In memoria di Amedeo che amava parlare in seuese © Domus de Janas Mancarìas La Parlata di Seui Paolo Pillonca ISBN 88 88569 37 5 Prima edizione Luglio 2006 Realizzazione editoriale Domus de Janas Via Monte Bianco 54 09047 – Su Planu – Selargius Tel. 070 5435098 Fax. 070 5434105 www.domusdejanaseditore.com Foto di copertina Archivio Domus de Janas Archivio Sergio Bonifanti Archivio Famiglia Melis Realizzazione grafica: Supporti Visivi Stampa e allestimento Grafiche Ghiani – Monastir (CA) LINGUA VIVA, LINGUA POETICA Il lessico delle popolazioni avvezze da secoli a lavorare all’aria aperta presenta caratteristiche inconfondibili che gli derivano soprattutto dall’osservazione attenta della natura e dei suoi fenomeni: il tempo nelle varie stagioni dell’anno, gli animali selvatici della terra e dell’aria, quelli allevati per latte, carne e miele, gli alberi spontanei e le piante coltivate, gli arbusti, le erbe, la vita degli uomini nel lavoro, nei momenti spensierati della festa e nelle ore buie della tristezza. È un lessico di grande rigore nella definizione degli oggetti ma anche ricchissimo di similitudini, metafore, espressioni idiomatiche di grande interesse e notevole fascino. Lingua viva, lingua poetica. Ci siamo avviati alla ricerca di questo patrimonio inestimabile, nella convinzione profonda che la conoscenza della lingua sia un’operazione indispensabile alla presa di coscienza di ciascuno, del suo essere e dei valori di riferimento che ne guidano il percorso terreno come hanno guidato l’esistenza degli antenati comunitari. Un’idea del genere vale soprattutto per le parole che meglio raccontano la vita della comunità nel suo andare attraverso il tempo: queste parole etniche hanno uno spazio molto più ampio rispetto a quelle di meno intenso sentire: abba, àbbila, armidda, bentu, beranu, canali, casu, celu, cuaddu, erriu, festa, fogu, funtana, giustìssia, ierru, ìligi, luna, mina, murva, pani, sinnu, terra, etc. Ci rendiamo perfettamente conto che il repertorio lessicale presente in Mancarìas è lungi dall’essere esaustivo. Si tratta di oltre settemilasettecento parole - e abbiamo evitato di dare conto degli italianismi di più recente assunzione - ma siamo certi che ce ne sono sfuggite moltissime altre. Perciò, ringraziando di cuore chi ha contribuito alla ricerca, invitiamo la comunità seuese intera a collaborare all’aggiornamento del repertorio: senza l’aiuto di tutti sarà molto difficile il completamento dell’opera. La lingua non è solamente un elenco di parole. Ma per conoscere meglio noi stessi è indispensabile sapere come si esprimevano i nostri progenitori lontani e come, sul loro esempio, si sono espressi e si esprimono i nostri contemporanei. La lingua è lo specchio delle nostre esistenze, dei nostri valori e disvalori, delle nostre speranze e delle nostre disillusioni. È la nostra vita, di ieri, di oggi e di domani. Paolo Pillonca MANCARÌAS 8 PAOLO PILLONCA Tabula Gratulatoria Il repertorio di Mancarìas è anche frutto delle conversazioni tenute negli anni con cittadini seuesi di arti e mestieri diversi, maschi e femmine, sugli argomenti più svariati della vita comunitaria. Mi è gradito ricordare, fra coloro che non ci sono più, i nomi di Peppino Anedda, Angelina e Assunta Aresu, Benito e Demetrio Ballicu, Peppino Boi, Enea Carboni, Raimondo Carta ‘Arremundicu’, Raimondo Carta ‘Mundicheddu’, Giuannicu Congera, Benigno Deplano, Efisio Deplano ‘Zero’, Cristina Desogus, Francesco Dessì il centenario e suo figlio Peppino, Giovanni Gaviano ‘Suchedda’, Efisio Meloni, Enea Moi, Giovanni Moi ‘Colla’ e Orazio Moi ‘Buchineddu’, Peppino e Salvatore Muggironi, Antonio, Paolo, Peppino e Pietro Mura, Giovanna, Giovanni e Maria Pes. Tra i viventi ringrazio in particolare Antonio e Gianna Anedda, Ignazio Aresu, Mercede, Salvatore e Teresina Cannas, Vitalia Carboni, Angelo Caredda, Ines Caredda, Antonio Carta, Francesco Cocco, Antonio e Umberto Congera, Efisio Desogus ‘Montangia’, Giampaolo Desogus, Gianni Dessì, Maria Levanti, Mariano Lobina, Mariangela Loi, Ignazio Marci e gli altri ragazzi del Museo, Piero Meloni, Luigi Moi ‘Colla’, Maria Moi vedova Gaviano, Amelia e Luisa Murgia, Marcella Pilia, Efisio Sabeddu e Totore Usai. A tutti quelli di casa mia esprimo sincera gratitudine per l’aiuto costante e la grande pazienza. Mancarìas. La parlata di Seui 9 NOTA ALL’EDIZIONE Nel compilare questo repertorio lessicale abbiamo tenuto presenti soprattutto le giovani generazioni e il castigo inflitto loro, sulla spinta di un globalismo senza discernimento, da molte famiglie: la privazione della lingua materna. Si tratta di una fascia di popolazione che rischia di veder svanire lo straordinario patrimonio ereditato dagli antenati a causa di una falsa convinzione di parte dei loro genitori, secondo cui conoscere la lingua parlata nella propria terra per millenni sia, come minimo, una perdita di tempo. Abbiamo, dunque, dato molto spazio agli esempi, sia nelle frasi di senso reale e di uso comune sia nelle espressioni immaginifiche: similitudini, metafore, locuzioni avverbiali, proverbi. Dove abbiamo potuto, abbiamo fornito anche indicazioni di fonetica sintattica soprattutto per ciò che si riferisce a certi nessi consonantici. Ma abbiamo guardato più al grafema che al fonema e non ci siamo avventurati nel campo minato delle etimologie: un campo da sempre teatro di dispute accese, con torme di contendenti spesso in netto disaccordo fra loro. Abbiamo segnalato con la dieresi l’esatta scansione delle parole, per rendere meglio la differenza tra lingua sarda e lingua italiana nella divisione in sillabe, in prosa come in poesia. 10 PAOLO PILLONCA PRINCIPALI ABBREVIAZIONI agg. - aggettivo art. det. - articolo determinativo art. indet. - articolo indeterminativo avv. - avverbio compl. - complemento cong. - congiunzione dev. - deverbale dim. - dimostrativo est. - estensione escl. - esclamazione fig. - figurato ind. - indefinito inf. - infinito intrans. - intransitivo ir. - ironico it. - italiano loc. avv. - locuzione avverbiale met. - metafora, metaforico n. pr. di pers. - nome proprio di persona part. pass. - participio passato poss. - possessivo pr. - pronome pr. pers. - pronome personale prep. - preposizione prep. impr. - preposizione impropria pres. ind. - presente indicativo pron. - pronuncia rif. - riferimento, riferito s. f. - sostantivo femminile s. m. - sostantivo maschile trans. - transitivo v. - verbo Mancarìas. La parlata di Seui 11 A A, preposizione. A. Introduce vari complementi. Contrariamente a quanto avviene in italiano accompagna sia il compl. di termine sia il compl. oggetto: apu mandau una lìtera a Franciscu (ho inviato una lettera a Francesco), apu ’idu a Cristolu (ho visto Cristoforo). Si unisce a diversi altri complementi. Moto a luogo (mai quello di stato in luogo, sempre annunciato dalla prep. in, senza eccezioni): andu a su monti (vado in campagna), soi in domu (sono a casa). Tempo determinato: a is tres de merì (alla tre del pomeriggio). Vantaggio o svantaggio: su decotu ’e armidda giuat a is (pr. ir) gangas (il decotto di timo giova alla gola), su fumu nocit a is prumonis (il fumo nuoce ai polmoni). Pena: fut istétïu cundennau a ses annus de presoni, ma nd’at fatu tres feti (era stato condannato a sei anni di carcere ma ne ha scontato soltanto tre). Mezzo o strumento: s’at untu is crapitas a ogliu seu (si è ingrassato le scarpe con il sego). Apre centinaia di locuzioni avverbiali. Ne forniamo svariati esempi, senza tuttavia pretendere di darne un elenco completo anche perché la lingua viva, giorno per giorno, ne registra sempre di efficacemente nuove. A abbovadura, in stato confusionale permanente: cussu assùcunu dd’at fatu a a. (quello spavento l’ha come frastornato). Vedi abbovai. A abbumbadura, con segni di gonfiore. Pïeru s’est fatu a a. (Piero è diventato così grasso da sembrare gonfio). Vedi abbumbài(si). A acallelladura, in prostrazione: candu tirat bentu basciu mi pigat a a. (quando soffia il vento del sud cado in prostrazione). Vedi acallellài(si) e callella. A acrichiddadura, con una serie di brividi: chi m’acaglienturu mi fait a a. (se ho la febbre mi vengono i brividi). Vedi acaglienturài(si) e acrichiddài(si). A acrobïadura, in unione a mo’ di alleanza. Ginu s’est fatu a a. cun Mariu (Gino si è alleato con Mario). Vedi acrobïài(si). A acronnotadura, in stato di insensibilità: Lüisu s’est fatu a a. (Luigi è caduto in uno stato di insensibilità). Vedi 12 acronnotàisi e acronnotu. A addramäinadura, con sintomi di svenimento: at torrau a biri su chi dd’iat bocìu su cüaddu e dd’est pigau a a. (ha rivisto l’uccisore del suo cavallo e stava per avere uno svenimento). Vedi addramainàisi. A afinigadura, in via di assottigliarsi, in dimagrimento: Billoi s’est fatu a a. (Salvatore è dimagrito a vista d’occhio). Vedi afinigai(si). A afortïadura, con segni di rafforzamento: mi parit ca cussa mëigina mi facat coment’e a a. (ho l’impressione che quel farmaco mi restituisca le forze). Vedi afortïai(si). A afracadura, come segnato dalla fiamma del fuoco: cussa abbardenti s’est fata a a. (quell’acquavite si è inacidita per eccesso di fiamma). Vedi afracài(si). A agrungiadura, con effetto di acidità di stomaco: segundu su tempus sa tratalia ’e angioni mi pigat a a. (a seconda della stagione le interiora di agnello mi provocano acidità di stomaco). A allatïadura, a temperatura tiepida (lett. di latte): comenti nde dd’as tirada ’e su spidu, sa petza s’est fata a a. (appena l’hai tolta dallo spiedo, la carne si è intiepidita). Vedi allatïài(si). A allupadura, con sintomi di soffocamento: chi fait calori meda mi pigat a a. (se fa molto caldo mi PAOLO PILLONCA manca il respiro). Vedi allupai(si). A amachïadura, alla follia: Ginu cussa picioca dda ’oliat a a. e at fatu ’e totu finas a cantu nc’est arrennéscïu (Gino desiderava quella ragazza alla follia e ha fatto di tutto per riuscirci). Usata anche un’altra variante: a s’amachiada. Vedi amachiai(si). A amurvonadura, come in un inselvatichimento (lett. alla maniera dei mufloni): certa oi e certa crasi, Pìlimu s’est fatu a a. e imoi non saludat prus a nemus (litiga oggi, litiga domani, Priamo si è inselvatichito ed ora non saluta più nessuno). Vedi amurvonàisi. A apuntorgiadura, con imbastitura: sa camisa si dd’at cumposta a a. (la camicia gliel’ha imbastita in piena regola). Vedi apuntorgiai. A arestadura, sulla via dell’inselvatichimento: sa tanca ’e Linu est fendusì a a. (il terreno di Lino si va inselvatichendo). A assachitadura, a scossoni: cussu cüaddu tenit unu passu legiu, dònnia ’orta chi ddu setzu mi fait a a. (quel cavallo ha un brutto passo, tutte le volte che lo monto mi scuote). Vedi assachitai. A atontïadura, in stato di scarsa percezione: a dis ddi pigat a a. (ci sono giorni in cui avverte sintomi di deconcentrazione). Vedi atontïai(si). A atzopïadura, come se ci fosse una zoppia: cun cussu Mancarìas. La parlata di Seui dolori a sa croga mi pigat a a. (quel dolore all’anca mi fa camminare come se fossi zoppo). Vedi atzopïai(si). A avilidura, in uno stato di prostrazione: Pìlimu si fait a a. (Priamo si riduce in uno stato costante di depressione). Vedi aviliri(si). A balla sola, con una sola pallottola: su sirboni dd’at isparau a b. s. (ha sparato il cinghiale a palla). Gergale dei cacciatori. Per est. entra nel gergo della politica a definire la scelta di una sola preferenza: apu votau a b. s. (ho assegnato soltanto una preferenza). A ballu, a ballo: Lüisu at postu una cantzoni a b. (Luigi ha scritto una canzone a ballo). La loc. si può sviluppare poi variamente nei dettagli: a b. lestru (a ballo svelto), a b. sérïu (a ballo composto), a ballu ’e schina (a ballo di schiena, ossia di portamento eretto), a ballu ’e tres (a ballo a tre), etc. Vedi baddai. A bangius (pr. bangiur) de ’inu, con impacchi di vino, in una sorta di maledizione: ancu ti torrint a b. de ’i. (che ti facciano rinvenire con impacchi di vino). Vedi abbangiai. A bàntidu, a vanto: totus ddu portant a b. (tutti lo elogiano). Vedi bantai/’antai. A baratu, a basso prezzo: cussa mobbìlïa dd’apu pigada a b. (quei mobili li ho presi a basso prezzo). A befa, a 13 mo’ di beffa, nettamente, senza confronto e con umiliazione dell’avversario: dd’at fatu a b. (l’ha ridicolizzato). Vedi befai. A bellu, lentamente: andendu a b. ses seguru ca erribbas (procedendo con lentezza sei sicuro di arrivare). Pian piano, con loc. reiterata: a b. a b. at otentu su chi ’oliat (pian piano ha avuto quanto voleva). A bentu, con il vento: fragat a b. (puzza da lontano), est pudéscïu a b. (il suo lezzo arriva con il vento). A bentu ’eretu, con il vento a favore (in senso met. e reale): fut andendu a b. ’e. ma de fatu est istétïu malafortunau (inizialmente andava bene, ma in seguito è stato sfortunato). A bentu ’e soli, con lo scirocco: ti crastu a bentu ’e soli (ti eviro in tempo di scirocco), minaccia metaforica ma comunque significativa. A bia a bia, a turno, una volta per uno: non ti ’oglias feti tui in festa, de imoi in susu feus a b. a b. (non pretendere di essere sempre tu a far festa, d’ora in poi faremo una volta per uno). A bïagis (pr. biagir) d’óbïa, a ruota continua: Lüisu ndi fait betiri sa linna a b. d’ó. (Luigi fa trasportare la legna a ruota continua, tanto da far incrociare senza sosta i vari trasportatori). Vedi adobïai, atobïai e obïai. A bogadu- 14 ra, ad estrazione: is crabus ddus sanaus totus a b. (i caproni li castreremo tutti ad estrazione, ossia con l’asportazione dei testicoli). Vedi bogai/’ogai. A bogi balandera, a voce alta, senza remore: ddu narat a b. b. (lo dice senza peli sulla lingua). A bogi bascia, a bassa voce: cuss’ómini füeddat sempir a b. b. e de su chi narat non si nde ddi cumprendit bell’e nudda (quell’uomo parla sempre a bassa voce e non si capisce quasi nulla di ciò che dice). Esiste, è ovvio, anche la loc. opposta: a bogi arta (a voce alta). A bogis, a urla: po dónnïa caduméntzïa si pesat a b. (per ogni sciocchezza si mette ad urlare). Per queste ultime tre locuzioni vedi aboginai. A boladura, mediante lancio: sa linna mi nce dd’at fata a b. (la legna me l’ha data lanciandomela da lontano). A bólidu, in un attimo, al volo, subito: ddu facu a b. (lo faccio subito). Vedi bolai. A bonu, da bravo: su pipìu fait a b. (il bambino si comporta bene). Naturalmente esiste la loc. di significato contrario: a malu. A bonu coru, di buon cuore, volentieri: ddu facu a b. c. (lo faccio volentieri). A bonu mannu, magari: a b. m. chi mi lamànt a trabbagliai! (magari mi chiamassero a PAOLO PILLONCA lavorare!). A bortas, talvolta: a b. ddu fait, a b. nou (talvolta lo fa, altre volte no), a b. non ponit menti (qualche volta non ubbidisce). A bratzetu, a braccetto: non bessu ’ónnïa dì a b. cun tui (non esco tutti i giorni a braccetto con te). A brìnchidus, a salti: su lépuri andat a b. (la lepre procede a salti). Vedi brincai. A brodu, a brodo, a beffe, con netta superiorità: chi dd’atòbïat, Linu ddu fait a b. (se lo incontra, Lino lo surclasserà). A bruncu, direttamente dalla bottiglia o dal barilotto (lett. con il muso): su ’inu mi pragit a ddu bufai ’e sa cubedda a b. (il vino mi piace berlo direttamente dal barilotto). Vedi abruncai. A bruncu furrïau, storcendo il muso: no dd’apu fatu nudda ma est a b. f. (non gli ho fatto niente ma mi storce il muso). Vedi furrïai. A buciconis, a cazzotti: a Efisïu non bolit a ddi nai nudda ca si movit a b. contras a chini e chi siat (non bisogna contraddire Efisio perché si scaglia a cazzotti contro chiunque). A buconi prenu/a buconi mannu: con la bocca piena, a grandi bocconi: Linu est unu scortesu, chistïonat a b. p. (Lino è un maleducato, parla avendo la bocca piena), non papis a b. m. che-i su cani, papa coment’e is cristïanus Mancarìas. La parlata di Seui (non mangiare a bocca piena come un cane, mangia come i cristiani). A buddiu, mediante bollitura: custa petza mi dda cou a b. (questa carne me la lesserò). Vedi buddiri. A bufadura, liscio, senza aggiunte (detto del latte o del cappuccino che si beve senza bagnarci dei biscotti o altro): deu su lati ’e craba nce ddu calu a b. (il latte di capra lo mando giù liscio). Vedi bufai. A busciaca ’rbùida, a tasche vuote: ndi ’enit sempir a b. ’r. (arriva sempre a tasche vuote). Vedi irbüidai. A cada sa metadi, metà ciascuno: eus cassau unu sirboni e dd’eur dividìu a c. sa m. (abbiamo cacciato un cinghiale e ce lo siamo diviso a metà ciascuno). A cadena, a catena: Linu est furïosu, bolit acapïau a c. (Lino è fuori di sé, andrebbe legato con una catena). Vedi incadenai. A cadunu, uno per ciascuno: feus a c. (facciamo uno per ciascuno). A caglientura, con la febbre: soi a c. (sono con la febbre), ddi bastat unu ’entigeddu ’e nudda e ddi pigat inderetura a c. (gli è sufficiente un venticello da niente e subito gli viene la febbre). Vedi acaglienturai(si). A caladura, in via di decadenza: Pìlimu est fendusì a c. (Priamo si avvia al declino). Vedi calai. A calamadura, in via di appassimento: sa mela s’est 15 fata a c. (le mele sembrano appassite). Vedi calamàisi. A calori ’e fogu, al tepore del fuoco: mi setzu a c. ’e f. (mi siedo accanto al camino). A caminus faddius, per strade sbagliate: cun Lüisu fustis cichendunosì a c. f. (io e Luigi ci cercavamo a vicenda ma su strade sbagliate), detto di quando due si cercano ma percorrono strade diverse. Vedi caminai e faddiri. A cantzonadura, a presa in giro: a Ginu ddu pigant a c. (Gino viene continuamente deriso). Vedi cantzonai. A cantzonedda, a cantilena, noiosamente: ddu narat a c. (lo ripete fino alla noia). A caragolu, in una morsa da fabbro: dd’at istrintu a c. (l’ha stresso in una morsa ferrea). A carighedda, con voce nasale: fait erriri ca chistïonat a c. (fa ridere perché parla con voce nasale). Vedi càriga. A carrùmbulus, a capitomboli: at irliscinau e nc’est calau a c. in su caminu (è scivolato ed è precipitato a capitomboli lungo la strada). Vedi carrumbulai. A caru, a caro prezzo: custa mi dda pagas a c. (questa me la paghi a caro prezzo), in senso reale e/o fig. Il contr. di a baratu. A càschidus, a sbadigli: su pipìu fut a c. longus, tandu nce dd’apu crocau (il bambino sbadigliava a lungo, allora l’ho messo a 16 letto). Vedi cascai. A càstïu, sotto controllo: ddu portant a c. is carabbineris (i carabinieri lo tengono sotto controllo). Vedi castïai. A cherpu, a dispetto (lett. per farlo crepare): si ddu facu a c. (glielo faccio a dispetto). Vedi cherpai. A chïetu, in stato di calma: Linu non s’abarrat mai a c. (Lino non resta mai tranquillo). Vedi achïetàisi. A chistïoni, a colloquio: fustis de di ora a c. (eravamo da tempo a colloquio). Vedi chistïonai. A cöidu, presto: cras andaus, ma depeus mòviri a c. (domani andremo, ma dobbiamo partire presto). Vedi cöidai. A cöidura, a mo’ di cottura: sa ciligìa dd’at fatu a c. (la brina l’ha come bruciato). Vedi còiri. A colletu, per il collo: dd’at pigau a c. e dd’at iscutu una surra (l’ha preso per il collo e gli ha dato una sussa). A comodidadi, con comodo: pressi no ndi tengiu, mi dd’apu a fàiri a c. (non ho fretta, lo farò con comodo). A cómpuru, mediante acquisto: cussa ’omu dd’at pigada a c. (quella casa l’ha acquistata). Vedi comporai. A corpu, di colpo, improvvisamente: pariat ca ’oliat abarrai ma una dì totu a c. at determinau de si nd’andai (sembrava volesse restare ma un giorno tutto d’un tratto ha deciso di andarsene). A corpus, a colpi, con PAOLO PILLONCA percosse: dd’at pigau a c. de scova (l’ha preso a colpi di scopa). A corti, a più miti consigli (lett. alla mandra): pariat unu abbetïosu ma de fatu giai est torrau a c. (sembrava un testardo, ma poi è tornato a più miti consigli). L’immagine nasce dalla osservazione degli animali che spesso non tornano alla mandra per la mungitura ma poi finiscono con il ritornarvi spontaneamente. Vedi incortigliai. A coru, a cuore: si dda pigat a c. e nci patit (se la prende a cuore e ne soffre). A coru fridu, a cuore freddo, con un brutto presentimento: Teresa ndi fut a c. f. (Teresa sentiva che non sarebbe andata bene). A crabistu, con la cavezza: a su cüaddu no dd’iat postu mancu frenu, ddu portàt a c. (al cavallo non aveva nemmeno messo la briglia, lo conduceva tenendolo per la cavezza). Ma l’uso di questa loc. a Seui è particolare: riguarda soprattutto la sfera della met. e si riferisce a persone testarde e poco intelligenti: no andat mancu a c. (non va nemmeno se gli metti una cavezza). Nei casi più difficili, secondo il giudizio popolare, è necessario ricorrere ad una trazione duplice: Antoni ’olit portau a dòpïu c. (Antonio andrebbe tirato con due cavezze). Ma in certe Mancarìas. La parlata di Seui situazioni non c’è nulla da fare: no andat mancu a dòpïu c. (non va nemmeno se gli metti due cavezze). A cracaporcedda, come maialetti nell’àrula: non mi pragit a abarrai in custu logu strintu, anìa seus totus a c. (non mi piace restare in questo luogo angusto, dove stiamo tutti come maialetti nell’àrula). Vedi cracai. A crai, a chiave: sa pobidda ddi serrat totu a c. (la moglie gli chiude tutto a chiave). Vedi cràiri. A crisadura, con una sensazione di ribrezzo: a su figau cru’ ddi facu a c. (quando vedo del fegato crudo provo come una sensazione di ribrezzo). Vedi crisai. A crobecu, come coperchio: cussa su sposu si ddu ponit a c. (quella lì il fidanzato lo usa come un coperchio), ossia come schermo ad altre relazioni segrete. Vedi crobecai. A cróculu, a gorgoglìo: s’abba de cussa funtana ndi ’essit a c. (l’acqua di quella fontana esce gorgogliando). Vedi crocolai. A cropus, a colpi: dd’at pigau a c. (l’ha preso a colpi). A cüaddeddu, a cavalluccio (come quando si sistema un bambino sulle spalle di un adulto con le gambe pendenti in avanti, ai lati del collo di chi lo trasporta): su pipìu si ’olit sempir a c. (il bambino ama stare a cavalluccio). A cüaddu a cavallo: po sètziri a c. non 17 depis tìmiri ca su cüaddu si nd’acatat e timit cussu puru (per montare a cavallo non devi aver paura perché il cavallo se ne accorge e si spaventa a sua volta). A cüaddu ’nfrenau, con il cavallo imbrigliato, ossia in pompa magna: Boricu est sempir a c. ’n. (Salvatore è come se montasse sempre un cavallo imbrigliato), espressione idiomatica, a scherno di chi si dà arie. Vedi infrenai. A cùcuru, a misura piena: m’at donau unu mou ’e trigu a c. (mi ha dato uno starello di grano a misura colma). La loc. indica anche il trasporto di pesi sulla testa: sa linna ’e allùiri nde dd’apu ’etìa a c. (la legna per avviare il fuoco l’ho trasportata sulla testa). Vedi acucurai. A cucuruscaglius, a capriole: Cristolu fut gioghendu a c. cun is cumpangeddus de scola (Cristoforo giocava a fare le capriole con i suoi compagnetti di scuola). A culu abertu/obertu, entusiasticamente, con il culo aperto: candu est erribbau cussu càdumu totus furint a c. o. ma defatu giai ddus at iscaddaus (quando è arrivato quel deficiente erano tutti entusiasti ma subito dopo lui li ha scottati). La loc. ha sempre una venatura di scherno. Vedi obèrriri/abèrriri. A cul’’i ogu, con la coda dell’occhio: dd’apu’idu 18 a c. ’i o (l’ho visto con la coda dell’occhio). A culu in campu, con il culo nudo: dd’apu ’idu eu a c. ’n c. (l’ho visto io senza mutande). A culu in segus, in retromarcia (lett. con il culo all’indietro): est torrau a c.’n s. (è tornato in retromarcia). A cumonargiu, come socio di ovile: dd’apu tentu ses annus a c. (l’ho avuto per sei anni come socio di ovile). A cumoni, in sòccida: portu is crabas de Lüisu a c. (bado alle capre di Luigi in soccida). A cumpangiu, come compagno di lavoro: seus a c. cun Antoni (con Antonio siamo compagni di lavoro). Vedi acumpangiai. A de dì, di giorno: is sirbonis non bessint a d. d. (di giorno i cinghiali non si fanno vedere). A de nanti, davanti: fut a d. n. miu e non m’at bidu (era davanti a me e non mi ha visto). A de noti, di notte: a d. n. ’essit sa stria (di notte esce il barbagianni). A deretu, bene, a regola d’arte: no ndi fait manc’una a d. (non ne fa neppure una buona). A dinari, con soldi in palio: giogant a cartas a d. (giocano a carte per soldi). A disfida, in competizione: Franciscu e Linu funt a d. (Francesco e Lino sono in competizione). Vedi disfidai. A disigliu, con desiderio: fui a d. de ti torrai a biri (ero desideroso di rivederti), ddu tenia PAOLO PILLONCA a d. (lo desideravo). Vedi disigliai. A disisperu, disperatamente: candu ddu-i pensu mi pigat a d. (quando ci penso mi dispero). Vedi disisperai/ disisperàisi. A disparti, separatamente: Ada bivit paris cun su pobiddu ma coginant a d. (Ada vive insieme con il marito ma cucinano separatamente). A dispùta, in competizione: Linu est sempir a d. cun Antoni (Lino è in competizione con Antonio). A donnïora, a tutte le ore, di continuo: est a d. chescendusì (si lamenta di continuo), Ninu bufat a d. (Luigi beve troppo). A dràbbulu, a peso morto: mi nce dd’at iscutu a d. (me lo ha lanciato a peso morto). Vedi drabbulai/addrabbulai. A duritu, piuttosto tardi: candu apu móvïu fut giai a d. (quando sono partito era già piuttosto tardi). A duru, fuori tempo: candu seus erribbaus fut a d. (quando siamo arrivati era tardi), po annestai est a d. (per gli innesti siamo fuori tempo). Vedi addurai. A errisu, a riso, a scherno: a Umbertu ddu pigant a e. (Umberto non viene mai preso sul serio). Vedi erriri. A facis (pr. facir) de proi, a confronto diretto: ti ’ogu a f. de p. ( ti sottopongo al confronto diretto). A feli, con attacco di rabbia: candu ddu-i Mancarìas. La parlata di Seui pensu mi pigat a f. (quando ci penso mi viene la rabbia). A fichidura, ficcandosi in mezzo senza invito: Antoni si nci fait a f. (Antonio si intromette senza invito).Vedi fichìri(si). A fidu, a credito: chini non podit pagai inderetura cómporat a f. (chi non può pagare all’istante acquista a credito). Vedi comporai. A filu ’eretu, secondo logica (lett. a filo dritto): est raridadi chi Pìlimu andit a f. ’e. (è raro che Priamo segua una logica). La loc. si usa spesso in senso antifrastico: giai seus a f. ’e. (andiamo proprio bene). A fini, finemente: de custu ndi chistïonaus a f. (questo lo approfondiremo). Reiterata, la loc. (a f. a f.) vale: con estrema finezza. Vedi afinigai. A fissadura, in una sorta di fissazione o manìa: a Gisepu ddi pigat a f. (Giuseppe è in uno stato maniacale). Vedi fissàisi. A fitas, a fette: at pigau su ’estiri ’e sa coïa e dd’at segau a f. (ha preso il suo abito da sposa e l’ha tagliato a fette). Vedi afitai. A fogu anintru, con il fuoco in bocca (l’abitudine di fumare nottetempo il sigaro con il fuoco in bocca era uno stratagemma attribuito ai soldati sardi della prima guerra mondiale per non segnalare la propria presenza ai nemici attraverso la luce del fuoco 19 esterno, più tardi divenne un’abitudine anche diurna): Dàrïu fumat su zigarru a f. a. (Dario fuma il sigaro rovesciato). A fogu fatu, con il fuoco acceso: candu si nd’est pesau Antoni su babbu fut giai a f. f. (quando Antonio si è alzato dal letto il padre aveva già acceso il fuoco). A fogu fridu, con un fuoco semispento: seis a f. f. (avete il fuoco semispento). Vedi sfridai. A fogu irmortu/studau, con il fuoco spento: no abarru mancu in beranu a f. ’r./s. (neppure in primavera rimango con il fuoco spento). Vedi irmòrriri e istudai. A foras, fuori: fut fendu su càdumu e nce dd’apu ’ogau a f. (stava facendo il cretino e l’ho cacciato fuori). A forti, con forza, a voce alta: ddu possu nai a f. (posso dirlo a voce alta), poderaddu a f. (tienilo stretto). Vedi afortïai. A fràndigu, attraverso lusinghe: totu a f. est arrennèscïa a otènniri totu su chi ’oliat (a forza di lusinghe è riuscita ad ottenere tutto ciò che voleva). Vedi frandigai. A frenu strintu, a briglia stretta: sa pobidda ddu poderat a f. s. ma candu ddu fidat pagu pagu cussu si fuit (la moglie lo tiene a briglia stretta ma appena lo lascia libero lui se la svigna). Vedi strìngiri/istrìngiri. A fridu, a fred- 20 do, a posteriori: no arrennesciu a iscùdiri a nemus a f. (a freddo non riesco a picchiare nessuno). Vedi sfridai. A frigadura, a massaggio: sa mëigina mi dda depu fàiri a f. in is cambas (il farmaco me lo devo spalmare e massaggiare sulle gambe). Vedi frigai. A friscura, quando farà più fresco: a f. andaus a betiri s’abba (sul far della sera andremo a portare l’acqua). Vedi friscurai. A frori, in pessime condizioni: giai ses a f. (sei proprio ben messo), espressione antifrastica. Vedi froriri/infroriri. A frorigius, con ornamenti: at fatu unu bàtili ’e cüaddu a f. (ha confezionato un sottosella da cavallo con ornamenti). Vedi frorigiai. A füeddus, a parole: nd’eus tratau a f. e su füeddu balit finas e de prus de su scritu (ne abbiamo trattato a parole e la parola vale anche più della scrittura). Vedi füeddai. A füidura, come se fuggisse: est sempir impressìu, fait is cosas a f. (va sempre di fretta, fa le cose come se stesse fuggendo). Vedi füiri. A fulïadura, in tanta abbondanza di q.sa da poterne perfino buttar via: de trigu ndi tenit a f. (di grano ne possiede tanto da poterne buttare via). Vedi fulïai. A fundu, vicino, a poca distanza: Antoni at bidu un’arèi ’e murvas: ddas portàt a f. (Antonio PAOLO PILLONCA ha visto un branco di mufle: le aveva a poca distanza). A fundu a susu, sottosopra: dd’at furrïau sa ’omu a f. a s. (gli ha messo la casa sottosopra). Talvolta la loc. è ellittica della prep. iniziale. A funi, alla fune: su molenti ddu portu a f. (l’asino lo tengo alla fune), cussu no andat mancu a f. (quello non va nemmeno se lo tiri con la fune). Vedi afunai. A funi curtza/a funi longa, a fune corta/ a fune lunga: su cüaddu curridori ’olit tentu sempir a f. c. (il cavallo da corsa va sempre tenuto a fune corta), su ’oi ’omau ddu podis poderai a f. l. puru (il bue domato lo puoi tenere anche a fune lunga). A fura, di nascosto, furtivamente: ddu est andau a f. (ci è andato di nascosto). Vedi furai. A furadura, come se si trattasse di un furto: mi nde dd’at lïau a furadura (me l’ha preso e non me l’ha restituito). A fura prana, con un furto senza uso di armi: is crabas si nde ddas at lïadas a f. p. (le capre gliele ha portate via senza usare le armi). A furrïotus, a giri disordinati: Ninu est andendu a f. e non si cumprendit e ita iat a bòlliri. (Nino vaga disordinatamente e non si capisce che cosa voglia). Vedi furrïotai. A fùrrïu, tutt’intorno: no ddu iat nemus a f. (tutt’intorno non c’era nessu- Mancarìas. La parlata di Seui no). Vedi furrïai. A ganamala, con nausea: candu ddu biu mi pigat a g. (quando lo vedo mi viene la nausea). Agòa/(a coa), più tardi, alla fine, indietro (nella pronuncia si è persa la divisione originaria a coa): custu ddu bïeus a. (questo lo vedremo dopo), non t’abarris a. (non restare indietro). A giogu, alla leggera, come fosse un gioco: piciocheddu, non ti pighis a g. sa scola (ragazzino, non prendere la scuola alla leggera). Vedi giogai. A grai, faticosamente: a fàiri cussu dd’at a bènniri a g. (riuscire in quell’impresa gli costerà fatica), est sulendu a g. (respira a fatica). Vedi ingraïai. A gropas, in groppa: setzidì a g. (monta in groppa). A gùrulus, a urla: candu chelegunu ddu scronnat si pesat a g. (quando qualcuno lo contrasta si mette a urlare). Vedi gurulai/’urulai. A illargu, lontano: cichendu perdimentu nc’est infertu a i. meda (cercando il suo bestiame rubato è arrivato molto lontano). Vedi illargai. A illùinus, a capogiri: a bortas, candu abarru prus de una dì chene papai, mi pigat a i. (talvolta, quando rimango a digiuno per più di un giorno, ho i capogiri). Vedi illüinai. A imburdugu, in maniera grossolana: fait totu a i. (esegue tutto grossolanamente). Vedi 21 imburdugai. A impari, insieme: su trabbagliu ddu feus a i. (il lavoro lo faremo insieme). A imperradura, a cavalcioni: s’est postu in su muru a i. (si è messo a cavalcioni sul muro). Vedi imperrai. A impestadura, in forma epidemica: sa droga s’est ispandèssïa a i. (la droga si è diffusa epidemicamente). Vedi impestai. A incadumadura, in una sindrome depressiva, da persona rimbambita: Linu s’est fatu a i. (Linu sta vivendo una sorta di rimbambimento). Vedi incadumàisi. A incirdinadura, ad irrigidimento: su frïus at fatu a i. su lentzoru spartu (il freddo ha come irrigidito il lenzuolo steso). A inciupidura, ad assorbimento: fut de di ora chene próiri e-i s’abba chi at betau sa terra nce dd’at fata totu a i. (da tempo non pioveva e la pioggia caduta è stata assorbita tutta dalla terra). Vedi inciupiri. A indebbilitadura, come un indebolimento: su calori ’e s’istadi mi pigat a i. (il caldo estivo mi debilita). A infrusadura, con intromissione sgradita: nd’at paricius chi si nci faint a i. in dónnïa logu (c’è molta gente che si infila dovunque senza invito). Vedi infrusai(si) A ingìrïu, tutt’intorno: ddu iat canis a i. (tutt’intorno c’erano dei cani). Vedi ingirïai. A ingringhillitadura, ad 22 attrazione forte: su giogu ’e sa murra mi pigat a i. (il gioco della morra mi attrae molto). Vedi ingringhillitai. A ingurtidura, ad inghiottimento senza masticazione: papendu, Antoni nci fait totu a i. (mangiando, Antonio inghiotte tutto senza masticare). A innanti, prima: a i. pensa e de fatu füedda (prima pensa e poi parla). A intzérrïus, a urla: candu at bidu cussu cani s’est pesau a i. (quando ha visto quel cane ha reagito a urla). Vedi intzerrïai. A intzùnfïus, con singhiozzi sordi: Lina prangìat a i. (Lina piangeva con singhiozzi sordi). Vedi intzunfïai. A ira, a dirotto: est pröendu a i. (piove a dirotto). A is (pr. ir) becesas, in tarda età: si nd’est iscidau a i. b. (si è svegliato in tarda età). A irbentugliadura, con sventolìo: in s’istadi sa camisa si dda ponit a i. (d’estate la camicia la usa come sventolatore).Vedi irbentugliai. A irdassadura, quasi senza più filo (detto delle lame di coltelli, pugnali, cesoie, roncole, etc.): cudda càvana s’est fata a i. (quella roncola ha perso il filo della sua lama). Vedi irdassai. A irderrigadura, all’altezza dei reni: Sarbadori at iscutu una perda a Linu e dd’at fertu a i. (Salvatore ha lanciato una pietra a Lino colpendolo nella PAOLO PILLONCA zona renale). Più spesso, con dolore in quella sede: chi marru meda mi pigat a i. (quando zappo a lungo sento dolore ai reni). Vedi irderrigai. A irmesadura, a quota dimezzata: est unu malu pagadori, dónnïa ’orta chi ddi fais unu prétzïu ti ddu ’rmenguat a i. (è uno che non ama pagare, ogni volta che gli fai un prezzo te lo riduce fino a dimezzarlo). Vedi irmengüai e irmesai. A irmurradura, dritto sul muso: dd’at iscutu unu corpu a i. (gli ha dato un colpo dritto sul muso). Vedi irmurrai e murru. A iscarescidura, in oblio: de mei ti ndi ses fatu a i. (mi hai messo nel dimenticatoio). Vedi scarèsciri/ iscarèsciri/ schèsciri. A ischina ’ereta, con la schiena dritta: Franciscu fut a i.’e (Francesco era un uomo dalla schiena dritta). A iscimingiadura, con capogiri: fatu fatu mi pigat a i. (ogni tanto mi viene la labirintite). Vedi iscimingiai. A isciorbeddadura: con un colpo in fronte, quasi si volesse scervellare il rivale: dd’at iscutu una perda a i. (gli ha lanciato una pietra sulla fronte).Vedi sciorbeddai/isciorbeddai. A iscràmïus, con voce lamentosa e leggermente gridata: totu in-d-una su pipìu s’est pesau a i. (all’improvviso il bambino si è messo a gridare con voce Mancarìas. La parlata di Seui lamentosa). Vedi scramïai/iscramïai. A iscjrebinadura, fuori cottura: calandedda cussa petza a buddìu ca si fait a i. (togli quella pentola dal fuoco altrimenti si scuoce). Vedi scjrebinai/iscjrebinai. A iscroca, a scrocco: in bidda nci ndi tenïaus unu chi andàt a i. (in paese ce n’era uno che andava a scrocco). Vedi scrocai/iscrocai. A iscurìu, al buio, con l’oscurità: Gisepu ’essit prus a iscurìu chi no a lugi (Giuseppe esce più spesso al buio che alla luce). A iscusi, segretamente, di nascosto: bandus no ndi ’etat, Franciscu: fait totu a i. e fait beni (Francesco non dà bandi pubblici, agisce di nascosto e fa bene). A iscutas, ad intervalli, nei ritagli di tempo: ddu facu totu a i. (lo faccio nei ritagli di tempo). Spesso la loc. si reitera: a i. a i. Vedi scùdiri/iscùdiri. A isfregiu, a sfregio: su babbu si dd’at fattu a i. (il padre gliel’ha fatto a sfregio). Vedi sfregiai/isfregiai. A ispàinu, in ordine sparso: lassat totu a i. (lascia tutto in ordine sparso).Vedi ispäinai. A ispantu, a meraviglia: ddu portant a i. (su di lui si narrano meraviglie). Vedi spantai/ispantai. A isparessidura, per improvvisa sparizione: Linu s’est fatu a i. (Lino è come scomparso).Vedi isparèssiri. A ispàssïu, 23 a spasso, in ozio: est sempir a i. (è sempre in ozio).Vedi spassïai/ispassïai. A ispeddiu, da impazzire (lett. da non star più nella pelle): est una cosa chi mi pigat a i. (è una cosa che desidero all’impazzata). Vedi ispeddïai e peddi. A isperdìssïu, con spese senza controllo: sa ’omu non bolit ghiada a i. (la casa non deve essere governata con spese folli). Vedi sperdissïai/isperdissïai. A ispissuleddus, a pizzicotti: a su pipìu ddi pragit a basai a i. (al bambino piace baciare a pizzicotti). Vedi spissulai/ispissulai. A ispremidura, mediante spremitura: su limoni mi ddu facu a i. (dal limone mi faccio spremute). Vedi sprémiri/isprémiri. A is ses e mesu, alle sei e mezza. Vedi a mesudì. A isterrimenta, come strame: dd’apu postu fenu a i. e s’ebba igui ddu istat beni meda (le ho messo del fieno come strame e lì la cavalla starà molto bene). Vedi stèrriri/istèrriri. A istógumu arvolotau, con lo stomaco in subbuglio: po mori ’e àiri bufau abbardenti ageda soi abarrau una dì intrea a i. a. (per aver bevuto acquavite acida sono rimasto un giorno intero con lo stomaco in disordine). Frequenti anche altre due locuzioni: a istògumu prenu (a stomaco pieno) e a istògumu 24 ’rbùidu (a stomaco vuoto). A istóntunus, barcollando: fut imbriagu e andàt a i. (era ubriaco e barcollava). Vedi stontonai/istontonai. A istragu, a fatica: a fàiri totu custu in-d-una dì m’at a bènniri a i.