate spedito a suo tempo, oltre all’acquisto
delle 200 copie da parte mia, non era chiaro – né è
stato mai chiaro in seguito - quante altre voi ne
avreste stampate o mandate in giro…).
E, sempre a proposito di ambiguità,
quante ne alimenta la Manni editori presso quella
che io chiamo moltitudine poetante (o scrivente)?
Il discorso sarebbe lungo, ma mi limito a dire che
incoraggiare o anche cedere alla pubblicazione a
proprie spese (mascherate), muoversi alla
spicciolata e individualisticamente e in assenza di
una seria riflessione critica sulle implicazioni
profonde (etiche, politiche ed economiche) che ha
assunto la dimensione di massa dello scrivere
poesie nel contesto della postmodernità, rischia di
aggiungere alla macrocorporazione accademica e
in
rovina
dei
Poeti
solo
una
gregaria microcorporazione di poetanti o scriventi
di massa, ignara dei suoi compiti veri.
Questi sono i ragionamenti sinceri e non
personalistici che mi sento, malgrado tutto, di
proporre alla sua riflessione.
Un’ultima precisazione. Sapendo che i tempi sono
bui per tutti, anche nelle precedenti lettere ad
Anna Grazia, ho evitato toni irrealistici o
rivendicativi nei vostri confronti ed ho insistito
sulla mia
proposta“di compromesso”,
sollecitando la cosa a cui più tenevo: stabilire un
rapporto chiaro e dignitoso di alleanza con la
Manni editori.
Non avete speso - né lei né Anna Grazia - una
parola al riguardo.
Lei,anzi, difende le sue ragioni senza neppure il
saggio (per me) imbarazzo di Anna Grazia.
Preferisce respingere ogni dubbio sul suo operato,
marcare brutalmente le distanze e la gerarchia
esistenti fra noi («la sua pubblicazione», «il mio
denaro») e fa prevalere nei miei confronti solo
l’aspetto commerciale.
Non mi resta per adesso che salutarla con
un po’ di rammarico.
Ennio Abate
10 giugno 2002
Gentile Abate,
ho affisso la sua lettera in una grande
bacheca che ho nella mia stanza di lavoro, che
3
affettuosamente chiamo "la bacheca degli orrori",
dove ho lettere con affrancature singolari,
autografi di Volponi, Cacciatore, Merini, vecchi
volantini comunisti, lettere dei miei alunni
detenuti; l'ho affissa accanto alla riproduzione
della lettera di Gobetti a Montale nella quale
l'editore chiede un sostegno economico per la
pubblicazione di "Ossi di seppia", e il poeta vi si
impegna.
Cordialmente, Piero Manni
10 giugno 2002
PASSO E CHIUDO
affisso nella bacheca degli orrori
assieme a merini, volponi e cacciatori
sia pur accanto a montali e gobbetti?
oh, quali inaspettati onori
fuori da ogni Immaginazione
ricevo da Manni editori!
Ennio Abate
Solo un’eco di opposizione?
Come opporsi a Berlusconi? Eco su Repubblica
ha lanciato l’idea di non comprare le merci
pubblicizzate su Mediaset.
Queste le mie
obiezioni all’invio di un e-mail di Enrico Peyretti
di Torino, che chiedeva di sottoscrivere
l’iniziativa.
Un’opposizione non costosa per chi la
farebbe, non dannosa per il Sistema (il migliore
dei sistemi possibili ormai?) e che, concentrandosi
soprattutto su un Personaggio-simbolo, tace sui
restanti a lui assai simili, che opposizione è?
È un’opposizione a sua maestà, tipica di una certa
nobiltà complementare al sovrano.
Questa mi pare – e dico subito apertamente la mia
insoddisfazione - l’opposizione che Umberto Eco
propone e che lei tramite e-mail ci invita a
sottoscrivere.
Essa non è che una variante del girotondismo di
cui vorrebbe essere il superamento. Si aggira nello
stesso bicchiere dell’opposizione all’acqua di
rose, di cui in molti siamo sempre più stufi.
(L’esempio dei risultati alle presidenziali francesi
mi esime da ulteriori approfondimenti).
In fin dei conti, Eco di cosa accusa Berlusconi?
Come i vecchi liberali trovavano troppo rozzo
Mussolini,
così egli rimprovera l’attuale
presidente del Consiglio di non dar prova di fair
play, di essere incapace di buona educazione e
sensibilità democratica, di aver deciso di usare in
modo spregiudicato una forza elettorale ottenuta
legalmente.
La politica viene ridotta a questione di stile.
Berlusconi non va, è un inconveniente aggiunto
(così lo definisce Eco) perché egli soltanto
avrebbe una nozione (come dire?) abbastanza
autoritaria del proprio ruolo padronale.
Eliminato l’inconveniente, rientreremmo nella
“normalità democratica”.
Ora io, vecchio e non immemore di un’epoca
giovanile in cui anche Eco pareva pensoso dei
limiti della democrazia anche qui da noi e non
solo in Secondi o Terzi mondi, non ricordo di aver
mai visto politici o manager che svolgessero un
ruolo padronale senza autoritarismo; e ritengo
quello
di
Berlusconi
non
dissimile
dall’autoritarismo dei governanti della vecchia
Dc, di Agnelli di una volta e di oggi, della
Confindustria di ieri e di oggi.
L’autoritarismo è del Sistema (capitalistico, mi
permetto di aggiungere). Non può essere solo di
Berlusconi.
E allora? Allora, si dovrebbe avere non solo
l’intelligenza di riconoscere, sì, che si preparano
nuove forme di governo (berlusconiane da noi,
bushiane in Usa, sharoniane in Israele, ecc.), ma
anche di accertarsi che le nuove forme di risposta
politica da opporre siano all’altezza di questi
progetti regionali o mondiali.
La proposta di Eco non mi pare tener conto di
questo. Concreta (anzi concretissima), spiritosa,
intelligente, appanna però proprio la novità per
molti aspetti orribile delle nuove forme di
dominio. E in un momento difficile per chi non
vuole rinunciare ad una vera lotta per la libertà
del genere umano, non fa che cullare il pigro
senso comune di quella parte dell’elettorato non
consenziente, inventando il giocattolo di una
nuova opposizione tutta soft, perbene, che anche
se riuscisse a penalizzare Mediaset, rifiutandosi di
comperare tutte le merci pubblicizzate su quelle
reti, non farebbe che spostare i bravi consumatorisudditi (questa specie gogoliana di anime morte)
verso negozi e supermercati di altri padroni. Nulla
di più.
Significativi di quest’ambiguità politica sono poi
gli argomenti con cui Eco sostiene la proposta:
non costerebbe nessun sacrificio, solo un poco di
attenzione; non si può avere niente per niente, un
poco di sforzo è necessario; basta aver voglia di
dimostrare in modo assolutamente legale il
proprio dissenso; il mercato… continuerebbe a
fiorire come prima; tutti continueremmo a essere
ottimi consumatori, tranne che saremmo
consumatori selettivi – il che è indice di maturità
e di sviluppo economico.
4
Sono tutti argomenti che tendono - diciamocelo a rassicurare i padroni, ribadendo la fedeltà al
Mercato dei sudditi consumatori! Sono tutti
argomenti che esorcizzano in anticipo ogni gesto
sospettabile (da parte di chi?) di “estremismo” o
di “minoritarismo”!
Ogni gesto di rottura con le abitudini costruite dal
Mercato è escluso. Chi lo proponesse o lo
praticasse sceglierebbe, per opporsi alla
maggioranza, di entrare a far parte di una
minoranza totalmente all’oscuro di tutto! Come
dire che il tutto per Eco passa per televisione e
radio; e che ogni minoranza non può che muoversi
inevitabilmente alla cieca! (È il 25 aprile e i
partigiani – che minoranza furono – purtroppo
non possono uscire dalla fossa…).
In tal modo non ci resta, per opporci, che un
dispetto casereccio.
È questo, infatti, che viene elevato al rango di
politica: invece che comprare alla bottega
“berlusconiana” sotto casa, vado ad acquistare a
quella dietro l’angolo (che magari, sotto altro
nome, appartiene allo stesso padrone o a qualche
suo socio in affari!).
E questa, sì, sarebbe opposizione?
Fra gli uni che ci invitano a girotondi per sudditibambini e un Eco che c’invita a fare i sudditiselettivi non c’è proprio più scampo?
E se, visto che la libertà non è merce e non la si
trova né nella bottega di Mediaset né in quella di
mamma Rai, provassimo anche in pochi a uscire
davvero ancora una volta dallo stato di minorità,
che è – diceva quel Kant, di cui Eco è pallida eco
– l’incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida di un altro?
25 aprile 2002
Il “bisogno di scriverlo”
Romano Luperini ha pubblicato presso Manni
editore "I salici sono piante acquatiche", un
“quasi romanzo” in cui senza indulgenze fa il
bilancio della sua esistenza. Questo suo
abbandono del consueto, impersonale discorso
accademico a me è parso positivo. Vedere una
volta tanto, invece dell’uomo istituzionale, del
professore universitario che discetta di
ermeneutiche e canoni, un personaggio che,
aggirandosi sul piano narrativo-autobiografico
della memoria, rivela le sue umanissime
lacerazioni, e – perché no – quasi una tensione
esodante non dissimile dalla mia, me l’ha reso
più simpatico. Gliel’ho scritto.
6 aprile 2002
Caro Romano,
ho appena letto tutto d'un fiato il tuo libro, I salici
sono piante acquatiche, che un amico libraio di
Cologno mi ha proposto sapendomi "in contatto
con te". Ti scrivo brevemente, vincendo
l'incertezza e la ritrosia procuratemi dal senso di
"fredda stima" con cui in generale ho visto
accogliere da parte tua i miei tentativi di
confronto. E per dirti che ho accolto il tuo libro
con una certa gioia, come una conferma che una
parte "in comune" c'è e non è trascurabile, anche
se forse esiste ancora quasi un divieto
(generazionale?) a parlarne. Non sono solo alcune
immagini ed esperienze (i cavalli incappucciati, il
braciere, le peripezie dolorose con il"femminile",
il conflitto col padre, ecc.) a "quasi coincidere",
ma proprio quel "bisogno di scriverlo" (pag.11) e
di cercare, scrivendo, il possibile "significato della
propria vita e altrui" (pag. 7); e in quella forma
narrativa-autobiografica in senso lato, a cui - mi
dicevano - tu fossi particolarmente ostile.
Che poi questo bisogno assuma una forma ibrida o
frammentaria,
a
me
pare
davvero
diventato secondario,
come
mi
sembrano
secondarie le giustificazioni che devi darti o
dare ("mi prendo una libertà altrimenti vergognosa
e per me impensabile", "mi giustifica la speranza
di lasciare testimonianza", pag. 11) ai lettori
d’ambiente accademico.
Non mi soffermo sulla forza con cui hai reso
certe figure e certi nodi esistenziali; né su tante
altre cose...
7 aprile 2002
Caro Ennio, ho molti sensi di colpa per quel
romanzetto autobiografico. L’ho tenuto a lungo
nascosto,
ho
boicottato
più
o
meno
consapevolmente qualsiasi tentativo di pubblicarlo
presso grossi editori, poi ho ceduto ai Manni e
l’ho pubblicato semiclandestinamente (sono
stupito, anzi, che tu sia riuscito a venire a
conoscenza della sua uscita). Insomma un
atteggiamento contraddittorio e nevrotico, di cui
credo di conoscere, almeno in parte, le cause
psicologiche. Le tue parole mi leniscono l’ansia e
la vergogna. Nel corsivo iniziale non mi giustifico
con improbabili lettori accademici, ma in realtà
solo con me stesso. Ma resta l’impressione di aver
compiuto una cattiva azione, d’aver tradito
qualcosa ecc. Né vale quello che dice Saba, che il
successo legittimerebbe la confessione; no, il
successo
(fortunatamente
impossibile)
aumenterebbe solo lo scandalo. Tuttavia, se
qualcosa di quel libro è passato in te e in qualche
altro lettore, allora, mi dico, non ho sbagliato del
tutto. Ma, si sa, le strade dell’inferno sono
lastricate di buone intenzioni. Scusa questo
5
linguaggio ondivago, che non mi è consueto. E
grazie per aver letto e aver scritto. Romano
FUORI DAGLI EQUIVOCI
DEL VOLONTARIATO,
MA NO ALLA SIRENA DEL MERCATO
Alcune obiezioni a Nicola Simoni,
Tra
volontariato e mercato, in Il gabellino (Dossier
6), anno IV, numero 5, maggio 2002
Il gabellino, periodico della Fondazione
Bianciardi di Grosseto, è un buon alleato delle
riviste di cultura alla macchia o poco note. Il
dibattito sulla loro utilità e su come correggere i
limiti della loro marginalità è prezioso. Le poco
diplomatiche
osservazioni
che
seguono
vorrebbero incoraggiarlo.
Sì,
parliamo
della
«marginalità
produttiva» delle riviste di cultura che hanno
scarsa udienza, pur non destinandosi volutamente
a cerchie ristrette di persone; e soprattutto di
alcune riviste, quelle promosse dall’intellettualità
di massa e redatte di solito da chi fa anche «un
altro lavoro» (per campare innanzitutto e ricavare
il tempo e il denaro anche per fare la rivista).
Ma diciamo con chiarezza che «tra
volontariato e mercato» la scelta da ribadire oggi è
a
favore
dell’”ambiguo”,
“moralistico”
volontariato, a meno che non si voglia passare
dall’altra sponda e raggiungere quanti negli ultimi
decenni, persuasi che “il tempo delle riviste” sia
finito, hanno rinunciato non solo a produrne fuori
dal mercato o ai suoi margini, ma predicano –
magari senza più nominarlo – che il capitale è
l’unica «realtà effettuale delle cose».
Chiarito questo, consideriamo pure le
nostre miserie e i nostri difetti.
Manchiamo di lettori? Non li troveremo
inseguendo la “gente”. I nostri potenziali lettori,
che oggi c’ignorano o perché ostaggi in mano ai
potenti gestori della società dello spettacolo o
perché alle prese con percorsi che non
s’incrociano coi nostri, vanno costruiti attraverso
pazienti contatti con gruppi amicali, con quel poco
che resta di una dispersa “sinistra” ,
con i
“movimenti”. L’ampliamento del loro numero
deve avvenire in coerenza con l’attività di
laboratorio che la rivista organizza: abbiamo
bisogno di buoni lettori per un buon saggio, una
buona poesia, una buona discussione, un buon
seminario.
Il nostro rifiuto del mercato ha, da rivista
a rivista, forme variabili e motivazioni
eterogenee? Alcune ne fanno una bandiera, altre
lo dichiarano quasi a malincuore; c’è chi pensa al
recupero di una nobile Tradizione umanistica
(antimercantile o non del tutto mercantile), chi ad
una nuova religione dei colti, chi a nicchie
“autonome”, chi ad un (utopico?) oltrepassamento
del mercato (capitalistico)? Discutiamo queste
impostazioni e le pratiche che ne discendono o le
accompagnano: le riviste hanno avuto sempre la
meritoria funzione di filtro delle idee e delle
pratiche più adatte ad afferrare la realtà in
mutamento, anticipandone se possibile le
metamorfosi.
C’è poi il peso della marginalità con le
sue innegabili ambiguità, sulle quali Simoni
troppo ironizza e insiste. È vero, la retorica sul
«valore del volontariato nella società civile
odierna» è a volte asfissiante, e in questo si può
concordare con lui. Spesso i suoi apologeti
presentano un bisogno, fortemente ma solo
potenzialmente
diretto verso la liberazione
individuale e comune, come fosse già realizzato in
quella forma approssimativa che è riuscito ad
assumere. Ma dal fastidioso alone degli
ideologismi o del «moralismo e astrattismo» che
ci accompagna possiamo liberarci senza andare a
ripetizione dai manager del marketing.
Ad esempio, è bene che si rifletta
apertamente sul fatto che il lavoro nelle nostre
riviste di cultura (e, in genere, nelle attività di
volontariato non-profit, ecc.) è quasi sempre
lavoro non pagato o sottopagato proprio come
quello - che so - delle casalinghe; che esso resta
in varia misura coatto o comunque controllato o
controllabile da chi dall’esterno più o meno con
tolleranza lo “sponsorizza” (fondazioni, case
editrici, enti pubblici) e che, pertanto, sia pur in
modi ridimensionati, conserva il marchio del
lavoro subordinato); e, ancora, che in certi casi
può somigliare tantissimo e semplicemente ad «un
secondo lavoro volontario, che spesso meriterebbe
il più banale nome di hobby». Da qui
l’oscillazione tra proclamato rifiuto dello
sfruttamento e un certo autosfruttamento
“amichevole”,
a
volte
mascherato
da
autodisciplina o dalle condivise ideologie della
ricerca della libertà, dell’autonomia, del dono,
della militanza, ecc.
Questo dobbiamo saperlo, e dircelo e
ripeterlo a quanti ingenuamente o in malafede
negano ogni parentela del lavoro volontario con il
lavoro subordinato e sognano di trovarsi già –
che facciano una rivista “libera” o lavorino nei
settori non-profit o del lavoro “immateriale” – in
una zona franca, esente dalle spietate leggi del
mercato che continuerebbero a piegare solo le
schiene degli altri lavoratori (quelli “materiali”). E
6
dimenticano che, a causa del permanente e anzi
rafforzato controllo di quanti sfruttano in vari
modi tutto il lavoro altrui, quella “loro” zona è
parziale e precaria; e non può essere idealizzata e
magnificata in sé. Non ci sono isole felici, si
diceva una volta. Ci sono al massimo isolotti in
cui la lotta (diciamo anche per la felicità) è solo
più intensa e più chiara nelle sue premesse e nei
suoi obiettivi.
La consapevolezza delle ambiguità in cui
avvengono tutte queste esperienze non le
danneggerà; né cancellerà la genuina spinta di
fondo alla liberazione, il grado variabile di verità
e di cooperazione antiélitaria in esse
raggiungibile, la volontà soggettiva di militanza e
di ribellione allo sfruttamento, all’ingiustizia,
all’ipocrisia, che solo praticando tale resistenza al
mercato possiamo (non è garantito…) rendere
concreta.
Solo questo conta davvero. E deve essere
anche chiaro che queste cose (spinte di
liberazione, verità, cooperazione, militanza,
ribellione) non sono prodotte quotidianamente
solo da chi
opera nel settore
no-profit.
Staremmo freschi!
Si producono ovunque, negli interstizi di
tutte le varie forme che ha assunto o va
assumendo
oggi
il
lavoro:
“salariato”,
“autonomo”, “precario”, “volontario”, “servile”,
“alternativo”,
“immateriale”,
ecc.
