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MARZO 2015 ANNO 12 N 3
periodico dei terremotati o di resistenza umana
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Considero le migrazioni
di milioni di esseri umani
l’episodio più solenne
e più grande del nostro tempo.
Erri De Luca
lotta e contemplazione
l’alba della liberazione
Rosalba Manes
Un giorno Dio si mise in cerca di un pastore. L’ appuntamento fu presso un roveto. Dall’aridità di quel cespuglio uscì la
Voce che scosse un uomo senza identità, un uomo che per fare
giustizia a modo suo aveva ucciso, un uomo in fuga da tutti e da sé.
Dio parlò dal fuoco accarezzando il roveto e anche Mosè. Il fuoco
della santità a contatto con una pianta secca avrebbe dovuto distruggerla e invece no. Dio non distrugge la creatura umana, la
purifica, la riscalda, la illumina. La vita di Mosè era una realtà arida, ma Dio l’amava così tanto da scendere per abitare quei rovi e
visitare le ferite sanguinanti di un uomo strappato sin da piccolo
ai suoi affetti dall’odio del
faraone e sottratto alla sua
famiglia d’adozione dalla
pretesa di sradicare il male
dalla terra con le sue sole
forze. Dio libera Mosè dalle
spine e lo rende liberatore
del suo popolo quando gli insegna a convivere coi suoi
limiti e col suo immenso bisogno di salvezza. Dio si ferisce scendendo anche tra le
nostre spine. Il suo sangue
cade sul roveto dei nostri
fallimenti e i rovi pian piano
iniziano a fiorire. Sta a noi
permettere che questa linfa
di giustizia scorra nelle nostre scelte perché dai rovi
Silverio De Santis: Blues
fiorisca quel germoglio che anGommapane sulle labbra
nuncia ad altri prigionieri l’alba
dell’uomo a lungo amato
della liberazione.
hanno ancora fame
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di un volto cancellato.
Il tuo sostegno ci consente di esistere
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Antonio Di Lalla
Tel/fax 0874732749
Redazione
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Segreteria
Marialucia Carlone
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E-mail
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Quaderno n. 115
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86040 Ripabottoni (CB)
i nodi e il pettine
lettera aperta a paolo gentiloni ministro degli esteri
Antonio Di Lalla
Facciamo da anni la politica dello
struzzo. Ci ostiniamo, di fronte ai problemi, anziché affrontarli, a mettere la testa
sotto la sabbia e puntualmente rimaniamo
col culo scoperto e ben in vista. Immigrazione, guerra ed economia sono profondamente intrecciate e interconnesse. È impossibile voler affrontare o risolvere l’una
senza tener presente le altre due.
Continuamente sentiamo parlare
attraverso i media di emergenza immigrazione, in verità più per intimidirci che per
aiutarci a prenderne coscienza seriamente.
Il 3 ottobre 2013 dinanzi alla tragica morte
di 366 immigrati in prossimità di Lampedusa abbiamo finto commozione, perché
abbiamo visto i corpi allineati in bare (che
in buona parte attendono ancora sepoltura).
Di fronte agli oltre trecento morti del 12
febbraio scorso, a causa dei barconi affondati, di cui hanno dato testimonianza i
pochi profughi superstiti, non avendo visto
i corpi, siamo rimasti più o meno indifferenti. Sapere che solo nel nuovo millennio
sono oltre 23 mila le persone che hanno
trovato la morte in mare nel tentativo di
raggiungere l’Europa non ci ha fatto cambiare minimamente né politica né stile di
vita. Come è possibile questa globalizzazione dell’indifferenza? Un ministro degli
esteri, che per giunta fa professione sincera
di fede cattolica, può non prendere di petto
una tragedia quotidiana di simile portata?
Se sulle nostre strade, per quanto scarrupate, succedono incidenti si cerca in tutti i
modi di renderle più sicure, non di impedire che siano transitate - addirittura nel Molise stiamo per costruire la metropolitana
leggera tra Bojano e Matrice nella speranza
che qualcuno la frequenti - e allora come è
possibile che non si rendano sicure le rotte
del Mediterraneo, in modo che si ponga
fine alle stragi quotidiane? Il primo marzo,
ogni anno, sta a ricordarci il diritto alla
libera circolazione delle persone umane,
perché la natura non ha frontiere, la certezza che tutte le persone sono uguali ed hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, la
necessità che noi abbiamo di manodopera
e che un giorno senza di loro si paralizzerebbe la nostra economia.
Perché questo esodo di massa,
perché in tanti rischiano la vita mettendosi
in mare su carrette che non resisterebbero
all’urto delle onde neppure attraccate al
porto? Per fuggire da morte certa a causa
della violenza e della guerra nelle loro
nazioni di origine. Noi fomentiamo i conflitti e contemporaneamente vorremmo
impedire la fuga, siamo cioè per la mattanza ad oltranza nella loro terra! Come gli
Stati Uniti vogliamo anche noi cominciare
ad essere esportatori di democrazia. Con la
differenza che loro fanno le guerre per
farci i film, noi invece per lasciare scoperto
il posteriore! Proprio come lo struzzo. In
barba alla Costituzione. Questa meravigliosa carta, frutto della tragica esperienza
fascista che ci aveva coinvolti nella seconda guerra mondiale, sintesi della cultura
laica, socialista e cattolica, scritta col sangue dei partigiani e che una banda di avventurieri sta cercando da anni di saccheggiare, all’art.11 ci proibisce in modo tassativo il ricorso alla guerra come mezzo di
soluzione delle controversie internazionali
e così abbiamo inventato operazioni chirurgiche con tonnellate di bombe, missioni
di pace in cui in tutta tranquillità si uccide e
si viene uccisi, interventi preventivi per
andare ad assassinare prima che venga in
mente a loro di farlo. Ministro Gentiloni, di
provata fede cattolica, quando ha ipotizzato di portare la guerra in Libia era per un
confronto spassionato sul campo avversario tra Bibbia e Corano, per nostalgia delle
crociate, o il tentativo di imitare Barack
Obama, per avere anche lei il Nobel per la
pace? Un fatto certo è che in Italia e in tutte
le nazioni cosiddette civili la crisi ha toccato tutti i settori fuorché l’industria bellica e
la spesa per le forze armate, che anzi è in
costante aumento.
Che ci siamo andati a fare in
Libia, in Iraq, in Afghanistan…? Veramente ci sta a cuore la democrazia di quelle nazioni o non invece i possibili profitti?
Questo tipo di economia che i paesi occidentali si ostinano a difendere uccide; è
tempo di dirlo con chiarezza. La non equità
della distribuzione delle risorse, l’aver fatto
sì che la politica viaggi a rimorchio della
finanza e delle speculazioni porta sempre
più a guerre fratricide e anzi fomentiamo le
guerre dovunque intravvediamo risorse di
cui ci possiamo impossessare perché nel
caos è più semplice fare profitti, costi quel
che costi. Oggi che anche il cosiddetto ceto
medio è alla fame, finalmente dovremmo
denunciare il fallimento più totale del capitalismo e porvi rimedio e invece ci ha resi
così ciechi che facciamo finta di non vedere finché non ne rimarremo stritolati anche
noi. On. Gentiloni, lei che mastica più fede
che pane, le ha saltate a piè pari quelle
pagine di vangelo in cui si dichiara
l’incompatibilità radicale tra Dio e denaro
o le hanno fornito qualche versione addomesticata?
I nodi sono giunti al pettine: o
cambiamo economia in modo da non fare
più guerre per cui le persone non sono più
costrette ad esulare per cercare posti tranquilli oppure l’unica pace che abbraccerà
tutti sarà quella del cimitero. ☺
Hai rinnovato l’abbonamento? Dove sputa un popolo nasce… la fonte
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spiritualità
la fraternità cristiana
Michele Tartaglia
Nelle sue lettere, Paolo continuamente si riferisce ai membri della comunità
a cui scrive chiamandoli fratelli, termine
che è entrato anche nella liturgia, diventando in tal modo un termine convenzionale e
anche svuotato della sua densità originaria.
La fraternità a cui Paolo si riferisce è una
modalità nuova di vivere le relazioni che
va oltre le convenzioni e le divisioni sociali, determinata dall’inserimento in Gesù
Cristo: “Tutti voi siete figli di Dio per la
fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete
stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di
Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non
c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).
Il legame tra i cristiani non è determinato da simpatie personali, dalla scelta di
costituire un’associazione o un club per difendere comuni interessi, ma dal legame che si è
instaurato con Dio Padre tramite Gesù Cristo:
“Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di
Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare
anche alla sua gloria” (Rm 8,17). Ma cosa
significa partecipare alle sofferenze di Cristo?
Per molto tempo nella nostra tradizione cristiana ciò ha significato immedesimarsi
nell’evento storico della Passione, così da
rivivere annualmente la sofferenza catartica
del venerdì santo per tornare alla vita di prima
a pasqua, come avveniva nei riti di morte e
resurrezione pagani che rappresentavano i
cicli della natura. Tuttora, soprattutto nei nostri paesi latini, continuiamo a perpetuare
questo rito, anche se ormai non se ne coglie
più il significato. L’ideologia che stava dietro
era quella del pensare alla propria salvezza, ad
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espiare i propri peccati per evitare i castighi
di Dio e ottenere un posto nel paradiso. Ma
non è questo il senso che Paolo attribuiva alla
partecipazione alle sofferenze di Cristo. In
realtà questo concetto riguarda le conseguenze della propria adesione al vangelo:
all’accoglienza del perdono gratuito di Dio
(di ciò si occupa la prima parte della lettera ai
Romani, fino al capitolo 11), corrisponde
una mia risposta che passa necessariamente
per il mio mettermi concretamente a servizio
della salvezza dell’altro, facendo mio
l’atteggiamento di Gesù che, dice Paolo, “mi
ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal
2,20). Si tratta in sintesi, di quella “fede che
agisce per mezzo dell’amore” (Gal 5,6).
Detto così, si rischia di cadere di
nuovo in una filantropia disincarnata, in un
amore tanto universale quanto evanescente.
Per questo, quando Paolo tratteggia le conseguenze dell’accoglienza di questo amore
gratuito che perdona (come fa in Rm 12-15),
scende nel concreto delle situazioni relazionali, tratteggiando un vero e proprio manifesto dell’agape (che traduciamo con carità o
amore) che culmina nella sintesi di tutti i
comandamenti in Rm 13,9-10: “Qualsiasi
comandamento
si
riassume in queste
parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa
nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è
l’amore”. In Rm 12 si
dice che l’amore è
rivolto a tutti, ma a
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cominciare da quelli più vicini, i membri
della comunità, che Paolo chiama ancora una
volta “fratelli”.
È proprio a partire da questa focalizzazione sulla comunità che Paolo si pone il
problema del rapporto tra forti e deboli nella
fede: membri, cioè, della stessa comunità ma
con una diversa convinzione riguardo
all’adesione al vangelo (Rm 14,1-15,6). Da
uno che rimprovera chi vuole imporre la
pratica della legge, ci si aspetterebbe
un’esortazione alla coerenza rivolta a chi ha
ancora l’abitudine di rispettare i divieti alimentari della legge di Mosè e il rispetto dei
tempi sacri. Invece Paolo chiede la coerenza
a chi è libero da queste convenzioni superate,
non ovviamente con il sistema che hanno
abbandonato, ma con l’adesione a Cristo
Gesù che non è morto solo per i perfetti. Il
criterio per agire, dice Paolo, è l’attenzione
per la fragilità nella fede di un fratello “per il
quale Cristo è morto” (Rm 14,15). La partecipazione alle sofferenze di Cristo, quindi,
riguarda la condivisione del progetto salvifico
universale che Gesù è venuto a realizzare,
secondo cui non sono le risposte umane a
determinare l’appartenenza a Cristo, bensì
Dio che vuole la salvezza di tutti. La fraternità cristiana, in quest’ottica, non è data dalla
simpatia per l’altro (cosa che è umana, anche
nel senso paolino quindi, di ferita dal peccato), ma dall’adesione convinta al progetto di
Gesù, dal fare proprie, direbbe Paolo, le sue
sofferenze, che porta a vedere nell’altro non
un semplice appartenente alla stessa specie
umana, ma un fratello per cui Cristo è morto.
La fraternità cristiana o ha un fondamento in Gesù o semplicemente non è, in
quanto sarebbe continuamente ridefinita da
criteri umani di appartenenza a un partito, a
una nazione, a una razza, ma anche a una
religione, terreni fertili per ogni guerra. La
dialettica stimolante fra deboli e forti di una
comunità costituisce per il cristiano la palestra
per aiutare l’umanità a superare ogni tipo di
divisione, nella consapevolezza grata che
Gesù è morto per tutti, veramente tutti e tutti
vivono per lui. ☺
[email protected]
Lutto in famiglia
Redazione e lettori si uniscono al
lutto che ha colpito la nostra collaboratrice Ester Tanasso per la morte della mamma Silvana
glossario
contaminazioni
Dario Carlone
mare che separa l’Africa dalle coste italiane.
Il Mediterraneo, quello che in
antico era stato il “mare nostrum”, sta manifestando ultimamente tutta la sua violenza.
Lontane ormai dagli echi delle battaglie per
la supremazia in mare, dagli sbarchi di truppe alleate, queste acque sono diventate il
regno incontrastato di trafficanti di uomini,
che agiscono in maniera sempre più efferata
mentre la “civile” Europa finge di non vedere, in un silenzio che li lascia agire indisturbati. Sì, perché l’operazione Triton, partita a
novembre e coordinata dall’Italia, si occupa
solo del controllo delle frontiere marittime:
essa prevede semplicemente l’ individuazione delle imbarcazioni che trasportano profughi e richiedenti asilo, ma non contempla
l’umanissima legge “non scritta” del soccorso a chi è in difficoltà. Il mandato dell’ agenzia è quello di controllare le frontiere,
non di fare ricerca ed offrire soccorso. Diversamente dal precedente, denominato
invece “Mare Nostrum”, in carico al nostro
Paese, l’attuale programma non dispone di
imbarcazioni in grado di oltrepassare le
acque territoriali, né è autorizzato a farlo,
rispondendo solo parzialmente alle reali ed
attuali esigenze di prestare aiuto in mare a
chi è in difficoltà, nonostante con sempre
più frequenza si ripropongano situazioni in
cui è necessario salvare innocenti vite uma-
ne.
Triton, una delle facce di
un’unione, quella europea, basata essenzialmente sul profitto, che nel rafforzare il controllo dei confini riserva più importanza alle
frontiere che alle persone. Essa mostra ancora una volta estraneità, accoglienza negata, disprezzo verso quanti bussano alle nostre porte; insensibilità verso quelle popolazioni che sono spinte dalla fame e dalla
violenza a cercare altrove un luogo dove
riprendersi la propria vita e la propria dignità.
Migrazioni: la storia dell’umanità
nasce da questo fenomeno; lo stesso mare
che recentemente ha offerto soltanto morte
ai disperati naufraghi, ha visto la sua meravigliosa vicenda svolgersi attraverso lo spostamento e la contaminazione di popoli e
culture diverse.
Aspro ed inebriante, culla di civiltà, custode di un’eredità millenaria, Mediterraneo, stai volgendo la tua pagina rombante
- come cantava Eugenio Montale - per esser
vasto e diverso/ e svuotarsi cosi d’ogni lordura / come tu fai che sbatti sulle sponde /
tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie
del tuo abisso. Ora non sei altro che il Mediterraneo dei poveri. ☺
[email protected]
Scatto d’autore di Guerino Trivisonno
Nella mitologia greca era un dio
marino, personificazione dei flutti impetuosi, onorato e temuto dalle popolazioni arcaiche; oggi è semplicemente il nome di
un’“operazione” di sorveglianza delle acque del Mediterraneo. A coordinarla è
l’agenzia europea Frontex, che se ne serve
per individuare i “barconi” dei migranti.
Triton [pronuncia: traiton] è dunque la traduzione inglese di Tritone, divinità
mitologica preposta al dominio del mare e
rappresentata solitamente come un uomo
dalla coda di pesce e con in mano un tridente ed una conchiglia. Il mito suggerisce, con
crudo realismo, il pericolo e l’ imprevedibilità legati al mare, ieri come oggi elemento
naturale implacabile nella sua furia, quando
inghiotte vite e speranze di centinaia di
persone, sotto lo sguardo, colpevolmente
indifferente, di un continente: il nostro!
È ancora davanti ai nostri occhi la
tragica conclusione di uno dei tanti viaggi
che sfidano la morte in cerca della vita,
compiuti da giovani e adolescenti, divenuti
vittime inconsapevoli di un meccanismo
che ruba loro la speranza con l’inganno,
oltre che sottoporli a prove durissime anche
prima della terribile traversata del braccio di
La natura non ha frontiere
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politica
la politica del déjà-vu
Antonio Celio
Se per incanto risvegliassimo domattina politici di rango come Enrico Berlinguer e Aldo Moro, ci supplicherebbero di
tornare al riposo eterno, inorriditi dall’attuale
teatrino tragicomico di fantapolitica. Le immagini poco edificanti che si dispiegherebbero davanti ai loro occhi causerebbero nei due
uno shock fulminante, dopo poche ore di
continui e insopportabili déjà-vu. Non solo
troverebbero ancora presidenti del consiglio e
della repubblica democristiani (immaginate i
loro volti sbigottiti), ma dovrebbero prendere
atto, amaramente, che i mali della politica
italiana si sono ripetuti nel tempo, sempre
uguali a se stessi.
Con un eccesso di semplificazione,
possiamo rivisitare l’esperienza parlamentare
italiana seguendo due o tre tendenze: il trasformismo, l’ingovernabilità e i tentativi
maldestri di porvi rimedio attraverso artifici
quali revisioni costituzionali a maggioranza e
leggi elettorali raccapriccianti. Il trasformismo ha origini remote, nell’Italia liberale di
quelli che Weber chiamava partiti di notabili:
ogni deputato vendeva in aula il proprio consenso per votare le leggi e il capo di governo
cercava di cooptarli. Non rappresentando
l’intera società, i notabili non avevano bisogno di ideologie, né tanto meno di programmi da sottoporre ad un elettorato ristretto.