(fare tutto questo in una sola giornata mi costerà fatica), dd’apu fatu, ma a i. (l’ho fatto, ma a fatica). Vedi stragai/istragai. A istrancanadura, con uno strappo violento: sa porta dd’at oberta a i. (ha aperto la porta con uno strappo deciso). Vedi strancanai/istrancanai. A istrossa, con subitanea violenza: est pröendu a i. (sta diluviando). Vedi strossai/istrossai. A istrùmbulu, con il pungolo: fais che-i cuddu chi giogàt sa sposa a i. (fai come quello che utilizzava il pungolo per giocare con la fidanzata).Vedi strumbulai/istrumbulai. A istrumpas, nella lotta sarda tradizionale (istrumpa è un gioco in cui si combatte fra due e la vittoria va a chi riesce ad atterrare il rivale afferrandolo con le braccia e dandogli sgambetti): dd’at bintu a i. (l’ha battuto nella lotta sarda). Vedi strumpai/istrumpai. A istruncadura, per la via più corta: nci soi calau a i. (ho fatto la discesa attraverso una scorciatoia). Ma la loc. ha anche una vena sottile di negatività, PAOLO PILLONCA come di azione mal eseguita. Vedi struncai/istruncai. A istrupïadura, a sangue: dd’at iscutu a i. (l’ha picchiato a sangue) Vedi strupïai/istrupïai. A istùrrudus sighius, a starnuti continui: m’est pigau a i. s. e non podia arrennèsciri a fàiri nudda (mi è venuto un attacco di starnuti continui e non riuscivo a fare nulla). Vedi sturrudai/isturrudai. A làcana, al confine: fustis a l. de su ’e Gàiru (ci trovavamo al confine con il territorio di Gairo). La loc. si utilizza anche in senso fig. A l. ’e su prantu, de su disisperu (al limite del pianto, della disperazione). Vedi illacanai. A ladus (pr. ladur) de frutu, con partecipazione alla resa: apu pàscïu is crabas de Antoni a l. de f. (ho tenuto al pascolo le capre di Antonio in compartecipazione alla resa). Si tratta di un’altra forma di accordo pastorale, rispetto a su cumoni: il proprietario aveva diritto a una parte ridotta della produzione del gregge in latte, lana e carne ma conservava per intero la proprietà del bestiame. Vedi illadarai. A lampalugi, attraverso bagliori: dd’apu ’idu a l. (l’ho visto come in un bagliore). Vedi lampai e lùgiri. A lampus e tronus, con lampi e tuoni: totu ’nd-una s’àiri s’est annüilada e at Mancarìas. La parlata di Seui cumentzau a l. e t., defatu at pròpïu meda, oras e oras (all’improvviso il cielo si è fatto nuvoloso ed è iniziata una serie di tuoni e fulmini, poi è piovuto molto, ore ed ore). Vedi lampai e tronai. A läuneddas, con il solo accompagnamento di läuneddas: at sonau unu ballu a l. (ha eseguito un ballo con le launeddas). A lestru, in fretta: is cosas fatas a l. arresurtant mali fatas (le cose fatte in fretta risultano fatte male). Vedi, sotto, a sa lestra. A lìmpïu, di netto: cun s’arrasoïa si nd’at segau unu ’idu a l. (con il coltello a serramanico si è tagliato di netto un dito). Vedi illimpïai. A loba, a coppia, con parto gemellare: ocannu in beranu paricias crabas funt angiadas a l. (quest’anno in primavera molte capre hanno avuto parti gemellari). Vedi lobai. A lugi, alla luce del sole: sa cosa ’olit fata a l., po ’essìri ’eni (per risultare al meglio, una cosa va fatta nelle ore di luce). A lugi fata, ad alba compiuta: sa cantzoni ’e Benignu ’e Tarichi narat ca un’ómini bîat prus a iscurìu che a l. f. (la canzone di Benigno Deplano dice che un uomo vedeva meglio di notte che ad alba compiuta). A lugi irmorta, a luce spenta: si nd’est pesau a l. i. e ddus at at fatus a tìmiri (si è alzato dal letto a luce 25 spenta e li ha fatti spaventare). Ovviamente, si utilizza spesso anche la loc. a lugi alluta (con la luce accesa).Vedi allùiri e irmòrriri. A lugori, a lume di luna: no iscìu chi po cassai a sirboni andit meglius a l. (non so se la caccia al cinghiale riesca meglio al chiarore lunare). A lùmburus, a rotoli: su pipìu est a l. in su fenu (il bambino si rotola sul fieno). Vedi lumburai/illumburai. A luna noa, con la luna nuova: custu ’olit fatu a l. n. (questo va fatto con la luna nuova). È intuitivo che esista anche la loc. a luna ’ecia (a luna vecchia). A luna prena, con la luna piena: a l. p. non si depit segai linna e nimancu ’oddiri erbas (a luna piena non si può tagliare legna e neppure raccogliere erbe). A magliadura, come a colpi di maglio: dd’at iscutu a m. (l’ha picchiato come se avesse avuto in mano un maglio). Vedi magliai. A malagana, di malavoglia: dd’iat cumentzau a m., cussu trabbagliu, e immoi no ddu discinit prusu (l’aveva iniziato di malavoglia, quel lavoro, e adesso non riesce più a concluderlo). A malu, da persona cattiva: su pipìu est fendu a m. (il bambino si comporta male). A malu ’etu, per il verso sbagliato: non dda pighis a m. ’e. (non pren- 26 derla male). A malus (pron. malur) màssïus, malvolentieri, masticando amaro (vedi màssïu): ddu fait totu a m. m. (fa tutto malvolentieri). Vedi massïai. A mancu mali, con danni limitati: s’annada dda creia finas e peus, imoi possu nai ca arresurtat a m. m. (l’annata la prevedevo anche peggiore, ora posso dire che limiterò i danni). A manuda, con le mani: Arremundu fut bonu a ténniri sa trota a m. (Raimondo riusciva a pescare le trote con le mani). A manu in muru, tentoni: fut mesu tzurpu, andàt a m. in m. (era semicieco, camminava tastando il muro con le mani). A manu lìmpïa, con le mani pulite: chini ’olit abarrat sempir a m. l. (chi vuole rimane sempre con le mani pulite). A manu pigada, mano nella mano: fut passillendu in su stradoni cun su pipiu a m. p. (passeggiava per la strada con il bimbo per mano). Vedi pigai. A manus artzadas, con le mani in alto: Eraldo fut a m. a. ma dd’ant isparau äici etotu (Eraldo aveva le mani in alto ma gli hanno sparato contro ugualmente). Vedi artzai/artzïai. A manus fridas, con le mani fredde: finas e in s’istadi Lina est a m. f. (anche d’estate Lina ha le mani fredde). A manus in buciaca, con PAOLO PILLONCA le mani in tasca: est sempir a m. i. b., si bit ca tenit pagu cosa ’e fàiri (è sempre con le mani in tasca, evidentemente ha poche cose da fare). A manus prenas, a piene mani: de cerésïa si nd’at boddìu a m. p. (ha raccolto ciliegie a piene mani). Vedi préniri. A manus ’rbùidas, a mani vuote: nd’est torrau a m. ’r. (è ritornato a mani vuote). Vedi irbüidai. A manus scapas, a mani libere: no mi pragit a intrai in domus aglienas a m. s. (non mi piace entrare nelle case degli altri senza portare nulla in dono). Vedi scapai/iscapai. A manus strintas, con le mani strette: Gisepu est a m. s. (Giuseppe è un avarone). Vedi strìngiri/istrìngiri. A maroglia, per forza: dd’at dépiu fàiri a m. (l’ha dovuto fare suo malgrado). A martinica, a mercato nero: s’est erricau bendendu su casu a m. (si è arricchito vendendo il formaggio a mercato nero). A medas annus, a molti anni, esclamazione rituale d’augurio nei compleanni, con le varianti a cent’annus (a cent’anni) e a atrus annus (pron. annur) meglius (ad altri anni ancora meglio). A mengianeddu, di primo mattino: a m. si trabbagliat meglius (di primo mattino si lavora meglio). A mengianu, di matti- Mancarìas. La parlata di Seui na: a m. depu fàiri atra cosa (di mattina devo fare altro). A menti, a memoria: Linu scit a menti totu is targas de ’idda (Lino conosce a memoria tutti i numeri di targa delle auto del paese). A menti frisca, a mente fresca: a lìgiri e iscriri meglius a si ddu-i pònniri a m. f. (è meglio mettersi a leggere e scrivere a mente fresca). A merì, di sera: a m. in s’istadi no arrennesciu a fàiri nudda (nei pomeriggi estivi non riesco a far nulla). A mericeddu, sul far della sera: a m. si ndi podit chistïonai (se ne può parlare sul tardi). A mesapari, metà per uno, a mezzadria: sa ’ingia dda trabbagliu a m. (la vigna la lavoro a mezzadria). A mesa stérrïa, con la tavola imbandita: Lina est sempir a m. s. (Lina ha sempre la tavola imbandita), per dire della generosità nell’offrire il cibo. Vedi stèrriri/istèrriri. A messadura, come se si mietesse: ania passat cussu fait totu a m. (dovunque passi, quello lì falcia tutto alla cieca). Vedi messai. A mesu càrriga, a mezzo carico, in senso reale e traslato: su trenu est a m. c. (il treno è semicarico), apu ’idu a Linu, fut a m. c. (ho visto Lino, era mezzo brillo). Vedi carrigai. A mesudì (a mezzogiorno): a m. scapu (a mezzogiorno sospendo il lavoro). Questa 27 loc. avv. ha anche spazio nel gergo dell’eros, per indicare uno stato di erezione continua: cuddu piciocu est sempir a m. (quel ragazzo soffre di priapismo). La condizione contraria si esprime attraverso un’altra metafora oraria: a is ses e mesu, alle sei e mezza, ossia con il ”coso” perpetuamente fiacco e rivolto all’ingiù. A mesu ’éntiri, a stomaco semivuoto: candu fui piticu deu cun is fradis (pron. fradir) mius fustis sempir a m.’è. (quando ero piccolo io e i miei fratelli avevamo sempre lo stomaco semivuoto). A mesu tèmpera, a tempra media, sui due versanti del reale e dell’immaginario: su ferru est a m. t. (il ferro è semitemprato), oi Fulanu mi parit a m. t. (oggi Fulano mi sembra brillo). Vedi temperai. A mindighingiu, in misura ridottissima: còmporat totu a m. (compra tutto in misura minima). Vedi mìndigu. A mirada trota, di traverso (lett. con lo sguardo storto, torvo): cuddu càdumu si càstïat sempir a m. t. (quello scimunito guarda sempre tutti di traverso). Vedi mirai. A morrungius, a forza di proteste: est a donnïora a m. (protesta di continuo). Vedi morrungiai. A mulloni, sottosopra: at lassau is camisas a m. (ha lasciato le camicie una sopra l’altra). Vedi 28 amullonai. A muntoni, in disordine, a mucchio: tenit is pannus totu a m. (ha tutti i panni ammucchiati). Vedi amuntonai. A nàdidu, a nuoto: a beciu mannu, candu biviat in Casteddu, Demétrïu si faiat a n. su tretu de Su Pöetu a Sa sedda ’e su dïàulu (da vecchio, quando viveva a Cagliari, Demetrio andava a nuoto dal Poetto alla Sella del diavolo). Vedi nadai. A nomi-nomi, penzoloni, per est. in ordine sparso: ponedda in su logu sû sa cosa, no dda lessis a n.-n. (rimetti ogni cosa al suo posto, non lasciarle di qua e di là). A nómini, per fama: ddu portant a n. (è diventato famoso). Vedi nomenai e nomenada. A nómini atentu, con nome e cognome, senza possibilità di equivoco: dd’at cicau a n. a. (l’ha citato con nome e cognome). A noti intrea, per tutta la notte: abarru scidu a n. i. (rimango sveglio per tutta la notte). A nû mortu, a nodo fisso (lett. morto): dd’at fatu un’acàpïu a n. m. (lo ha legato a nodo fisso). Vedi mòrriri. A nuis, a nuvole in gruppi numerosi: cussus ndi ’enint sempir a. n. (quelli arrivano sempre in comitiva). Vedi annüilàisi. A ogu, a occhio: Istévini fut bonu a intzertai a o. su pesu ’e unu pegus de ’uli (Stefano era capace di indovi- PAOLO PILLONCA nare a occhio il peso di un capo vaccino). A ogu miu, secondo il mio modo di vedere: non tenia metru e dd’apu medìu a o. m. (non avevo metro e l’ho misurato secondo il mio occhio). A ogus (pr. ogur) lepi-lepi, ad occhi semichiusi: crocanci su pipìu ca est a o. l.-l. (metti a letto il bambino, ha gli occhi semichiusi). A ogus obertus, a occhi aperti: cun cussu depis éssiri sempir a o. o. (con quello devi stare sempre a occhi aperti). Vedi obèrriri/ abèrriri. A ogus serraus, a occhi chiusi: cussu dd’ia a pòdiri fàiri a o. s. puru (quello lo potrei fare anche a occhi chiusi). Vedi serrai. A òpera bista, con il conforto della prova: su ’inari ti ddu ’ongiu a ò. b. (ti darò i soldi quando mi fornirai la prova di ciò che dici). A ora giusta, al momento giusto: si dd’apu a nai a o. g. (glielo dirò al momento giusto). A origa, a orecchio: Efis non connosciat sa mùsica, sonàt a o. ma nemus at mai sonau is läuneddas comenti ddas sonàt cussu (Efisio non conosceva la musica, suonava a orecchio, ma nessuno ha mai suonato le launeddas come lui). A origa parada, molto attentamente, con l’orecchio vigile: dd’apu ascurtau a o. p. (l’ho ascoltato con grande attenzione). A orrogadura, in Mancarìas. La parlata di Seui modo caotico: Antoni fait totu a o. (Antonio fa tutto senza discernimento). Vedi orrogai. A orrosàrïu, a mo’ di rosario: narat sempir is pròpïus cosas, a o. (dice sempre le stesse cose, a cantilena). Vedi orrosarïai. A orrostu, arrosto: cöeus cudd’orrogu’e petza a o. (cuoceremo arrosto quel pezzo di carne). Vedi cöiri e orrostiri. A pagu a pagu, a poco a poco: feddu a p. a p. (fallo per gradi). A pala, in braccio: pigaddu a p. su pipìu, ca est fadïau (prendilo in braccio, il bambino, perché è stanco). A pala ’e ciociòi, a spalle (detto dei bambini che gli adulti maschi prendono a spalle sorreggendoli per le gambe e facendo stringere le braccia del bambino intorno al collo di chi lo trasporta): su pipìu si ’olit pigau a p.’e c. (il bambino gradisce essere trasportato a spalle). A palas, alle spalle: chistionat feti a p., non tenit su brontu ’e nai is cosas in càrigas (parla soltanto alle spalle, non ha il coraggio di dire le cose in faccia). A palas (pron. palar) de camisa, con la sola camicia: non bessas a p. de c. ca est fendu frius (non uscire di casa in camicia perché fa freddo). A pampas, carponi: ancora su pipiu andat a p. (il bambino procede ancora carponi). A papadura, a mo’ di mangiata, 29 come se volesse mangiarlo/a: nce dd’at fatu a p. (lo ha trattato come se avesse voluto mangiarlo). Vedi papai. A parti, da parte, per conto proprio: s’iat postu a p. unu bellu pagu ’e ’inari po si comporai sa ’omu (aveva messo da parte un bel po’di soldi per comprarsi la casa). A parte, eccetto: is oras in prus mi ddas pagant a parti (le ore in eccedenza me le pagano a parte). A parti mala, al rovescio, detto di chi si infila male un paio di calze o una maglietta: s’at postu sa maglia a p. m. (si è messo la maglia dalla parte sbagliata). A passìu, senza meta: tenit is pegus a p. (lascia vagare il bestiame a piacimento). A passu, a passo d’uomo: a bortas cumbenit a andai a p. (talvolta conviene andare a passo d’uomo). A passu mesurau, a passo lento: andat a p. m. che-i su ’oi ’omau (va a passo lento, come il bue domato). Vedi mesurai e mediri. A passus crispus, a passi svelti: fut arrïolau po su bestïàmini e andàt a p. c. (era preoccupato per il bestiame e andava a passi svelti). Vedi incrispai. A passu lestru, a passo svelto, di fretta, ad andatura sostenuta: d’apu ’idu custu mengianu movendu a su monti a p. l. (l’ho visto stamattina mentre andava di fretta verso la campagna). A passu tor- 30 rau, a passo di ballo: su tenori at cantau una cantzoni a p. t. (il coro a tenore ha eseguito un canto a passo di ballo che ritorna). Vedi torrai nei suoi vari significati. A pei, a piedi: de Anulù a bidda mi dd’apu fata a p. (da Anulù fio al paese ho camminato a piedi). A peis iscurtzus, a piedi scalzi: su pipìu si ’olit a p. i. mancai facat frius (il bambino preferisce andare scalzo anche quando fa freddo). Vedi scurtzai/iscurtzai. A perdas pesadas, anche sotto le pietre (dappertutto): fui cichendudì totu su mengianu a p. p. (ti ho cercato per una mattinata intera dappertutto). Vedi pesai. A perdigonis, a pallettoni: po sirboni su fosili dd’ia carrigau a p. (per la caccia al cinghiale avevo caricato il fucile a pallettoni). Vedi aperdigonai. A peréula, in ordine sparso: is crabas funt a p. (le capre sono lasciate a sé stesse). A pesu biu, a peso vivo (espr. gergale di pastori e macellai che contrattano la carne sul peso vivo dei capi oggetto della trattativa): at bófïu comporai is porceddus a p. b. (ha voluto comprare i maialetti a peso vivo).Vedi pesai. A pesu mortu, a peso morto: est orrutu a p. m. coment’e una perda (è caduto a peso morto, come una pietra). A petza neta, di sola car- PAOLO PILLONCA ne, ossia senza pelle né viscere: cussu mascu ’e murva at pesau bintises chilus a p. n. (quel muflone ha pesato ventisei chili di sola carne). A pigada po culu, a presa per il culo: Antoni at chistïonau a p. p. c. (Antonio ha parlato ironicamente). Vedi pigai. A pigliu, alla luce, in superficie: nde dd’at bogau a p. Lüisu (Luigi l’ha riportato alla luce). Vedi apigliai. A piglius, a strati: ddu pongiu totu a p. (lo sistemo tutto a strati). A pilu, a pelo, senza sella: Ubaldu s’imperrat su cuaddu a p. e ddu fait cùrriri a funi feti (Ubaldo inforca il cavallo a pelo e lo fa correre tenendolo solo per la fune). A pilus curtzus, con i capelli corti: fui ’e di ora chene biri a Ninu: imoi est a p. c. (da tempo non vedevo Nino, ora ha i capelli corti). Vedi incurtzai. Esistono, ovviamente, anche le locuzioni a pilus longus (con i capelli lunghi) e a pilus segaus (con i capelli tagliati di fresco).Vedi incurtzai. A pinneddu, in presenza e attesa costante: est sempir igui a p. (è sempre lì in attesa). A pinnigu, a poca distanza in stato di immobilità: Su cüaddu? Tanti giai est a pinnigu (Il cavallo? Chissà dove sarà mai, lett. non è qui pronto per essere preso, pinnigau). La loc. avv. si usa quasi esclusiva- Mancarìas. La parlata di Seui mente in senso antifrastico. Vedi pinnigai. A pisciadura, a mo’ di pisciata: at abbau s’ortu a p. (ha innaffiato l’orto come se stesse facendo pipì, ossia alla meno peggio).Vedi pisciai. A pisi/a pisi a pisi, a stento, in extremis (la loc. è più spesso reiterata che semplice): Maria non tratat mancu cun in sorrestas, a p. su saludu (Maria non ha relazioni nemmeno con le cugine, a stento si scambiano il saluto), a p. a p. nc’est arrennéscïu a ndi torrai sanu (è riuscito a salvarsi a stento). A pissu, addosso, sopra: nde dd’est andau a p. (gli è andato addosso), ndi ’enit totu a p. miu (ricade tutto su di me). A postissu, in modo posticcio: est una prenda de a p. (è un gioiello posticcio). A prageri, a piacere: o ddu fais a p. o no ddu fais po nudda (o lo fai a tuo piacere o non lo fai proprio). A prandidura, a sazietà: de presutu mi nd’apu papau a p. (prosciutto ne ho mangiato a sazietà). Vedi pràndiri. A prangius prangionis, da un festino all’altro: est sempir a p. p. (va di festino in festino). A prima, in discordia: funt a p. (sono in discordia). Vedi aprimai/ aprimàisi. Questo primo stadio comporta l’esclusione del saluto. Quando il dissidio è grave si precisa: funt a p. ’e morti (tra di 31 loro c’è inimicizia mortale). A primu noti, nelle prime ore della notte: a p. n. no apu ’ormìu nudda (nelle prime ore della notte non ho chiuso occhio). A prumu, a piombo, a posto: chi non cöidas, cussu ti ponit a p. (se non ti sbrighi, quello lì ti sistema per le feste). A pùinis prenus, a piene mani: non cretas chi ti ndi ongiat a p. p. (non credere che te ne dia a piene mani). Vedi préniri. A punnigosus, a pugni: s’est cravau a p. (ha litigato facendo a pugni). A puntas, con dolori acuti: candu papu cugùmini mi pigat a p. (quando mangio cetrioli mi vengono le coliche). Vedi pùngiri. A purdïadura, come se fosse marcito: chi ddu lassas in foras cussu limoni si fait a p. (se lo lasci all’aperto quei limoni marciranno). Vedi purdïàisi. A pusti, dopo, in seguito: cras a p. prangiu ’esseus a su monti (domani dopo pranzo andremo in campagna). A pusti mortu cominigau, dopo morto, comunicato, nel senso di un’azione inutile, come dare la comunione a un morto. Vedi mórriri e cominigai. La loc. si usa per rimarcare l’inutilità assoluta di un determinato intervento. A rasu, a raso: pani e casu e binu a r. (pane a formaggio e vino a raso). Vedi 32 arrasai. A s’antiga, all’antica: in bidda costumaus fàiri a s’a. (in paese siamo avvezzi ad agire secondo tradizione). A s’andechibbeni, in via-vai: Linu bivit sempir a s’a. (Lino vive in continuo via-vai). A s’andetorra, tra rientri e ripartenze: de candu est abarrau solu, Franciscu est a s’a. de Germania a bidda (da quando è rimasto solo, Francesco va e viene dalla Germania al paese). A sa bona, alla buona: eus arrangiau totu a sa b. (abbiamo sistemato tutto alla buona). A sa crabitina, come si fa con i capretti (modo di dire gergale di pastori e macellai che contrattano la carne pesando gli animali senza scuoiarli, come con i capretti): is angionis ddus apu ’éndïus a s. c. (gli agnelli li ho venduti senza averli scuoiati). A sa faci, dal viso, dall’aspetto: a sa f. parit malàidu (dal colorito sembra malato). A sa fidada, inaspettatamente: nde ddi soi andau a sa f. e m’at tìmïu (gli sono andato vicino inaspettatamente e lui ha avuto paura di me). Vedi fidai/ fidàisi. A sa (i)mbessi, alla rovescia: Linu fait sempir is cosas a sa ’m. (Lino fa sempre le cose alla rovescia). A säinadura, mediante scuotimento: sa pira nde dd’at boddia a s. (ha raccolto le pere scuotendo l’albero). PAOLO PILLONCA A sa lestra, alla svelta: Franciscu oi in corti si dd’at pigada a sa lestra, si bit ca teniat pressi, pariat unu lampu (oggi Francesco nella mandra l’ha presa alla svelta, evidentemente aveva fretta, sembrava un fulmine). Vedi, sopra, a lestru. A sa mata, alla latitanza: timendu a dd’acapiai, Lüisu s’est (pr. er) donau a s. m. (per paura di essere arrestato, Luigi si è dato alla latitanza). A sa mirada, dallo sguardo: est (pr. er) nodìu a sa m. (è riconoscibile dallo sguardo). Vedi mirai. A sangradura, a mo’ di salasso: meglius a no ddu-i ténniri e ita biri cun cussu ca ti fait a s. (meglio non avere a che fare con quel tizio perché ti salassa). Vedi sangrai. A sa parti, prego, favorisci (risposta rituale all’ospite che entrando in una casa e trovando tutti a tavola augura buon appetito). A sàrtidus, a saltelli: est sempir a s. (cammina sempre a saltelli). Vedi sartai. A sa schiscionera, in umido con l’uso di padelle e/o tegami (denominazione comune ai piatti di carne, pesce e patate preparati con olio e acqua): apu cotu unu lépuri a s. s. (ho cucinato una lepre in umido). A sa sighia, senza soluzione di continuità: fut proendu a s. s. (pioveva ininterrottamente). Vedi sighiri. A séberu, a scelta: is crabas Mancarìas. La parlata di Seui mi ddas at bèndïas totu a s. (le capre me le ha vendute tutte a mia scelta). Vedi seberai. A sibbïadura, con forza (detto di una chiusura di porte o altro): deu sa cascia dda serru a s. in donnia (io la cassa la richiudo sempre ermeticamente). Veddi sibbïai. A sighidura, in seguito: a innanti est erribbau Franciscu, Antoni at fatu a s. (prima è arrivato Francesco, Antonio è arrivato in seguito). Vedi sighiri. A solu, da solo: soi dépïu andai a s. a cicai is crabas chi mi mancànt (son dovuto andare da solo a cercare le capre che mi mancavano). Vedi assolàisi. A sucadura, mediante sollecitazione verbale (detto del bestiame manso e della selvaggina): suca su molenti (sollecita l’asino), is sirbonis ddus eus fatus a s. (i cinghiali abbiamo cercato di scovarli sollecitandoli a urla). Vedi sucai. A su fragu: dall’odore: dd’apu connotu a s. f. (l’ho riconosciuto dall’odore), detto della carne macellata, dei fiori, etc. Scherzosamente anche delle persone. Vedi fragai. A suladura, mediante soffiata ripetuta: su caféu ddu sfridu a s. (il caffè lo raffreddo soffiandovi ripetutamente). A su mancu, almeno: non nau totu, ma ’onamindi a su mancu sa metadi (non dico tutto, ma dammene 33 almeno la metà). A su noti, nottetempo: margiani ’essit sempir a s. n. (la volpe esce sempre di notte). A surbidura, per aspirazione: su cafeu nce ddu fait a s. (il caffe lo beve per aspirazione). Vedi surbiri. A surcu, al posto giusto (lett. al solco): bai ca giai ti facu torrai a s. (stai tranquillo, ti farò tornare al tuo posto). Vedi assurcai, surcai. A s’ùrtim’ora, all’ultimo momento, in extremis: no iscìu e poita no mi ’onas tempus e mi naras is cosas sempir a s’u. o. (non so perché non mi dài tempo e mi dici le cose sempre in extremis). A su sonu, dal rumore: dd’apu connotu a s. s. (l’ho riconosciuto dal rumore). Vedi sonai. A susu, nella parte superiore: nci soi dépïu ’essìri a s. ca in coili ’e ïerru non faiat prus a ddu abarrai a su calori (sono dovuto salire perché nell’ovile invernale non si poteva più stare per il caldo). A suta/asuta, di sotto, nella parte inferiore, giù: Antoni fut in pissu, Lüisu binti o trinta metrus a s. (Antonio era nella parte superiore, Luigi venti o trenta metri più giù). A tachedda, a credito, facendo segnare il debito su un libretto con un segno che somiglia a un’incisione (vedi tachedda): Fulanu còmporat a t. (Fulano acquista a credito). Vedi tacheddai. 34 A tempus, a tempo debito: sa tundimenta no est a dìs stóbbilis, dónnïa annu ’olit fata a t. (la tosatura non ha date fisse, ogni anno deve essere fatta a tempo debito, ossia secondo l’andamento della stagione). A tempus e a logu, a tempo e luogo: dónnia cosa ’olit fata a t. e a l. (ogni cosa va fatta a tempo e luogo). A tempus pérdïu, a tempo perso: is crogaglius de corru ’e mascu ’e murva e is crocorigas si faint a t. p. (i cucchiai di corno di muflone e i contenitori di zucca si fanno a tempo perso). Vedi pérdiri, crocoriga e crogagliu. A tempus scaréscïu, fuori tempo massimo (lett. a tempo dimenticato): a t. s. si torrant a cöiai is fïudas puru ( quando il tempo giusto è passato anche le vedono possono rimaritarsi). Vedi scarèsciri. A tenori, a tenore (canto millenario a quattro voci, un solista e tre coristi, senza alcuno strumento): cuddu piciocu cantat beni a t. (quel ragazzo canta bene a tenore). Sulla base di, secondo quanto: a t. de su chi mi narat dd’arrespundu (sulla base di quanto mi dirà gli risponderò). A timidura, con soggezione simile a paura: a su dotori ddi facu a t. (il medico mi incute una sorta di paura). Vedi tìmiri. A tira, a traino, per trascinamento: dd’at pigau PAOLO PILLONCA a t. po binti metrus (l’ha trascinato per venti metri). La loc. si reitera spesso: a tira-tira. Vedi tirai. A titifrius, con brividi di freddo: eriseru m’est pigau a t. e non cumprendu poita (ieri ho avuto un attacco di brividi di freddo e non capisco perché). A totorgius, con trabochetti: Antoni est sempir a t. (Antonio si rifugia sempre nei trabocchetti). Vedi totorgiai. A totu bufai, bevendo senza sosta: Arremundu fut bufendu a t. b. (Raimondo beveva di continuo). A totu fua, correndo all’impazzata: dd’apu ’idu currendu a t. f. (l’ho visto fuggire all’impazzata). Vedi fuiri. A totu ’ormiri, in un sonno totale: notesta passada apu ’ormìu a t. ’o. (la notte scorsa ho dormito senza svegliarmi una sola volta). A totu pigai, comprando senza misura: ddu bis ch’est pighendu a t. p. (lo vedi che compra a tutto spiano). A trabbagliu, a fatica: a bìnciri su tempus malu de ocannu t’at a bénniri a t. (superare il tempo sfavorevole di quest’anno ti costerà fatica), dd’apu fatu a t. (l’ho fatto a fatica). A träitorìa, a tradimento: dd’at bocìu a t. (l’ha ucciso a tradimento). Vedi träìgiri. A trassa, a trappola, a tranello: non mi pragint is chi faint totu a t. (non mi piacciono quelli che Mancarìas. La parlata di Seui ricorrono sempre alla frode). Vedi trassai. A trémula, con un tremito: comenti dda biu mi pigat a t. (appena la vedo mi viene un tremito). Vedi trémiri. A tresinadura, a grattugia: soi orrutu a pesu mortu e s’orrutorgia m’at fatu una coscia a t. (sono caduto e il colpo mi ha provocato larghe escoriazioni a una coscia). Vedi tresinai. A tretu, a tiro: lassa chi mi ’engiat a tretu e as a biri (lascia che mi càpiti a tiro e vedrai). A tretus, a tratti: in padenti a t. si bit chelegunu landi (nel bosco a tratti si vede qualche ghianda). A trëuladura/A tréulu, in modo disordinato: Lüisu fait dónnïa cosa a t. (Luigi fa tutto disordinatamente). Vedi trëulai. A trevessu, senza meta, per vie traverse: est andendu a t. (vaga senza meta). Vedi trevessai. A tripaciocu, in disputa continua, ma con riavvicinamenti. Detto di gente che non lega e di persone divise da lunga rivalità: Linu est sempir a t. cun sa pobidda (Lino e la moglie sono in perpetuo contrasto ma si riappacificano spesso). Vedi aciocai e atripai. A trincheteddu ’e cani, a passettini veloci, come i cani: andaiat a t.’e cani (andava a passetti svelti come un cane). A trotu, maldestramente, senza ordine: Pìlimu costumat trabba- 35 gliai a t. (Priamo è solito lavorare maldestramente). A trubu, con turbolenza: s’abba fut calendu a t. (l’acqua scendeva impetuosamente). A trumas, a gruppi: ndi ’enint sempir a t. (arrivano sempre a gruppi), detto di ospiti inattesi e importuni. A trunculimba, con parole spezzate: mancai non s’imbrïaghit, Gisepu füeddat sempir a t. (anche se non si ubriaca, Giuseppe parla sempre a spezzoni, lett. come se avesse la lingua tagliata a metà). Vedi truncai. A tundidura, come una tosatura, a zero: is pilus mi nde ddus apu segaus a t. (mi sono fatto tagliare i capelli a zero) Vedi tùndiri e tundimenta. A tupadura, a tappo: cussa perda dd’apu posta a t. (quella pietra l’ho messa a tappo). Vedi tupai. A turradura, mediante tostatura, come se fosse tostato: ocannu su trigu non balit, su calori dd’at fatu a t. (quest’anno il grano è di scarsa qualità, il caldo l’ha rinsecchito tanto da farlo sembrare tostato). Vedi turrai. A unda, a onda: ndi funt erribbaus a u. (sono sopraggiunti come un’onda). A unu a unu, uno per volta: ddus at bòfïus chistionai a u. a u. (li ha voluti sentire uno per uno). Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire che esistono e sono molto 36 usate anche le locuzioni a dus a dus (a due a due), a tres a tres (a tre a tre), etc. A urdi, come un otre: a piciocu Linu fut langiu, imoi s’est fatu a u. (da ragazzo Lino era magro, ora sembra un otre). A urrendidura, con eccessiva magrezza: a-i cussu crabu dd’est pigau a u. (quel caprone è molto dimagrito). Vedi urréndiri/urréndirisi. A ùrtimu, alla fine: a innanti at nau unu muntoni ’e sciollórïus, ma a ù. s’est abbonau a pagai is ispesas (prima ha detto un mucchio di sciocchezze, ma alla fine ha accettato di pagare le spese). A usus e costumus, secondo tradizione: in bidda feus a u. e c. (nel paese ci si regola secondo tradizione). A zeru, alla miseria: dd’at torrau a z. (l’ha ridotto in miseria). A zinzonadura/a zinzoni, come su un’altalena: in sa cadira si moviat a z. (sulla sedia si muoveva come su un’altalena). Talvolta anche con met. erotica. Vedi zinzonai. A zonzu, a spasso: certus mancai ddus cichis a trabbagliai no ddu andant: ddis pragit de prus a abarrai a z. (certuni, anche se tu li chiami per lavorare, non ci vanno: preferiscono rimanere a spasso). A zùmïu, con un sibilo: sa purdedda dd’at sucada a z. (ha incitato la puledra con un sibilo). Vedi zumïai. PAOLO PILLONCA Abambïadura, s. f. Perdita di sapore. Abambïai, v. Rendere insipido. Vedi bambu. Abambïau/ada, Reso/a insipido/a. Abarrai, v. Restare, rimanere. Non boliat a. ma defatu giai nos at postu menti (non voleva restare ma poi ci ha dato retta). Fermarsi. Abarra firmu igui (férmati lì). Lasciarsi prendere. Cuss’ebba non m’abarrat (quella cavalla non si lascia prendere da me). Avanzare, nel senso di salvarsi da eventi negativi. Dinari nd’at pérdïu ma giai nde dd’at abarrau puru (ha perduto del denaro, ma qualcosa gli è avanzato). Adeguarsi. Bennardu abarrat a su chi ddi fait sa pobidda (Bernardo si adegua a ciò che decide la moglie). Nella forma rifl. vale: star fermo, senza fare alcuno sforzo. Abarradì a chïetu (resta calmo). Abarrau/ada, agg. Rimasto/a. Soi a. po cumpragèntzïa (sono rimasto per un atto di cortesia), est a. agoa (è rimasto indietro). Abba, s. f. Acqua. Una delle ricchezze fondamentali della comunità di Seui e una delle sue caratteristiche imprescindibili, oltre che unanimemente invidiate nella zona e non solo, per la grande abbondanza di questo bene che ha Mancarìas. La parlata di Seui permesso - fra l’altro - al Comune, fin dai primordi del servizio pubblico, di gestire la risorsa acqua potabile in piena autonomia e a basso costo per gli utenti. L’acqua piovana determina in buona parte il buono e il cattivo andamento delle annate agropastorali, quella delle fonti supplisce alle necessità nelle stagioni siccitose. Bene vitale, dunque, e perciò stesso legato a un universo di saperi materiali e immateriali di profonda suggestione e di enorme valenza antropologica. L’acqua è utilizzata in parecchi rituali di medicina empirica e nelle terapie magico-sacrali. Quella benedetta della liturgia cristiana si chiama abbasanta. Ma si può dire che per la comunità seuese, soprattutto per chi lavora in campagna, l’acqua sia sempre da considerare sacra, quella piovana innanzi tutto: Seui non ha campagne irrigate artificialmente. Il s. dà luogo a vari composti: abbanì (nevischio, lett. acqua mista a neve), abbameli (bibita di acqua e miele), abbardenti (acquavite), abbanasu (goccioline al naso, lett. acqua di naso, segno di raffreddore), abbasantera (acquasantiera). Frequente nei traslati: est una crobetura ’e duas abbas (è un tetto a due acque, doppiogiochista), po 37 torrai insegus de s’a. arta meglius de sa bascia (meglio indietreggiare dall’acqua bassa che da quella alta), non donat manc’a. a cani (non dà nemmeno acqua ai cani), per dire di una persona avarissima. Nei rituali magici in occasione di lunghe siccità occorreva ”slegare” l’acqua ”legata” da qualche fattucchiera. Si tentava allora di riottenere il beneficio dell’acqua piovana con rituali appositi non sempre riferiti all’ortodossia cristiana della preghiera ad petendam pluviam ma spesso basati sull’utilizzo dei formulari immutabili delle parole degli abrebus, i verba prohibita tramandati dal popolo. Vedi acapïai e scapïai. Nella parlata delle giovani generazioni convive parzialmente con la forma più prettamente meridionale acüa. Abbabbalucadura, s. f. Stordimento, perdita di percezione. Abbabbalucai(si), v. Rendere/rendersi stupido, perdere padronanza di sé. Feti su castïai una piccioca dd’abbabbalucat (solo il guardare una ragazza lo stordisce). Abbabbalucau/ada, agg. Stordito/a, scimunito/a. Abbabbuciàisi, v. Ridursi in pantofole, restringersi alla dimensione domestica, isolarsi dalle antiche amicizie. Linu at cöidau a 38 s’a. (Lino è diventato un pantofolaio precoce). Vedi babbucia. Abbabbuciamentu, s. m. Ritiro a vita privata, riduzione in pantofole. Abbabbuciau/ada, agg. Impantofolato/a, chiuso/a in casa. Abbadorgiu, s. m. Abbeveratoio, innaffiatoio. Anche in senso fig. ad indicare un luogo ricco di risorse. Abbadura, s. f. Abbeverata, innaffiamento. Abbai, v. Innaffiare. Cras abbu s’ortu (domani innaffierò l’orto). Abbeverare il bestiame. Is crabas soi abbendudeddas duas (pr. duar) bortas sa dì (abbevero le capre due volte al giorno). Riempire d’acqua, in senso fig. Linu portat su ciorbeddu abbau (Lino ha il cervello pieno d’acqua). Nelle giovani generazioni convive con acüai. Abbameli, s. f. Bibita di miele sciolto in acqua. Abbanasu, s. f. Irritazione delle mucose nasali, inizio di raffreddore. Abbandonai, v. Abbandonare, lasciare, dismettere. Sarbadori nc’est arrennéscïu a a. su vìtzïu ’e fumai (Salvatore è riuscito a lasciare il vizio del fumo). Abbandonau/ada, agg. Abbandonato/a, trascurato/a, dismesso/a. In sa Piramela ddu at cheleguna ’ingia a. (a Sa Piramela c’è PAOLO PILLONCA qualche vigna dismessa). Abbangiadura, s. f. Infradiciamento, in rif. soprattutto ai bambini. Abbangiai(si), v. Bagnarsi, con campo semantico ristretto e riferito, per lo più, ai bambini che si bagnano giocando con l’acqua. Al riflessivo vale: infradiciarsi. Candu allachitat, su pipìu s’abbangiat de conca finas a peis (quando gioca con l’acqua, il bambino si bagna dalla testa fino ai piedi). Abbangiau/ada, agg. Bagnato/a, infradiciato/a. Abbanì, s. f. Nevischio. Est (pron. er) betendu a. (cade del nevischio). Abbardenti/acüardenti, s. f. Acquavite. S’intende soprattutto da vinacce (a Seui è stata sempre ed è ancora rara la distillazione da vino). Abbasanta, s. f. Acqua benedetta. Abbasantera, s. f. Acquasantiera. Abbasciada, s. f. Abbassamento, discesa. Abbasciai, v. Abbassare. Abbascia sa crista (abbassa la cresta). Il contrario è artzai/ artzïai. Nella forma rifl. vale: umiliarsi, accettare condizioni. Abbasciamentu, s. m. Diminuzione, abbassamento. Abbasciau/ada, agg. Abbassato/a. Giüanni s’est abbasciau a Mancarìas. La parlata di Seui domandai perdonu a su peus (pron. peur) de sa ’idda (Giovanni si è ridotto a chiedere perdono all’elemento peggiore del paese). Abbastai, v. Arrivare a. Cussa pira nc’est in artu, no ddu abbastu (quella pera è troppo in alto, non ci arrivo). Essere sufficiente, riuscire. Antoni no abbastat a totu (Antonio non riesce a fare tutto). Abbatimentu, s. m. Depressione, scoraggiamento. Abbàtiri(si), v. Deprimere, deprimersi, scoraggiarsi, perdere fiducia in sé stessi. Su calori dd’abbatit (il caldo lo deprime), Antoni s’abbatit po una cosigedda ’e nudda (Antonio si deprime per un’inezia). Abbàtïu/a, agg. Depresso/a, abbattuto/a. M’est partu a. (mi è sembrato depresso). Abbau/ada, agg. Bagnato/a, pieno/a d’acqua, irrigato/a, innaffiato/a, abbeverato/a. Is angionis ddus apu abbaus custu mengianu (gli agnelli li ho abbeverati stamattina). Vedi abbai. Abbebberruciàisi, v. Rivoltarsi contro. Candu su babbu ddi narat una cosa Ada si dd’abbebberruciat che pìbera (quando il padre le dice qualcosa Ada gli si rivolta contro come una vipera). Abbebberruciau/ada, agg. Ribellato/a con forza, rivoltato/a. 39 Abbecada, s. f. Inizio. Abbecai, v. Iniziare. Dd’abbecat a cropus (inizia a colpirlo). Abbecau/ada, agg. Iniziato/a Abbellimentu, s. m. Abbellimento, migliorìa. Abbelliri, v. Ornare, abbellire. Si riferisce a cose, mai a persone. Dónnïa tanti Maria si ponit a a. sa ’omu (ogni tanto Maria decide di abbellire la sua casa).Vedi imbelliri, rif. a persone. Abbelliu/a, agg. Abbellito/a, migliorato/a, ornato/a. Abbétïa, s. f. Insistenza nel sostenere le proprie ragioni, anche a torto. Testardaggine. Ndi portat de a., Emìliu (ne ha di testardaggine, Emilio). Abbetïai, v. Insistere nell’opporsi alle argomentazioni altrui, intestardirsi troppo nel replicare. Cando si dd’arrefaciu abbètïat ca non dd’at fatu (quando glielo rinfaccio insiste nel negare di averlo commesso). Abbetïau/ada, agg. Insistito/a, replicato/a. Abbetïosu/a, agg. Prepotente, testardo/a, cocciuto/a. Àbbila, s. f. Aquila reale (aquila chrysaetos). La regina degli uccelli predatori, per secoli e tuttora temuta, da chi alleva bestiame minuto. Per difendersene i pastori 40 ricorrevano - e talvolta ricorrono ancora, nonostante le smentite perfino agli scongiuri. Acapïai s’a. (legare l’aquila), rendendola imbelle e dunque inoffensiva con la forza delle parole proibite, è stata storicamente una delle preoccupazioni forti degli allevatori della montagna nella stagione delle nascite di agnelli e capretti. Per riuscire nell’intento, oltre che nelle fucilate, ci si rifugiava nei rimedi magici delle donne abrebadoras e talvolta anche di qualche sacerdote. Una di queste formule dice: Abbìla abbìla/ a peis tira-tira/ a peis ti pongiu a moddi/ e ti facas de foddi/ de foddi ’e orcïada:/ bai in ora mala. La si doveva recitare all’alba con i piedi immersi nella corrente di un fiume e non si doveva più rubare bestiame, pena la perdita di efficacia della formula rituale. Simbolo di rapidità nel calarsi, è utilizzata nelle similitudini e nelle metafore: si ’etat che à. (si lancia come un’aquila). Lestru? Un’à. (Veloce? Un’aquila). Abbilastu, s. m. Aquilotto. In senso fig. giovane ladro veloce nel rubare. Àbbili, agg. Intelligente, abile. Un’ómini à. è l’opposto di un’ómini càdumu (lento, poco intuitivo, deficiente). Abbilidadi, s. f. Intelligenza, PAOLO PILLONCA abilità, intuito. Il contrario di cadumèntzïa (vedi). Si bit sa bella a. (si vede che intuisce al volo le cose da fare). Abbilitosu/a, agg. Dotato/a di abilità, ma non proprio pienamente àbbili. Abbis-abbis, loc. avv. Né cotta né cruda, intrisa di liquido, acquosa. Costantemente reiterata, indica soprattutto lo stato mediano di cottura di un arrosto di carne bovina. Abbisongiai, v. Avere necessità. Vedi bisongiai e derivati. Abbisongiu, s. m. Necessità, bisogno, stato di precarietà. Vedi bisongiu. Abbitüai, v. Abituare. Abbitüau/ada, agg. Abituato/a. Abbitùdini, s. f. Abitudine, consuetudine. Abbonai, v. Ammettere, riconoscere, accettare. Custu ti dd’abbonu, ma non mi chistïonis de atras cosas (questo te lo ammetto, ma non parlarmi di altre cose), de totu su chi ddi naras non ti nd’abbonat nudda (di tutto ciò che gli dici non ti accetta nulla). Abbonamentu, s. m. Accettazione, ammissione. Abbonamentu, s. m. Contratto non scritto tra medici e pazienti, in uso fino all’avvento dell’assi- Mancarìas. La parlata di Seui stenza sanitaria gratuita, per il pagamento in natura (grano, formaggio, carne, etc.) delle prestazioni. Abbonau/ada, agg. Ammesso/a, accettato/a, riconosciuto/a. Abbovadura, s. f. Inganno. Ma indica anche lo stato d’animo di chi rimane vittima dell’inganno, uno stato confusionale. Usato in loc. avv. Antoni est fatu a a. (Antonio è come frastornato). Abbovai, v. Ingannare scioccamente, frastornare. Non m’abbovas (non mi inganni). Esiste anche la variante imbovai. Vedi bovu. Abbovau/ada, agg. Ingannato/a, frastornato/a, rincitrullito/a, poco attento/a, facile da raggirare. Esiste anche la variante imbovau/ada. Abbramiri, v. Desiderare fortemente, bramare. Desueto. Abbramìu/a, agg. Bramoso/a. Abbrandadura, s. f. Lenimento, diminuzione. Abbrandai, v. Lenire, diminuire, attenuare, calmarsi. Detto dei dolori fisici e di quelli spirituali. Custa mëigina m’abbrandat su dolori ’e conca (questo farmaco mi lenisce il mal di testa), ddu at dolori chi no abbrandat mai (esistono dolori che non si possono mai lenire). Lo si usa anche per indicare fenomeni atmosferici: su ’entu at abbrandau 41 (il vento è diminuito), as a biri ca comenti fùrrïat sa luna su frius abbrandat (vedrai che, come gira la luna, il freddo si attenuerà). Abbrandau/ada, agg. Lenito/a, calmato/a, diminuito/a. Abbrovendadura, s. f. Alimentazione del bestiame grosso. Abbrovendai, v. Dar da mangiare al bestiame grosso (buoi e cavalli) in stalla. Is cüaddus bolint abbrovendaus a vena puru (i cavalli debbono essere nutriti anche con l’avena).Vedi brovenda. Abbrovendau/ada, agg. Accudito/a, ben nutrito. Detto del bestiame ben tenuto. Abbrugiadura, s. f. Ustione, bruciatura. Abbrugiai, v. Bruciare, incendiare, dare fuoco. Riferito a qualunque cosa, oltre che alle persone. Molto usato al part. pass. (abbrugiau/ada) come imprecazione tanto reiterata da aver ormai attenuato di molto il senso originario: a. sias (che tu possa bruciare), oppure semplicemente a. Abbrugiau/ada, agg. Bruciato/a, percorso/a dal fuoco. Abbrugiori, s. m. Bruciore. Anche in senso fig. Abbubbullucadura, s. f. Formazione di pustole. Abbubbullucai, v. Riempire di 42 pustole. Est totu abbubbullucau (è pieno di pustole). Vedi bubbulluca. Abbubbullucau/ada, agg. Pieno/a di pustole. Abbumbadura, s. f. Pinguedine di origine sospetta, gonfiore permanente al limite della patologia. Usato anche in loc. avv. Abbumbàisi, v. Diventare pingue, di una pinguedine fatta di gonfiore patologico. Mi paris abbumbendudì (mi sembri troppo gonfio). Abbumbau/ada, agg. Eccessivamente gonfio. Abbundai, v. Abbondare. Presente in un prov.: aradu no afundat, trigu no abbundat (l’aratro non affonda, il grano non abbonda). Desueto. Abbundanti/bundanti, agg. Copioso/a, abbondante. Abbundàntzïa, s. f. Abbondanza, benessere. Abbungiadura, s. f. Ammaccatura, edema. Rif. a oggetti metallici ma anche a parti del corpo umano. Abbungiai, v. Ammaccare. T’at abbungiau sa moto (ti ha ammaccato la moto). Tumefare. M’apu abbungiau sa conca (ho un bitorzolo in testa). Il dev. è bungiu. Abbungiau/ada, agg. Ammaccato/a, pieno/a di bitorzoli. Abburricai(si), v. Diventare si- PAOLO PILLONCA mile all’asino. Candu abbètïat meda s’abburricat (quando si intestardisce troppo somiglia all’asino). Vedi burricu. Abburricamentu, s. m. Somiglianza con l’asino, testardaggine eccessiva. Abburricau/ada, agg. Reso/a simile all’asino. Est totu a. (ragiona proprio da asino). Vedi amolentau. Abburtzadura, s. f. Controllo del polso. Abburtzai, v. Tastare il polso. Gergale della medicina.Vedi burtzu. Comenti dd’at aburtzau, su dotori at cumpréndïu ca Antoni non teniat nudda (appena gli ha tastato il polso, il medico ha capito che Antonio non aveva nulla). Abbusai, v. Abusare. Ma è un superstrato. Abbusu è il dev. ma per l’it. abusare il verbo più consono della parlata di Seui è profitàisi. Abbusau/ada, agg. Abusato/a. Abbuscadura, s. f. Abbrostitura del maiale. Abbuscai, v. Abbrostire il maiale, utilizzando il fuoco tradizionale o la fiamma del gas per eliminare la copertura di setole e peli. Cicu sa linna po a. su procu (cerco la legna per abbrostire il maiale). Abbuscau/ada, agg. Abbrostito/a. Abbusu, s. m. Abuso, sopraffa- Mancarìas. La parlata di Seui zione, sopruso. Abelïai, v. Far impazzire, scombussolare, portare al limite della sopportazione. Linu m’abèlïat sa conca (Lino mi sconvolge la testa). Il rifl. è abelïàisi (impazzire). Abelïau/ada, agg. Pazzo/a, fuori di sé. Abélïu, s. m. Fissazione, chiodo fisso, mania. Est de di ora cun cuss’a. (da tempo ha quel chiodo fisso). Abenadura, s. f. Riempimento delle falde acquifere. Abenai, v. Il riempirsi delle falde acquifere fino a far sgorgare copiosamente anche le fontane languenti. Cun totu cuss’abba is funtanas torrant a a. (con tutte quelle piogge le fontane torneranno a dare acqua abbondante). Abenassai, v. Impaludare, formare acquitrini. Vedi benassu/’enassu. Abenassau/ada, agg. Impaludato/a, acquitrinoso/a, fangoso/a. Abenau/ada, agg. Riempito/a d’acqua. Detto delle fontane. Abentadura, s. f. Inebetimento, stupore. Abentai(si), v. Stupire/stupirsi, inebetire/inebetirsi. Abentamentu, s. m. Avventatezza, istupidimento. Abentau/ada, agg. Inebetito/a, sbalordito/a, sconsiderato/a. Aberidura/oberidura, s. f. Aper- 43 tura. Vedi oberidura. Aberimentu/oberimentu, s. m. Creazione di apertura, in senso reale e fig. Vedi oberimentu. Abèrriri, v. Aprire. Vedi obèrriri. Abertu/a, agg. Aperto/a. Vedi obertu. Abertura, s. f. Apertura, ingresso. Vedi obertura. Aberu, avv. Davvero, veramente. Un sinonimo, sempre avverbiale, è de veras. Abèsciri, v. Alimentare. Abesci su fogu (alimenta il fuoco). Desueto. Abi, s. f. Ape. Una delle maggiori ricchezze potenziali e reali della comunità per la grande abbondanza di erbe, fiori, arbusti e alberi adatti alla produzione del miele nel territorio di Seui, dal timo serpillo ai corbezzoli e ai castagni. In senso fig. donna vivace, grintosa e aggressiva. Est che a. (è come un’ape). Abïargiu, s. m. Apicoltore. Abimäista, s. f. Ape regina. In senso fig. donna leader, grintosa e intraprendente. Abinai, v. Impregnare di vino (binu). Si dice di un contenitore ligneo, ma non solo, che sia stato usato esclusivamente per il vino. Ironicamente si può anche riferire alle persone che amano bere vino e ne restano come impregnate a tempo indeterminato. 