Quindi
attenzione a tralasciare, quando parliamo di
cultura, i sotterranei legami fra attività, troppo
sbrigativamente considerate “libere”, e attività,
necessarie ed imposte, finendo quasi per
contrapporle. Fra “lavoro volontario” e lavoro
subordinato c’è solo differenza di grado e dentro
uno stesso sistema. Parteggiare per l’uno contro
l’altro e accusare soltanto quello “volontario” di
essere «di impronta idealistica» per il suo
“rifiuto”
della
«monetarizzazione
della
produzione» mi pare sbagliato. (E fa benissimo la
Fondazione Bianciardi a tentare di evidenziare i
possibili legami tra le riviste di cultura e la scuola,
cioè tra il lavoro “libero” e quello “meno
libero”…).
Non so fino a che punto ci sia coincidenza
sicura fra far rivista di cultura, volontariato e
pratica “alternativa” della Rete; ma di comune
tali esperienze hanno un merito: indicano
l’irrazionalità delle leggi del mercato e possono
svelare e costruire un’altra “realtà effettuale delle
cose”, visto che quella esistente è un prodotto del
volontariato dei padroni.
Il problema è ancora oggi la liberazione
dallo sfruttamento capitalistico di tutte le forme
del lavoro o più semplicemente del lavoro.
No, la «razionalità» («il bambino»),
anche se non sta già nel “lavoro volontario”, di
sicuro non si trova più nell’«acqua sporca del
profitto». E la critica
alle ideologie
del
volontariato e della rete è monca e rischiosa, se
tace le sofferenze e lo spreco che il mercato
capitalistico globalizzato, oggi sempre più di
guerra, continua a imporre all’umanità.
A
quando, dunque,
una seria riflessione sulla
degradazione del lavoro (Bravermann), quello
“volontario” e quello “professionale”, dovuta alla
perdurante sottomissione al capitale? E a quando
un ripensamento delle troppo taciute potenzialità
di liberazione proprie del lavoro?
21 giugno 2002
COLOGNOM
DIARIO
15 ottobre 2001
La bomba cade
la bomba cade, l'afghano
muore
il mercante d'armi brinda, il papa prega
il terrorista si prepara, il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all'afghano che muore
al mercante d'armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro,
ceceno, etc.
che muore
che non brinda, che non manifesta, che non scrive
versi
che lontano, lontano
riceve la bomba della nostra intelligenza
28 novembre 2001
Su Ranchetti (leggendo La mente musicale e
Verbale)
Il mondo s'è strappato dagli occhi
l’uomo religioso.
Ne serba incubo e reliquia
in lingua morta.
Eremitaggi così
addosso alla pelle della morte
provammo nell’infanzia
7
degli esilii in sé.
Poi uscita e fuga
da terrori di fiabe contadine
e latino di preti.
Per esplosione.
Ora in quotidiani altrui
raccatto semi bruciati
d’una vietata storia.
Nota. Cos'è una scrittura di morte, addosso alla
morte, sotto la morte.
Come "morire" per intendere questa scrittura.
Presa mortale di questo pensare la morte.
Accettare una ampia zona di oscurità nella poesia
di Ranchetti. Che tipo di oscurità è, però?
2 febbraio 2002
Sogno
Obbligo ad essere amanti immobili.
Luce di lampada
(ovviamente fioca, ad altezza del viso,
come quella metallica verde
della cucina di Vicolo Adda)
e non di luna.
Obbligano due energumeni nerastri.
Ma litigano, si rincorrono attorno a noi due amanti
e al tavolo
(c'è nel sogno il tavolo
o è un'aggiunta?)
Strappa giù il lampadario
e al buio baciamoci.
1 marzo 2002
Sogno
Carabinieri travestiti vanno a disturbare un corteo
di pacifisti. Contrasto un fascista che parla bene
della Decima Mas. Lui ed un complice mi
assalgono. Vorrei chiedere aiuto, ma il corteo dei
manifestanti è troppo lontano.
Sulle beghe “politiche” del teatrino comunale
di Cologno
Volevo rispondere per le rime alla lettera che il
Sindaco ha spedito a tutti i “cittadini” per spiegare
la sua scelta di alta moralità evangelica:
sbarazzarsi del centro sinistra che l’aveva eletto e
passare al centro destra che l’aspettava a braccia
aperte. Mi sono mancate le parole.
Volevo rivolgermi ai sette consiglieri che si sono
alla fine dimessi, dopo numerosi attestati di stima
al Sindaco. Le parole erano troppo grosse. L'esodo
non passa di qui.
Ho detto la mia a Michele Papagna di Cologno
città solidale e all’assessore Vittorio Beretta. (Cfr.
più avanti, pag. 25 e 29).
21 marzo 2002
A Firenze per la mostra dei disegni di
Ranchetti
In treno continuo la lettura di Impero di Hardt e
Negri.
Oscillazione.
Se
questo
mondo
postmoderno è una realtà, mi ritrovo in una
collocazione che non è entusiasmante. Le
esperienze anni 60-70 che Negri esalta mi sono
rimaste in gran parte estranee.
I disegni di Ranchetti fanno pensare al Klee prima
maniera e al segno di Casorati. All’inaugurazione
c’è molta gente dall’aria colta e pensosa.
Ambiente da universitari o ex. Conosco solo Nava
e sua moglie Tullia.
Tornando a Milano in treno intervengo in una
discussione di alcuni studenti sulla riforma
Moratti. Sono i leader di organismi studenteschi
cattolici. Li accompagna il loro preside. Martello
di obiezioni il più accanito e spocchioso che
difendeva una scuola fatta solo per chi ha voglia
di studiare. Ma la “scuola per tutti”, mi dico, è
diventata davvero un’astrazione. La “fuga dalla
scuola” è una realtà.
3 aprile 2002
Le teste battevano
[Palestina].
nelle
vecchie
bufere.
8 aprile 2002
mentre dalla Palestina quotidiane stragi (1)
Chiedesti: e possiamo tacere sui palestinesi
noi che siamo qui convenuti
per parlare di scritture e realtà?
L’avvocato che in passato
aveva difeso tanti brigatisti
ribattè sprezzante
contro il “miserabilismo di sinistra”.
Lodò di quei due giorni del convegno
il dibattito
così ben fatto
Se ne faranno altri, concluse.
A noi i dibattiti.
A loro le stragi.
Samizdat Colognom
La percezione del luogo in cui abito si deve
spostare da quel minimo che colgo da passante o
automobilista che lo percorre per tragitti minimi
8
ed obbligati (accompagnare Matteo al nido,
andare da mia figlia Elena, fare la spesa
all’Esselunga di viale Lombardia).
La percezione del luogo in cui abitiamo si potrà
mai spostare dai percorsi obbligati che facciamo
da passanti, da automobilisti?
9 aprile 2002-07-18
mentre dalla Palestina quotidiani stragi (2)
Anche Fortini de I cani del Sinai (1967) e di Un
luogo sacro1(1990) risulterebbe oggi inadeguato
di fronte a quest’orrore? Non so. Non so neppure
se quanto lì accade è una conferma del tracollo
degli stati-nazione, come dice Impero, o una
riprova che siamo tutti dentro la vecchia, sporca
storia dei nazionalismi.
Riordinadiario
Rilettura veloce del diario 1978. Qui ero davvero
dentro Colognom e la crisi della militanza da
nuova sinistra. Attenzione da cronista. Isolamento.
Caparbia ricerca di organizzare una qualche
resistenza.
Un
solitario
e
faticoso
autoriconoscimento della mia condizione di
intellettuale di massa.
30 giugno 2002
Matteo
Mentre andiamo in auto a Loano.
- Dove vanno a finire le parole che tu dici, quando
escono dalla bocca?
- Nella bocca della mamma.
- E se la mamma non c’è?
- Sugli alberi.
4 maggio 2002
Solmi
Mi lascio trascinare al Palazzo dello sport di Sesto
S. Giovanni, dove si tiene un meeting dell’Ulivo
mirato soprattutto alle prossime elezioni
amministrative.
Lo faccio per cortesia verso Renato. Lo critico per
questa sua battaglia antiberlusconiana che a me
appare all’ombra dei DS, ma non me la sento di
contrastare di petto la sua passione politica. Con
una meticolosità d’altri tempi ha schedato –
quaderni e quaderni - tutti gli e-mail ricevuti per
l’iniziativa di boicottaggio a Mediaset.
Come sospettavo, gli organizzatori ulivisti della
manifestazione sestese ovviamente non gli
permettono di leggere l’intervento che egli
sperava di fare dal palco.
Il pubblico è in prevalenza di anziani. Il rituale
americanizzato. Ho visto solo distrattamente in
qualche spezzone televisivo queste ovazioni
all’ingresso dei leader, lo sventolio di lunghi
bandieroni, i salamelecchi dal palco degli artisti
(in questo caso Ottavia Piccolo e Vecchioni, mi
pare di ricordare). A vederli dal vivo, mi sento
imbarazzato, come se tornassi in chiesa.
Sentimenti miei: di antipatia, di ostilità. Colgo
soprattutto l’ipocrisia da ceto medio alto
professionale. Appena un po’ di curiosità per i
volti di quelli seduti accanto a me.
Vedo di sfuggita anche Stefano Facchi e Camillo
Piazza, i “verdastri”partoriti secoli fa dal nostro
defunto lavoro politico extraparlamentare a
Cologno.
Rivista: Gomorra giugno 1998
«Il cuore del sistema è “un software scritto su
piattaforma Macintosh Quadra, uno stack
[Mucchio? Gran quantità?] di hypercard
[Iperbiglietti? Ipercarte?] che comprende al
momento una ventina di torsi e altrettanti bacini,
sia maschili che femminili” (Velena, 1995) e,
mentre una finestra di visualizzazione ci permette
di vedere il corpo di rappresentazione del/la
ciberamante,
eventualmente
zumando
e
ruotandolo a piacere, attraverso il mouse si agisce
con una stimolazione dell’area prescelta» (pag.99)
Periferie. Non c’è solo la “mia” (ancora
montaldiana?). Questi giovani (suppongo)
ricercatori romani ne raccolgono (con sguardo un
po’ pasoliniano e un po’ settantasettino alla
Andrea Pazienza e alla Frigidaire) gli squarci
più attuali (la descrizione della vita notturna dei
trans al Flaminio, pag. 92).
1 luglio 2002
Lavorando a Riordinadiario 1978
Registravo i mutamenti. Non coglievo i segnali di
morte che essi già, a frammenti, contenevano.
Alcuni temi qui presenti li ho già sviluppati di più
narrativamente, ad es in Prof Samidat (attorno al
’90). E sono ancora carichi di sviluppi. Ma certe
notazioni impressionistiche? Pura descrizione?
Dove li inquadro? In Proletari a Colognom?
Nella forma del diario essi si presentano
sparpagliati nei giorni o negli anni e non trovano
un senso.
26 giugno 2002
2 luglio 2002
1
In Extrema ratio, Garzanti, Milano, 1990
9
Lavorando a Riordinadiario. Rivedo la mia tesi
sui Quaderni Rossi (anno acc. ’68-’69)
Ci ritrovo le radici della mia tensione politica
marxista-operaista delineatasi proprio in quei due
anni e che ha potuto alimentarsi solo su fonti
indirette o esperienze “sporche”: nella militanza in
un’organizzazione operaista-leninista come AO,
nel lavoro di base a Cologno in quell’ottica, nel
metodo dell’inchiesta di Montaldi (non a caso
passato per i Q.R.), nella ripresa dell’attenzione
alla letteratura in chiave fortiniana, nel seguire le
ricerche dell’area operaista (dal Primo maggio di
Sergio Bologna, a Negri a Virno e con più riserve
a Tronti).
La tesi sui Q.R. mi sottraeva all’influenza
dell’area PCI della Statale. Passai dal tema dei
consigli di fabbrica gramsciani, che avrei dovuto
preparare con Della Peruta, alla tesi con Catalano
sotto
l’influenza
dell’avvicinamento
ad
Avanguardia Operaia e alle prime esperienze
davanti alle fabbriche. Non so quando sentii
parlare dei Quaderni rossi la prima volta. Ricordo
che avevo conosciuto Banfi e la Bianca Beccalli.
Avevano avuto contatti diretti con i torinesi dei
Q.R.
Quel lavoro lo preparai in fretta (forse due mesi) e
da studente-lavoratore. Fu sicuramente libresco.
Non ebbi tempo (né avevo i contatti giusti) per
interrogare o discutere con alcuni dei partecipanti
a quell’esperienza. Né Catalano, che mi fece da
relatore, doveva essere molto interessato. Fu una
sorta di apprendistato convulso della cultura
operaista
alle sue origini da parte di un
intellettuale immigrato che di fabbrica e di
problemi industriali conosceva ben poco, anche se
lavoravo da operaio notturnista alla SIP. La
documentazione della tesi mi pare ancora oggi
buona, ma cronistica. Deboli invece sono il
commento critico e la contestualizzazione sul
piano culturale. Testimonia la scelta di un
orientamento politico personale: un leninismo,
forse già derivatomi da AO, che mi fa prendere
una qualche distanza da Panzieri e soprattutto da
Tronti. Non consideravo l’effetto che poteva avere
sugli accademici a cui mi presentavo, quasi tutti
del PCI di allora, né la loro svalutazione delle
questioni sindacali e di fabbrica. Ricordo la
sufficienza con cui Salinari, al momento della
discussione, parlò delle «oscurità» del linguaggio
di Panzieri.
3 luglio 2002
Il computer mi fa dannare
Il computer si ferma appena comincio a scrivere
Si ferma dopo un po’ che scrivo
Ho paura di scrivere
Non riesco a completare il riordinadiario 1978
E invece su altri files funziona
Cosa ha questo computer?
Cosa ha questo programma xp?
7 lug. 2002
Riordinadiario
Il diario è stata la forma di scrittura da me più
usata perché isolato.
Il diario è per me il supporto del lavoro sulla
memoria personale che sempre mi propongo di
fare.
Il diario è stato il punto base di partenza per altre
forme di scrittura (nel mio caso poeterie e
narratorio)
Il diario è rivedibile e riordinabile da chi lo scrive
se campa e lo rilegge.
RIORDINADIARIO maggio 1978 - 2002
1.4. 1978
Dopo assemblea della Costituente di
Democrazia Proletaria con Mangano a Villa
Casati
Curiosità, voglia di ritrovarsi fra compagni. Ma i
discorsi di Sacristani, Stefano Facchi e anche di
Mangano sono nel vecchio stile pedante,
comiziesco, d’appello all’emergenza. Dubbi
sull’opportunità di costruire oggi un altro partito,
proletario dopo il fallimento della costruzione di
quello rivoluzionario. Mangano ha affinità con i
compagni del manifesto. Potrei lavorare con lui.
Ma con gli altri? Se l’ipotesi di un collettivo
locale di Democrazia Proletaria avesse avuto
qualche fondamento, poteva essere fatta prima
della rottura fra Avanguardia operaia e Pdup2. Le
spinte burocratiche e settarie prevalsero allora e
sono sempre all’opera anche oggi.
Bisogna porsi seriamente il problema di andare
oltre il PCI3; e per farlo non basta andarci contro.
Come dice Eugenio Grandinetti, la nuova sinistra
non sa costruire un suo progetto e continua a
muoversi in funzione del PCI.
Può sembrare una pretesa, ma penso che
dobbiamo andare anche oltre quel che hanno fatto
Lotta Continua, Avanguardia Operaia e Pdup.
È vano lavare e stirare ancora i panni smessi di
queste organizzazioni.
Troppe macchie
burocratiche.
2
3
Partito di unità proletaria.
Partito comunista italiano.
10
La vicenda di Corvisieri4 dà da pensare. Come
mai un frutto cresciuto sul nostro stesso albero è
diventato così “marcio”?
Corvisieri scopre la bontà della via pacifica al
socialismo proprio quando essa degenera nel
compromesso storico. Come degenera purtroppo
la via rivoluzionaria nel militarismo delle Brigate
Rosse5 e proprio quando lo Stato democristiano
svela la sua putrefazione.
È impossibile attestarsi sulle “modeste certezze”
(il PCI che s’aggrappa allo Stato nato dalla
resistenza, Democrazia Proletaria che s’aggrappa
alla costruzione del partito). Non hanno
funzionato negli ultimi trent’anni, figuriamoci
adesso.
Fortini
Rifletto sulla sua esortazione a «scrivere di
questioni concrete, non di teoria politica; meglio
allora una problematica etica».
Sì, dobbiamo evitare, proprio come fanno
femministe e giovani, i ritorni frettolosi alla
politica. L’idea di costruire il partito è inacidita.
Ce ne dobbiamo liberare, specie noi che per dieci
anni abbiamo
lavorato su questa ipotesi.
Riproposta, scatena i soliti comportamenti: sensi
di colpa, pretese egemoniche verso i “vicini di
casa”, divaricazione fra spinte avventuriste e
burocratiche. Essere drastici: il periodo del
marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse Tung è
morto. Non
serve colmare le lacune della
precedente militanza. Anche se volessimo
riaccostarci con più serietà agli stessi testi di
Marx, Lenin o Mao, letti troppo in fretta o male in
passato, dovremmo prima ripulirci dagli schemi
ideologici di questi anni vissuti da militanti di
partito. E lo stesso vale per i temi oggi ritenuti
“importanti”: femminismo, teoria dei bisogni.
Non possiamo affrontarli col “taglio da partito”.
Non basta cercarsi neppure interlocutori
rispettabili nella nuova sinistra. Guardare a
compagni ancora più ai margini. Fortini, per me, è
uno. Ma dobbiamo cercarne altri; e non tanto fra
le masse (che è un concetto anch’esso inseparabile
da quello di partito), ma fra gli individui concreti
e sempre più spesso fuori dalla cerchia dei
politicizzati.
2.4. 1978
L’esperienza di Avanguardia Operaia. I bilanci
di Vinci e Campi6
Allora quel mio disagio presente fin dagli inizi
non era solo il segno di una debolezza personale.
Che errore aver proseguito.
Ciao maschio di Ferreri
In un cinema di Monza con Donato, Rosa, Titina e
altre maestre. È una favola contemporanea.
Quindi amara e inquietante, perché immettere
nella favola aspetti spietati del mondo
contemporaneo significa stravolgere il genere. Di
cose inquietanti ce n’erano anche nelle favole che
leggevo da ragazzo, ma facevano tutt’uno con un
passato mitico.
Uno dietro di noi: «Questo non è un film da
sabato sera, ma da lunedì mattina…».
Hinterland, due ragazze: G. e C.
G. ha una corporatura minuta, l’aria triste, ma
intelligente e sensibile. È l’autrice di un quaderno
di poesie che la C. mi aveva dato in lettura mesi
fa. Lavora in fabbrica a Cologno, dopo aver
interrotto gli studi. È la prima di cinque figli.