Bastava fare gli interessi dei pochi. È trascorso più di un secolo e il cambio di casacca per
non perdere la seggiola (ora si chiama
“responsabilità”) pare ancora lo sport preferito dai politici dello Stivale.
Le ricette per riadattare la più bella
Costituzione del mondo al mutare della società sembrano sposarsi bene con un flute di
scandali giudiziari, di propaganda antipartitica e di nuovi movimenti, che tendono a sgonfiarsi alla stessa velocità delle bolle finanzia-
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rie che di tanto in tanto, anch’esse ciclicamente, tornano ad allargare la forbice sociale.
Il tutto è servito da giullari e ballerine che,
danzando leggiadramente, convincono
l’elettore medio che se non riescono a governare non è perché non lo rappresentano neanche lontanamente, bensì perché il sistema non
lo consente. Come se i padri costituenti, notoriamente amanti del caos, ce l’avessero messa
tutta per impedire a lorsignori di fare il bene
della Repubblica!
Il primo tentativo degno di nota nel
combattere il mostro dell’ingovernabilità fu
senz’ombra di dubbio la “legge truffa” del
’53, quando la DC, sotto scacco dei partiti
laici minori, pensò di correggere il proporzionale con un succulento premio di maggioranza che le garantisse i due terzi dei seggi. Fallito il tentativo degasperiano, i diccini tornarono a fare i conti con i partiti della coalizione,
fino a morire tra le braccia dell’alleatoricattatore PSI. Fu proprio il segretario socialista, Bettino Craxi, ad accompagnare l’Italia
verso la fine della Prima Repubblica, al motto
di “governabilità” e “grandi riforme”. Per
raggiungere questi obiettivi, sposò la tesi di
Luhmann: ridurre la complessità sociale a
favore della governabilità. I partiti dovevano
cioè farsi più leggeri, puntare sulla figura di
un leader carismatico e scrollarsi di dosso il
fardello dell’ideologia. La politica dei due
forni di scuola andreottiana, che lo vedeva
intessere alleanze diverse a seconda dei contesti, non era dissimile dalla logica del Patto
del Nazareno dei giorni nostri. Ma il colpo
del K.O. per i partiti tradizionali coincise con
la fine dello stesso Garofano, al suono delle
monetine scagliate dai cittadini inferociti
all’indomani di Tangentopoli. Inutile dirlo,
alla crisi della partitocrazia seguì una nuova
legge elettorale, quella che porta il nome del
presidente Mattarella.
Ma se nel maggioritario erano riposte le
speranze di risolvere il
problema della governabilità, ben presto si
dovette fare i conti con
la moltiplicazione di
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partiti e movimenti che la frenavano. In
un’anomalia tutta italiana, l’anti-partitocrazia
ha finito col moltiplicare gli stessi partiti.
Così, tra bicamerali che sognavano il premierato forte o il presidenzialismo alla francese
e riforme costituzionali a maggioranza (nel
2001, nel 2005 e di nuovo in queste ore), i
partiti si fanno sempre più snelli e antiideologici e si tengono impegnati nel disperato tentativo di sopravvivere, non potendo,
giustamente, governare. Non sono mancate
rivisitazioni fantasiose della “legge truffa”
con il Porcellum di Calderoli e, più recentemente, con l’Italicum. Né altri movimenti
populistici. Ma la nostra democrazia è ancora
bloccata. Siamo sicuri, allora, che il problema
si possa risolvere con altri tecnicismi e col
superamento dei partiti? Se la Prima Repubblica era impantanata nella conventio ad
excludendum, prassi che impediva ai partiti
“estremisti”, PCI in primis, di governare,
nella Seconda si è tornati all’idea di partito
ottocentesca: il leader decisionista ha quali
interlocutori i notabili seduti sugli scranni
parlamentari, più che il Popolo sovrano. Se
eliminassimo la funzione di cerniera dei partiti e continuassimo sulla strada della loro piena trasformazione in partiti “azienda” o “di
cartello”, non ci sarebbe più - e forse già non
c’è - la rappresentanza. Così, con partiti privi
di visioni alternative della società, la vita
politica continuerà caoticamente tra un popolo chiamato a scegliere lo slogan preferito e i
suoi rappresentanti impreparati, che non avendo alle spalle un partito aperto alle istanze
sociali saranno schiavi dei leader. Questi,
invece, dovranno ricercare il consenso personale che, rispondendo alle logiche mediatiche, rincorre il sensazionalismo più che il
buon senso. Anch’essi saranno a loro volta
alla mercé dei gruppi di pressione che, soli,
possono aiutarli ad affrontare una carriera in
continua campagna elettorale.
La soluzione? Bisognerebbe ricostruire una classe politica consapevole, magari tornando alle scuole di partito. Perché solo
un politico preparato, non scelto da un capo
in base alla fedeltà alla ditta ma dall’ elettorato sulla scorta delle soluzioni offerte, garantite
a loro volta da ideologie ben individuabili,
può opporsi alle derive populistiche da un
lato e al giogo di attori internazionali più
scafati dall’altro. Ancora una volta, nel Belpaese, si è confusa la medicina con la malattia.☺
[email protected]
politica
“Beati quelli che hanno un occhio
solo in una valle di ciechi”, così si diceva.
Nel nostro paese la situazione è ben più grave, ormai anche i monocoli sono rari, provate
a fare un’istantanea sulle vicende che ci riguardano molto da vicino.
In Ucraina vi è una vera e propria
guerra civile, una violenza che, passo dopo
passo, può trascinare l’intera Europa entro un
nuovo conflitto mondiale. La responsabilità è
di qualche fesso in Germania e di diversi
complici in Europa, i quali hanno pensato di
trattare l’affare ucraino allo stesso modo della
vicenda croata. Il particolare è che l’Ucraina
non è un pezzo della ex Jugoslavia, è un grande paese dove i
Russi sono il 40%, profondamente intrecciato storicamente
con la storia russa e collocato in
quella pericolosissima faglia che
dopo la crisi dell’URSS, divide
la Russia dall’Europa. In questo
contesto aver pensato di aprire le
porte della NATO e dell’Unione
Europea all’Ucraina non è stato
un atto di generosità comunque
pelosa, ma una scelta irresponsabile. I vertici dell’Unione
Europea e della stessa Germania
invece di impegnare le loro
migliori energie nel tormentare stupidamente
il popolo greco farebbero bene a riflettere
sulle sciocchezze fatte e a lavorare per una
vera Europa federale.
A poche centinaia di chilometri
dalle coste della Sicilia sventola la bandiera
nera dei nuovi barbari dell’ISIS. È l’annuncio
di nuovi crimini e di nuovi problemi, questa
volta dietro l’angolo di casa. Tempo fa ho
avanzato l’ipotesi di una corte internazionale
per Tony Blair, l’ex premier inglese che, con
le sue falsità, ha coperto una guerra che ancora oggi continua a causare grandi tragedie
sociali e umane. Vorrei avanzare la stessa
richiesta per un altro signore della guerra:
un’istantanea
Famiano Crucianelli
Nicolas Sarkozy. L’ex premier francese,
unito ad altri volenterosi, fu promotore e
protagonista della guerra in Libia.
L’obiettivo era quello di occupare i pozzi di
petrolio dell’ENI ed emarginare gli italiani. I
risultati di quella scelta indecorosa sono sotto
gli occhi di tutti: in Libia non c’è neppure
l’ombra di un francese e quel paese è ormai
distrutto dalle guerre tribali e
dall’avvento degli estremisti
islamici.
Infine la crisi economica e sociale. In molti sussurrano che la
situazione volge al meglio. Ora,
non vi è dubbio che qualche
segnalino vi sia: il crollo del
prezzo del petrolio e il calo
dell’euro hanno aiutato la ripresina sia sul versante dei costi di
produzione che su quello della
competizione internazionale. Ritenere che questo significhi la
fine della crisi e l’inizio di un
nuovo e positivo ciclo economico è una pia illusione. La profonda recessione
nella quale ci trasciniamo da tempo ha ragioni profonde, riflette squilibri strutturali e una
nuova organizzazione dell’economia e del
potere nel mondo che sarà duro cambiare,
certo non nel breve periodo.
Ora, quel che lascia senza parole,
quel che avvilisce sopra ogni cosa va ben
oltre questi fatti che sono ampiamente noti.
Mentre vi sono rischi seri di gravi conflitti
militari, di un terrorismo barbaro che bussa
alle porte e di una crisi economica che ogni
giorno macina pezzi di società, mentre tutto
ciò accade, il mondo della politica dà il peggio di sé. Metà dei parlamentari sull’ Aventino e l’altra metà chiusa nell’aula di Monteci-
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torio. Baruffe continue fra i partiti e
all’interno degli stessi partiti. Ostruzionismi
in Parlamento e transumanze da un gruppo
parlamentare all’altro senza una comprensibile ragione. Grillo ogni notte annuncia il buio
della Democrazia e Berlusconi considera
autoritarie le riforme istituzionali che ha votato il giorno prima. Insomma un delirio, con il
presidente del consiglio che più che statista e
leader politico, sembra un giocatore di poker.
Tutto ciò è molto grave, ma ancor
più nefasta è la funzione della classe politica
nel territorio, nelle diverse regioni italiane,
perché alla generale indifferenza verso il
bene comune si unisce un diffuso inquinamento morale e culturale delle comunità
locali, una metastasi distruttiva di quelle
cellule elementari e fondamentali che rappresentano il tessuto vitale del nostro paese.
Non voglio evocare una fessa contrapposizione fra una società civile per bene e un
mondo politico corrotto, basterebbe andare
ad una riunione di condominio per vedere di
quale pasta sia fatta la famosa “società civile”. Il paradosso sta nel fatto che la Politica
sarebbe dovuta essere il luogo del progetto
unitario, dell’esempio virtuoso, della pedagogia positiva, avrebbe dovuto rappresentare la testa e non la coda della società, avrebbe dovuto distribuire saggezza, sintesi e non
pillole avvelenate. Nella sostanza avrebbe
dovuto spingere la società un passo avanti e
non tre passi indietro come è accaduto e
continua ad accadere. La situazione è realmente giunta ad un punto critico, se qualcosa si vuole fare, è bene adoperarsi oggi,
perché domani potrebbe essere già troppo
tardi.☺
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xx regione
l’area che tira
Giulia Di Paola
Le aree industriali del Molise stanno diventando desertiche a seguito della
scomparsa di molti degli impianti che solo
fino a qualche anno fa erano in attività, causa
crisi economica e produttiva.
Intanto la Regione sta portando a
termine la trasformazione dei Consorzi industriali in una Agenzia regionale per lo sviluppo delle attività produttive, l’ARSAP. La
proposta licenziata in commissione sembrerebbe portare non solo ad uno snellimento
delle strutture, che diverrebbero un unico
corpo formato dalla sede centrale a Termoli
ed eventuali sedi disaccate a Bojano e Venafro, ma anche ad un maggior controllo ed
indirizzo da parte della Regione stessa. Questo aspetto risulta evidente nel modo in cui
dovrebbe essere nominato il consiglio di
amministrazione: il presidente verrebbe no-
Tony Vaccaro (per gentile concessione di Reinhard Schultz):
Donne al lavoro
8
minato direttamente dal presidente della
Giunta, mentre la nomina degli altri tre membri spetterebbe al consiglio regionale.
Esiste senza dubbio anche un carattere di economicità nella proposta di riordino
e non solo per la riduzione degli organi direttivi. Da tempo, infatti si è cercato di tamponare l’emorragia di denaro generata dalle sedute
del consiglio di amministrazione del consorzio industriale, ma i risultati sono stati scarsi.
Incontri durante i quali si potrebbe pensare
che la maggior parte del tempo venisse impegnata per la conta dei cancelli chiusi e dei
lavoratori rimasti a casa. Il lauto gettone di
presenza era, quindi, da ritenersi un antidoto
alla depressione, quello stato fisico e mentale
che ti assale quando ti rendi conto dell’ inutilità della tua presenza e del tuo agire, piuttosto che un vero e proprio compenso?
Secondo la proposta da presentare
al consiglio i compensi saranno fissati dalla
giunta regionale “in ragione della loro adeguatezza alle funzioni svolte”. C’è da augurarsi che i parametri di riferimento siano diversi dal concetto di produttività attualmente
in vigore presso le amministrazioni pubbliche
dove si elargiscono bonus aggiuntivi per il
solo fatto di essere in grado di timbrare correttamente il cartellino ed aver svolto più o
meno il proprio lavoro senza provocare danni
al capo. L’attività di controllo da parte della
regione si esplica direttamente sugli atti adottati dall’Agenzia ed anche in forme ispettive
e di verifica, ma non manca l’attività di indirizzo.
Sembrerebbe anche che la regione,
con questo nuovo sistema, riuscirebbe a coordinare le azioni di politica economica
all’interno di questi nuclei produttivi con un
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sistema di pianificazione nel quale verrebbe
indicato il budget di finanziamento riferito
alla programmazione prevista. Una programmazione che prevede la partecipazione di tutti
gli attori interessati riuniti in una consulta
delle attività produttive, ma che sarebbe comunque soggetta all’approvazione da parte
del consiglio regionale.
Non è possibile sapere, al momento, se in aula il testo subirà cambiamenti o
stravolgimenti, ma il carattere che si evidenzia sembra proprio quello della centralità
degli organi regionali, segno che la gestione
dei consorzi industriali, così come l’abbiamo
conosciuta fino ad oggi, era veramente fuori
controllo. È ancora tutto da dimostrare, però,
che i tempi e i modi che caratterizzano l’
azione amministrativa siano in grado di condurre una pianificazione e un coordinamento
efficaci per un organismo che dovrebbe tenere conto di una gran quantità di variabili,
diverse da zona a zona; che un così stretto
legame fra l’espressione politica dell’ amministrazione regionale e il maggior organismo
per lo sviluppo industriale riesca a non rimanere intrappolato tra le maglie dei personalismi e dei favoritismi di tipo clientelare. Dubbi
che diventano ancor più grandi se letti in
chiave federalista.
La centralità della regione significa
anche un coinvolgimento diretto di altri attori
economici e finanziari quali, tanto per fare
nomi, Finmolise? E quale il ruolo del preposto assessorato?☺
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xx regione
Le discariche, come i fiori, sono
cosa delicata e come tale devono essere
trattate. L’accostamento è volutamente
ardito e volutamente provocatorio.
Nel 2011, l’ARPA Molise rileva,
presso la discarica di Colle Santo Ianni nel
comune di Montagano, quanto segue “…
il confronto dei valori sui campioni di
acque superficiali … evidenziano una
variazione sostanziale della facies chimica, chimico-fisica e microbiologica in
quanto le concentrazioni dei diversi parametri risultano essere diffusamente aumentate nell’acqua a valle della discarica
rispetto a quelle poste a monte della stessa”. Cause di questa trasformazione negativa delle acque del torrente delle Piane
sono la mancata copertura definitiva di un
bacino di smaltimento esaurito ed un inadeguato sistema di convogliamento delle
acque piovane. In sostanza, la pioggia,
anziché essere opportunamente incanalata
e quindi allontanata dal sito in questione,
permea la massa di rifiuti del bacino non
isolato a norma e trasporta a valle sostanze
dannose per le acque del torrente. Così
risponde la comunità montana “Molise
Centrale”, proprietaria della discarica:
1) Le cause della “episodica” anomalia rilevata dall’ARPA Molise sono da accertare in
quanto nel punto in cui è stato fatto il prelievo
confluisce l’acqua piovana proveniente dalla
strada che collega il comune di Montagano
alla Fondovalle Biferno, da quella di accesso
alla stessa discarica e dai terreni agricoli circostanti. Ciò che nei periodi di secca si sedimenta sul fondo del torrente viene invece
portato a galla dalle piogge abbondanti. Come dire che gli elementi inquinanti provenienti da questi tre siti sono notevolmente
maggiori di quelli di tonnellate di rifiuti, o che
la strada di collegamento con la fondovalle
sia la Salerno-Reggio Calabria.
2) I lavori di copertura finale del bacino esauritosi nel 2008 furono sospesi “a causa di
alcuni cedimenti dell’argine di valle della
discarica,... si evidenziava lo stato di necessità ed urgenza per lavori di messa in sicurezza
dell’impianto in trattazione”. Quindi con
copertura provvisoria costituita da un metro
circa di argilla, il bacino vede l’inizio dei
lavori di messa in sicurezza nel settembre del
2008. I lavori sono ultimati a dicembre 2010;
il dato si commenta da sé. Ma l’avventuroso
cammino del sito non si conclude qui poiché
solo a gennaio 2011 la comunità montana (ed
la discarica di montagano
Cristina Muccilli
evidentemente la gestione della discarica) si
rende conto che la copertura definitiva del
bacino, così come prevista dal progetto originale, è troppo pesante. Reiterati solleciti di
approvazione di un nuovo e più leggero pacchetto di copertura portano finalmente ad un
incontro tra l’assessorato all’Ambiente della
regione Molise e la comunità montana a
giugno del 2011.
Le discariche, come i fiori,
sono cosa delicata.
A gennaio l’amministrazione comunale di Montagano ha incontrato la cittadinanza, comitati, associazioni (non solo del
territorio strettamente comunale) sul tema
specifico della discarica di Colle Santo Ianni.
In quella sede è stata lamentata da tutti la
precaria struttura del sito interessato da una
frana, è stato ribadito il concetto di determinazione temporale di una discarica che necessariamente deve avere un limite. Sono stati
riconfermati i giudizi negativi sul progetto di
ampliamento dell’impianto di compostaggio
dell’organico proveniente da una agognata
raccolta differenziata di una intera regione;
perché spendere milioni di euro per un mega
impianto in una discarica che deve chiudere,
quando sono già operanti altri due siti? E
qualora non fossero sufficienti perché non
utilizzare tutto quel denaro per individuarne e
progettarne un terzo in un luogo più idoneo?