44 Abinamentu, s. m. Sentore di vino. Abinau/ada, agg. Impregnato/a, che ha sentore di vino. Detto, come per il verbo, dei contenitori: cussa cubedda est a. (quel barilotto ha sentore di vino). Ma in senso ir. si usa anche rif. alle persone che amano bere in eccesso. Ninu est a. (Nino ha sentore di vino). Abïoi, s. m. Calabrone. Registrato anche come soprannome. Abistu/a, agg. Perspicace, sveglio/a, pronto/a di riflessi, intuitivo/a. Abogau, s. m. Avvocato, difensore. Anche in senso ir. e/o antifrastico. Bell’a. t’as cicau (bell’avvocato ti sei scelto). Aboginai, v. Gridare, urlare. Mancai abóginis, deu non ti timu (anche se urli, io non ho paura di te), apu dépïu a. ca non boliat pónniri menti (ho dovuto urlare perché non voleva ubbidire), m’at aboginau (ha gridato contro di me). Vedi bogi. Aboginau/ada, agg. Gridato/a. Abrabïada, s. f. Taglio di barba. Abrabïadura, s. f. Sbarbamento. Abrabïai(si), v. Sbarbare, sbarbarsi. S’abrabïat dónnïa dì (si taglia la barba tutti i giorni), mi soi abrabïau custu mengianu (mi sono sbarbato stamattina). Ma il dev. PAOLO PILLONCA non fa registrare fenomeni fonetici particolari. Il part. pass. è abrabïau.Vedi arba. Abrabïau/ada, agg. Sbarbato/a. Abrebadora, s. f. Donna pratica nel recitare scongiuri, con le parole cristallizzate e immutabili nel tempo delle formule magico-religiose. L’immutabilità del formulario è comunemente ritenuta una condizione essenziale al buon esito della preghiera, anche quando chi la recita non la comprende più appieno, come diceva Quintiliano del Carmen Saliare, le cui parole erano vix sacerdotibus suis satis intellecta, a stento comprese dai sacerdoti stessi che le pronunciavano. Abrebadoras coment’e Maria in bidda no nci nd’apu connotu mai (non ho mai conosciuto in paese donne che sapessero fare gli scongiuri come Maria). Abrebai, v. Pronunciare scongiuri, indirizzandoli - in sua presenza, ma non sempre e non necessariamente - a un malato da curare con le parole oppure recitandoli secondo il rituale previsto per altri scopi, come ad es. quello di guarire a distanza un animale colpito da determinate infezioni. Chi t’abrebat tzia Maria ti nde ddu leat su ferimentu ’i ogu (se la zia Maria recita scongiuri per te, ti Mancarìas. La parlata di Seui toglierà il malocchio). Abrebau/ada, agg. Curato/a con le parole rituali degli scongiuri. Abrebu, s. m. Scongiuro. Il verbum prohibitum dei riti magicoreligiosi. Abrebulïai, v. Parlare a bassa voce e confusamente come quando si pronunciano gli scongiuri. E ita totu ses abrebulïendu? (che vai mormorando?). Abrebulïau/ada, agg. Sussurrato/a confusamente. Abrebùlïu, s. m. Mormorio, frase sconnessa. Est sempir a abrebùlïus e caduméntzïas (mormora sempre frasi sconnesse e sciocchezze). Abruncadura, s. f. Risposta a muso duro, replica secca, contestazione ferma. Abruncai, v. Rispondere a muso (bruncu/’runcu) duro, replicare secco, contestare con fermezza. Dd’abruncat comenti ddi menescit (lo incalza come merita), bolit a dd’a., aici dd’acabbat (bisogna rispondergli con durezza, così la smette). Abruncau/ada, agg. Contestato/a, affrontato/a con energia. Abuddadura, s. f. Sollevamento. Abuddai, v. Sollevare, portare più in alto. Abudda su pèi (solleva il piede). Anche nel rifl. Abuddadindi (sollévati). Non ti nd’abuddis po 45 lómpiri a s’artària (non sollevarti per raggiungere l’altezza richiesta). Abuddau/ada, agg. Sollevato/a. Acabbadora, s. f. Donna che, secondo una tradizione orale radicata, praticava una sorta di eutanasia ante litteram dando ai malati cronici una morte lieve. Acabbadura, s. f. Fase finale di un lavoro. Acabbai, v. Smettere. Acabbadda (smettila). Terminare. No iscìu e candu ap’a pòdiri a. cussu trabbagliu (non so quando potrò terminare quel lavoro). Concludere. Custa chistïoni no acabbat (questa faccenda non si conclude). Finire un moribondo, dargli il colpo di grazia. Dd’at acabbau (gli ha dato il colpo di grazia). Acabbamentu, s. m. Accordo finale, conclusione positiva. A s’acabbamentu ’e sa coïa de Franciscu ddu-i fut su tziu carrali (alla conclusione del fidanzamento di Francesco era presente il fratello del padre, lett. lo zio di carne). Acabbau/ada, agg. Finito/a, concluso/a. Apu cumentzau a is tres e a is ùndigi su trabbagliu non fut a. (ho iniziato alle tre e alle undici il lavoro non era finito). Giustiziato/a. Acabbu, s. m. Fine, conclusione, 46 termine. A s’a. nd’eus a chistïonai (ne riparleremo alla fine). Vedi acabbamentu. Acabidai, v. Raccogliere. Custu est totu su chi nd’apu póssïu a. (questo è tutto ciò che ne ho potuto raccogliere). Anche in senso fig. (riuscire a capire). Mi narat unu muntoni ’e cosas ma nde dd’acàbidu pagu e nudda (mi dice un mucchio di cose ma riesco a capirne poco e niente). Acabidau/ada, agg. Raccolto/a. Acacia, s. f. Robinia (robinia hispida). Come in numerosi altri luoghi, anche a Seui prendono il nome di acacia varie specie del genere robinia, compresa quella che per lunghissimi anni ha fatto bella mostra di sé in molti esemplari nella Piazza Rinaldo Loi, chiamata prassa ’e is acacias ancora oggi che le robinie non ci sono più. Acaglienturada, s. f. Crisi di febbre. Acaglienturài(si), v. Avere la febbre. Soi totu acaglienturendumì (mi sta venendo la febbre). Vedi caglientura. Acaglienturau/ada, agg. Febbricitante. Est tres cidas a. (da tre settimane ha la febbre). Acallelladura, s. f. Prostrazione, sfinimento. Dà luogo alla loc. avv. a a. PAOLO PILLONCA Acallellài(si), v. Prostrarsi per pigrizia, calura o stanchezza. Il s. dev. è callella. Quasi sempre con sottile senso dispregiativo. Chene ddu ’òlliri ddu at dis, in s’istadi, chi unu s’acallellat de veras (senza volerlo ci sono giorni, d’estate, in cui ci si prostra veramente). Acallellamentu, s. m. Prostrazione, sfinimento. Sin. di accallelladura. Acallellau/ada, agg. Prostrato/a. Acanciadura, s. f. Chiusura con gancio. Acanciai, v. Chiudere con un gancio. L’altro dev. - acanciamentu - è usato nel senso di spilorceria, avarizia. Vedi canciu. Acanciamentu, s. m. Avarizia, taccagneria, spilorceria. Uno dei vizi più odiosi agli occhi del sentire comunitario, oggetto di riso e scherno anche in qualche canzone popolare paesana. Praticamente desueto nel suo significato letterale. Acanciau/ada, agg. Avaro/a, spilorcio/a, taccagno/a, tirchio/a. Acanta, avv. Vicino, sul punto di. In senso reale e fig. A. ’e ’omu (vicino a casa), fui a. ’e ddu scùdiri (stavo per picchiarlo). Se reiterata, la voce assume toni di minaccia: la’ ca seus a.-a. (attento, sto per perdere la pazienza). Mancarìas. La parlata di Seui Acantzai, v. Esaudire. Mancai e mi dd’acantzit, Deus, custa pregadoria (vorrei che Dio mi esaudisse questa preghiera). Acantzau/ada, agg. Esaudito/a. Acantzu, s. m. Ascolto, esaudimento, soddisfazione. Acapassàisi, v. Rendersi conto, capacitarsi, comprendere appieno. De totu su chi est sussedendu in su monti no arrennesciu a mi nd’a. (non riesco a rendermi conto di quanto sta succedendo in campagna). Acapassamentu, s. m. Capacitazione, comprensione razionale. Acapassau/ada, agg. Compreso/a, capito/a a fondo. Acapassu, s. m. Comprensione, razionalizzazione, capacitazione. Acapïadura, s. f. Legamento, costrizione. Acapïai, v. Legare con lacci, funi, catene, etc. Acàpïa su cüaddu (lega il cavallo). Arrestare. A Cristolu dd’ant acapïau una pariga ’e ’ortas (Cristoforo è stato arrestato un paio di volte). Ma anche legare fuori dalla materialità di uno strumento, in senso fig. nel gergo magico-religioso: a. s’àbbila (legare magicamente l’aquila, con is abrebus), a. s’abba (legare l’acqua) per dispetto o per maleficio puro e semplice. In direzione 47 contraria, ma sempre in questa sfera, occorreva anche slegare l’acqua piovana, ossia liberare le nuvole, nelle lunghe siccità, con altri rituali specifici e funzionali a ndi scapïai s’abba acapïada (a slegare l’acqua legata da sortilegi). Vedi scapïai. Acapïau/ada, agg. Legato/a, arrestato/a. Anche in senso met. Acàpïu, s. m. Legaccio, laccio, legame, vincolo, costrizione. Ponidì is acàpïus a is crapitas (metti i lacci alle scarpe). Ma il s. indica soprattutto, un sentimento d’amore, una parola data, un giuramento: un legame ritenuto ancora più vincolante di tutte le possibili costrizioni materiali. Est un’a. chi non transit (è un legame ineliminabile). Acarigadori, s. m. Nullafacente, che sta sempre con il naso per aria a guardare gli altri. Acarigai, v. Stare come inebetito, con il naso per aria. Attendere a lungo. Fui totu s’ora acarighendu (sono rimasto a lungo con il naso per aria). Vedi càriga. Acarruciai, v. Trasportare pesi su un carretto. Seu totu su merì acarrucendu perda (è tutta la sera che trasporto pietre su un carretto). Vedi carruciu. Acarruciamentu, s. m. Trasporto mediante carretto. 48 Acarruciau/ada, agg. Trasportato/a su carretto. Achichïadori, s. m. Balbuziente, balbettante. Achichïadura, s. f. Balbuzie. Achichïai, v. Balbettare, chiaramente onomatopeico. De cantu achìchïat mi pigat a dd’aggiudai a ndi ’ogai is füeddus (balbetta tanto che mi viene voglia di aiutarlo a tirar fuori le parole), non ses un’achichïadori, ma chi imoi achìchïas bolit nai ca ses nendu fàulas (non sei un balbuziente, ma se adesso balbetti significa che stai dicendo bugie). Achichïamentu, s. m. Balbettio. Achichïau/ada, agg. Balbettato/a. Achïetadura, s. f. Calmata, rilassamento. Achïetàisi, v. Darsi una calmata, rasserenarsi, star calmi. A primu magliat fogu ma a pagu a pagu s’achïetat (sulle prime sprizza fuoco, ma poi a poco a poco si calma). Usata la loc. a chïetu. Achïetau/ada, agg. Chetato, rasserenato/a. Aciapai, v. Trovare, acchiappare. Soi cichendudeddu ma no arrennesciu a dd’a. (lo sto cercando ma non riesco a trovarlo). Aciapau/ada, agg. Trovato/a. Acinnai, v. Far cenno. PAOLO PILLONCA Acinnïadura, s. f. Movimento che consente di cullare i bimbi. Acinnïai, v. Cullare. Acìnnïa su pipiu (culla il bambino). Acinnïau/ada, agg. Cullato/a. Acinnicai, v. Scuotere. Acinnicau/ada, agg. Scosso/a. Acinnicu, s. m. Scuotimento. Raro. Acìnnïu, s. m. Dondolìo di culla. Acinnu, s.m. Cenno. Aciocai(si), v. Raccogliere, radunare, riunire, riavvicinare/riavvicinarsi. Si usa in riferimento a cose (aciocu unu pagu ’e linna, raccolgo un po’ di legna), ad animali (aciocat is crabas, riunisce le capre) e anche a persone (seus aciochendu genti po nd’irmòrriri su fogu (cerchiamo di raccogliere gente per spegnere l’incendio). Vedi la loc. a tripaciocu. Aciocau/ada, agg. Raccolto/a. Aciocu, s. m. Riunione, raccolta di gente. Aciota, s. f. Frusta di crine di cavallo usata come strumento punitivo familiare. Se la frusta è di pelle bovina viene chiamata zirónïa. Aciotai, v. Colpire con s’aciota e/o s’aciotu. In senso fig. malmenare. Aciotau/ada, agg. Lett. colpito/a con il mazzafrusto. Impreca-zione Mancarìas. La parlata di Seui rivolta a chi pretende troppo ed avanza richieste smodate: a. sias (che tu possa essere frustato) o, più semplicemente, aciotau. Aciotu, s. m. Mazzafrusto, specie di frusta con manico corto e una o più corde di pelle con all’estremità palle di metallo. Acirradura, s. f. Afferramento, presa stretta. Acirrai, v. Afferrare, tenere ben stretto. Acirraddu a petorras, aici non ti podit füiri (afferralo al petto, così non potrà scapparti). Acirrau/ada, agg. Afferrato/a. Acisorgiu, s. m. Maiale di un anno o poco meno, pronto per essere macellato. In log. ’ochisorzu (lett. destinato ad essere ucciso). Singolare risulta la vocale iniziale del s. (a anziché o), dal momento che anche nella sub-variante barbaricina meridionale della lingua sarda il verbo è bociri/’ociri. Aciuciuddài(si), v. Provare freddo intenso, tanto da tremarne. M’aciuciuddu po su frius (tremo per il freddo). Aciuciuddamentu, s. m. Sensazione di freddo intenso accompagnata da brividi e/o tremore. Aciuciuddau/ada, agg. Tremebondo/a, tremante. Aciùngiri, v. Aggiungere, sommare. In senso reale, nella mate- 49 rialità di una qualsiasi elencazione, e in senso traslato in riferimento a entità astratte come la parola, ma non solo. Chi non ti bastat su chi t’apu nau ti nd’aciungiu (se non ti basta ciò che ti ho detto te ne aggiungo), in iscola m’at iscutu sa mäista e candu soi erribbau a domu babbu mi nd’at aciuntu (a scuola la maestra mi ha picchiato e quando sono arrivato a casa mio padre mi ha aggiunto un’altra sussa). Vedi stóddiri. Aciunta, s. f. Aggiunta. In campo semantico ristretto, e senza ulteriori specificazioni o attributi, la voce indica il sovrappiù offerto in omaggio dai macellai a chi fa acquisti consistenti di carne. Aciuntu/a, agg. Aggiunto/a, aumentato/a. Aciuvadura, s. f. Caduta verticale, sprofondata, sommersione. Aciuvai, v. Sprofondare, cadere in verticale. Dona crobba non siat chi nc’aciuvis in s’errìu (stai attento a non sprofondare nel fiume). Aciuvau/ada, agg. Sprofondato/a, sommerso/a. Acodiri, v. Accorrere, sopraggiungere. Antoni fut in perìgulu, s’est pesau a agitórïus e tandu est acodìa sa ’idda (Antonio era in pericolo, ha gridato aiuto ed allora tutto il paese è accorso), a su 50 spàssïu funt acodius totus (al divertimento sono accorsi tutti). Acodìu/a, agg. Accorso/a, sopraggiunto/a. Acoghïadura, s. f. Affatturazione, colpo di magìa. Acoghïai, v. Colpire con sortilegi, affatturare. Gergale magicoreligioso riferito all’azione di fattucchiere (cogas). A domu sua no ddu andu, at a ténniri de m’a. (a casa sua non vado, ho paura che mi faccia qualche fattura). Vedi coga. Acoghïau/ada, agg. Affatturato/a, colpito/a da sortilegio. Acollada, s. f. Intervento deciso, spinta, scossa. Ddi ’onaus una bona a. e non si ndi chistïonat prus (gli diamo una bella scossa e non se ne parla più). Molto usato anche il dim. acolladedda, in tono scherzoso e sovente con metafora erotica. Acollai, v. Iniziare, mettere mano. Acollau/ada, agg. Iniziato/a. Aconcada, s. f. Rischio, azzardo. Aconcadassu, s. m. Persona che tende al rischio. Aconcadori, s. m. Impavido, amante del rischio. Aconcai, v. Azzardare, rischiare, mettersi in sfida con sé stessi. Benit unu pagu mali ma dd’aconcu PAOLO PILLONCA su própïu (è difficile ma ci tento lo stesso). Con significato diverso è presente nell’espressione a. a bogis (rimproverare con urla). Aconcau, s. m. Persona impavida. Màrïu fut un’a. a piticu puru (fin da piccolo Mario era un impavido). Aconciadori/a, s. e agg. Riparatore/riparatrice. Aconciai, v. Riparare, aggiustare. Preponderante il senso reale. In quello metaforico è tuttora assai usata la definizione di aconciacaddargius (riparatore di calderini), riferita - con venatura ironica - a chi si presta ad appianare contrasti. Aconciau/ada, agg. Riparato/a, rimesso/a posto. Aconciu, s. m. Riparazione, rimedio. No dd’est arrennéscïu s’a. (la riparazione non gli è riuscita). Aconciu/a, agg. Ben messo/a, ben sistemato/a. Sempre antifrasticamente. Giai ses a. (sei proprio sistemato per le feste). Aconcolai, v. Riparare q.no da pioggia, neve, grandine, etc. Lett. riparare la testa (conca). Nella forma rifl. aconcolài(si). Aconcolau/ada, agg. Riparato/a dalle insidie delle precipitazioni atmosferiche. Acónculu, s. m. Riparo esterno Mancarìas. La parlata di Seui dagli eventi atmosferici. Impiegato anche oltre il suo senso reale. Acordai, v. Ingaggiare, affidare un lavoro, prendere a servizio, temporaneamente o a tempo indeterminato. Nel rifl. andare sotto padrone, mettersi al servizio di q.no per un certo periodo di tempo. Antoni s’acordat cun Franciscu po tres annus (Antonio si metterà alle dipendenze di Francesco per tre anni). Acordau/ada, agg. Ingaggiato/a, preso/a servizio, assunto/a. Di norma l’assunzione era a termine e la scadenza rinnovabile. Acórdïu, s. m. Accordo. Cun Franciscu seus de a. (con Francesco siamo d’accordo). Acorrai, v. Radunare il bestiame rinchiudendolo in un recinto. Imoi acorru is crabas (adesso metto le capre nel recinto). In senso fig. mettere alle strette. As a biri, chi mi torrat a tratai de cudda chistïoni mi dd’acorru ’eni ’eni (vedrai, se mi tratterà ancora una volta di quella faccenda, lo metterò ben bene alle strette). Acorrau/ada, agg. Rinchiuso/a, messo/a alle strette. Acorru, s. m. Recinto, chiusura In senso lato: situazione di difficoltà. Fui in-d-un’a. malu e mi ndi seu dépïu ’essìri (ero in una difficoltà grave e ne sono dovuto usci- 51 re). Acossa, s. f. Zeppa. Met. aiuto, sostegno, raccomandazione. Est una bona a. (è un buon aiuto). Acossai, v. Mettere le zeppe. Proteggere, difendere, aiutare, raccomandare. Linu tenit genti chi dd’acossat (Lino ha gente che lo protegge). Acossau/ada, agg. Sostenuto/a con zeppe, aiutato/a, protetto/a, raccomandato/a. Acostïada, s. f. Capatina, avvicinamento. Mi ddu-i facu un’a. (ci farò una capatina). Anche al dim. acostïadedda. Acostïài(si), v. Accostare. A su letigeddu dd’acóstïu una cadira mentecòi su pipìu nd’orruat (avvicinerò una sedia al lettino, per paura che il bambino cada). Nel rifl. vale: accostarsi, avvicinarsi. Acostïadindi (avvicìnati). Acostïau/ada, agg. Avvicinato/a. Acracangiada, s. f. Pestatura. Lett. colpo di calcagno. Acracangiai, v. Calpestare con il calcagno. Po su chi at fatu ’oliat a dd’a. (per ciò che ha fatto meriterebbe di essere calpestato). Vedi cracangiu. Acracangiau/ada, agg. Calpestato/a. Acrarimentu, s. m. Ufficializzazione, manifestazione palese, pub- 52 blicizzazione. Acrariri, v. Rendere pubblico, ufficializzare. Detto soprattutto dei fidanzamenti (a. sa coïa). Acrarìu/a, agg. Ufficializzato/a. Acrichiddada, s. f. Brivido. Acrichiddadura, s. f. Attacco di brividi. Usata la loc. a a. (con brividi). Acrichiddai, v. Provare brividi di freddo, far venire la pelle d’oca. M’acrichiddat totu sa personi (mi fa venire brividi di freddo in tutto il corpo). Acrichiddau/ada, agg. In preda ai brividi. Acrobïadura, s. f. Accoppiamento, unione, alleanza. Usato soprattutto in loc. avv. Acrobïai, v. Unire insieme. Azione esterna che accoppia due entità o persone nell’idea che se ne possa trarre un insieme omogeneo. Iaus a bòlliri sciri e chini ddus at acrobïaus (vorremmo sapere chi li ha messi insieme). Vedi scrobïai/ iscrobïai. Acrobïamentu, s. m. Accoppiamento. Unione. Acrobïau/ada, agg. Unito/a insieme. Acrogogliadura, s. f. Rinsecchimento. Usato in loc. avv. Acrogogliài(si), v. Restringersi, come di flora rinsecchita. Appassire. PAOLO PILLONCA Acrocogliau/ada, Rinsecchito/a. Acrogogliu, s. m. L’effetto dell’appassimento. Acronnotadura, s. f. Menefreghismo. Ma soltanto in una particolare loc. avv. (s’est fatu a a., ormai si comporta in maniera insensibile). In tutti gli altri casi il dev. più usato -da acronnotàisi- è acronnotu. Acronnotài(si), v. Diventare insensibile, fatalista, menefreghista senza vergogna e pudore. S’acronnotat (diventa insensibile). Acronnotau/ada, agg. Menefreghista, privo/a di vergogna. Acronnotu, s. m. Stato d’animo permanente che determina una condizione di totale indifferenza alla critica sociale: menefreghismo, insensibilità, faccia tosta. Chi se ne fa invadere è un acronnotau. Figura in un sonetto sarcastico di Benigno Deplano, composto nei primi anni Settanta: Madame Sùmini a dépidi e su sposu / chi tenint s’imperu ’e s’acronnotu/ depint a iscarada ma cun totu/ funti sempir in festa, scialu e gosu. Acucada, s. f. Iniziativa improvvisa e ardita. Totori at fatu un’a. (Salvatore ha preso un’iniziativa coraggiosa). Acucai, v. Saltare in mente, osare. Segundu comenti dd’acucat Mancarìas. La parlata di Seui cussu ddu fait aberu (secondo come gli salta in testa, quello lo fa per davvero). Acucau/ada, agg. Venuto/a in mente. Acucurai, v. Riempire fino al colmo. Detto soprattutto delle misurazioni dei cereali. Viva la loc. a cùcuru. Acucuramentu, s. m. Riempimento fino al colmo. Acucurau/ada, agg. Riempito/a al massimo. Acumïadura, s. f. Rassegnazione, sottomissione. Acumïàisi, v. Rassegnarsi, sottomettersi a fare q.sa controvoglia per evitare guai peggiori. Mi nd’acùmïu ’e ddu andai (mi rassegno ad andarci). Umiliarsi pro bono pacis. Acumïamentu, s. m. Sin. di acumïadura e acumïu. Acumïau/ada, agg. Rassegnato/a. Acùmïu, s. m. Rassegnazione, sottomissione. Acumpangiai, v. Accompagnare. Vivo nell’augurio Deus t’acumpangit (Dio ti faccia compagnia). Acumpangiamentu, s. m. Accompagnamento, compagnia. Oggi definisce anche l’indennità omonima accordata a chi ha in famiglia un anziano non autosufficiente. 53 Acumpangiau/ada, agg. Accompagnato/a. Acunnàisi, v. Condurre vita ritirata, delegando il potere alla moglie, senza mai farsi parte attiva in alcunché. Di un marito eccessivamente rassegnato a non contare nulla che lascia campo libero alla moglie si suole dire: s’est acunnau. Vedi cunnu. Acurtzadura, s. f. Rimboccamento di maniche. Acurtzàisi, v. Rimboccarsi le maniche. Acurtzadì, teneus cosa meda ’e fàiri (devi rimboccarti le maniche, abbiamo molte cose da fare). Acurtzau/ada, agg. Con le maniche rimboccate. Acusa, s. f. Dichiarazione di possesso. Gergale del gioco delle carte: riguarda, in certi giochi come il tresette, la dichiarazione preliminare di ciascun giocatore sulle carte di valore che ha in mano. Acusai, v. Avere sintomi, lamentare sofferenza. Acusat unu dolori a una pala (si lamenta di un dolore ad una spalla). Nel senso dell’ital. ”accusare” praticamente non si usa: si preferisce imputai, il cui sost. dev. è imputu, imputazione vera e propria ma anche accusa generica. Acusai, nella parlata seuese, è anche confinato nel gergo dei 54 giocatori di carte che dichiarano di volta in volta i pezzi migliori delle varie fasi di ciascuna partita. E ita acusas? (che cosa dichiari?). Frequente l’impiego met. del v., a indicare una mancanza di doti. Est unu chi no acusat nudda (è uno che non ha nulla da dichiarare). Acutzai, v. Rendere acuto, affilare, arrotare. Acutzadda cuss’arrasöia (affila la lama di quel coltello). Aizzare contro. Una ’orta m’at acutzau su cani, (una volta mi ha aizzato contro il suo cane). Acutzau/ada, agg. Affilato/a, arrotato/a, aizzato/a. Addéi, avv. Avanti, lontano, in là. Presente in un toponimo, Parendaddéi, sopra il centro abitato. Addengai, v. Coccolare, viziare, vezzeggiare. Il dev. è denghi, l’agg. dengosu/a. Addengamentu, s. m. Vezzeggiamento. Addengau/ada, agg. Viziato/a, coccolato/a. Detto soprattutto dei bambini. Addïai, v. Stabilire i giorni e i turni dell’acqua per irrigare gli orti. Funt acanta ’e a. s’abba (fra un po’ di tempo fisseranno i turni dell’acqua). Addïamentu, s. m. Turnazione. Addïau/ada, agg. Messo/a, sottoposto/a a turnazione quotidiana. PAOLO PILLONCA Addobbadura, s. f. Percussione, colpo. Addobbai(si), v. Percuotere, colpire. Dd’at addobbau una grandu carda (gli ha dato una sonora batosta). Utilizzare q. sa in quantità eccessiva, sovraccaricare. Candu si pigat su cafeu dd’addobbat tres cocerinus de tzùcuru (quando prende il caffè gli carica tre cucchiaini di zucchero). Al rifl. ha altri significati ancora. Pestarsi. Fut in moto, nc’est iscutu in-d-unu muru e s’est totu addobbau (era in moto, è finito su un muro e ne è uscito malconcio). Ingozzarsi. Segundu comenti dd’agatas si nd’addobbat de cosa, cussu (secondo come lo trovi, quello lì si ingozza per bene). Addobbau/ada, agg. Percosso/a, colpito/a, pestato/a. Addotorai, v. Ordinare, organizzare da leader, prescrivere alla maniera dei medici, comandare, governare, intromettersi dispoticamente. Maria cicat de a. in dónnïa cosa (Maria cerca di governare ogni faccenda), in cussa chistïoni no addotoras nudda (in quell’affare non decidi nulla). Addotorau/ada, agg. Deciso/a dispoticamente. Con marcata venatura ironica. Addrabbulai, v. Vedi drabbulai e derivati. Mancarìas. La parlata di Seui Addramäinadura, s. f. Svenimento, effetto del venir meno, sintomo di perdita di conoscenza. Usata la loc. a a. Addramäinàisi, v. Svenire, perdere i sensi. S’addramàinat fatufatu e po ddu fàiri torrai tocat a ddu frigai meda (sviene di frequente e per farlo rinvenire occorre massaggiarlo a lungo). Addramäinamentu, s. m. Svenimento, lipotimia. Addramäinau/ada, agg. Svenuto/a. Addurai, v. Ritardare, far tardi. No adduris, non far tardi. Da segnalare la locuzione avverbiale a duru, di largo uso: candu seu torrau fut a d. (quando sono tornato era tardi). Adïosu, s. m. Arrivederci, addio. Adiu, s. m. Arrivederci, ciao, addio. Anche nella reiterazione adiu adiu, abbreviato in adiadiu. Adobïai, v. Incontrare.Vedi atobïai e obïai. Adobïau/ada, agg. Incontrato/a. Vedi atobïau/ada. Adóbïu, s. m. Incontro. Vedi Atóbïu. Adorai, v. Adorare. Ma in sardo lo si usa anche nel senso dell’it. venerare, ossia rif. impropriamente anche ai santi e agli uomini, oltre che a Dio. Sposa mia adorada 55 (mia sposa venerata). Adorau/ada, agg. Adorato/a, venerato/a. Adoru, s. m. Adorazione, nel senso proprio della devozione al Santissimo Sacramento esposto davanti all’altare maggiore. Desueto. Afàbbica, s. f. Basilico (ocymum basilicum). Di vario utilizzo, soprattutto in cucina e nella preparazione di liquori. Afacioladura, s. f. Mascheramento. Afaciolài(si), v. Mascherarsi il volto. Il s. dev. è faciola. Afaciolau/ada, agg. Mascherato/a, travisato/a. Afanceddài(si), v. Legarsi stabilmente in coppia al di fuori del matrimonio, essere amanti. S’est afanceddau (si è preso un’amante). Il dev. è fanceddu/a. Afantanai, v. Sbirciare, guardare di nascosto. Usato nel gergo dei giocatori di carte per indicare un’apertura di ”finestra” (vantana/fantana) sulle carte di un avversario. Afastïai, v. Appesantire. Il rifl. afastïàisi significa fare indigestione. Un bel sonetto di Benigno Deplano pubblicato alla fine degli anni Settanta da Funtanïossu, il periodico del Liceo scientifico 56 Bìssiri di Seui, e dedicato a un pastore amante della buona tavola, ha per titolo Spichigeddu afastïau. Afastïau/ada, agg. Appesantito/a dal cibo eccessivo. Afàstïu, s. m. Indigestione, pesantezza di stomaco dovuta a un eccesso alimentare. Afaterïai, v. Fare confusamente, anche per gioco. Disfare. Vivissimo nell’espr. fait e afatérïat (fa e disfa). Afaterïau/ada, agg. Eseguito/a confusamente. Afenadori, s. m. Datore di fieno, che governa le bestie dal punto di vista alimentare. Afenai, v. Nutrire con fieno. Afena is ebbas (dài il fieno alle cavalle). Afenau/ada, agg. Nutrito/a con fieno. Ma tanto l’agg. quanto il v. definiscono anche un eccesso nell’uso del fieno che può provocare inconvenienti. Aferrai, v. Afferrare, stringere forte, come in una morsa ferrea. Dd’aferrat a gangas po ddi fàiri nàrriri sa beridadi (lo stringe alla gola per fargli dire la verità). Aferrau/ada, agg. Stretto/a con forza, afferrato/a. Aferritai, v. Tagliare con le forbici, spesso per vendetta o per dispetto. Vedi ferritu. PAOLO PILLONCA Aferritau/ada, agg. Tagliato/a con le forbici. Afertorgiu, s. m. Provenenienza casuale. Gergale dei pastori. Custu est unu pegus de a. (questo è un animale arrivato qui casualmente). Rif. all’uomo, la definizione p. de a. vale: persona di recente conoscenza di cui non ci si può fidare completamente. Vedi infèrriri. Non figura nella parlata attuale di Seui il verbo ipotetico afèrriri, che sarebbe quello più proprio. Afëurradura, s. f. Ferulosi. Afëurrai, v. Far ammalare di ferulosi. Su pastori malu aféurrat is brebeis (il pastore incapace fa ammalare di ferulosi le sue pecore). Usato anche nel rifl. (afëurràisi): prendere la ferulosi. Is murvas non s’aféurrant (le mufle sono immuni dalla ferulosi). Afëurrau/ada, agg. Malato/a di ferulosi. Afigliau/ada, agg. Con figli. Afilai, v. Mettersi sulla strada giusta. Eligiu fut mesu conchita, ma de imoi in susu as a biri ca afilat (Eligio era una testa allegra, ma vedrai che d’ora in avanti si metterà sulla buona strada). Vedi filada. Afilau/ada, agg. Rimesso/a sulla buona strada. Afina, n. pr. di persona. Serafina. Più frequente al dim. Afinedda. Mancarìas. La parlata di Seui Afineddu/a, n. pr. di persona. Serafino/a. Afinigadura, s. f. Affinamento, assottigliamento, dimagrimento. Usata la loc. avv. Afinigai, v. Assottigliare, affinare, dimagrire. In senso reale e fig. Depu a. su spidu (devo assottigliare lo spiedo), cussu piciocu est arrennéscïu a a. is pensamentus (quel ragazzo è riuscito ad affinare i suoi pensieri). Afinigau/ada, agg. Affinato/a, dimagrito/a. Afitadura, s. Affettatura. Afitai, v. Tagliare a fette. Afita cussu pani (taglia a fette quel pane). Vedi fita. Afitau/ada, agg. Affettato/a, tagliato/a a fette. Afitïanadura, s. f. Abitudine di lunga data, quasi una seconda natura. Afitïanàisi, v. Diventare frequentatore abituale di un luogo. Vedi fitïanu. Afitïanau/ada, agg. Avvezzo/a a un determinato ambiente. Afitzïai, v. Viziare. Donendudeddi ’ónnïa cuntentu acabbat ca dd’afìtzïas, cussu pipìu (se gliele dài tutte vinte finirai con il viziare quel bambino). Vedi vitzïu. Afitzïau/ada, agg. Viziato/a. Detto soprattutto dei bambini, ma anche degli adulti. Est a. pérdïu (è 57 viziato completamente). Per gli animali indocili l’agg. è vitzïosu/a. Afortïadura, s. f. Rafforzamento, fortificazione. Usata la loc. a a. Afortïai, v. Fortificare, vivificare. Su dolori afòrtïat (il dolore fortifica). Afortïau/ada, agg. Fortificato/a. Afortunau/ada, agg. Fortunato/a. Afracadura, s. f. Bruciacchiamento, segno di fiamma negli utensili della cucina e negli alimenti. Usato in loc. avv. Afracai, v. Avvicinare qualcosa alla fiamma del fuoco tanto da lasciarne traccia nel sapore degli alimenti. Stesïancedda ’e su fogu, cussa cassalora, ca podis a. sa bagna (sposta quella padella dal fuoco perché puoi rovinare il sapore della salsa). Cussa abbardenti est afracada (quell’acquavite ha sapore di fiamma). Vedi fraca. Afracau/ada, agg. Dal sentore di fiamma. Aframïadura, s. f. Avvolgimento di fiamme. Aframïai, v. Bruciacchiare superficialmente. Su fogu no at fatu dannu meda, at feti aframïau chelegunu matoni ’e tùvara (l’incendio non ha fatto danni gravi, ha solo bruciacchiato qualche macchione di erica). Aframïau/ada, agg. Bruciacchia- 58 to/a. Afrantzesadura, s. f. Contagio di sifilide. Afrantzesai(si), v. Contagiare la sifilide, ammalarsi di sifilide, il cosiddetto mal francese. Una bagassa dd’at afrantzesau (una prostituta gli ha contagiato la sifilide). Arremundicu s’est afrantzesau (Raimondo ha preso la sifilide). Afrantzesau/ada, agg. Sifilitico/a. Afrïoddai, v. Darsi alla vanità, comportarsi con leggerezza. In disuso, al contrario del dev. afrïoddu. Afrïodderi/a, agg. Narcisista, superficiale, vanaglorioso. Maria est un’a. (Maria è una narcisista). Afrïoddu, s. m. Vanità, leggerezza, narcisismo. Dev. di afrïoddai, ma il v. è piuttosto desueto. Est un’a. (è una cosa inutile). Afronciladura, s. f. Sistemazione del musale all’asino. Afroncilai, v. Mettere il musale all’asino. Afroncilau/ada, agg. Munito/a di musale o cappio. Afrongiadura, s. f. Alimentazione d’emergenza del bestiame con fronde di alberi sempreverdi nelle tempeste di neve. Afrongiai, v. Alimentare il bestiame con fronde (frongia) di alberi sempreverdi, durante le PAOLO PILLONCA nevicate. Vedi assidai. Afrongiau/ada, agg. Alimentato/a con fronde di alberi e/o arbusti. Afrucargiadura, s. f. Messa a punto di un forcone. Afrucargiai, v. Mettere un forcone. Vedi frucargia. Afrucargiau/ada, agg. Picchiato/a con un forcone. Afumentai, v. Eseguire i suffumigi. Afumentau/ada, agg. Trattato/a con suffumigi. Afumentu, s. m. Suffumigio. Afumïadura, s. f. Affumicamento. Afumïai, v. Affumicare. Vedi fumu. Afumïau/ada, agg. Affumicato/a. Afunadura, s. f. Legamento con funi. Afunai(si), v. Legare con funi. Nel rifl. è usato anche per indicare gli incidenti ad animali legati e incustoditi che muoiono soffocati nel tentativo di liberarsi. Vedi funi. Afunau/ada, agg. Legato/a con funi. Afutidura, s. f. Trascuratezza, negligenza. Afutiri(si), v. Far poco conto, trascurare, fregarsene. No mi nd’afutit nudda (non me ne frega Mancarìas. La parlata di Seui niente). Agangai, v. Strozzare, strangolare. Fut aganghendudeddu (stava per strozzarlo). Agangamentu, s. m. Strangolamento. Agangau/ada, agg. Strozzato/a. Agatai, v. Trovare. Chini cicat agatat (chi cerca trova). Rinvenire. Deu su cardulinu dd’agatu chene ddu cicai (io i funghi li trovo senza neppure cercarli). La forma rifl. agatàisi ha il significato di esistere, essere in vita. Ancora s’agatat Linu? (Lino è ancora vivo?), de cussu péssïu non si nd’agatat prusu (di quelle pesche non ne esistono più). Agatau/ada, agg. Trovato/a. Agedadura, s. f. Inacidimento. Agedai(si), v. Inacidire, inacidirsi. Chi ddu lassas in su caglienti cussu ’inu s’agedat (se lo lasci in un posto caldo quel vino si inacidirà). Lievitare. Su pani est agedu (il pane ha lievitato). Agedau/ada, agg. Inacidito/a. Agedu, s. m. Aceto. Dd’apu sciacuau a a. (l’ho lavato con aceto). Usato anche come agg. Apu fatu casu a. (ho preparato del formaggio acido). Agedu/a, agg. Acido/a, inutilizzabile. Abbardenti a. (acquavite acida, da buttare). Agiannitai, v. Abbaiare fitto dei 59 cani da caccia che scovano una preda. S’intendiant agiannitendu is canis (si sentivano i cani abbaiare velocemente). In questa forma il v. è usato prevalementemente dalle persone di una certa età, i giovani hanno creato e usano la variante agannitai. Gergale dei cacciatori. Agiannitu, s. m. Abbaiare insistito di cani da caccia. Per le giovani generazioni il s. assume la forma di agannitu. Àgina, s. f. Uva. Àgina ’e margiani, s. f. Tamaro o uva taminia (Tamus comunis), pianta erbacea, come spiega il professor Giulio Paulis nella sua pregevole opera I nomi popolari delle piante in Sardegna (Roma, 1992), ”che si attorciglia, sempre da sinistra verso destra, al fusto di altre piante”. Lett. uva per volpi. Agiobbai(si), v. Maltrattare, estenuare, ridurre a mal partito. Fut acanta’e m’a. (stava per farmi penare). Chi sighis äici giai t’agiobbas (se continui così ti ridurrai male per davvero). Agiobbau/ada, agg. Mal ridotto/a, estenuato/a. Agitorïai, v. Invocare aiuto con alte grida. Agitórïu, s. m. Aiuto. Solo come invocazione di soccorso, non come definizione di concetto (agiudu). 60 S’est pesau a agitórïus (ha levato grida di aiuto). Di norma con l’aggiunta dell’imp. pres. del v. acòdiri: a. acodèi (aiuto, accorrete). Agiudai, v. Aiutare. Si riferisce alla sfera materiale e a quella dello spirito. In cöili non tengiu a nemus po m’a. (nell’ovile non ho nessuno che mi aiuti), in cussu dolori is amigus dd’ant agiudau meda (in quel dolore gli amici l’hanno aiutato molto). Agiudau/ada, agg. Aiutato/a. Agiudu, s. m. Aiuto, materiale e morale. Si chiama agiudu-càmbïu l’aiuto reciproco nel lavoro, una mutualità comunitaria di prestazione lavorativa che esclude il ricorso al denaro. Agiumai/ogiumai, avv. Quasi, sul punto di. Ginu s’est inténdïu mali meda, a. si fut mortu (Gino si è sentito malissimo, poco è mancato che morisse). Agliàuna, s. f. Latta. Per est. indica anche il recipiente della stessa materia, come contenitore di liquidi differenti: latte, olio, siero, acqua. Un’a. de ogliu ermanu (una lattina d’olio d’oliva). Agliàuna ’e mùgliri indica il secchio utilizzato negli ovili per la mungitura del latte. Aglienu/a, agg. Altrui, appartenente ad altri. Non lassat pegus a. PAOLO PILLONCA in perunu logu (non rispetta il bestiame altrui da nessuna parte), in domu a. non podis fàiri su meri (in casa d’altri non puoi fare il padrone). Agliu, s. m. Aglio (allium). Una delle piante erbacee di maggiore virtù salutare e di più estesa utilizzazione nella cucina e nella medicina del popolo. Viva la loc. agliu po cibudda (aglio per cipolla) quando si vuole rimarcare una confusione. Agliugliadura, s. f. Rinsecchimento. Agliugliài(si), v. Rinsecchirsi per mancanza d’acqua. Sa cibudda s’agliugliat (le cipolle si rinsecchiscono). Agliugliau/ada, agg. Rinsecchito/a. Agopeddàisi, v. Ingobbirsi. Giulïu ’ónnïa dì chi passat s’agopeddat sempiri ’e prusu (ogni giorno che passa Giulio si ingobbisce sempre di più). Desueto. Agopeddau/ada, agg. Ingobbito/a. Agradessimentu, s. m. Gradimento, accoglienza favorevole. Agradèssiri, v. Gradire, accogliere con favore. Unu füeddu ’eni nau s’agradessit (una parola ben detta si gradisce), candu Linu est andau a abbisitai is parentis dd’ant agradéssïu meda (quando Lino è andato a Mancarìas. La parlata di Seui trovare i parenti è stato molto gradito). Agradéssïu/a, agg. Gradito/a, ben accolto/a. Agragaladura, s. f. Afflosciamento. Agragalai (si), v. Afflosciare/afflosciarsi. Agragalau/ada, agg. Afflosciato/a. Scrive Demetrio Ballicu, il grande medico storico della comunità di Seui, nato nel 1892: ”E ora - miserere mei, Domine quando osservo mortificato i miei muscoli bicipiti brachiali assottigliati, ridotti ai minimi termini come volume, di una consistenza pari a quella della stoppa, flosci (mi piace il termine sardo corrispondente, agragalau), mi vien quasi da piangere” (Ricordi una fanciullezza e di un’adolescenza lontane…, Cagliari, 1984). Agrumadura, s. f. Cernita, vaglio della semola. Agrumai, v. Cernere, passare al vaglio, separare manualmente. Lo si usa più spesso in riferimento alla semola per l’operazione che si compie nel toglierne la crusca, ma il verbo indica la pulitura di cereali e legumi in genere, ad esempio del grano in chicchi e delle lenticchie, con la cernita che ne consegue. Agrumau/ada, agg. Separato/a, 61 distinto/a, passato/a al vaglio. Agrumïada, s. f. Ruminata. Agrumïadura, s. f. Ruminìo. Agrumïai, v. Ruminare. Agrumïau/ada, agg. Ruminato/a. Agrungiadura, s. f. Nausea da acidità di stomaco. Usata la loc. a a. Agrungiai, v. Provocare acidità di stomaco. Riferito ai cibi che la inducono. Su lardu m’agrungiat (il lardo mi provoca acidità di stomaco). Agrungiau/ada, agg. Colpito/a da acidità gastrica. Agu, s. f. Ago (diversamente dall’it., in sardo il s. è di genere f.). Viene poi definito in rif. all’uso. L’ago per i materassi è agu po corciai. Agüalai, v. Essere alla pari, poter competere. Cussu si creit meda, no dd’agüalat nemus (quello è un gran presuntuoso, quasi che nessuno possa stargli alla pari). Un uso particolare di questo v. si riferisce ai legami di comparatico tra due famiglie, quando c’è la volontà e il piacere di perfezionarli. Nella pratica significa mettere due coniugi sullo stesso piano nei confronti di un nucleo familiare precedentemente entrato in questo rapporto con uno solo dei due. In questi casi si dice: ant agüalau su Santu 62 Giüanni (hanno messo alla pari i rapporti di comparatico), perché al coniuge che mancava viene riconosciuta pari dignità e considerazione rispetto all’altro che già ne godeva. Il caso più frequente è che al nuovo compare venga dato da cresimare il primo figlioccio, in genere di battesimo, o un fratello o sorella dello stesso. Agüalau/ada, agg. Messo/a alla pari. Agüantai, v. Resistere, conservare, rispettare, tenere forte. Agüantat sa prima (conserva l’inimicizia), agüantat su fueddu (rispetta la parola data), agüanta (resisti). Agüantau/ada, agg. Tenuto/a forte, sopportato/a. Agüantu, s. m. Resistenza, fisica e morale. Non tenit a. (non ha resistenza), un difetto ritenuto grave in una società in cui la virtù della resistenza psicofisica era una delle doti più necessarie, richieste ed apprezzate. Agunneddadura, s. f. Sottomissione di un uomo alla propria donna, dominio della gonna (gunnedda). Agunneddai(si), v. Sottomettere, assoggettare il maschio al dominio femminile. Sa bellesa nd’agunneddat paricius (la bellezza ne assoggetta parecchi) Anche nel PAOLO PILLONCA rifl. Ginu est agunneddendusì (Gino va sottomettendosi a sua moglie). Il part. pass. agunneddau vale: completamente sottomesso. Agutonadura, s. f. Abbottonamento. Agutonai, v. Abbottonare. Riferito prevalentemente a pantaloni, giacche e cappotti. Vedi gutoni/’utoni. Agutonau/ada, agg. Abbottonato/a. Ah, escl. di meraviglia e/o di domanda. Può significare che l’interlocutore ha capito oppure che chiede la ripetizione dell’ultima frase o parola. Äici/gäici/göici, avv. Così. Si fait a. (si fa così). Nelle espressioni augurali, nei giuramenti e nelle imprecazioni. Comenti soi nendudì sa beridadi, ä. fortuna ti ’ongiat Deus (come io ti dico il vero, così Dio ti conceda fortuna). Ä. beni è un’espressione ellittica, genericamente rivolta a tutti, e può valere tanto per chi parla quanto per chi ascolta: come è vero ciò che ti ho detto, così possa venire del bene a tutti noi. Àidu, s. m. Apertura di passaggio di un muro o di una siepe. Gergale di contadini e pastori. Äiò, escl. Orsù, suvvia, coraggio. Äiràisi, v. Cedere all’ira, arrab- Mancarìas. La parlata di Seui biarsi. Äirau/ada, agg. Irato/a, arrabbiato/a. Àiri, v. Avere. Come ausiliare accompagna v. trans. e intrans. come quelli indicanti eventi atmosferici: at pròpïu, at nïau, at grandilau (è piovuto, è nevicato, è grandinato), al contrario di quanto avviene in it. È utilizzato anche come voce verbale autonoma, nel significato di essere presente. In padenti ocannu no ddu at landi (quest’anno in foresta non ci sono ghiande). Àiri, s. f. Aria, clima, temperatura. Una delle più grandi ricchezze immateriali del territorio per l’ottima qualità dell’aria, immune da quelle forme di inquinamento che di solito rendono difficile la vita negli agglomerati industriali. Il microclima del territorio di Seui dispensa i periodi più gradevoli in primavera e in autunno. L’estate mitiga la sua furia nelle ultime settimane di agosto. Passau mesäustu infriscant is àiris (nella seconda metà di agosto le temperature si abbassano): è una frase che si sente di continuo. Talvolta i rigori dell’inverno si concentrano nei mesi di dicembre e gennaio e i primi tepori di primavera si annunciano a febbraio, con la fioritura dei mandorli. Non sono rari i ritorni 63 delle temperature invernali in primavera inoltrata. Arbili, torrat procu a süili (aprile, il maiale ritorna al suo ricovero) è un proverbio di resistenza tenace. Neppure le nevicate sono infrequenti, in questo mese. Da maggio a metà giugno, può dirsi scongiurato il pericolo di ritorni di maltempo, esclusi i temporali di breve durata, non rari neppure nella stagione estiva. Àiri, s. f. Boria, presunzione, superbia Si ndi ’onat de àiris Lüisu (se ne dà di arie Luigi). Äirosu/a, agg. Borioso/a, contegnoso/a, presuntuoso/a. Äiscadura, s. f. Imboccamento. Äiscai, v. Imboccare. Imoi su pipìu est amannïendu e no dd’äiscu prusu (adesso il mio bambino sta crescendo e non lo imbocco più). Äiscau/ada, agg. Imboccato/a. Äiscu/giscu, s. m. Fiscella, cascino. Utensile di uso comune negli ovili. Gergale del mondo pastorale. Vedi giscu. Ala, s. f. Ala, degli uccelli e degli aerei. Cuss’àbbila portat un’a. truncada (quella aquila ha un’ala spezzata). Ala, s. f. Parte marginale di un gregge al pascolo. Mi crocu in s’a. ’e su tagliu (mi sdraio lateralmente al gregge). Gergale del mondo degli ovili. 