Genitori meridionali e possessivi: alle 20 di sera
deve rientrare a casa. Ha deciso che fra un anno
se ne andrà a vivere da sola. Vorrebbe scrivere,
fare la giornalista. Per adesso raccoglie esperienze
di vita di altre donne. Le dò una mia poesia e un
vecchio numero del nostro bollettino. Le chiedo
anche se è disponibile a tenere un diario delle sue
giornate in fabbrica. Parlando, viene fuori che è
una delle ragazze della media di Via Rossini, qui a
Cologno, che mobilitammo sei o sette anni fa per
protestare contro i doppi turni e le inadeguate
strutture scolastiche (Le classi erano in
appartamenti al primo piano di un condominio,
come succedeva spesso… Anch’io insegnai per un
anno in situazione analoga a Cinisello).
Piacere per questi incontri improvvisati, anche se
ci accorgiamo – io e R – dell’accresciuta distanza
fra la nostra e la loro generazione.
Ghetto e ribellione
Siamo nel ghetto. Sul serio o per modo di dire? E
perché non tutti reagiscono come facciamo noi?
Ma è poi vero che noi reagiamo al ghetto
ribellandoci? E se la nostra è ribellione, perché
quella degli altri ci pare meno evidente? Forse la
nostra è così evidente e visibile?
Lo è, certo, in alcuni momenti, su alcuni aspetti.
È già molto intellettuale rispetto a quella di chi ha
ragioni materiali più urgenti (quelli senza casa o
4
Uno dei dirigenti fondatori di Avanguardia Operaia
passato in quei mesi al PCI.
5
Organizzazione comunista clandestina che praticò in
quegli anni la lotta armata.
6
Dirigenti di Avanguardia Operaia, protagonisti dello
scontro che portò alla sua spaccatura. Vinci confluì in
Democrazia Proletaria, Campi nel Pdup e poi nel PCI.
11
sfrattati). Chi crede che la ribellione si costruisce
solo sulla miseria è fuori strada. Proprio come chi
crede che essa debba imboccare, quasi
automaticamente, la via del voto o della pacata
manifestazione di protesta.
Hinterland, Sesto S. Giovanni
Al corso di aggiornamento sulla didattica
dell’italiano. Noia. La collega: «Al lunedì tutti i
bar chiusi! Ed io che cerco sempre qualcuno con
cui prendere assieme il caffè…».
Militanza di sezione
Gigi della GBC di Cinisello. Distribuisce
volantini e mi vende un bollettino sull’
opposizione proletaria. Riconosco uno stile: i fatti
locali che, incorniciati in quelli nazionali,
sembrano avere più importanza; e invece restano
delle aggiunte. È lo stile delle sezioni dei vari
partiti. I responsabili
operano, anche loro
malgrado forse, come caporali che devono badare
alla loro squadra. I carrieristi si affacciano in
queste situazioni occasionalmente e per breve
tempo. Si ripete così una solida ma ambigua
tradizione di vita da partito. All’inizio la sezione
pare un guscio rassicurante e dopotutto
provvisorio per far maturare tutti. Ma il ricambio
di idee e di esperienze è sempre parziale. La base
rimane quasi inevitabilmente per anni la stessa,
con defezioni e aggiunte quasi fisiologiche (amici,
figli, parenti, qualche immigrato che s’aggiinge..).
C’è una vita vischiosa (d’interessi economici, di
affetti, di ambizioni) che prolunga questi legami,
anche quando sono insoddisfacenti. Non è facile
smontare un rapporto che è al contempo di fiducia
e subordinazione rispetto ai dirigenti. Questi
vengono quasi sempre nominati dall’alto e
provengono da altre città, danno una certa
presenza fisica più o meno generosa, orientano le
discussioni e le scelte e poi vanno altrove, dove il
Partito li richiede in base ad esigenze che quasi
sempre sfuggono alla comprensione della base.
Fu un’illusione sperare che la sezione di Cologno
di Avanguardia Operaia sarebbe rimasta compatta
e indenne dagli scazzi del gruppo dirigente al
momento della mancata unificazione col Pdup.
Presto le tensioni oscure presenti nel vivo dei
legami fra i militanti si svelarono divisioni
inconciliabili. Il legame gerarchico purtroppo
funzionò. Le rotture al centro si ripresentarono al
livello locale. La sorte di chi che agiva
nell’ambito di una ventina di kmq era legata
rigidamente alle scelte dei pochi che viaggiavano
a livello nazionale.
Un tipo diverso d’esperienza me lo giocai al
momento in cui aderii ad Avanguardia Operaia.
Ma era forse possibile in Lotta Continua o nel
Pdup?
4.4.1978
Ricordo
Mio padre, ex carabiniere in congedo, che
tornava
a casa alle due del pomeriggio dal
negozio di accessori idraulici dove aveva dovuto
lavorare come commesso nel dopoguerra per
integrare la magra pensione e, prima di mangiare,
si cambiava la maglia di lana grezza sudata, si
faceva asciugare da mia madre che era più bassa e
faticava e poi si lavava più volte e rumorosamente
la faccia.
Operai, muratori
Quelli che escono dal bar qui sotto casa mia, in
Corso Roma 93. Mai più getterò su di loro uno
sguardo amoroso o troppo rispettoso o umiliato o
colpevolizzato.
Collettivo Itis a casa di G.
Siamo solo alcuni pezzi del Collettivo. Si discute
di Brigate Rosse. Hanno metodi ottocenteschi, si
dice. Io ho delle riserve a scaricare l’Ottocento.
Penso a tante altre violenze, a tanti massacri. G.
ricorda dei suoi colloqui angoscianti con
compagni palestinesi. Dobbiamo disfarci - e così
in fretta e furia, quasi a comando - di tutti i
discorsi fatti in questi anni sulla violenza
proletaria, di tutte le analisi storiche sulla sua
presenza nella storia, nei rapporti umani?
Abbiamo tutti la sensazione di essere tagliati fuori
dagli sviluppi che ha preso la situazione. Le cose
decisive si giocano fra PCI, DC, PSI e Brigate
Rosse. Che ne facciamo adesso di tutta la
riflessione
circolata nelle organizzazioni
extraparlamentari e sulla quale ci siamo formati
politicamente? La sensazione è di essere trattati
come bambini o semplici truppe di rincalzo.
Sentimento angoscioso di essere finiti in una
retrovia e in mezzo a compagni dalle idee
confuse. Come pretendiamo di orientare gli altri?
Ci aggrappiamo al discorso sulla democrazia reale
contro quello che simpatizza (senza dirlo) per la
lotta armata. Ma nella difesa della democrazia
reale saremo da soli o ci troveremo assieme ai
riformisti?
Documento della direzione del Pdup sulla crisi
italiana dopo il rapimento di Moro (il manifesto
4 aprile 1978)
Delusione. È un ricalco intelligente delle posizioni
del PCI, sulla cui posizione di fermezza si sorvola.
Parlano di terrorismo (che ha manifestazioni
attuali) e di golpismo (che pare inteso come
12
un’eventualità). I due fenomeni sembrano posti
sullo stesso piano. Criticano la posizione «né con
le Br né con lo Stato»: che smarrirebbe la
distinzione fra «regime democristiano o vecchio
stato burocratico sopravvissuto al fascismo e
quelle istituzioni e quelle prassi democratiche che
sono cresciute attraverso la lotta di massa». C’è
accordo pieno con il PCI: in questa fase la difesa
della democrazia coincide con la difesa delle
«istituzioni di questa costituzione». Nessun
accenno al grado di democraticità reale di tali
istituzioni.
5.4.1978
Esorcismi
Tutti esorcizzano il discorso su morte e violenza
che le Brigate Rosse hanno imposto come
elemento centrale nella lotta di classe. Vedo falsa
coscienza in tanti episodi di quest’ultimo anno:
dibattito del manifesto sul terrorismo prima del
rapimento di Moro, discorsi sui servizi segreti
strumentalizzatori delle BR, letture delle azioni
delle BR come spettacoli. Anche la riflessione
sulla democrazia di Stame7 assume toni idealistici.
I dubbi che ho sui discorsi reticenti dei
democratici e il fatto che tutte le posizioni mi
appaiono precostituite e ricattatorie m’inducono a
non schierarmi.
L’appello di Cases, che doveva apparire sul
manifesto pare sia stato bloccato. Ritrovo la sua
firma sotto un appello pubblicato da Quotidiano
dei lavoratori e Lotta continua. Sta diventando
luogo comune dire che non esiste più una sinistra
rivoluzionaria. Io pure tendo ad usare
l’espressione ex sinistra rivoluzionaria o nuova
sinistra come equivalenti.
La colognosità
Il rigore nelle piccole scelte quotidiane sembra
meno necessario nella situazione periferica. E
invece lo è. Il Collettivo Bandiera Rossa8 è già
un guscio vuoto. Ognuno ci mette i discorsi a cui
fa riferimento. M. quello del manifesto in versione
scolastica (l’inquietudine di questo compagno mi
sa che durerà solo fin quando troverà una buona
offerta per la sua acquisita professione…).
Tagliaferri il suo legame con Democrazia
Proletaria. Manenti il desiderio di discutere fra
amici, senza più conseguenze militanti.
7
Su Quaderni Piacentini.
Un gruppo, che ebbe vita brevissima, composto da ex
compagni della locale sezione di Avanguardia Operaia
di Cologno che aveva rifiutato la suddivisione in due
tronconi dell’organizzazione e la scelta di stare o con
Vinci o con Campi.
8
Il rapporto con loro mi suscita un rovello.
Tengono il piede in diverse scarpe o tendono
all’attivismo solito. Io vorrei una separazione
chiara dallo stile da partito e puntare allo studio
per articolare nuove idee. Mi resta la fiducia nella
“parola semplice”, di denuncia. A volte m’illudo
che una poesia, una lettera aperta, un intervento
“provocatorio” possa cambiare certi loro
atteggiamenti. Ma le strade si dividono. I loro
atteggiamenti sono fortemente radicati nella
situazione locale e
incoraggiati dai legami
d’amicizia o di frequentazione con la Sinistra
colognese che io non ho oppure ho decisamente
interrotto. Le frequentazioni della Libreria Celes o
del bar Paoletto9 consolidano questi legami.
Quelle che io giudico forme residuali o di routine
dell’attività politica locale per loro sono invece le
uniche forme “reali” e veramente politiche per
non rimanere isolati e inascoltati.
6.4.1978
Leggendo da Fortini (Una volta per sempre)
Dunque viviamo
in universi di linguaggio
diversi/
io sono lì ad espormi
in molteplici inseguitive parole
per cogliere il segno
che mi trattenga/ che non scivoli più/
tu in quest’obbligatorio esercizio
in una condizionatissima ginnastica
….
Entrare nel PCI
Donato: «Ho letto il documento di quelli della
Celes. Propongono che PCI e PSI entrino a far
parte della cooperativa. Sacristani
vuole
garantirsi i lettori del PCI e del PSI. Io gliel’ho
detto: è meglio Corvisieri, almeno le sue scelte
sono chiare».
Politica locale del piccolo cabotaggio. Quello che
dicevo in poesia sulla libreria e che li aveva così
offesi era centrato. C’è uno scivolamento delle
coscienze. Con l’attuale confusione finiremo o
tagliati fuori o a fare da pedine nei progetti altrui.
Bisogna “espatriare”, costruirsi un’altra mentalità.
Le idee del ’77, come quelle del ’68, oggi servono
poco. Possono essere la base, non l’intero edificio.
L’ingresso (e ora poi!) nel PCI pare a qualcuno
come il passaggio delle Colonne d’Ercole. Altri
invece rifiutano, ma non basta sputare addosso a
Corvisieri e non entrare nel PCI per pensare e
agire in modi non subordinati.
9
Due luoghi di ritrovo dei compagni extraparlamentari
di Cologno in quegli anni.
13
Le analisi del manifesto sono quelle rituali, di
prima delle elezioni del 20 giugno scorso.
Malgrado tutte le “gravi” scelte, sembra che
questo PCI abbia tanta democrazia depositata nei
suoi scantinati da poterla sprecare senza danni. La
nostra deriva - sia nella forma del ritorno al PCI,
sia in quelle di scelte “tattiche” subordinate o
organizzativistiche - è rovinosa.
Anche una scelta di studio so che non basta. Lo
scontro decisivo fra una democrazia ormai
autoritaria
e il terrorismo rende pura
testimonianza ogni appello ad una democrazia
reale. Siamo costretti a scelte di sopravvivenza,
siano esse l’isolamento personale o stare nel
mucchietto della ex-Democrazia Proletaria o
tenere in vita il Collettivo Bandiera rossa come
minuscolo salvagente. Ma la democrazia di base,
che è stata la giustificazione teorica di un gruppo
locale, è già morta per le scelte compiute in alto.
Vedi anche l’impotenza di Comuni, consigli di
fabbrica, sezioni sindacali e circoli giovanili.
C.
«Oggi ti arrestano anche se sei contro le BR, basta
essere contro lo Stato». Sulle BR: «saranno
peggiori di noi, ma non dello Stato».
Uno che ha scritto tanto e ha sempre cercato di
costruire assieme agli altri, può finire
simpatizzante delle BR? Ha ragione Sciascia.
Tutto il suo lavoro testimonia del suo pensiero. E
Lama lo squalifica!
Schierarsi è cedere al ricatto.
A Villa Casati: comitato antifascista etcetera
sul terrorismo.
Parecchio pubblico, in prevalenza del PCI e della
DC. Cassio10 sta introducendo. Sottolinea con
orgoglio le voci autocritiche che si levano dalla
sinistra. Vedete L’Espresso di questa settimana,
leggete le dichiarazioni di Colletti, di Amendola.
Parla poi di necessità di tener distinta la politica
dall’utopia. Il primo intervento è di un professore
repubblicano. Vuole dimostrare che gli
extraparlamentari sono i padri del terrorismo. Lo
interrompo, chiedendogli di chi è la paternità della
strage di Piazza Fontana. Diventa rosso.
Trambusto. Cassio
ricorda che ora anche
Democrazia Proletaria siede in parlamento:
quindi non bisogna «offendere» chi interviene.
Dopo un discorso appena accettabile di uno del
PSI, parla Chittò del PCI. Dichiara che i comunisti
hanno sempre difeso questo Stato, anche quando
non erano nell’area di governo, figurarsi oggi che
«è in pericolo». Poi è il turno del figlio di
10
Allora capogruppo in Consiglio comunale della
Democrazia Cristiana.
Patané11. Declama, come ho visto fare a militanti
poco istruiti e imbeccati dai dirigenti, le cazzate
che qualcuno gli ha scritto su un foglietto.
Intervengo: non si possono assolvere i 30 anni di
regime democristiano; le leggi contro il terrorismo
sono anticostituzionali; la campagna dei partiti
dell’arco costituzionale contro le posizioni di
dissenso viene condotta in modi ricattatori e
antidemocratici; quelli che dissentono non sono
quattro gatti; lo slogan «Né con le BR né con lo
Stato» è già stato corretto con quello «Contro lo
Stato e contro le BR»; la partita che si gioca è fra
democrazia autoritaria e democrazia di massa; gli
unici a preoccuparsi paradossalmente della vita di
Moro sono stati proprio gli extraparlamentari. Poi
parla Tremolada: sottolinea la sua scelta di stare
nel PCI ma da cattolico. È uscito dalla DC perché
questa appoggia il capitalismo. (Il PCI invece…!
– mi viene da chiedergli). Parlano poi le due
mamme del Leoncavallo e la Pina Canu. Discorsi
emotivi, ma in rottura col clima cerimonioso e
falso.
Al margine una scenetta fra il grottesco e il
penoso. Il portinaio del condominio dove abita D.,
che si era messo a battere le mani da solo e ad
annuire esageratamente quando Cassio aveva
introdotto il dibattito, mentre il repubblicano
inviperito dalla mia interruzione inveiva contro gli
extraparlamentari, ha cominciato a urlare: «Questi
extraparlamentari hanno rubato per strada la
borsa a mia moglie!». Poi, quando, arrivato il suo
turno, gli hanno dato la parola, fra risa e
sogghigni, s’è sbracato in gesti offensivi contro le
donne che lo interrompevano.
8.4. 1978
Parlare consunto
La vecchia zitella alla bambina: «Ah, ho capito
perché non uscivi dalla macelleria… perché c’era
il cane… hai paura… hai paura di tutto… Su…
Sali da sola?... Ah, quanto sei brava, sei brava
tu!». Con un tono così stanco… E il pensiero
dov’è? Dove naviga il pensiero della zitella
impenetrabile, dal saluto svelto e sfuggente?
Parlare a esplosione
La gente ieri sera a Villa Casati. Che miscela
emotiva veniva fuori quando parlava! Non
preparata a ribellarsi, costretta a tacere per anni
nelle riunioni di partito o a parlare in tempi stretti
e controllati dai dirigenti o
sempre
approssimativamente nei luoghi più informali,
quando poi ha un’occasione grida, bestemmia,
11
Un esponente del Psdi (Partito socialdemocratico
italiano).
14
spara cazzate. E viene subito censurata. Ancora
una volta non si esprime o lo fa in modi che le
lasciano vergogna o incertezza. E la prossima
volta capiterà la stessa cosa. La trappola è sempre
quella: o taci o applaudi o intervieni sotto
minaccia.
Agglutinazione (a proposito di Marquez)
Saldatura di più elementi linguistici in una stessa
parola.
9.4.1978
BR
Dire «Né con le BR…» non vuol dire provare
simpatia. Ma una contraddizione c’è. Abbiamo
parlato di transizione, di presa del potere, di
violenza proletaria negli anni passati. Abbiamo
preso in considerazione la produzione di eventi
che prevedevano la morte dei nemici (e nostra o di
nostri amici). Altri, in clandestinità, hanno
preparati eventi di questo tipo. E ce li hanno
imposti, sopravanzandoci, giocando il tutto per
tutto, in forme certo da noi non pensate, ma in
teoria non sideralmente distanti. Tra un seminario
su Stato e rivoluzione12 e le azioni delle BR non
c’è discontinuità. O forse era previsto che i nostri
seminari sullo stesso libro di Lenin rimanessero
soltanto platonici? Certo le pratiche della violenza
nella storia sono varie e non si può assimilare
un’azione cospirativa di pochi ad un’azione
violenta di massa. Né i diversi contesti storici in
cui avvengono. Ma siamo sul piano delle
distinzioni importanti per gli storici, troppo
“raffinate” e del tutto inascoltate nel clima attuale
di tensione…
Retorica (cattiva)
«Il passivo e insano slogan né con le Br né con lo
Stato va combattuto con un’efficace iniziativa
politica, con la pratica della democrazia, con il
funzionamento delle istituzioni repubblicane, con
la tangibile dimostrazione che lo stato è in grado
di sconfiggere le disuguaglianze sociali, le
evasioni fiscali, la disoccupazione giovanile e
meridionale…..