A cosa e a chi serve un sovradimensionamento così spropositato del tonnellaggio da
compostare? E perché non richiedere una
Valutazione di Impatto Ambientale, se non lo
si fa per questo genere di opere, quando farla? La discarica è maleodorante, i miasmi
raggiungono non solo Montagano ma anche
Petrella, ci sono i gabbiani anche se non c’è
il mare, cambiamenti
così rilevanti danno
molto da pensare. Per
tutti i presenti il sito è
da chiudere. Poi è arrivata la chicca, la ciliegina finale: secondo i
risultati di analisi fatte
da privati presso un
laboratorio accreditato,
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nel torrente delle Piane, a valle della discarica, si è riscontrata una rilevante presenza di
metalli pesanti. La costernazione e lo stupore
del sindaco e degli assessori era evidente e la
risposta è stata immediata “Dai dati ARPA
trasmessi a questo comune non è emersa
alcuna anomalia, tutti valori nella norma”.
Nessun accenno ai rilievi fatti dall’ARPA nel
2011.
Come nessun accenno è stato fatto
di ciò? Con nota del 28 novembre 2014 e
successiva integrazione del 16 dicembre
2014, l’ARPA trasmetteva al comune di
Montagano i risultati “delle attività di monitoraggio delle acque sotterranee effettuate
in data 01.07.14 e in data 16.09.14” dai
quali si evince il superamento dei valori
fissati per i solfati e per il manganese. La
prima nota ARPA si conclude così “…
tenuto conto che ad oggi non è stata ancora
attivata la procedura di cui all’art. 242 del
D.Lgs 152/06 … si invita codesto comune
ad attuare gli adempimenti di competenza….” ovvero l’avvio della procedura per la
bonifica di siti contaminati. Ultima annotazione, ad ottobre 2014 anche la provincia di
Campobasso, richiamandosi allo stesso
D.Lgs, conclude le sue precisazioni al Comune così “…il Comune di Montagano
risulta titolare dell’intero procedimento”.
Ma tutto ciò che è stato taciuto è sicuramente una dimenticanza. Per nostra fortuna il
Consiglio di Stato ha accolto la sospensiva
del megaimpianto di compostaggio proposta nel ricorso Codacons.
Le discariche, come i fiori,
sono cosa delicata.☺
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9
vincitori e vinti
la comunità nella comunità
Durante le ultime settimane il gruppo di lavoro ha discusso delle recenti occasioni di apertura della Comunità alla comunità
(le feste di Natale e di Carnevale, con il rituale del fuoco di Sant’Antonio); gli aspetti emersi permettono di declinare in tutta la sua
complessità la dimensione della contaminazione e dello scambio tra una realtà come
quella rappresentata da Il Casone e il paese.
In particolare, molto interessanti sono gli
accenti posti sul ruolo attivo, propositivo e
dinamico che la Comunità Terapeutica ha
avuto e continua a rivestire in relazione alle
tradizioni locali: lungi dalla riproposizione
sterile di riti, un ospite sottolinea quanto la
nostra presenza attiva nel territorio sia motore
per un rinnovato spirito di… Comunità, in
cui è possibile riconoscere i tratti della condivisione e della tradizione, alla luce delle necessarie innovazioni e contaminazioni introdotte da soggetti ed identità inedite. Essenziale ci pare anche il cenno alla istanza terapeutica che riveste la possibilità di scambio, intesa
qui come antidoto alla chiusura e separazione; questi sarebbero, secondo un altro ospite,
le vere declinazioni della patologia, i modi in
cui le difficoltà individuali verrebbero amplificate e le differenze irrigidite nelle forme
dello stigma e del pregiudizio.
Ci piace citare, in chiusura di questa introduzione, F. Stoppa: “La dimensione
transindividuale della comunità rappresenta
un banco di prova per l’io, perché nel contatto con i nostri simili viene a palesarsi non
solo la loro ma la nostra stessa alterità”. Di
più, e considerando lo stato complicato in cui
versa la dimensione comunitaria nel mondo
contemporaneo, potremmo dire che Comunità terapeutica e città sono in soluzione di
interscambio; in questo senso un pensiero
“rivoluzionario” - orientato al cambiamento
10
reale dei rapporti di forze - “non deve porre
rimedio allo stato di emarginazione del portatore di disagio, ma a quello di una comunità lasciata il più delle volte a se stessa, nutrita, nel migliore dei casi, dalla sola azione di
socializzazione portata avanti dal volontariato o dalle istituzioni religiose”.
Sergio Petrillo
La relazione cura
Nei pazienti con difficoltà psichiatrica o psicologica, la relazione assume importanza assai maggiore: non solo permette
di mantenere un contatto con la realtà, molto
spesso funge da contenitore di angosce e
sollievo. Da non sottovalutare anche lo scambio che ogni relazione di per sé permette; tutti
noi entrando in relazione con altri regaliamo
qualcosa e prendiamo qualcosa, e usciamo
modificati da questo processo. Ciò che non
conosciamo spesso ci spaventa, il diverso
spesso viene allontanato e stigmatizzato, la
relazione permette di
dare un nome alle cose
e alle persone, e così
quel pazzo che cammina da solo per il
paese e che evitiamo
per paura, quando lo
identifichiamo con un
nome diventa familia-
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re e questo fa sì che venga riassorbito in un
contesto di accettazione e, di conseguenza, di
cura. Anche i riti sono importanti, attraverso
essi noi riusciamo, purtroppo sempre meno
spesso, ad incontrarci. Ricordo da bambina la
bellezza del carnevale o del Natale, gli appuntamenti in piazza, il San Giuseppe ed il
fuoco, tutto veniva vissuto come una grande
famiglia, tutti si relazionavano gli uni con gli
altri in un clima di festa; in una di queste
occasioni mi venne raccontata la storia del
“siamo al verde”: un’anziana diceva che in
passato quando l’elettricità mancava e l’unico
modo di illuminare le case erano le candele,
accadeva spesso che l’olio si consumava
lasciando un colore verdastro nell’ampolla; i
malcapitati recandosi dai vicini pronunciavano la fatidica frase: “siamo al verde” e gentilmente venivano riforniti per ripristinare la
luce. Oggi sempre più spesso noi rimaniamo
al verde, e questo accade perché sebbene le
distanze si siano assottigliate, come i muri
degli appartamenti, a stento il buongiorno
esce dalle bocche dei condomini. Oggi siamo
al verde. Ma questo non possiamo permetterlo, sia per i pazienti psichiatrici che per coloro
che soffrono di difficoltà psicologiche, ma
anche per noi “semplicemente nevrotici” la
relazione è assolutamente fondamentale e
nonostante il conflitto tra le nostre due anime,
sociale e individualista, è necessario aprirci in
contesto di relazione senza timore di essere
invasi o fagocitati, con la consapevolezza che
la chiusura porterà inevitabilmente ad un
inaridimento sociale, psicologico ed emotivo.
Alessandra Ruberto
Psicologa, Psicoterapeuta
L’incontro con la comunità
Gli incontri che la nostra struttura
effettua con la comunità di Casacalenda sono
dei momenti di aggregazione con le persone
del paese. Attraverso il fuoco di
Sant’Antonio, la festa di Natale e il San Giuseppe, cerchiamo di condividere momenti di
felicità e di incontro con tutte le persone del
posto. Incontrarsi significa mettere in campo
la propria felicità con le persone. Cantare,
ballare, mangiare insieme sono occasioni per
conoscersi e stare insieme. L’incontro con gli
altri è anche un modo per passare il proprio
tempo libero con parenti e amici. A me piacciono molto questi momenti, perché mi sento
in armonia con le persone che incontro in
queste occasioni.
Nicola Spadaccini
convivialità delle differenze
Era il 19 novembre 2010 e… per
una volta tanto la Regione Molise poteva
vantare un primato… quello di aver adottato, prima di ogni altra regione italiana,
una legge di recepimento della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle
persone con disabilità e della legge
328/2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali), vale a dire la legge regionale n. 18/2010 “Interventi regionali per
la vita indipendente”.
La legge, la cui approvazione è
stata frutto del grande lavoro portato avanti
dall’associazione MO.VI. (Movimento per la
vita indipendente) onlus per il Molise e dal
suo presidente Domenico
Costantino, recepisce i principi ispiratori della Convenzione Onu, che all’art. 19, mi
piace ricordare, così recita:
“Gli Stati Parti alla presente
Convenzione riconoscono il
diritto di tutte le persone con
disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di
scelta delle altre persone, e
adottano misure efficaci ed
adeguate al fine di facilitare
il pieno godimento da parte delle persone
con disabilità di tale diritto e la loro piena
integrazione e partecipazione nella società,
anche assicurando che: (a) le persone con
disabilità abbiano la possibilità di scegliere,
su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; (b) le persone con
disabilità abbiano accesso ad una serie di
servizi a domicilio o residenziali e ad altri
servizi sociali di sostegno, compresa
l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi
e impedire che siano isolate o vittime di segregazione; (c) i servizi e le strutture sociali
destinate a tutta la popolazione siano messe
a disposizione, su base di uguaglianza con gli
altri, delle persone con disabilità e siano
adattate ai loro bisogni”.
Alla luce di questo principio cardine, la legge regionale 18/2010, salutata dagli
stessi promotori come una vera e propria
rivoluzione copernicana nell’offerta dei servizi per l’assistenza, per la prima volta strutturati dal basso ossia correlati ai bisogni concreti
del beneficiario, consentirebbe alla persona
vita indipendente?
Tina De Michele
con disabilità di costruirsi finalmente la propria vita indipendente scegliendo tempi e
modalità dell’assistenza, la persona
dell’assistente e le modalità di contrattazione
del rapporto, alleggerendo contemporaneamente gli oneri del caregiver familiare, ove
presente, ed evitando il ricorso all’ istituzionalizzazione della persona con disabilità.
Infatti, l’art. 1 della legge citata chiarisce che
tra gli scopi della norma vi è quello di realizzare a pieno il diritto alla vita indipendente
della persona, ove per vita
indipendente si intende il
diritto all’ autodeterminazione dell’individuo ed il controllo del proprio quotidiano
e del proprio futuro.
La legge consentirebbe al
beneficiario, vale a dire la
persona con disabilità fisica
e/o psichico-relazionale di
età compresa tra i 18 ed i 65
anni, di finanziare un progetto di vita indipendente finalizzato a migliorare la propria qualità della
vita, riducendone la dipendenza fisica ed
economica, nonché l'emarginazione
sociale, prevedendo tre diversi livelli di
intensità assistenziale, a seconda delle
necessità dell’individuo, fino alla copertura massima di € 18.000. In sostanza,
consentirebbe alla persona con disabilità
di vivere a pieno la propria libertà individuale, rimuovendo gli ostacoli che di
fatto ne impediscono l’esercizio.
Purtroppo non ho utilizzato a
caso il condizionale … La legge attualmente è priva di copertura finanziaria e la
regione Molise non è in grado di finanziare alcun progetto di vita indipendente.
In pratica la regione Molise ha regalato ai
cittadini una Ferrari e si è scordata di
consegnare le chiavi. Non ci sono soldi.
Chissà perché quando si parla di politiche sociali, si parla sempre di diritti sacrificabili, di situazioni che possono attendere, come se la libertà di un individuo
possa essere sottoposta a termine o a
condizione, ed a maggior ragione la
libertà di un cittadino per cui è più com-
plicato autodeterminarsi.
Fa ancora più rabbia pensare che
questo si svolga nel contesto di una regione
che per anni ha avuto una classe politica inadeguata, in cui molti dei passati e presenti
amministratori sono sotto processo per aver
sperperato quei soldi che adesso mancano per
finanziare la legge 18/2010. La regione che
per prima, grazie all’impulso di alcuni cittadini, è riuscita ad adottare una legge all’ avanguardia ed in linea con le moderne politiche
sociali e che oggi si limita a guardarla, senza
poterla applicare.
Questo è il Molise, oggi. Con i
suoi ospedali in bilico, un disavanzo pauroso, aziende che chiudono, le prospettive
sono tutt’altro che rosee, e non c’è un’idea
o una ricetta che la politica sappia offrire.
Dietro tutto questo ci sono i diritti e dietro i
diritti le persone. E se invece si ripartisse
dalle persone?
Questa legge, oggi inapplicata,
realizza diritti e crea lavoro. Sembra
poco?☺
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www.su-mi.org: Nanà
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pace e guerra
l’intifada
Maria Antonietta Crapsi
L’Intifada, letteralmente “scrollarsi
di dosso”, ha luogo nel periodo che va dal
1987 al 1991 e si caratterizza per la serie di
rivolte contro l’occupazione israeliana che si
propagano in tutti i territori occupati.
L’evento scatenante è rappresentato dalla
morte di quattro palestinesi del campo di
Jaballiyya in un incidente
d’auto provocato da un
israeliano a Gaza l’8 dicembre 1987. L’episodio
provoca una rivolta che
inizia nel campo di Jaballiyya col lancio di pietre
contro i soldati israeliani
ed ha immediatamente un
effetto domino in tutta la
Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Le donne e i bambini diventano sin da
subito parte attiva di queste rivolte e la loro attività
più conosciuta nel resto del mondo è il lancio
di pietre contro i soldati israeliani per il quale
a molti bambini palestinesi vengono letteralmente spezzate le braccia e le gambe.
Si possono individuare quattro fasi
dell’Intifada palestinese: una prima breve
fase in cui le donne e le ragazze di tutte le
classi e di tutte le età partecipano spontaneamente alle manifestazioni contro i soldati
israeliani; una seconda fase più organizzata in
cui diventa determinante il ruolo dei comitati
delle donne; una terza fase che ha inizio nel
settembre 1988 quando i comitati vengono
dichiarati illegali dall’amministrazione israeliana e si inizia a pensare di gettare le basi per
le future istituzioni statali e viene creato
12
l’Alto Consiglio delle Donne che adotta uno
spirito rivoluzionario; una quarta fase in cui
cresce l’insoddisfazione per l’attività dei
partiti e si cerca un approccio più efficace per
la risoluzione della questione palestinese e
essa viene individuata nei gruppi islamici
Hamas e Jihad Islamica.
Già dal dicembre 1987 i
volantini che circolano
nella Striscia di Gaza riconoscono il ruolo delle
donne nell’Intifada e invitano ulteriormente all’
azione. Le donne palestinesi rispondono: preparano cibo e vestiti per i prigionieri, scrivono slogan,
sventolano la bandiera
palestinese, donano sangue, violano il coprifuoco
per mettere in piedi un
sistema di educazione
parallelo, lanciano le pietre
ai soldati israeliani, trasportano le pietre per
gli uomini, costruiscono barricate, bruciano
automobili israeliane, organizzano manifestazioni contro l’utilizzo di lacrimogeni che
provoca la morte di molti bambini, mettono a
rischio la propria vita per difendere i figli dei
palestinesi. Il compito delle donne sembra
non essere più quello di allevare i figli ma
quello di seguirli in strada per proteggerli dai
soldati.
Nel tentativo di proteggere gli
uomini le donne palestinesi sfidano norme
sociali che mai fino a quel momento sono
state così ampiamente messe in discussione:
permettono a uomini che cercano un nascondiglio di entrare nelle proprie case, gli fanno il
bagno, gli permettono
di dormire nel proprio
letto e di indossare i
propri abiti. Si assiste a
un cambiamento del
concetto di onore: le
donne non devono
mostrare di voler proteggere a tutti i costi la
propria reputazione ma
di voler aiutare il popo-
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lo palestinese.
Le donne operano nei comitati in
diversi settori (agricoltura, medicina, educazione, fornitura di cibo) ma il maggior successo è rappresentato dalla creazione di una
home economy basata su cooperative che si
occupano del prodotto dalla nascita alla vendita, che permettono di avere un guadagno e
di boicottare i prodotti israeliani.
Tuttavia nelle ultime fasi si assiste
anche a un arretramento delle donne: il fallimento dei negoziati per la fine dell’ occupazione israeliana genera un senso di frustrazione tra le donne che le allontana dalla sfera
politica; la guerra del Golfo ha ripercussioni
economiche negative sulle condizioni economiche delle famiglie palestinesi (molti uomini lavoravano nei paesi del Golfo); cresce il
potere di Hamas e Jihad islamica.
Hamas e Jihad islamica hanno
acquistato potere grazie alla solida rete di
assistenza che hanno creato a partire dagli
anni ’70. Inoltre hanno ricevuto finanziamenti israeliani elargiti con l’obiettivo di fermare
l’espansione dell’OLP. La Jihad islamica
rifiuta la mobilitazione di massa in favore
della formazione di una organizzazione segreta impegnata nella lotta armata contro
Israele. Per Hamas la Palestina è un bene
sacro, inalienabile ed eterno per la cui liberazione si deve combattere anche con la violenza; la soluzione dei due stati e la Dichiarazione di Indipendenza di Arafat non sono valide.
Di queste visioni risentono soprattutto le
donne che devono coprirsi e ritirarsi nelle
loro case.
Ma perché dopo una crescita consistente di consapevolezza delle donne questi
princìpi hanno successo? Ciò è dovuto al
potere acquisito da Hamas grazie alla fornitura di servizi sociali, alla disillusione nei confronti dei partiti, alla proposta di una immagine di unità e di lotta che non espone le donne
al pericolo, alla debolezza del femminismo e
al timore di provocare rotture all’interno della
società palestinese.
Ma come si vedrà il pacifismo non
scompare. ☺
[email protected]
Le Olgettine pagate
1,8milioni di euro.
A saperlo prima,
noi ci siamo stati fatti fottere gratis
per vent’anni (www. spinoza. it)
società
La recente elezione del nuovo
presidente della repubblica nella persona di
Sergio Mattarella sembra aver rotto equilibri
politici basati su accordi piuttosto opachi.
Con la presa di distanza di Berlusconi sulla
scelta del nuovo capo dello Stato, una fase di
attività parlamentare, caratterizzata dall'impossibilità di cogliere i confini tra maggioranza e una parte dell'opposizione, potrebbe
essersi conclusa.
Le nuove intese, necessarie tra
schieramenti politici opposti che vogliano
contribuire alla riscrittura delle norme costituzionali ed elettorali, devono essere fatte auspicabilmente alla luce del sole. Si potrà tornare, a questo punto, ad una fisiologica dialettica tra paladini di programmi alternativi su
progetti sociali ed economici meno confusi e
inconcludenti.