64 Ala, s. f. Ala, giocatore di fascia nel gioco del calcio. Gergale introdotto in tempi recenti nell’uso degli appassionati di questo sport. Ala, s. f. Favore, preferenza. A-i custu pipiu totus ddi faint a. (a questo bambino tutti dànno la preferenza). Alabadori, s. e agg. Lodatore, elogiatore, adulatore. Alabadura, s. f. Venerazione. Alabai, v. Venerare. Detto dei santi. Rif. a profani assume il senso di adulare. Alabamentu, s. m. Venerazione. Alabantzeri, s. e agg. Adulatore. Desueto. Alabàntzïa, s. f. Venerazione. Alabau/ada, agg. Venerato/a. Alargiu, s. m. Striscia di legname della parte esterna dei tronchi d’albero. Gergale, di boscaioli e falegnami. In senso fig. persona scarsamente valorosa e dunque poco considerata. Alavìa, s. f. Riferimento indiretto e aspro ma stilisticamente sottile, tutto giocato sull’allegoria. Dd’at betau un’a. (gli ha lanciato una battuta di avvertimento). Alavïai, v. Parlare indirettamente, sulle generali, ma in modo che un interlocutore acuto possa capire che ci si sta riferendo a lui e si regoli di conseguenza. Ad es., in un dis- PAOLO PILLONCA corso sui furti, avendo come interlocutore un ladro di cavalli, anziché accusare direttamente, dire: nci nd’at de genti afitzïada a cüaddus aglienus (quanta gente ha preso il vizio di rubare cavalli altrui). Alavïau/ada, agg. Destinatario/a di battute sotto metafora. Alè, escl. esortativa. Coraggio, dài, forza, orsù. A., andaus (forza, andiamo). Alegùmini, s. m. Legume. Alïentu, s. m. Respiro, ma più in senso traslato che reale. Dd’at torrau a. (gli ha dato tregua). Àliga, s. f. Immondezza. In senso fig. persona spregevole: est un’à.(è una persona squallida). Molto usata l’espr. imoi giai ti nd’est andada s’à. mala ’e s’ogu (ora ti è sparita la sporcizia dall’occhio), quando si vuol far ricordare a q.no di essersi tolto di mezzo una persona sgradita. Frequente, in risposta a interlocutori testardi, l’espr. cravadinci in s’a. (vai a ficcarti nell’immondezza). Aligadura, s. f. Infezione purulenta in ferita su bestiame rude. Aligàisi, v. Infettarsi di ferite purulente. Gergale degli ovili. Indica l’azione dei vermi sulle ferite del bestiame rude di grossa taglia (cavalli, buoi e maiali). Cussa mardi s’àligat fatu-fatu (quella scrofa ogni tanto si infet- Mancarìas. La parlata di Seui ta). Contro questa evenienza, anche per la difficoltà di catturare le bestie malate, si usava uno scongiuro chiamato su ’e scùdiri (lett. quello che serve a far cadere i vermi dalla ferita). Vedi scùdiri. Aligau/ada, agg. Infettato/a. Detto del bestiame. Aligargiu, s. m. Lett. cercatore di immondezza. In senso fig. miserabile, capace di azioni squallide. Alighingiu, s. m. Cosa di poco conto, talmente insignificante da poter essere buttata nell’immondezza. Nel gergo dei macellai è un eufemismo per definire i testicoli di maiali e vitelli. Aligusta, s. f. Aragosta. Àlinu, s. m. Ontano (alnus glutinosa). Cresce spontaneo nei luoghi umidi. Il legno è facile da lavorare. Nella seconda guerra mondiale scrive Demetrio Ballicu - ”sorse a Seui uno zoccolificio ad iniziativa di Carmelo Piga che di zoccoli riforniva i Comuni del mandamento e altri centri più lontani” (Miscellanea, cit., pag. 89). Allachitai, v. Giocare con l’acqua come in un piccolo contenitore apposito (lachitu). Su pipiu est allachitendu (il bambino sta giocando con l’acqua). Alladïadura, s. f. Allargamento. Alladïai, v. Allargare, far diven- 65 tare largo: Vedi ladu/a. Alladïau/ada, agg. Allargato/a. Allài, s. m. Ospite inatteso, importuno e sgradito. Seccatore. Tenia sa ’omu prena ’e allàis (avevo la casa piena di seccatori). Allanadura, s. f. Copertura di muffa, ammuffimento. Allanai(si), v. Coprire/coprirsi di muffa (lana). Ammuffire. Allanau/ada, agg. Coperto/a di muffa. Allatïadura, s. f. Intiepidimen-to, risultato che si ottiene riscaldando un liquido potabile fino a fargli raggiungere all’incirca la temperatura del latte appena munto. In senso fig. la loc. avv. a a. dice anche di una diminutio rispetto ad una reale o ipotetica condizione iniziale. Allatïai, v. Intiepidire, portare alla temperatura del latte appena munto. S’intendit mali? A maroglia, si nci papat a Gesu Cristu allatïau (Si sente male? Per forza, arriva al limite di mangiarsi Gesù Cristo intiepidito). Allatïau/ada, agg. Intiepidito/a. Alleitu, s. m. Prosecuzione, discendenza. Detto anche dei neonati. Allentoradura, s. f. Spruzzata di rugiada. In senso ir. indica l’inizio della sbronza. Usato in loc. avv. Allentorai(si), v. Bagnare di 66 rugiada (vedi lentori, desueto come s.). Ammorbidire. Nell’uso di oggi si privilegia il senso fig. per: indebolire, piegare, etc. Soprattutto al rifl. per indicare l’effetto del vino. S’allentorat fatu-fatu (si inebria spesso). Il dev. è poco usato, sostituito da orrosu. Allentorau/ada, agg. Brillo/a. Fut mesu a. (era lievemente sbronzo/a). Allichididura, s. f. Messa a punto nell’abbigliamento personale. Allichidiri, v. Vestire bene, agghindare come per festa. Dd’allichidit sa pobidda (è la moglie che lo agghinda a dovere). Anche nel rifl. allichidìrisi. Allichidìu/a, agg. Ben vestito/a, elegante. Allicu, n. pr. di pers. ad ampio spettro di utilizzo, ma rif. soprattutto al nome di Raimondo. Usato anche il dim. Allicheddu. Allidigorada, s. f. Chiazza di lividi. Allidigorai, v. Illividire, procurare un livido. Il dev. è lidigori. Tuttora ben vivi, v. e s. S’orrutorgia m’at allidigorau una pala (la caduta mi ha illividito una spalla). Usato anche al rifl. Candu orruit s’allidigorat totu (quando cade si riempie di lividi). Allidigoramentu, s. m. Illividimento. PAOLO PILLONCA Allidigorau/ada, agg. Illividito/a, pieno/a di lividi. Allïongiadura, s. m. Legamento di un sacco. Allïongiai, v. Legare un contenitore di tela o di juta. Desueto. Allïongiu, s. m. Legaccio. Molto usata come ammonimento l’espr. met. lassai sacu e a. (perdere il sacco e il suo legaccio) nel senso di rimetterci tutto. Allisada, s. f. Lisciata, in senso reale e fig. Allisai, v. Allisciare, render liscio. In senso fig. adulare. Candu ’olit cheleguna cosa cumentzat a a. (quando vuole qualcosa inizia a fare l’adulatore). Allisamentu, s. m. Adulazione. Allisau/ada, agg. Reso/a liscio/a, adulato/a. Allistrimentu, s. m. Preparazione, sistemazione. Allistriri, v. Preparare a dovere. Rif. alle azioni che comportano la macellazione di un capo di bestiame e la sua sistemazione a regola d’arte. Lüisu su pegus dd’allistrit beni (Luigi prepara bene la carne macellata). Allistrìu/a, agg. Preparato/a a puntino. Allïuradura, s. f. Raddrizzamento. Allïurai, v. Raddrizzare. In senso Mancarìas. La parlata di Seui reale e fig. Allïurau/ada, agg. Raddrizzato/a, corretto/a, modificato/a, sistemato/a. Vedi lïuru/a. Allochïadura, s. f. Stordimento, choc. Allochïai, v. Stordire, frastornare, scioccare. Dd’allóchïas, cussu pipìu (lo stordirai, quel bambino). Vedi locu. Allochïau/ada, agg. Stordito/a, scioccato/a. Alloddäinadura, s. f. Riduzione allo stato di pettegolezzo continuo. Alloddäinai(si), v. Rendere simile a una donna logorroica e sboccata (loddàina). La forma rifl. del v. indica una condizione di pigrizia mista a chiacchiericci. Cussa candu ’enit s’alloddàinat e non fait fini ’e si nd’andai (quella lì quando viene a casa mia si dà alle ciarle e non si decide ad andarsene). Vedi loddàina. Alloddäinau/ada, agg. In preda alle chiacchiere senza costrutto, noioso/a, pigro/a. Allonghïadori, s. e agg. Temporeggiatore. Allonghïadura, s. f. Allungamento. Allonghïai, v. Allungare. In senso fig. come invito rivolto ai logorroici: no allonghis su brodu (non allungare il brodo, non farla lunga). Allonghïau/ada, agg. Allunga- 67 to/a. Allorigai, v. Inanellare. Anche rif. ai capelli. Is pilus si dd’allórigant po natura (i capelli gli si inanellano naturalmente). Vedi lóriga. Allorigau/ada, agg. Inanellato/a, circolare. Allüadori, s. m. Pescatore di frodo che ricorre all’euforbia per avvelenare l’acqua dei fiumi. Nella canzone Eus agatai scritta da Benigno Deplano nell’immediato secondo dopoguerra c’è una strofe dedicata ai pescatori fluviali di Seui (Eus agatai/ totu is piscadoris,/ is allüadoris/ de ónnïa piscinedda...). Allüadura, s. f. Avvelenamento con l’euforbia. Allüai, v. Avvelenare con l’euforbia. Gergale dei pescatori di frodo che usavano quell’erba nei tratti stagnanti del corso dei fiumi. Vedi lua. Allüau/ada, agg. Riempito/a di euforbia, intossicato/a, avvelenato/a. Nd’at papau, cussu, de trota allüada (ne ha mangiato di trote avvelenate, quello lì). Allùiri, v. Accendere. Detto del fuoco e della luce elettrica ma non solo. Anche in senso fig.: t’alluit is càrigas (ti accenderà le narici, ti picchierà), est unu allutu (è un tipo focoso). Alluminu, s.m. Fiammifero. 68 Allumada, s. f. Accensione, sparo, fiammata. Quasi sempre in rif. al fucile. Dd’apu scutu un’a. ’e fogu (gli ho sparato una fucilata). Allumai, v. Accendere. Confinato nel gergo dei cacciatori. Dd’at allumau fogu (gli ha sparato una fucilata). Allumau/ada, agg. Acceso/a. Allupadura, s. f. Soffocamento. Mi pigat a a. (provo un senso di soffocamento). Allupai, v. Soffocare. Anche nel rifl. allupàisi. Allupamentu, s. m. Sin. di allupadura. Allupau/ada, agg. Soffocato/a. Allutu,/a, agg. Acceso. In senso reale e traslato per dire di persona focosa. Da allùiri. Amachïadura, s. f. Follia, vaneggiamento. Viva la loc. avv. a a. (alla follia). Amachïai, v. Far impazzire. Cussa picioca dd’at amachïau (quella ragazza l’ha fatto impazzire). Frastornare. No m’amachis sa conca (non mi far girare la testa). Amachïau/ada, agg. Impazzito/a. Amàchïu, s. m. Bellezza struggente, fascino, follia, incantesimo, suggestione. Custu ’eranu est un’a. (questa primavera è un incantesimo). Amaciadura, s. f. Macchia. Vedi PAOLO PILLONCA macia. Amaciai, v. Macchiare. Il dev. è macia. No m’amacis sa tïaglia (non macchiarmi la tovaglia). Anche in senso fig. Cussa morti dd’amaciat su coru (quell’assassinio gli macchia il cuore). Amaciau/ada, agg. Macchiato/a. Amacitadura, s. f. Riduzione alla condizione di gatto, ristretto alla domesticità. Amacitai, v. Ridurre nella condizione di un gatto, rinchiudere in casa. Vedi macitu. Amacitau/ada, agg. Reso/a simile a un gatto, sempre davanti al focolare. Amadurai, v. Ingrandire. Soprattutto nell’espressione a. is ogus (sgranare gli occhi). Nel significato di far crescere, anche esageratemente, il v. usato è amannïai, che definisce anche la crescita dei frutti sugli alberi ma non la loro maturazione vera e propria, che si indica con il verbo cóiri. Amadurau/ada, agg. Ingrandito/a, cresciuto/a. Amaläidàisi, v. Ammalarsi. Chi insighis a papai meda t’amalàidas (se continuerai a mangiare molto ti ammalerai). Amaläidau/ada, agg. Ammalato/a. Vedi malàidu. Amamadura, s. f. Allattamento Mancarìas. La parlata di Seui dei capretti lattonzoli, dal giorno della nascita fino allo svezzamento. È operazione mattutina quotidiana che dura a lungo e rappresenta l’impegno più gravoso dell’intera stagione del capraro. Amamai, v. Togliere i capretti lattonzoli dall’apposito recinto (eìli) e darli alle capre per la poppata quotidiana: a ciascuna il suo, le madri non accettano capretti altrui. L’operazione richiede tempo lungo e occhio esperto, abile e vigile: ogu ’e crabargiu (occhio di capraro), per l’appunto. Vedi nodu. Amamau/ada, agg. Allattato/a. Amandronai(si), v. Rendere pigro. Dd’amandronat su babbu (è il padre che lo rende pigro). Rifl. impigrirsi. S’est amandronau (è diventato pigro). Vedi imprëissai e mandroni. Amandronamentu, s. m. Impigrimento, pigrizia. Amandronau/ada, agg. Impigrito/a. Amanganai, v. Segnare, distinguere con un colore. Durante una vaccinazione o altra terapia, si segnano di volta in volta i capi di bestiame con una vernice colorante (màngana) sulla groppa, per non ripetere su qualche animale un’operazione già eseguita. Vedi màngana. 69 Amanganau/ada, agg. Segnato/a con vernice. Amannïadura, s. f. Ingrandimento. Amannïai, v. Ingrandire, far crescere. Nella materialità e nell’astrattezza: contendu is cosas ddas amànnïat in donnìa (quando racconta le cose le ingrandisce ogni volta). Amannïau/ada, agg. Cresciuto/a, ingrandito/a. Amarigosai, v. Rendere amaro, amareggiare. In senso reale e fig. Unu pagu ’e feli amarigosat meda meli (basta un po’ di fiele per rendere amaro molto miele). Vedi marigosu. Amarigosau/ada, agg. Reso/a amaro/a, amareggiato/a. Amarturai(si), v. Diventare paralitico. Vedi màrturu. Amarturau/ada, agg. Paralizzato/a. Amascai, v. Iniziare a. Chi amascat a nïai, adïosu (se inizia a nevicare, addio). Amasedadura, s. f. Docilità, mansuetudine. Amasedai, v. Ammansire, rendere docile e mansueto (vedi masedu). Rif. alle persone e agli animali. Dd’at a a. su tempus (il tempo lo ammansirà). Amasedau/ada, agg. Ammansito/a. Bis comenti s’est a. (vedi 70 come si è fatto docile). Ameddai, v. Favorire la socializzazione di bestiame proveniente da due branchi diversi. Più in generale, addomesticare, rendere meno selvatico un branco. In rif. all’uomo vale: inserirsi, adattarsi a un gruppo. Cussu no ameddat (quel tizio non si inserisce, è un asociale). Ameddau/ada, agg. Reso/a docile. Amedïai, v. Diventare matto. Detto soprattutto delle pecore quando si ammalano e perdono la percezione. Amedïau/ada, agg. Impazzito/a. Rif. alle pecore matte, ma anche ai mufloni. Ocannu passau ddu iat unu mascu ’e murva a. a peréula in su caminu ’e su Tónneri. (l’anno scorso un muflone impazzito vagava sulla strada del Tónneri). Amelessadori, s. m. Persona facile alle minacce. Amelessai, v. Minacciare. Dd’amelessat in su prùbbicu (lo minaccia pubblicamente). Amelessau/ada, agg. Minacciato/a. Amelessu, s. m. Minaccia verbale. Acabbamidda cun is amelessus (smettila con le minacce). Amesturai, v. Mischiare. Cussu amesturat totu, agliu e cibudda (mischia tutto, aglio e cipolla). PAOLO PILLONCA Amesturau/ada, agg. Mischiato/a, confuso/a. Amesturu, s. m. Miscuglio, confusione. Est totu un’a. (è tutto un caos). In senso dispregiativo, quasi come imbestussu. Amincadura, s. f. Rincitrullimento. Amincai(si), v. Rincitrullire. Rendere simile a un pene (minca). Rincoglionirsi. Amincau/ada, agg. Rincitrullito/a, scimunito/a, sbalordito/a, inerte. Aminculu, escl. volg. Vaffanculo. Amindai, v. Abituare il bestiame al pascolo in una zona poco estesa (vedi minda). In senso lato, si può riferire anche all’uomo, con il significato di: inserire, adattare. Amindau/ada, agg. Ben inserito/a, assuefatto/a. Amischinadura, s. f. Umiliazione, perdita di dignità. Amischinàisi, v. Umiliarsi, abbassarsi, perdere dignità, accettare le condizioni altrui senza protestare. Po cumbenièntzïa Cristolu s’amischinat (Cristoforo si umilia per convenienza). Amischinau/ada, agg. Umiliato/a. Amoddïadura, s. f. Ammorbidimento. Amoddïai, v. Ammorbidire, ren- Mancarìas. La parlata di Seui dere più malleabile, diventare morbido. In senso reale e fig. Custa fa’ no ammòddïat (queste fave rimangono dure anche se le metti a mollo), bai ca giai amóddïas (vedrai che diventerai morbido). Amoddïau/ada, agg. Ammorbidito/a. Amolentadura, s. f. Riduzione a uno stato di abulia totale, simile a quella dell’ asino (molenti). Amolentai(si), v. Somigliare all’asino, sul versante della rassegnazione e della mancanza di iniziativa. Vedi aburricai(si). Amolentau/ada, agg. Simile all’asino. Vedi abburricau. Amonai, v. Confezionare in casa. Su presutu ’olit scìpïu a. (il prosciutto occorre saperlo confezionare). Amonamentu, s. m. Confezionamento, preparazione domestica. In sa maràndula contat meda s’a. (nel guanciale del suino conta molto il confezionamento). Amonau/ada, agg. Confezionato/a in casa. Amorai, v. Flirtare, amoreggiare, corteggiare. Amorau/ada, agg. Corteggiato/a. Amori, s. m. Affetto. Per rendere il senso della parola it. amore, nella parlata di Seui il vocabolo è stima/istima, anche se in questi 71 ultimi decenni la differenza tra i due sostantivi si è attenuata. Amorosu/a, agg. Affettuoso/a, delicato/a, gentile. Amostai, v. Far vedere, mostrare, indicare. D’apu ’idu, mi dd’amostat fatu fatu (l’ho visto, ogni tanto me lo mostra). Amostau/ada, agg. Mostrato/a, fatto/a vedere. No ddu connoscìa, mi dd’at a. Linu (non lo conoscevo, me l’ha fatto vedere Lino). Amostu, s. m. Mostra, visione. Su cüaddu ddu tenit feti po a. (il cavallo ce l’ha solo per mostrarlo). Ampru/a, agg. Grosso/a. Soprattutto nell’espr. mannu e a. (grande e grosso). Ampudda, s. f. Bottiglia. Desueto, sostituito da butiglia. Rimane vivo nell’espr. tapu ’e ampudda (pron. tapu ’e ’mpudda), per indicare una persona marcatamente bassa di statura. Ampuladura, s. f. Sollevamento. Ampulai, v. Sollevare di peso. Nce dd’àmpulu a sa mata (lo sollevo sull’albero). Anche nella forma rifl. Ampuladindi (sollévati). Ampulau/ada, agg. Sollevato/a di peso. Amucitadura, s. f. Costrizione al silenzio. Amucitai, v. Zittire, costringere al silenzio. Sa pobidda no ddu las- 72 sat chistïonai, dd’amucitat in donnìa (La moglie non lo lascia parlare, lo zittisce tutte le volte). Amucitau/ada, agg. Zittito/a, messo/a a tacere. Amullonadura, s. f. Disordine nella sistemazione della roba. Amullonai, v. Mettere sottosopra, raggomitolare. Vedi mulloni. Amullonau/ada, agg. Messo/a sottosopra. Tenit totu s’orrobba a. (ha tutta la roba sottosopra). Amuntonadura, s. f. Ammucchiamento caotico. Amuntonai, v. Ammucchiare. In senso reale e fig. Nd’amuntonat de cosas, cuddu (ne ammucchia di cose, quello lì). Vedi muntoni. Amuntonau/ada, agg. Ammucchiato/a. Amurradura, s. f. Perdita di un punto nel gioco della morra. Gergale. Vedi murra. Amurrai, v. Nel giogo della morra indica la perdita di un punto per distrazione o lentezza di riflessi. Gergale. Amurrau/ada, agg. Perso/a per errore nella morra, punto perduto. Amurvonadura, s. f. Inselvatichimento, isolamento, selvatichezza e diffidenza simili al comportamento dei mufloni. Ginu s’est fatu a a. (Gino si è come inselvatichito). Amurvonàisi, v. Inselvatichirsi PAOLO PILLONCA come i mufloni, isolarsi, incupirsi. Chi ddu scronnas, su pipìu s’amurvonat (se non lo accontenti, il bambino si incupisce). Amurvonau/ada, agg. Isolato/a, inselvatichito/a, diffidente. Amutadori, s. m. Essere fantastico, una sorta di folletto, che opprimerebbe chi dorme con un gravame indefinibile nei dettagli e tuttavia quasi fisico. Amutadura, s. f. Senso di oppressione che impaurisce i dormienti e li desta dal sonno. La credenza popolare lo attribuisce a un intervento dei trapassati sui vivi nelle ore notturne. Amutai, v. Opprimere nel sonno, quasi con gravame fisico. La sgravedole sensazione è attribuita popolarmente alle anime dei morti che interverrebbero sui vivi con richieste mai espresse chiaramente e dunque lasciate alla libera interpretazione di chi subisce s’amutadura o amutamentu. Per far cessare questi fenomeni, gli interessati si rivolgevano alle donne abrebadoras del paese e, nei casi più ostinati, alle preghiere del sacerdote. Amutamentu, s. m. Vedi amutadura. Amutau/ada, agg. Oppresso/a nel sonno. Mancarìas. La parlata di Seui Anadi, s. f. Anitra. Anca, s. f. Gamba. Ma in questa accezione il s. è desueto, sostituito dal più comune camba. Sopravvive però al pl. nell’espr. segamentu ’e ancas, rottura di scatole. Ancu, cong. Che. Si usa esclusivamente per introdurre una imprecazione o una maledizione. A. ti calit unu lampu (che un fulmine ti colpisca), a. ti pighit su mali caducu (che ti venga l’epilessia), a. mai ti bias (che mai più ti riveda). Ancùa, s. f. Anca. S’ossu de s’a. è l’osso dell’anca. Andada, s. f. Andata. A s’a. totu ’eni, su malu nd’est (pr. er) benìu a a sa torrada ca fut totu in bessida (all’andata tutto bene, il brutto è venuto al rientro perché era una salita continua). Usato in una maledizione ellittica del pred. verb.: s’a. ’e su fumu (la partenza del fumo, ossia senza ritorno). Andai, v. Andare, partire. Si nd’andat (parte). L’imperativo presente alla prima sing. è bai. Irreg. come in it. Àndala, s. f. Sentiero. Indica quei camminamenti nel bosco segnati dal passaggio ripetuto del bestiame. Est un’à. ’e crabas (è un sentiero di capre). Il s. ha un utilizzo copioso anche sul piano traslato. Est pighen- 73 du un’à. mala (sta imboccando una cattiva strada). Frequente anche il dim. andaledda, riferito più che altro ai percorsi della selvaggina: mufloni, cinghiali, volpi, lepri e conigli. In padenti ddu at paricias andaleddas (nel bosco ci sono parecchi sentierini). Andamentu, s. m. Andamento, comportamento. Andarina, s. f. e agg. Amante delle uscite, girovaga, poco seria. Riferito soprattutto alle ragazze indocili. Andau/ada, agg. Andato/a, partito/a, trascorso/a. Andechibbeni, s. m. Via-vai. In domu sua ddu at un’a. sighìu (in casa sua c’è un via-vai ininterrotto). Andetorra (anda e torra), s. f. Traffico continuo di partenze e rientri, spola fra un luogo e l’altro. Ginu at bìvïu paricius annus in Germania e imoi est sempir a s’a. (Giovanni ha vissuto per parecchi anni in Germania e ora va e viene di continuo). Àndïa, s. f. Portantina, sedia gestatoria. In senso fig. - preceduto dalla prep. in e dal verbo pónniri - vale: tenere in grande considerazione e trattare con ogni riverenza possibile. Nce ddu ponïant in àndïas totus ma candu d’ant isperi- 74 mentau nde dd’ant iscutu a terra (lo trattavano tutti come un papa in sedia gestatoria ma dopo averlo conosciuto bene l’hanno scaraventato per terra). Andria, n. pr. di pers. Andrea. Oggi questo nome lo si impone all’italiana ma la toponomastica documenta in modo indelebile un sito detto Sa perda ’e Andrïotu (la pietra di Andreuccio) nel Tacu della parte alta del salto comunale. Aneddai, v. Inanellare, dotare di anello. Per est. regalare gioielli alla propria donna. Aneddau/ada, agg. Inanellato/a. Aneddu, s. m. Anello. Esiste anche la variante oneddu, forma popolaresca pressoché desueta, e il dim. aneddigeddu per gli anelli delle bambine. Angiadina, s. f. Nascita di agnelli e capretti, stagione delle nascite. Gergale degli ovili. Angiai, v. Partorire. Oggi riferito soprattutto agli animali: un’ebba angiada (una cavalla con il puledrino). Talvolta nel senso di replicare, nelle imprecazioni: mali caducu angiau, (malcaduco ripetuto), come dire: le sventure non vengono mai da sole. Àngilu, s. m. Angelo. Àngilu, n. pr. di pers. Angelo. Molto più freq. al dim. (Angi- PAOLO PILLONCA leddu). Angioneddu, s. m. Agnellino. In senso fig. persona ricondotta a più miti consigli. Is prepotentis, candu ddus abruncas, timint e parint angioneddus (i prepotenti, se li affronti a muso duro, si spaventano e sembrano agnellini). Angioni, s. m. Agnello. Si usa anche per definire il cucciolo della mufla, ma sempre con la specificazione: a. ’e murva. Angüidda, s. f. Anguilla, soprattutto quella di fiume di cui la comunità ha larga esperienza, ma anche quella di mare e di stagno. Definisce, inoltre, nel gergo degli allevatori e dei macellai, il filetto del maiale. Usato anche il dim. angüiddedda, sia in rif. a un’anguilla di piccole dimensioni sia al filetto di un maiale giovane. Anìa/aunìa, avv. Dove. Con verbi di stato e di moto a luogo. A. ses, a. ses movendu? (dove sei, dove sei diretto?). Ànima, s. f. Persona defunta. Dongiu una missa a is ànimas (farò celebrare una messa in suffragio dei defunti). Ma talvolta il s. vale l’it. coscienza, come nell’espr. ànima mia lìbbera (senza colpa per la mia coscienza), quando si riferisce una diceria di particolare rilevanza e gravità e non ci si vuole Mancarìas. La parlata di Seui compromettere. Animeta, s. f. Bottone di camicia. Presente nei soprannomi. Animosu/a, agg. Coraggioso/a. Ànimu; s. m. Animo, coraggio, tempra, grinta, resistenza di fronte alle difficoltà della vita. Vedi indanimai. Anintru, avv. Dentro, all’interno. Annada, s. f. Annata. Rif. soprattutto all’andamento del ciclo pastorale, che divide le annate in bonas e malas (scarse e abbondanti) a seconda della quantità di pioggia e neve e la rigidità delle temperature stagionali. In un territorio come quello di Seui, che ha i pascoli migliori sopra gli ottocento metri di altitudine, è inutile che piova ad inizio autunno se poi sopraggiungono anzitempo temperature troppo rigide da non consentire la crescita dell’erba autunnale. Annapadura, s. f. Velame, copertura con un velo (soprattuttodi nebbia o di vapore). Annapai, v. Coprire con un velo di nebbia o vapore.Velare. Cussu birdi s’annapat (quel vetro è velato). Vedi napa. Annapau/ada, agg. Velato/a. Si dice delle superfici lisce, vitree e/o metalliche, ma si può usare anche nelle metafore in rif. all’uomo. Mi 75 paris mesu a. (mi sembri un po’ annebbiato). Annarbai(si), v. Ricoprire/ ricoprirsi di muffa. Vedi narba. Annarbau/ada, agg. Ricoperto/a di muffa. Annebidai(si), v. Annebbiare. Su logu est annebidendusì (la nebbia sta avvolgendo la zona). Anche in senso met. Est una conca chi s’annébidat po nudda (è una testa che si annebbia per un nonnulla). Il dev. è nébida (nebbia). Annebidamentu, s. m. Annebbiamento. Annebidau/ada, agg. Annebbiato/a. Annennerïai, v. Vezzeggiare con parole e canti. Candu su molenti non bolit bufai dd’annennérïu (quando l’asino non vuole bere lo vezzeggio). Annennerïau/ada, agg. Vezzeggiato/a. Annennérïu, s. m. Vezzeggiamento di parole, rivolto ai bambini e anche agli animali domestici, asini e cavalli soprattutto, quando si mostrano indocili ai comandi. Annestai, v. Innestare. Sostituisce, anche se non del tutto, il più arcaico infèrriri. Annestau/ada, agg. Innestato/a. Annestu, s. m. Innesto. Operazione delicata che presuppone non 76 soltanto manualità sperimentata ma anche una particolare inclinazione naturale: il pollice verde, come si suole dire oggi. L’esecuzione di un innesto deve rispettare le fasi lunari e il ciclo vitale delle piante. Vedi infertura. Annica, n. pr. di pers. Anna. Annïeddigai, v. Annerire. Anche in senso trasl. per indicare percosse. T’annïéddigu is càrigas (ti annerisco le narici). Vedi nïeddigori e nïeddu. Annïeddigau/ada, agg. Annerito/a. Anninnìa, s. f. Ninna-nanna. Il canto della culla in versi settenari, diffusissimo a Seui fino a non molti anni fa, splendidamente gestito dalle mamme e dalle altre donne di creatività poetica naturale del parentado. Anninnïai, v. Cantare la ninnananna al bambino nella culla. Si dice a. sa ’ogi per indicare la cura delle curve melodiche. Anninnïau/ada, agg. Cullato/a al canto della ninna-nanna. Annirgai, v. Nitrire. Anche in senso fig., rif. alle persone che ridono in maniera strana o scomposta. Candu si ponit a erriri parit annirghendu (quando ride sembra che nitrisca), acabbadda de a. (smettila di nitrire). Annìrghidu, s. m. Nitrito. PAOLO PILLONCA Annomingiai, v. Soprannominare. Arte coltivata con grande cura, anche per la necessità di mettere ordine tra le tante omonimie del paese. Sarbadori annomingiat a totus ma non bolit a dd’a. (Salvatore affibbia soprannomi a tutti ma non vuole essere soprannominato). Annomingiau/ada, agg. Soprannominato/a. Annomingiu, s. m. Soprannome. A Seui, come in quasi tutti i paesi dell’interno, ne esiste una lunga e articolatissima serie che documenta la fantasia di chi li crea. Per un verso i soprannomi sono una necessità, per un altro rispondono alla vena burlesca della comunità. Sarebbe di grande interesse effettuare una ricerca specifica in questo ambito singolare. Chi chelegunu ddi narat s’a., a Sarbadori nde ddi parit mali (se qualcuno si rivolge a lui con il soprannome, Salvatore si offende). Annovai, v. Salutare una persona che non si vedeva da tempo e intrattenersi con lei a scambiarsi notizie (vedi novas). Nella forma rifl. vale: darsi reciprocamente notizie e aggiornarle, rispetto alla volta precedente. Annu, s. m. Anno, segmento di tempo di dodici mesi. Annüadorgiu, s. m. Punto esat- Mancarìas. La parlata di Seui to in cui cade un nodo o uno snodo, sia nelle stoffe sia nelle giunture del corpo umano e animale. Vedi nu’. Annüai, v. Annodare, fare un nodo. Annüau/ada, agg. Annodato/a, ben stretto/a. Annugiai, v. Rattristare, rendere triste. Annugiau/ada, agg. Rattristato/a, malinconico/a. Annugiu, s. m. Tristezza, malinconia. Annüilamentu, s. m. Rannuvolamento. Annüilài(si), v. Rannuvolare, rannuvolarsi. Candu s’annùilat no est in donnìa chi proit (quando il cielo si rannuvola non è sempre che piove). Annüilau/ada, agg. Nuvoloso/a, rannuvolato/a. Oi su celu est totu a. (oggi il cielo è completamente nuvoloso). Anò?, avv. No? Lo si usa soltanto nelle proposizioni interrogative. Benis, a.? (vieni o non vieni?). Somiglia molto al latino an non. Anta ’e corti, s. f. Tronco secco di ampia ramificazione utilizzato nelle mandrie degli ovili come appenditoio. Antoni, n. pr. di pers. Antonio. Il dim è Antoneddu. 77 Antonicu, n. pr. di pers. Antonio. Il dim. è Antonicheddu. Antrecoru, s. m. Anticuore. Attacco cardiaco. Usato anche, più genericamente, per definire un dolore localizzato nella cassa toracica. Antzangioni, s. m. Aglio selvatico. Cresce spontaneo e copioso nella parte alta del territorio seuese, comunale e demaniale, in particolare nella zona di Anulù e dintorni. Antzïadorgiu, s. m. Appenditoio utilizzato esclusivamente per la frutta fresca (pere, mele, uva) che si appende nelle cantine e si conserva per l’inverno. Apalïamentu, s. m. Lavoro con la pala. Apalïai, v. Trattare con la pala, battere. Vedi pàlïa. Apalïau/ada, agg. Battuto con la pala. Frequente l’espr. corrudu e a. (cornuto e picchiato). Apariciai, v. Preparare, confezionare, apparecchiare. Oi seus in dus feti e duncas no apariciu nemancu sa mesa (oggi siamo soltanto in due e dunque non apparecchio nemmeno la tavola). Apariciau/ada, agg. Apparecchiato/a. Apariciu, s. m. Preparativo. Maria est in-d-un’apariciu mannu ca oi dd’erribant figlius e neboded- 78 dus (Maria è affaccendata in un grande preparativo perché oggi arriveranno i figli e i nipotini). Aparïèntzïa, s. f. Apparenza, finzione, vista. Ddu narat po un’a. (lo dice per finta), a s’a. giai parit una personi ’ona (a prima vista sembra una brava persona). Apàrriri, v. Apparire. Il v. indica in particolare le apparizioni più o meno miracolose di cui spesso si narra in certi ambienti. Apartai(si), v. Mettere da parte. Imoi apartu mantas e lentzorur de lana (ora metterò da parte coperte e lenzuola di lana), apartaus is chistïonis (mettiamo da parte le divergenze), a Giüanni dd’ant apartau (Giovanni è stato messo da parte). Isolarsi, farsi da parte, appartarsi. Po non donai unu disprageri a fradi miu m’apartu (per non dare un dispiacere a mio fratello mi metto da parte). Apartamentu, s. m. Appartamento. Di superstrato. Apartau/ada, agg. Messo/a da parte, isolato/a. Apartu/a, agg. Apparso/a. A Lina dd’est aparta una pantuma (a Lina è apparsa una figura fantasmatica). Da apàrriri. Apedalai, v. Pedalare. In senso fig. andar via, correre, fuggire. Apedala (vattene). Vedi pedali. PAOLO PILLONCA Aperdigonai, v. Colpire con pallettoni. In cassa Armandu at aperdigonau su cani (in una battuta di caccia Armando ha colpito il cane con una fucilata a pallettoni). Aperdigonau/ada, agg. Colpito/a da pallettoni. Apetigai, v. Calpestare. Anche in senso fig.: trattar male, opprimere. Apetigau/ada, agg. Calpestato/a. In senso reale e non. Apetotu, avv. Dappertutto, dovunque. Apicadorgiu, s. m. Attrezzatura adatta per appendere provviste: salsicce, prosciutti, frutta secca. Spesso era una pertica sospesa tra due prese, su un muro o sotto la volta di una stanza. Apicai, v. Appendere. Detto di cose e animali macellati. Nel rifl. vale arrampicarsi. Si nc’est apicau a s’ùlimu che nudda (è salito sull’olmo come se niente fosse). Apicamanteddu, s. m. Appenditoio per vestiti e soprabiti in genere, non solo per il mantello. Vedi manteddu. Apicau/ada, agg. Appeso/a. Apicigai, v. Attaccare, incollare. Spesso con venatura d’ironia. Sin. di picigai. Nel rifl. indica anche l’attaccarsi alle persone tipico degli importuni. Comenti mi bit si Mancarìas. La parlata di Seui nd’apicìgat e non mi scapat (come mi vede si attacca a me e non mi libera). Apicigau/ada, agg. Attaccato/a, stretto/a. Apicorrobba, s. m. Appenditoio multiuso (apica orrobba, appendiroba). Apigliai, v. Venire alla superficie, emergere, riemergere. Sa beridadi nd’apigliat in donnìa (la verità viene sempre a galla). Apigliau/ada, agg. Venuto/a alla superficie, emerso/a. Apilardai, v. Far seccare al sole alcuni tipi di frutta (fichi, pere, pesche, prugne, fichidindia) ma anche i pomodori. Vedi pilarda. Apilardau/ada, agg. Rinsecchito/a. Nel linguaggio traslato è spesso riferito anche a persone. Lina s’est totu a. (Nina si è rinsecchita completamente). Apilurtzàisi, v. Sentire la pelle d’oca, avere i brividi. M’apilurtzat feti a s’arregodu (il solo ricordo mi fa venire la pelle d’oca). Candu ddu biu m’apilurtzu (quando lo vedo mi vengono i brividi). Apilurtzau/ada, agg. Con la pelle d’oca, in preda ai brividi. Àpïu, s. m. Sedano (apium graveolens). Apiri, cong. Se. Càstia apiri est proendu (controlla se sta piovendo). 