Convincere i più freddi, i più estranei a
comprendere che questo Stato offre le più ampie
possibilità di lotta politica democratica, mentre il
vero sbocco a cui si perviene, perdurando il
terrorismo delle BR, è lo stato autoritario» (
Bentivogli, Repubblica, 9.4.1978)
Garantisti per sconfitta
Garantista è la posizione in cui, senza grande
soddisfazione e in mancanza di meglio, ci siamo
attestati. È la posizione di Stame, del manifesto, di
DP. Con sfumature nel giudicare lo Stato:
soprattutto repressivo con aggiunta di consenso;
anche repressivo ma capace di consenso. D’altra
parte siamo stati così spiazzati dagli avvenimenti
che le nostre posizioni non possono che essere
subordinate: ai democratici, con cui ancora
parliamo; agli autonomi, coi quali neppure
riusciamo a parlare.
Non ci potrà essere nessuna nostra rimonta
rispetto alle BR. Ogni discorso sulla violenza
anche armata, magari solo chirurgica, come si
diceva, per il momento e per noi, è svuotato.
Siamo ridotti a spettatori di una feroce corrida fra
“eroi” e “mostri”. I nostri ex compagni possono
indicarci il terreno della democrazia, ma non
viene meno il sospetto per il loro opportunismo.
Oggi che dovevano essere più leninisti che mai,
s’accucciano ai piedi del PCI.
Hinterland, lesioni
X., che aveva partecipato alla lotta per la Scuola
materna al Quartiere Stella nel ’68 e a cui poi
avevo abbuonato le sue ambiguità, ha tentato il
suicidio. Per mesi l’abbiamo visto fermarsi,
sfuggendo ai nostri sguardi, al bar qui sotto casa a
bere. Adesso ne parla come di un incidente.
Eppure si vede che non padroneggia né il suo
corpo né la sua mente.
Letture: DWF, numero 5 ott.-dic. 1977 su
movimento e istituzioni
«Che farmene di un comunismo che non segni
anche la liberazione del mio corpo mercificato,
mutilato, represso» (pag. 129)
Hinterland, sfaccendati
Scese giù al portone. Erano in sei, tutti a
guardare in direzione della Seicento che stava per
partire.
- Adesso entra anche lui – fece quello coi capelli
neri e l’aria torva.
Mauro dice che i giovani che stanno qui sotto al
bar tutte le sere sono fascistelli. Hanno soldi da
spendere. Fanno gruppo. Aria spavalda.
Controllano i passanti, soprattutto le ragazze.
Hanno già imbrattato i manifesti che quelli di
Democrazia Proletaria affiggono sul muro fra le
saracinesche dei negozi.
11. 4. 1978
Sogni
12
Opera di Lenin.
15
Cifronti (è il consigliere di DP a Brugherio) viene
a casa mia con i suoi due figli. Sono stanchi. Devo
farli dormire in qualche modo. Quasi al buio mi
affanno a riordinare la stanza. In un angolo trovo
merda e piscio della mia cagnetta.
Ad un’assemblea o ad un comizio. Distribuivano
uno strano depliant elettorale. Aprendolo
mostrava delle antiche colonne di un tempio
classico. I ruderi che si vedevano a sinistra man
mano apparivano restaurati e riprendevano il loro
aspetto intatto spostandosi a destra. Era un
messaggio di restaurazione, mi dicevo. Mi hanno
zittito. Quello era un depliant del PCI e del PSI.
Ma proprio per questo – ho esclamato – non posso
tacere.
In un paese del Sud, forse a Salerno. Pareva che la
mafia avesse organizzato un attentato durante una
manifestazione. Vedevo da un balcone
un’immensa folla (come quella che si vede nelle
foto dei funerali di Fausto e Iaio13). I compagni di
Cologno filmavano la scena. Ero angosciato
perché sapevo quello che stava per avvenire di lì a
poco. Ed infatti ho sentito prima un botto e poi
spari. La sensazione è che la scena si sia ripetuta
due volte: dapprima senza folla e poi con la folla.
Visite. Bilanci.
Fallimento delle mie recenti visite. La B. non s’è
fatta viva. O., che ho colto di sorpresa forse, ha
barcollato sotto contenuto cupo delle mie poesie. I
miei scritti sono lontani dai suoi modi sornioni e
olimpici. Possiamo rivederci, ma ognuno resterà
nel suo brodo. G. è di un’altra epoca e ha
un’impostazione più scientifica. Avremo colloqui
fruttuosi, ma circoscritti. G. e L. sono aperti a
dialoghi occasionali, ma non mostrano interesse a
collaborare con me in una periferia. Fortini non
mi sento di andarlo a scocciare. Potrò colmare con
la lettura dei suoi scritti la distanza che sento da
lui e dalla sua generazione? Trazza, Sandri ed
Emilia Borghi: sono solo delle comparse, proprio
delle comparse nella mia esperienza scolastica.
Il mio isolamento si è cristallizzato. Le occasioni
di uscirne si riducono. L’immagine del quasi
quarantenne che va al circolo La Comune14 a fare
interviste a giovani sui ventenni appare a me
stesso ridicola e patetica.
13
I due giovani del Leoncavallo di Milano uccisi
proprio in quei mesi.
14
Era un centro frequentato dai giovani che ruotavano
attorno ad Avanguardia Operaia di Cologno. Sorgeva
nello spazio dell’ex cinema di Via don Giudici da noi
occupato.
Interruzioni
B. di nuovo in malattia. L. pure. Il Movimento di
Cooperazione
Educativa
(MCE)
viaggia
imperterrito e aereo nel tifone. Il collettivo ITIS di
Sesto sonnecchia. Il collettivo Bandiera Rossa di
Cologno ha saltato la sua riunione settimanale, ma
anche i suoi propositi di convocare un dibattito sul
rapimento di Moro. Anche i redattori del suo
bollettino non si sono visti e dichiarano dubbi.
Troppe coincidenze per non pensare a tante
candele che si spengono in successione. È il clima
generale che ci macina e porta via speranze e
volontà. Restano le spoglie dei fatti e
l’isolamento. E se tutti questi propositi di
continuare a fare, a discutere fossero solo il
sintomo che il legame fra di noi è ormai perduto?
Generazione che invecchia
scivola accanto a turpi e veloci vicende
di altre generazioni/
intiepidendosi muoiono.
Hanno lasciato segni impercettibili
nei vicoli, nei paesini, nelle periferie.
12. 4.1978
Alla Biblioteca Sormani di Milano
Ci vado per sfuggire alla mia stanza di studio. Per
uno come me poter frequentare una biblioteca
silenziosa è una boccata d’aria.
Eppure, che serve ad un’insegnante d’ITIS
studiarsi fior di libri di linguistica che poco
utilizzerà nella sua professione in sfacelo?
Sfumature!
«Per lui [un certo Minopoli, dirigente della
FGCI15]
il terrorismo non può avere basi
ideologiche o culturali, né tanto meno può essere
fatto
risalire
ad
una
tradizione
terzinternazionalistica o stalinista: è solo
delinquenza comune, criminalità politica,
finanziata da centrali segrete» ( Lotta continua,
12.4. 1978)
La bibliotecaria dai capelli rossi
Mi hai umiliato! – ho detto sorpreso alla
bibliotecaria, la direttrice, una compagna, che mi
ha subito scovato, con aria trionfante, il libro che
cercavo: 24 voci per un dizionario di lettere di
Fortini.
- E poi non parlar male della biblioteca di
Cologno! - ha aggiunto – Per quanto tempo lo
vuoi? Un mese? Tanto sei il primo a leggerlo…
Imbarazzato, dimentico le altre due domande che
volevo farle: come potersi riunire nel locale che la
15
Era la Federazione giovanile del PCI.
16
Biblioteca mette a disposizione; se un libro non è
nel catalogo, la biblioteca dove lo recupera. Mi
sento pieno di benevolenza e mi accorgo di quanto
un certo mio odio per il ghetto di Cologno è
astratto. Domani sera viene Sanga a parlare di
tradizione popolare
13.4. 1978
Ricordo
«Bive dint’a a coccia e paret’e». Così mio padre
(o mia madre?) mi raccontavano l’episodio del re
vincitore che aveva preso in sposa la figlia del suo
nemico sconfitto. Amalasunta, lei? Alarico, lui?
Boh!
Letture: Vittorio Strada, Se il messaggio
delirante viene dall’antiterrorista, Repubblica
13.4.1978)
Uno che parla chiaro. I terrorismo è la spia di
problemi irrisolti.
All’ospedale di Niguarda: la madre di Donato
si opera al cuore
Sono andato con lui e le sue bambine. Mi vengono
in mente le visite che da ragazzo facevo a Salerno
con mia madre e mio fratello a parenti ricoverati:
zia Luigia agli Ospedali Riuniti per una frattura al
braccio cadendo da un albero; zio Vincenzo in una
clinica privata.
Una certa paralisi del pensiero quando entro in
questi luoghi. Niguarda ha edifici spettrali.
L’architettura è del periodo fascista (le palazzine
INCIS a Salerno…). Gruppi di parenti disorientati
o in conciliabolo accanto ai letti dei malati.
Immondizia nei sacchi di plastica grigia
affastellati ai pianerottoli. Una scritta polemica a
pennarello su un muro. In spazi così trasandati le
bambine non sembrano subire questo clima per
me di vicinanza angosciosa alla morte e di
accumulo di dolore. Gridano, recitano, vagano per
il corridoio intralciando qualche infermiera di
passaggio.
Uno, parlando della Stramilano: «Credono di
tornare giovani… ma sai quanti si buscano un
infarto…».
La mamma di Donato vorrebbe offrire un pezzo di
formaggio a una delle nipotine: «Non l’ha toccato,
la nonna…». Titina è silenziosa. Non ha potuto
parlare col medico che a giorni opererà sua madre.
Da Bisaccia è arrivata anche una zia, sorella della
madre di Donato. Abito nero. Tentativi di
rincuorare. Un altro parente, invece, parla da
disperato. Anche lui è già stato in ospedale. Gli
hanno trovato un calcolo al fegato e dovrà essere
nuovamente operato. «Magari ce ne andiamo tutti
e due insieme all’altro mondo» dice amaro. Cerco
di informarmi, ma non trovo parole che vadano
bene. Me ne sto zitto e, seduto, mi faccio distrarre
dai movimenti delle bambine.
Figli
Elena: «…delle merde meno scrugnanti». E l’altra
mattina: «La sveglia ha visto che eravamo giù tutti
in piedi e perciò non ha suonato».
Fabio. Oggi non è andato a scuola e ha lavorato
tranquillo in casa a preparare tavole per
educazione artistica. Ripenso per contrasto alla
mia vita ansiosa di studente: l’atto quasi sacrale
della firma di mio padre sul libretto delle
giustificazioni, la febbre d’ansia e di curiosità al
momento dell’acquisto all’inizio della scuola dei
libri, della cartella.
15.4. 1978
Colloquio con T.
Se si tace e si osserva in un altro contesto la gente,
la si riscopre. Siamo entrambi della generazione
stagionata del ’68 e non ancora rassegnati al lento
deperimento che ci hanno preparato. Non ci
siamo associati al coro restauratore. Però i
parametri culturali sono sconvolti. Non è facile
rimettersi al passo con questa realtà. Tutti e due
abbiamo lasciato perdere il movimento del ’77.
Abbiamo sfiorato l’elemento tragico che sta al
fondo di quel che chiamiamo comunismo. Lo
possiamo riaccostare nella memoria del passato o
con una spinta utopistica. Se ce ne distraiamo
ancora, faremo chiacchiere. O strisceremo verso il
futuro come vermi. Lasciamo ad altri le doppiezze
sulla verità: una per i dirigenti, un’altra per la
base.
Rapporti
Quanti tentativi malriusciti di costruirne, di
“appiccicarmi” a gruppi o a individui appena
incontrati.
Quasi
sempre
lo
sforzo
d’avvicinamento è venuto soprattutto da me. Una
spiegazione tutta esistenzialistica dei fallimenti
(incomunicabilità, ecc.) non mi soddisfa. Una
certa indifferenza o distanza dagli altri la provo
anch’io in generale. Ma non mi pare insuperabile.
C’è piuttosto l’esperienza diretta (e di solito
subita) della sopraffazione o la percezione dei
rischi della devozione o della strumentalizzazione
a farmi cauto. Rapporti improntati al rispetto, alla
cautela alla concordanza verificata possono vivere
solo negli interstizi e forse per brevi tempi. E
sempre hanno addosso l’ombra proiettata dai
rapporti “normali”.
17.4. 1978
17
Leggere Cologno 18 aprile 1978
È il giornale locale di DP. Una scrittura
d’impronta localistica, lontana dai problemi che
mi pongo. Me lo studio attentamente. Terribile.
Raccoglie i luoghi comuni e le velleità residue di
far politica nel cantuccio che resta “a sinistra del
PCI”. Si accontenta di attizzare la polemica
locale e tirare l’orecchio ai burocrati dei partiti di
sinistra.
19.4.1978
Moro ucciso?
I partiti hanno già pronta la campagna
d’orientamento e d’intimidazione. Attenzione alle
posizioni eccentriche di Moravia e Sciascia. Ma il
grosso si svolgerà sui binari già ribaditi nelle
ultime settimane. I fatti incalzano. I compagni di
Cologno volatilizzati.
Riunione con il MCE al Leonardo di Milano
Prepariamo un’altra esercitazione interdisciplinare
per imparare a distinguere linguaggio scientifico
da linguaggio narrativo. Mi ricordo di quel saggio
di Enzensberger sulla distinzione fra linguaggio
dello storico e linguaggio del narratore. Letto sul
Menabò (1964?).
Simbolo e realtà
Un buon esempio della facile confusione fra
simbolo e realtà: un automobilista che, appena al
semaforo spunta il verde, si precipitasse a partire
senza assicurarsi che effettivamente gli altri
rispettino la convenzione segnaletica.
G.
Ha un figlio chiuso a San Vittore. Va a trovarlo
ogni domenica. Mi dice che il vicecomandante
delle guardie ucciso dalle BR era «una carogna».
Le cose, la storia vissute qui in basso non sono
meno pesanti.
TG1: Appello del papa, dichiarazioni della DC
Vogliono soltanto persuaderci che sono i più forti
e per questo sarebbero anche nel giusto. Sono
sordi.
Trasmettono anche un filmato: una cittadina
sovietica che s’incatena al cancello di
un’ambasciata straniera a Mosca. La figlia
disperata urla contro i poliziotti che la portano via.
Anche vissute solo attraverso Tv e giornali, le
cose sono tremende.
23.4. 1978
Dal diario al racconto
Il passaggio va costruito senza smorzare il
rapporto con la fluidità del reale. Timore di
imbalsamare il reale. Non è che col diario sono
più addosso alla realtà. Con esso rendo in modi
meno censurati il mio corpo a corpo con la realtà.
Scrittura, forma e rapimento Moro
Scrivo prevalentemente (e provvisoriamente?) in
forma di appunti, di diario e di lettera ad amici.
Spero di passare ad altre forme(poesia,
narrazione) che adesso mi appaiono poco motivate
o non posso permettermi per mancanza di tempo.
Ipotesi di scrivere in forma narrativa e saggistica
sul rapimento di Moro. È un modo di difendermi.
La vicenda mi ha colpito molto e ne ho seguito
quotidianamente lo svolgimento da radio, giornali
e TV.
Il tema potrebbe aiutarmi nella riflessione sul mio
rapporto con la politica (modello che ho in mente:
I cani del Sinai di Fortini). Il rapimento è
avvenuto quasi a conclusione di un processo di
deterioramento anche personale (spaccatura di
Avanguardia Operaia e mia autoesclusione dalla
militanza, rottura di legami di amicizia nella
scuola e a Cologno; e c’è anche la coincidenza fra
fine della mia militanza e l’operazione all’occhio
sinistro per distacco di retina). Tento ora il
recupero della mia precedente ricerca (poetica,
artistica, letteraria). Mi ripeto: è autodifesa. (Da
bambino e da malato mi mettevo tante coperte
addosso).
Ho sentito questo evento come l’inizio di
un’aggressione dei potenti alla vita quotidiana. Il
potere s’affaccia mostruoso come un King Kong
alla mia finestra mentre sto alzando la tapparella.
Penso alle perquisizioni in corso, ai posti di
blocco visti sulla Palmanova o su Via Di Vittorio
a Sesto, mentre andavo a scuola. Il rapimento di
Moro è stato l’allarmante conferma di un bubbone
(chiamato terrorismo). Nella nostra area politica,
chi pensava che le BR potessero tanto? Contro
tutte le tendenze esorcistiche, anche provenienti
da voci autorevoli del movimento operaio, leggo il
fatto come esplosione di una nostra malattia. Mi
dico: non dobbiamo rinunciare ad una ricerca
della verità, anche se dovesse rimanere isolata o
clandestina. (Penso alla vicenda degli eretici
conosciuta studiando Cantimori e Bainton).
Parlando con Donato: rapimento Moro e
Linda Panzeri
Donato mi dà notizia che questa compagna di
Cusano Milanino (aveva lavorato anche a qui a
Cologno attorno al ’70) ha tentato il suicidio ed è
in coma. L’avevo vista muoversi silenziosa e un
po’ assente in mezzo alla folla di piazza Duomo
durante la manifestazione indetta per il rapimento
18
di Moro. Donato sul rapimento ha scelto senza
tentennamenti «l’opzione democratica» e parla di
«diritto alla vita tutti». Io non riesco ad accettare
l’ambiguità di questi discorsi. Ammetto di avere
qualcosa in comune anche con i nemici di classe,
ma non me la sento di affermare che «bisogna
difendere la vita dell’operaio come quella del
deputato (democristiano)».
Arriva mio suocero. Michele ci racconta della
manifestazione a Cologno per il 25 aprile. Donato:
«E allora, hai chiesto la pensione alle BR? In
questa situazione sono loro lo Stato…».
Dai bersagli delle sue battute, quasi sempre
Autonomia, ecc., afferro l’evoluzione in corso di
Donato. Concede di aver imparato tanto in questi
dieci anni di militanza extraparlamentare, ma il
ricordo di quanto si è imparato sta diventando
confuso. Misuro solo le distanze. Non ho rimedi.
Villa reale di Monza: Mostra degli Alinari
Dinanzi a queste nitide visioni di luoghi e cose e
alle immagini di persone doppiamente immobili
(nella fissità richiesta dalla tecnica di fine
Ottocento, nel richiamo della morte che
immancabilmente mi suscitano) viene da pensare
ai nostri figli o nipoti o alla gente anonima che
guarderanno forse qualche nostra foto.