Le parole pronunciate da Mattarella, in occasione del suo giuramento, hanno
avuto il merito di ricordare al parlamento e
agli italiani che il patto costituzionale, al cui
rispetto siamo tutti vincolati, ci obbliga a
rendere effettivi diritti come quello allo studio, al lavoro, alla salute e alla sicurezza, ma
anche doveri come quello di “concorrere,
con lealtà, alle spese della comunità nazionale". Su ciascuno di questi temi le forze politiche presenti in parlamento dovranno fare uno
sforzo aggiuntivo di elaborazione e di implementazione di strategie specifiche. La tecnica
delle ammucchiate unanimistiche, volte a
creare polveroni adatti ad impedire la distinzione delle responsabilità, va definitivamente
accantonata. Resta il fatto che per un lungo,
interminabile periodo la Costituzione è stata
oggetto di molti estemporanei tentativi di
modifica mentre gli obiettivi valoriali e civili
che essa ci indica, con incisività e chiarezza,
venivano semplicemente ignorati. Non è
neppure il caso di sottolineare la necessità e
l'urgenza di riformare alcune parti della Carta
costituzionale, a partire dall'Ordinamento
della Repubblica, ma non senza sottolineare
ricominciare dalla legalità
Giovanni Di Stasi
che tali riforme vanno fatte solo al fine di
rafforzare la qualità e l'efficacia della nostra
democrazia.
Il punto centrale delle riflessioni
sulla Costituzione restano gli orizzonti che
essa definisce ed è qui che torna utile citare
altre parole di Mattarella: "Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un
senso forte della legalità. La lotta alla mafia
e quella alla corruzione sono priorità assolute. La corruzione ha raggiunto un livello
inaccettabile. Divora risorse che potrebbero
essere destinate ai cittadini. Impedisce la
corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli
onesti e i capaci". Parole importanti, che sono
state riprese in parte e reinterpretate nel duro
attacco appena sferrato dal presidente della
Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, alla piaga
dell'illegalità. "Crisi economica e corruzione
procedono di pari passo, in un circolo vizioso
nel quale l'una è causa ed effetto dell'altra",
ha affermato Squitieri in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. E ancora:
"L'illegalità ha effetti devastanti sull'attività di
impresa e quindi sulla crisi economica".
Questo settennato presidenziale si apre, dun-
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que, con il proposito di garantire la Costituzione attraverso l'affermazione e la diffusione
di un senso forte della legalità e non c'è ombra di dubbio sul fatto che la riuscita di questa
impresa rappresenti la condizione imprescindibile per la ripresa culturale, civile ed
economica dell'Italia.
Nello scenario europeo l'Italia si
distingue per tre primati negativi, la corruzione, la malavita e l'infedeltà fiscale e noi non
possiamo evitare di valutarne la portata e
l'estrema pericolosità perché si tratta di tre
forme di illegalità che corrodono e svuotano
dall'interno il nostro paese. Il capo dello stato
ci ha detto che questi sono i peccati capitali
del belpaese e che farà la sua parte per combatterli, ma è chiaro che l'esito della battaglia
necessaria per sconfiggerli è interamente
nelle mani dei cittadini. Le classi dirigenti
hanno imparato da tempo a convivere con
questi mali e spesso hanno tratto vantaggi da
essi. Inutile, dunque, sperare in un loro cambio di rotta spontaneo e radicale.
Quello che serve è una condivisa
volontà di rinascita che solleciti un dibattito
approfondito, nelle varie istanze associative e
nelle assemblee elettive a tutti i livelli, e pretenda dai partiti la formulazione di specifiche
e articolate proposte mirate alla riduzione
progressiva ma drastica dei mali in questione.
E, tuttavia, sarebbe semplicistico
affidare la soluzione di problemi così gravi e
diffusi ai soli strumenti normativi e organizzativi. Serve quella nuova cultura della legalità indicata dal presidente Mattarella, alla cui
affermazione devono contribuire tutti i cittadini, insieme a tutte le agenzie formative e
informative presenti nel nostro paese.☺
[email protected]
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cultura
incubi e paure
Christiane Barckhausen-Canale
Per 72 anni della mia vita ho
avuto, dietro le spalle, una madre. Poteva
succedere qualsiasi cosa, anche bruttissima, sapevo che c’era lei e che potevo
trovare un aiuto, un appoggio, una soluzione. Quando, da bambina, cadevo e mi
facevo male, diciamo al ginocchio, lei si
occupava della ferita e mi consolava. Da
grande, davanti a qualsiasi problema, in
una conversazione non tanto fra madre e
figlia ma piuttosto fra donne, si trovava
una soluzione. Se per 72 anni vivi con
questa sicurezza, è quasi normale che
cadi in una forte depressione quando la
madre non c’è più. Il problema è che da
un giorno all’altro non sei più figlia, madre e nonna, sei di colpo la più vecchia
della famiglia, e la famiglia è convinta
che sei tu quella che troverà, davanti a
qualsiasi problema, la soluzione. Questa
è una responsabilità che devi affrontare
con le spalle scoperte, e questa prospettiva ti fa paura.
Fin qua l’elemento privato, intimo, che nutre la tua depressione. Amiche
e amici che hanno vissuto la stessa situazione e la stessa depressione ti dicono che
passerà, che arriverà il giorno che ricominci a vedere la vita a colori e non più in
bianco e nero. E ci sono momenti, in questi giorni, in cui lo credo veramente, perchè mi considero una persona ottimista
che vede il bicchiere mezzo pieno.
Mi dicono che per vincere la
depressione hai degli alleati forti. Per esempio la famiglia, gli amici. Per esempio
la natura, il cielo senza nuvole, le novità e
le notizie che ti arrivano dal mondo che
hai intorno a te. Hai un compagno, mi
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dicono, che ti sta vicino e ti aiuta in tutto,
hai un cane che dipende da te, che è la
personificazione della fiducia a oltranza,
che ti è fedele anche se, nella tua depressione, sei portata a sgridarlo più spesso del
solito, ed anche senza motivo.
Tutto questo è vero, ma come
puoi vincere la depressione se tua figlia è
lontano da te, in un paese africano nel
quale, un giorno, potrebbe arrivare la bandiera nera del Califfato? Come puoi vincere la depressione se sai che i tuoi nipoti
non hanno un futuro sicuro, un lavoro
fisso, un paese democratico e pacifico,
solidale con altri paesi e invece vivono in
un paese dove la cancelliera, la signora
Merkel, pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Syriza in Grecia, non si vergognava di chiedere a Tsipras di dichiarare
nulle le sue promesse fatte durante la campagna elettorale? È questa la democrazia
della Merkel?
Ma non è solo la democrazia alla
Merkel che ti deprime. Da giorni, settimane, tutto quello che ti arriva dal mondo che
hai intorno a te sono notizie che parlano
del ritorno della guerra fredda, di guerre
calde anche in Europa, di terrorismo, di
popoli che dicono e pensano “prima noi,
dopo gli altri”.
Tutto questo non ti lascia dormire di notte, e se riesci a dormire per una,
due ore, ti piovono addosso gli incubi. In
parte ciò è colpa tua, perche hai la brutta
abitudine di lasciare accesa la radio o la
TV, nella speranza di addormentarti con il
rumore delle parole. Ma il problema è che
le parole entrano nel tuo cervello anche
quando dormi. E ti tormentano, ti tormentano fino a svegliarti.
L’altra notte ho sognato un paesaggio bello, coperto di neve, con un sentiero sul quale c’erano tre cavalli con le
teste adornate da ghirlande e campanelle:
quasi quasi riesco a sentire il tintinnare
delle campanelle. E mi sveglio, di colpo,
con la parola TROIKA nella mente.
Troika si chiamavano, quando ero bambina, questi gruppi di tre cavalli che correvano sui sentieri della Russia che, in quel
tempo, era parte dell’Unione Sovietica.
Apro gli occhi, mi sveglio completamente
e mi accorgo che la TV sta parlando della
Troika che il popolo greco respinge perchè
gli ha imposto delle misure e delle riforme
la
la
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2015
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fonte febbraio
gennaio
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marzo
2005
2005
che sono il prezzo che il popolo deve pagare per avere un aiuto dell’Europa. Invece di cercare di addormentarmi nuovamente, comincio a pensare come sia possibile che una parola possa cambiare il suo
senso. Ma subito ricordo che la parola
Troika già aveva cambiato senso in
un’epoca nella quale non ero ancora nata.
Troika si chiamavano negli anni ‘30,
nell’Unione Sovietica, i tribunali composti
da tre persone che in pochi minuti pronunciavano le condanne a morte per i
“traditori della patria”, arrestati senza motivo con accuse assurde, solo perché non
la pensavano esattamente come Stalin.
Adesso sono completamente sveglia e so
che non mi potrò addormentare nuovamente. Comincio a chiedermi in quale
momento della storia del socialismo questo ideale di un mondo di uguaglianza e di
giustizia ha perso il suo senso, e mi chiedo
come ha reagito la gente di fronte a questi
fenomeni di totalitarismo. Mi chiedo fino
a quale punto i popoli sono capaci di resistere in una società ingiusta e dove comincia la responsabilità individuale, personale, di ognuno di noi, nei momenti quando
la democrazia è in pericolo.
E voilà, dicono i francesi, eccoci,
dicono gli italiani. Eccomi nuovamente
davanti a me stessa, davanti alla mia propria responsabilità di quello che è successo, per esempio, nel paese dove sono cresciuta e dove ho vissuto fino alla sua sparizione. Quante volte ho taciuto davanti a
cose che sapevo che non dovevano succedere in un paese socialista? Quante volte
ho chiuso gli occhi davanti a fatti che andavano contro quel sogno di una società di
uguaglianza e di giustizia?
In questa madrugada ancora
buia, ho paura. Ho paura di essere nuovamente codarda, di non aprire la bocca e gli
occhi, di non uscire da questa depressione
ma di utilizzarla come scusa per non parlare, per non vedere. Anche in questo paese
che non è il mio ma che è diventato per
me quasi una seconda patria, e dove succedono tante cose che mi preoccupano.
Come ancora mi preoccupa tutto quello
che succede intorno a me, nel mondo così
fragile e minacciato, esposto ai pericoli
che nascono sul terreno fertile dell’ indifferenza, dell’egoismo, della codardia e
della stupidaggine di tutti noi che dimentichiamo ogni tanto che abbiamo solo questo mondo.
È arrivato il nuovo giorno. So
che lo devo affrontare, e non so ancora
come posso riuscirci.☺
[email protected]
il calabrone
Quando ero piccola, avevo un
libro di fiabe scandinave figurato e spesso
Amalia (mia madre) me ne leggeva una
abitata da un troll (orribile mostro) che gettava, per farla rotolare, una delle sue tante
teste con gli occhi di fuoco; mentre io inorridivo e strizzavo gli occhi per la paura, Amalia veniva presa da riso irrefrenabile e ridendo diceva: quando la testa caracolla, quando la testa caracolla! Continuava a ridere
nascondendo metà del viso fra spalla e braccio, sulla poltrona a fiori. Ho creduto più
tardi che Amalia vedesse se stessa quando la
“sua” testa andava via, libera, per il mondo
che non era la stanza piena di compiti degli
alunni, sparsi ovunque sul tavolo, da correggere, di libri da compulsare mentre noi quattro “caracollavamo” per casa. La neve scendeva abbondantissima, rendeva la casa un
galeone pirata con ghiaccioli lunghi a barriera che venivano levati prima di andare a
letto o il giorno dopo. Con il ghiaccio ci si
faceva la granita con il succo e le amarene:
sangue del nemico, vedevo gocciolare nella
brocca, nel bicchiere. Come si sarebbe potuti uscire vittoriosi da lì?
In questo mese, febbraio 2015,
due o tre giorni di nevicata hanno sterminato l’Appennino emiliano, neve “troppo bagnata” e tutto è venuto giù, bollettini di
guerra e stati d’animo da era glaciale.
“Famiglie al freddo anche per oltre cinque e
sei giorni, con casi che raggiungono ormai
gli otto; mancanza di acqua, rete telefonica
fissa generalmente interrotta, telefonia mobile guasta quasi ovunque e trasporto ferroviario sospeso”. A oltre una settimana dalla
nevicata del 5, 6 e 7 febbraio, l’Unione dei
Comuni dell’Appennino bolognese fa il
punto della situazione, e il quadro non è
davvero dei migliori” (Il resto del carlino).
Dopo il primo momento di romanticismo tutti sono caduti nell’oscura
paura di non potere tornare più al cell, a FB,
al caldo, al centro della casa, al proprio regno, solo luogo dell’essere. E loro? Loro?
Abbracciati come i due coniugi agli scavi di
Pompei, sotto le nostre acque, sì proprio
quelle dove d’estate andiamo a nuotare con
pinne veloci e sicure e ci abbronziamo ad un
sole che ci scaldi per l’inverno, loro che
sono morti per il freddo cosa hanno sentito?
A cosa erano destinati e perché, perché?
Freddo e Gelo:caracolla la testa
caracolla!
“Dicono: il soccorso in mare non
freddo e gelo
Loredana Alberti
è la soluzione. Infatti. La soluzione di che
cosa? Del fenomeno della migrazione, della
fuga da paesi in guerra civile, da persecuzioni religiose e civili, dalla fame? Bisognerebbe essere pazzi per crederlo. Il soccorso in
mare è il soccorso in mare, ed è la soluzione
di emergenza per chi sta per annegare o
crepare di freddo. È strana questa storia
della soluzione. Immaginate che sul Pronto
Soccorso dei nostri ospedali sia inalberato
un grosso avviso che dica: Non è la soluzio-
“le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre”( Carlo Levi)
ne! Non è la soluzione ai problemi della
salute pubblica in Italia. Dunque aboliamo il
Pronto Soccorso. Oppure teniamolo per un
po', (Adriano Sofri - La Repubblica, tre
giorni fa).
“Giorni freddi e stupidi da
ricordare/Maledette notti perse a non dormire altre a far l’amore” Sanremo 2015,
canzone vincitrice (Il volo).
La cosiddetta operazione Triton,
inadeguata, uno scaricabarile per non sporcarsi non l’anima ma il portafoglio? Entro
30 miglia? Matteo Renzi reagisce a una
tragedia annunciata e dunque più dolorosa
ricordando che la gente annegava anche con
Mare Nostrum, e avvertendo che il problema è la Libia. “Ha dato l'impressione di
anteporre la denuncia della speculazione
sui morti ai morti, e di difendere l'indifendibile” (Sofri).
“Sto qui in mezzo a quella gente,/
Che non molla mai sto qui, sto qui, sto qui...
sai. Ma io se solo io fossi Dio avrei/Un
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gennaio
marzo
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sentimento anche io/Come gli altri uomini o
santi ingannati dai tanti/Sogni infranti/Sì se
io se solo io fossi Dio tornerei” Sanremo
2015 (Grignani).
Durante la prigionia furono torturati: un giovane ha raccontato di essere stato
appeso a testa in giù e picchiato sulla punte
dei piedi, altri di essere stati frustati con fili
elettrici dopo essere stati bagnati d'acqua
(racconti di naufraghi - Ansa di questi giorni).
“C’è sempre una strada sai/
Davanti a noi/Attraversando spirali di un
mondo in disordine/Puoi inventarne un’altra
se vuoi/Finché vedrò le api che si posano sui
fiori/Mentre le nuvole disegnano il cielo/
Ovunque andrai io ci sarò perché/Perché è
di me che hai bisogno/Ed io ho bisogno di
te” Sanremo 2015 (Raf )
Freddo e Gelo: caracolla la testa
caracolla!
“Ci hanno chiuse in una casa deserta con altre due ragazze. Lei si è tagliata le
vene. L’hanno portata in ospedale, c’è stata 5
giorni. Poi ci hanno portate in un altro edificio, 6 ragazze. Ci hanno picchiate per 10
giorni… Ho tentato di uccidermi 7 volte…
C’era una ventina di caravan, due per noi
ragazze … uno scontro fra l’Is e gente tribale,
e siamo scappate, in sei. Ci siamo nascoste in
un villaggio abbandonato per tre giorni, poi
da una famiglia siriana, per altri tre, finché è
venuta un’auto a prenderci. Avevano chiesto
40 mila dollari, poi ci hanno date per 30. Una
era con me, Jilan, aveva tredici anni, si è
suicidata dopo che l’avevano toccata sulla
testa: hanno buttato via il corpo, come spazzatura. Come si è uccisa? È andata in bagno,
si è tagliata i polsi e la gola con il coperchio
del suo beauty-case. Il sangue scorreva sotto
la porta” (racconto di ragazze violate in kuridstan da Is).
“Con il vento sei andata/Via da te/
Via da qui/Via dalla notte infinita/Ed una
mattina sei uscita/Non sei più tornata/Sei
stata di parola/Non ti sei fermata/Con il vento sei volata via da quel che non è giusto”
Sanremo 2015 (Irene Grandi).
Freddo e Gelo: caracolla la testa
caracolla!☺
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arte
amalia dupré
Gaetano Jacobucci
Maria Luisa Amalia, figlia dello
scultore Giovanni e di Maria Mecocci, nacque a Firenze il 26 novembre 1842. Fu educata al disegno e al modellato dal padre e ben
presto cominciò a seguire i suoi lavori, aiutandolo con crescente cura e dedizione; tuttavia fu anche autrice di opere in proprio, sebbene quasi sempre sotto l'assistenza paterna.
La sua prima opera importante fu
il “Giotto fanciullo”, il cui modello in gesso
(Fiesole, villa Dupré) fu terminato nel 1862,
mentre il marmo venne compiuto qualche
anno più tardi e presentato con discreto successo all'Esposizione universale del 1867 a
Parigi, accanto alle opere del padre (cfr. La
Nazione, 18 luglio 1867); la critica commentò favorevolmente la gentile naturalezza, di
impronta patema, di quell'opera, che venne
poi replicata nel 1890 in una versione
anch'essa a Fiesole nella villa Dupré.
Nel 1867 eseguì un bassorilievo
funebre per la tomba Ravaschieri nel cimitero
di Napoli, che fu commentato da una poesia
di A. Maffei (Dupré, 1885, p. 231). Nel 1869
modellò in gesso un “San Pietro in catene” (Montecatini, Museo dell'Accademia;
cfr. La Nazione, 8 dic. 1869). Tre anni dopo
eseguì il monumento funebre per la sorella
minore Luisina (morta quell'anno) nella cappella di famiglia del cimitero di Fiesole, com-
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posto da un sarcofago con sopra l'immagine
distesa della defunta; e l'anno seguente eseguì
un bassorilievo, con una Suora di Carità che
guida i giovanetti dell'asilo, per la tomba di
Francesco Aliotti nel cimitero di Arezzo.