79 Apocu, cong. avv. lett. intraducibile, ma che corrisponde all’incirca all’italiano ”non posso dire di (che) non”, ”eccome”. Si trarra di municipalismo esclusivo della parlata di Seui. Ddu scit sorri tua? A. ddu scit! (Tua sorella lo sa? Lo sa, eccome!). Bolis bufai? A. apu bufau! (Vuoi bere? Non posso dire di non aver bevuto!). Apoddigadura, s. f. Serie di impronte digitali, anche lasciate involontariamente come avviene ai bambini. Apoddigai, v. Toccare con le dita (vedi póddigi, desueto). Ha una venatura di ironia e insieme di disprezzo, come di azione sconveniente. Palpare, palpeggiare. Apoddigamentu, s. m. Palpeggiamento. Apoddigau/ada, agg. Palpato/a, palpeggiato/a. A-i cusssa d’ant apoddigada in paricius ( quella lì l’hanno palpeggiata in molti). Apoddighingiu, s. m. Palpeggiamento. Apoddincionàisi, v. Rannicchiarsi, accosciarsi. Apoddincionau/ada, agg. Rannicchiato/a, accosciato/a. Apogliai, v. Stare in pace, smettere di agitarsi. No apogliat nudda (non ha un attimo di pausa). Anche nel rifl. Apogliadì pagu pagu 80 (stai un po’ calmo), chi ddi pigat su sonnu giai s’apogliat (se gli verrà il sonno starà tranquillo). Apogliau/ada, agg. Rimesso/a posto, tranquillizzato/a. Apogliu, s. m. Pace, riposo. Non tenit a. (non ha pace). Usato spesso avverbialmente: abarra a. (stai in riposo). Apónniri, v. Tener conto, considerare, replicare. Non si ddu-i mancu aponit (non replica neppure), come di cosa che non lo riguardi. Apontzïadura, s. f. Messa in posa. Apontzïai, v. Assumere atteggiamento e linguaggio e sussiegosi. Si totu apontzïat (è tutto sussiegoso). Usato anche nella forma rifl. Non t’apontzis (non atteggiarti). Apontzïamentu, s. m. Contegno affettato. Apontzïau/ada, agg. Affettato/a, contegnoso/a, sussiegoso/a. Lina est sempir a. (Lina è sempre sussiegosa). Aposentai(si), v. Piazzarsi, sistemarsi, anche a dispetto di altri. Si nd’aposentat in domu e non fait fini ’e si nd’andai (si piazza a casa mia e non si decide ad andarsene). Aposentau/ada, s. m. Sistemato/a in un luogo anche senza invito. Aposentu, s. m. Stanza, locale PAOLO PILLONCA della casa. Tenit una ’omu manna, cun degi o ùndigi a. (ha una casa enorme, con dieci o undici stanze). Apostu/a, agg. Contrapposto/a, replicato/a. Part. pass. di apónniri. Aprapidai, v. Toccare con le mani in assenza di luce, affidandosi esclusivamente al tatto. Non ha alcuna venatura di disprezzo, riflette una necessità. Aprapidau/ada, agg. Toccato/a con mano. Apràpidu, s. m. Tatto, operazione necessitata - dalla mancanza di illuminazione o dall’esigenza di non farsi scoprire, ad esempio - di affidarsi alle mani per rendersi conto della situazione. Aprapuddai, v. Palpare, palpeggiare. Con senso lievemente ironico. E ita totu ses aprapuddendu? (che vai palpeggiando?). Vedi apoddigai. Aprapuddamentu, s. m. Palpeggiamento. Aprapuddau/ada, agg. Palpeggiato/a. Apressibbimentu, s. m. Sveltimento, accelerazione. Apressibbiri, v. Affrettare, per necessità o scelta. Vedi pressi (fretta). Apressibbìu/a, agg. Affrettato/a. Apretai, v. Incalzare, aggravare una situazione già di per sé semi- Mancarìas. La parlata di Seui compromessa. Nos apretat su tempus (il tempo ci incalza). Sveltire con rischio di compromettere l’azione. A. sa petza (avvicinare troppo al fuoco la carne che si sta arrostendo). Si usa spesso in rif. a un malato in fase terminale: est apretau (è molto grave). Apretau/ada, agg. Costretto/a dalla necessità, malato/a grave. Apretu, s. m. Stato di necessità, condizione di emergenza. S’a. ponit su ’eciu a cùrriri (l’emergenza fa correre anche le persone anziane): lo sostiene un prov. Aprigu, s. m. Luogo riparato. Sa ’ingia est in-d-un’a. (la vigna è in un punto riparato). Usato anche come agg. Pissenti tenit unu coili a. (Vincenzo ha un ovile ben riparato). Come agg. si usa esclusivamente al maschile. Aprimài(si), v. Entrare in discordia. S’aprimat mesu ’idda (entra in discordia con mezzo paese). Vedi prima. Aprimau/ada, agg. Offeso/a. S’est a. po nudda (si è offeso senza motivo). Aprobbai, v. Verificare, sottoporre a controllo. Dd’apu aprobbau (l’ho verificato). Il v. assume talvolta anche il senso di verifica volpina, effettuata con sotterfugi tipici dello spionaggio. E ita mi 81 ’olis, a? (mi stai forse controllando?). Aprobbau/ada, agg. Verificato/a, accertato/a, sottoposto/a a controllo. Aprobbu, s. m. Verifica, conferma. Apröigliai, v. Sopraggiungere, talora anche inaspettatamente. As a biri ca Antoni puru nd’apröigliat a cantu seus nosu (vedrai che anche Antonio ci raggiungerà). Apröigliau/ada, agg. Sopraggiunto/a. Aprossimativa, s. f. Approssimazione. Chene bisongiu ’e ddu andai a fini a fini, feus un’a. (senza scendere nei dettagli, facciamo un calcolo approssimato). Aprumunitadura, s. f. Contrazione di polmonite. Aprumonitài(si), v. Ammalarsi di polmonite o di altri disturbi polmonari. Su frius dd’aprumonitat inderetura (il freddo gli provoca disturbi immediati ai polmoni). Aprumonitau/ada, agg. Malato di polmonite o altri disturbi polmonari. Aprussïerai, v. Riempire di polvere di carbone. Francesismo entrato nella parlata di Seui nei primi decenni del secolo scorso in seguito alla massiccia ondata 82 migratoria di minatori seuesi in Francia. Vedi prussïera. Aprussïerau/ada, agg. Silicotico/a (lett. pieno/a di polvere di carbone). Apubada, s. f. Percezione veloce ma non sicura. Apubai, v. Scorgere confusamente, intravedere. Come di visione fantasmatica (vedi puba). Dd’apu apubau ’e tesu (l’ho intravisto da lontano). Apubau/ada, agg. Intravisto/a. Apunciadura, s. f. Messa a punto di chiodi. Apunciai, v. Fissare chiodi, chiodare qualunque materiale: legno, sughero, cuoio, ferro, ferula. Vedi puncia. Apunciau/ada, agg. Chiodato/a. Apundadura, s. f. Sistemazione di un peso in più. Apundai, v. Mettere un peso (pondus). Oi depu a. is presutus (oggi debbo mettere i pesi sopra i prosciutti). Essere pesante. Chi ddu-i ponis patata apundat (se ci metti le patate, il peso aumenta). Apundau/ada, agg. Caricato/a di un peso. Apuntorài(si), v. Colpire ed essere colpito da dolori improvvisi e acuti al torace. Su frius de custu mengianu est apuntorendumì (il freddo di stamattina mi sta facendo venire dolori forti). Lüisu fatu PAOLO PILLONCA fatu s’apuntorat (Luigi ogni tanto viene colpito da dolori). Apuntoramentu, s. m. Attacco improvviso con sintomatolgia marcata di dolore alla cassa toracica. Apuntorau/ada, agg. Pieno/a di dolori acuti. In senso lato, malato/a. Vedi puntori. Apuntorgiadura, s. f. Imbastitura. Sin. di apuntorgiu. Ne nasce anche una loc. avv. Apuntorgiai, v. Imbastire. Voce gergale dei sarti, usata anche in senso met. per lo più sul versante dell’ironia. Apuntorgiau/ada, agg. Imbastito/a. Apuntorgiu, s. m. Imbastitura. Sin di apuntorgiadura. Apurdonai(si), v. Riunirsi, sistemarsi a grappolo. Usato con venatura ironica. Sa genti a bortas s’apurdonat (la gente talvolta si raccoglie come gli acini dei grappoli d’uva). Apurdonau/ada, agg. Raggruppato/a strettamente, come un acino in un grappolo. Apùrriri, v. Porgere. Apurrimindi cudda seguri (porgimi quella scure). Offrire senza far scomodare il destinatario, recapitare. Apurtu/a, agg. Recapitato/a. Mi nde dd’at a. a peis (me l’ha recapitato a domicilio, lett. ai miei piedi). Mancarìas. La parlata di Seui Aràdulu, s. m. Aratro. Di legno e di ferro. Aradura, s. f. Aratura. Esiste anche la variante arongiu. Arai, v. Arare. Anche per indicare le tracce del passaggio dei cinghiali alla ricerca di cibo nel terreno. In s’ortu miu is sirbonis ddu arant ’ónnïa chissi (nel mio orto i cinghiali arano tutte le notti). Arangiu, s. m. Arancio e arancia, pianta e frutto. Su pranu de su Sarrabus est totu a a. (la pianura del Sarrabus è tutta coltivata ad aranci), bonu cuss’a. (buona quella arancia). Viva l’antifrasi bonu arangiu e meglius su cumpangiu, per indicare una coppia male assortita. Arau/ada, agg. Arato/a. Arba/barba/braba, s. f. Barba. Mi facu s’a. (mi taglio la barba). Ma il verbo da cui il s. deriva suona abrabïai. Arbada, s. f. Vomero. Arbili, s. m. Aprile. Per ammonire sull’incostanza del bel tempo in questo mese sono state tramandate diverse espressioni proverbiali tuttora vive nella lingua quotidiana: a., torrat procu a süili (aprile, il maiale ritorna al suo ricovero), con le varianti cani a cöili (il cane all’ovile) e gatu a fogili (il gatto al focolare) e a. at mortu sa mamma a frius (aprile ha fatto morire sua 83 madre di freddo). In effetti, sui monti di Seui, non sono rare le nevicate d’aprile. Arbitïai, v. Intuire. Indica quel tipo di intuizione che deriva da sensibilità d’animo oltre che dalla capacità di decodificare al volo anche i messaggi subliminali. Mancai no ddi neri nudda, Maria arbìtïat (anche se non le dico una parola, Maria intuisce al volo). Arbitïau/ada, agg. Intuìto/a. Arbitïosu/a, agg. Intuitivo/a, capace di afferrare in un baleno intenzioni e desideri altrui e di rispondere adeguatamente a seconda delle necessità. Arbìtïu, s. m. Intuizione raffinata. Dote rara, per cui s’a. viene tenuto in grandissima considerazione nel giudizio della comunità. Una delle valutazioni più amare sulle persone che si vorrebbero destinare a compiti migliori o promuovere di livello nelle gerarchie comunitarie non scritte è proprio questo: bonu ’e totu s’atru ma non tenit a. (buono per tutto il resto ma non ha intuizione). Arbu/a, agg. Bianco/a. Desueto come agg. autonomo, sopravvive in parecchi composti: faciarbu (dalla testa bianca, rif. agli animali), linnarbu (pioppo, lett. dal tronco bianco), pëarbu (dalla 84 zampa bianca, rif. agli animali), perdarba (pietra bianca), spinarba (spina bianca) e in qualche toponimo: Montarbu, Perdas arbas, Su Linnarbu, etc. Arcada, s. f. Arcata. Arcai, v. Arcuare, fare ad arco. Arcau/ada, agg. Arcuato/a. Arcannissu, s. m. Impianto di canne per la prima stagionatura del formaggio nelle cantine. Sospeso in aria con una fune su due travi per evitare i topi. Arcau/ada, agg. Arcuato, arcuata. Arcu, s. m. Arco. Definisce le sommità dei monti che hanno la forma d’arco. Nella toponomastica figura varie volte, ad iniziare dal toponimo più noto, Arcüerì. Àrculu, s. m. Alcool. Ci si riferisce, per lo più, a quello denaturato delle farmacie. Ardasai, n. pr. di luogo. Il toponimo indica sia il punto più alto della vallata che si affaccia sul Flumendosa - il fiume che segna il confine tra i territori comunali di Seui e di Arzana - sia il nuraghe che la sovrasta. Arega ’e meli, s. f. Cera d’api. Arèi, s. f. Gregge poco numeroso. Il s. si usa anche fuori dal gergo degli ovili quando si vuole indicare un gruppo irrilevante di persone (un’a. ’e genti). PAOLO PILLONCA Arëigedda, s. f. Piccola parte di un gregge. Con lieve senso ironico, talvolta. Meda ndi tenit de crabas, cussu? Un’a. (Ha molte capre, quello lì? Pochissime). Arena, s. f. Sabbia. Presente in un top. al dim. per indicarne la finezza, S’arenedda bïanca, nella parte alta del territorio comunale, tra la lecceta di Paùli e il nuraghe di Ardasai. Arenada, s. f. Melograno (Punica granatum) e melagrana, albero e frutto. Ma per indicare l’albero, nel caso specifico, si premette una mata de ( un albero di). Arestadura, s. f. Inselvatichimento, di animali e di luoghi. Usata la loc. avv. a a. Arestài(si), v. Inselvatichirsi. Di animali e terreni ma anche, più di rado, dell’uomo. Cudda craba fut arestendusì (quella capra stava per inselvatichirsi), su logu est totu arestau (il terreno si è completamene inselvatichito), Antoni fatu fatu s’arestat (ogni tanto Antonio si inselvatichisce). Arestau/ada, agg. Inselvatichito/a. Di luoghi e uomini. Aresti, agg. Selvatico, indomito, ribelle. Si dice di alberi non innestati (cerésia a., ciliegio selvatico), di animali non domati (su purdeddu est a., il puledro è indomito) o co- Mancarìas. La parlata di Seui munque poco mansueti (cuss’’erbei est a., quella pecora è ribelle) ma anche, più che altro in senso ir. dell’uomo e della donna. Est una picioca a. (è una ragazza poco arrendevole). Aréu, s. m. Parentado, discendenza, razza. Ddu tenit de a. (gli deriva dagli antenati). Vedi arrampili e arratza. ’Argaglia/gragaglia, s. f. Capra giovane. Anche al dim. ’argagliedda/gragagliedda. Argüai, inter. Guai. Si usa nelle esclamazioni di ammonimento e/o di minaccia. A. ’e tui (guai a te). Argüena/orgüena, s. f. Trachea. In senso fig. voce potente. Portat una bona a. (ha una voce stentorea). Àrinu, s. m. Càrpino nero (ostrya carpinifolia). Specie forestale importata ma molto presente nel Tònneri. Non ama il caldo e nelle zone più fredde prende il sopravvento anche sul leccio. Arma, s. f. Arma. Indica le armi da fuoco (fucile e pistola in particolare) e anche l’Arma dei carabinieri. Dd’at arrestau s’A. (lo hanno arrestato i carabinieri), si ddu est posta s’A. (sono intervenuti i carabinieri). Armadori, s. m. Armatore. Gergale del lavoro in miniera. 85 Armadura, s. f. Armatura, allestimento, preparazione. Armai, v. Armare, allestire, preparare. Chiusa la miniera di antracite, l’uso più frequente del v. riguarda la macellazione del bestiame domestico: a. unu pegus significa: preparare un animale in modo da poterlo appendere per intero a petza neta (senza più interiora né ventrame) alla vista degli estranei. Armau/ada, agg. Armato/a. Cussu piciocu fut a. (quel ragazzo aveva un’arma), sa craba est a. (la capra è già stata preparata). Armidda, s. f. Timo serpillo (thymus serpyllum). Erba profumata quant’altre mai, cresce spontaneamente oltre gli ottocento metri di altitudine in molti siti del territorio di Seui, dove più dove meno, in cespugli bassi, spesso su superfici molto vaste. Comunemente utilizzata da secoli e per molti usi dai pastori (soprattutto contro la zoppia del bestiame, per la stagionatura del formaggio e la cicatrizzazione di ferite), oggi la si usa sempre più spesso in decotti e infusi contro i disturbi respiratori e come disinfettante, cicatrizzante e lozione dopobarba, una volta fatta macerare per una quindicina di giorni in alcol puro. Annota Demetrio Ballicu, medico a Seui 86 per quarant’anni, dal 1922 al 1962, in Miscellanea (Cagliari, 1972, pag. 83): ”L’infuso si usa come colluttorio nella stomatite aftosa”, mentre il timolo ”è indicato nella cura dell’elmintiasi”, la verminosi intestinale. La raccolta delle parti aeree (quelle legnose non si utilizzano) si effettua quando l’arbusto è in fioritura, purché non sia periodo di luna piena. Il plenilunio - ammoniscono i grandi erboristi, Maurice Messegué in testa, e sa bene la popolazione locale - toglie la virtù a tutte le erbe medicamentose. Ma al di là degli impieghi materiali, il timo rappresenta un rimando poetico di notevole suggestione, nell’immaginario della comunità, e un simbolo sublime di appartenenza. Nei ricordi degli emigrati seuesi da tempo lontano, su nuscu ’e s’a. (il profumo del timo) è un’espressione fortemente evocativa dei fremiti di nostalgia. Armiddargiu, s. m. Terreno in cui abbonda il timo serpillo. Armugoddu, s. m. Tracolla con banda anteriore supplementare. Frequente la loc. avv. a a. (a tracolla). Arongiu, s. m. Aratura. Il s. indica le operazioni che si riferiscono al tempo autunnale in cui tornano in azione gli aratri, oggi PAOLO PILLONCA non più a trazione animale. Arrabïai(si), v. Provare ira, infuriarsi. M’at fatu a. (mi ha fatto infuriare), s’arràbïat po dónnïa cadumèntzïa (si infuria per ogni sciocchezza). Arrabïau/ada, agg. Iracondo/a, rabbioso/a, furente. Arrabïosu, s. m. Malleolo. La definizione per esteso è s’ossu ’e s’a. Arràbïu, s. m. Rabbia, ira. Molto usato come escl. ad ampio spettro e nelle imprecazioni. . Arrafïeli/a, n. pr. di pers. Raffaele, Raffaela, Raffaella. Arràïu, s. m. Fulmine. Usato come esclamazione d’ira e sdegno e nell’imprecazione a. ddi calit (che gli scenda un fulmine). Arramineta, s. f. Attrezzo in ferro con manico di legno, utilizzato per togliere la corteccia agli alberi. Arràmini, s. m. Rame. Gli oggetti domestici in rame sono definiti s’a. ’e cogina (il rame della cucina). Questa espr. si utilizza anche in senso met. in rif. alla bellezza delle donne di una casa. Non cichis s’a. ’e c. (lascia stare le donne di casa). Arrampanadura, s. f. Percezione visiva immediata. Arrampanai, v. Scorgere, vedere in un baleno. Con una venatura di rabbia, però. No arràmpanas? Mancarìas. La parlata di Seui (Possibile che tu non veda?). Arrampanau/ada, agg. Scorto/a, visto/a. Arrampili, s. m. Origine, genesi, razza, parentado, stirpe. Vedi areu e arratza. Arrana, s. f. Rana, ranocchio. Per est. rospo. Arrancidai(si), v. Inacidire, divenire rancido. Custu lardu s’arràncidat (questo lardo inacidirà). Arrancidau/ada, agg. Inacidito/a. Arràncidu/a, agg. Rancido/a. Arranda, s. f. Randa, margine, pizzo. Arrandai, v. Mettere il pizzo a centrini, camicie, lenzuola, tovaglie. Per estensione, abbellire con ornamenti. Arrandau/ada, agg. Ornato/a di pizzo. Arrangiai(si), v. Riparare. Seus arrangendu in domu (a casa stiamo facendo lavori di restauro). Nella forma rifl. vale trovare un accordo: giai s’ant a a. (troveranno un accordo). Arrangiamentu, s. m. Accordo, transazione. Arrangiau/ada, agg. Riparato/a. Arrangiolu, s. m. Ragno. Dónnïa corrunconi est prenu ’e arrangiolus (ogni angolo è pieno di ragni). Ma per indicare la ragnatela il s. non 87 viene usato e gli si preferisce arrangiu. Vedi lanarrangiu. Figura nei soprannomi. Arrangiu, s. m. Riparazione. In domu ddu-i ’olit chelegunu a. (in casa serve qualche riparazione). Arrasadura,s. f. Misurazione a raso. Arrasai, v. Rimettere a raso. Gergale degli agricoltori, rif. alla misurazione dei cereali nei contenitori tarati. Arrasau/ada, agg. Rimesso/a, sistemato/a a raso. Arrascotadura, s. f. Degenerazione non voluta del latte per coagulo. Arrascotàisi, v. Lasciar andare a male il latte, per coagulo non voluto, in modo da renderlo inutilizzabile. In questo caso il latte si definisce arrascotau. Arrascotu, s. m. Ricotta. Arrasigadura, s . f. Raschiatura, graffiatura. Arrasigai, v. Raschiare, limare. In senso fig. per definire una contesa verbale. Ant arrasigau (hanno discusso fino al limite del diverbio). Nel gergo dei pastori vale: rubacchiare. Figura come soprannome all’imperativo pres. Arrasigau/ada, agg. Raschiato/a, limato/a. Arrasoïa, s. f. Coltello a serra- 88 manico, da secoli in uso nel mondo dell’ovile. Secondo una felice espressione di Bachisio Bandinu, è una sorta di prolungamento della mano del pastore. Quello tradizionale ha il manico di corno di montone (se di muflone il livello di qualità sale al massimo) e la lama di acciaio ossidabile. Deve essere fatto a mano in tutte le fasi di lavorazione. Per crearne uno di media dimensione occorrono complessivamente circa sei ore di lavoro. I fabbri di Seui ebbero per lungo tempo grande fama anche come autori di coltelli a serramanico. Oggi la tradizione resiste ma i coltellinai sono pochi, anche se di ottimo livello. Arrasta, s. f. Traccia, orma di uomo e/o animale, segno. In una canzone in ottava rima di Giuseppe Moi noto Matrallinu (1910-1943) troviamo la seguente chiusa di strofe: Sa fémina ’olit punta a s’arrasta/ ca sa prus bella est sa prus ’rgüasta (la donna deve essere punta sull’orma del piede perché la più bella è la più dissoluta), con riferimento ad un antico rituale magico secondo cui per far del male a distanza a una persona occorreva infilzarne un’orma impressa sul terreno. Vedi irdarrastai. Arratu, s. m. Periodo di tempo. PAOLO PILLONCA Ginu in Germania ddu at trabbagliau unu bonu a. (Gino ha lavorato per un lungo periodo in Germania). Arratza, s. f. Razza, origine, parentado, genesi, stirpe. Vedi areu e arrampili. Arratzai, v. Migliorare la razza, far incrociare il proprio bestiame per ottenere capi sempre migliori. Efisïu s’orrobba sua dd’at arratzada ’e di ora meda (Efisio il suo bestiame l’ha migliorato da molto tempo). Arratzau/ada,agg. Incrociato/a. Arrebbambiri(si), v. Rimbambire, perdere il senno. No est a totus chi su tempus arrebbambit (non tutti perdono il senno con il passare del tempo). Ddu tenint ’e aréu, cöidant a s’a. (è nella loro natura, rimbambiscono anzitempo). Arrebbambìu/a, agg. Rimbambito/a. Arrebbassu, s. m. Cianfrusaglia, oggetto di poco valore. Fulianci totu, m’as prenu sa ’omu de a. (butta via tutto, mi hai riempito la casa di cianfrusaglie). Arrebbecai, v. Contraddire, insistere anche a torto. Arrebbecamentu, s. m. Opposizione testarda, contraddittorio spesso senza logica. Arrebbecu/a, agg. Persona pre- Mancarìas. La parlata di Seui potente che vorrebbe avere sempre ragione. Arrebbellai(si), v. Ribellarsi. Arrebbellia, s. f. Ribellione. Arrecamai, v. Ricamare. Anche ricamai (vedi). Arrecamau/ada, agg. Ricamato/a. Arrecamu, s. m. Ricamo. Arrechèdiri, v. Desiderare, avere necessità. Candu erribat s’istadi s’abbardenti non m’arrechedit prus (quando arriva l’estate non sento più desiderio di acquavite), cun sa castangia a orrostu arrechedit su ’inu (con le castagne arrosto si desidera il vino). Arrechédïu/a, agg. Desiderato/a. Arreciai, v. Mettere grate. Arreciau, s. m. Grata, inferriata. Arreciau/ada, agg. Sistemato/a a grate. Arrecracamentu, s. m. Pressione ripetuta. Arrecracai, v. Pressare. Presente nei soprannomi al part. pass. m. (arrecracau). Arrecrëidura, s. f. Presa di possesso, per lo più illegittima. Arrecrèiri(si), v. Impossessarsi, godere di. Lassamiddu, cussu marteddu, ca giai no mi nd’arrecreu (prestami quel martello, non me ne impossesserò). Arrecrétïu/a, agg. Impossessa- 89 to/a. Arrecumanda, s. f. Raccomandazione, invito pressante, esortazione cordiale. Arrecumandada, s. f. Raccomandata, una delle forme di invio della corrispondenza postale. Arrecumandai, v. Raccomandare. M’arrecumandu, movidindi (mi raccomando, sbrigati). Arrecumandau/ada, agg. Raccomandato/a. Arrecumandìtzïa, s. f. Consiglio, invito, regalo. Arrecumpentza, s. f. Ricompensa, gratitudine, riconoscimento. Arrecumpentzai, v. Ricompensare, esser grato. Arrecumpentzau/ada, agg. Ricompensato/a. Arreddopïadura, s. f. Raddoppio, raddoppiamento. Arreddopïai, v. Raddoppiare, duplicare. Arreddopïau/ada, agg. Raddoppiato/a. Arredùsiri, v. Ridurre, riportare a un livello inferiore. Bis comenti dd’arredusit su bufongiu (vedi a che punto lo riduce il vizio del bere). Arredùsïu/a, agg. Ridotto/a. Sa prussïera dd’at a. mali (la polvere di carbone l’ha ridotto male). Arrega, s. f. Razione. Usato per 90 lo più in senso ir. e spregiativo. Arregai, v. Razionare, alimentare opportunamente. Ddus arregat beni (li nutre bene). Desueto. Arregalai, v. Regalare. Arregalau/ada, agg. Regalato/a, donato/a, offerto/a. Arregalu, s. m. Regalo, dono, strenna. Arregau/ada, agg. Alimentato/a, nutrito/a, razionato/a. Arregiola, s. f. Mattonella. Arregiolai, v. Pavimentare in mattonelle. Arregiolau, s. m. Stanza pavimentata con mattonelle. Arregiolau/ada, agg. Pavimentato/a con mattonelle. Arregionai, v. Ragionare. Convive con il superstrato ragionai. Arregioni, s. f. Ragione. S’a. a chini dda tenit (la ragione a chi ce l’ha). Arregodai, v. Ricordare, avere a mente. Usato anche nella forma rifl. Arregodau/ada, agg. Ricordato/a. Arregodu, s. m. Ricordo. Arrególliri, v. Raccogliere, cogliere. Arregorta, s. f. Raccolta. Arregortu/a, agg. Raccolto/a. Arregulada, s. f. Regolamento, norma, regola. Arregulai, v. Regolare. PAOLO PILLONCA Arregulau/ada, agg. Regolato/a. Arrëigadura, s. f. Sistemazione delle pertiche negli orti. Arrëigai, v. Mettere le pertiche (arreigas) ai fagioli e alle piantine deboli o giovani. Apu arrëigau s’ortu (ho messo le pertiche nell’orto). Arreìga, s. f. Pertica che serve di sostegno stabile ad alcune coltivazioni, ad es. il fagiolo, e di protezione temporanea agli alberelli appena piantati. Arreìgini, s. f. Radice. In senso reale e fig. S’ìligi portat arreìginis (pron. arreìginir) mannas (il leccio ha radici estese), lassa is cambus, càstia s’a. (con curarti dei rami, guarda la radice). Arréiri, v. Reggere, tenere per sé. Sa càvana ti dda lassu ma non ti dd’arreas (la roncola te la presto ma non appropriartene), arrëididdu (tienitelo). Il part. pass. è arrésïu/a (tenuto/a, lasciato per sé): sa càvana non fut sa sua ma si dd’at a. (la roncola non era sua ma se l’è tenuta). Arrellogeri, s. m. Orologiaio. Arrellogiu, s. m. Orologio. Vedi irdarrellogiai. Arremài(si), v. Ridurre, mettersi da parte, ridursi all’immobilità. Arremaddu cussu trasti (metti da una parte quell’arnese). Est arre- Mancarìas. La parlata di Seui mendusì (è pressoché immobilizzato). Arremau/ada, agg. Ridotto/a all’immobilità. Maria est a. ’e di ora (Maria è da tempo immobilizzata). Arremoddai, v. Diventare molle, farsi morbido. Detto soprattutto del pane. Arremoddamentu, s. m. Rammollimento, ammorbidimento. Arremoddau/ada, agg. Rammollito/a, ammorbidito/a. Arremonai, v. Citare, ricordare q.no in assenza dell’interessato. No mi dd’arremonis (non citarmelo), no dd’arremonat prus nemus (non lo ricorda più nessuno). Arremonamentu, s. m. Citazione. Arremonau/ada, agg. Ricordato/a, citato/a. Eus arremonau is sordaus mortus in sa gherra manna (abbiamo ricordato i soldati morti nella grande guerra). Arremundicu, n. pr. di pers. Raimondo. Si usa anche al dim. Arremundicheddu. Arremundu, n. pr. di persona. Raimondo. Esistono altri due diminutivi: Mundeddu e Mundicheddu. Arrenatu, n. pr. di pers. Renato. Arrenfriscai, v. Rinfrescare. Arrenfriscau/ada, agg. Rinfre- 91 scato/a. Arrenfriscu, s. m. Rinfresco. Arrennèsciri, v. Riuscire. Dennantis podia aguantai tres o cüatru dis chene papai, imoi no nci arrennesciu prusu (in passato potevo resistere tre o quattro giorni senza mangiare, ora non ci riesco più). Arrennéscïu/a, agg. Riuscito/a. Arrenovadura, s. f. Rinnovo. Arrennovai, v. Rinnovare. Arrennovau/ada, agg. Rinnovato/a. Dolori a. peus de su passau (il dolore rinnovato è peggiore del primo). Arrennuntzïai, v. Rinunciare. Arrennuntzïau/ada, agg. Rinunciato/a. Arrepicai, v. Suonare ripetutamente le campane della chiesa. In senso fig. e ir. vale: insistere, fare il petulante, etc. Un’ora ses arrepichendu (smetti di fare il petulante). Arrepicau/ada, agg. Insistito/a. Arrepicu, s. m. Suono insistente e insistito di campane. Arrepitinnatu, s. m. Pipistrello. Arrepìtiri, v. Ripetere, reiterare, ribadire. Chi ddi ’onas unu cumandu non ti ddu fait inderetura ma ’olit a si dd’a. (se gli dài un ordine non te lo esegue subito ma bisogna ribadirglielo). Presente nei soprannomi all’imperativo pres. (arrepiti). 92 Arrèpitïu/a, agg. Ripetuto/a, reiterato/a. Arrésciri, v. Incastrare. Andare di traverso. Bloccare. Anche nella forma rifl. S’arrescit füeddendu (si blocca nel parlare). Arréscïu/a, agg. Incastrato/a, bloccato/a. Arrescìu, s. m. Impiglio, incastro, ritardo, impedimento, imprevisto, sosta. Si bit ca at agatau a. (evidentemente è incappato in un imprevisto). Da non confondere con il part. pass. di arrésciri, che ha diverso accento. Arresfrïàisi, v. Raffreddarsi, prendere il raffreddore. Arresfrïau/ada, agg. Raffreddato/a. Arresfriu, s. m. Raffreddore. Chi ne viene colpito è arresfrïau. Arrésïu/a, agg. Tenuto/a per sé, appropriato/a. Part. pass. di arrèiri. Arrespetai, v. Rispettare, avere riguardo. Arrespetau/ada, agg. Rispettato/a. Arrespetu, s. m. Rispetto, riverenza. Arressega, s. f. Risega, Restringimento della muratura di una casa, in pianta o in sezione. In su muru ’e cogina in domu ddu at un’a. (nel muro della cucina di casa c’è un restringimento). Ma il PAOLO PILLONCA s. definisce anche lo spazio lasciato tra due muri di confine adiacenti, nelle abitazioni di due proprietari diversi. Arresurtai, v. Risultare, derivare, conseguire. Arresurtau, s. m. Risultato, esito, conclusione, conseguimento. Eus a biri s’a. chi n’as a bogai (vedremo quale risultato otterrai). Arresurtau/ada, agg. Concluso/a, risultato/a, conseguito/a. Arresuscitai, v. Resuscitare, risorgere. Di uno che sparisce senza dire nulla a nessuno e poi ricompare come d’incanto si dice: mortu e a. (morto e resuscitato). Arresuscitau/ada, agg. Resuscitato/a. Arretai, v. Entrare in erezione, eccitarsi. Cussa picioca no ddu fait a. (quella ragazza non lo eccita). Arretera, s.f. Trappola per topi. Arretu/a, agg. Eccitato/a. Nel linguaggio figurato, al di là del senso erotico, indica eccitazione in generale, quella tipica di chi tende ad ottenere qualcosa e non riesce a nasconderlo. Ndi fut benìu totu a. (era arrivato tutto eccitato). Arretùmini, s. m. Eccitazione, erezione, priapismo. Arretzeta, s. f. Ricetta. Del medico, in primis, ma anche del cuoco o della creatrice di dolciumi. Mancarìas. La parlata di Seui Arretzetai, v. Ricettare, prescrivere, ordinare con una ricetta. Mi dd’arretzetat su dotori (me lo prescrive il medico). Arretzetau/ada, agg. Prescritto/a, ordinato/a, stabilito/a. Lo si usa anche in senso ir. e antifrastico. Arrevedu/arrëivedu, s. m. Utero. Vedi fedu. Arrevesa, s.f. Vendetta, restituzione di colpo, rivincita. Ddi torru s’a. (gli restituisco il colpo), eus pérdïu sa primu partida, imoi ’oleus s’a. (abbiamo perduto la prima partita, ora vogliamo la rivincita). Arrevesciu/a, agg. Testardo/a. Che fa le cose al contrario. Arrevudai, v. Rifiutare, respingere. Prov.: su mari no arrevudat abba (il mare non respinge l’acqua). Piuttosto desueto. Arrevudau/ada, agg. Rifiutato/a. Arrevudu, s. m. Rifiuto, scarto, immondezza. Arrïali, s. m. Reale, antica moneta d’argento. Nella parlata seuese attuale indica una ipotetica moneta di scarso valore. Non tenit mancu tres a. (è uno spiantato, lett. non ha nemmeno tre reali, per definire uno che non possiede nulla), cussu non balit tres a. (quel tizio non vale nulla). Arribbimentu, s. m. Stitichezza. Arribbìrisi, v. Soffrire di stiti- 93 chezza. Arribbìu/a, agg. Stitico/a. In senso fig. vale: spilorcio, taccagno, avaro. Arridai, v. Tostare, irrigidire, disseccare con una fonte di calore, naturale o artificiale che sia. Sa linna s’àrridat (la legna si dissecca), imoi àrridu su pani (adesso metto a tostare il pane). Arridau/ada, agg. Tostato/a, irrigidito/a, disseccato/a. Arridelu, s. m. Fillirea (phillyrea angustifolia), specie molto presente nel territorio, pascolo d’elezione per le capre e i mufloni. Àrridu/a, agg. Rigido/a, croccante. Cussu civargeddu mi parit à. (quella focaccia mi sembra croccante). In senso fig. altero, borioso, indisponente, intrattabile, scostante, superbo, suscettibile. Arrïolai(si), v. Far entrare in ansia, essere in ansia. Cöida a contonïai, giai ddu scis ca chi adduras in domu tua s’arrïolant (rientra presto a casa, sai bene che se fai tardi i tuoi entrano in ansia). Arrïolau/ada, agg. Ansioso, preoccupato. Arrïolu, s. m. Preoccupazione, pensiero fisso, ansia. Artana, s. f. Trappola per cani. Nella parlata di Seui ha ora un campo semantico confinato nel 94 gergo: lo si usa come imprecazionemaledizione, sempre nei confronti dei cani, così come si usa fogali (malattia dei suini) quando si vuole indicare con disappunto, e in un certo senso maledire, il maiale. Artari, s. m. Altare. Artàrïa, s. f. Altezza. Non tenit s’a. e no ddu pigant (non raggiunge l’altezza minima prescritta e non lo assumeranno). Altitudine. Su nuragi de Ardasai est a prus de milli metrus de a. (il nuraghe di Ardasai si trova ad oltre mille metri di altitudine), dónnïa mata ’olit s’a. sua (ogni pianta ha una sua altitudine preferita). Arti, s. f. Arte, mestiere. De totus is artis, in bidda nci nd’at pagus: mäistus de linna, ferreris, mäistus de muru, mäistus de pannu, sabbateris (di tutti i mestieri, nel nostro paese ci sono pochi rappresentanti: falegnami, fabbri, muratori, sarti, calzolai). Artista, s. m. Artigiano, artista. Artiteddu/a, agg. Piuttosto alto/a. Cussa picioca est a. (quella ragazza è piuttosto alta). Artu/a, agg. Alto/a. Riferito alla statura umana e all’altitudine di colline e montagne. Arturu, n. pr. di persona. Arturo. Artzïada, s. f. Salita, erta. Artzïai/artzai, v. Salire. Nc’est PAOLO PILLONCA artzïau a punta ’e campalini (lett. è salito fino alla vetta del campanile, ha preteso troppo). Sopraelevare. At artzïau sa ’omu de una soleta (ha sopraelevato la sua casa di un piano). Artzïau/ada, agg. Salito/a, fatto/a salire. Arvolotai, v. Turbare, sconvolgere, nauseare. M’arvolotat (mi sconvolge). Arvolotau/ada, agg. Turbato/a, sconvolto/a. Arvolotu, s. m. Confusione, disordine, sconquasso, subbuglio, turbamento. Linu at pesau un’a. mannu (Lino ha causato un grande subbuglio). Asciolu, s. m. Piccola ascia. Ascurtai/ iscurtai/ scurtai, v. Ascoltare. Il v. assume anche il senso ulteriore di dare ascolto, mettere in pratica i consigli ricevuti, attuare i suggerimenti etc. Narasiddu tui, ca t’ascurtat (diglielo tu, dal momento che ti ascolta), chini no ascurtat non podit arrespùndiri a su chi ddi narant (chi non ascolta non può rispondere a ciò che gli si dice). La capacità d’ascolto è condizione basilare per meritare la considerazione del paese. Antoni cumprendit de prusu ca ascurtat a totus (Antonio capisce di più perché ascolta tutti). Mancarìas. La parlata di Seui Ascurtau/ada, agg. Ascoltato/a. Asonïada, s. f. Rientro a casa. Asonïai, v. Rientrare a casa. Candu fait festa Antoni asónïat a chissi (quando fa festa Antonio rientra a notte fonda). Asonïau/ada, agg. Rientrato/a a casa. Aspu/a, agg. Acerbo/a, asprigno/a. Cuss’arangiu est a., quell’arancia è asprigna. Assa, s. f. Filo tagliente di lama. Vedi irdassai, rompere il filo di un’arma e/o di un oggetto da taglio. In senso fig. vale: grinta, sfavillio nevrile, prepotenza. Ndi portat de a. cussu (ne ha di grinta, quello). Vedi assudu. Assachitadura, s. f. Scuotimento, scossone, sobbalzo. Usato anche in loc. avv. Assachitai, v. Scuotere, come si fa con i sacchi quando li si deve riempire del tutto. Sobbalzare. M’assachitat totu (mi fa sobbalzare a lungo). Assachitau/ada, agg. Scosso/a. Assargia, s. f. Argia. Una particolare specie di formica la cui puntura provoca dolori tanto forti che un tempo si curavano con una complessa articolazione di rimedi a base di balli e canti, diversi a seconda del tipo di argia causa del grave disturbo. Sui rituali dell’ar- 95 gia in Sardegna, nei primi anni Sessanta, ha promosso e iniziato una ricerca il celebre etnologo Ernesto De Martino. Anche Seui fu esplorato a lungo dagli allievi del grande professore: molti furono i casi riscontrati e confortati dalle testimonianze dei protagonisti e vittime della brutta avventura. Dopo la morte repentina dello studioso una sua ex-assistente ha riordinato le schede e pubblicato il lavoro. A suo nome. Assargiai, v. Fortificare, far diventare d’acciaio (assargiu). Usato prevalentemente in senso fig. Custu patimentu m’assargiat (questa sofferenza mi fortifica). Assargiau/ada, agg. Fortificato/a, reso/a resistente. Assargiu, s. m. Acciaio. Anche met. per indicare grande resistenza. Assaubbadura, s. f. Infradiciamento. Assaubbai, v. Impregnare d’acqua, infradiciare. Dona crobba, chi ddu lassas äici cussu cardulinu s’assaùbbat totu (fai attenzione, se li lasci così quei funghi diventano tutti fradici). Assaubbau/ada, agg. Fradicio/a d’acqua. Asseai(si), v. Aver sapore di sego (seu). Ma il verbo si usa quasi escl. 96 in relazione a un cibo lasciato raffreddare che, per questo, cambia sapore diventando immangiabile. Cussa patata s’asseat (quelle patate diventeranno acide). Asseamentu, s. m. Inacidimento. Asseau/ada, agg. Inacidito/a, con sapore di sego. Asselïai, v. Aggiustare, riparare. Imoi assélïu sa prentza (ora aggiusterò il torchio). Il riflessivo asselïàisi vale: calmarsi, darsi una regolata. Asselïadì (càlmati). Asselïau, ada, agg. Riparato/a (detto di cose), tranquillizato/a (detto di persone). Assélïu, s. m. Riparazione. Ma più spesso, in senso fig.: tranquillità, calma. Immoi su logu est in a. (adesso la zona è tranquilla). Assenegai, v. Respirare affannosamente. Assenegau/ada, agg. Dal respiro affannoso. Assenegu, s. m. Respiro pesante, affanno. Assentadura, s. f. Appunto scritto. Assentai, v. Mettere in ordine, segnare per iscritto. Nel gergo commerciale, il v. indicava l’iscrizione nel registro dei creditori di un negozio, che pagavano dopo un certo periodo di tempo. Assentamiddu (ségnamelo). PAOLO PILLONCA Assentau/ada, agg. Ordinato/a, registrato/a. Assentu, s. f. Messa in ordine, sistemazione, appunto. Dev. di assentai, poco usato. Assetïai, v. Correggere, modificare in meglio, sistemare a dovere. Assetïau/ada, agg. Corretto/a, sistemato/a meglio. Assétïu, s. m. Sistemazione adeguata, tranquillità. Immoi s’est postu in a. (ora si è tranquillizzato). Dev. di assetïai. Assidadura, s. f. Fornitura di fronde verdi al bestiame da latte in difficoltà. Assidai, v. Dare fronde di alberi sempreverdi (sida) al bestiame brado durante le nevicate. Vedi afrongiai. Assidau/ada, agg. Alimentato/a con verzura. Crabas e bacas ddas apu assidadas custu mengianu (capre e vacche le ho nutrite di fronde stamattina). Assissadura, s. f. Attizzamento. Assissai, v. Attizzare. Assissa su fogu (attizza il fuoco). Sollevare. Assissadindi is cartzonis (sollévati i pantaloni). Assissau/ada, agg. Attizzato/a, sollevato/a. Assistèntzïa, s. f. Aiuto, assistenza, solidarietà. Assìstiri, v. Aiutare, assistere Mancarìas. La parlata di Seui materialmente e/o spiritualmente. Assìstïu/a, agg. Aiutato/a, assistito/a. Ma esiste anche la forma con l’accento spostato sulla penultima sillaba (assistìu/a). Assistu, s. m. Aiuto, assistenza da parte di entità ultraterrene: Dio, la Madonna e/o i Santi. Il s. - desueto nel linguaggio della quotidianità - sopravvive nelle preghiere rituali delle abrebadoras che chiedono l’assistenza della sfera soprannaturale. Assogadura, s. f. Cattura del bestiame mediante funi. Assogai, v. Catturare con una fune. In rif. agli animali, bovini soprattutto, ma anche, nel rito carnevalesco della sfilata di mamuthones e issocadores di Mamoiada, ai visitatori affunati per gioco dagli issocadores del paese barbaricino. Vedi soga. Assogau/ada, agg. Catturato/a, preso/a con una fune scagliata da lontano. Assogi, s. m. Uccello notturno che fa sentire il suo canto nelle notti d’estate. Assoladura, s. f. Isolamento spontaneo, del bestiame e dell’uomo. Assolài(si), v. Isolarsi dal gruppo, stare in solitudine. Cudda craba fatu fatu s’assolat (ogni tanto 97 quella capra si isola dal branco). Assolau/ada, agg. Isolato/a, solitario/a. Detto degli animali ma anche delle persone. Linu s’est a. (Lino si è isolato). Assolïadura, s. f. Esposizione al sole. Assolïai, v. Esporre al sole, prendere il sole. Assolïau/ada, agg. Esposto/a ai raggi del sole. Assopïadura, s. f. Azzoppatura, zoppìa. Per incidente, colposo o doloso che sia. Gioghendu a bocia nd’apu ’oddiu un’a. (giocando a pallone ho rimediato una zoppìa). Assopïai, v. Zoppicare. Dd’apu ’idu assopïendu (l’ho visto zoppicare). Azzoppare. Linu fatu-fatu assópïat su cüaddu (Lino ogni tanto azzoppa il cavallo). Rif. a persone e animali. Vivo nell’uso il prov. chini andat cun su sopu assópïat (chi va con lo zoppo zoppica). Vedi sopìmini (zoppìa). Di questo v. esiste la variante atzopïai, di superstrato. Assopïau/ada, agg. Azzoppato/a. Sartendu una cresuri mi soi a. (mi sono azzoppato nel saltare una siepe). Assuconai, v. Spaventare. Non mi facas a. (non farmi spaventare), non m’assùcunis (non spaventarmi). Anche nella forma rifl. assu- 98 conàisi. Assuconau/ada, agg. Spaventato/a, turbato/a, sotto choc. Assùcunu, s. m. Spavento. A piticu nd’at boddìu un’a. e no nd’est curau (da piccolo ha preso uno spavento e non si è più ripreso). Assudu/a, agg. Grintoso/a, prepotente. Vedi assa. Assüergiai, v. Rendere resistente come la quercia da sughero (vedi süergiu). Desueto ma ancora presente nel lessico dei pastori e delle persone anziane. Indica quello stato di grazia, fisica e psichica, che regala all’uomo una sorta di imperturbabilità non solo di fronte alle difficoltà materiali ma anche davanti agli eventi più inattesi e dolorosi dell’esistenza. Assüergiau/ada, agg. Temprato/a, resistente. Assüergiu, s. m. Tempra di mente e di cuore, resistenza e imperturbabilità di fronte alla res incerta del tempo e degli uomini. Assüermada, s. f. Calmata, tranquillizzazione. Assüermadura, s. f. Stato di calma, tranquillità. Assüermài(si), v. Calmare. Non s’agatat cosa chi dd’assüermit (non cè nulla che lo calmi), nci nd’at bòfïu po dd’a. (ce n’è voluto per calmarlo). Nella forma rifl. vale: PAOLO PILLONCA darsi una calmata, tranquillizzarsi. Imoi assüermadì (ora datti una calmata). Assüermau/ada, agg. Tranquillizzato/a, calmato/a, assestato/a. Assüermu, s. m. Quiete, calma. Feti su sonnu ddu ponit in a. (soltanto il sonno ha il potere di calmarlo). Assurcadura, s. f. Predisposizione dei solchi. Assurcai, v. Solcare, fare dei solchi. Vedi surcu. Assurcau/ada, agg. Solcato/a. Assustrai, v. Spaventare, atterrire, scioccare. No assustris su pipìu (non spaventare il bambino). Al rifl. vale: spaventarsi, atterrirsi, entrare in stato di choc. A nai ca at tìmïu est pagu, s’est assustrau (dire che ha avuto paura è poco, è rimasto scioccato). Assustrau/ada, agg. Spaventato/a, atterrito/a, scioccato/a. Assustru, s. m. Spavento, terrore, choc. Un tempo, se qualcuno rimaneva scioccato da un evento grave, si ricorreva anche ad apposite preghiere recitate dal sacerdote, dette is vangélïus (nella pronuncia isciangélïus), o alle formule rituali di abrebadoras particolarmente esperte in questo tipo di scongiuri. Si trattava di méiga (medicina), se il rituale prevedeva l’uso di acqua, Mancarìas. La parlata di Seui carbone o altro, di semplici abrebus se la terapia magico-religiosa era soltanto verbale. Lüisa a Linu dd’at nau is abrebus po s’a. (Luisa per Lino ha fatto gli scongiuri contro lo spavento). Astiladura, s. f. Sofferenza in fase acuta. Astilai, v. Far provare dolori acuti. Astilau/ada, agg. Nevrastenico/a, psicolabile. Antoni est un’a. (Antonio è uno psicolabile). In preda a dolori forti. Eriseru fui totu sa dì a. (ieri avevo dolori per tutto il giorno). Astili, s. m. Dolore acuto, cefalea compresa. In senso fig. idea fissa, manìa, frenesia, nevrastenia. Àstula, s. f. Scheggia, frammento. Vivo il prov. truncu ’etat à. (ogni tronco produce schegge). Astuladura, s. f. Riduzione in schegge. Astulai, v. Ridurre in schegge, frammentare. Detto del legname da opera. Gergale dei falegnami. Astulau/ada, agg. Ridotto/a in schegge. Pres. in un’imprecazionemaledizione: a. sias (che tu possa essere ridotto in schegge). Asuladura, s. f. Colorazione di blu, illividimento. Asulai, v. Colorare di blu, illividire. 