Al ritorno, quel volto di bimba che si affacciava al
vetro rigato di pioggia dell’auto in attesa al
semaforo davanti alla mia…
Hinterland: una coppia
Visita di A. e P. con le loro bambine. Rapporti
distratti, di finzione fra loro due. Lei ha un
amante. R. mi dice che la finzione prevale anche
in quel che resta del loro collettivo di donne. P.
continua a portar acqua al mulino del PSI locale.
E quando hai maturato la coscienza dei cittadini –
gli obietto – e il tuo compagno dirigente in
Parlamento ti ribalta le scelte fatte?
Anche I. e A. si separano.
Hinterland: un dirigente locale del PCI
Diffidente, viscido, solido nella sua miseria di
burocrate. Davanti ai calcinacci caduti «per la
bomba» messa di notte alla cooperativa Rinascita
non escludeva che potesse essere stato qualcuno
di noi.
Gita al rifugio Alpi Corte, Val Canale,
Bergamo, m. 1400
Il nostro corpo è fottuto. A salire su una
montagna, in mezzo alla neve, il cuore batte forte,
troppo forte. Dobbiamo reggerci a vicenda,
ridendo della nostra inabilità. I bambini filano
avanti fino a scomparire alla vista. E chi ha avuto
tempo di guardare le montagne, gli abeti, la neve!
I miei occhi non sopportano. La neve s’è infiltrata
nelle scarpe. Non avevamo neppure gli abiti
adatti. Spendiamo 61mila lire per polenta, vino,
un piatto di brasato, un caffè e una fettina di torta.
Ci mostriamo il conto fingendo ironia. Alla fine R
vomita. Preparo camomilla e tre bicchieri di tè.
Con un masochismo da brivido, assaggiamo le
gioie da week end dell’infima piccola borghesia.
Eppure i bambini si divertono. Si divertono?
«Si calandrano»
Calandrare, lavorare alla calandra metalli, materie
plastiche, tessuti.
Calandra, macchina formata da una serie di rulli
per la laminazione di metalli e di materie plastiche
e per la lisciatura dei tessuti e della carta.
Quando il mondo si schiaccia
In che merdume ci stiamo risvegliando. Via
corazze ideologiche, aloni protettivi di
organizzazioni, nervoso rincorrersi di riunioni,
incontri, colloqui, allarmi. Ci guardiamo i volti.
Fisicamente stanchi, deteriorati. Un incidente
minimo, la rottura improvvisa della routine (e
della disciplina che ci siamo costruiti per evitarne
l’angoscia) e si scorge la falla. Oggi, quando si
rompeva lo specchietto retrovisore proprio mentre
si andava in autostrada per la gita con gli amici.
Pensieri scuri subito. E ieri, a Monza, a quello
stop che non avevo visto. Ero già pronto ad
aggredire il tizio che aveva completamente
ragione. Quando vado a Monza, che sento città
borghese, sono più rozzo e in difesa del solito.
Mi lascio trascinare in una gita con amici che
rincontrerò forse fra molti mesi e di cui conosco
vicende amare di cui non possiamo parlare. A fine
mese ci ritroveremo come al solito con pochi o
senza soldi. I nostri cervelli marceranno ancora
più a vuoto. Figli, moglie. Altri limiti. Con dolore
m’accorgo della gabbia: loro (i miei due figli)
sono nella mia gabbia, io sono entrato in quella
dove viveva R e la sua famiglia. Il mondo si
schiacciava per me già allora, quando mi ero
licenziato con un colpo di testa dall’impiego al
Comune di Milano. Fragile disoccupato senza
agganci. Paragonarmi a quelli che mi stanno
attorno? Ritrovarmi ora appena più fortunato, o
più scettico, o più indurito? Milligrammi di
diversità da loro. Non mi tiro fuori da una
condizione che sento cupa, spappolata. Banalità
degli incidenti. Svelamento. Basta muoversi
appena per alcuni chilometri in più del solito e il
mondo mi rinfaccia la mia inesperienza di turista,
di automobilista, la staticità della mia condizione
e la complessità ignota del mondo attorno.
19
Augusto fa l’impiegato ed è andato persino in
Messico.
25.4.1978
Sogno
Io e Donato entravamo in un locale. C’erano
vecchi dirigenti di Avanguardia Operaia.
Avevano un’aria derisoria e sorniona verso di noi,
che eravamo andati là per contribuire ad una
sottoscrizione.
26.4.1978
Pensieri labili
«Erano in cinquantamila in piazza Duomo. Questa
democrazia non è bella, ma resiste. Io non voglio
vedere i miei libri bruciati come in Cile».È il
ragionamento che corre. Non riesco a rassegnarmi
alla democrazia o a questa democrazia? Perché in
essa mi sento un clandestino?
Personaggio
Un personaggio, autobiografico o meno, è una
delimitazione. Se volessi inseguire il flusso reale
dei pensieri, delle azioni l’idea del personaggio
salterebbe.
Nell’appartamento accanto al suo abitava il
barista. Aveva due auto, due box, il bar, la casa di
proprietà. Correva voce che facesse un po’ di
contrabbando. In un isolato basso, accanto al
condominio, c’era un meccanico. L’edificio era a
due piani. Sopra un appartamento con molti
locali. Ci abitava con moglie e figli adulti. Sotto
aveva l’autorimessa, la verniciatura e l’officina
per le riparazioni. Usciva sempre con una moto di
grossa cilindrata.
Cercava di vedersi dentro la città e confrontare
la sua condizione di vita con quella poco indagata
degli altri. Sì, lui aveva la cultura, una
professione, anche se poco redditizia e sminuita.
In una città di periferia di 60mila abitanti con un
forte tasso di analfabetismo, pochi avevano tanti
libri e i libri presenti poi nella sua biblioteca. La
Biblioteca civica, allora appena agli inizi, ne
aveva un numero appena superiore. E pochi la
frequentavano.
Era compiaciuto di quei libri. Si sforzava di
leggerli. Indicavano l’appartenenza ad un mondo
che contrastava con quello della periferia. Non
c’erano quasi libri nelle case degli operai che
conosceva.
Girando per le strade di Milano trafficate e
rumorose, se ci s’intrufola – per curiosità, per
qualche occasione straordinaria – nell’atrio di
certi portoni signorili o di qualche edificio
pubblico, può capitare di vedere giardini con
alberi secolari.
Questi luoghi conducono
un’esistenza appartata, meno mutevole di quella
del mondo circostante fatto di bar, panetterie,
grandi magazzini, banche in quasi perenne
ristrutturazione. Forse la sua biblioteca era una
di queste schegge attorniata da un mondo
estraneo e indifferente al senso che quei libri
conservavano. Ma solo per chi li avesse letti.
Il personaggio in questione si era costruito
attraverso un complicato processo. Poteva servire
delineare le tappe di quella formazione? Visto che
doveva farlo lui, c’erano un po’ di incertezze fra
personaggio e autore. L’autore non si sentiva
ancora di staccarsi dal flusso in corso delle
vicende, che pure erano diventate meno convulse
e attraenti. Faticava a lavorare al suo personaggio,
delimitarlo, dirgli quel che aveva fatto e non
poteva più fare.
Incertezza. Gli avvenimenti potevano di nuovo
impedire quel lavoro di coppia fra personaggio e
autore. Bastava un nonnulla perché l’autore fosse
preso da altre faccende – il lavoro per campare, le
incombenze quotidiane, qualche malattia – e
piantasse in asso il personaggio.
Il quale poi era abbastanza permaloso e esigente.
Aveva in mente ancora le idee del mondo
scomparso a cui aveva partecipato e non se ne
voleva sbarazzare. Voleva una sua morale.
L’autore era più scettico. Le idee le voleva
aggirare o comprimere. Non mi far scrivere un
trattato di politica – ribatteva al personaggio che
se la rimenava con Marx, Lenin e tanti altri. E
sulla morale non voleva far brutta figura con i
suoi contemporanei. Per favore non ti posso
presentare col ceffo arcigno di un Savonarola. E
poi c’erano le intromissioni dell’inconscio.
Bisognava tenerne conto, suggeriva l’autore.
Quanto al linguaggio, vabbé, tira pure fuori alla
rinfusa le cose che ti passano per la mente, come
le ricordi, mostrami anche gli appunti che hai
preso mentre rotolavi nel gorgo dei fatti. Ma poi
fammi lavorare, ripulire, sistemare il tutto. Non
puoi fare il rozzo, il sincero, lo schematico.
L’autore mentre cercava di narrare quel passato –
che era stato certo del personaggio, ma un po’
aveva toccato anche lui – e di rincollare quelle
schegge era continuamente interrotto, perché
continuava a vivere. Purtroppo? Troppo vicino e
complice del personaggio? L’ansia del presente si
rubava l’autore e lo stordiva, con altri
avvenimenti, di fronte ai quali quelli che il
personaggio aveva vissuto e voleva a tutti i costi
far raccontare all’autore parevano ben misera
cosa.
20
R
Sulla poltrona. Volto ovale, pallido. Le lancio un
dischetto di plastica. L’afferra. Me lo rilancia.
Eccola! Guardala. È pronta al gioco d’amore.
Roberto Cerasoli
Rivedo Cerasoli, uno dei primi quadri della
nascente Avanguardia Operaia esterni che
vennero da Milano a dare una mano all’appena
fondato Gruppo operai e studenti di Cologno.
Teneva seminari su Marx e riunioni con gli
operai delle piccole fabbriche. È invecchiato. Ha
fatto un viaggio a Cuba ed è in Villa Casati per
commentare le diapositive che ha scattato. Lo
trovo ancor più approssimativo di un tempo, ma
ancora simpatico. Le diapositive sono troppe. I
temi sono quelli: il partito, l’attività che svolge in
mezzo alle masse. Abbondano foto di
manifestazioni, di studenti in divisa e immagini
troppo convenzionali della vita urbana e agricola.
I compagni lo incalzano con domande scettiche: la
condizione dei dissidenti, le scelte militari di Cuba
in Africa. Cerasoli risponde da neofita. È
innamorato di quel «popolo meraviglioso». Ne
diffido. Penso alle letture ben più severe e
critiche di Fortini e della Masi sulla Cina maoista.
E poi sono ostile al turismo politico. Sarà perché
sono un sedentario. Tuffo a Milano, il mio
“estero” agli inizi degli anni ’60 e poi stop.
Neppure i soliti viaggi che tutti i compagni
facevano in Spagna, in Jugoslavia. Sono convinto
che l’evasione dalla routine quotidiana che
accompagna un qualsiasi viaggio comporti una
deformazione non facile da controllare: fa trovare
quello che si vede altrove più interessante e la
gente più gentile o interessante o simpatica.
Certo il nostro socialismo non può essere quello –
ammette Roberto verso la fine della serata, dopo
aver ricordato lui stesso certi aspetti della vita di
Cuba: il contrabbando legato al turismo, i cubani
che a fine settimana vanno in giro per alberghi
perché non hanno altri modi per spendere i loro
soldi, la crescente voglia di consumi.
scoppiano momenti di crisi, chiamano noi.
Contano sulla nostra capacità di ascoltare i loro
sfoghi e incensano la franchezza dei giudizi miei e
di R. Ci sento la sottile idealizzazione che i
“borghesi”, alle prese con situazioni complesse e
nevrotizzanti e costretti a comportamenti calcolati
e cinici, fanno dei “proletari”, presentandoli o
vivendoli come “semplici e schietti”. È una
strumentalizzazione che sopporto malvolentieri:
spesso, superato il momento critico,
questi
“amici” non si fanno più sentire per lunghi periodi
(fino alla successiva crisi) e quasi mai ti
restituiscono in qualche forma l’attenzione che tu
gli hai offerto. La tua situazione, che deve
apparirgli in fondo troppo “elementare” non li
incuriosisce davvero. [Ho notato questo “stile”
anche in altri: PDG ad es.]
Non una scrittura qualsiasi
Per noi che in questi ultimi anni siamo stati dei
militanti politici, la scrittura (il ritornare a
praticarla) non può essere copertura, finzione,
gioco e basta. Se scrivere aiuta a chiarire il
problema che stiamo confusamente vivendo (la
crisi del nostro ruolo in mezzo agli altri), si
giustifica. Se no, bisogna smettere di scrivere e
affrontare apertamente, in altri modi, il problema.
Non scrivere come ripiego per non affrontarlo.
Dopo anni di militanza, non possiamo tornare
insegnanti qualsiasi, così non possiamo tornare a
scrivere in una maniera qualsiasi o praticare la
scrittura nei modi totalizzanti dell’adolescenza.
Giudico Fortini uno scrittore forte proprio perché
lascia trasparire attraverso la sua scrittura una
scelta di fondo (etico-politica nel suo caso) che
impregna, dirige e corregge la sua intera attività di
scrittore.
28.4.1978
Nuccia Pelazza
«Quel nuovo insegnante ha toccato il seno a due
ragazze. È successo un puttanaio. Ne abbiamo
discusso pubblicamente e Filippo [Bozzuto, Itis
Sesto S. Giovanni] se n’è uscito dicendo che sono
loro, le ragazze, che provocano. Apriti cielo!»
S.
Che situazione
alla Dostoewskij. Sembra
impossibile che vivano un lungo periodo di
calma. Adesso il dramma ruota attorno al fratello.
Ancora alcolismo. Rispetto a loro la situazione qui
in periferia appare “pulita”, come diceva Enrico
Profumo, dopo aver conosciuto da vicino miserie
e intrighi del gruppo dirigente milanese di
Avanguardia Operaia.
Fastidio e scetticismo per questi elogi dei
compagni di periferia. Anche S. e F., quando
Ogni tanto questi problemi, che restano sempre
nelle pieghe delle nostre parole (e nel sottofondo
dei nostri sguardi sugli altri, sulle altre) affiorano.
Ma sono insolubili. Si affacciano e subito
vengono messi a tacere. Anche quando se ne
discute, l’armamentario di concetti a disposizione
dei “tradizionalisti” e degli “innovatori” è così
prefissato, banale o astratto che - dopo le
scaramucce – non si va oltre. O condanna
scandalizzata o complicità sotterranea col senso
comune.
21
Le studentesse in un Itis sono poche, gli
insegnanti molto depressi, gli studenti sono
frenati dalle famiglie che però ne ignorano le
pulsioni profonde. Altrove, nei licei, le cose
stanno diversamente?
29.4.1978
Suicidio: Linda Panzeri
Arriva la conferma del suicidio. Pochi i dubbi.
Pezzi di noi si staccano e scompaiono
definitivamente. Sussurriamo malinconicamente
qualche commento prima della nostra striminzita
riunione (io, Donato, R e Titina). «Pare che fosse
stata già ricoverata». «E chi s’era accorto del suo
dolore? I compagni della Candy sono pieni di
rimorsi: stare insieme in tanti anni di riunioni e
non capire nulla…».
Recuperando il numero da una vecchia agenda,
telefono alla Tiziana di Cormano: «È stata una
cosa inaspettata. Viveva con Walter e Daniela. Se
l’ha fatto davvero, deve essere stata
inconsapevole. Cinque minuti prima aveva chiesto
il medico».
Adulti e giovani. G.
Durante un intervallo a scuola si confida sul
giovane (19 anni) che ha sotto tutela. Non lavora,
non ha la patente, ma s’è comprato l’auto e
continua a chiedergli soldi. È in dubbio.
Continuare a mostrarsi tollerante o fare il muso
duro? Ma se non c’è scambio, contrapporsi
permette almeno che un giovane s’accorga di noi.
Penso che valga anche per gli studenti. Non sarà
decisivo, perché la loro formazione dipende da
tante cose. Ma forse rimarrà nella loro esperienza
la traccia di un adulto diverso, che gli chiedeva
alcune cose precise e non faceva parte del
mucchio dei prof. Penso a D., che in modo
squallido e sfacciato ogni sabato si assenta da
scuola per seguire le sue attività di architetto
intrallazzato con i socialisti.
Compagni, colognosità
A. e P. non si fanno più vedere alle riunioni dopo
che gli ho detto cosa pensavo della loro pressante
e indefinita richiesta di studiare “tutto Marx”. M.,
M. e T. saltano la prevista riunione e, incontrati
per strada, neppure vi accennano. Sono questi i
modi in cui si prendono le decisioni. Senza
neppure dirle. Del resto, anche quando facevamo
Avanguardia operaia, notavo (più distrattamente
però…) lo stillicidio di questi abbandoni senza
alcuna spiegazioni. Ed erano, sono proprio scelte.
Non credo che debba dimostrargli di essere “più
umano” (comprensivo, insistente, desideroso di
capire le loro ragioni). Li ho già fatti certi vani
“pellegrinaggi” casa per casa per tentare di evitare
l’allora imminente spaccatura di Avanguardia
Operaia anche a Cologno. Ogni proposta di
discussione viene sfuggita: o per timore di dover
fare qualche spiacevole passo indietro o perché
già si è decisi a marciare in altro modo.
POETERIE
Milano, Corea
a Danilo Montaldi
qui mutoli stemmo
i corpi sfibrati di fatica
le sopraccoperte a fiorami delle brande
le collezioni di tiepide bamboline
in credenze vetrate
la sterpaglia/ i cantieri
guardammo
prigionieri che il vuoto d’aria attorno
all'improvviso restringersi del mondo
spengono occhi cuori e voleri.
o nuotatori sprofondanti
nella muscolatura serrata
che trattengono in un unico spasimo
persino l'azzurro respirato
dai loro padri
CANTIERI
Mentre accumulo appunti nella mia stanza
solitario di fronte a me, imponente
altri hanno elevato un palazzaccio.
M’accorgo trasalendo quanto
cemento d'oggi, dimensioni d'oggi
l'enorme quinta ha sigillato
il rettangolo di mutevole cielo della mia finestra
e come due ore quasi prima
sottrae alla vista il sole
i casermoni ingentili dall'uso
un prato che pur fioriva a primavera
la sua tenace esistenza
e la visione di battaglieri nugoli di bimbi
in movimento impavido
fra stagioni di luci e nebbie.
Undici piani. Lavoro a un centinaio di muratori
e tecnici.
Appartamenti per famiglie, seicento.
Profitti per la cooperativa
che mai la coscienza illuminerà.
Per quasi due anni il braccio della gru
ha ruotato lento seminando carichi,
un altoparlante ha distribuito annunci
22
la sirena centinaia di intervalli.
Una vicina di vicolo Adda
E ho visto spesso i muratori entrare e uscire
lentamente o di corsa
fantocci cari a Breughel accanto ai fuochi
mattutini
venutimi davanti vivi al bar, dal panettiere
contemporanei, non più fotografabili
o televisive sagome sui ponteggi
affacciarsi a gruppi, guidare i moti
della carrucola e scomparire
nelle cornici spoglie
in spazi d'altra luce.