Anteriori al 1879 (perché citate
nei Ricordi del padre, pp. 346
-349) sono le seguenti opere:
una “Matelda” in
gesso;
il monumento funebre ad
Adele Stracchi; un “San Giovanni e un angelo” in marmo
per la cappella di una villa
della marchesa Pieri Nerli di
Siena; un angioletto in gesso e
una “Madonna con Bambino” in marmo per la badia
fiorentina; una piccola pila per
l'acqua
santa
con Santa Edvige per la contessa Talon di Parigi;
la Lunetta per lo studio Dupré in Borgo Pinti;
una copia ridotta in bronzo della “Pietà” di G.
Dupré; una “Santa Caterina” in terracotta per
la cappella del Pio Ricovero delle orfanelle a
Siena; le virtù teologali in marmo per Raffaello Agostini di Firenze; una “Addolorata” in
terracotta per la chiesa di S. Emidio ad Agnone.
Il lavoro più impegnativo di questo
periodo è costituito
dalle opere per il duomo di San Miniato,
per il quale eseguì
bassorilievi allegorici
per le tombe di quattro
personaggi:
la Religione per quella
del vescovo Poggi,
la Storia per Bernardo
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Buonaparte, la Fisica per il professor Taddei,
la Poesia per il poeta P. Bagnoli. Per la medesima chiesa, inoltre, eseguì anche gli otto Santi che ornano il pulpito.
Fra il 1879 e il 1882 la Dupré eseguì un “Angelo della pace”, che fu fuso in
bronzo per il tempietto della villa Camerini a
Piazzola sul Brenta (1879); il monumento
funebre a Elena Mantellini nel fiorentino
cimitero delle Porte Sante (1881);
un “San Giuseppe col Bambino” per il ricovero delle orfanelle di Siena (1881);
un “Cristo morto” in terracotta
policroma, ripreso da quello
della “Pietà” paterna, per la
chiesa di S. Emidio ad Agnone.
Dopo la morte del padre, oltre
a terminare alcuni suoi lavori
lasciati incompiuti, la Dupré
esegui una “Santa Chiara” in
marmo per la chiesa di San
Ruffino
ad
Assisi;
la “Santa Reparata” per la
seconda nicchia del portale
mediano del duomo di Firenze; un busto di Dante per la Casa di Dante a
Firenze; tre Santi per la chiesa di Santa Margherita a Cortona, due statue della Madonna
della Difesa in Casacalenda e altre opere
ancora. Ma soprattutto si occupò di curare la
memoria e la fama del padre, trasformando in
museo lo studio Dupré in via degli Artisti e
dedicandogli un piccolo monumento con la
rappresentazione in bassorilievo degli episodi
salienti della sua vita (Fiesole, villa Dupré).
Scolpì anche un buon numero di ritratti.
Mancano notizie sulla sua attività tarda, che
comunque non fu particolarmente intensa.
Morì a Firenze il 23 maggio 1928;
suoi modelli in gesso sono conservati presso i
suoi discendenti fiorentini e presso gli eredi
Ciardi Dupré nella villa Dupré a Fiesole.☺
[email protected]
mondoscuola
valutare gli insegnanti?
Gabriella de Lisio
Qualche decennio fa, l’Anp,
l’associazione nazionale dei presidi/dirigenti,
condusse un sondaggio direttamente nelle
scuole per tastare gli umori in merito alla
valutazione dei docenti, chiedendo se i professori fossero d’accordo su una differenziazione di stipendio legata al merito, nella considerazione (banale ma concreta) che a scuola
il buon senso comune e l’esperienza di tanti,
rilevano la presenza di insegnanti fortemente
impegnati e ligi al loro dovere di educatori e
di professionisti seri, in evidente contrasto
con colleghi meno… motivati.
L’autoaggiornamento, l’implementazione della didattica, l’uso dei nuovi strumenti, il rapporto con la classe e la gestione
dei conflitti, la valutazione, le eventuali pubblicazioni, sono molti i parametri che possono fare la differenza. Ma si parlò pure,
all’epoca, di un riconoscimento anche per i
docenti oberati in misura maggiore di altri
dalle canoniche incombenze pomeridiane,
come la correzione, la formulazione e il giudizio dei compiti scritti. La funzione docente
è uguale per tutti ma, qualcuno a suo tempo
disse, il tempo a disposizione per il proprio
tempo libero, la propria famiglia o i propri
interessi, è diseguale.
All’epoca, dunque, una buona
parte dei docenti si dichiarò d’accordo sulla
valutazione, che anche l’ex ministra Gelmini
volle sperimentare, ma con meccanismi così
capziosi, oscuri e bizantini che nessuna scuola si sentì in grado di accettare in prima battuta. Il tentativo fallì.
E allora? E allora, un recente sondaggio, condotto dalla redazione de La Tecnica della Scuola (un quotidiano online), che
ha coinvolto oltre 1500 lettori, ha confermato
la volontà dei nostri insegnanti di essere valutati: il 59% è infatti d’accordo contro un 41%
che non vuole sentirne parlare.
Nel dettaglio abbiamo una maggioranza, pari al 20,3%, favorevole ad essere
valutata da un pool di figure scolastiche,
come gli ispettori, un organo esterno, gli
studenti e persino il dirigente; un abbondante
10% (10,6%) dai soli ispettori scolastici o da
un organismo esterno, a pari percentuale,
forse perché costoro sono meno soggetti a
interferenze e, provenendo appunto da istituzioni slegate dalla particolare realtà di quella
scuola, possono dare giudizi oggettivi.
Colpisce poi, ed è persino difficile
da credere, che un 8% dei lettori non disdegna il giudizio degli studenti (che sarebbero, a
parere di chi scrive, i primi a dover essere
coinvolti, anche se in forme e modalità accuratamente selezionate e ponderate), nella
convinzione che i ragazzi, con ogni probabilità, sono ritenuti i giudici più attendibili.
Pochissimi i professori che hanno
fiducia nei giudizi del proprio dirigente, appena il 5,3%. Poco da aggiungere a questo dato.
Quasi irrilevante infine, meno del
4%, la percentuale di coloro che pensano in
via esclusiva ad un comitato interno alla
scuola, in grado di valutare oggettivamente il
lavoro dei propri colleghi.
Cosa uscirà dal cilindro del grande
prestigiatore? Si è lanciato su un terreno
Gli anziani amano
raccontarsi e raccontare si sa,
ma le memorie personali,
familiari o collettive, affidate
a una comunicazione prevalentemente orale, sono labili
narrazioni destinate fatalmente a scomparire.
Proprio per difendere dall’oblio persone, fatti,
accadimenti, il prof. Luigi
Pizzuto ha raccolto in un
libro-documento, eventi legati alla seconda guerra mondiale e in particolare all’occupazione tedesca, che hanno avuto come scenario Colletorto, suo villaggio dell’anima e come
protagonista la gente del suo popolo.
Il titolo Scoppio di mine si riferisce ad episodi avvenuti in paese che hanno
coinvolto, a distanza di poche ore, un ragazzo e un uomo che si recavano in campagna, entrambi ridotti a brandelli da bombe lasciate dai tedeschi durante la ritirata.
Eroi per caso questi, di cui non si parla e
non si scrive nei libri; persone semplici
che avrebbero preferito continuare a lavorare i campi piuttosto che lasciare il loro
nome alla storia, fosse pure la piccola
storia locale, ma che meritano un ricordo
per avere dato, con il loro inconsapevole
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gennaio
marzo
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estremamente scivoloso, la valutazione dei
docenti. Ci rimetterà la noce del collo… o ce
la rimetteremo noi? Una nota a margine. Nel
momento in cui il giornale viene dato alle
stampe, è recente la puntata della trasmissione Presa Diretta dedicata alle condizioni
della scuola pubblica. Chi l’ha seguita, avrà
toccato con mano ciò che significhi oggi
l’irrisorio contributo che lo Stato elargisce,
ormai da anni, nelle casse dell’istruzione. In
alcuni istituti superiori del Nord Italia, e non
solo, i laboratori di informatica (per dirne solo
una) “campano” solo grazie alla generosità e
ai sacrifici delle famiglie. E laddove le famiglie non ce la fanno? Dobbiamo arrenderci
all’idea di scuole (pubbliche, dico pubbliche)
di serie B o C? E, alla luce di tutto questo,
non è scandaloso un grande prestigiatore che,
nell’opuscolo La Buona Scuola, sdogana
senza pudore l’intervento dei finanziamenti
privati nella scuola perché tanto lo Stato “non
ce la farà mai a coprire tutto il fabbisogno”?
Una domanda. Ma questa scuola,
la nostra scuola, che dovrà essere valutata da
chi la sta affossando, dove sta andando? ☺
[email protected]
sacrificio, un tributo di sangue nell’ultimo conflitto
mondiale. Ricordo che vuole
essere un monito per le nuove
generazioni affinché il passato non sia il futuro, ma sia
piuttosto occasione di crescita
e di garanzia per tempi migliori.
L’autore utilizza nel libro
stralci di testimonianze, brani
di ricordi che hanno valenza
collettiva e foto d’epoca messe gentilmente a disposizione
dalle famiglie e ripropone i valori di un
piccolo mondo antico che ci appartiene,
colti nella ricerca dei tanti fatti del passato
tra Colletorto, S. Croce, San Giuliano.
Usa, nella stesura del testo, codici espressivi diversi: socio-storico, drammaturgico,
iconico, in un gioco di rimandi e di integrazioni che danno un quadro armonico e
completo dell’argomento trattato. Il linguaggio è limpido, scorrevole, di facile
comprensione, privo di retorica, adatto
all’opera che ha scopo civile più che letterario; il tipo e la dimensione del carattere
rendono la scrittura chiara, riposante e la
lettura piacevole; la composizione grafica
della copertina evoca memoria e pathos.
Carolina Mastrangelo
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popoli e culture
casa dell’uno
Giovanni Anziani
Ogni qualvolta cerco di ascoltare
notizie che vengono diffuse attraverso i mezzi di comunicazione (dalla stampa ai telegiornali) mi sento sconvolto e angosciato. Mi
accorgo che la speranza di un nuovo mondo
sta per morire e che la fede nelle promesse di
Dio: Ecco, io faccio nuove tutte le cose
(Apocalisse 21,5), si fa debole.
Io vorrei che fossero diffuse notizie
positive. Notizie per il tempo della raccolta di
frutti buoni per poter avere fiducia nel nostro
operare domani. Notizie non più di violenza
o di morte. Vorrei ricevere la notizia che ai
poveri è fatta finalmente giustizia perché non
sono degli sfortunati, ma vittime della violenza umana. Vorrei soprattutto accogliere con
gioia la notizia dell’impegno dei credenti, dei
religiosi non più rinchiusi nelle proprie particolarità e dogmatismi, ma operanti nell’ amore.
Vorrei … e invece. Dove oggi
raccogliere segni di amore? Dove è seminata
la giustizia per costruire la pace? Dove accadono eventi che conducono alla riconciliazione tra le persone e i popoli in conflitto? Nulla
accade che possa infondere fiducia nell’opera
umana e nulla che possa produrre speranza
per il futuro! Eppure qualcosa accade. Qualcosa che pochi raccolgono e che pochi diffondono. Qualcosa che è veramente una
“buona notizia”!
Nel bollettino della Chiesa valdese
di Milano (L’araldo) ho trovato questa incredibile notizia. Scrive la pastora Dorothee
Mack: “ … A Berlino si è deciso di avviare
un progetto, chiamato “House of one” “Casa dell’Uno”, che ospita, all’interno
delle sue mura, una sinagoga, una moschea
ed una chiesa! L’idea è stata lanciata dalla
chiesa protestante della capitale tedesca. Si
aveva a disposizione una piazza che negli
ultimi 800 anni aveva ospitato 5 chiese diverse, dalla più antica della città ad una fatta
esplodere dal regime della DDR nel 1964.
Proprio in quel luogo, ora, si vuole costruire
un edificio che prevede 4 spazi diversi che
tengano conto delle diverse esigenze di cristiani, musulmani ed ebrei. Per gli ebrei,
infatti, è previsto un terrazzo sul tetto dove
costruire la capanna per la festa, appunto,
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delle capanne. I musulmani hanno bisogno
di una sala rettangolare per accogliere più
persone possibili per la preghiera fatta spalla
a spalla. E il quarto spazio, previsto in mezzo
ai tre locali dedicati alla preghiera, a che
cosa servirà? Verrà chiamato “luogo di
insegnamento” ed è pensato per gli incontri
di discussione e di approfondimento tra le tre
comunità per conoscersi sempre meglio.
L’idea è partita da un pastore
protestante. Il coinvolgimento di un rabbino
liberale nel progetto non è stato difficile. Più
faticosa si è presentata la ricerca di un imam
disponibile a partecipare. Infine si è trovato,
come partner islamico, il Forum per il dialogo interculturale che ha creato una rete di
scuole e di università in tutto il mondo e che
promuove, appunto, il dialogo tra le religioni
e la riconciliazione tra la religione e la modernità. Il progetto è stato presentato durante
l’estate del 2014. L’edificio dovrà essere
finanziato da offerte raccolte in tutto il mondo. Non si vogliono creare dipendenze da
singole comunità religiose …”.
Ecco l’esempio positivo che ho
voluto raccontarvi per tenere viva la speranza
che un altro mondo è possibile. Forse è poca
cosa, forse domani vi sarà sempre la violenza
in nome del proprio Dio. Forse … ma al
momento io mi sento ricolmo di speranza e
vorrei che tante altre persone potessero raccontare eventi positivi. Che accade di buono
nelle vostre case? Cosa è stato del vostro
lavoro e del vostro impegno nelle comunità
di fede? Chi ha risposto all’appello della
solidarietà? Come si è potuto superare difficoltà generate dai conflitti?
Vorrei leggere veramente tante
belle notizie per seminare speranza!☺
[email protected]
(Per chi vuole leggere di più sul progetto di
Berlino: www.hwww.house-ofone.org )
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2005
il nome del padre
Il sottotitolo di questa storia vera
potrebbe essere: “Come la semplicità spiega molte cose”, ma non sono Voltaire,
lasciamo stare.
Una bambina italiana con madre
cattolica e padre musulmano aveva da
tempo assimilato l’idea che i genitori avessero gesti e parole diversi per ringraziare
Dio del cibo servito sulla tavola. Aveva
anche imparato a fare il segno della croce e
delle tre persone quella che ricordava meglio, ovviamente, era la prima: il Padre.
A poco più di tre anni non poteva
sapere che proprio il Padre era il legame
fra le tre religioni monoteiste; che la parola
Allah è la traduzione araba per dire Dio,
quello che in aramaico aveva lo stesso
suono dell’invocazione innalzata dall’alto
della croce: Elì o Eloì, come troviamo nei
vangeli di Matteo e Marco. Entrambi questi racconti della morte di Cristo sottolineano la difficoltà dei presenti a comprendere
il senso vero di quelle parole, le ultime,
non solo per la limitatezza umana difronte
ad un così grande mistero, ma anche per
banali questioni linguistiche. A Gerusalemme, infatti, non si parlava l’aramaico, il
dialetto della Galilea che aveva tradito
anche i discepoli nella difficile notte che
precede la crocifissione.
Quando vide la prima volta la zia
che si era cambiata d’abito per raccogliersi
in preghiera, con il velo in testa, ebbe un
attimo di timore, ma la curiosità fu più
forte della paura e piano piano attraversò
tutto il corridoio per arrivare nella stanza
dove la donna era in ginocchio a mormorare le sue orazioni. Dalla porta sbirciava
per capire se era l’ennesimo scherzo della
parente giocherellona, tanto che le si avvicinò per toccarla e farle il solletico; ben
presto capì che si trattava di una cosa seria
e volle rimanere a guardare nonostante i
ripetuti inviti da parte della madre a
lasciare tranquilla la zia durante la
preghiera. Imparò in fretta il gesto di
muovere il dito su e giù per tenere il
conto delle preghiere, con la leggerezza tipica dei bambini, come se
fosse un gioco, un rituale scherzoso.
Il giorno successivo era ormai
popoli e culture
primo marzo
sparita la paura, ma la zia velata aveva un
aspetto decisamente più austero e non se la
sentiva di giocare con lei. Una cosa era
certa: in determinate ore del giorno il cambiamento d’abito segnava l’inizio di un
rito, sempre uguale nei tempi e nei gesti,
che sembrava cambiare anche l’ atteggiamento della donna.
Un giorno, all’ora di pranzo,
venne chiesto alla bambina di andare a
vedere dov’era la zia per dirle che era
pronto. Lei andò dritta nella camera dove
la trovò di nuovo con l’abito lungo e scuro
e silenziosa nel suo raccoglimento. Appena tornata, da sola, le chiesero: “Che sta
facendo zia?”. Disinvolta e convinta rispose: “Sta facendo il nome del Padre!” e, nel
dirlo, si portò una mano alla fronte. A tutti,
cristiani e musulmani, apparve un sorriso
sulle labbra pensando: “Senti che sciocchezze che dicono i bambini”. L’unica
seria era lei, la piccola, che in semplicità
d’animo aveva capito che i figli trovano
ascolto presso il Padre perché li ama tutti,
incondizionatamente.