99 Asulau/ada, agg. Illividito/a, diventato/a bluastro/a. Asulu/a, agg. Blu, bluastro/a, livido/a. Asuta/ a suta, avv. Sotto. A. ’e süercu (sotto l’ascella). Vedi suta e negli esempi sulle locuzioni avverbiali alla lettera A. Atacadura, s. f. Nascondimento. Oggi significa anche perseveranza nel dare noia al prossimo e viene usato talvolta nel significato di attacco di un supporto a un arnese. Atacai(si), v. Nascondere. Su ’inari dd’atacat in dónnïa corrunconi de ’omu sua (i soldi li nasconde in tutti gli angoli di casa sua), andat ataca-ataca (cammina tentando costantemente di nascondersi). poita t’atacas? (perché ti nascondi?). Più raramente nel senso dell’it. attaccare. Nel rifl. vale anche: appiccicarsi, attaccarsi, importunare, non mollare la presa. Cussu, chi non donas crobba, s’atacat e non ti scapat prusu (quello se non stai attento, ti si appiccica e non ti molla più). Atacau/ada, agg. Nascosto/a. Ataciadura, s. f. Sistemazione dei chiodi nelle scarpe. Ataciai, v. Mettere dei chiodi, soprattutto alla suola delle scarpe. Vedi tacia. Ataciau/ada, agg. Chiodato/a. 100 Atacu, s. m. Attacco. Il momento acuto di una patologia. Nd’at benìu un’a. a su coro (gli è venuto un attacco di cuore). Ma il s. si usa anche nel gergo del gioco del calcio, per indicare il settore avanzato dello schieramento della squadra. Atalaminadura, s. f. Concimazione con il letame. Atalaminai, v. Concimare con il letame, pratica tuttora molto diffusa, nonostante i tempi mutati, perché il letame proveniente da allevamenti allo stato brado è sempre ritenuto il migliore fra tutti i concimi possibili. Maria s’ortu dd’atalàminat dónnïa annu (Maria concima l’orto tutti gli anni con il letame). Vedi talàmini. Atalaminau/ada, agg. Concimato/a con il letame. Atäuleddadura, s. f. Protezione di un arto fratturato o lussato - ma anche di altro - mediante stecche di legno. Atäuleddai, v. Proteggere con stecche di legno (täuleddas) una frattura o lussazione, come si faceva prima del ricorso all’ingessatura e come si fa ancora in via provvisoria nei casi di emergenza. Riparare da guai peggiori qualche oggetto. Vedi tàula. Atäuleddau/ada, agg. Protetto/a PAOLO PILLONCA con stecche di legno. Atenïai(si), v. Adattare, adattarsi, adeguarsi, capire e rispettare le esigenze altrui. È uno dei verbi che si è soliti definire pregnanti, proprio per la varia articolazione di significati che racchiude in sé. Gisepu cumprendit totu e candu serbit s’aténïat a acantzai chelegunu disigliu aglienu puru (Giuseppe capisce tutto e quando occorre si adatta a soddisfare anche qualche desiderio altrui). Atenïau/ada, agg. Adattato/a, largamente disponibile a capire. Aténïu, s. m. Adattamento alle esigenze esterne. Aterradura, s. f. Atterramento. Aterrai, v. Atterrare, far cadere a terra, ridurre definitivamente in soggezione ma anche umiliare al termine di un diverbio. Aterramentu, s. m. Atterramento, assoggettamento totale, umiliazione grave. Aterrau/ada, agg. Sconfitto/a definitivamente. Atesu, avv. Lontano. Su cöili nc’est a. (l’ovile è lontano). Atéu, escl. Oddio! Esclamazione-interiezione tipica di Seui (altrove esiste la variante oddéu!), tuttora tanto viva nell’uso (e nell’abuso) da aver perso la forza originaria, ridotta ormai all’irrilevan- Mancarìas. La parlata di Seui za talora fastidiosa di un mero intercalare. In certi rioni del paese, il ricorso a questa parola è più notevole che in altri. Atidiladura, s. f. Disposizione circolare, come di un cercine. Atidilai, v. Disporre a mo’ di cercine (tidili). C’è anche il rifl. atidilàisi (disporsi come un cercine). Candu si crocat Lüisa s’atidilat (quando si mette a letto Luisa sembra un cercine), atidilau chi si siat, cumentzat a sorruschïai (una volta sistemato a mo’ di cercine, inizia a russare). Atidilau/ada, agg. Disposto/a a cercine. Atilla, s. f. Pretesto, scusa, osservazione critica. Pïeru agatat a. a dónnïa cosa (Piero trova sempre da ridire su tutto). Atillai, v. Cercare scuse, avere da ridire. Atitadora, s. f. Poetessa orale capace di improvvisare canti funebri. A differenza delle prefiche prezzolate, is atitadoras di Seui improvvisavano spontaneamente per ore alla presenza del morto e dei parenti e non ricevevano alcun compenso materiale. Tutto si giocava sull’onore reso al defunto, sul prestigio che ne poteva derivare alle donne in possesso di questa grande virtù creativa e sulla futura 101 benevolenza dei congiunti della persona commemorata nei confronti delle atitadoras. Atitai, v. Improvvisare un canto funebre. Come indica la parola stessa, il significato recondito di questo verbo chiama in causa il s. tita (mammella). Dunque la làude funebre era come un allattamento simbolico, post mortem, quasi un viatico oltre la porta buia: il morto che ritorna bambino indifeso ed ha bisogno dei capezzoli materni. Atitau/ada, agg. Onorato/a con il canto funebre. Atìtidu/atitu, s. m. Canto funebre. In versi settenari, appare strutturalmente uguale ai canti della culla. Anche a Seui questi due canti estremi e apparentemente opposti tra loro possono essere considerati le fonti primarie dell’intero patrimonio di poesia orale della comunità. Le donne che li gestivano erano capaci di improvvisare anche su altri moduli, primo fra tutti su mutetu: sia quello in settenari, sia quello in ottonari con accompagnamento di organetto o di fisarmonica. Vedi tita. Atitiglionai, v. Sostare al freddo intenso, provare brividi. Giai ddu atitiglionas igui (ti raffredderai sicuramente stando là). Atitiglionamentu, s. m. Rabbri- 102 vidimento. Atitiglionau/ada, agg. Rabbrividito/a. Atobïai, v. Incontrare, per lo più casualmente, ma non sempre: può trattarsi anche di incontro voluto. Oi m’est atobïau Franciscu, fui ’e di ora chene ddu biri e tandu mi soi traténnïu a chistïoni (oggi ho incontrato Francesco, da tempo non lo vedevo e mi sono intrattenuto a parlare con lui). Ne esistono due varianti: adobïai e obïai. Atobïau/ada, agg. Incontrato/a. Atóbïu, s. m. Incontro. Eus postu un’a. (abbiamo fissato un appuntamento). Atocai, v. Schernire, deridere pubblicamente. Atocau/ada, agg. Deriso/a, schernito/a. Atocu, s. m. Scherno, derisione pubblica. Dd’at postu s’a. (lo ha apostrofato in pubblico, l’ha schernito). Atongili, s. m. Tempo, stagione autunnale. Atongiu, s. m. Autunno. Per la comunità è una delle stagioni migliori dell’anno, permanendo di norma un clima mite ed essendo questo il tempo della vendemmia, della raccolta di castagne e nocciole e - fino a non molti decenni fa della semina comunitaria. PAOLO PILLONCA Atontïadura, s. f. Deconcentrazione, perdita di percezione, rimbambimento. Usato anche in loc. avv. Atontïai, v. Rincitrullire, rincoglionire. A-i cussu piciocheddu dd’atòntïat su babbu a corpus (quel ragazzino è rincitrullito dal padre a furia di percosse) Anche nella forma rifl. S’est atontïau (si è rincoglionito). Atontïamentu, s. m. Sin. di atontïadura. Atontïau/ada, agg. Rincitrullito/a. Atravadura, s. f. Sistemazione delle pastoie di ferro alle zampe degli animali. Atravai, v. Mettere le pastoie. Atrava is cüaddus (impastoia i cavalli). Vedi trava. Atravau/ada, agg. Impastoiato/a. Atrebussai, v. Mettere sottosopra. Lett. lavorare con il tridente (trebussu). L’uso più frequente è però quello metaforico. E ita totu ses atrebussendu? (che cosa vai pasticciando?). Atrebussau/ada, agg. Messo/a sottosopra. Atremenai, v. Segnare i confini, stabilire i termini. In senso fig. ammonire secondo regole e limiti (tréminis) precisi. Sa mama dd’atrémenat beni (la madre Mancarìas. La parlata di Seui l’ammonisce severamente). Vedi stremenai. Atremenau/ada, agg. Ammonito/a severamente. Atremuligiai, v. Far tremare, spaventare. Trattare con severità. Non m’atremuligis (non spaventarmi). Atremuligiau/ada, agg. Spaventato/a, atterrito/a, tremebondo/a. Atrinnitadura, s. f. Ingioiellamento. Atrinnitai(si), v. Ingioiellare, agghindare. Esiste anche la variante trinnitai. Atrinnitau/ada, agg. Ingioiellato/a. Molto usato anche trinnitau. Atripai, v. Percuotere. Completamente scomparso dall’uso corrente, vive soltanto nella loc. a tripaciocu (vedi). Atrivimentu, s. m. Azzardo. Atrivìrisi, v. Azzardarsi, buttarsi nella mischia, provare a fare anche cose che non si conoscono. Medas s’atrivint a fàiri totu (c’è molta gente che si butta a fare tutto). Atrivìu/a, agg. Azzardato/a. Atrocïai, v. Storcere, distorcere. Atrocïamenutu, s. m. Deformazione, stortura. Atrocïau/ada, agg. Distorto/a, storto/a. Atru/a, agg. Altro/a. S’a. dì fui in Casteddu (qualche giorno fa ero a Cagliari). Si usa anche come pro- 103 nome. Non bogliu sciri a. nudda (non voglio saper nient’altro). Atrudimentu, s. m. Stordimento, spavento. Atrudiri, v. Stordire, spaventare. Dd’ant atrudìu ’e piticu (l’hanno spaventato da quando era bambino), chi intzighis a ddi fàiri äici cussu piciocheddu s’atrudit in pagu tempus (se continui a trattarlo così quel ragazzino si stordirà in poco tempo). Atrudìu/a, agg. Stordito/a, spaventato/a. Atüada, s. f. Aiuto finalizzato a sistemare un carico sulle spalle o sulla testa di q.no. Atüai, v. Aiutare q.na/o a sistemarsi un carico sulla testa o sulle spalle. Atüamindi (aiùtami a mettermi il carico), nde dd’apu atüada (l’ho aiutata a sistemarsi il carico). Atüau/ada, agg. Aiutato/a sistemarsi il carico sulla testa o sulle spalle. Atùfidu, s. m. Brutto odore che giunge improvviso alle narici quando - ad es. - si entra in un locale chiuso da tempo. Atumbada, s. f. Cozzo. Atumbai, v. Cozzare, lottare a colpi di corna come caproni, montoni, mufloni e tori nella stagione degli amori. Dd’at fatu che unu mascu ’e a. (l’ha ridotto come 104 un montone reduce da un combattimento). Is (pron. ir) mascus (pron. mascur) de murva in portamenta funt atumbendu giai ’e sa cida (pron. gida) passada (i mufloni in amore stanno cozzando già dalla settimana scorsa). Atumbau/ada, agg. Cozzato/a. Atundai, v. Far diventare tondo, arrotondare. Rif. agli oggetti, a persone e animali. Linu fut unu fustigu ma imoi est atundendusì (Lino era un fuscello ma ora si sta arrotondando), cun custu ’eranu bellu as a biri ca cussu purdeddu s’atundat (con questa bella primavera vedrai come ingrasserà quel puledro). Atundau/ada, agg. Arrotondato/a. Atzoddàisi, v. Ubriacarsi senza limiti. In senso dispr. Fatu fatu s’atzoddat beni-’eni (si sbronza spesso alla grande). Atzoddau/ada, agg. Completamente ubriaco/a. Atzopïadura, s. f. Azzoppatura, zoppìa Vedi assopïadura. Atzopïai, v. Zoppicare, azzoppare. Vedi assopïai. Atzopïau/ada, agg. Azzoppato/a.Vedi assopïau/ada. Äumbradura, Ombreggiatura. Äumbrai, v. Dare ombra, ombreggiare. Anche in senso fig. per indicare protezione. PAOLO PILLONCA Äumbrau/ada, agg. Ombreggiato/a. Äuniri, v. Unire, riunire. Äunìu/a, agg. Unito/a, riunito/a. Àurra, s. f. Recinto in pietra coperto di frasche, per le scrofe che allattano i loro maialetti, àrula. Che mardi in à. (come una scrofa nell’àrula), similitudine gergale -di solito ironica- per indicare una condizione di comodità. Äurrai, v. Sistemare nell’àrula. Gisepu depit a. is (pr. ir) mardis (Giuseppe deve sistemare le scrofe nell’àrula). In senso fig. per dire ricoverare, ospitare a dovere, etc. Äurrau/ada, agg. Sistemato/a nell’àrula. C. s. per i traslati. Äurtingiu, s. m. Epidemia di aborti, frequente soprattutto tra le capre. Äurtìrisi, v. Abortire. Detto anche delle donne, ma sempre meno, e soprattutto degli animali. Tengiu is crabas äurtendusì (le mie capre stanno abortendo). Äurtìu/a, agg. Abortito/a. Äustinu, n. pr. di pers. Agostino. Äustu, s. m. Agosto. Ancora viva un’imprecazione di malaugurio: su frius de A. (il freddo di agosto), ritenuto mortale. Avelenai, v. Avvelenare. Avelenamentu, s. m. Avvelenamento. Mancarìas. La parlata di Seui Avelenau/ada, agg. Avvelenato/a. Avemaria, s. f. Ave Maria: una delle preghiere principali della religione cattolica per la madre del Messia. Averai, v. Ammettere una circostanza, confessare un reato. Chi si ddu pregontu ’eu, fortzis dd’averat (se glielo chiedo io, forse lo ammette). Cun sa giustissïa Linu no averat mai nudda (con gli inquirenti Lino non ammette mai nulla). Averau/ada, agg. Ammesso/a, rivelato/a, confessato/a. Avïadura, s. f. Salita, avviamento. Avïai, v. Salire. Avïanci in sa scala (sali per la scala). Introdurre, avviare. Su babbu dd’at avïau ’eni in is iscolas (il padre l’ha avviato bene negli studi). Avïau/ada, agg. Salito/a, avviato/a. Avilidura, s. f. Stato permanente di umiliazione e avvilimento. La loc. a a. vale: in una condizione stabile di prostrazione. Avilimentu, s. m. Umiliazione, prostrazione, depressione, avvilimento. Il s. è di quelli pregnanti. Aviliri, v. Umiliare, avvilire pubblicamente. Dònnïa ’orta chi sa podibba oberit buca su pobiddu dd’avilit (ogni volta che la moglie apre bocca il marito la umilia). Avilìu/a, agg. Umiliato/a, avvili- 105 to/a. Da s. vale: emarginato, depresso. Ginu est a. de unu bonu pagu ’e tempus (da un bel po’ di tempo Gino è un emarginato). Azerai, v. Azzerare, ridurre allo stremo, distruggere. Una pobidda sperdissïada azerat sa ’omu (una moglie spendacciona riduce allo stremo una casa). Azeramentu, s. m. Azzeramento, riduzione allo stremo, eliminazione. Azerau/ada, agg. Azzerato/a, distrutto/a. 106 PAOLO PILLONCA B Babbai, s. m. Padre. Al vocativo, in genere, quando un figlio/a si rivolgeva al proprio genitore, ma anche quando gli stessi figli, assente il padre, parlavano di lui. Oggi è usato dalle persone anziane quando ricordano il padre morto. I giovani usano babbu. Oppure, affettuosamente, su ’eciu (il vecchio). Babbaïola, s. f. Coccinella. Babballoci, s. m. Insetto. Definizione tipica di quando si ignora il nome dei singoli componenti della specie. Nel modo di dire cunfroma a su stampu su b. (a seconda del buco, l’insetto) per indicare la giusta proporzione tra la causa e l’effetto di una certa azione, il male e il rimedio. Una filastrocca per bambini suona così: Babballoci, babballoci/ su chi’enit a su noti/, su chi ’enit a de dì/, babballoci füidì (insetto, insetto che vieni di notte, che vieni di giorno, insetto scappa via). Babbeu, s. m. Babbeo, cretino. Babbu, s. m. Babbo, genitore, padre. Indica la genitura materiale ma definisce anche le paternità spirituali. Babbucia, s. f. Pantofola. Usato anche il dim. babbucedda. Babbüinu, s. m. Babbuino. In senso fig. persona brutta. Babbumannu, s. m. Grande padre, grande spirito. Si riferisce primariamente a Dio ma si utilizza anche in rif. a figure di grande rilievo in campi particolari. Giüan-ni Lilliu est su b. mannu de is nuragis (Giovanni Lilliu è il grande pa-dre della civiltà nuragica). Babbunostu, s. m. Padre Nostro, la preghiera per eccellenza della Chiesa cattolica. Baca/’aca, s. f. Vacca. Il termine è riferito all’animale adulto. La bestia giovane è detta magliora. Usato anche il dim. bachigedda, per indicare le bovine di razza rustica. Bacagliari, s. m. Baccalà. In senso ir. indica un uomo di scarso scintillìo mentale. Bacanu, s. m. Strepito, baccano, disordine, frastuono. In is festas costumat pesat b. (nelle feste è solito produrre baccano). Presente nei soprannomi, curiosamente, al f. Mancarìas. La parlata di Seui (Sa bacana). Bacaredda, s. f. Bacca non commestibile, usata come sostanza tintoria, prodotta dalla roverella, un tempo utilizzata in un gioco infantile (a bacareddas, appunto). Non seus (pron. seur) mancu gioghendu a b. (non stiamo giocando con le bacche di roverella). Bacargiu, s. m. Vaccaro, allevatore di vacche e bovini in genere. Bachis, n. pr. di pers. Bachisio. Pres. nei patronimici. Bacili/’acili, s. m. Recinto circolare in pietra per i bovini, di altezza superiore a quelli riservati agli ovini e caprini. Non essendo i bovini della montagna destinati alla produzione di latte, is bacilis servono per radunare vacche e vitelli nel periodo delle vaccinazioni e, un tempo, delle marchiature. Il territorio comunale di Seui è ricco di questi manufatti in pietra, soprattutto nella parte più montuosa. Bacu, s. m. Vallone, fossato profondo. Presente nei toponimi. Baculeddu, s. m. Bastoncino, bastone elegante. Dim. di bàculu. Bàculu, s. m. Bastone d’appoggio e da passeggio. Baddadori, s. m. Ballerino, amante del ballo. Non soi unu ’addadori (non sono un appassio- 107 nato del ballo). Baddai/’addai, v. Ballare. Seus abarraus finas a duru ’addendu (abbiamo ballato fino a tardi). Anche in senso fig. e/o antifrastico. Ddu-i ’addas igui (ballerai a lungo, di là), cussu ti fait b. aberu (quello ti farà soffrire per davvero), fais totu tui, baddas e sonas (fai tutto tu, balli e suoni). Baddau/ada, agg. Ballato/a. Bafoni, s. m. Provvisto di baffi. Bafu, s. m. Baffo. Vedi mustatzu. Bafudu/a, agg. Baffuto/a. Quasi sin. di bafoni. Vedi mustatzudu. Bagadïedda, s. f. Ragazzina adolescente (lett. che sta per diventare maritabile). Bagadìa/’agadìa, s. f. Nubile, maritabile. Bagadìu/’agadìu, s. m. Celibe. Come il corrispondente f. funge anche da aggettivo. De òminis bagadius in bidda si nd’agatat unu tagliu mannu (nel paese c’è un gruppo numeroso di uomini celibi). Bagadìu/’agadiu, s. m. L’insieme delle femmine del gregge che ancora non hanno partorito. In custu tempus portu su ’a. (in questo periodo conduco al pascolo le agnelle). Sempre preceduto dall’art. det. su. Nome collettivo. Vedi mardïedu. Bagamundu, s. m. Vagabondo, nullafacente. Ha anche il senso di 108 imbroglione. Baganti, agg. Vacante, vuoto, instabile, precario. La loc. avv. in b. vale: in equilibrio instabile, in sospensione nel vuoto. Bagasciota, s. f. Puttanella. Bagassa, s. f. Puttana. Bagassedda, s. f. Puttana giovane. Bagasseri, s. f. Puttaniere, donnaiolo. Vedi feminargiu. Bagassona, s. f. Grande puttana. Bagassùmini, s. m. Puttanume, scostumatezza, troiaio. Igui est totu unu b. (lì è tutto un troiaio). Bagianu/a, agg. Sempliciotto/a, credulone, deficiente, cretino/a. Desueto nella lingua della quotidianità, sopravvive nei soprannomi al m. s. Bagna, s. f. Salsa di pomodoro. Bagnera, s. f. Bagnarola, contenitore largo in latta o plastica. Bagnolu, s. m. Contenitore ligneo per la preparazione della calce. Voce gergale dei muratori. Balandrau, s. m. Balaustra, ringhiera interna in legno o ferro. Balconi, s. m. Davanzale, balcone. Balenti, agg. Abile, valente. Ma anche, come acquisizione di superstrato: prepotente, violento, incline a delinquere. Balentìa, s. f. Abilità, valenza, validità, valore. Ma oggi anche azio- PAOLO PILLONCA ne di prepotenza fuori dalla legge. Balïai/’alïai, v. Tollerare, sopportare, resistere. Non bàlïat nudda, est unu stancitau (non sopporta nulla, è una persona inaffidabile). Balïau/ada, agg. Sopportato/a, tollerato/a. Bàliri, v. Valere, contare. Franciscu a sa sola balit po tresi (Francesco da solo vale per tre). Bàlïu/a, agg. Valso/a. Balla, s. f. Pallottola. Rif. soprattutto alle munizioni per il fucile. Sparai a b. sola vale: utilizzare una cartuccia a palla. Balla, s. f. Balla di foraggio, fieno e paglia, anche erba medica o altro. Balla, escl.- inter. Accidenti! Balloni, s.m. Balla di foraggio di dimensioni superiori alla media. Ballu, s. m. Ballo. Il s. indica genericamente l’atto del ballare senza distinguerne la varietà, una serie pressoché innumerevole viste anche le differenti definizioni dello stesso ballo tra paese e paese. In senso fig. situazione in cui ci si deve mettere d’impegno per uscirne a testa alta. Imoi ca seus in su b. tocat a baddai (ora che siamo nel ballo bisogna ballare). Vedi baddai. Balossìmini, s. m. Cretinaggine, deficienza, insipienza. Balossu/a, s. e agg. Cretino/a, Mancarìas. La parlata di Seui deficiente. Vedi bambassu, biobba, càdumu, codina, codobba, conciofa, prupu. Bambassu/a, agg. Piuttosto insipido/a. Sia riferito ai cibi, sia alle persone nel senso di cretino, deficiente, insulso, etc. Bambïori, s. m. Carenza di sapore. In senso fig. scempiaggine, stupidità. Bambu/’ambu/a, agg. Insipido/a. Vedi bambassu. Banca, s. f. Istituto di credito, banca. Banchïeri, s. m. Bancario, impiegato di banca. Bandela, s. f. Bandiera, làbaro. Anche in senso fig. per indicare punti di riferimento di alto livello. Bandicheddu, s. m. Sgabellino. Bandicu, s. m. Sgabello in legno. Esiste anche la variante banghitu/banghiteddu. La forma principale, invece, fa registrare una delle tante metatesi della parlata di Seui. Bandou, s. m. Bidone in alluminio per il trasporto del latte. Bandu, s. m. Bando, avviso pubblico annunziato dal banditore in tutti i rioni del paese. Per estensione, diffusione sconsiderata di notizie riservate. At betau su b. (ha dato la notizia a tutti). Banduladori, s. m. Banditore. 109 Come figura reale, è scomparsa da qualche tempo. Il paese - fino agli anni Settanta - ne ha avuto addirittura due contemporaneamente. Bandulai, v. Dare il bando. Per est. diffondere notizie anche riservate e per di più senza verifica alcuna. Non poderat nudda, bàndulat totu (non mantiene alcun segreto, rivela tutto). Bandulau/ada, agg. Bandito/a, diffuso/a tramite bando. Banghitu, s. m. Sgabello. Vedi bandicu. Bangiu, s. m. Bagno, impacco. Nell’imprec. ancu ti torrint a bangius (pron. bangiur) de ’inu (che possano farti rinvenire con impacchi di vino). Vedi abbangiai. Bantai/’antai, v. Vantare, tenere in grande considerazione. Bantau/ada, agg. Vantato/a, elogiato/a. Bàntidu/’àntidu, s. m. Vanto, elogio, vanteria. Dev. di bantai. Barandiglia/brandiglia, s. f. Balaustrata. Baratu/a, agg. A buon prezzo, poco costoso. Il contr. di caru/a. Lo si dice in tono ir. in rif. alla carne rubata: sa petza b. per antonomasia. Barbïeri/brabïeri, s. m. Barbiere. Barca, s. f. Barca, imbarcazione. Bardella, s. f. Sella rustica da 110 soma, usata per i cavalli nella miniera di antracite di Fundu ’e Corongiu. Presente nei soprannomi. Bardili, n. pr. di pers. Bardilio. Bardùnfula, s.f. Trottola. In senso fig. per indicare una persona in moto perpetuo ma per lo più senza costrutto: est una b. (è una trottola). Bargiu/’argiu/a, agg. Multicolore, policromo, pezzato. Nei mantelli di alcuni animali la prima distinzione è tra b. nïeddu (macchie nere su fondo bianco) e b. orrùbïu (macchie rosse su fondo bianco). Baroni, s. m. Barone. Pres. nei soprannomi. Barra, s. f. Mascella, mandibola. Mi ’olit una barra (mi fa male una mascella) Barra, s. f. Prepotenza, superbia, alterigia, boria. Ndi portat de barra, cussu (ne ha di boria, quello). Barra, s. f. Coperta d’orbace o altro tessuto, utilizzata per coprire il pane durante la lavorazione e dopo la cottura. Barraca, s. f. Capanna. Barracellu, s. m. Barracello. Barrachedda, s. f. Piccola capanna. Barrachinu, s. m. Gavetta. Barracocu/a, agg. Varietà di ciliegia. PAOLO PILLONCA Barraconi, s.m. Capannone. Barri, s. m. Bar, rivendita di bevande. Barrili, s. m. Barile. Barroseddu/a, agg.Tendente alla prepotenza. Barrosìa, s. f. Prepotenza. Esiste, ma è desueta, la variante barrosìmini. Barrosu/a, agg. Prepotente, altero/a. Pres. nei soprannomi, al m. Vedi barra. Bartza, s. f. Vascone per la calce. Bartzolu, s. m. Culla. Bàrziga, s. f. Scherzo, facezia, celia. Pres. nei soprannomi. Barzigai, v. Scherzare, celiare. Desueto. Basadori/’asadori, s. m. Baciatore, facile a scambiare baci. Custu no est unu pipìu ’asadori (questo bambino non bacia facilmente). Basai/’asai, v. Baciare. Basau/ada, agg. Baciato/a. Basca, s. f. Caldo intenso, afa. Di acquisizione recente, il s. di sostrato è fogori. Bascesa, s. f. Bassezza, umiliazione, vergogna. Bascaràmini, s. m. Immondezza. Basciotu/a, agg. Bassotto/a, piuttosto basso/a. Usato anche il dim. bascioteddu. Vedi burrasciu. Basciu, s. m. Cantina, seminterrato, sottoscala. Mancarìas. La parlata di Seui Basciu/a, agg. Basso/a. Basciura, s. f. Luogo poco elevato. Bascu, s. m. Copricapo di panno blu senza visiera. Baseta, s. f. Basetta. Basideddu/’asideddu, s. m. Bacino, bacetto. Soprattutto in rif. ai bambini. Bàsidu/’àsidu, s. m. Bacio. Basili/’Asili, n. pr. di pers. Basilio. Usato anche il dim. Basileddu. Bassa, s. f. Cesso. Nell’espr. volg. cravadinci/fichidinci in sa b. (vai a ficcarti nel cesso). Bassinaglia, s. f. Sporcizia degna di un orinale (bassinu). In senso lato: luridume. Bassineri, s. m. Persona lurida, spregevole, roba da orinale. Bassinu, s. m. Orinale, pitale, vaso da notte. Bastai, v. Bastare, essere sufficiente. Bastanti, agg. Sufficiente. Bastardu/a, s. e agg. Bastardo/a. Nel significato di figlio spurio il s.-agg. che lo definisce è burdu. Bastasciu, s. m. Facchino, uomo di fatica. Bastus, s. m. Bastoni. Gergale del gioco delle carte. Vedi orus, cupas e spadas. Bataglia, s. f. Confusione, disordine, eccesso verbale. Pres. nei 111 soprannomi. Batagliai, agg. Disputare, far confusione, eccedere nel sostenere le proprie ragioni. Batïai, v. Battezzare. Il v. indica l’atto e l’effetto del battesimo. Si usa in senso ir. anche per indicare l’annacquamento del vino. Batïari/’atïari, s. m. Battesimo. Batïau/ada, agg. Battezzato/a. Bàtidu, s. m. Pulsazione, battito. Dd’intendia su b. ’e su coru (gli sentivo il battito del cuore). Baticogliai, v. Faticare duramente. Dónnïa dì soi baticogliendu po nudda (mi ritrovo a faticare tutti i giorni per nulla). Baticollu, s. m. Entità voluminosa. Necessita di una specificazione, per gli uomini come per gli animali: unu b. ’e piciocu (un ragazzo enorme), unu b. ’e sirboni (un cinghiale di grandi dimensioni). Bàtili, s. m. Sottosella. In senso fig. persona malfatata. No ddi pongiu menti, mancai torri a b. ’e cüaddu (non gli darò retta, anche a costo di fare la fine di un sottosella da cavallo). Bàtïu/ ’àtïu, s. m. Battesimo. Il s. si usa soltanto nella definizione su pardinu/sa pardina ’e ’àtiu (il padrino/la madrina di battesimo). Vedi batïari. Batorina, s. f. Quartina, strofe 112 di quattro versi. Bau/ ’au, s. m. Avvallamento, guado. Pres. nei toponimi: Bau ’e teglia, Bau ’e is corrutus, Bau ’e Lucheddu, etc. Bäullu, s. m. Bara, cassa da morto. Vedi imbaullai. Bäulada, s. f. Bava. Bäuladura, s. f. Imbrattamento con bava, bavatura. Bäulai/imbäulai, v. Imbrattare di bava. Bäulosu/a, agg. Bavoso/a. In senso lato, logorroico. Figura nei soprannomi. Becesa/ ’ecesa, s. f. Vecchiaia. Becigeddu/’ecigeddu/a, s. e agg. Vecchietto/a. Becioni/’ecioni, s. m. Vecchione, vegliardo. Beciu/’eciu, s. m. e agg. Vecchio, vetusto. Per indicare un’età veneranda si usano le espressioni b. mannu (molto vecchio e b. perdali (vecchio come le pietre). Bedussa/’edussa, s. f. Pecora già tosata due volte, animale di tre anni. Befai, v. Ridurre a malpartito, maltrattare a parole ma anche danneggiare fisicamente. Dd’at totu befau in petorras (gli ha provocato contusioni sul petto). Nel rifl. significa danneggiarsi fisica- PAOLO PILLONCA mente ma anche prendersi gioco di q.no. Nd’est orrutu ’e cüaddu e s’est totu befau (è caduto da cavallo e ha riportato contusioni in varie parti del corpo), candu ndi chistïonat si ndi befat (quando ne parla lo fa con tono da presa in giro). Befa, s. f. Beffa, danno, presa in giro. Ddu tengiu po b. (lo considero come una presa in giro). Usata anche la loc. a b. (a beffa, nel senso di un’umiliazione palese o di una sconfitta clamorosa e umiliante). Gioghendu a sa murra ddu facu a b. (al gioco della morra lo surclasso). Befau/ada, agg. Beffato/a, umiliato/a, contuso/a. Befïanu, s. m. Incline alla burla, amante degli scherzi. Belai, v. Belare. Bélidu, s.m. Belato. Bell’e, avv. Quasi, pressoché. Su trabbagliu mi parit bell’e fatu (il lavoro mi sembra quasi fatto), su fogu nde dd’iaus bell’e irmortu (l’incendio l’avevamo quasi spento), de su chi at nau s’abogau no nd’apu cumpréndïu bell’e nudda (di ciò che ha detto l’avvocato non ne ho capito quasi nulla). Bell’e irmortu figura anche nei soprannomi. Bellesa, s. f. Bellezza, venustà. Dote molto apprezzata nelle cose e nelle persone, soprattutto nelle Mancarìas. La parlata di Seui donne, a patto che le si unisca una buona dose di saggezza. Per il sapere proverbiale dei nostri antenati, da sola non era sufficiente, come ricorda anche un detto antico: b. non fait domu (la bellezza non fa la casa). Belletu, s. m. Trucco, cosmetico. Belligeddu/a, agg. Bellino/a. Spesso in senso ir. Bellu/a, agg. Bello/a. Se rif. agli animali, generalmente vale: pingue, grasso. Antoni portat bellus angionis (Antonio ha agnelli grassi). Ma quando è riferito al cavallo ne definisce sola la bellezza, non la pinguedine. Bellu (a), avv. Piano, adagio, etc. Nella loc. avv. a b., distingue sottilmente il suo senso di utilizzo. Lentamente: bai a b. ca mi ’olit unu pèi (vai piano perché sento dolore ad un piede). Con gradualità: cussu trabbagliu ’olit fatu a b. (quel lavoro va fatto gradualmente). Senza troppa forza: po irdorrüai, sa càvana dda depis umperai a b. (quando tagli i rovi, la roncola la devi usare senza troppa forza). In sa vida nci ’olit passïentzia: as a biri ca a b. a b. nci podis arrennèsciri (nella vita ci vuole pazienza: vedrai che pian piano ci potrai riuscire). Bellu-bellu, s. m. Gentilezza 113 affettata, finzione di buon trattamento. Cussu ti fait su b.-b- in faci e a palas ti tragagliat (quello lì si mostra gentile con te quando siete uno di fronte all’altro e poi ti critica alle spalle). Benassortau/ada, agg. Fortunato/a. Vedi bonasorti. Benassu/ ’enassu, s. m. Acquitrino, luogo umido. Vedi abenassai. Béndida, s. f. Vendita. Bendidori/ ’endidori, s. m. Venditore. Bèndiri/ ’èndiri, v. Vendere. Definisce tutte le operazioni di vendita, a qualunque genere di mercanzia ci si riferisca. De su chi at connotu non bendit nudda (non vende nulla di ciò che ha ricevuto in eredità). Al rifl. vale: tradire, mutare opinione o schieramento politico per interesse. Si ’endit po una pariga ’e crapitas (si vende per un paio di scarpe), detto di chi non ha alcuna dignità. Béndïu/a, agg. Venduto/a, ceduto/a. Beneditzïoni, s. f. Benedizione, approvazione. Beneducau/ada, agg. Ben educato/a. Benëìgiri, v. Benedire. Benëitu/a, agg. Benedetto/a, fortunato/a. Beni, s. m. Patrimonio, bene. 114 Iat cumentzau coment’e serbidoreddu e in pagus annus s’at fatu unu b. mannu (aveva iniziato come servetto e in pochi anni ha accumulato un grande patrimonio). Beni, avv. Bene, adeguatamente, a regola d’arte. Eligiu addurat ma su trabbagliu ti ddu fait b. (Eligio è lento ma il lavoro te lo esegue bene). Benidori, s. m. Discendente, persona che deve ancora nascere. Lett. venturo. Benïenti, agg. Imminente, prossimo. Rif. al tempo futuro in generale e/o a un evento annunciato. Benïófiu/a, agg. Benvoluto/a. Benichistïonau/ada, agg. Facondo/a, lepido/a, dalla parola ornata, piacevole da ascoltare. Detto di chi governa bene le parole. Si bit inderetura ca Umbertu est un’ómini b. (si vede subito che Umberto è una persona dal parlare squisito). Benïenìu/a (beni ’enìu/a), agg. Benvenuto/a. Espressione augurale di rito che saluta l’arrivo di una persona conosciuta e stimata. Benifüeddau/ada, agg. Sin. di benichistïonau. Beniu/a, agg. Venuto/a. Bennardu/a, n. pr. di pers. Bernardo/a. Bénniri/’énniri, v. Venire, so- PAOLO PILLONCA praggiungere, accadere. Al part. pass. l’intensità di suono della consonante intervocalica n si dimezza e da sdrucciola la parola diventa piana (benìu/a), a differenza di quanto avviene in alcune parlate di paesi limitrofi come Àrzana e Gàiro (bénnïu/a). Bentina/’entina, s. f. Aspetto, colorito. Est de ’e. legia (ha un brutto aspetto) a dda portas a b. (che brutto aspetto hai). Bentigeddu/’entigeddu, s. m. Venticello, brezza. Bentosu/’entosu/a, agg. Ventoso/a, esposto/a al vento. Nci fustis in-d-una punta ’e. (eravamo su una cima ventosa). Bentu/’entu, s. m. Vento. Il s. di per sé dà solo un’indicazione generica di forte movimento d’aria, ma agricoltori e pastori ne distinguono dettagliatamente tipologia e durata presunta e ne prevedono con buona approssimazione gli effetti, regolandosi opportunamente nell’eseguire determinate azioni: b. basciu, b. estu, ’e soli, b. ’e susu, b.’e tramuntana, b. mäimuru, etc. Conoscere i venti e saperli leggere è una delle qualità che si richiedevano al pastore di una volta, con l’interpretazione dei segni dati dal comportamento del bestiame. Dunque il pastore, Mancarìas. La parlata di Seui soprattutto nella montagna, deve diventare amico del vento se vuole essere tranquillo. Il s. vivifica alcune locuzioni avverbiali: a bentu, a bentu ’eretu e altre (v. negli esempi alla prep. A). Presente tra i soprannomi paesani nella versione italiana. Bentulai/’entulai, v. Spulare, affidare al vento. Nel lessico degli agricoltori di una volta indicava l’operazione dell’aia in cui si sollevava il grano con la pala. Usato anche nel senso di scagliare lontano, proprio come può fare il vento. Nce ddu ’éntulat atesu (lo getta via lontano). Beranu/’eranu, s. m. Primavera. È la stagione di maggior lavoro per i pastori. Quella della mungitura (il latte costituisce ancora oggi a Seui l’entrata maggiore, nonostante la crisi degli ultimi anni, nei pur magri bilanci aziendali) rappresenta l’occupazione più gravosa e senza alcun giorno di pausa, dall’inizio di gennaio alla fine di giugno. Ovviamente il periodo più faticoso va da aprile a maggio, data l’abbondanza di erba fresca e la conseguente maggior produzione di latte. Nel lessico dei pastori la divisione dell’anno in stagioni non corrisponde esattamente a quella teorica della 115 meteorologia, soprattutto in certe annate in cui sulle montagne della Barbagia meridionale si vede ricomparire la neve anche ad aprile inoltrato. Nell’immaginario collettivo del pastoralismo la primavera è comunque la stagione ideale. Il s. è molto utilizzato in senso traslato in similitudini e metafore anche del parlare quotidiano: est unu ’e. (è una primavera, per dire di un tempo favorevole), mi pargiu in b. (mi sembra di essere in primavera), fut prenu, pariat unu ’oi in b. (era grasso, sembrava un bue in primavera). Beridadi, s. f. Verità. Una tra le qualità più apprezzate nel pianeta del noi-pastori. La verità non teme smentite e alla fine prevale: sa b. ndi ’essit sempir a pigliu (la verità viene sempre a galla). È questa una convinzione profonda del mondo pastorale. Naramì sa b. ca sa fàula non tenit agüantu (dimmi la verità perché la bugia non ha resistenza). Beridadosu/a, agg. Veritiero/a. Contr. di fäulargiu. Berretu, s. m. Copricapo, berretto. Berri/’erri, s. m. Verro, maiale maschio non castrato destinato alla riproduzione. Soi cichendu unu ’e. (cerco un verro). Presente nei soprannomi, preceduto dal- 116 l’art. det.: su ’erri. Berrita, s. f. Copricapo del costume tradizionale. In orbace nero, ma anche in panno dello stesso colore, ha una lunghezza variabile dai 40 ai 50 cm. Berritedda, s. f. Piccolo copricapo tradizionale.Dim. di berrita. Bértula, s. f. Bisaccia. Viva l’espr. metaforica cussu ndi tenit de pistocu in b. (quello ha una buona provvista di sfoglie di pane nella bisaccia), per dire di persona dotata di risorse, materiali e non. Bertuläiu, s. m. Ladro di bisacce. Per est. miserabile. Beru/’eru/a, agg. Vero/a. Bessida/’essida, s. f. Uscita. Fut in-d-unu padenti cracu e no agatàt b. peruna (era in un bosco fitto e non trovava alcuna via d’uscita). Salita. Est un’àndala totu in b. (è un sentiero tutto in salita). Motto, battuta spiritosa: Ninu fait bessidas curïosas (Nino fa battute divertenti). Bessiri/’essiri, v. Uscire, salire, debordare. In domu est Antoni? Nou, nc’er bessiu (Antonio è in casa? No, è uscito). Bessenci a cöili e betimindi una càvana (sali all’ovile e portami una roncola). Nci ’essit de su trémini ’e su bonu sentidu (esce dai confini del buon senso). Bessiu/a, agg. Uscito/a. PAOLO PILLONCA Besti ’e peddi, s. f. Mastruca. Béstïa, s. f. Animale, bestia. In senso fig.: persona spregevole. Bestimenta, s. f. Vestiario, veste, vestito. Bestïolu, s. m. Somarello. Vedi bistratzu, burricu, cocineddu e molenti. Bestiri/’estiri, v. Vestire, indossare. Ddu ’estit sa pobidda, chi fut de cussu ’essiat stratagliau (lo veste la moglie, dipendesse da lui uscirebbe in disordine). Bestiri/’estiri, s. m. Vestito, abito. Bestiu/’estiu/a, agg. Vestito/a. Bestonada, s. f. Colpo di bastone. Per est. sussa, batosta. Bestoni, s. m. Bastone. Usato anche il dim. bestoneddu. Betai/’etai, v. Buttare via, gettare. Betanceddu a s’àliga (buttalo nell’immondezza). Versare. Betamidda una tassa ’e birra (versami un bicchiere di birra). Rinfacciare. Chi ddi fidas cheleguna cosa, candu ddu-i degit ti dda ’etat in faci (se gli confidi qualcosa, al momento opportuno te la rinfaccia). Annunciare pubblicamente, quando il compl. ogg. è il bando pubblico. Su sìndigu ’etat su bandu (il sindaco dà l’annuncio con un bando). Istituire, mettere a ruolo (in rif. alla tassazione). Su Cumunu at Mancarìas. La parlata di Seui betau una pagamenta noa (il Comune ha istituito una nuova tassa). Nel rifl. gettarsi, lanciarsi: betau in sa spérruma (lanciato nel precipizio). L’espressione betai su ’ermi definisce il fenomeno della degenerazione di particolari alimenti - carni, soprattutto, ma anche funghi e altro - quando si lasciano a contatto dell’aria e diventano pasto dei vermi. Betada/’etada, s. f. Discesa. Ma anche b. ’e manu, aiuto. Betau/ada, agg. Gettato/a via, versato/a, etc. Vedi betai nei vari significati. Betiri/’etiri, v. Portare (con il compl. di moto da luogo). Custas crabas nde ddas at betias Antoni de su sartu ’e Bäunei (queste capre le ha portate Antonio dal territorio di Baunei). Ricondurre, riportare. Un’antica maledizione-vaticinio di morte violenta recita: ancu ti ndi ’etant in coma ’e moddissi (che ti riportino a casa su frasche di lentischio). Riferire. M’iat a pràgiri a isciri e chini ti ndi ’etit custas cadumèntzïas (mi piacerebbe sapere chi ti riferisce queste scempiaggini). Di uno che rivela ogni segreto a entrambe le parti eventualmente in causa si dice spregiativamente: est unu porta e beti, abbr. in portebeti (è uno che non sa tenere un 117 segreto, lett. che ascolta e riferisce). Betiu/a, agg. Portato/a, condotto/a. Betu/a, s. m. e f. Cerbiatto/a, cervo/a giovane. Bia, prep. impropria. Nei verbi di moto indica una direzione. Andaus bia susu (andiamo verso la parte alta). Indica anche un’approssimazione di tempo e/o di luogo. Ap’a erribbai bia mesudì (arriverò verso mezzogiorno), fui bia Arcuerì (mi trovavo nei dintorni di Arcuerì). Bia/’ia, s. f. Volta. Dd’apu lamau tres (pron. trer) bias ma s’est (pron. s’er) betau a surdu (l’ho chiamato per tre volte ma ha fatto il sordo). A b. a b. (una volta per uno). Vedi borta/’orta. Bïagi/’ïagi, s. m. Carico, peso, tragitto, trasporto, percorso con carico. Totu in-d-unu ’ï. no nce dda facu (con un solo carico non ce la farò). Usata la loc. avv. a bïagis (pron. biagir) d’òbïa (a ruota continua). Bïassu/a, agg. Piuttosto in forma, assai vivace. Giai mi paris b. (mi sembri in forma). Usato anche il dim. bïasseddu/a. Vedi biu. Bibbigorra, s. f. Chiodo fisso, fissazione, mania. Bibbirollais, s. m. Ninnoli, cianfrusaglie, vanità, oggetti inutili. Si 118 usa sempre al pl. Bicai, v. Beccare. Usato anche nel senso di mangiare. Ancora molto frequente l’espr. met. piglioni chi non bicat at bicau (un eccello che non becca ha già beccato). Bicallinna, s. m. Picchio. Pres. nei soprannomi. Bicu, s. m. Becco. Indica anche la beccata. Viva l’espr. ir. che dà voce a una sorta di previsione positiva, a patto che non entri in ballo - chissà perché - la beccata di un corvo: chi si campat de b. ’e crobu (se si salva dalla beccata di un corvo). Bidassoni/’idassoni, s. m. Vidazzone, parte del territorio comunale annualmente riservato agli agricoltori e dunque vietato per un anno al pascolo. Bidda/’idda, s. f. Paese, villaggio. Indica sia l’insieme di case, strade e piazze che dànno corpo all’agglomerato urbano sia la comunità paesana – sa ’idda - in senso complessivo. Senza specificazioni ulteriori, indica il paese natale o di residenza di chi parla. Andaus a b. (torniamo in paese). Biddargiu/’iddargiu, s. m. Uomo che lavora nel centro abitato. Vedi montargiu. Biddigedda/’iddigedda, s. f. Paesino, villaggio. Bìddigu/’ìddigu, s. m. Ombe- PAOLO PILLONCA lico. Ironicamente: pancia. Arratza ’e ’ì. t’as cuncordau (hai proprio una bella pancia). Vedi imbiddigai(si). Biddùnculu, s. m. Paesano, rustico, villano. Bidu/’idu, s. m. Dito. Rif. alle dita di mani e piedi. Dal punto di vista fonetico, questo s. è un municipalismo singolare. La consonante iniziale, anziché una dentale come in altri centri della zona, è una labiale. Al sing. su ’idu, al pl. is (pr. ir) bidus. Non esiste a Seui la forma didu, comune alle parlate dei paesi confinanti. Bidu/a, agg. Visto/a. Part. pass. di biri (vedere). Biga, s. f. Trave in ginepro, leccio o castagno che sostiene una tettoia di canne o altro materiale. Biginau/’iginau, s. m. Rione, vicinato, contrada. Biginu/’iginu, s. m. Vicino di casa, abitante del rione. Bigliadori/’igliadori, s. m. Custode, sorvegliante. Nel gergo dei vignaioli che, fino a pochi decenni fa, nel periodo immediatamente precedente la vendemmia, zona per zona, assumevano temporaneamente un custode che vigilasse sulle vigne. Bigliai/’igliai, v. Vegliare, custodire, vigilare. Su meri fut mortu e-i su cani dd’at bigliau totu sa dì e sa Mancarìas. La parlata di Seui dì ’nfatu finas a s’ora ’e su ’nterru (il padrone era morto e il cane l’ha vegliato tutto il giorno e il giorno seguente fino all’ora del funerale). Bigliau/ada, agg. Vegliato/a custodito/a, vigilato/a. Bigotu/a, agg. Bigotto/a, persona che affetta devozione e frequenta quotidianamente la chiesa. Vedi cresïàstigu/a. Bigotùmini, s. m. Bigottume. Billetaïu, s. m. Bigliettaio, fattorino. Billetu, s. m. Biglietto, messaggio scritto. Una punta ’e b. è un messaggio scritto. Banconota. Tenit sa buciaca prena ’e billetonis (ha la tasca piena di banconote di grosso taglio). Binàrïu, s. m. Binario, le parallele ferree su cui deve passare il treno. Binassa/’inassa, s. f. Vinacce, nome coll. S’abbardenti ’e ’i. no est che-i cussa ’e binu (l’acquavite da vinacce non è come di quella da vino). Bincidori, s. m. Vincitore. Bìnciri, v. Vincere, superare, sconfiggere. Gioghendu a sa murra no ddu bincit nemus (nel gioco della morra nessuno lo supera). Il part. pass. è bintu. Bingia/’ingia, s. f. Vigna. Bingiateri/’ingiateri, s. m. 119 Vignaiolo. Binigeddu, s. m. Vino di poco pregio. Ma spesso il s. assume il senso di una sorta di diminutivo affettuoso. Binnenna, s. f. Vendemmia. Binnennai, v. Vendemmiare. Binnennau/ada, agg. Vendemmiato/a. Binti, agg. num. card. Venti. Binticüatru, agg. num. card. Ventiquattro. Viene usato spesso in un’espr. tipica che indica l’indisponibilità altrui a qualsiasi tipo di dialogo: s’est postu ’e b. (non accetta il dialogo). Bintidùs, agg. num. card. Ventidue. Bintigincu, agg. num. card. Venticinque. Bintinoi, agg. num. card. Ventinove. Bintisès, agg. num. card. Ventisei. Bintiseti, agg. num. card. Ventisette. Bintitrès, agg. num. card. Ventitré. Bintotu, agg. num. card. Ventotto. Bintu/a, agg. Vinto/a, sconfitto/a. Part. pass. di bìnciri. Bintunu, agg. num. card. Ventuno. Binu/’inu, s. m. Vino. La vinifi- 120 cazione è un altro dei saperi comunitari seuesi: nella seconda metà dell’Ottocento i vini di Seui meritarono importanti riconoscimenti nazionali (Roma 1880, Milano 1881, Palermo 1886) e internazionali (Anversa 1885, Bordeuax, 1886). Oggi, purtroppo, questo sapere è in gran parte negletto. In alcune espressioni idiomatiche, il s. definisce anche gli effetti dell’eccesso nel bere: candu si coit Antoni tenit b. malu (quando si ubriaca Antonio diventa cattivo), chi bufat cheleguna tassa in prus, Arremundu tenit b. ’onu (se beve qualche bicchiere in più, Raimondo ha la sbronza allegra). Frequente il prov. binu ’onu fin’a fegi (il vino di qualità dura fino alla feccia). Vedi abinai. Bïobba, s. m. Deficiente, dissennato. Vedi balossu, bambassu, bobbodda, càdumu, codina, codobba, conciofa, prupu. Bïocia, s. f. Sbevazzamento. In senso ir. ddi pragit sa b. (ama bere fuori misura). Birdangiu/a, agg. Verdastro/a. Birdàrramini, s. m. Verderame. Birdi/’irdi, agg. Verde. Birdi, s. m. Vetro. Bìrdïa/’ìrdïa, s. f. Matrigna. Bìrdïu/ìrdïu, s. m. Patrigno. Birdura, s. f. Verdura. PAOLO PILLONCA Birdureri, s. m. Verduraio. Biri, v. Vedere. Nel senso proprio dell’azione esercitata attraverso gli occhi. Il part. pass. è bidu/a. Cun custa nébida non biu nudda (con questa nebbia non vedo niente). L’espr. biri ’e lìtara vale: saper leggere (lett. vedere le lettere, ossia distinguerle). Di conseguenza, chi è analfabeta non bit de lìtara (non distingue fra le lettere). Il v. si usa anche nel significato improprio di: considerare, valutare. Immoi bïeus (adesso vedremo), no ddu biu ’eni (non mi sembra giusto). Bisadura, s. f. Vagheggiamento. Bisai, v. Sognare, vedere in sogno, vagheggiare. Bisassu/’isassu, s. m. Arbusto spinoso dal profumo assai intenso. Le capre non lo mangiano, il che fa supporre sia tossico. Perciò i caprari avveduti lo utilizzano per guarnire i recinti dei capretti, in modo da avere poi i cagli puliti. Bisau/ada, agg. Sognato/a. Bisïoni, s. f. Sogno, visione. Bisongiai, v. Necessitare, essere necessario. Bisongiat a si móviri (occorre muoversi). Mancai e fessit a ténniri totu su chi nos si bisongiat (magari avessimo tutto ciò di cui sentiamo la necessità).Vedi abbisongiai. Bisongiau/ada, agg. Necessita- Mancarìas. La parlata di Seui to/a. Bisongiu/abbisongiu, s. m. Necessità, bisogno, difficoltà. Fui in a. mannu e Antoni m’at sarvau (ero in grande difficoltà e Antonio mi ha salvato). Bisu/’isu, s. m. Sogno. Bistratzu, s. m. Somaro. Ora desueto, ma ancora in uso negli anni Ottanta, come dice Demetro Ballicu in Brevi saggi di indole varia (Cagliari, 1977) alla voce agragalau, in una nota a pag.14. Bisura/’isura, s. f. Vista, osservazione, visione, aspetto. Tenit una ’i. legia (ha un brutto aspetto). Biu/bia, agg. Vivo. Bai e pregontasiddu, giai est (pron. er) b. e sanu (vai e chiedilo a lui: è vivo e sano) Bìviri, v. Vivere, risiedere, abitare. Franciscu bivit sa vida sua bona parti in su monti (Francesco vive gran parte della sua vita in campagna), sa murva bivit una cüindigina ’e annus (la mufla vive una quindicina di anni). Abitare. Bivit cun su fradi (abita con il fratello). Bìvïu/a, agg. Vissuto/a. Bìvïu, s. m. Bivio, biforcazione di strada. Bobbodda, s. m. Cretino, stupido. Vedi balossu, bambassu, biobba, càdumu, codina, codobba, conciofa prupu. Municipalismo. Bobboi, s. m. Insetto, generica- 121 mente, quando non si conosce con esattezza di quale specie si tratti. Bocia, s. f. Palla. Non solo quella da gioco. Il s. indica qualunque cosa abbia forma tondeggiante. M’at bessìu una b. in petorras (mi si è formata una palla sul petto). Indica anche il pallone del gioco del calcio. Cussu piciocheddu parit nàscïu po giogai a b. (quel ragazzo sembra nato per giocare al calcio). Pres. nei soprannomi. Bociada, s. f. Bocciata. Gergale del gioco del biliardo. Bociadura, s. f. Bocciatura, risultato scolastico negativo, rifiuto. Bociai, v. Bocciare. Gergale del gioco del biliardo. Bociau/ada, agg. Bocciato/a. Bocidori/’ocidori, s. m. Assassino. Cussa morti dd’ant imputada a Franciscu ma su ’o. fut unu strangiu (quell’omicidio venne attribuito a Francesco ma l’assassino era un forestiero). Bocifigu, s. m. Uccisore di fichi. Voce scherzosa, presente nei soprannomi. Bocigedda, s. f. Pallina, piccola palla. Bociri/’ociri, v. Uccidere, macellare. Po Santu Cristolu ap’a b. unu mascu sanau (per San Cristoforo ammazzerò un ariete castrato), dd’at bocìu su ’inu (l’ha ucciso 122 il vino). Assassinare, portare alla tomba. Usato nelle maledizioni. Sa giustìssïa ddu ’ociat (che la giustizia lo ammazzi). Bocìu/a, agg. Ucciso/a. Boddiri/’oddiri, v. Prendere, raccogliere. Nd’apu ’oddiu sa castangia (ho raccolto le castagne). Subire, sopportare, incassare. Candu si ponit a certai cun chelegunu, Pìlimu ndi ’oddit cardas de portai a nòmini (quando litiga con q.no, Priamo prende delle susse memorabili). Talvolta il v. diventa ellittico dell’oggetto, tanto è palese il senso del discorso: Non ti cravis ca ndi ’oddis (evita le risse perché rischi di prendere colpi). Per est. il v. indica anche la capacità di capire la sostanza di un discorso e di saperne riferire sensatamente. Ia a bòlliri sciri e ita nd’at boddiu Armandu de totu su chi at nau su préidi (vorrei sapere cosa ha capito Armando di tutto ciò che ha detto il sacerdote). Boddiu/a, agg. Preso/a, raccolto/a, etc. Bofetada, s. f. Allusione, battuta ironica sotto metafora. Bofetai, v. Alludere metaforicamente. Bófïu/a, agg. Voluto/a. Irreg. da bólliri. Non depit incurpai a nemus, dd’at b. cussu (non deve incolpare PAOLO PILLONCA nessuno, l’ha voluto lui). Bogada ’e prana, s. f. Segno identificativo di proprietà di bestiame, difficile da tradurre alla lettera se non con una banalizzazione (traccia di pialla). Consiste in un taglio diritto di una parte dell’orecchio. È un segno prediletto dei contraffattori per la facilità con cui si può risegnare un capo distinto inizialmente con il pissu càvanu. Bogadura/’ogadura, s. f. Estrazione. Ma anche slogatura, lussazione. M’apo ’ogau unu pèi (mi sono lussato un piede). Usata la loc. avv. a b. Bogai/’ogai, v. Cacciar via. Teniat unu sposu ma nci dd’at bogau (aveva un fidanzato ma l’ha cacciato via). Estrarre. Mi nd’apu ’ogau unu chesciali (mi sono fatto estrarre un molare). Rinunciare a seguire una persona o un affare. Mi seu orroscïu e ddu ’ogu ’e càbudu (mi sono stufato e non lo seguo più). Scegliere, trovare, proporre. Bogamindi un’atru chi scipat fàiri su casu comenti ddu fait Pïeru (tròvamene un altro che sappia fare il formaggio come Piero). Ufficializzare un evento. B. sa cöia in craru (rendere pubblico il fidanzamento). Presentare per la prima volta al paese. Sa purdedda dd’at bogada po Santu Cristolu (la puledra l’ha pre- Mancarìas. La parlata di Seui sentata alla festa di San Cristoforo). Germogliare. Sa mata at bogau (la pianta presenta i primi germogli). Dissotterare. Nd’apu ’ogau sa patata (ho raccolto le patate). Attribuire, incolpare a torto q.no di q.sa. Si dd’at bogau su cumpangiu ma cussu no ndi tenit curpa (gliel’ha attribuito il suo compagno ma lui non ne ha colpa). Far emergere, riportare alla luce. Pariat una cosa scarèscïa, ma chelegunu nde dd’at bogada a pigliu (sembrava una cosa dimenticata ma qualcuno l’ha riportata a galla). Slogarsi, subire una lussazione. M’apu ’ogau unu pèi (mi sono slogato un piede), portu una pala ’ogada (ho una spalla lussata). Bogi/’ogi, s. f. Voce. Indica le caratteristiche vocali di ciascuno ma definisce anche una diceria. Est bessìa sa ’o. ca sa cöia de Franciscu no est arrennèscïa (si è diffusa la voce che il matrimonio di Francesco non sia riuscito). Il s. alimenta una serie di locuzioni e modi di dire: a bogis, a b. bascia, a b. balandera, etc. Vedi nello spazio riservato alle locuzioni avverbiali, alla lettera A e alla voce aboginai. Boi/’oi, s. m. Bue. Indica il bovino adulto, di più di tre anni di età. Per estensione il s. si usa anche in senso ironico per rappresentare 123 con una similitudine efficace un uomo di corporatura massiccia. Boïabbessa, s. f. Caos, confusione. Francesismo (bouille baisse, una zuppa di pesce tipica della cucina d’Oltralpe) entrato nella parlata di Seui in seguito all’imponente fenomeno migratorio di minatori seuesi verso la Francia nei primi quattro decenni del secolo scorso. Vedi botada, brichetu, muntzù, sortiri, turnichetu. Böimarinu/’öimarinu, s. m. Foca monaca. Pres. nei soprannomi preceduto dall’art. det. su. Boïnai, v. Condurre buoi domati. Desueto. Boïnargiu, s. m. Bovaro, conduttore di buoi. Boladori/a, agg. Amante del volo. Boladura, s. f. Lancio al volo. Nella loc. avv. a b. Bolai/’olai, v. Volare. In senso reale e fig. Sa mala nomenada ’olat (la cattiva fama vola). Essere veloce. Bolat, Linu, cun sa moto (Lino in moto è velocissimo). Bolàticu/a, agg. Incostante, inaffidabile. Bolau/ada, agg. Volato/a. Bólidu/’ólidu, s. m. Volo. La loc. avv. a b. vale: in un battibaleno. Dd’apu fatu a b. (l’ho fatto in un attimo). 