E dai bimbi ho saputo la leggenda
dei cani da guardia di notte ululanti:
una cagna ha figliato, poi è morta
e il cane nero l'ha vegliata a lungo.
se dall’involucro a motore
noto il traballio delle sue gambe
(una volta cadde
e poi dopo giorni ricadde
e mai si capì dove fosse fragile
per dimenticarsi dei gradini, dei marciapiedi
e perché così facilmente si distraesse
dal mondo
col quale s’intratteneva ad alta voce, urlando
- perché da tutti inascoltata? perché tutta palese
fosse la disperata voglia di comandarlo? -)
e la vedo avanzare fra le pozzanghere
del vicolo
(impregnatosi delle loro storie
malate quanto e più della mia
di professore precipitato
ad osservare il mondo rasoterra)
cauto mi faccio col manubrio
cauto deposito la mia domanda sul freno
e sento dolente lo stridore del mio intelletto
contro il suo sguardo sfuggente, stanco
in apparenza poco ostile
Fra breve gli appartamenti pronti.
tratterranno parte della vita normalmente orrenda
di seicento famiglie, che hanno risparmiato
e litigato per risparmiare.
Anche i miei appunti
stesi nell' ombra incombente del palazzaccio
tratterranno parte della mia vita
normalmente orrenda di questi due anni
e l' interrogazionesu quella a noi tutti
mancante.
Periferici
Si fecero piccoli, per farsi sentire.
Passarono inosservati.
Neppure i supposti piccoli s’accorsero di loro.
Era di moda la grandezza.
Il sociale
S’ormeggiano nel mio portafoglio
sonnecchiano nel mio portafoglio
le tessere che mi rendono sociale.
Lana Luigi
Il vecchietto
presidente dell’ anpi locale
che mi giunge trafelato e preoccupato
(ha battuto il ginocchio per strada)
e mi dice del suo diario partigiano
delle pergamene costate tanto
dei giovani presto stufati
di far storia orale agli anziani pensionati
e quasi m’implora
di depositare presto in qualche carta
la sua memoria in disfacimento.
Storia di colognom
la ragnatela di storia che ho sognato
era un rettangolo
fitto di contorti filamenti
un archivio di poveri eventi
e di rozzi o amari commenti
l’avevo stesa
fra uno scaffale ed un altro
nella civica di colognom
e pregavo un pubblico
deambulante e sovrappensiero
che di certo l’avrebbe disfatta
di passarvi sotto
abbassandosi un poco cautamente
come si faceva da bambini
fra le lenzuola stese da mia madre
sul terrazzo
qui a stento/ come intruso
sfuggito a tecnologiche pulizie
m’ospitano in un angolo/ me e la mia tela
e non vogliono quasi che la mostri
ragno / incaricato a tempo perso
di tessere ancora / ammesso che gli riesca
una storia che a nessuno più interessa
e / se tanto insistessi/ di narrare pure
assieme ad essa il mio sminuito io
sapeste che lavoro ho fatto in quel lenzuolo
della città futura disfatta
23
che li attrae.
mettetevi qui allora/ controluce
ammiratene la tessitura
da lì /al buio/ mai vedreste/ insistevo
il mio invisibile lavoro
compare solo ad una certa/ amichevole
disposizione del bel sole di primavera
che ecco ora viene dal rettangolo gemello
della finestra e ve lo svela
APPUNTI PER UN FILM SU COLOGNOM
Giro del 14 giu. 2002: da Vicolo Adda a Piazza
XI Febbraio
1. Parco di via Dalla Chiesa. Una signora
anziana, un albero (nome?) dal tronco
storto.
L’anziana affaticata sudata signora
dal volto devastato
che subito ci ricorda
vedendo Nazareno che monta il cavalletto:
ah, mio marito quanto ci ha lavorato
con quelli di legno.
È in panchina, seduta ora
sguardo sperso
nel passato o sul prato?
(dove l’albero che non sappiamo nominare
incurva il suo splendido tronco)
Nel frattempo al presente:
la ragazza col cane al guinzaglio
e altri abbaianti botoli
incalzano…
2. Metropolitana Cologno centro. Uscita
pendolari. Giovani neri venditori di
borsette e CD-Rom.
Una volta venivano fuori così dalle fabbriche.
Una volta, i venditori
delle cosiddette cianfrusaglie (no?)
erano qui meridionali o veneti poveri.
Vi filmiamo, eh, nulla in contrario?
Da quale mondo lento
con quale sguardo da villaggio africano
ci risponde pacato e indifferente.
Stanno fra di loro calmi e diligenti
estranei alle nostre cose veloci
- senza nomi loro, senza nomi noi per loro.
Forse vecchi ronzanti mosconi culturali noi.
Eppure i giovani si fermano, contrattano.
Nulla sai tu della merce CD
(cianfrusaglie, no?)
3. Metropolitana Cologno centro. Interno.
Uscita di pendolari dalle scale della
stazione.
Scendono scappano.
Afferra gli sguardi
i moti meccanici della porta che sbatte
all’inizio del flusso, alla fine.
Di trenta, quaranta, uno ne conosci
e ti fermi a parlare.
Una pausa nell’intrico del bosco.
4. Parco dietro il cimitero vecchio di
Cologno centro. Giovani pattinatori che
fanno lo scivolo sulla rampa.
Due lusingati dai loro corpi atletici
intimiditi gli altri
acquattati uccelli, rapaci a riposo, in alto
sul terrazzino immobili.
Beh, tu che sei stato prof sai come prenderli.
La vigoria dei puledri.
La nostra stanchezza intelligente
ma a rischio di ridicolo.
Ehi, minchioni!
Poi si rivedono
volteggianti figurine
sul piccolo schermo della cinepresa.
La mettiamo sul tecnico
nel rapporto stroncato di due generazioni
che si scivolano accanto:
Ah, la glisse!
5. Via Piave. Negozio arabo di macelleria e
rosticceria.
La frase del Corano, la raccolta di fondi
per i Palestinesi.
L’arghilé decora il negozio
sperduto fra merci come in tutti gli altri.
Il giovane padrone è cordialmente diffidente:
si capisce dall’infittirsi del suo dialogo in arabo
con gli altri.
Traduce un giovane albanese:
Sì, ci vengo anch’io qui
si mangia bene
si spende poco.
6. Via Piave. Negozio dell’elettricista Nava.
Il Paolo Nava è morto già da cinque anni.
Non pensavo che il figlio si commovesse tanto
al ricordo.
24
Il negozio ha un ordine polveroso e scolorito.
Hanno rifiutato di apparire aggiornati.
Si sono fermati al latino
o al dialetto del commercio.
I cimeli storici sono quelli del boom anni ’50-‘60
quando si lavorava in fretta:
questi i fili, questo il tubo eroso dal metano
che fra non molto si sarebbe disperso
nei muri…
7. Piazza XI febbraio. Panchine con giovani
e anziane donne.
Prenditi questa immagine
casta di piazzetta paesana
accerchiata da negozi del terziario,
occhio stanco e vecchio
poco televisivo.
Guardati le due giovani
sulle panchine di pietra rosata.
Guardati le vecchiette
che restano imperturbabili
ma con cipiglio di rimprovero.
Cosa vogliono ‘sti due
che ci filmano di soppiatto?
8. Corte di Piazza XI Febbraio. Laboratorio
odontotecnico.
Tutto sul bancone – elencherai poi
nominerai poi ogni oggetto:
dal televisore sempre acceso
- lavorando dà uno sguardo ai mondiali
(il ciabattino di Porta Rotese
ascoltava, allo stesso modo
di Coppi alla radio)
alla foto di famiglia
– un bimbo che conosco, un gruppo
che s’è messo in posa
chissà quando, con imbarazzo ai gatti stupefatti dalla nostra irruzione.
9. Corte di Piazza XI Febbraio. Laboratorio
della vecchia selleria e valigeria.
Quando c’erano i campi e c’erano i cavalli
e c’erano i collari, le briglie.
Ora non ci sono più, se non al maneggio
lì, sulla strada per Cernusco.
Ma gli strumenti del sellaio
stanno ora in fila sul bancone
e il discendente (foto del nonno
morto nel ’40)
si presta ad una dimostrazione d’efficacia.
Ah, il lavoro com’è cambiato!
E quanta passione in esso s’è sprecata.
L’ingiustizia non si mostra
Nella tecnica affiora sublime
l’ignoranza del tempo perduto.
Sul sindaco decappottabile e altre cosucce
locali. Lettera a Michele di "Cologno Città
solidale", fine dic. 2001
Caro Michele,
rispondo subito al tuo "L'altro appello",
sperando come sempre nel valore della critica
sincera.
1.
No, non credo proprio che «si debba e possa
partire» dall'appello pre-elettorale del 18 dic. '98,
che tu accludi alla tua ultima lettera.
Quell'appello è la prova che anche "Cologno città
solidale" - proponendo in sostanza di promuovere
Milan ad «altre istituzioni più adeguate e
importanti alla prima occasione possibile» e
Vittorio Beretta alla carica di sindaco - stava allo
stesso gioco politico e finiva nella trappola della
ricerca del personaggio "buono" o "meno peggio"
all'interno di un ceto politico, che con gli anni è
diventato "pessimo" (ostile cioè agli interessi dei
lavoratori) e "ottimo" invece per far parte della
«nuova classe politica dirigente nazionale ed
europea».
Milan di questa "nuova classe" faceva parte in
pectore già dal primo mandato e ora è con essa
pienamente integrato.
Beretta no. I diessini neppure. I rifondatori
neppure. Voi di "Cologno città solidale" neppure.
Ma tutti - accettando il giochino per cui Milan malgrado ex-democristiano e manager - era
"sempre meglio" di uno "di destra", di Forza Italia
l'avete o appoggiato (diessini) o subìto
(rifondatori) o tentato di "condizionare" (voi:
prima con la vostra proposta "Milan in parlamento
(o giù di lì) e Beretta sindaco" e poi con l'inutile
tallonamento della coppia Milan-Madella16,
risultata vincente alle ultime elezioni, per ottenere
il riconoscimento e il finanziamento della
cooperativa equo-solidale nella palazzina di Via
Milano17).
2.
Ora che Milan sembra avviarsi ad essere davvero
Milan (Il Milan non è forse di Berlusconi?!) e a
dare il benservito all'Inter ("di sinistra"?), si deve
non solo constatare - come tu fai - il «fallimento
politico del Centro-sinistra-Sinistra» (e non solo a
16
Madella è stato vicesindaco diessino nella precedente
giunta di centro-sinistra guidata da Milan.
17
Quella dove avrebbe dovuto sorgere la Casa della
Cultura o Casa dei giovani (Cfr. pag.27).
25
Cologno), ma anche la vostra subordinazione al
personaggio e al mondo politico dell' "azienda
Italia» che egli rappresenta.
Ve la sentite ora di affrontare la fatica di staccarvi
intellettualmente, emotivamente e praticamente
dalla deriva o agonia della cosiddetta "sinistra" e
dal trasformismo dei vincenti, che essa ha
appoggiato?
È da anni che questo compito viene eluso.
E non solo dai diessini "indipendenti" o dai
rifondatori "oppositori" (istituzionalizzati), ma
anche - scusa la durezza - da "Cologno città
solidale".
Tu parli (con troppa enfasi, secondo me) del
movimento "un altro modo è possibile,
costruiamolo insieme" , che andrebbe appoggiato,
ma anche criticato per i molti paraocchi che non si
vuol togliere. Sicuramente è una piccola speranza,
ma piccola e io la accolgo per quel che converge
con la mia prospettiva esodante.
Ma se "Cologno città solidale" voleva essere
portavoce
su questo territorio di questo
movimento in gestazione, essa per tre anni ha
sprecato vanamente quasi tutte le sue energie
dietro questa Giunta di Centro-sinistra, proprio
come hanno fatto diessini e rifondatori.
Fai l'esempio di padre Alex Zanotelli. Beh, non mi
pare che pratichi il pedinamento dei governanti
nazionali o locali, come avete fatto voi in questi
tre anni.
Lui l'esodo mi pare che lo sta facendo sul serio.
E allora perché non partite dalle nascoste Nairobi
di Cologno Monzese, invece di bazzicare sempre
attorno a villa Casati?
P.s.
Ti accludo, a mo' di documentazione di
un'alternativa costretta al silenzio o alla
clandestinità:
1. una lettera a Roberto Grossi del 1999,
indicativa del mio atteggiamento di apertura verso
la vostra proposta ma di critica delle ambiguità
che la caratterizzava e che hanno influito nel
vostro rapporto con la Giunta;
2. l'ipotesi di lettera aperta per un'iniziativa
chiarificatrice sulla Casa della Cultura da me
stilata, purtroppo bocciata dai membri di Ipsilon.
1. Lettera a Roberto Grossi del 25 giu. 1999
Caro Roberto,
eliminiamo subito un equivoco: non disprezzo
l’elemento commerciale né quello istituzionale e
non disdegnerei neppure eventuali finanziamenti
europei.
Chiedo di far luce e di gestire senza superficialità
l’ambiguità del rapporto che si stabilisce su questi
piani con individui o gruppi sociali che mettono al
primo posto il guadagno, il potere, la finanza così
com’è.
Non credo alla costruzione di «spazi liberati e
visibili», ma ad un processo di lotta entro gli spazi
esistenti
siano essi istituzionali o sedicenti
“alternativi”.
In tal senso il Leoncavallo può anche far credere
di costituire già adesso uno spazio “liberato” e
pubblicizzarsi in quanto tale, ma, se ci credesse
sul serio, s’illuderebbe e illuderebbe. Esso per me
vale quanto uno che lotta in un consiglio
comunale o in una scuola. Lo misuro dagli effetti,
non dalle intenzioni.
L’ideologizzazione della (l’autoinganno sulla)
propria azione di lotta è una trappola che gli
anarco-libertari (e forse tutti gli “innovatori” o
“rivoluzionari”) evitano con difficoltà.
Meglio riconoscere l’ambiguità costante di tutti i
processi di liberazione. Meglio non fissare «i
confini» una volta per tutta, ma volta per volta,
ricorrendo al massimo di analisi concreta della
situazione in cui operiamo e misurando appena
possibile la distanza
fra valori (principi,
intenzioni, desideri) professati e pratica possibile
o realizzata.
In tal senso, nel vostro documento, mi è parso che
lo scarto fra idee generali («condizione alienata
dell’uomo contemporaneo», ecc.) e questione
spicciola, locale, concreta non sia stato tenuto
sotto controllo; e che, dunque, i valori risultano
generici e vaghi e la pratica proposta del tutto
convenzionale e subordinata al senso comune
corrente di amministratori e ceto politico
arruffone di Cologno.
Quanto alla cultura, a Ipsilon e al minoritarismo
bisogna intendersi.
Mi pare che tu a volte parli in modo generico di
«far circolare cultura» (senza specificarla, per cui
si può pensare che tutto vada bene per Cologno,
tanto la situazione è “incolta”). Altre volte svaluti
il tentativo di far cultura critica tentato da Ipsilon,
perché non ha «aggregato» o non è stato «capace
di spostare culturalmente l’opinione dei
colognesi» (da qui l’accusa di «crogiolarsi nel
minoritarismo» invece di capire che fare critica
(un “fare” essenziale e non un “lusso” o un
“optional”) oggi è necessariamente funzione di
minoranze o addirittura di individui solitari).
Altre volte polemizzi contro la «cultura aulica» le
librerie-salotti o i caffe letterari (trascurando
quanto condizionino i modi di essere, gli stili e gli
stessi consumi librari!). Altre volte ancora sembri
proporre – come ho fatto notare nella precedente
lettera – una «Cultura del terzo settore o del non
26
profit» come nuova via da imboccare per uscire da
questi vicoli ciechi.
In concreto nella palazzina della cultura di via
Milano quale cultura deve essere incoraggiata?
Tu dici «la cultura come strumento e pratica
quotidiana per comprendere e trasformare la
realtà», che è una formula nobile, ma indefinita e
illusoria (non è la cultura che trasforma di per sé
la realtà; spesso accompagna in ritardo le
trasformazioni, altre volte ne è il termometro).
E quella di Ipsilon, malgrado il minoritarismo,
dovrebbe rientrare o no nella palazzina? Secondo i
canoni correnti no, perché non ha «aggregato» ,
ecc.
L’unica che mi pare rientrarvi a pieno titolo – e
non lo dico con astio o vittimismo da escluso –
sembra proprio essere quella che ho chiamato del
non profit e del commercio equo-solidale, tant’è
vero che tutto il progetto è ad essa improntato.
Qui “dogmatico” e paraleninista sembri essere
proprio tu.
Io ritengo (e non sono il solo) che questa cultura
del Terzo settore e del non profit sia «una
nebulosa che andrebbe indagata e non divulgata in
quanto “nebulosa». Quindi
parliamone,
analizziamo, vediamo i chiari e gli scuri delle
esperienze in corso.
Tu invece fai l’apologia del commercio equosolidale «che rappresenta a tutt’oggi l’unica rete
mondiale di lotta allo sfruttamento dell’uomo e
della natura» (come se essere gli unici volesse dire
di per sé che si è imboccata la via giusta...); vanti
interlocutori di prestigio come i Sem terra e i
contadini del Chiapas (ai quali m’inchino, ma per
chiedermi subito dopo come faccio qui a
smuovere «la gente, la moltitudine, i proletari
[che] sono con Clinton e con il suo modello di
società»,); mi parli del non profit come di «un
tentativo di ribaltare la voglia di denaro e di utili
che ci ha pervaso» (mentre io t’inviterei ad
andarci cauto, perché voglia di denaro e di utili
“etici” si annidano anche in quest’area).
2. Bozza documento di Ipsilon del 21 ottobre
1999
CASA DELLA CULTURA?
GIOVANI? UNA PROPOSTA18
Lettera
Ipsilon
aperta
CASA
dell’Associazione
DEI
culturale
A tutte le associazioni culturali di Cologno.
18
Il documento è già uscito, in altro contesto, nel N.2
di SAMIZDATO COLOGNOM del sett.2000
Finalmente l’edificio che dovrebbe ospitare la
tanto attesa Casa della cultura è pronto. Ma sarà
davvero Casa della cultura, magari tradizionale
ma ben caratterizzata? E si può essere soddisfatti
del metodo con cui la si è pensata, progettata e
messa in cantiere?
I dubbi sono tanti. E li accresce la discutibile
trasparenza, con cui l’Assessorato alla Cultura,
assieme ad alcuni fidi (e ben pagati) esperti,
coordinati – chissà perché – da uno psichiatra, il
dott. Cirlà, ha preparato il progetto, che sta
trapelando a bocconi e all’ultimo momento,
quando cioè la disposizione degli spazi, le
attrezzature e la gestione delle attività previste
nell’edificio ristrutturato di via Milano
“sembrano”già cosa fatta.