Una mamma
ore 18,30 auditorium ex gil
via Milano - Campobasso,
proiezione del film
con la partecipazione dell’attrice
protagonista Tasneem Fared
Dal 2010 la giornata del Primo
Marzo rappresenta un momento di riflessione
e impegno contro le discriminazioni e lo
sfruttamento nei confronti dei migranti. Esil’abrogazione del Regolamento di Dublino;
stono dei diritti, che valgono per tutti gli essela chiusura dei CIE e una riformulazione
ri umani, che non possono essere differenziati
dell’intero sistema di accoglienza che garantio negati sulla base di confini territoriali o di
sca il rispetto dei diritti dei richiedenti asilo ed
appartenenze etniche, culturali e religiose. La
eviti che l’attuazione dei piani di accoglienza
difesa e la tutela di questi diritti è premessa
si trasformi in un business. È necessario che
fondamentale nella costruzione di una società
la politica tenga conto delle trasformazioni in
capace di riconoscere la dignità e
atto nella nostra società sia in termini demol’autodeterminazione delle persone e il valore
grafici sia economici, e che riconoscano il
del dialogo come
valore rappresentato
manifestiamo con gli immigrati
elemento fondante
dalla straordinaria
il 1° marzo alle ore 11,30
dell’evoluzione cultumobilità umana che
piazza municipio a Campobasso
rale, civile ed econosta caratterizzando la
mica.
nostra epoca. È per
La crisi degli ultimi anni, invece di
questo che auspichiamo anche una legge che
spingere le istituzioni a ripensare le politiche
riconosca la cittadinanza per tutti i figli di
e la legislazione in materia di immigrazione,
migranti nati e cresciuti nel nostro Paese.
nel senso di una maggiore inclusione e di
In dettaglio, le nostre richieste sono:
sostegno per i deboli, sembra avere indotto
1. Una revisione della legislazione in materia
immobilismo e ulteriori chiusure. Ciò ha
di immigrazione centrata sul rispetto della
contribuito ad accrescere diseguaglianze e
persona e sulla partecipazione;
disagio e, quindi, la distanza tra le diverse
2. Una legge sullo ius soli che riconosca il
culture e tra i lavoratori che pure contribuidiritto di cittadinanza alle seconde generazioscono, ogni giorno, alla tenuta della nostra
ni, la cui formulazione sia almeno in linea
economia e del nostro sistema previdenziale.
con gli altri paesi europei;
La ricattabilità cui rimangono esposti i lavo3. Il diritto di voto amministrativo per gli
ratori stranieri, a causa del legame tra permesstranieri residenti;
so di soggiorno e contratto di lavoro, come è
4. Tutela e garanzia dei diritti dei lavoratori
noto, favorisce lo sfruttamento, il caporalato,
stranieri e contrasto ad ogni forma di sfruttacon ricadute che riguardano anche i lavoratori
mento anche attraverso una più piena ed
non stranieri, costretti ad accettare un rilancio
efficacia ricezione della direttiva europea
al ribasso delle condizioni contrattuali. Ma
(52/2009);
non è restringendo il riconoscimento dei
5. Abolizione dei dispositivi di monitoraggio
diritti di cittadinanza e della persona che si
e di controllo del Mediterraneo privi di obietpromuove una convivenza civile e pacifica.
tivi umanitari (come Triton);
Mentre la paura spinge all’isolamento e mina
6. Instaurazione dei corridoi umanitari e revila coesione sociale, la garanzia dei diritti, il
sione della legge sull’asilo politico ispirata a
sostegno e la cura delle relazioni sociali costiprincipi di solidarietà ed accoglienza effettiva
tuiscono l’unico strumento attraverso cui
e di trasparenza di gestione;
realizzare una più soddisfacente qualità della
7. Chiusura dei CIE così come attualmente
vita per tutti.
concepiti e riformulazione in termini di luoA partire da queste considerazioni,
ghi di facilitazione del percorso di accoglienrichiamiamo ad una riflessione sulle politiche
za e indirizzo verso le destinazioni di possibidi accoglienza, chiedendo l’istituzione di
le inclusione dei profughi;
corridoi umanitari per consentire ai migranti
8. Impegno e diffusione per una informaziodi raggiungere l’Europa senza mettere a rene oggettiva e completa sui temi dell’ immipentaglio la vita e senza rivolgersi ai traffigrazione. ☺
[email protected]
canti di uomini. Chiediamo, inoltre,
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libera molise
il cittadino e l’usura
Franco Novelli
La nostra società, e non solo quella
occidentale, deve fare i conti con innumerevoli
problemi di natura economica e politica. Uno di
questi, motivo di grande preoccupazione sociale,
è il fenomeno dell’usura su cui Libera concentra
- da 20 anni - molte delle sue energie per contrastare tale forma di vergognoso sfruttamento delle
sofferenze (individuali e aziendali) e per contribuire a dare una soluzione dignitosa a quanti
sono vittime del’usura (pensiamo, tra l’altro, ad
una nuova legiferazione che vada al di là delle
indicazioni presenti nella legge n. 108 del 7
marzo 1996, buona vent’anni fa ed oggi da rimodulare sulla base di nuove esigenze).
L’usura è un fenomeno antico, diffuso oggi, più di ieri. Fino al recente passato
l’usura è stata considerata una pratica sicuramente immorale; dagli anni novanta del XX secolo
essa viene percepita come un vero e proprio
reato perseguibile sul piano penale e di qui
l’emanazione della legge 108/1966, i cui cardini
sono gli art.14 e 15. L’art. 14 prevede un “fondo
di solidarietà” per le vittime dell’usura e le somme erogate sono a interesse “O”; l’art. 15 contempla un fondo per la “prevenzione del fenomeno dell’usura”. Da più parti apprendiamo che
l’usura non esiste, ma non è così, perché essa
attraversa tutto il paese; anche se il numero delle
denunce è esiguo, tuttavia ciò non vuol significare che il fenomeno non si sia radicato nel tessuto
sociale nazionale. Infatti, ascoltiamo anche da
noi nel Molise e a Campobasso esperienze di
profonda sofferenza causata dall’usura e dalle
losche e inquietanti figure degli usurai.
Il silenzio delle vittime (di cittadini
caduti nella trappola patologica del gioco
d’azzardo o di imprenditori soffocati dalle pressioni di gruppi malavitosi) è spiegabile per il
timore di subire ulteriori pressioni (fisiche e
psicologiche), per la preoccupazione di vendette
e di conseguenza per il terrore di restare assolutamente sole e emarginate da tutti. L’usura colpisce piccoli imprenditori, commercianti e famiglie che l’attuale crisi economica (con l’ abnorme aumento del costo del danaro e del visibile
calo di vendita delle merci prodotte) rende più
vulnerabili, in quanto alla solitudine si accompagna anche l’affievolimento della speranza di
dare una soluzione reale a tale tipo di penosa
angoscia. Le famiglie vengono devastate dall’
usura, si smembrano i matrimoni, di conseguenza le inquietudini e gli affanni coinvolgono
anche i figli la cui tribolazione maggiore è vedere i genitori allontanarsi e divenire dei veri e
propri antagonisti, ostili gli uni agli altri.
20
L’usura è in rapida crescita, anche
per la diffusione smisurata del racket del pizzo
e dell’estorsione. Accanto allo “strozzino”
classico sono fiorite nuove forme, talora bene
occultate, di criminalità usuraia: prolificano,
infatti, gruppi organizzati, spesso anche circuiti
di veri e propri professionisti fino alla loro coniugazione con circoli mafiosi. Lo strozzinaggio usuraio, oggi, ha il volto di professionisti e
di finanzieri, che connotano questo tipo di usura
come quella dalla “faccia pulita”, quella dei
“colletti bianchi”. Fatti di cronaca ci informano
della operosa presenza di insospettabili soggetti,
quali commercialisti, imprenditori, notai, avvocati, bancari, funzionari ministeriali, direttamente coinvolti nelle pratiche dell’usura.
Proprio perché i margini e i confini
dell’usura si sono ampliati, possiamo parlare di
vera e propria usura di mafia; questo fenomeno
è in forte crescita e come obiettivo ha quello di
penetrare nell’economia legale. Le mafie, infatti, si prendono rigorosamente “cura” delle imprese, perché vogliono andare al di là della
semplice riscossione degli interessi del mero
credito elargito, puntando con prepotenza affaristica direttamente alla “garanzia”, all’
“accesso” cioè in compagini societarie di imprese sane e insospettabili. Pertanto, le mafie
sono interessate al controllo delle attività economiche pulite, attraverso l‘acquisizione o di
quote aziendali o di intere aziende, fortemente
preoccupate per la riduzione della produttività
commerciale, anche a causa di investimenti
finiti male, dell’urgenza di pagare i fornitori,
della difficoltà di ottemperare alle scadenze
fiscali.
Cosa bisogna fare per rendere più
efficace il contrasto a tale deriva sociale? È
quanto abbiamo affrontato nel corso della formazione antiracket e antiusura che la Camera di
Commercio di Campobasso e Libera hanno
tenuto nei mesi di novembre/dicembre 2014 e
gennaio 2015. Il corso di formazione per sportellisti antiracket e antiusura ha avuto luogo a
Campobasso nella sala “L. Falcione” della
Camera di Commercio e i relatori di Libera
(venuti dal Nazionale con don Marcello Cozzi
in primis e dalla regione Molise) hanno affrontato con chiara e competente professionalità
queste tematiche, allo scopo di formare quanti
lavorano nelle istituzioni come pure di spingere
cittadini responsabili (giovani, soprattutto) ad
affrontare tali tematiche nella convinzione di
dare un concreto contributo alle sofferenze di
quanti sono oppressi dal debito e dall’usura che
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ne deriva. Gli elementi che sono emersi in riferimento “a cosa fare per contrastare l’usura e
per dare un nuovo orientamento alle norme che
regolamentano il fenomeno dell’usura” sono
diversi e tutti di estrema rilevanza.
Innanzitutto, è necessario denunciare
il fenomeno dell’usura e chi lo fa deve sapere
che va incontro a rilevanti difficoltà: ma, nonostante ciò, deve farlo assolutamente, immaginando che c’è chi potrebbe ostacolare il suo cammino, ma anche chi potrebbe con estrema discrezione stargli al fianco e accompagnarlo nel suo
iter di denuncia. Poi è auspicabile la celerità dei
processi in un paese, come il nostro, che è abituato alle lungaggini dibattimentali; inoltre, è
essenziale garantire la sicurezza di quanti hanno
la forza di denunciare l’usura e l’usuraio; è anche augurabile ridurre i tempi dell’attuazione
della specifica richiesta di inserimento
nell’apposito programma di protezione; è ora,
infine, di assegnare alle vittime di usura, per
dare un concreto aiuto nel reintegrarli nel meccanismo produttivo, beni confiscati alle mafie.
Dobbiamo, infatti, come ben si capisce dal quesito che ci poniamo qual è il nostro
ruolo di fronte al problema dell’usura?, porre la
tematica dell’usura su un piano culturale e non
solo giudiziario: abbiamo il compito di ricostruire un sistema sociale che è esploso, un sistema
sociale che ha posto il profitto e il danaro al centro, emarginando letteralmente la persona. Se il
65% dei cittadini dice che lavorerebbe anche con
le mafie, allora vuol dire che il nostro cammino è
in salita e che, comunque, vale la pena fare questa scommessa di civiltà. L’obiettivo delle mafie
è quello di alterare le regole del mercato, rendendolo controllabile e assimilandolo alla definizione di società che esse sono solite dare.
La verità amara è che lo Stato è il vero
strozzino, perché ha legalizzato il gioco
d’azzardo. Altra verità spiacevole è quella che
rappresenta lo Stato come un Giano bifronte: da
un lato, lo Stato incentiva il gioco d’azzardo,
illudendo i cittadini e gabbandoli doppiamente;
da un altro, è costretto poi a prendersi cura dei
malati per il gioco d’azzardo. Di qui, comprendiamo bene che è opportuno coltivare strategie di
modificazione dei nostri atteggiamenti e sforzarsi
di condividere obiettivi politici e culturali che
valorizzino forme di “robustezza” civile, oggi
assolutamente necessaria per cambiare i rapporti
di forza fra la cultura di un rinnovato umanesimo
e l’incultura del profitto e dell’edonismo spinti
all’eccesso.
Erri De Luca nel suo libro La musica
provata, autunno 2014, ad un certo punto così
scrive: “Succede che i canti, più delle profezie, si
avverano. Dipende dal fatto che la voce del
profeta è solitaria, mentre l’altra è di una comunità in cammino”.☺
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società
notte d’inverno
Carolina Mastrangelo
Il fragore di un ramo spezzato
rompe il silenzio della notte e mi sveglia.
Nevica. A luci spente, corro alla finestra,
raschio con l’unghia i vetri arabescati dal
gelo e un mondo incantato mi si spalanca
davanti. Non è meditativa estasi di fronte
a un paesaggio d’eccezione, né riflessione
lirica; lo contemplo nella sua gratuita poeticità, con lo stupore rapito di un bambino,
chiudendo per un attimo i cupi pensieri in
granelli di luce.
I fiocchi bianchi intrecciano
danze inimitabili sulla collina; ondulano
profili, appendono merletti, si accovacciano sugli alberi, rizzano magici fondali su
cui sciamano i personaggi della graziosa e
saltellante fauna boschereccia: nani, elfi,
folletti e geni; osservano da buche muschiose, spiano da nodi di rami, sberleffano da tronchi scavati e si scatenano in un
sabba di dirompente gioia, mentre ninfe
vestite a festa ballano agitando le loro
sciarpe tessute di rugiada e chiaro di luna… Mi viene in mente un racconto in
cui Dino Buzzati ricorda gli inverni delle
favole.
In questa cornice di notturno
mistero anch’io, con timidi passi, percorro
i sentieri fatati conosciuti da bambina;
attraverso giardini stregati e foreste piene
di lupi, passo sotto alberi che parlano con
voce umana, batto alla porta di un castello
diruto dove il Re farà tagliare la testa al
menestrello che non riesce a far ridere la
principessa triste e nel buio mi perdo nel
bosco, ma… non scorgo il lumicino lontano lontano di una capanna o di una casetta, rifugio dove approdare e sciogliere le
mie consce ed inconsce paure.☺
[email protected]
inclusività e coerenza
Antonio De Lellis
Partiamo dal Chaos, ma siamo
diretti al kosmos. È l’impressione netta che
ho avuto partecipando alla prima riunione
del comitato transitorio de L’Altra Europa
per Tsipras svoltasi a Roma alla presenza
anche dei territori. A tutti ho espresso la
mia valutazione positiva di un incontro
fruttuoso e faticosissimo. È stata scritta una
pagina importante che ha tenuto conto di
tutti e delle opinioni di tutti. Forse si respira
eccessiva animosità da parte di alcuni, ma i
temi sono stati centrati e i territori ci sono.
La grande questione, ragionando in termini
politici, è nel rapporto tra inclusività e coerenza. Questo è un tema ampio che ci accompagnerà sempre e che andrà declinato
di volta in volta: due binari che non possono fare a meno l'uno dell'altro e che non
potranno che stare a stretto contatto. I fautori della coerenza non possono fare a meno dell'imprescindibile fondamento dell'inclusività. E quelli dell'inclusività non possono dimenticare il grande valore e il messaggio della coerenza. Le sfide sono alte e
dovremmo munirci di ali, liberandoci delle
zavorre interiori. Qui non è in gioco la
storia di un partito, ma la costruzione di
una biociviltà che consenta ai popoli di
riappropriarsi della democrazia.
Le grandi questioni a noi più
vicine, il rischio Libia, Ucraina, Grecia,
esprimono l’idea di “una guerra a pezzettini”. Dentro c’è anche l’Italia con la sua
importante manifestazione a sostegno della
Grecia. Tutti valutano positivamente la
manifestazione “Dalla parte giusta. È
cambiata la Grecia, cambiamo l’Europa”, in particolar modo per l’ampiezza
delle adesioni sociali e
politiche che si sono
registrate: dai centri
sociali, ai movimenti
per l’acqua e alla presenza di associazioni
come Attac. Il sostegno
alla lotta del popolo
greco e del governo
Tsipras contro l’ austerità in Grecia ed in Euro-
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pa è fondamentale. Il Comitato di transizione si impegna a continuare l’iniziativa a
sostegno della Grecia con il coinvolgimento del più ampio schieramento di forze
possibile. Le vicende che attraversano
l’Europa e l’Italia, lo stesso percorso di
costruzione della manifestazione, si intrecciano con la domanda del processo costituente della “casa comune”, della soggettività politica alternativa all’austerità, al neoliberismo e alle forze che lo sostengono, qui
ed ora. Il Comitato di transizione si impegna per questo a svolgere una serie di incontri - a partire dai soggetti con cui abbiamo costruito la manifestazione - per verificare la disponibilità a promuovere una
grande assemblea pubblica da tenersi
quanto prima, che possa essere un passo in
avanti nella costruzione della “casa comune” e che possa definire alcune campagne
su cui connotare immediate e comuni iniziative.
Vi chiederete: ma a quando
l’alba di un nuovo modo di partecipare
anche qui in Molise? Il tutto dipenderà da
come le relazioni, che sono prima di tutto
personali e poi collettive, supereranno
conflitti atavici e da quanto avanzerà la
destra populista e emarginante di Salvini.
Nessuno sembra rendersi conto del fatto
che rischiamo qualcosa di inimmaginabile
che sempre più si configura come una
guerra di civiltà o meglio una contrapposizione tra una civiltà di vita e una di guerra.☺
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società
neurodiversità
i giorni della memoria
Valeria Strada*
“Dislessia, Disortografia e Discalculia possono essere definite caratteristiche
dell’individuo fondate su una base neurobiologica; il termine caratteristica dovrebbe
essere utilizzato dal clinico e dall’insegnante
in ognuna delle possibili azioni (descrizione
del funzionamento nelle diverse aree e organizzazione del piano di Aiuti) che favoriscono
lo sviluppo delle potenzialità individuali e,
con esso, la Qualità della Vita. L’uso del
termine caratteristica può favorire nell’ individuo, nella sua famiglia e nella Comunità
una rappresentazione non stigmatizzante del
funzionamento delle persone con difficoltà di
apprendimento; il termine caratteristica
indirizza, inoltre, verso un approccio pedagogico che valorizza le differenze individuali”. Documento PARCC (2011)
Un tempo anch’io andavo a scuola
ed essendo DSA avevo le mie belle difficoltà.
La mia diagnosi in età tardiva mi ha tolto un
macigno dalle spalle ma non sempre è così.
Che percezione si può avere di Sé
dopo una diagnosi di DSA? E che idea ci si
può fare rispetto alla rappresentazione che ha
la società sui DSA? Che responsabilità noi
tecnici abbiamo nel vissuto della famiglia e
del bambino? E nel cambiamento culturale?
Le nostre diagnosi sono piene di numeri,
percentuali, deviazioni standard, dati sui
Quozienti Intellettivi, codici. Oltre a dare un
profilo funzionale, cosa dice al bambino?