124 Bòliri/’oliri, v. Dolere, aver male. Mi ’olit sa conca (ho mal di capo), mi ’olit in dónnïa logu (ho dolori in tutto il corpo). M’est (pron. er) bófïu (mi ha fatto provare dolore). Il part. pass. è identico a quello di bòlliri (volere): bófiu. Frequente l’impiego traslato. Bólliri/’ólliri, v. Volere. In sardo i verba voluntatis si coniugano in modo differente rispetto all’italiano, ossia con la prep. a seguita dal verbo all’inf. presente. Non bogliu a fàiri custu (non voglio che tu faccia questo), babbu non at bófïu a bessiri (mio padre non ha voluto che io uscissi di casa). Anche impers. nel senso di: è necessario, occorre. Bolit a cöidai ca su tempus est isconcendusì (occorre sbrigarsi perché il tempo si sta guastando), bolit a si citiri (bisogna star zitti). Bomba, s. f. Polpetta. Usato quasi escl. al pl. Mi parit ca oi facu bombas (forse oggi preparerò le polpette). Bomba, s. f. Bomba, ordigno esplosivo. Bombardai, v. Bombardare, insistere oltre misura nelle richieste. Bombarderi/bumbarderi, s. m. Persona insopportabile per logorrea perenne. Vedi bumbarda. Bonasorti, s. f. Fortuna, buona sorte. Vedi benassortau. PAOLO PILLONCA Bonesa, s. f. Bontà d’animo. Bonidadi, s. f. Inclinazione naturale alla bontà e alla solidarietà. Bonu/’onu/a, agg. Buono/a, bravo/a. Anna est una fémina ’o. (Anna è una brava donna). Saporito/a. Fut b., cussa pruna (erano saporite, quelle susine). Abile, capace. Antoni no est (pr. er) b. a fàïri nudda (Antonio è totalmente incapace). Con la prep. a viene usato avverbialmente in alcuni modi di dire: a b., a b. mannu, etc. Vedi l’elenco delle locuzioni con la prep. A. Bonucoru, s. f. Magnanimità, generosità, oblatività, disponibilità ad aiutare chi soffre e, più in generale, chiunque abbia bisogno di solidarietà. Vedi malucoru. Boricu, n. pr. di pers. Salvatore. Molto usato anche il dim. Boricheddu. Borta/’orta, Volta. Sin. di bia/’ia. Frequente la loc. a bortas (talvolta). Giro. At fatu ’o. fartza (ha fatto un falso giro). Bortulai, v. Rivolgere, rivoltare. Bosatrus, pr. pers. Voi, voialtri. Bostu/’ostu/a, agg. poss. Vostro/a. Bosu, pr. pers. Voi. Si usa fra persone legate dal vincolo del comparatico. Bota, s. f. Guancia. Pres. nei Mancarìas. La parlata di Seui soprannomi. Vedi trempa. Botada, s. f. Battuta di spirito. Uno dei vari francesismi (boutade) entrati nella parlata paesana nei primi quattro decenni del secolo scorso, in conseguenza della massiccia emigrazione di minatori di Seui in Francia. Vedi boïabbessa, brichetu, muntzù, sortiri, turnichetu. Botinu/butinu, s. m. Scarpa fabbricata industrialmente. Vedi sabbata e cosingiu. Botoludu/a, agg. Paffuto/a, dalle guance grosse. Vedi bota. Botoni/a, agg. Dalle grandi guance. Sin. di botoludu. Botu, s. m. Barattolo. In senso fig. persona grossolana. Vedi stugiu. Bovali, s. m. Bovale, vitigno. Bóvida, s. f. Soffitta, volta. Bovu, s. e agg. Sciocco, scimunito. Vedi abbovai. Brabudu/a, s. e agg. Barbuto/a. Braga/’raga, s. f. Gonnellino di panno nero del costume maschile tradizionale. Bragas/’ragas, s. f. Ghette, pezzo del costume tradizionale maschile. Brageri, s. m. Braciere. Bragia, s. f. Brace. Branda, s. f. Branda, lettino. Brassu/’rassu, s. m. Braccio. Al sing. davanti agli articoli si usa sempre la seconda forma: su ’r., unu ’r. 125 Al pl. sempre la prima: m’est tocau a mòviri is (pron. ir) brassus (sono stato costretto a muovere le braccia), su pipìu fut prangendu e tandu mi dd’apu pigau in brassus (il bambino piangeva e allora l’ho preso fra le mie braccia). Bratzetu, s. m. Braccetto. Nella loc. a b. Bravu/a, agg. Bravo/a, buono/a d’animo. Brebegargiu/’erbegargiu, s. m. Pastore di pecore. In bocca ai caprari il s. suona lievemente ironico - e viceversa - per la perpetua rivalità tra i due conduttori, vista la differenza delle due specie. Brebèi/’erbèi, s. f. Pecora. Anche qui vale la distinzione di forme tra sing. e pl. S’’e., un’’e. (la pecora, una pecora), is (pron. ir) brebeis. A seconda della posizione nella frase, tuttavia, la prima forma viene usata anche al sing.: no istertzat interi craba cun b. (non distingue fra capra e pecora). Breca, s. f. Punto profondo dei laghetti di fiume. Brechïoni, s. m. Spuntone, ramo spezzato che sporge dal tronco. Bregungia/’ergungia, s. f. Vergogna, timidezza. Bregungiai(si)/’ergungiai(si), v. Vergognarsi, provare timidezza, 126 essere riservati. Bregungiosu/a, agg. Timido/a. Bremi/’ermi, s. m. Verme. Anche in senso fig.: est unu ’ermi (è un verme). Molto usata l’espr. met. b. ’e corru (mania, idea fissa). Vedi ingermigau. Brenti/’èntiri, s. f. Ventre, nel gergo dei pastori lo stomaco degli animali. Per gli uomini, con venatura di disprezzo, è viva l’espr. b. ’e bértula, che lett. significa stomaco di bisaccia ed è riferita ai golosi. Prangi po s’èntiri (lett. piangi per il ventre) è un epiteto di disprezzo per chi dipende troppo dal cibo. Brentoni/a, s. m. Goloso/a, smodato/a nel mangiare. Vedi imbrentonai. Bresca, s. f. Favo dell’arnia. Brevïàrïu, s. m. Breviario. Viva l’espr. tocau ’e b. (lett. colpito dal breviario), che definisce satiricamente uno stato di depressione di natura da determinare come se fosse dovuta a una magìa fatta da un sacerdote con il breviario. Brìbbiddi, s. m. Spuntone di roccia. In senso fig. capriccio. Ti nde ddu ’ogu eu su b. (te lo tolgo io il capriccio). Brichetu, s. m. Accendino. Francesismo (da briquet) entrato nella parlata di Seui dopo la massiccia emigrazione di minatori in PAOLO PILLONCA Francia, alla fine della prima guerra mondiale e durante il fascismo. Brigaderi, s. m. Brigadiere. Brincai, v. Saltare. Rispetto a sartai, indica un movimento di maggiore impegno ed estensione. Desueta la loc. brinca-brinca. Brincau/ada, agg. Saltato/a. Brìnchidu, s. m. Salto. Brinchitai, v. Saltellare. Brinchitu, s. m. Saltello. Usato anche il doppio dim. brinchiteddu. Brïosu/a, agg. Vivace. Briu, s. m. Vivacità, nevrilità, brio. Brodu, s. m. Brodo. Presente nei soprannomi. Brómbulu, s. m. Persona maldestra. Usato anche il dim. brombolassu. Brontu, s. m. Prontezza e forza di replica a viso aperto. Ndi tenit de b. Linu (Lino è bravissimo nel replicare faccia a faccia). Brontudu/a, agg. Grintoso/a, pronto/a nelle repliche. Brossa, s. f. Pozzanghera piena d’immondezza. Brovenda, s. f. Mangime per il bestiame da lavoro. In senso figurato, le esigenze umane materiali legate al mangiare. Pres. nei soprannomi. Vedi abbrovendai. Brulla, s.f. Scherzo, burla. Brullai, v. Scherzare, celiare, Mancarìas. La parlata di Seui prendersi gioco di q.no o q.sa. Brullanu, s. m. Burlone, amante degli scherzi. Bruncu/’runcu, s. m. Muso, labbra. Nell’espr. bufai a b. vale: bere direttamente dalla bottiglia e/o dal barilotto. In senso fig. a b. furrïau (a muso storto), per indicare un risentimento. Brùnzïa, s. f. Olla, pentola di metallo. Brunzu, s. m. Bronzo. Brutu/a, agg. Sporco/a, lurido/a. Il contr. è lìmpïu/a. Brutura, s. f. Sporcizia. Vedi caddotzìmini e cardangiu. Bruvura, s. f. Polvere da sparo. Usato nelle espr. che manifestano ira e/o sdegno. Ti ’ongiu b. (ti darò polvere da sparo, ossia non ti darò nulla). Bruvureri, s. m. Addetto agli esplosivi. Bubbulluca, s. f. Pustola. Portat sa carena prena ’e bubbullucas (ha il corpo pieno di pustole). Vedi abbubbullucai. Buca/’uca, s. f. Bocca, imboccatura, imbocco. Pres. nel top. Sa ’uca ’e su ’oi (alla lettera: la bocca del bue) nella parte alta del territorio comunale, a monte della chiesetta campestre di San Cristoforo. Nei soprannomi figura un buca ’i erbei (bocca di pecora). 127 Bucaciu/a, s. m. Sboccato/a, colabrodo, incapace di custodire un segreto. Uno dei peggiori giudizi che si ritrovino nella società pastorale: est unu b. (è un colabrodo). Buca ’e bumbarda, s. m. e f. Persona logorroica, che parla a raffica (lett. bocca di mitraglia). Buca ’e sonagliu, s. m. e f. Persona che parla ininterrottamente, logorroico/a. Lett. bocca di campanaccio. Bucali, s. m. Boccale. Bucamanna, s. m. Individuo eccessivamente ciarliero anche su argomenti riservati. La molteplicità delle scelte in materia di definizione dell’uso smodato della parola indica quanto la logorrea fosse considerata un disvalore e quale considerazione fosse riservata invece alla parsimonia nel parlare. Bucameli/’ucameli, s. f. Donnola. Bucanti, agg. Piacevole al palato, detto del vino. Buchinu, s. m. Bocchino. Gergale dei fumatori. Presente nei soprannomi nel dim. buchineddu. Buciaca/busciaca, s. f. Tasca (di pantaloni, giacche, giubbotti e camicie). Buciachedda, s. f. Taschino, piccola tasca. Buciconi, s. m. Pugno, cazzotto. 128 Buconeddu, s. m. Spuntino. Pigaus unu ’uconeddu (facciamo uno spuntino). Buconi/’uconi, s. m. Boccone, cibo. Indica genericamente e con lieve senso ironico la materialità del mangiare. Su ’u. est de su cani (il boccone è del cane), po su ’u. si ’endit (si vende per il cibo). Buconetu, s. m. Bocconcino avvelenato, per volpi o cani randagi. Bucu, s. m. Buco. Ma prevale ancora il s. del sostrato: stampu/ istampu. Budda/’udda, s. f. Pancia. Ma anche, volg., vagina. Buddidassu/a, agg. Più che tiepido/a, quasi caldo/a. Detto anche di un febbricitante: su pipìu parit b. (il bambino sembra piuttosto caldo). Buddidura/’uddidura, s. f. Bollitura. Buddiri/’uddiri, v. Bollire, portare ad ebollizione. Buddìu/’uddìu/a, agg. Bollito/a, lesso/a. Petza a b. (carne lessa) Ma l’agg. si usa anche nel senso di: caldo/a. Cussa minestra est (pr. er) b. (quella minestra è calda). Buddoni/a, sost. e agg. Pancione/a. Anche in senso fig. Pres. nei soprannomi al f. Buddudu/a, agg. Panciuto/a. Pres. nei soprannomi. Bufada, s. f. Bevuta. Tenia sidi e PAOLO PILLONCA m’apu fatu una bella b. ’e abba (avevo sete e mi son fatto una bella bevuta d’acqua) Bufadori, s. m. Bevitore (sott. di bevande alcoliche). Bufadura, s. f. Sorseggio. Nella loc. avv. a b., riferita al latte, si indica che lo si vuol bere senza aggiunte di pane, biscotti, fette di torta o altro. Bufai, v. Bere. In rif. a qualunque tipo di liquido potabile. Apu bufau: abba, binu, lati, abbardenti, licori (ho bevuto: acqua, vino, latte, acquavite, liquore). Ma quando il compl. ogg. non viene indicato esplicitamente, è sottinteso che si tratti di alcolici. Bufau/ada, s. e agg. Bevuto/a. Come s. vale: ubriaco. Bufongiu, s. m. Bevanda, vizio di bere alcolici. Dd’at orrovinau su b. (l’ha rovinato il vizio del bere). Bugiarda, s. f. Bocciarda, martellone usato nella lavorazione delle pietre. Si tratta di francesismo (boucharde) entrato nel lessico di Seui, con altri sostantivi (boïabbessa, botada, brichetu, muntzù, sortiri, turnichetu) ad opera dei minatori seuesi emigrati in Francia nei primi decenni del Novecento. Buginu, s. m. Carnefice, boia. Nell’imprec. Su b. chi t’irdorighit (il boia che ti tagli le orecchie). In Mancarìas. La parlata di Seui senso fig. vale: violento, strafottente, delinquente. Bugoni, s. m. Spia, traditore degli amici, roba da basso inferno. Nel gergo dei pastori, chi indicava il bestiame da rubare agli abigeatari venuti da lontano. Bullai, v. Bollare. Mi depu fàiri b. sa patenti (mi devo far bollare la patente). Usato anche nel significato di bocciare a scuola. Fatu fatu ddu bullant (spesso lo bocciano). Bullau/ada, agg. Bollato/a, bocciato/a. Bulleta, s. f. Bolletta (del telefono, dell’acqua, etc.). Bulletinu, s. m. Bollettino, la bolletta anagrafica del bestiame, ora abolita. Bulletu, s. m. Fungo parassita dell’erica (cardulinu de b.). Bullu, s. m. Bollo, timbro. Bumbarda, s. f. Bombardamento. In senso traslato e fortemente dispregiativo, buca ’e b. (sboccato, logorroico). Vedi bombarderi. Bungiu, s. m. Ammaccatura, ecchimosi. Vedi abbungiai. Burdellai, v. Fare chiasso, disputare rumorosamente. Burdellosu/a, agg. Chiassoso, amante del caos. Burdellu, s. m. Chiasso, confusione, caos. Burdiscu, s. m. Bambino illegit- 129 timo. Usato come una sorta di diminutivo affettuoso di burdu. Burdu, s. m. e agg. Figlio illegittimo. Come agg. è rif. soprattutto ai frutti rachitici e mezzo abortiti: trigu b. (grano rachitico). Burina, s. f. Appetito. Si usa scherzosamente nell’espressione ti batit sa b. (ti sollecita l’appetito). Burrasciu, s.m. Persona di statura molto bassa. Presente nei soprannomi. Burricu, s. m. Asino. Vedi bestiolu, molenti e cocineddu. Burrumbaglia, s. f. Segatura. In senso fig. scarto, affare o persona di poco conto. Burrutzonis (in), s. m. Fregola. La loc. avv. in b. si usa per definire la fase acuta dell’innamoramento. Burtzu, s. m. Polso, parte iniziale del braccio. Vedi abburtzai. Busa, s. f. Ferro da calza e da maglieria in genere. Buscai, v. Trovare dopo un’attenta ricerca, anche furtivamente. Can-du ’essit, cussu cheleguna cosa dda buscat in donnìa (quando esce, quello lì qualcosa la trova sempre). Trovare qualcosa di sgradito. Oi dda buscas (oggi troverai pane per i tuoi denti). Figura anche tra i soprannomi nella forma dell’imperativo presente (Busca). Buscau/ada, agg. Trovato/a. 130 Bùsciulu, s. m. Bossolo, portaaghi, contenitore minuto. Pres. nei soprannomi. Bussa/’ussa, s. f. Borsa, valigetta. Sia quella degli scolari sia quella delle signore. Bussai, v. Bussare. Gergale del gioco delle carte, per segnalare al compagno di avere pezzi buoni in quel determinato segno. In senso fig. b. a orus vale: avanzare richieste insistenti di denaro. Butàriga, s. f. Uova secche di muggine e per est. anche di tonno. In senso fig. al pl. vale: coglioni, palle. Ses acanta ’e mi segai is (pr. ir) butàrigas (sei sul punto di rompermi le palle). Butega, s. f. Negozio, bottega. Anche fucina artigiana. Teniat una b.’e binu (aveva una bettola), fut unu mäistu ’e linna e teniat sa b. in cabissa ’e idda (era un falegname ed aveva la bottega nella parte alta del paese). Butegheri, s. m. Commerciante, bottegaio. Butiglia, s. f. Bottiglia. Al dim. cambia genere: butiglieddu. In disuso ampudda. Butiglioni, s. m. Bottiglione. Butiru, s. m. Burro. Butoni, s. m. Testicolo. Si usa quasi escl. al pl. Butu, s. m. Mozzo della ruota PAOLO PILLONCA del carro a buoi. Buzurru/a, s. e agg. Rozzo, persona di modi rudi e scortesi. Mancarìas. La parlata di Seui 131 C Ca, cong. Che. At nau ca tui dd’as oféndïu (ha detto che tu l’hai offeso). Perché, dichiarativo. Cun tui no andu ca adduras a torrai (con te non vado perché rientri tardi). Cabesusu, s. m. Capo di sopra (cabu ’e susu), parte settentrionale della Sardegna. Cabesusesu/a, agg. Originario/a, abitante del nord Sardegna. Cabissa, s. f. Sommità, parte alta. Deu nci fui in c. e su sirboni mi ndi ’eniat a manu macosa (io ero sulla sommità e il cinghiale veniva verso di me sulla sinistra). Il rione che sovrasta Seui si chiama proprio C. ’e ’idda. Cabonera, s. f. Stia, pollaio. Caboni, s. m. Gallo. Presente nei soprannomi. Cabonischeddu, s. m. Galletto minuscolo. Caboniscu, s. m. Galletto. Spesso in senso fig. per dire di un giovane eccessivamente intraprendente. Usato anche al doppio dim. cabonischeddu. Cabu, s. m. Capo. Nell’espr. C. ’e susu (capo di sopra). Cabudanni, s. m. Settembre. Càbudu, s. m. Estremità, parte iniziale o finale di una fune, bandolo di matassa. No ndi ’ogat c. (non trova il bandolo), dd’at bogau ’e c. (lo ha abbandonato a sé stesso). Cacheddu, s. m. Fungo parassita del cisto (cardulinu ’e murdegu) di dimensioni ridotte. In senso fig. persona di poco valore. Può fungere anche da agg. Caciadura, s. f. Vomito. In senso lato, azione vergognosa o risposta inadeguata, fatto stomachevole. Caciai, v. Vomitare, rimettere. Caciau/ada, agg. Vomitato/a. Cada, pr. ind. Ogni, ciascuno. A cadunu (a ciascuno) e a c. sa metadi (metà per ciascuno) sono due locuzioni molto usate. Nel lessico della quotidianità è sostituito da dónnïa/’ónnïa. Cadassa, s. f. Forfora. Presente nei soprannomi. Caddaïoni, s. m. Lana ovina sporca. Gergale dell’ovile. In senso fig. personaggio schifoso nel fisico e nello spirito. 132 Caddargiola, s. f. Calderino di dimensioni ridotte. Caddargiu, s. m. Calderino. Contenitore in rame e stagno usato negli ovili per preparare la cagliata del latte. Caddotzu/a, agg. Sporco/a, sudicio/a. Vedi cardangiosu. Caddotzìmini, s. m. Sporcizia, sudiciume. Vedi incaddotzai. Cadinu, s. m. Cesto di canna, di varie dimensioni e di forma cilindrica, molto usato nelle operazioni di vendemmia e altri impieghi campestri e domestici. Cadena, s. f. Catena. Il s. definisce l’oggetto materiale e il legame met. disagevole in cui ci si può venire a trovare. Su cani est acapïau a c. (il cane è incatenato), t’as postu sa c. a manu tua etotu, imoi poderadidda (ti sei messo la catena con le tue stesse mani, ora tiénitela stretta). In senso met. vale: persona poco raccomandabile, degna di essere incatenata, roba da galera. Cadenita, s. f. Catenina. Cadira, s.f. Sedia. In senso ir. poltrona, posizione privilegiata. Ancora molto viva la metafora giai ndi calas de cussa c. (scenderai da quella sedia), nel caso in cui si voglia esprimere un diniego davanti a una richiesta eccessiva. Vedi bandicu/ banghitu e sedduciu. PAOLO PILLONCA Cadiredda, s. f. Seggiolino, piccola sedia. Cadironi, s. m. Poltrona, seggiolone. grande sedia. Caduméntzïa, s. f. Stoltezza, scempiaggine, inettitudine. Sa c. chi portas in càrigas (la stoltezza che ti è propria, lett. che hai nelle narici). Vedi càrigas. Il contrario di abbilidadi. Vedi incadumadura e incadumai. Cadumidadi, s. f. Sin. di caduméntzïa ma molto meno frequente forse anche perché di creazione più recente. Càdumu/a, agg. Stolto/a, inetto/a, stupido/a, imbelle, senza idee né prontezza. Ita ddi cicas? Est unu c. (cosa pretendi da lui? È uno stolto). Vedi balossu, bambassu, biobba, codina, codobba, conciofa, prupu. Cadunu, avv. Per ciascuno. Feus a c. (facciamo uno per ciascuno). Cafadura, s. f. Presa ferma e decisa. Cafai, v. Afferare con decisione. Cafaddu a su pèi ’e segus, äici su procu t’abarrat (afferralo a una zampa posteriore, così il maiale non ti scapperà). Cafau/ada, agg. Afferrato/a, preso/a con forza. Cafëargiu/a, agg. Amante del caffè. Mancarìas. La parlata di Seui Cafëeddu, s. m. Piccolo caffè, caffè ristretto.. Toca ca nos si bufaus unu c. (dài che ci prendiamo un minicaffè). Cafetera, s. f. Caffettiera. Nel gergo dei ferrovieri, indicava scherzosamente la piccola locomotiva a vapore della Winterthur delle linee ferroviarie a scartamento ridotto sulla Cagliari-Arbatax che avevano a Seui un importante nodo commerciale soprattutto per l’antracite della miniera di Fundu ’e corongiu. Figura nei soprannomi. Cafeu, s. m. Caffè. Cagada, s. f. Cacata. Più spesso nel senso traslato di: lavoro malfatto, castroneria, errore madornale. Cagadorgia, s. f. Cesso, latrina. Cagadura, s. f. Escremento. Azione sconveniente, sproposito, calunnia, etc. Pöita no dd’acabbas cun custas cagaduras? (perché non la smetti con questi spropositi?). Cagai, v. Defecare, cacare. Usato molto spesso per mandare a quel paese i seccatori: bai a c. (pron. bacagai), vai al cesso. Il v. dà luogo ad alcuni composti passati poi nel numero copioso dei soprannomi, come cagamitraglia, cagaprenu e cagaspagu. Cagalloni, s. m. Stronzo. In senso fig. persona paurosa. Est unu c. (è un pàvido). 133 Cagaredda, s. f. Diarrea. Vedi scagareddai. Cagau/ada, agg. Cacato/a, sporco/a, stronzo/a, miserabile. Caghetu, s. m. Damerino, signorotto. Pres. nei soprannomi. Caghineri, s. m. Omosessuale attivo. Caghinu, s. m. Omosessuale passivo. Cagliadeddu, s. m. Latte cagliato, di pecora o capra, da consumare in giornata o nel giro di pochissimi giorni. Cagliadura, s. f. Solidificazione. Cagliai, v. Solidificare, cagliare: l’azione di rendere solido il latte dopo aver versato la dose di caglio adeguata ad ottenere il formaggio. Si usa anche in rif. alla neve, quando non è di breve durata e si stratifica sui tetti, sulle strade, sugli alberi e sulle campagne, facendo prevedere una lunga nevicata. Eriseru a merì at niau ma no nd’at cagliau (ieri sera è nevicato ma la neve si è sciolta). Cagliau/ada, agg. Solidificato/a, rappreso/a. Caglientadura, s. f. Riscaldamento. Caglientai(si), v. Riscaldare. Mi caglientu su lati (mi riscaldo il latte). In senso fig. dare una sussa. Dd’apu caglientau una bota (gli ho 134 riscaldato una guancia), ti caglientu is costas (ti riscaldo le costole). Riscaldarsi. Acostadì a su fogu ca ti caglientas (avvicìnati al fuoco, così ti riscalderai). Caglientau/ada, agg. Riscaldato/a, picchiato/a. Caglienti, agg. Caldo/a. In senso fig. è riferito alla donna vogliosa di darsi. Caglientura, s. f. Febbre. In senso fig. fregola. Vedi acaglienturau. Cagliu, s. m. Caglio, abomaso di capretto. Bonu, cuddu c. (buono, quel caglio). Cagliu, s. m. Capriola. Su pipìu at fatu unu c. ma non s’est mancu scarrafïau (il bambino ha fatto una capriola ma non si è neppure graffiato). Cagliu, s. m. Callo. M’at bessìu unu c. in sa pranta ’e su pèi (mi è spuntato un callo nella pianta del piede). Cäiddu, s. m. Arnia. Lüisu tenit una corantina ’e cäiddus (Luigi ha una quarantina di arnie). In senso fig. bambino rumoroso e molesto, marmocchio. Non fait a ddu ténniri, cuddu c. (non lo si può tenere, quel marmocchio). Calada, s. f. Discesa. Quando è ripida, la si definisce c. mala (brutta discesa). In senso fig. il s. indica un’attenuazione di difficoltà. PAOLO PILLONCA Caladedda, s. f. Discesa breve e/o lieve. Caladura, s. f. Indebolimento, disfacimento. Cussu péssïu est fendusì a c. (quelle pesche si vanno disfacendo). Calai, v. Scendere. Calandi ’e cussa mata (scendi da quell’albero). Deperire. Ninu nd’est calau (Nino è deperito) Nella forma rifl. vale afflosciarsi, assopirsi. Su cardulinu est calendusì (i funghi si vanno afflosciando), Ninu s’est calau in sonnu (Nino si è assopito). Calamadura, s. f. Appassimento, decadimento. Cussa pira s’est fata a c. (quelle pere sembrano appassite). Calamài(si), v. Appassire, perdere consistenza, infiacchire, restringersi. Sa làtïa est totu calamada (la lattuga è completamente appassita). Talvolta si usa anche in rif. all’uomo, seppure in tono scherzoso. Calamau/ada, agg. Appassito/a, infiacchito/a. Calasciu, s. m. Cassetto. Figura nei soprannomi, nel senso di ladro di soldi. Calau/ada, agg. Sceso/a, deperito/a, afflosciato/a. Calàvrigu , s. m. Biancospino (crataegus oxyacantha). Calidadi, s. f. Qualità, qualifica. Mancarìas. La parlata di Seui Calleddu, s. m. Cucciolo di cane. In senso traslato, persona di poco valore. Callella, s. f. Sfinimento, prostrazione, senso perdurante di impotenza. Pres. nei soprannomi. Callelleddu, s. m. Cagnolino. Nella parlata di Seui i doppi diminutivi sono frequenti. Talvolta si arriva anche ai tripli (vedi piticheddeddeddu). Calluceddu, s. m. Cucciolo di cane. Calluciu, s. m. Cagnolino. Variante di calleddu. Calónigu, s. m. Canonico, sacerdote che si fregia di questo titolo. Desueto nella lingua viva, si conserva in un toponimo, Calonigassolu, nella vallata tra il centro abitato e Su ponti mannu. Demetrio Ballicu, valoroso medico storico di Seui e apprezzato cultore delle memorie comunitarie, in una delle sue pubblicazioni riporta il toponimo alla sua forma originaria: calónigu a solu (il canonico da solo, tutto del canonico) e ne spiega la genesi come un’indicazione di proprietà terriera. Calori, s. m. Caldo. Alta temperatura. La fonte di calore sottintesa è quasi sempre il sole ma il s. definisce anche il tepore del fuoco. Mi setzu a c. ’e fogu (mi siedo al caldo del camino). 135 Camba, s. f. Gamba, la parte inferiore dell’arto, dal piede al ginocchio. Vedi scambai e scambau. Cambali, s. m. Gambale. Cambedda, s. f. Osso della zampa di bestiame minuto. Càmbïa, s. f. Biancheria o veste di ricambio. Nce dd’apu portau sa c. a cöili (gli ho portato la biancheria all’ovile). Cambïai, v. Cambiare, sostituire. Cambïamentu, s. m. Mutazione, mutamento. Cambïau/ada, agg. Cambiato/a, sostituito/a. Càmbïu, s. m. Cambio. Dd’at donau su c. (gli ha dato il cambio, l’ha sostituito). Camboni, s. m. Osso della zampa di bestiame grosso. In senso fig. e nel gergo degli sportivi: schiappa, atleta di scarso valore. Pres. nei soprannomi. Cambu, s. m. Ramo. In rif. ad ogni specie di alberi e arbusti, anche della ferula (unu c. ’e feurra). Caminai, v. Camminare, sbrigarsi. Camineddu, s. m. Stradina. Caminera, s. f. Passaggio disagevole tra i dirupi. Usato anche il dim. camineredda. Caminu, s. m. Strada, percorso. Il dim., frequente, è camineddu. Camisa, s. f. Camicia. Quella 136 moderna e quella del costume tradizionale, che è di foggia diversa: oltre ad essere sempre bianca, di norma è chiusa, dunque senza bottoni, e non ha un colletto vero e proprio. Campalini, s. m. Campanile. Nella parlata di Seui - come in molte altre parlate della Sardegna - le metatesi sono frequenti. Canali, s. m. Vallone, canale. Presente nella toponomastica a indicare varie località della montagna seuese. Il toponimo più noto senza alcuna aggiunta di compl. di denominazione - riguarda una zona boscosa della parte alta del territorio comunale al confine con la foresta demaniale di Montarbu, dove sopravvive maestoso un leccio di dimensioni straordinarie, S’ìligi ’e Canali, il leccio per antonomasia, pianta di oltre sette secoli di vita che nell’immediato secondo dopoguerra fu difesa strenuamente e salvata dalla guardia campestre Peppineddu Craboni (all’anagrafe Giuseppe Carboni), che si oppose ai disegni di una ditta appaltatrice dei lavori di deforestazione di quel tratto di bosco che ne avrebbe voluto utilizzare la legna. Il suo nome è ora perpetuato nel buon ricordo comunitario per la nobile azione compiuta e ormai indissolubilmen- PAOLO PILLONCA te legato a quel luogo e a quell’albero. Secondo l’analisi di un’équipe di botanici, S’ìligi ’e Canali era già una pianta ben avviata nel 1250, quindici anni prima che Dante Alighieri vedesse la luce. Canargiu, s. m. Battitore. Lett. conduttore di cani. Voce gergale dei cacciatori. Càncara, s. f. Piattola. In senso fig. persona noiosa che attacca facilmente bottone. Cancaradura, s. f. Rattrappimento, formicolio. Cancarai, v. Aggranchire, pestare, ghiacciare, rattrappire, informicolire. Acabbadda o ti càncaru is (pr. ir) manisceddas (smettila o ti pesto le manine), detto dalle madri ai bimbi che frugano dovunque in continuazione. Ma nell’imprecazione che suona sa manu cancarada, rivolta a chi distribuisce percosse, il v. ha un significato differente: quello del malaugurio della mano rattrappita per sempre. Cancarau/ada, agg. Rattrappito/a, aggranchito/a, informicolito/a. Cancarroi, s. m. Bastone che nella parte finale ha una sorta di uncino, utile per abbassare i rami degli alberi o per spostare i rovi nei decespugliamenti. Canciu/ganciu, s. m. Gancio. Mancarìas. La parlata di Seui Candela, s. f. Candela di cera per l’utilizzo rituale nelle funzioni religiose o in momenti di emergenza domestica. La definizione candela ’e carburu, nel gergo dei minatori di Fundu ’e corongiu, indicava la lampada ad acetilene. Candela, s. f. Lista bianca nella testa di cavalli sauri, bai o neri. Tenia una bell’ebba mùrtina candelada (avevo una bella cavalla saura listata). Candelai, v. Listare di bianco. Rif. principalmente ai cavalli. Gergale. Candelassu, s. m. Ramaglia di arbusti percorsi da incendio. Legna che prende fuoco facilmente, quasi come una candela. Presente nei soprannomi. Candelau/ada, agg. Listato/a, detto dei cavalli. Cani, s. m. Cane. Indica anche il cane del fucile. In senso fig. l’impiego è vario: c. mannu (persona importante), c. ’e stregiu (ladruncolo, miserabile), c. ’e cassa (cane da caccia, nel senso di investigatore astuto che smaschera chi cerca di nascondersi). Canisteddu, s. m. Canestro. Canna, s. f. Canna domestica (arundo donax). Cannaïoni, s. m. Caprinella (agriopyrum repens), erba infestan- 137 te. Terra mala, totu c. (terra sterile, tutta caprinella). Cannarotza, s. f. Esofago, gola. Pres. nei soprannomi. Cannedda, s. f. Tibia. Vedi scanneddai. Cannisoni, s. m. Canna selvatica (arundo phragmites), canna alta, di palude. Figura nei soprannomi. Cannonada, s. f. Cannonata, calcio potente al pallone dalla lunga distanza. Cannonai, v. Cannonare, calciare forte e da lontano il pallone. Gergale del gioco del calcio. Cannonau, s. m. Vitigno sardo tipico, che per primo ha ottenuto dallo Stato - con la cantina sociale di Jerzu - il marchio D.O.C. nei primi anni Settanta. Cannonau/ada, agg. Colpito/a da cannonata, bersagliato/a dal cannone. Cannoni, s. m. Cannone. Persona che eccelle in qualcosa. Desueto, sopravvive nei soprannomi. Cannuga, s. f. Conocchia. Cantada, s. f. Canto, sfida poetica improvvisata. Cantadori, s. m. Poeta improvvisatore. Cantai, v. Cantare. L’azione deve essere effettuata sempre a tempo e luogo, secondo il monito proverbiale: chini cantat in mesa e in letu o 138 est macu o est fertu (chi canta a tavola e a letto o è matto o è sciocco). Cantau/ada, agg. Cantato/a. Cantellu, s. m. Stazza di un animale. ’Erbèi ’e c. (pecora di buona stazza). Cantidadi, s. f. Quantità. Càntidu, s. m. Canto. Cantu, agg. indecl. e avv. Quanto/a. Ma c. genti ddu at igui in basciu (ma quanta gente c’è laggiù). Pron. ind. Binu giai ndi tengiu, e c. ndi ’olis? (vino ne ho, quanto ne vuoi?). Funge anche da avv. Innoi s’at a biri e c. balis (qui si vedra quanto vali). Cantzonadura, s. f. Canzonatura, presa in giro. Viva nella loc. a c. Cantzonai, v. Fare oggetto di canzoni satiriche e/o moralistiche, mettere alla berlina. È questa un’usanza frequente nel passato remoto e recente di Seui e non è neppure del tutto scomparsa, quando si tratta di fatti rilevanti per la comunità. Cantzonau/ada, agg. Messo/a alla berlina, canzonato/a. Cantzonedda, s. f. Piccola canzone, filastrocca. Ddu narat a c. (lo ripete come fosse una filastrocca). Cantzoni, s. f. Canzone. Si dava questo nome ai canti d’autore, locale e non, che commentavano PAOLO PILLONCA particolari fatti di cronaca, dai delitti agli amori. Canudu/a, agg. Canuto/a. Vedi incanudai. Capassu/a, agg. Abile, capace, esperto/a. Vedi acapassàisi. Capitali, s. m. Capitale. Capitai, v. Capitare, succedere, avvenire. Capitau/ada, agg. Capitato/a. Vedi sussèdiri. Capitanu, s. m. Capitano. Capuladori, s. m. Tagliere in legno di castagno adibito soprattutto a sminuzzare alimenti. Capuladura, s. f. Sminuzzamento, tagliuzzamento. Capulai, v. Sminuzzare. Rif. soprattutto al lardo. Capulau/ada, agg. Sminuzzato/a, tagliuzzato/a. Carabbineri, s. m. Carabiniere. Nelle statistiche sulla criminalità, Seui figura da sempre brillantemente agli ultimi posti della classifica dei reati. Rarissimi i fatti di sangue, molti dei quali preterintenzionali o addirittura casuali. Dunque la presenza dei carabinieri tranne rare eccezioni - non è mai stata di disturbo per la popolazione, semmai una garanzia di pacifica convivenza. I marescialli dell’Arma si può dire abbiano agito, nella stragrande maggioranza dei casi, Mancarìas. La parlata di Seui come dei giudici di pace ante litteram. Molti di loro, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, si collocano nella memoria orale della comunità come figure virtuose. Le eccezioni confermano la regola, come di solito avviene nel mondo. Caragolu, s. m. Morsa da fabbro. Caràtiri, s. m. Carattere, indole. Vedi scaratirau/ada. Carcina, s. f. Calce. Era anche una produzione locale, fino a mezzo secolo fa, vista la copiosa presenza di pietre calcaree in vasti terreni comunali. Sono ancora visibili numerose rovine delle fornaci. Vedi incarcinai. Carcinai, v. Dar calci, scalciare. In tono scherzoso può anche riferirsi all’uomo. Carcinau/ada, agg. Scalciato/a. Càrcini, s. m. Calcio, generalmente di animale. Unu c. ’e cüaddu (un calcio di cavallo). Carda, s. f. Sussa, batosta. Ti scudu una c. (ti affibbio una sussa). Per estensione, lo si usa anche nel senso di scorpacciata: m’apu ’onau una c. ’e cerésïa (mi son fatto una scorpacciata di ciliegie), nd’at boddìu una c. ’e füeddus (ha preso una batosta di parole). Cardadura, s. f. Cardatura. Cardai, v. Cardare. Nel traslato, quando dalla lana si passa alle per- 139 sone, il v. assume il significato di picchiare, percuotere, dare una sussa. Cardamponi, s. m. Tendine. Per est. indica la parte superiore della zampa di ovini e caprini. In alcune feste si era è si è soliti offrire un pezzo di carne arrosto a tutti i fedeli. Questo rito si chiama, umilmente, su cardamponi, anche se l’offerta non era e non è limitata ai pezzi di scarto. Cardancili, s. m. Tendine d’Achille, garretto, calcagno. Usato anche in riferimento alle bestie ma impiegato spesso in senso ir. per le persone: chi si sciacüàt is cardancilis dda fäiat santamenti (se si lavasse i calcagni la indovinerebbe). Cardangiosu/a, agg. Sporco/a, sudicio/a, poco amante della pulizia. Vedi caddotzu. Cardangiu, s. m. Sporcizia, sudiciume. Vedi brutura e caddotzìmini. Cardassu, s. m. Sporcizia arretrata, grossa. Vedi incardassai e scardassai. Cardau/ada, agg. Cardato/a, picchiato/a. Cardeddadura, s. f. Agitazione motoria, movimento irregolare. In senso lato: stizza manifestata platealmente. Cardeddai, v. Dimenarsi, agitarsi, saltare irregolarmente, stizzirsi 140 visibilmente, etc. S’est totu s’ora cardeddendu (ti agiti di continuo). Cardeddau/ada, agg. Dimenato/a, agitato/a. Cardedu, s. m. Luogo pieno di cardi selvatici. Cardiga, s. f. Graticola. Cardu, s. m. Cardo. In senso fig. stoltezza. Cardulinu, s. m. Fungo. Termine generico. Per indicare le varie specie è necessario precisare ulteriormente: c. de petza, de murdegu (di ferula, di cisto, etc). Cardulinu ’e murdegu, s. m. Boletus sardous, fungo che vive in simbiosi con le radici del cisto. Carena, s. f. Corpo. Mi ’olit in totu sa c. (ho dolori in tutto il corpo). Corporatura, fisico. Est un’òmini de bona c. (è un uomo di buona corporatura). Carésima, s. f. Quaresima. Cargileta, s. f. Lucertola. Càriga, s. f. Narice. Raro usato al sing. Lo si impiega sovente in senso ironico. Sa conciofa chi portas in càrigas (lett. i carciofi che hai sulle narici, cioè la stoltezza che ti grava addosso). Vedi acarigai e scarigai. Carighedda, s. f. Piccola narice. Usato nell’espr. füeddai a c. (parlare con voce nasale). Carminedda, n. pr. di persona. Carmen. Nome assegnato frequen- PAOLO PILLONCA temente alle donne in onore della Madonna del Carmelo, festeggiata a Seui dall’inizio degli anni Venti. Curiosamente, nell’anagrafe comunale questi nomi femminili sono registrati, tutti o quasi, nella forma maschile Carmine. È rarissimo che il nome venga assegnato a maschi. Finora è successo una sola volta. Carolina, s. f. Piccola locomotiva. Era chiamata con questa sorta di nomignolo la più minuscola fra tutte le macchine delle ferrovie complementari sarde che avevano in gestione la linea di Seui (Breda, Koppel, Mallet, Reggiana, Winterthur). A sole quattro ruote, mai impiegata per tragitti lunghi, serviva da supporto nelle stazioni e nei punti più difficoltosi del tratto Seui-Lanusei. Carra, s. f. Unità di misura, corrispondente a mezzo starello. Carra-carra, s. m. Scarafaggio, scarabeo. Pres. nei soprannomi. Carrabbusu, s. m. Scarafaggio. Carrabbuzada, s. f. Azione aggressiva e repentina. Carrabbuzai, v. Afferrare di colpo e scaraventare a terra. Rif. prevalentemente alle persone ma anche agli animali indocili. Carrabbuzau/ada, agg. Afferrato/a repentinamente e buttato/a a terra. Mancarìas. La parlata di Seui Carrada, s. f. Botte. Figura nei soprannomi. Carradedda, s. f. Piccola botte. Rif. alle persone, indica una figura umana piccola e grassa. Carragiai, v. Ricoprire di terra, anche per indicare l’azione violenta e improvvisa delle frane. Vedi scarragiai. Carragiau/ada, agg. Ricoperto/a di terra, nascosto/a. Carragiu, s. m. Copertura di terra. Ma il sost. è utilizzato soprattutto nel senso di: confusione, caos, disordine. Carrali, s. e agg. Legato da parentela diretta. Su c. (il fratello), sa c. (la sorella), su