A quanto si sa dai «si dice» e «pare che» di
corridoio, esso prevede al piano terra una libreria,
un bar-sala riunione, una sala multimediale con
videogiochi e postazioni per Internet da far gestite
ad una costituenda cooperativa. Il primo piano
verrebbe rioccupato da Eta-Beta, l’ufficio
comunale informagiovani; e il secondo andrebbe
alle (o ad alcune?) associazioni culturali.
Salta immediatamente all’occhio che, invece di
una Casa della cultura pare venga fuori una sorta
di Casa dei giovani, per cui disomogenee esigenze
commerciali, di svago e intrattenimento giovanile,
di associazionismo, di servizio pubblico settoriale
verranno ammucchiate in un medesimo luogo.
Il progetto ci pare criticabile per molti aspetti.
Ad esempio: è appropriata la palazzina di via
Milano per le diverse esigenze che vi dovrebbero
convivere? quanto si conciliano gli spazi chiusi di
una palazzina con alcune delle attività e l’afflusso
del prevedibile pubblico? e i giovani (quali? in
quanti?), abituati a scorazzare in spazi aperti,
davvero hanno voglia di recludersi in minisalette? e dov’è l’integrazione fra le funzioni della
casa della cultura e quelle di altre istituzioni affini
(scuola, biblioteca civica, ecc.) per evitare
doppioni e sovrapposizioni)? e si è pensato
davvero agli “altri”, quelli che isolati o in
difficoltà si escludono o vengono esclusi dalla vita
culturale?
Si potrebbe continuare. Ma «quale cultura serve
oggi a Cologno?» resta la domanda di fondo e
prioritaria e la risposta praticata di fatto (e da
tempo) e per vie burocratiche dall’Assessorato ci
sembra preoccupante, anche se alla moda.
Infatti, per assessore ed esperti, una certa cultura quella critica, fondata sulla ricerca, attenta a una
mediazione non al ribasso con i bisogni sociali,
che non si riduca a fare da cinghia di trasmissione
alla cultura-merce (sia essa pessima o abilmente
preconfezionata) – va seppellita senza tante
27
cerimonie o messa in qualche loculo (magari ai
piani alti, insomma, o in soffitta, che è tutto dire!).
Quella
che
va
incoraggiata,
sostenuta
economicamente e politicamente, anche qui a
Cologno,
dovrebbe
essere
la
cultura
“giovanilistica” dell’intrattenimento, dello svago,
dello snobismo di massa. Quindi, alè con il
videogiochismo o le ludoteche per giovanotti
“barbari”, con i caffè letterari per periferici, con la
Internet-mania!
È “culturale” incentivare queste tendenze?
A noi tutto ciò pare una americanizzazione da
provinciali che va contrastata. Come va
contrastato il corollario economico ferreo che ne è
alla base: siccome si deve spendere il meno
possibile, appaltiamo ad una volenterosa
cooperativa la gestione di una parte o dell’intera
palazzina.
Così si incentiva irresponsabilmente la solita gara
fra imprenditori (più o meno) no profit e
ricomincia la tombola della lottizzazione
interpartitica per designare le «forze sane» che si
sbraneranno nella costituenda cooperativa!
E le associazioni culturali? Restino nel loro brodo
o sgomitino per spartirsi l’ultima fettina della
misera torta: il secondo piano della palazzina. (Per
farne cosa, visto che molte di loro hanno già sedi
proprie o concesse
dal Comune e spesso
inutilizzate?).
La nostra associazione si appella a tutte le altre
associazioni culturali di Cologno.
Promuoviamo un confronto pubblico su quale
idea di cultura debba oggi “abitare” nella
palazzina ristrutturata di via Milano.
Le nostre ipotesi, che vogliamo confrontare con
tutti, sono queste:
- Bisogna costruire una Casa della cultura (o
meglio una Casa delle culture e – meglio
ancora e senza spaventarsi del termine, per
alcuni abusato o sospetto – una Libera
Università) per difendere la cultura di ricerca,
i saperi e i bisogni conoscitivi meno effimeri e
le pratiche culturali più vivaci e originali,
esistenti o possibili su questo territorio;
- Bisogna respingere l’ipotesi di una Casa dei
giovani, non per ostilità ai giovani ma al
“giovanilismo”. (Perché i bisogni culturali
dei giovani devono essere settorializzati o
ghettizzati istituzionalmente?)
- Bisogna che il progetto di attività per la Casa
della cultura (o Casa delle culture o Libera
università) sia integrato con le istituzioni
culturali già esistenti sul territorio (scuole,
biblioteca civica, ecc.). Né deve trascurare –
contrastando la logica corporativa del “come
stiamo bene fra noi che già ci capiamo e
-
facciamo tante cose belle» – i bisogni culturali
dei gruppi sociali o degli individui atomizzati
più distanti o meno raggiunti dalle istituzioni.
Il rinnovamento della vita culturale cittadina
va pensato e praticato in tutti i pori
istituzionali e sociali;
Bisogna dire con chiarezza che l’economia è a
sostegno del progetto culturale, evitando le
ormai evidenti ambiguità delle imprese no
profit o dei mezzi appalti: quindi o piena
copertura economica del Comune della Casa
della cultura (o Casa delle culture o Libera
Università) o una limpida convenzione fra
Comune e costituente delle associazioni
culturali (o, in caso contrario – spartano ma
inevitabile – l’autofinanziamento di chi ci sta
a far crescere una libera cultura).
Sul sindaco decappottabile. Dimissioni di un
assessore.
18 febbraio 2002
Caro Beretta,
apprezzo l'onesta e la coerenza morale
con cui reagisci al cosiddetto "ribaltone", ma la
tua presa di distanze «senza acredine» dal sindaco
Milan a me pare neutra e reticente sul piano
politico.
Al punto in cui si è giunti, non si tratta credo - di "salvarsi l'anima" a livello personale,
ma di far capire ai cittadini perché Milan e i suoi
"fedeli" o "tifosi" che ora lo sostengono in
consiglio comunale si possono permettere di fare
una scelta così grave. Conoscendoti
e
stimandoti, mi permetto perciò di farti una serie di
osservazioni.
Mi sembra che i problemi da chiarire al momento
delle tue dimissioni siano due:
- se la «cultura della solidarietà» verso i più
"deboli" ha ottenuto davvero più risultati
mettendosi all'ombra della politica del centro
sinistra;
- perché ad un certo punto - improvvisamente?
- il sindaco del centro sinistra "salta il fosso" e
va con gli avversari, chiedendoti una
solidarietà «non sul programma ma sul
governare
comunque»
(un'espressione
davvero troppo vaga).
Sulla prima questione, tu rispondi, sottolineando
giustamente «l'impegno per la sperimentazione
del reddito minimo di inserimento, l'osservatorio
dei bisogni con la Caritas, i coordinamenti per il
volontariato, carcere e territorio, Comuni per la
pace, intercomunale per la casa ecc.», malgrado le
«tante difficoltà». Bene.
28
Ma sulla seconda, non si riesce a capire dalla tua
dichiarazione perché ora tu sia costretto a
dimetterti, a smettere di coltivare i diritti dei
"deboli" da Villa Casati e a proseguire l'impegno
solo al livello della cosiddetta «società civile».
Non pronunciandoti su questo e limitandoti a dire
che Milan ti "ha dimesso", a mio avviso, il tuo
chiarimento ai cittadini sulla crisi risulta
indebolito e parziale.
Credo poi che tu sbagli a non «collocare dentro
una crisi tra i partiti» «quanto sta succedendo a
Cologno Monzese» (più precisamente: quanto sta
succedendo dentro il ceto politico di Cologno
Monzese, che si dilania ottusamente al suo interno
proprio
perché
ignora
o
conosce
approssimativamente quanto sta succedendo non
solo a Cologno Monzese ma nel mondo). E che
non ti giovi neppure insistere retoricamente sul
tuo «non essere "iscritto ad alcun partito"».
Dopotutto hai operato per lungo tempo «come
assessore alle politiche sociali su proposta del
sindaco Milan». E ammetterai che a tanti cittadini
"senza partito" non viene fatta così facilmente una
proposta del genere da parte di un sindaco o di un
partito.
La tua stessa accettazione dell'incarico «con
entusiasmo» e «in una logica di servizio»
dimostra che ti sei collocato all'interno del sistema
dei partiti o del sistema parapartitico
(associazionismo,
volontariato,
ecc.),
condividendo per forza di cose, fino al momento
delle dimissioni, l'operato della "squadra" di
Milan.
Da chi se non da te e da altri con ruoli simili ai
tuoi può venire un vero chiarimento sul
"ribaltone", premessa minima per una scelta più
oculata in futuro non solo di sindaci e di
"squadre" ma di un'opposizione convinta e
intelligente contro i "ribaltatori"?
Altri tirano fuori una spiegazione "psicologica":
l'arroganza personale di Milan, di cui sento tanto
parlare (vittimisticamente) .
Ma il "ribaltone" non può dipendere da
un'arroganza, che c'è sempre stata, fin da quando
Milan era democristiano. Era ed è, il suo, uno stile
di vita adottato da tanti uomini (e ora anche
donne) che ai meccanismi del potere dei "forti" si
adattano con più disinvoltura.
Come mai prima era "accettabile" e solo ora è
divenuto "insopportabile" agli occhi dei suoi exsostenitori?
Hanno contato o no nell'"aumento" di tale
arroganza gli interessi materiali che i più "forti" si
preparano a far valere su Piano regolatore e
compagnia bella?
E cosa avete fatto voi (e non solo tu) che eravate
nella Giunta di centro-sinistra per evitare che la
crisi degenerasse e maturasse invece in una
soluzione meno squallida? Non era meglio
muoversi ai primi segni del vento che mutava?
Tu ed altri assessori o consiglieri, giustamente
"infedeli", non potete non pronunciarvi su questi
punti, se volete chiarire le idee ai cittadini.
PER L’ESODO
Gli amici, Genova e la guerra
Della corrispondenza intercorsa fra me ed alcuni
amici sul dopo Genova, l’11 settembre 2001 e la
successiva guerra in Afghanistan scelgo alcuni
testi (qua e là semplificati) e senza mie
precisazioni o ulteriori commenti.
Documentino gli umori, le aspettative, i timori, le
convinzioni di quanti – vicini o distanti dall’idea
di esodo – considero miei interlocutori
indispensabili. La collocazione in questa sezione
non
suoni,
perciò,
annessione
o
strumentalizzazione per nessuno di loro.
Da Laura Cantelmo, Milano, luglio 2001
Compianto
Per Carlo Giuliani
Fiammata di rose abbandonate
il tuo sangue sull’asfalto acceso
accanto alla pistola nera
che ti ha finito. Onde bianche
di mani si sono levate contro
il sibilo turpe degli scudi.
Vile la voce di chi ti voleva
muto: di te hanno detto
infamie che ho scordato.
Di te, caro agli dei nei tuoi
vent’anni, avvinto al sogno
di una più giusta terra,
come tanti, nel vuoto
scandito dall’assalto.
Ti ho eletto figlio: sulla riva
del mare ho pianto, con la sabbia
appuntita, con le onde ho pianto.
Ho pianto la tua fronte di conchiglia,
l’azzurro tremito del cuore,
l’ombra vermiglia del sorriso,
la birra sorseggiata,
il tuo sangue stupito.
Ghermita nell’abbraccio della
29
marea, Genova è sola, già
postuma nel vento e ferita.
Ed ecco, nella nausea
del set televisivo,
sulla ruggine dei containers,
impunite falcheggiano le ombre.
Sul G8: credo che sia stato un momento di
costruzione della Fortezza Europa,sostanzialmente
(dal punto di vista degli apparati) - come p.e. si
vede nel balletto di dichiarazioni di Schily, il
ministro degli int. tedesco (che fu un avvocato
della RAF, se non mi sbaglio)- con in più
interessanti conflitti con gli USA di Bush in stretta
simpatia con Berlusconi; e ora l'inizio di
dichiarazioni ONU sul rimando/non rimando del
vertice FAO. E dall'altro punto di vista? Forse
sostanzialmente una enorme scuola di cosa sono i
rapporti e le strutture di potere, un passaggio dal
vuoto della solitudine o dei discorsi o delle onde
elettriche di Internet alla materialità di storie,
oggetti, corpi: incontri e scontri. In questo senso
gli effetti di verità si estendono da quelle strade
piazze edifici a chi ne era fisicamente distante. Era
in questo senso che parlavo di terribile bellezza: è
stato
variamente lacerato il velo della naturalità del
dominio (e non solo, e non principalmente, dalle
cosiddette tute nere ma, soprattutto, dalla
determinazione di chi là ha voluto testimoniare il
desiderio/bisogno/necessità di un mondo e una
vita diversi - centinaia di migliaia di persone,
appunto). In un certo senso, il discorso sugli
'eccessi' della polizia rischia di velare il punto
chiave, che è quello. Del resto, come di tanto in
tanto si sente dire, non è 'normale' che in questura
picchino (extracomunitari, marginali etc. di
solito)? Che poi vi sia il discorso pure del rischio
di una deriva francamente autoritaria, OK, ma
comunque una buona fetta della popolazione del
pianeta, sotto il dominio delle multinazionali,
degli stati, di organizzazioni come l'FMI (e nei
conflitti terribili che li contrappongono) vive già
in uno stato d'assedio permanente; non c'è nessuna
legge di natura che gli occidentali bianchi ne
siano esentati (anzi, se ripensiamo alle lotte
durissime che si sono svolte nelle metropoli). E
dunque? Non so, forse tutto questo deve
sedimentare, coagulare in reti e discorsi e pratiche
e rapporti. Genova è stata una grande scuola per
me, appunto. Ciao. G.
Da Eugenio Grandinetti, Milano, gennaio 2002
I rumori della vita ora mi paiono
lontani , anche se hanno il frastuono
di un aeroplano che s’abbatte
su un grattacielo e lo sgretola. Eppure
c’erano uomini nell’aereo, nel grattacile
e sono morti, come d’altra parte
ogni giorno muoiono a migliaia
altri uomini, uccisi da altre guerre,
da malattie, da fame, e ci restano
estranei, non perché la campana
della loro morte non suoni
anche per noi, ma perché noi siamo
impotenti, inermi. Sono altri
quelli che decidono e ci dicono
che anche noi siamo coinvolti, e noi
non riusciamo a capire il perché ma pure
ci sentiamo colpevoli.
Si levano intanto dalle macerie grida
disperate, lamenti che col tempo
si affievoliscono, si spengono. E poi
più nulla se non il rumorio
d’altre voci che urlano fingendo
dolore e collera, ma è credibile
il dolore di quelli la cui voce
supera ogni lontananza?
Abbiamo visto altre macerie
da cui si levavano altre grida
e tutto era soltanto
spettacolo breve e poi silenzio. Ma ci sono
al di fuori di me, di noi, uomini
che attendono, che soffrono, che muoiono
magari, ma che restano
solo numeri di una statistica, immagini
effimere di uno spettacolo televisivo.
Forse converrebbe
cambiare canale per vedere
se ci sono altrove altri spettacoli
meno deprimenti, ma dappertutto
c’è lo stesso spettacolo di uomini
che uccidono per denaro, per potere
ma nascondendosi dietro la maschera
del volere di un dio o del valore
della democrazia.
Ci sarà un’altra guerra presto: una guerra
di conquista ma che noi chiameremo
di restaurazione della giustizia ferita, con la scusa
che non c’è pace senza giustizia. Scorreranno
fiumi di sangue, fiumi di parole,
fiumi di immagini sulla televisione
e, quel che conta, fiumi di denaro
per vendere armamenti
e forniture militari, e per comprare
a prezzo di recessione le azioni
dei piccoli risparmiatori e concentrare
nelle mani di pochi capitali
sempre maggiori e abbattere
il potere contrattuale
dei lavoratori, per restaurare
30
in un modo possibilmente più iniquo
gli equilibri antichi di un mondo diseguale.
Da Velio Abati, Grosseto, 4 sett. 2002
Ti ringrazio del tuo documento19 che ho letto con
interesse. Ho due osservazioni da fare. La prima
riguarda il tuo approccio che credo di aver colto
generalmente, in queste cose. Mi sembra che tu ti
preoccupi sempre (eccessivamente, vorrei dire) di
prendere le distanze dalle diverse posizioni
politiche della sinistra. Eccessivamente, anche
perché non sei esponente di un partito, né ti
rivolgi a chi vuole formare gruppi politici.
La seconda è nel merito. Io credo che si debba
essere più generosi con questo movimento, sia per
la sua capacità di radicamento, sia per la sua
importanza rispetto al panorama mefitico in cui si
afferma. Che le critiche possano e debbano essere
fatte, ma che riguardino, più che le forme del
manifestare, le sue debolezze e dimenticanze
teoriche, che concernono i rapporti di produzione.
Da Massimo Parizzi, Milano, 6 sett. 2001
Tornato da pochi giorni ho trovato i tuoi e-mail.
Con tutta l'amicizia e la stima che, credo tu lo
sappia, ho per te, non sono né in sintonia né
d'accordo con quello che dici. Pressoché su tutto.
(Ma l'avrai previsto.). Mi sembra tu pensi che la
radicalità delle forme di lotta sia sinonimo di
radicalità. Sulla base di che? Il movimento ora
rappresentato dal GSF è a mio parere, e nel suo
insieme, non soltanto radicale ma proprio
rivoluzionario. E in ogni senso storico che si
possa dare al termine. Perché le sue richieste e la
sua sensibilità implicano una vera e propria
rivoluzione degli attuali assetti socio-economici.
Punto. Non ha chiara la strada che dal lavoro
quotidiano di gruppi, associazioni ecc., dalla
piazza, dai rapporti con le istituzioni ecc. ecc.
possa portare a una "rivoluzione"?
Ma nessuno ce l'ha e nessuno può ora averla
chiara. Per questo a me sembra importante
praticare tutte le strade aperte e che aprono,
compresi preghiere in chiesa per chi ci crede e
rapporti cauti con le istituzioni. La violenza
mi sembra una strada chiusa e che chiude. Io non
sono un non-violento assoluto: penso che a volte
la violenza sia una triste e trista necessità. Ma ora
non è nemmeno questo: è nel migliore dei casi
una distrazione (di energie, pensieri ecc.) e
un'illusione. Tralascio quello che è nel peggiore
dei casi, perché penso che tu lo sappia benissimo:
19
Il tarlo di Genova 2. Commento in Samizdat
Colognom 3
una trappola. E una ripetizione: in che senso
sarebbe una nuova forma di lotta? A me sembra la
più vecchia. E in che senso sarebbe "meno
simbolica"? Sfasciare una banca è qualcosa di
meno simbolico che digiunare in una chiesa? E
l'"urto inevitabile con i dominatori" significa
soltanto fare a cazzotti? Via! Quest'urto è tanto
inevitabile che questo movimento lo pratica fin
dalla sua
nascita, e semplicemente perché è nato in urto con
i dominatori. Per tutto questo non mi piace il tuo
sforzo di dividere il GSF in buoni e cattivi, o
buonisti e non, oratoriali, neopopulisti ecc. ecc.