Che cosa dice alla famiglia? Che cosa comunica al mondo?
In una ricerca condotta da Griffin
& Pollak nel 2009 (Dyslexia 15: 23-41) è
stato condotto uno studio qualitativo basato
sulle esperienze di 27 studenti con DSA. I
partecipanti hanno avuto una delle due seguenti concezioni sulla loro identità
“neurodifferente”: una concezione in cui la
neurodiversità viene vista come una differenza che comprende un insieme di forze e debolezze (caratteristica); una concezione
“deficitaria” in cui la neurodivesità è vista
come una condizione medica svantaggiosa
(disturbo). È stato riscontrato che la prima
concezione è associata ad una maggiore ambizione lavorativa nei soggetti, una maggiore
autostima ed una maggiore capacità di proiet-
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tarsi nel futuro.
Noi, con il documento diagnostico,
possiamo contribuire allo sviluppo di
un’identità positiva e a quel cambiamento culturale in cui i nostri bambini crescono. Il tecnico può parlare di un “disturbo” oppure di neuro
-varietà e di caratteristica, può specificare che
ognuno di noi è diverso dall’altro, che ognuno
di noi ha punti di forza e di debolezza. È questo cambiamento culturale la cornice etica in
cui noi tutti dobbiamo inserire il nostro lavoro.
Spesso assistiamo a numerosi convegni e formazioni per genitori e insegnanti ma poi, dopo
qualche giorno, ci accorgiamo che nulla è cambiato soprattutto nella mentalità delle persone
rispetto alla diversità. Il concetto di caratteristica porta dentro di sé la speranza che tutti gli
individui possono essere riconosciuti per i loro
talenti e vedersi abili e capaci, dove i doni sono
amplificati e le debolezze ridotte. Il nostro contributo deve avere due finalità: rendere il sistema consapevole delle parole e dei concetti
utilizzati e consentire ai ragazzi di costruire
un’idea di sé ragionevolmente accettabile.
Quindi un ragazzo con DSA vive
una condizione esistenziale che richiede un
aiuto per la realizzazione dei suoi diritti umani,
secondo quanto stabilito dalla convenzione
dell’ONU che afferma che lo sviluppo neurologico atipico è una normale differenza individuale che deve essere riconosciuta e rispettata
come ogni altra variazione umana. Ognuno di
noi parla, cammina, si relaziona, ama e impara
in modo diverso. La caratteristica dei dislessici
è una difficoltà marcata nei compiti di lettura e
a volte di scrittura e di calcolo; tuttavia l'obiettivo degli aiuti non può e non deve limitarsi a
favorire lo sviluppo di queste abilità ma favorire lo sviluppo dell'essere, del divenire e dell'appartenere. Le dislessie non sono cose ma persone e dovunque vi siano persone esiste multifattorialità, complessità, diversità.
Concludo con una frase del prof.
Ciro Ruggerini al quale mi sono ispirata per
questa nota: “Dammi una mano a svilupparmi
ma non pretendere di trasformarmi in qualcos’
altro”
*Psicologa, psicoterapeuta ha un centro privato
specialistico per DSA a Termoli (CB)☺
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Plumbei giorni del ricordo.
Il lager, un negativo sfocato
di caseggiati e campi innevati.
Si aggira nei pressi una moltitudine
di uomini, donne, bambini
usciti dalle fosse comuni,
ricomposti dalle ceneri
dei forni crematoi.
Hanno le vesti bianche dei tribolati.
Vanno lungo i binari
su cui stanziano vuoti
i vagoni dei deportati.
Guardano dietro il filo spinato
i capannoni dov’erano ingabbiati
e i camini da cui sfumava la vita.
Desolati segni del passato
il mucchio di scarpe e le valigie,
ricordi del ghetto
quando la vita scorreva proficua.
Prima che il mondo
si accanisse contro.
Così la bufera delle leggi ingiuste,
del pregiudizio e dell’odio
li aveva sradicati e scagliati
verso l’olocausto.
Ombre dolenti e silenti,
ogni anno tornano in questo luogo
e ripercorrono l’amaro calvario.
Poi in fila, al suono di violini
s’avviano nella valle del Riposo
dimora di una Pace
che mai non finisce.
Lina D’Incecco
terzo settore
Il significato incontrovertibile
della parola politica: il potere al popolo.
Dalla Carta dei Diritti dell’uomo
art. 20-21: “Ogni individuo ha diritto di
partecipare al governo del proprio paese,
sia direttamente, sia attraverso rappresentanti scelti liberamente…”
Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE art. 12, comma 2..! “I partiti politici contribuiscono a esprimere la volontà
politica dei cittadini”.
Dalla Costituzione Italiana art.1:
“La sovranità appartiene al popolo che la
esercita nelle forme e nei limiti espressi
dalla costituzione”; Art.49: “tutti i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”;
l’Art.118 riformato pone mano alla deriva
partitocratrica e alla crisi dei vecchi gruppi
iniziata negli anni 80 (M. Olivetti), introduce il concetto di sussidiarietà che restituisce
più ampi poteri alle istituzioni più vicine al
popolo: “Lo stato, le regioni, le province e i
comuni favoriscono l’autonoma iniziativa
dei cittadini per lo svolgimento di attività di
interesse generale....”.
L’UE stessa nel documento di
Laeken 2001 aveva dato grande rilievo e
volontà di rilancio alla politica come partecipazione dei cittadini invocando la costituzione del Forum dei cittadini: Empower del
dicembre 2006 a Bergamo.
L’attuale legge elettorale in Italia è
conforme a tali principi? E allora saranno
legittimi i risultati che scaturiranno dalla
prossima tornata elettorale? Si parla giorno
dopo giorno di rivedere il modello in corso.
Poi si rinvia l’impegno. Si rilancia la sfida
volta all’innovazione e si creano scene di
reciproco affronto tra schieramenti politici
che non riescono a concertare riforme e
leggi volte alla salvaguardia del principio di
democrazia segnatamente comunitaria. Chi
sta componendo le liste in occasione di
elezioni…?
Rappresentanza non coincide
sempre con Partecipazione. La delega non si
democrazia è partecipazione
Leo Leone
confà ai principi di diritto della persona che
è sempre al centro dei documenti citati, a
prescindere dal taglio politico di coloro che
hanno contribuito a stenderli. Norberto
Bobbio ebbe a dire: “… se il popolo può
trasmettere questo potere, temporaneamente ad altri, per es. ai suoi rappresentanti,
come accade nel sistema parlamentare, non
può rinunciarvi e alienarlo per sempre”. Si
tratta allora di un diritto/dovere irrinunciabile.
Oggi si registra una notevole accentuazione
del distacco tra cittadini e politica che, a ben
tradurlo, significa “eclissi” della politica in
quanto tale. Ma la cosa era partita già negli
anni ’80. Qualche anno addietro Ilvo Diamanti parlando dei partiti si permetteva di
etichettarli come “burocrati senza società”.
La democrazia partecipata crea
benessere sociale e promuove sviluppo, riduce lo sperpero delle risorse pubbliche, garantisce il controllo e il rispetto delle regole. E di
questi tempi sarebbe opportuno tener conto
di tali aspetti che in un momento di crisi generale accentuano le distanze tra potere e
popolo, tra governi e cittadini. E non c’è
giorno in cui non si riaffacciano su giornali,
riviste e televisioni pessime sceneggiate di
corruzione che investono anche figure politiche di diversa appartenenza. E vengono meno: costanza che produce cultura, buone
prassi, contagio costruttivo, relazioni; non si
stempera l’agonismo conflittuale tipico delle
lobby partitiche e sempre più scade la dimensione dialogica volta ad alimentare un modello comunicativo alternativo allo stile rissoso
che invade ogni angolo della scena politica e
dell’intera società. Ne paghiamo il prezzo con
un calo accentuato della cooperazione volta
alla ricerca del bene comune.
Sembrano ormai archiviate le esperienze sviluppate in tutta Italia in comuni
anche di ristrette dimensioni: Malpignano
(Le): bilancio partecipato, assemblee cittadine, raccolta differenziata, anziani protagonisti; Badolato (RC),Curdolato: integrazione
civile, culturale, religiosa, lavorativa, edilizia
(corretta e agevolata disponibilità di edifici
del centro storico); Gubbio e hinterland:
nascita di cooperative edilizie per l’ autorealizzazione di abitazioni per l’emigrazione,
bilancio partecipato, cooperazione interculturale e sussidi raccolti attraverso la normativa regionale.
La nostra realtà dovrà porsi prossimamente il compito di compiere una rivoluzione democratica fondata sulla sussidiarietà
che ponga al centro i cittadini, il territorio e le
relative istituzioni e agenzie territoriali per
affrontare il futuro. La partecipazione è la
strada maestra e non si può invocare solo nel
momento in cui si vive la stagione elettorale.
I gruppi isolati non hanno peso. Occorre
recuperare la logica della rete che raccoglie
singoli e gruppi in un contesto aperto al confronto e diretto al confronto aperto con la
politica per proporre, suggerire e concordare.☺
[email protected]
Via Marconi, 62/64
CAMPOBASSO
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le nostre erbe
una pianta millenaria
Gildo Giannotti
Nella piccola piazza del nostro
paese, Bonefro, abbiamo il piacere di osservare da vicino una pianta ormai in via di
estinzione: il tasso. Poiché si tratta di una
specie dioica, un esemplare femminile si
trova nell’aiuola circolare vicino allo zampillo, uno maschile dietro al monumento
dei caduti. Molte regioni italiane lo hanno
inserito nell’elenco delle specie protette. In
Piemonte ne sono presenti due con una
circonferenza superiore ai tre
metri e mezzo e censiti fra gli
alberi monumentali italiani.
Altri esemplari si trovano
nella Foresta Umbra nel Gargano e in poche altre zone
montane, come l’area di Sos
Nibberos in Sardegna, popolata da tassi millenari che
raggiungono anche un metro
di diametro e altezze sui 15
metri. L’habitat ideale per lo
sviluppo del tasso è infatti la
fascia montana temperata, con clima caratterizzato da inverni nevosi, ma non gelidi,
ed estati relativamente tiepide e umide.
La pianta del tasso (Taxus baccata) appartiene all’ordine delle conifere e
alla famiglia delle Taxacee. Se l’epiteto
baccata allude ai frutti, simili alle bacche, il
nome del genere deriva dal greco táxos =
“freccia”, e l’appellativo di “albero della
morte” nasce proprio dal suo impiego nella
fabbricazione di dardi velenosi, intrisi con
il veleno da esso prodotto, oltre che dal
fatto che veniva utilizzato nelle alberature
dei cimiteri. Ma già nell’antichità si fabbricavano archi e frecce con il suo legno anche per la sua elasticità, tenacità e resistenza.
24
Il tasso è un albero o arbusto
sempreverde molto longevo (può vivere
infatti circa 2000 anni) con
una crescita inizialmente
rapida, poi molto lenta, che
può portarlo a superare
anche i 20 metri di altezza.
I rami si sviluppano fin dalla base del
tronco e sono così flessibili
che in occasioni di abbondanti nevicate le loro punte si
incurvano fino a toccare terra,
per riprendere poi la loro naturale posizione allo scioglimento della neve.
Le foglie, lineari,
persistenti, di colore verde
scuro nella pagina superiore,
più chiare inferiormente, sono
molto velenose.
Il frutto, botanicamente un falso frutto, è detto
arillo: è una escrescenza carnosa che ricopre il seme. Inizialmente verde, e rosso a
maturità, contiene un solo seme, legnoso e
molto velenoso; la polpa invece è innocua
e commestibile. Gli uccelli mangiano gli
arilli, e i semi, dopo aver attraversato intatti
il processo digestivo vengono espulsi, originando, a contatto col terreno, una nuova
pianta.
Pur essendo considerato di scarsa
importanza forestale, il legno, duro, pesante
e resistente, di color arancio bruno e ben
lucidabile, è ricercato per incisioni, sculture
e piccoli oggetti. Inoltre viene spesso utilizzato per lavori al tornio e nell’ebanisteria,
ma più spesso viene coltivato per uso ornamentale o per formare siepi, perché tollera
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molto bene le potature. Già 5000 anni fa
veniva utilizzato dall’uomo per la costruzione di archi, come dimostrano i ritrovamenti
avvenuti sulle Alpi nel 1991. Infatti l’arco
della famosa mummia di Similaun, conservata al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, era costruito proprio con i
rami del tasso.
A causa della
velenosità sia per l’uomo sia
per il bestiame (in tutte le
sue parti tranne che nella
polpa del frutto), questa
pianta è stata sempre accompagnata da una cupa
fama, che si rispecchia,
come già detto, nel nome “albero della morte”, e per questo è stata sempre estirpata dai
pastori.
La sua velenosità è leggendaria:
ne parla anche Giulio Cesare nel De Bello
Gallico a proposito di un capo celtico
(Catuvolco), il quale, piuttosto che arrendersi alle legioni romane, preferì togliersi la vita
con il tasso. È inoltre ampiamente documentata nella letteratura. Nell’Amleto di Shakespeare, il padre del protagonista viene ucciso
dal fratello proprio con questo veleno. Ancora un omicidio col veleno del tasso è alla
base di uno dei racconti più famosi di Agatha Christie, Una tasca piena di avena.
Tutte le parti della pianta contengono tassina, una miscela di alcaloidi terpenici tossica per il cuore. Vari sono stati i casi
di avvelenamento di animali domestici di
grossa taglia. L’avvelenamento umano riguarda essenzialmente l’ingestione volontaria delle foglie a scopo suicida. Poche manciate di foglie sono letali e non esistono
antidoti specifici. Ma negli anni Novanta, il
tasso, simbolo di morte, è stato rivalutato
dalla ricerca farmaceutica grazie al tassolo,
un diterpene presente nella corteccia di una
specie di tasso americano, utilizzato per il
trattamento del tumore al seno.☺
[email protected]
le nostre erbe
il ligustro
Gildo Giannotti
Il ligustro (Ligustrum vulgare var.
italicum), della famiglia delle Oleacee, è un
altro albero di cui sono presenti diversi esemplari nella piazza di Bonefro. Pianta molto
docile, che i giardinieri foggiano nelle più
svariate forme, viene coltivata soprattutto a
scopo ornamentale, lungo i viali o nei giardini
e nelle piazze delle città, dal mare alla collina.
Piccoli alberelli o grandi arbusti, i
ligustri sono presenti in Italia anche allo stato
selvatico. In piena terra si dimostrano molto
vigorosi e rustici, non temono il caldo né il
freddo, e in genere si accontentano dell’acqua
fornita dalle precipitazioni. Nelle zone con
clima invernale mite, tendono a rimanere
sempreverdi; quando invece il clima inverna-
dono
Madre,
ora che mi sei figlia,
dal tuo esilio lontano guardi
e trabocchi l’impossibile.
Non so
da che profondo lago
affiorano le parole
che mi rimbalzano addosso
come un’eco
di dolci pensieri,
ma accetto il tuo dono
come il prodigio sublime
di un giorno d’autunno
e lascio che la terra
sbocci così
bagnata di pianto.
Dalla raccolta Risonanze di Lia Serafini 2°
premio sez.B concorso di poesie 7a edizione
2014
I
segreti
dell’animo
organizzato
dall’Associazione culturale Nuova Arcobaleno
di San Martino in Pensilis.
le diviene rigido, perdono tutto o gran parte
del fogliame.
Al ligustro coltivato in vaso viene
data la classica forma ad alberello, a palla.
Ma non va dimenticato che tra le siepi sempreverdi più usate vi è certamente quella di
ligustro, che ha una crescita più lenta rispetto
alle altre, ma presenta il vantaggio di non
richiedere cure o attenzioni eccessive. Nei
giardini e nei parchi delle città, inoltre, la
siepe di ligustro svolge la preziosa funzione di assorbire i gas di
scarico e le polveri
inquinanti.
Il genere Ligustrum comprende
oltre quaranta specie,
quasi tutte originarie
della Cina e del Giappone. Quello sopra
citato è la varietà dall’aspetto più ornamentale, con foglie persistenti, opposte nella disposizione sul ramo, dal picciolo corto, di spessore piuttosto consistente, acute all’apice e a
margine intero, di color verde intenso, lucido
superiormente e un po’ più chiaro ed opaco
nella pagina inferiore. Ma sono da ricordare
anche il L. lucidum, il L. ovalifolium e quello
japonicum. Quest’ultimo è caratterizzato da
foglie larghe, talvolta macchiate di giallo o di
bianco, leggermente acuminate e da infiorescenze a pannocchia, grandi e con fiori piccoli e verdastri.
Nel mese di maggio la pianta si
ricopre di una fioritura veramente ricca e i
fiori, piccoli, numerosi e riuniti in pannocchie
giallo paglierino, emanano un profumo così
intenso, che per qualcuno può risultare sgradevole.
I frutti sono delle piccole bacche,
che diventano nero-bluastre a maturità e rimangono sulla pianta fino
ad inverno inoltrato. Esse
sono velenose per l’ uomo, anche se un tempo,
nella medicina popolare,
si usavano come lassativi.
Per la loro tossicità si
raccomanda di impedire
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ai bambini di raccoglierle e mangiarle; sono
tuttavia molto gradite agli uccelli.
Come i fiori, anche il legno emana
un odore molto intenso.
I rami sono flessibili ed infatti il
nome del genere Ligustrum deriva dal latino
ligare, proprio per la flessibilità dei rametti
usati dai canestrai o nelle campagne come
legacci; l’aggettivo vulgare si deve al fatto
che è molto comune.
Per quanto
riguarda gli usi, dalla
corteccia si estrae un
colorante giallo, e
dalle bacche si ottiene
un inchiostro violetto
e un colorante usato
per rendere i vini più
vivi. Sempre dai frutti
si ricava una sostanza
utile per tingere di
nero i capelli. L’olio di ligustro si usa tuttora
per frizioni contro dolori e in particolare per
combattere la cellulite. I fiori, insieme ad altre
piante deodoranti e rinfrescanti come timo e
salvia, vengono utilizzati per pediluvi e per
risanare la pelle macerata dal sudore. Le
foglie servono a preparare gargarismi efficaci
contro le affezioni croniche della bocca e
della gola, specie dei fumatori.☺
[email protected]
i nostri errori
Questa pagina nel numero scorso annunciava
un articolo di Gildo Giannotti praticamente
inesistente. Lo riproponiamo nella pagina precedente, scusandoci con l’autore e i lettori.