(divisione che tra l'altro accusi altri di compiere in
senso inverso). Anche qui, non è che sono
contrario per principio alle divisioni: ma divisioni
sulla base di che e perché e con che prospettive?
Hai, ha qualcuno, in mente una strada che
permetta di definire altre strade sbagliate,
fuorvianti? Una strada intendo. Non le distinzioni
fra disobbedienza civile e non-violenza, preghiere
in chiesa (non a casa: la chiesa di Boccadasse era
sul percorso del corteo a Genova) e marcia per le
strade ecc. ecc. Queste non sono strade
alternative, sono varie forme. Il black bloc è un
altro discorso. Adesso fanno la figura di esclusi,
reietti e, già, a tanti viene voglia di mettersi subito
dalla parte degli esclusi, dei reietti. Ma dalla parte
in che senso? Anche a me piacerebbe, e ritengo
importante, sapere e capire chi sono, che cosa
vogliono, come e perché; e anche a me non
piacciono i paternalismi che li fanno esempi del
"disagio giovanile". Ma, appunto, se il rapporto
più corretto con loro sta nel riconoscerli per come
si manifestano, nel riconoscere che pensano che il
modo migliore di contrapporsi al capitalismo stia
nello sfasciare tutto, compreso un corteo di
duecentomila persone,
allora, senza paternalismi: stiano alla larga. Già
una volta poche centinaia di persone, armate solo
di qualche pistola, hanno chiuso la bocca ad altre
centinaia di migliaia: e per decenni. Insomma, in
numerosa, buona o cattiva compagnia, io penso
che uno dei problemi attuali maggior del
movimento sia quello di non farsi trascinare sul
terreno della "guerriglia", altro che "aprirsi o
sopportare forme di vicinanza o di tolleranza o di
appoggio a comportamenti più guerriglieri"! Una
"strategia politica di grande respiro" è, a mio
parere, quella capace di catalizzare la maggior
parte delle energie e sensibilità anticapitalistiche
trasformandole, appunto, in "politica". Ovvero, lo
dico provocatoriamente, trasformare tutti gli
antiglobalizzatori in antiglobalizzatori "buoni".
Da Giacomo Conserva, Parma, 13 sett. 2001
31
Il mio stato caotico è apparentemente di gran
lunga superato dallo stato caotico del mondo. Ieri
(o stamattina?) mi è venuto in mente il lamento su
Babilonia che c'è nell'Apocalisse: 'E caduta, è
caduta Babilonia la grande... Naturalmente gli Usa
non sono caduti (o il sistema mondiale di
dominio)- parecchie persone sono morte, edifici
sono stati distrutti (trovavo molto belle le Twin
Towers), fra un poco verosimilmente in
Afganistan o Irak o in tanti posti
contemporaneamente
molte
altre
persone
moriranno (ho letto analisi su riviste militari
inglesi e americane: si va dall'ipotizzare
bombardamenti nucleari a bombe a tappeto per
giorni a sbarco di forze speciali a invasioni tout
court). Sulla lista movimento (l'hai mai vista?)
uno ha mandato un messaggio intitolato 'il più bel
giorno della mia vita'. Altri, naturalmente, dicono
tutt'altro. I palestinesi che brindavano e
mangiavano la torta (che siano o non siano
maggioritari) avevano certo le loro ragioni- io
comunque trovo il tutto un po' triste, anche se la
guerra ha un effetto elettrizzante, per certi aspetti
(la guerra come festa, di cui parlava Caillois).
Da Giacomo Conserva, Parma, 25 sett. 2001
A tutto ci si abitua, così ci si abitua in fretta pure
alla vita nelle retrovie. Strano. Però la guerra dei
potenti contro il resto del mondo sarà lunga e
dura; è un fatto p.e. che non mi sono mai arrivati
tanti virus per e-mail come ora (fortunatamente
avevo tempo fa installato un anti-virus adeguato).
Anche quando scoppiò la 1a guerra mondiale si
parlava di lotta contro la barbarie; è l'esempio che
mi viene irresistibilmente in mente. Bush e i
talebani: lupi contro lupi... Molto edificante. (Un
aspetto interessante: due persone che seguo in
terapia, entrambe con cariche aggressive molto
forti- e entrambe con spinte parapolitiche
antisistema, tendono a -quasi-identificarsi con i
tal.: "sì, opprimono le donne, sì etc etcPERO'...").Spero che le armi ABC (atomiche
biologiche chimiche) siano risparmiate a noi e al
resto del mondo, ma più che sperare al momento,
o lanciare appelli,non sembra fattibile. Forse
semplicemente ci vuole tempo per portarsi al
livello di questa altezza di scontro; non so.
Da Giacomo Conserva, Parma 28 sett. 2001
Ciao Ennio. Io a questo punto (forse
irresponsabilmente) non sono troppo preoccupato.
In fondo le guerre ci sono sempre state- basta
leggere qualunque testo di storia antico, come sto
facendo ora: Polibio, Appiano, Senofonte...- e
finora l'umanità in qualche modo ne è sempre
venuta fuori. A prezzo di sofferenze terribili a
volte, certo; ma anche la nostra pace ne procura
infinite (i morti per fame, gli oppressi , le vittime
dell'embargo in Irak etc etc). Ed è pure normale
che all'inizio di una guerra vi sia un entusiasmo e
un consenso di massa- in parte spontaneo, in parte
molto accortamente orchestrato e diretto. Credo
che si tratti per un verso di porsi in un 'altro luogo'
mentale, per tirare avanti in modo dignitoso e
umanamente significativo; e poi di capire le
nervature profonde del conflitto (e farle capire); e,
certo, organizzare risposte politiche adeguate, se e
quando e nella misura in cui sarà possibile. Credo
pure che bisogni superare il modo politically
correct di gestire il multiculturalismo (cfr Prodi
ieri: tutte le culture sono ugualmente valide e
importanti) e portare avanti processi di confronto,
interazione, trasformazione reciproca, confusione. Fra le altre cose, sono tornato alle mie
liste di parole arabe: kabir, akbar, qasr, naft,
faransi...Sia il c.d. riflusso identitario che il
differenzialismo (per cui ciascuno viene ascritto a
un determinato gruppo non comunicante con gli
altri, e finita lì) non mi appagano, li vivo come
violenze alla mia libertà di autoprogettarmi e
autoinventarmi, e li trovo pure estremamente
pericolosi. (Non mi piace nemmeno la pura e
semplice identificazione con l'Altro, pure tanto di
moda nella sinistra radicale).
P.S. nessuna infatuazione per la guerra.
Da Giacomo Conserva, Parma 29 ott. 2001
1.la guerra è sempre esistita (con una varietà di
forme, naturalmente: le scorrerie degli Irochesi
avevano caratteristiche molto diverse dal blitzkrieg del ’40, tanto per dire; ed è indubbio che vi
siano state popolazioni mediamente più pacifiche
di altre, o periodi meno duri); con il corteo di
assassini, violenze, privazioni, furti organizzati e
di piccolo gruppo, orrori vari.
2. inizio così perché l’attacco agli USA mi pare
incontestabilmente un atto di guerra (fatto con i
mezzi a disposizione: certo se avessero avuto una
divisione aerotrasportata magari avrebbero
occupato Washington; se avessero avuto una
bomba al neutrone l’avrebbero gettata etc)
3. lungi dal nascere da categorie psicologiche esso
mi pare nascere da un calcolo razionale (che non
vuol dire giusto) di mezzi e fini. Del resto, dal
punto di vista tecnico il tutto è stato tanto
spettacolarmente efficiente dal far nascere il
sospetto di complicità a qualche livello, o di via
libera data (‘E VERO che Pearl Harbor fu
sfruttata per portare una popolazione riluttante in
guerra)
32
4. e cosa è in ballo? Be’, in un conflitto ci sono
sempre diversi lati. Qui, a livello elementare, direi
che c’è il gruppo che attualmente controlla il
pianeta vs. altri gruppi che ne vogliono una fetta
(o il tutto)
5. vi sono svariati aspetti collaterali del problema;
per citarne alcuni: il petrolio dell’Asia Centrale; il
raffreddamento Usa-Arabia Saudita; le ambizioni
di sottopotenze varie; il fallimento delle politiche
progressiste per lo sviluppo, e del socialismo
nazionalista nel c.d. 3° mondo; il legame che si è
stabilito fra integralisti e strati poveri, ovvero fra
integralisti e esercito in vari stati; le conseguenze
materiali,
sociali,
psicologiche
della
globalizzazione (cfr. i talebani che sparano alle
donne riottose e distruggono le televisioni; o i
satelliti che trasmettono notizie-più o meno
manipolate-, pubblicità diretta e indiretta,
spettacoli, pornografia…)
6 per non parlare delle contraddizioni nel campo
dei potenti: USA/Europa occ.; Russia; Cina; etc.
7 Ogni ordine imperiale si fantastica stabile in
eterno, oltre che giusto e santo. Bisogna vedere se
lo sa essere davvero, e per quanto tempo. Bisogna
vedere pure cosa ne pensano gli altri attori in
gioco (che non è detto siano migliori, ma non è
automatico nemmeno siano peggiori).
8 Credo che questa guerra vada sabotata, da tutte
le parti. Esattamente come credo che società
paternalistica e teocrazia vadano combattute. (Ma
non con gli Stealth!)
9 ‘E indubbio che i valori ‘occidentali’, già emersi
dal colonialismo, sono collegati con libero
mercato, multinazionali, finanziarizzazione etc
etc. Non possono non suonare vacui in buona
parte della terra.
10 Un’altra cosa da fare, penso, è diminuire la
barriera di non conoscenza rispetto all’ “Altro”. Il
che vuol dire p.e. studiare arabo o urdu, leggere il
Corano e la storia di quella parte del mondo che
per noi è largamente una terra incognita etc etc. (e,
ovviamente, parlare con gli “Altri”)
11 Non è detto che tutto ciò serva a qualcosa a
livello immediato. L’evoluzione della situazione
politico-militare resta molto dubbia, anche per la
pluralità di attori in gioco, e la molteplicità dei
luoghi (p.e. si pensi alla Cina, all’estrema destra
americana- che dopo tutto pare capace di fare pure
lei grossi danni-, alle sottopotenze regionali, e via
andare). Inoltre bisogna cercare di essere lucidi, e
il meno isolati possibile. Questo mentre la guerra
di propaganda infuria non solo in alcune moschee,
come si dice, ma sui nostri schermi TV in
continuazione,
con
disinformazione
manipolazione elusione continua.
12 ciascuno ha la propria riserva di immagini
apocalittiche, o i propri bisogni religiosi: ma
bisogna assolutamente distinguere tutto ciò da una
valutazione razionale delle situazioni. E credo
non ci si possa identificare troppo con nessuno
degli idoli tribali- siano propri o altrui.
Da Luca Lenzini, Siena, novembre 2001
Come ogni volta
“Nulla sarà più come prima”. Questa frase l’ho
sentita più volte, a partire dall’89. In occasione
della caduta del Muro di Berlino, quell’anno; ma
poco dopo e con accento diverso, passando da un
evento festoso e incruento a tutt’altro genere di
vicenda, all’epoca della guerra del Golfo. Poi, con
sempre maggiore sgomento, per la guerra in
Kossovo; di nuovo ora per l’11 settembre e la
guerra in Afghanistan.
L’espressione ritorna nei discorsi ormai
ciclicamente, così annullando l’intenzione di
esprimere
uno
choc,
un
cambiamento
irreversibile. Il tentativo di dire l’inconcepibile, o
meglio l’inconcepito, ricade su se stesso,
circolarmente, come nel ritornello di un girotondo
infantile (“Casca il mondo…”) – ed ogni volta si
ricomincia. Il senso della ‘svolta’ è insieme
evocato e contraddetto, mentre il momento dello
strappo rispetto al passato si ritualizza e del futuro
non si avverte nemmeno un timido alito: prevale
una sorta di frastornata o attonita constatazione,
come di fronte ad un movimento franoso che
sconvolge il paesaggio conosciuto senza che se ne
intraveda uno nuovo. Ciò che si rinnova è una
figura del lutto: il nulla è ben più minaccioso,
ingombrante e incalzante di ciò che eventualmente
sarà.
Durante la guerra in Kossovo, negli uffici postali
vedevi persone anziane - a cui ogni giorno la radio
e la televisione annunciavano la necessità di tagli
nei servizi sociali - fare versamenti per gli “aiuti
umanitari”, devolvendo una quota della pensione
a missioni gestite e pubblicizzate dagli stessi
biechi politicanti – volevo dire i professionisti
della politica - che spedivano aerei a bombardare
altra gente di là dall’Adriatico, e di qua si
preoccupavano per i cali del flusso turistico.
Da una parte, la mobilitazione tramite i media
dell’emarginato ridotto a massa da manipolare;
dall’altra, tra la gente un grumo diffuso, spugnoso,
d’indifferenza, il qualunquismo che si accanisce a
negare ogni speranza e solo dalla negazione trae
un brivido di godimento. Ma poi riecco come
sempre i kamikaze del sabato sera, i dibattiti
televisivi del giovedì, le lezioni serali di
disincanto da parte degli ex-idéologues… tutto si
ripete con tranquillizzante normalità. Niente di
nuovo, non è vero? Mobilitazione e
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manipolazione e cinismo in scala industriale sono
ingredienti peculiari e necessari dei regimi
‘populistici’: solo che un tal genere di regimi li
conoscevamo in contesti di arretratezza, legati a
duci e caudillos, o a celebri dittatori, non alla
democrazia. Ma per far vivere una democrazia
non bastano un parlamento, dei partiti ed i media a
loro disposizione: il loro strapotere può
allontanarla, oscurarla sino a renderla un mero
simulacro, anzi una play-station.
Nel duplice gesto del distruggere e del donare,
ormai consuetudinario per catastrofi e guerre, si fa
leggere una verità stravolta, o forse meglio
l’emersione di una verità rimossa; e per un banale
incanto – l’inganno è patente ed efficace - si
compie la sua neutralizzazione. La distruzione
manifesta in modo spettacolare e drammatico la
violenza implicita nello sfruttamento della natura
e degli esseri umani, di una parte del mondo su
un’altra parte. Il sistema del dono ‘umanitario’
implica questa lacerante realtà ma, allo stesso
tempo, importa l’avvenuto accecamento del
cittadino sul proprio ruolo, si arrende al fatto
compiuto, consente il dominio del sempre-uguale.
La guerra e la pace sono egualmente necessarie e
necessariamente contemporanee. La macchina dei
consumi non può fermarsi un attimo, l’economia
non tollera rallentamenti. Oscuramente o
cinicamente devi sentire o sapere che per poter
continuare a vivere, altri devono morire. Accettare
che niente sia come prima, perché nulla cambi.
Ma chi pianifica la storia potrebbe anche aver
sbagliato i calcoli. Già in una generazione
svezzata al ritmo dei jingles c’è chi non crede più
allo spot progressista. Nella ‘rete’ circolano
messaggi e discussioni di persone che non
leggono più i loschi opinionisti dei quotidiani
nazionali, né guardano gli inguardabili
telegiornali. Persone: quelle che muoiono negli
attentati, nelle guerre, ogni giorno. Per molti di
loro le parole-feticcio del palinsesto quotidiano
non hanno più senso, perché il senso di ognuna di
esse – destra e sinistra, comunismo o liberismo,
democrazia o patria - dev’essere riguadagnato nel
presente, ogni volta.
Indice
Pag. 1
NUMERO 4
SAMIZDAT
Pag. 1 CARTEGGIANDO CON UN EDITORE.
Pag. 4 SOLO UN’ECO DI OPPOSIZIONE?
Pag. 5 IL “BISOGNO DI SCRIVERLO”.
Pag. 6 FUORI DAGLI EQUIVOCI DEL VOLONTARIATO, MA NO ALLA SIRENA DEL MERCATO.
COLOGNOM
Pag. 7 DIARIO (Da 28 nov. 2001 a 7 lug. 2002)
Pag. 10 RIORDINADIARIO maggio 1978 - 2002
Pag. 22 POETERIE
Pag. 24 APPUNTI PER UN FILM SU COLOGNOM
Pag. 25 SUL SINDACO DECAPOTTABILE E ALTRE COSUCCE LOCALI. LETTERA A
MICHELE PAPAGNA DI "COLOGNO CITTÀ SOLIDALE", FINE DIC. 2001
Pag. 26 LETTERA A ROBERTO GROSSI DEL 25 GIU. 1999
Pag. 27 BOZZA DOCUMENTO DI IPSILON SULLA CASA DELLA CULTURA DEL 21
OTTOBRE 1999
PER L’ ESODO Gli amici, Genova e la guerra
Pag. 29 Da Laura Cantelmo, Milano, luglio 2001
Pag. 30 Da Giacomo Conserva, Parma, 7 ag. 2001
Pag. 30 Da Eugenio Grandinetti, Milano, gennaio 2002
Pag. 31 Da Velio Abati, Grosseto, 4 sett. 2002
Pag. 31 Da Massimo Parizzi, Milano, 6 sett. 2001
Pag. 31 Da Giacomo Conserva, Parma, 13 sett. 2001
Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma, 25 sett. 2001
Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma 28 sett. 2001
Pag. 32 Da Giacomo Conserva, Parma 29 ott. 2001
Pag. 33 Da Luca Lenzini, Siena, novembre 2001
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SAMIZDAT?
È termine russo. Indicava gli opuscoli della
comunicazione dissidente nei paesi dell’Est e
della ex Urss.
Letteralmente significa autoedizione.
Qui è assunto in entrambi i significati : foglio di
pensiero critico e forma di pubblicazione non
cortigiana.
COLOGNOM?
Abbreviazione straniante di Cologno Monzese.
Allude al luogo/non luogo nel quale il foglio
viene scritto, alla sua problematica perifericità, ai
mutamenti decostruttivi e costruttivi possibili in
questo spazio ibrido.
ESODO?
La parola rimanda alle migrazioni passate e
presenti, al rifiuto di chiudersi o lasciarsi
chiudere nell’intrasformabile mondo esistente dei
padroni.
Samizdat Colognom esce in edizione cartacea
come supplemento a INOLTRE, rivista edita
dalla Jaca Book.
È presente anche su Internet al sito web http:
digilander.libero.it /samizdatcolognom
È curato da Ennio Abate
Via Pirandello, 6 – 20093 Cologno Monzese
Tel. 02.26700095
E-mail: [email protected]
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Numero 4 settembre 2001 settembre 2002