25
etica
ricchezza immorale
Silvio Malic
La melodia del silenzio di Rosalba Manes passa in
rassegna, con occhi e cuore di donna, le poche e
scarne pericopi evangeliche in cui appare la figura
di Giuseppe. Nel testo risaltano due note caratteriali dell’uomo scelto da Dio per essere il padre
del suo Figlio unigenito: la sobrietà e la discrezione, doti di cui avvertiamo tutti profonda nostalgia
e desiderio, in un tempo di eccedenze e protagonismi in cui la parola si è sfibrata e si è mutata in
frastuono.
Il testo coglie il ruolo fondamentale di Giuseppe
nella vita di Gesù, nella sua crescita come uomo,
come membro del popolo di Israele e come ebreo
praticante, ma coglie anche il suo apporto alla
storia della salvezza e offre un contributo volto a
illuminare i tratti della paternità umana alla luce di
quella divina e i tratti del maschile nella reciprocità col femminile.
Il libro si articola in nove capitoli, come a scandire
il tempo di una novena, e a suggerire che la Parola
si legge pregando e che la preghiera si vive attraversando le pagine della Scrittura per abitarle.
Realizzato come testo di formazione su richiesta
dei Padri Giuseppini del Murialdo, presso il cui
Istituto teologico San Pietro di Viterbo l’Autrice
ha insegnato alcuni anni, il testo appare oltre che
nella versione originale in lingua italiana anche
nelle traduzioni nelle altre lingue principali della
Congregazione: cioè in spagnolo, portoghese e
inglese.
La melodia del silenzio ci ricorda che il silenzio
che nasce dalla comunione con Dio e con gli altri
parla più delle parole, custodisce gesti e scelte
pregnanti che incidono sui percorsi della storia, ed
è l’atmosfera in cui maturano quelle parole autentiche che danno la vita e fanno crescere.
(Per ordinare il libro telefonare o scrivere in casa
generalizia dei Giuseppini del Murialdo, Roma: 06
6242851 - [email protected])
26
La speculazione - di cui si parla
di continuo - consiste nel trasferire parte
della propria disponibilità economica da
altri possibili usi a una collocazione da cui
ci si attende a breve termine un profitto
maggiore. È dunque un’allocazione di
ricchezza disponibile fondata su una previsione (speculazione) e quindi sempre
con un certo margine di rischio, e mirata a
incrementare al massimo possibile la
propria ricchezza in tempi brevi o brevissimi. Ciò è reso possibile dalla comunicazione tramite computer e rete: oggi è possibile avere informazioni in tempo reale
su allocazioni di ricchezza in tutto il mondo e sulla previsione dei relativi profitti
(incremento di ricchezza), ed è possibile
allocare ricchezze sempre in tempo reale
e cambiare poi rapidamente allocazione.
Superbia delle ricchezze
Nella Scrittura e nella tradizione teologico-morale cristiana è condannato severamente il peccato di usura. Spesso
si è considerato l’investimento come una
forma di prestito a interesse, e quindi
assimilabile all’usura, ma a torto.
L’usuraio, o altre forme più moderne ma
simili, dà in prestito a chi è nel momento
del bisogno, in strettezze permanenti o
momentanee, e impone scadenza e saggio
di interesse sfruttando la debolezza di chi
chiede. Nell’investimento invece non si fa
un prestito, ma si partecipa al capitale di
un’impresa per partecipare poi a una proporzionata quota degli utili. Inoltre
nell’investimento il controllo delle eventuali scadenze e del saggio di interesse è
determinato da chi riceve il denaro, non
da chi lo dà. Ma la speculazione è un’altra
cosa ancora, e del tutto diversa. In essa
uno dà denaro al solo scopo di averne di
più: non partecipa se non formalmente al
capitale e ai suoi rischi, ma vuole esclusivamente avere di più entro breve termine
(spesso pochi giorni o anche ore).
Il grande tema di morale economica nel Vangelo non è il settimo comandamento ‘non rubare’. Lo è stato, purtroppo, in tutti i testi di teologia morale fino a
tempi postconciliari. Il grande tema è ‘non
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cercare di arricchirsi’ nel senso preciso di
cercare di aver di più perché è di più; la
ricchezza e la sua ricerca viste come fine in
sé. Per il cristiano l’unico fine in sé, da perseguire in ogni circostanza, è il Signore e il suo
Regno. Ricordiamo il cap. 16 di Luca. A
commento della parabola dell’amministratore
infedele il Signore contrappone una ricchezza
iniqua alla ricchezza ‘vera’, una ricchezza
non vostra (altrui) alla ricchezza ‘vostra’: Dio
solo è la ricchezza per il cristiano. Irriso dai
farisei (i potenti), Gesù risponde: “Grande
davanti agli uomini, abominevole davanti a
Dio”. Parole terribili, da applicarsi senza
esitazione ai grandi della terra e specialmente
ai più grandi, del mondo o di un singolo
Stato. Non è necessariamente peccato essere
ricchi: è invece sempre peccato non mettere
la propria ricchezza a servizio del Regno,
cioè dei tanti miseri della terra. Paolo pone
nei suoi elenchi di peccati per i quali si è
esclusi dal regno sia l’avidità che l’avarizia
(l’unico termine greco ‘pleonexia’ può indicare tutte e due le cose a seconda del contesto); la voglia di aver di più e la voglia di
tenerselo per sé escludono dunque dal regno.
E nella prima lettera di Giovanni “la superbia
delle ricchezze” (la traduzione CEI - la superbia della vita - è sbagliata) esclude
dall’amore del Padre. Considerare le ricchezze come bene in sé, desiderabile per se
stesso, è dunque idolatria come dice Paolo
nella lettera ai Colossesi a proposito della
pleonexia. Speculazione (o gioco in borsa,
che poi sono la stessa cosa) sono da considerarsi gravi peccati.
Proprietà e denaro
Il ‘non rubare’, che ha ipnotizzato
tutti i trattati di morale economica, è solo un
caso particolare di questo peccato, con
l’aggravante del danno e della violazione di
diritti socialmente riconosciuti dell’altro. Ma
si stia bene attenti: il ricco ha il dovere (di
giustizia) di dare il necessario al povero, e se
non lo fa (“si tamen”, dice San Tommaso) e
il povero gli prende il necessario per vivere, il
povero non commette furto perché quello che
prende era già suo. Tale è la dottrina di San
Tommaso, coerente con tutti i Padri della
Chiesa e soprattutto col Vangelo. Le ricchez-
etica
ze non sono mai un fine in sé, ma sono uno
strumento per l’unico scopo della nostra
esistenza: che venga il Regno, una comunità
fatta di fraternità, di pace, di condivisione e
non di sopraffazione o disprezzo del misero.
Il diritto di proprietà come naturale, sacro e
inviolabile, - come lo concepiamo noi oggi è maturato nella teologia morale solo a partire dal XVI/XVII secolo. Per i Padri della
Chiesa il rubare e il non dare a chi ha bisogno sono lo stesso peccato. Il diritto di proprietà, come lo si intende oggi, nasce da
regole generate nella gestione della convivenza, “ex humano condictu”, ed è sempre
sottoposto e finalizzato al bene della comunità.
Più o meno negli stessi secoli, una
nuova visione della ricchezza astratta - del
denaro - è diventata dominante: dopo la prima industrializzazione la costruzione di macchinari e di impianti richiese capitali enormi
concentrati in poche mani. Divenne così
accettata come ovvia l’idea che la ricchezza
(denaro) non serve solo a comprare beni utili,
ma serve a produrre nuova ricchezza. Questa
nuova ricchezza non viene tutta spesa per
nuovi acquisti: una parte sempre maggiore
per chi è già ricco serve a produrre nuova
ricchezza, e così all’infinito.
Vera idolatria
Grazie soprattutto ai nuovi mezzi
di comunicazione, oggi il mondo della finanza è praticamente indipendente da quello
della produzione. Il legame sussiste ancora:
senza finanziamenti non si produce. Ma le
grandi finanziarie planetarie muovono i capitali disponibili dove più loro conviene. Un
tempo si investiva in imprese che producessero con qualità migliore e a prezzi concorrenziali. Oggi le grandi finanziarie vere, quelle cioè che controllano le altre di grado inferiore e le banche, hanno davanti a sé tutto lo
spettro dei possibili investimenti nel mondo,
sono in mano privata e traggono il loro profitto muovendo capitali sempre nel senso
nuova apertura
della massimizzazione del profitto privato
che da questi movimenti sperano di ottenere. Possono perciò lasciare o far cadere
una impresa anche ottima in favore di
altre per motivi geopolitici (p. es. sostenere le finanze di un Paese alleato), o per
deprimere l’economia di Paesi concorrenti (basta operare sulle valute: mettendo in
crisi le aziende si può mettere in crisi un
sistema bancario), o con mille altri scopi e
modi. Ormai questo è un dogma. Deve
avvenire a qualunque costo: salari di fame, licenziamenti, lavoro minorile etc.
senza alcun riguardo ai grandi problemi
della fame e della miseria della famiglia
umana. Ciò a lungo terframmenti di saggezza
mine produce drammi
sociali ed economici, ma
il lungo termine a loro
non interessa.
In sintonia con
il Vangelo e la più viva
Sembra veramente indicata per questo 8 marzo, giornata
tradizione cristiana, si
internazionale delle donne, la commovente storia di Maud Chifamba.
deve ritenere che ogni
La rivista statunitense Forbes l'ha segnalata tra le cinque giovani
forma di speculazione o
donne più influenti d'Africa. Testimonial della federazione internadi gioco in borsa - per
zionale “Terres des Hommes” per la difesa dei diritti dei bambini, sta
come oggi funziona - sia
ricevendo numerosi premi, dall'Africa alla Gran Bretagna, da Roma a
complicità o inavvertita
Dubai.
cooperazione con l’ idoA soli 14 anni Maud è stata la più giovane studentessa
latria, col male assoluto
universitaria africana, pur essendo orfana di entrambi i genitori e pur
in radicale opposizione
provenendo da una realtà rurale poverissima, quella del centro nord
con l’annuncio evangelidello Zimbabwe. Si svegliava alle cinque del mattino, in una camera
co. Per esser fedeli al
dove dormivano altre tredici persone, e percorreva a piedi sette km su
Vangelo i cristiani assustrade dissestate e impraticabili durante la stagione delle piogge. Ad
mano il coraggio di
attenderla, una scuola non degna di questo nome, senza banchi, senza
schierarsi uniti a tutti gli
sedie, senza tetto. “Ce l’ho fatta grazie al mio amore per lo studio - ha
uomini di buona volontà
raccontato Maud - perché le difficoltà sono state tantissime”.
con cui condividono la
Ma il motivo per cui Maud è oggi più orgogliosa è il fatto
sofferenza della famiglia
di rappresentare un modello e una speranza per tante ragazze che
umana.
all’istruzione non possono accedere. Ragazze il cui destino è spesso
Oseranno metquello di doversi sposare a 13 o 14 anni. O peggio, di finire sfruttate e
tersi in crisi i “cristiani
vittime di abusi. L’istruzione è per loro l’unica possibilità di cambiare
occidentali” del nord,
tale destino. Per questo Maud ha chiesto di poter portare la sua testipromotori di tale sistema
monianza e la voce di milioni di ragazze che vivono in contesti di
iniquo? ☺
povertà come il suo all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che
si terrà a New York a settembre, e nel corso della quale sarà stilata
l’agenda dello sviluppo post 2015. Chiede che la loro istruzione diventi prioritaria per la Comunità internazionale e che venga inserita
tra i nuovi obiettivi di sviluppo di qui al 2030.
L’istruzione delle ragazze deve essere tra questi obiettivi.
Perché, come diceva nella sua ormai leggendaria saggezza Nelson
Mandela, premio Nobel per la Pace nel 1993, “l’istruzione è l’arma
più potente che puoi usare per cambiare il mondo”.
Filomena Giannotti
l’arma più potente
86043 CASACALENDA (CB ) - C.so Roma, 93 - Tel. 0874.844037
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sisma
caro frattura
Domenico D’Adamo
Nella serie dedicata alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dal presidente Frattura nella fatidica sera di maggio di
due anni orsono, non abbiamo ancora trattato
del tema “ricostruzione post sisma”, nonostante le sollecitazioni dei nostri lettori. Non
lo abbiamo fatto per dimenticanza ma più
semplicemente perché non c’era nulla da
raccontare. Dopo dieci anni di fallimenti, di
cattivi ricordi, di inciuci, ci saremmo aspettati, non dico le scuse delle istituzioni ai terremotati che ancora vivono nelle baracche ma
almeno una qualche spiegazione, una giustificazione, un impegno, un “faremo”, come di
prassi: niente, non una sola parola sul terremoto. Nel silenzio assordante di maggioranza
e opposizione, una sorta di bolla di sapone
dove tutti gli interessi si ricompongono, qualcuno, quella sera, tra i banchi del pubblico,
rivolto al presidente gli sussurrò la parola
terremoto, lui sorrise e garbatamente ringraziò per quello che aveva ritenuto un apprezzamento. In realtà per tutti fu chiaro, oratore
compreso, che non si trattava delle lusinghe
di un ammiratore ammaliato dall’eloquio
dell’oratore ma dell’invito a parlare dei problemi irrisolti della ricostruzione. Il governatore non si fece travolgere dall’entusiasmo,
parlare delle tragedie causate dal terremoto in
28
quella memorabile sera di maggio gli sarà
sembrato di cattivo gusto, e alla realtà tragica
preferì il racconto della favola. L’evento che
ha cambiato il destino di migliaia di persone
nelle zone interne del Molise centrale non
aveva lasciato alcun segno nella memoria del
presidente Frattura, né abbiamo trovato indizi
riconducibili alla risoluzione del problema
nelle sue dichiarazioni programmatiche approvate, senza modifiche, dalla maggioranza
di centro sinistra. Non hanno fatto nulla quando erano “contro” Iorio, a parte qualche scaramuccia sulla natura dell’ARPC, beghe di
potere senza sostanza, si preparavano, ora che
erano maggioranza, ad ignorare il problema.
A distanza di due anni dall’ insediamento in consiglio regionale, bisogna
riconoscere, sono stati di parola. L’unico
punto del programma sul quale non hanno
cambiato idea è appunto l’assenza di un impegno sulla ricostruzione post terremoto: non
c’era nel programma di governo, non c’è
nell’azione di governo. Il partito della nazione ha cambiato idea sulla realizzazione
dell’Autostrada, sostituendola con la metropolitana leggera di Matrice; sulle dismissioni
delle società partecipate della regione, ancora
tutte di proprietà della stessa; sui presidi della
sanità, tutti meritevoli di esistere quando a
gestirli sono gli altri, sul terremoto sono
invece rimasti fedeli agli impegni non
presi. In quella particolare occasione e
anche dopo, avremmo preferito sapere
quali sono stati i problemi che hanno
impedito ai terremotati di fare rientro nelle
loro abitazioni dopo dodici anni e perché
gli stessi non sono stati rimossi. Purtroppo, il presidente Frattura, quando incontra
i suoi interlocutori politici ama iniziare il
suo intervento con un ritornello: “non
parliamo del passato, ma solo del presente e del futuro” e così, il suo interlocutore,
che deve farsi perdonare tante cose, accetta senza riserva alcuna di farsi condonare
tutto, con il risultato che a fare le spese del
loro fair play siamo sempre noi, i destinatari delle loro decisioni.
Caro presidente capisco che lei
abbia un passato politico imbarazzante e
non ami parlarne, ma fare politica igno-
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rando il passato - tutto ciò che è accaduto,
quali sono le vittime rimaste sul terreno, chi
le ha causate - non aiuta a costruire un futuro
né migliore né peggiore. Noi, intanto, visto
che lei non l’ha fatto e non intende farlo, ci
limiteremo a dirle cosa avremmo voluto
ascoltare: ci sono circa 800 sottoprogetti di
classe A su 1266 che attendono da dodici
anni di essere finanziati con soldi veri e realizzati con calce e mattoni. Lei, sig. presidente, in un incontro con i baraccati di Bonefro,
mosso da una forte spinta emotiva è giunto a
minacciare, un po’ Tsipras un po’ Grillo, di
non rispettare i vincoli imposti dalla legge di
stabilità pur di trovare una soluzione al problema. Non le chiediamo di suicidarsi, ma è
così difficile risparmiare un po’ di soldi per
finanziare autonomamente la ricostruzione?
Invece di affidarsi agli improbabili parlamentari indigeni che tutti insieme valgono la modica cifra di 15 milioni di euro e centinaia di
comunicati stampa in due anni di attività pro
terremotati, perché non si impegna a costruire
una proposta credibile da offrire a chi vive lo
stesso dramma in altre regioni italiane? Non
vuole saperne del passato, ma ha mai chiesto
ai suoi collaboratori a cosa sono serviti quei
due miliardi di euro registrati sotto le generiche voci di ricostruzione e ripresa produttiva?
Avrebbe scoperto che anche in questa vicenda ci sono tante vittime che chiedono giustizia, non oblio. Si è chiesto ancora, presidente,
perché gli oltre 500 milioni di euro assegnati
alla regione per la ricostruzione in fascia A
non sono più sufficienti a risarcire gli sventurati in egual misura? Se solo qualcuna di
queste domande l’avesse inquietata, avrebbe
scoperto che indagare il passato aiuta a comprendere gli errori commessi da chi l’ha preceduta, oltre che a indicare il percorso attraverso il quale le tante vittime lasciate per
strada possano finalmente avere giustizia, in
buona sostanza possano diventare più uguali
agli altri.
La ricostruzione è praticamente
ferma da anni e in tutto questo grande pasticcio lei, presidente, rischia di essere ricordato,
non per aver dato velocità al processo di
ricostruzione ma per aver rimosso il dirigente
della protezione civile sborsando, con soldi
nostri e non suoi, due stipendi per un solo
posto - della serie paghi due e ne prendi uno oltre che per aver coperto le nefandezze del
passato. ☺
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