fradili c. (il cugino con lo stesso cognome), su tziu c. (lo zio fratello del padre). Carrarmau, s. m. Carro armato. Il s. è stato introdotto nel lessico paesano dai reduci dei due conflitti mondiali, soprattutto il primo, che sono costati alla comunità un prezzo enormemente alto anche rispetto alla media della Sardegna. Il paese l’ha poi elaborato anche in chiave ironica, nel linguaggio immaginifico di similitudini e metafore. Est coment’e a bociri unu pùligi cun-d-unu c. (sarebbe come ammazzare una pulce con un carro armato) per indicare reazioni sproporzionate. Linu est unu c. 141 (Lino è un carro armato), se si tratta di descrivere in modo incisivo una persona prepotente e dai modi bruschi. Vedi gherra. Carretoneri, s. m. Carrettiere, carrettoniere. Carretoni, s. m. Carrettone. Figura nei soprannomi. Carri, s. f. Carne. Ma il campo semantico di questa parola è particolare. Indica carne viva, umana, di parti delicate o intime, quando è usata al plurale. M’apu agutonau sa camisa ca non bogliu a mi biri is carris (mi sono abbottonata la camicia perché non voglio che mi vedano il seno). Al sing. accompagnata da un agg. indica carne animale morta. C. sciàpida è la carne molliccia della gola e del petto di agnelli, maialetti, capretti, etc. Ma la carne di animali uccisi in genere è definita da petza. Carroni, s. m. Tallone. Figura nei soprannomi. Vedi cracangiu. Carru, s. m. Carro. Indica soprattutto il carro a buoi, costruito artigianalmente da un falegname specialista. Carruciu, s. m. Carretto. Carrulanti, s. m. Carrolante. Carrumbulada, s. f. Rotolìo lungo. Carrumbulai, v. Rotolare. Detto di pietre che si muovono in pen- 142 dio come di bimbi che cadono in corsa. Carrumbulau/ada, agg. Rotolato/a. Carrùmbulu, s. m. Rotolìo. Viva la loc. avv. con il s. al pl. (a carrùmbulus). Carta, s. f. Carta da gioco. Il s. indica anche il cerotto di grande dimensione che si applica, contro le mialgìe. M’apu dépïu pònniri una c. (mi son dovuto applicare un cerotto). Nel senso dell’it. carta è usato solo nelle definizioni burocratiche di carta bullada (carta bollata) e carta ’e identidadi (carta d’identità), evidenti calchi dalla lingua egemone. In tutti gli altri casi la parola usata è paperi. Cartoni, s. m. Cartone. Figura nei soprannomi. Cartza, s. f. Ghetta, parte del costume maschile tradizionale che somiglia a una sorta di gambale. Usato quasi escl. al pl. Cartzadura, s. Fornitura di scarpe, calzatura. Era uno dei diritti dei servi pastori. Cartzai, v. Calzare, fornire di scarpe. Cartzau/ada, agg. Calzato/a, fornito di scarpe. Il contr. di scurtzu/a. Caru/a, agg. Caro/a, amato/a, diletto/a. C. che-i sa pipia ’e s’ogu (caro come la pupilla). PAOLO PILLONCA Caru/a, agg. Costoso/a. C. che fogu (carissimo, lett. caro come il fuoco). Contr. di baratu/a. Casaïu, s. m. Casaro. Cascai, v. Sbadigliare. Cascat po fàmini (sbadiglia per fame). Socchiudere. Cascamì sa vantana (socchiudimi la finestra), quasi che l’infisso socchiuso somigliasse ad una bocca aperta per sbadigliare. Cascasina, s. f. Rifiuto, escremento. Cascavellu, s. m. Capriccio, estro, capacità di motteggio. Pres. nei soprannomi. Càschidu, s. m. Sbadiglio. Lüisu est a càschidus, depit tènniri sonnu (Luigi sbadiglia di continuo, forse ha sonno). Cascia, s. f. Cassa. Cascioni, s. m. Grande cassa, cassone, baule. Cascita, s. f. Cassetta. Molto usato anche il dim. cascitedda. Casellanti, s. m. Cantoniere di ferrovia. Casoteri, s. m. Cantoniere titolare di casa lungo la linea ferroviaria. Il cantoniere stradale è chiamato contoneri. Casotu, s. m. Casa cantoniera della ferrovia. Quella stradale è detta contonera. Cassa, s. f. Caccia. La caccia grossa - cinghiali, mufloni, cervi, Mancarìas. La parlata di Seui dàini - è chiamata cassa manna (grande caccia), quella minuta conigli, lepri, beccacce, pernici, tordi, etc. - cassigedda (piccola caccia). In senso met. il s. vale: bottino, preda, risultato di una battuta di polizia. Oi sa giustìssïa fait c. (oggi le forze dell’ordine arresteranno q.no). Cassadori, s. m. Cacciatore. Cassai, v. Cacciare, esercitare l’attività venatoria legalmente e non. In pag’ora eus cassau dus sirbonis (in poco tempo abbiamo cacciato due cinghiali). Di recente, per influsso della parlata cagliaritana tramite le migliaia di seuesi emigrati nel capolugo che conservano l’abitudine al rientro nel paese d’origine, ha assunto l’ulteriore senso di: sorprendere, cogliere in flagranza di reato. Dd’at cassau sa giustìssïa cun-d-unu cüaddu furau (l’hanno sorpreso le forze dell’ordine con un cavallo rubato). Cassalora, s. f. Tegame, casseruola. Da notare, anche qui, la presenza della metatesi, che differenzia il s. dalla forma che normalmente assume anche nelle sub-varianti zonali: cassarola. Curiosamente, però, quest’ultima forma ritorna nei soprannomi. Cassau/ada, agg. Cacciato/a, 143 sorpreso/a in flagrante. Casta, s. f. Razza, radice, progenie, genìa, appartenenza. Vedi scastai. Castangeddu, s. m. Castagna di piccolo taglio. È anche nome collettivo. Custu mengianu apu ’oddìu feti c. (stamane ho raccolto soltanto castagne piccole). Il sapere popolare le indica come le più saporite. Castangia, s. f. Castagno (castanea sativa) e castagna, albero e frutto. Introdotto a fine Ottocento nelle Barbagie di Belvì e Seulo e nel Mandrolisai come coltivazione semirazionale, il castagno occupa ora una superficie assai vasta della proprietà privata di Seui, oltre a comparire sempre di più nei terreni acquisiti di recente dall’Ente regionale delle foreste. Castanginu/a, agg. Castano/a. Detto del colore dei capelli, di un abito, un mobile o altro. Casteddaïu/a, s. e agg. Cagliaritano/a. Casteddu, s. m. Castello. Casteddu, n. pr. di l. Cagliari. Castïada, s. f. Sguardo, modo di guardare. Tenit una c. mesu legia (ha uno sguardo piuttosto brutto), a sa c. non mi pragit (non mi piace il suo sguardo). Castïai, v. Guardare, osservare 144 bene. Dd’apu ’ida ma no dd’apu castïada (l’ho vista ma non l’ho osservata). Accudire, badare: a tziu Sarbadori ddu castïant a cida a cida is parentis de strintu (lo zio Salvatore è accudito a turni settimanali dai parenti stretti). Castïau/ada, agg. Guardato/a. Càstïu, s. m. Controllo attento e continuato. Ddu portu a c. (lo tengo sotto controllo). Dev. di castiai. Casu, s. m. Formaggio. Indica la varietà di prodotti che si ottengono dopo aver cagliato il latte. Il formaggio di pecora e capra veniva confezionato a sa sarda, senza riscaldare nel calderino il latte munto. In seguito si è passati al semicotto e al romano. Oggi, dall’inizio di gennaio alla fine di giugno e talvolta ai primi di luglio, gran parte dei pastori di Seui conferisce il latte al caseificio. Ma per la provvista familiare la maggioranza degli allevatori preferisce ancora il confezionamento di tipo antico, tra l’inverno e la primavera. Finita la stagione del conferimento del latte, i pastori si dedicano a su casu de fita, prodotto estivo tipico, che consiste nel togliere subito dalla cagliata il formaggio, tagliarlo a fette (a fitas, da cui il nome), lasciarlo asciugare e poi salarlo oppure - ma non è un’usanza tipi- PAOLO PILLONCA ca del paese, quest’ultima - metterlo in salamoia. Il prodotto così ottenuto si utilizza per il condimento di vari tipi di minestrone. Questa lavorazione può interrompersi prima della salagione: allora il formaggio è destinato al consumo immediato e si chiama casu agedu (formaggio acìdulo). Un altro tipo di produzione estiva è su casu in filigi. (pron. casunfìligi): si mette il latte cagliato su uno strato di rametti freschi di felce, lo si avvolge in un panno, lo si stringe bene e lo si appende per qualche ora, per favorire la fuoruscita del siero. A quel punto lo si può già consumare. In frigo, su casunfiligi dura qualche giorno. Vedi fìligi. Altra specialità è su casumartzu (formaggio marcio), produzione involontaria di qualche forma che da solida diventa cremosa e talvolta si infesta di un particolare tipo di verme. Vietato in commercio, è una leccornia d’élite. Catarata, s. m. Cataratta, malattia degli occhi. Catódigi, agg. num. card. Quattordici. Catramu, s. m. Catrame. Vedi incatramai. Catzabùbbulu, s. m. Persona che crede di essere chissà chi, presuntuoso, tronfio. Mancarìas. La parlata di Seui Catzotu, s. m. Pugno, cazzotto. Catzu, s. m. Pene, cazzo. Caulada, s. f. Stufato di cavoli. Ma l’uso più frequente del s. riguarda il senso fig. Est una c. (è una cavolata, una sciocchezza). Càuli, s. m. Cavolo. Negli orti del paese i due tipi di cavolo più coltivati sono su c. ’e frori (il cavolfiore) e su c. ocupau (il cavolo cappuccio). Il s. viene impiegato in varie espr. semischerzose: non cumprendit unu c. (non capisce nulla), est una conca ’e c. (è una testa di cavolo), etc. Càvana, s. f. Roncola. Un neologismo gergale del gioco del calcio è l’espressione pèi ’e càvana (lett. piede di roncola), detto di chi dimostra una mira imprecisa nei tiri in porta e/o nei passaggi. Un tempo indicava anche la guancia, che ha forma vagamente simile alla roncola: ne resta traccia nel s. scavanada (schiaffio sulla guancia). Usato anche al dim. cavanedda/cavaneddu. Cavanaciu, s. m. Piccola roncola dal manico corto. Càvuru, s. m. Gambero. Già presente nei soprannomi. Di un pastore che aveva il nomignolo di Su càvuru le narrazioni orali dicono sia morto - in un tempo indefinito - a causa di una nevicata 145 fuori stagione, ai primi di maggio. Cedda, s. f. Piccolo gruppo di animali. Celu, s. m. Cielo, il firmamento e il Paradiso cristiano. Su c. totu ’erbeis abba fin’a peis (il cielo a cumuli, acqua in abbondanza), in su c. siat (Dio l’abbia in gloria), quando si parla di un morto. Al cielo, carico di stelle o velato di nubi, hanno guardato con speranza spesso delusa pastori e contadini del paese. E non sempre le stelle rappresentavano un buon segno, soprattutto d’inverno, per la maggiore possibilità di gelate. Nella parlata di Seui sostantivi e aggettivi in corso di frase che iniziano con la lettera c seguita dalle vocali e ed i, tranne che le vocali suddette non siano seguite da altra vocale, come in ciaciarra (chiacchiera), e altre rare eccezioni, si pronunciano con il suono della g dolce: su celu diventa su gelu, sa cena si trasforma in sa gena, sa cibudda in sa gibudda. Le notti delle feste principali dell’inverno, come le vigilie di Natale e Capodanno sono, ciascuna per definizione, noti ’e cena (pron. noti ’e gena). Davanti alla prep. semplice a e alla cong. e, invece, conservano il suono normale: andaus a cenai (andiamo a cena), soi a pani e cibudda (mi 146 nutro soltanto di pane e cipolle). Cena, s. f. Cena, pasto serale. Cenadorgiu, s. m. Pasto seralenotturno del bestiame. Gergale dell’ovile, desueto. Cenai, v. Cenare. Cenarba, s. f. Venerdì. Centu, agg. num. card. Cento. Centupiglionis, s. m. Òmaso delle bestie. Cera, s. f. Cera. Per la pronuncia in corso di frase di questo s. e degli altri che iniziano in ce, vedi celu. Cerbu, s. m. Cervo (cervus corsicanus). La femmina si chiama mardina, il cerbiatto betu. Nei nessi rb (arbu, cerbu, narba, narbedda, narbonai, narboni, perdarba, etc), la seconda cons. è lenita. Cerésïa, s. f. Ciliegio (Prunus cerasus), albero e frutto. Ricco il lessico che distingue le varietà delle ciliegie: barracocu, cordofali, limoni, etc. Cerésïa aresti, s. f. Ciliegio selvatico (Prunus avium, degli uccelli, perché il frutto, di norma, non viene raccolto dall’uomo). Dà ciliegine minute e asprigne di grandi virtù medicamentose. Certai, v. Litigare, bisticciare. Meglius a no ddu-i füeddai, cun cussu, ca t’obbrigat a c. (meglio non parlare affatto, con quello, perché ti costringe a litigare). PAOLO PILLONCA Cértidu, s. m. Litigio, bisticcio. Che, cong. Come, simile a. Est che tui etotu (è proprio come te). La loc. che pari vale: sullo stesso piano. Po sa morti seus totu c. p. (per la morte siamo tutti sullo stesso piano). Introduce una lunga serie di similitudini primarie tuttora vive nell’uso quotidiano. Ne diamo qualche esempio: che lardu in sali (come il lardo nel sale), iscuriu che in buca (buio come all’interno di una bocca chiusa), che pudda in pértïa (come una gallina su una pertica), che turra in culurgioni (come il mestolo nei ravioli di patate), che caboni in mesu is puddas (come gallo fra le galline), che margiani in mesu ebbas (come volpe fra le cavalle), inchieta che pìbera (irata come una vipera), nieddu che pigi (nero come la pece) sparau che sirboni (sparato come un cinghiale), fridu che nì (freddo come la neve), buddiu che fogu (caldo come il fuoco), grogu che cera (pallido come la cera), lestru che lampu (veloce come il lampo), grai che tronu (pesante come un tuono), in mesu che-i su mércuris (in mezzo come il mercoledì), che cüaddu in beranu (come un cavallo in primavera), che gatu in frïargiu (come un gatto a febbraio), legiu che cani (brutto Mancarìas. La parlata di Seui come un cane), birdi che narba (verde come la muffa), tostau che piroi (duro come il perastro). Chelegunu/a, pr. e agg. ind. Qualcuno/a. Chene, avv. Senza. Chene farta (senza errore). Esiste anche la variante chentza, di influsso italiano. Cherpai, v. Crepare, scoppiare, arrabbiarsi oltre misura. Est inchïetu meda, parit ca ndi cherpat (è in preda all’ira, come se dovesse scoppiare). Cherpau/ada, agg. Crepato/a. Lo si usa soprattutto come imprecazione-maledizione rivolta a chi grida troppo. C. sias (che tu possa crepare). Cherpu, s. m. Rabbia, ira. Viva la loc. a c. (a dispetto). Chescia, s. f. Lamentazione, protesta. Dd’apu inténdiu ’eu, fut cun cussa chescia (l’ho sentito io, avanzava proprio quella protesta). Chesciàisi, v. Lamentarsi, protestare. Sorri tua si chesciat ca in domu no ndi ’ogas unu füeddu (tua sorella si lamenta perché in casa fai scena muta). Chesciali/casciali, s. m. Molare. Soi a dolori ’e chescialis (ho mal di molari), mi nd’apu tirau un c. (mi sono fatto estrarre un molare). Chesciau/a, agg. Lamentato/a. Chesciosu/a, agg. Lamentoso/a, 147 che ha motivo di lamentarsi. Chi, cong. e pron. rel. sogg. e compl. Se. Chi ’enis a domu ti cumbidu (se vieni a casa mia ti invito qualcosa). Che. Unu chi non bit de lìtera est coment’e chi non biat nudda (un analfabeta è come se non vedesse niente, simile ad un cieco), is cosas chi fais no ddas contis a nemus (non raccontare a nessuno le cose che fai). Chididura, s. f. Presa in cura, presa di possesso, raccolta. Chidiri, v. Aver cura. Est abarrau solu e nemus ddu chidit (è rimasto solo e nessuno si cura di lui). Raccogliere. Si dd’est isperrumau su cüaddu e no dd’at mancu chidiu (il cavallo gli è caduto in un dirupo, ma lui non lo ha neppure raccolto). Chidiu/a, agg. Raccolto/a. Se rif. alle persone vale: ben trattato/a, accudito/a. Chïetu/a, agg. Calmo/a, tranquillo/a. Vedi il v. achïetàisi e la loc. a c. Chilighiti, s. m. Solletico. Vedi crisa-crisa. Chini, pr. rel. e dimostrativo Chi. Chini cicat agatat (chi cerca trova). Chirïella, s. f. Chiacchiera, litania, discorso fumoso. Si usa escl. al plurale nel modo di dire in contus e chirïellas (fra racconti e chiac- 148 chiere). Corruzione dal Kyrie eleison delle funzioni religiose? Esiste la variante crïella. Chìriga, s. f. Chierica, tonsura del prete. Chissi, s. m. Il tempo che precede l’alba, appena si esce dal cuore della notte. Sull’orologio si starebbe tra le tre e le quattro del mattino. Mi nd’est benìu a c. (è venuto a casa mia prima dell’aurora). Chistïonai, v. Parlare, dialogare. Non chistïonat cun nemus (non parla con nessuno). Chistïonau/ada, agg. Parlato/a, interloquito/a. Chistïoni, s. f. Colloquio, dialogo. Antoni fut a c. cun Linu (Antonio era a colloquio con Lino). Divergenza, dissidio, questione. Ninu est istétïu a cumpangiu cun Antoni po bint’annus chene c. peruna mai (Nino è stato compagno di lavoro di Antonio per vent’anni senza mai alcuna divergenza). Ciaciarra, s.f. Chiacchiera. Ciaciarrai, v. Chiacchierare, parlottare, pettegolare. Ciaciarroni, s. e agg. Chiacchierone, logorroico. Ciafu, s.m Schiaffo. Esiste anche il dim. ciafigeddu (schiaffetto). Cibudda, s f. Cipolla (allium cepa). Viva l’espressione conca ’e c. (lett. testa di cipolla), riferita a PAOLO PILLONCA persona di scarse qualità intellettive. Pres. nei soprannomi. Per la pronuncia in corso di frase vedi cena. Cibuddu, s. m. Cipollone, sempre seguito dall’agg. mascu. Cica, s. f. Ricerca. Il s. non indica solo il concetto astratto, definisce il gruppo di uomini impegnati nelle operazioni di ricerca, di persone scomparse o di bestiame rubato o smarrito. Dev. di cicai. Cica, s. f. Cicca, mozzicone di sigaretta. Figura nei soprannomi nella forma normale e anche al dim. cichigedda. Cicai, v. Cercare, ricercare. Prov. chini cicat agatat (chi cerca trova). Cìcara, s. f. Tazza. Cicaredda, s. f. Tazzina. Cicaroni, s. m. Tazza tonda grande, scodella, in terracotta o in metallo. Cicìa, s. f. Copricapo rustico. Desueto. Cida, s. f. Settimana. Questi i nomi dei singoli giorni: lunis, martis, mercuris, gióbia, cenarba, sàbudu, domìnigu. Sono tutti maschili, eccetto gióbia e cenarba. Cigireddu, s. m. Piccolo cece. Pres. nei soprannomi. Cìgiri, s. m. Cece. Cigirïanu, s. m. Granoturco. Ciligìa, s. f. Brina. Mancarìas. La parlata di Seui Ciligïada, s. f. Brinata. Ciligïai, v. Gelare, ricoprire di brina. Notesta ciligìat (stanotte cadrà la brina). Ciligïau/ada, agg. Gelato/a, ricoperto/a di brina. Su logu fut totu c. (la campagna era tutta bianca di brina). Cilivradura, s. f. Setacciamento. Cilivrai, v. Stacciare, crivellare. Cilivrau/ada, agg. Stacciato/a, crivellato/a. Cilivru, s. m. Staccio, crivello. Cincu, agg. num. card. Cinque. Cingimentu, s. m. Atto ed effetto del vestire, stile di abbigliamento. Cìngiri, v. Vestire. Depu c. su pipìu (debbo vestire il bambino). Anche nel rifl. No est sémpiri chi si cingit beni (non è sempre che si veste bene). Cinisu, s. m. Cenere. Vedi incinisai e scinisai. Cintu, s. m. Cinghia dei pantaloni. Cintu/a, agg. Vestito/a, abbigliato/a. Comenti s’est c. pariat unu procu inseddau (per come si è vestito sembrava un maiale con la sella). Part. pass. di cìngiri. Ciociòi, s. m. Maiale. Appellativo scherzoso, utilizzato soprattutto nell’espr. a pala ’e c. (a cavalcioni sul collo), rivolto ai bambini. Ciociu/ciociòu, s. m. Appellativo 149 onomatopeico e scherzoso del maiale. Figura nei soprannomi nella prima forma, preceduto dall’art. det. su. Ciocu, s. m. Radice dell’erica e del corbezzolo, che si estraeva per ricavarne abbozzi di pipe oltre che legna da ardere. Ciorbeddera, s. f. Capacità di intendere, intelligenza. Usato per lo più in senso ir. Ciorbeddu, s. m. Cervello. Circadura, s. f. Cerchiatura. Circai, v. Fare cerchi. Circau/ada, agg. Cerchiato/a. Circinadura, s. f. Accorciamento, taglio, riduzione. Circinai, v. Accorciare, ridurre, tagliare. Nel gergo degli apicoltori, l’operazione di smielamento delle arnie, c. is cäiddus. Circu, s. m. Cerchio per botti. Indica anche il cerchio in ferro tondo utilizzato in un gioco infantile. Circufoglia, s. m. Arcobaleno. Cìrdinu/ a, agg. Rigido/ a. Usato più che altro in senso reale, di rado in espressioni metaforiche. Vedi incirdinai(si). Citiri(si), v. Tacere, star zitto. Comenti ddi nau su chi ddi menescit si citit inderetura (appena gli dico ciò che merita tace immediatamente). Tuttora molto vivo nell’uso 150 l’ordine perentorio citidì (stai zitto). Citìu/ a, agg. Zitto/ a. Usato anche come intimazione, con ellissi del predicato. Citìu tui (tu zitto). Civargeddu, s. m. Piccola focaccia. Alimento tipico di Seui e dell’intera zona, con qualche variante locale, è su c. prenu, una focaccia ripiena di un purea di patate condito con olio d’oliva o strutto, formaggio pecorino o caprino (da qualche tempo a questa parte anche formaggio dolce), cipolle e zucchine. Si confeziona di frequente anche su c. de cibudda (una focaccia piatta a base di cipolle). Civargioni, s. m. Focaccia fuori misura. In Seddori su pani ddu fäint a civargionis mannus (a Sanluri confezionano il pane in focacce enormi). Civargiu, s. m. Focaccia di semola e farina bianca. Coa, s. f. Coda, parte terminale. Prov. sa c. est mala a iscorgiai (la coda è difficile da scuoiare), per dire che la parte conclusiva di quasi tutte le opere è la più difficile. Conclusione. Cobedina, s. f. Tinozza. Cocerinu, s.m. Cucchiaino. Presente nei soprannomi. Coceroni, s. m. Mestolo a forma di grosso cucchiaio. PAOLO PILLONCA Cocineddu, s. m. Uno dei nomi dell’asino. Ironico. Vedi bistratzu, burricu, molenti, peghiteddu e pegus de mola. Cociola, s. m. Cotenna, pelle del maiale. Presente nei soprannomi. Cociolu, s. m. Guscio, buccia. Si può riferire, dunque, tanto alla noce e alla nocciola quanto all’arancia e al limone. Cóciula, s. f. Arsella. Anche come nome collettivo. Cocöedda, s. f. Piccolo pane a pasta dura. Dim. di cocòi. Cocòi, s. f. Pane bianco a pasta dura. Coddada, s. f. Atto sessuale, coito, scopata. Coddadori/a, s. m. Scopatore/scopatrice, amante delle avventure erotiche. Coddai, v. Avere rapporti sessuali. In senso fig. ingannare, imbrogliare, raggirare. Ddi ’oliat bèndiri crabas malas ma no dd’at coddau (gli voleva vendere delle capre di cattiva razza ma non è riuscito a fregarlo). Coddaprangendu, s. m. Piangi e fotti. Si dice di chi è sempre triste anche quando non ne avrebbe alcun motivo. Presente nei soprannomi. Coddongiu, s. m. Coito, atto Mancarìas. La parlata di Seui sessuale. Coddoni/a, agg. Amante del coito. Coddu, s. m. Òmero. Tuttora usata l’espr. de pala in c. (lett. dalla spalla all’òmero), per indicare un palleggiamento reiterato di responsabilità. Codina, s. m. Ciocco, radice dell’erica e del corbezzolo. Nel linguaggio quotidiano dà indicazione generica, per quella specifica occorre precisare: c. ’e tùvara è la radice dell’erica, c. ’e lïoni quella del corbezzolo. Sradicare l’erica e il corbezzolo veniva considerato un lavoro estremamente gravoso. Ne rimane traccia in un’espr. divenuta proverbiale: quando si minimizza sulla difficoltà di un qualsiasi lavoro solitamente si dice: non ses mancu ’oghendu c. (mica stai a cavar ciocchi) In senso fig. vale duro di comprendonio. Est una c. (non capisce nulla). In questa ultima accezione, vedi balossu, bambassu, biobba, càdumu, codobba, conciofa, prupu. Codobba, s. m. Incapace, cretino, di scarso intuito, etc. Códula, s. f. Pietra piatta di piccole dimensioni, facile da scagliare contro q.no o q.sa. Cöeta, s. f. Sottocoda, parte finale della sella e del basto di cavalli, 151 asini e muli. Cofa, s. f. Cesta di canne. In senso fig. fortuna sfacciata. Vedi scofau. Cofu, s. m. Cavità, fossa, fosso. Su veterinàrïu at fatu fàiri unu c. mannu po interrai is procus impestaus (il veterinario ha fatto scavare una gran fossa per seppellire i maiali colpiti dalla peste). Cofudu/ ada, agg. Cavo/a, concavo/a. Anche rif. ai piatti di cucina. Apu postu unu pratu c. (ho messo in tavola un piatto concavo). Vedi praneri. Coga, s. f. Fattucchiera. Coghera, s. f. Ubriacatura, sbronza. Si nd’at boddìu una bella c. (si è preso una bella sbronza). Cogina, s. f. Cucina. Coginadorgiu, s. m. Luogo in cui si cucina. Figura nei toponimi. Coginai, v. Cucinare. Coginau, s. m. Pasto per maiali a base di patate e crusca. Coginedda, s. f. Cucinino. Coglioni, s. m. Testicolo. Ses pighendumì a is coglionis (mi stai rompendo le scatole). In senso fig. uomo di scarso valore, persona cretina. Cogliudu, s. m. Non castrato, ancora con i testicoli. Si dice degli animali maschi interi e degli uomini coraggiosi. 152 Cogliunadori, s. m. Imbroglione. Cogliunadura, s. f. Imbroglio, inganno, trappola. Cogliunai, v. Ingannare, imbrogliare. A Ninu no ddu cogliunant (Nino non si fa ingannare). Cogliunau/ada, agg. Ingannato/a. Cogorista, s. f. Cresta del gallo. Metaforicamente: vanità, pompa. Coi-coi, s. m. Rospo di palude di dimensioni minuscole. Cóïa, s. f. Matrimonio. Ma anche, per una sorta di est. augurale, fidanzamento. Linu at bogau sa c. in craru (Lino ha ufficializzato il fidanzamento). Coïadori/a, agg. Pronubo/a. Si dice anche di qualche Santo, come San Valentino che nel paese confinante di Sàdali ha il principale centro di culto della Sardegna. Sant’Elena imperatrice, la madre di Co-stantino Magno, al contrario, ha fama di essere scoïadora, ossia di far finire le relazioni amorose. Coïai, v. Sposare, dare o unire in matrimonio. Ddus coïat su préidi (li sposerà il prete). Anche al rifl. coïaisi (sposarsi). Coïau/ada, agg. Sposato/a. Cöidai/cöitai, v. Far presto, sbrigarsi. La loc. avv. a coìdu/coìtu significa: per tempo, sul presto. PAOLO PILLONCA Candu est benìu fut a c. meda (quand’è venuto era molto presto). Meno usata la variante cöitai. Vedi discöidai. Cöidau/ada, agg. Fatto in fretta. Part. pass. di cöidai. Cóidu, s. m. Fretta. Non ti pighint is prosporis de su c. (non farti venire le smanie della fretta). Cöidura, s. f. Cottura. Nella loc. a c. Cöigliai, v. Avanzare. Candu tenit gana ’e papai est raridadi chi nde ddi cöiglit (quando ha fame è raro che gli avanzi qualcosa) Cöigliau/ada, agg. Avanzato/a, residuale. Cöili, s. m. Ovile. Cóiri, v. Cuocere, cucinare. Oi cou fâ (oggi cucino delle fave), cussa petza no est cota (quella carne non è cotta). Ma il verbo si usa anche nel senso di maturare, riferito ai frutti vegetali. Ocannu sa pira addurat a c. (quest’anno le pere tarderanno a maturare). In senso ir. lo si impiega nel significato di ubriacare/ubriacarsi. Dona crobba, cussu ’inu ti cöidat a c. (stai attento, quel vino ti ubriacherà presto), Antoni binu no nd’aguantat, ndi bufat duas o tres tassas e si cöit (Antonio non regge il vino, ne beve due o tre bicchieri e si ubriaca). Cöitai, v. Fare in fretta. Vedi cöi- Mancarìas. La parlata di Seui dai. Colostru, s. m. Colostro, latte denso, il primo che si produce subito dopo il parto. Colovru, s. m. Biscia, serpe. Columbu, s. m. Colombo. Coma, s. f. Fogliame degli alberi e degli arbusti. Vedi scomai. Cominigai, v. Dare la comunione. Nel rifl. vale: fare la comunione, accostarsi al sacramento dell’eucarestia. S’est cunfessau e cominigau (si è confessato e ha fatto la comunione). Vivissima la loc. a pusti mortu cominigau (comunicato post mortem) per evidenziare la perfetta inutilità di un’azione eccessivamente tardiva. Cominigau/ada, agg. Comunicato/a, rif. a persona che abbia fatto la comunione. Comporadori, s. m. Acquirente, compratore. Comporai, v. Acquistare, comprare. Comporau/ada, agg. Acquistato/a. Cómpuru, s. m. Acquisto. Cómudu, s. m. Cesso, latrina. Di acquisizione recente dalla parlata cagliaritana, per il solito effetto degli scambi ininterrotti con la numerosa colonia di lavoratori seuesi nel capoluogo sardo. Conca, s. f. Testa. Le teste, per 153 fortuna, non sono tutte uguali e la parlata di Seui distingue. C. ’e molenti (testa d’asino) è lo studente incapace, c. ’e càuli (testa di cavolo) la persona balorda, c. nóbbili (testa nobile) la persona distinta - ma di norma la definizione viene usata in senso antifrastico -, c. cota (testa ubriaca) l’alcolista, c. ’e lutoni (testa di ottone) la donna che ha i capelli del colore di quel metallo, c.’e mustu (testa di mosto) il beone. Il s. torna spesso nei soprannomi, con una specificazione: c. ’e angioni (testa d’agnello), c.’e bulloni (testa di bullone), c.’e cascioni (testa di cassone), c. ’e procu (testa di maiale), c.’e vicàrïu (testa di parroco). Conca, s. f. Sommità, zona alta di un territorio. Presente nella toponomastica con Sa c. ’e su casteddu, che indica una cima posta di fronte al nuraghe di Ardasai e anche i ruderi della torretta di supporto alla torre maggiore. Conca ’e maju, s. f. Libellula. Conca ’e prentza, s. f. Madrevite. Definisce anche l’attrezzo usato dai fabbri per praticare le filettature a vite. Concali, s. m. Cretino. Concheddu, s. m. Prepuzio. In senso fig. deficiente. Conchita, s. f. Testa allegra, persona non troppo affidabile. 154 Conciofa, s. f. Carciofo. In senso fig. stupido. Ndi portat de c. in càrigas, cuddu (lett.: ne ha di carciofi sul muso, quello). Veda balossu, bambassu, biobba, càdumu, codina, prupu. Conconi, s. m. Testone. Conigliu (aresti), s. m. Coniglio selvatico (lepus cuniculus). Contai, v. Raccontare, narrare. Lisa scit c. is contus antigus (Lisa è brava a narrare le storie antiche). Contare, enumerare. Dónnïa mengianu Franciscu contat is brebeis. (Francesco conta le pecore tutte le mattine). Considerare, stimare. Antoni fut unu piciocu contau (Antonio era un ragazzo stimato). Contau/ada, agg. Raccontato/a, contato/a, stimato/a, tenuto/a in considerazione. Contonera, s. f. Casa cantoniera, di strada e/o di ferrovia. Presente nei soprannomi. Contoneri, s. m. Cantoniere di strada. Quello della ferrovia si chiama preferibilmente casellanti e casoteri. Contonïada, s. f. Rientro a casa, rincasata. Contonïai, v. Rincasare, rientrare a casa. Sarbadori costumat c. a duru (Salvatore è solito rincasare sul tardi). Contonïau/ada, agg. Rientra- PAOLO PILLONCA to/a a casa, rincasato/a. Contramazina, s. f. Rimedio a un sortilegio, antidoto a una fattura. Contras, avv. Contro, in senso contrario. Linu dda tenit c. de tui (Lino ce l’ha con te, ti rema contro). Contu, s. m. Racconto, storiella. M’at nau unu bellu c. (mi ha raccontato una bella storia). Conteggio, conto. Depeus fàiri is contus (dobbiamo fare i conti). Stima, considerazione. In bidda cussu piciocu est postu in c. (nel paese quel ragazzo è ben considerato), no est postu in perunu c. (non gode di alcuna stima), no ndi facas c. (non farci caso, non considerarlo). Copïadura, s. f. Copiatura, imitazione, plagio. Copïai, v. Copiare, plagiare, imitare. Copïau/ada, agg. Copiato/a, imitato/a, plagiato/a. Copïeddu, s. m. Maialetto allevato in casa. Copïoni, s. m. Amante delle copiature e dei plagi. Cópïu, s. m. Maiale di casa. Vezzegg. con cui le massaie chiamavano su procu mannalissu, con vocativo talvolta reiterato e aggiunta del compl. di specificazione: c. ’e sa meri (maialetto della padrona). Cora, s. f. Solco acquaio, gora. Mancarìas. La parlata di Seui Frequente il dim. corigedda. Coranta, agg. num. card. Quaranta. Corcia, s. f. Trapunta. Corciai, v. Trapuntare. Per questa operazione le donne di Seui adoperavano aghi di particolare robustezza, detti agus de c. Corciau/ada, agg. Trapuntato/a. Corda, s. f. Piatto tipico dell’ovile: arrosto di interiora di capra, pecora o agnellone, tenute dalle budella intrecciate dell’animale. Cordïolu, s. m. Legaccio, lacciolo. Vedi incordïolai. Cordofali, agg. Particolare tipo di ciliegia. Cordogu, s. m. Orbo, cieco ad un occhio. Cordonera, s. f. Laccio da scarpa. Cordoni, s. m. Cordone, cordone ombelicale. Coreta, s. f. Cunetta. Coretoni, s. m. Canale di guardia. Corgiu, s. m. Cuoio. Ma più spesso viene utilizzato nel significato di buccia. Coromeddu, s. m. Fior fiore. Detto del cespo di lattughe come di un pezzo prelibato di carne. In senso lato, la parte migliore di qualunque cosa. Corona, s. f. Roccia posta in cima a un rialzo del terreno, a mo’ 155 di corona. Figura nei soprannomi. Coronai, v. Coronare. In senso ironico: giai ti ses coronau (ti sei proprio messo una bella corona). Coronamentu, s. m. Incoronazione. Coronateddu, n. pr. di pers. Coronato. Coronau/ada, agg. Coronato/a, munito/a di corona. Corpetu, s. m. Gilè del costume tradizionale maschile. Di panno nero, è chiuso sul davanti da cinque bottoni. Sul retro è di tela ed ha una martingala. Corpiri, v. Affliggere, contagiare, colpire. Ddu corpit dónnïa temporadedda (basta un po’ di maltempo per farlo ammalare). Corpìu/a, agg. Colpito/a, malato/a sofferente. Non soltanto nella congiuntura, anche permanentemente come negli handicap. Corpu/cropu, s. m. Colpo, battuta. Al pl. vale: sussa, bastonata. Dd’at donau una carda ’e cropus (gli ha dato una bella sussa), no abetîs ca ndi ’oddis corpus (non insistere, prenderai una sussa). Corpus, s. m. Corpo, interno della persona. Non ti soi anintru ’e c. po cumprèndiri e ita pensas aberu (non sono dentro di te per capire cosa pensi davvero). Vedi carena. Corramenta, s. f. Coppia di 156 corna. Bella c. portat, custu crabu (ha un bel paio di corna, questo caprone). In senso ir. le corna metaforiche di chi viene tradito dalla sua donna. Corrìa, s. f. Correggia. Molto usato il prov. in peddi agliena c. lada (nella pelle altrui si fanno corregge larghe). Corria de porta indica la bandella. Vedi incorrïai. Corrïassu/a, agg. Coriaceo/a, resistente. Corridórïu, s. m. Balcone. Corrinada, s. f. Ragliata, serie di ragli. Su molenti s’at fatu una bella c. (il somaro ha emesso una lunga serie di ragli). Corrinai, v. Ragliare. Est coment’e chi intenda unu molenti corrinendu (è come se sentissi un asino ragliare). Corrinu, s. m. Raglio. Corrongiai(si), v. Raggrinzire, rinsecchire. Chi dda lassas ’n foras sa pira si corrongiat (se le lasci fuori le pere si rinsecchiscono). Corrongiau/ada, agg. Rinsecchito/a, pieno/a di rughe. Corrongiu/a, agg. Raggrinzito/a, increspato/a. Dalla canzone Eus agatai di Benigno Deplano: Eus agatai/ bagadias corrongias/ préidis e mongias/ sacristas e paras/ nendu missas caras/ po bius e po mortus (troveremo/ zitelle raggrin- PAOLO PILLONCA zite/ preti e suore/ sacristi e frati/ impegnati in messe a caro prezzo/ per vivi e per morti). Ma come agg. è più usato corrongiau/ada. Corru, s. m. Corno. Indica le corna di buoi, capre e mufloni (le pecore ormai sono tutte mùdulas, senza corna, montoni compresi). Accompagna la definizione di alcuni oggetti artigianali che si ricavano dalle corna propiamente dette e da altri materiali a forma di corno: unu c. ’e binu (un corno di vino) definisce la quantità di vino contenuta in un bicchiere ricavato da un corno di bue, unu c. ’e crocoriga (un corno di zucca) lo stesso contenuto: unica differenza, il materiale del contenitore. Corru ’e mari, s. f. Conchiglia. Corrudu/a, agg. Cornuto/a. Detto in rif. agli animali ma anche alle persone. Ancora vivissima nell’uso l’espr. c. e apaliau (cornuto e bastonato con una pala). Corrunconai, v. Girare per gli angoli, vagare per il paese senza una meta precisa. Corrunconi, a. m. Angolo. Corrutai, v. Osservare il lutto stretto. Vedi scorrutai. Corrutu, s. m. Lutto stretto. Maria est in c. po su pobiddu (Maria è in lutto stretto per la morte del marito). Per le donne su Mancarìas. La parlata di Seui corrutu - perpetuo per il marito, temporaneo per gli altri parenti stretti, soprattutto fratelli, sorelle, cognati e nipoti - prevedeva una serie di divieti di partecipazione ad eventi pubblici e un’altra serie di prescrizioni relative all’abbigliamento. Oggi quelle regole si sono attenuate di molto e tendono a scomparire: prevale la tendenza a lasciare a ciascuna donna la libertà di scelta. Presente nella toponomastica con Bau de is corrutus, quasi che quel luogo fosse un vallone in cui ci si dava appuntamento per cerimonie comunitarie commemorative di defunti. Secondo una leggenda, invece, il nome deriverebbe dal fatto che in quella vallata si sarebbero uditi per lungo tempo dei lamenti funebri, forse in ricordo di qualche strage. Corti, s. f. Recinto per la mungitura di capre e pecore. Metaforicamente: giai torrat a c. (tornerà a più miti consigli, verrà a Canossa). Coru, s. m. Cuore. Su questo s. si costruiscono molte locuzioni: si dd’at pigada a c. (se l’è presa a cuore) e si dd’at posta a c. (stesso significato), de bonu c. (generoso), de c. (cordialmente, con sincerità), de c. moddi (di cuore tenero), de c. tostau (di cuore duro) e simili. Spesso, soprattutto nei canti della 157 culla e della bara, diventa sinonimo di amore. Frequente l’appellativo c. miu stimau (cuore mio diletto). Coscia, s. f. Coscia. Pres. nei soprannomi. Coscioni, s. m. Maiale. Francesismo (da cochon) che ha dato luogo a un soprannome, una delle assunzioni dal francese nella parlata seuese, date le lunghe migrazioni verso la Francia. Coscioni/a, agg. Dalle cosce grosse. Cosidura, s. f. Cucitura. Cosingiu, s. m. Lavoro di cucito. Maria est apricada in su c. (Maria si impegna nel lavoro di cucito). Cosingiu, s. m. Scarpa artigianale, cucita a mano. L’uso riguarda prevalentemente il pl. cosingius. Cosiri, v. Cucire. Definisce l’azione principale dei sarti ma anche quella del medico chirurgo che sutura una ferita. Dd’at a c. su dotori (il medico gli applicherà dei punti di sutura). Cosìu/a, agg. Cucito/a. Cossetu, s. m. Reggiseno a balconcini, senza bretelle. Cóssïu, s. m. Contenitore di terracotta per la preparazione della lisciva e per l’igiene personale. Cossu, s. m. Busto del costume tradizionale femminile. Di broccato, è guarnito con fiori gialli e 158 dorati. Costa, s. m. Costone, terreno in pendenza. Est (pr. er) bessìu unu fogu e at abbrugiau totu cussa c. (è scoppiato un incendio ed ha bruciato l’intero costone). Ma anche costola, umana e animale. Usata l’espr. irosa donasiddu, giai non ti ’essit de costas (dàglielo, non esce dalle tue costole). Frequente nei toponimi del territorio, una volta anche al dim. (Costigedda), alla periferia del paese in direzione di Sàdali. Costumai, v. Essere solito, avere l’abitudine di seguire usanze e tradizioni. Deu facu comenti si costumat (io agisco secondo l’usanza). Costùmini, s. m. Costume, l’insieme dei pezzi di un vestiario tradizionale. In quello di Seui i pezzi principali del costume femminile sono: su mantu (il copricapo) fatto di panno rosso bordato di raso azzurro e tenuto insieme nella chiusura da su giunchigliu, (una catena di metallo non pregiato ma che può essere d’oro nei costumi delle donne benestanti), sa camisa (la camicia di tela bianca), su cossu (il busto di broccato), su giponi (la giacchetta di raso a fiori violacei, sa ’unnedda (la gonna di raso nero a fiori viola alla stessa maniera della giacchetta con l’aggiunta di orrob- PAOLO PILLONCA binus, perline non preziose), su deventali (il grembiule di pizzo nero). Il costume maschile, come negli altri paesi, è di fattura semplice, quasi elementare: sa berrita (il copricapo di orbace o panno nero), su cropetu (il gilè di panno nero), sa raga (il gonnellino di orbace nero), is bragas (i calzoni di tela bianca), is cartzas (le ghette di orbace nero). Costumu, s. m. Consuetudine, usanza, tradizione. L’impiego del s. avviene quasi soltanto al pl. A usus e costumus fut äici (secondo la tradizione era così). Vedi usu. Còtu, s. m. Barattolo, contenitore in genere. Pesaminceddi ’e sa nanti cussu c. (toglimi di mezzo quel barattolo). Al pl. (cotus), sempre a proposito di contenitori, indica genericamente oggetti inservibili. Tenit sa ’omu totu prena ’e cotus (ha la casa zeppa di vecchi oggetti inservibili). Cótu/a, agg. Cotto/a, rif. ai cibi. Part. pass. di còiri. Sa petza est c. (la carne è cotta). Maturo/a, rif. ai frutti vegetali. Cuss’àgina no est c. mancu pagu (quell’una non è affatto matura). Ubriaco/a. Antoni fut c. a fegi (Antonio era completamente ubriaco). Craba, s. f. Capra. Met. donna libera e indocile. Crabïeledda, n. pr. di pers. Ga- Mancarìas. La parlata di Seui briellina. Crabïeli, n. pr. di pers. Gabriele. Crabïolu, s. m. Capriolo. Presente in un toponimo, Is Crabïolas, nella parte bassa del territorio comunale. Crabïoni, s. m. Frutto del caprifico, il fico selvatico detto figu cràbina. Crabistu, s. m. Cavezza. No andat mancu a c. (non va neppure se gli metti la cavezza), detto di persona poco intelligente o testarda. Crabitu, s. m. Capretto. Quando ha pochi giorni di vita si chiama crabiteddu. Crabonaïa, s. f. Carbonaia. Crabonaïu, s. m. Carbonaio. Craboni, s. m. Carbone. A Seui indicava soprattutto l’antracite del giacimento di Fundu ’e corongiu, ma definiva e definisce anche il carbone vegetale. Crabu, s. m. Caprone. In senso fig. vale: ostinato, ribelle, selvatico, poco incline al ragionamento. Crabuciu, s. m. Caprone giovane. Usato anche il dim. crabuceddu. Crabufigu, s. m. Fico selvatico (caprificus), caprifico. Vedi figu cràbina. Cracadori, s. m. Pigiatore. Desueto nel linguaggio della quotidianità, sopravvive nei sopran- 159 nomi. Cracadura, s. f. Pigiatura, pressatura. Cracai, v. Calcare, piegare, pigiare. Di recente, è entrato nel gergo dell’istruzione nel senso di bocciare, respingere, espellere. Cracangiu, s. m. Calcagno. Ma è molto più usato carroni. Cracaporcedda (a). Affollamento eccessivo in ambiente angusto, come maialetti nell’àrula. Usato soprattutto in loc. avv. In cussu logu fustis a c. ( in quel posto eravamo pigiati come maialetti nell’arula). Cracau/ada, agg. Calcato, bocciato, respinto. Cracu/a, agg. Fitto/a. Cussa costa tùndïa unu tempus fut unu padenti c. (quel costone spoglio un tempo era un bosco fitto). Crâdu/ada, agg. Chiuso/a a chiave. Part. pass. di cràiri. Crai, s. f. Chiave. A catódigi annus boliat a ddi ’onai is crais de ’omu (a quattordici anni voleva che gli dessi le chiavi di casa). In senso reale e fig. Viva l’espr. volgare sa c. ’e s’ebba (lett. la chiave della cavalla, eufemismo per minca ’e cüaddu), usata quando si vuole rispondere negativamente a una richiesta eccessiva. Ti ’ongiu sa c. ’e s’ebba (non ti darò nulla). Crai de muru, s. f. Tirante, chia- 160 ve da muro. Cràiri, v. Chiudere a chiave. Il part. pass. è crâdu, irr. S’’enna dd’apu crâda (la porta l’ho chiusa a chiave). Cramella, n. pr. di persona. Carmela. Testimoniato fino alla prima metà del secolo scorso il dim. Cramelledda. Craminadura, s. f. Carminatura. Craminai, v. Carminare. Gergale delle tessitrici. Craminau/ada, agg. Carminato/a. Cramu, n. pr. di luogo. Carmelo (detto del monte biblico del profesta Elia e della festa che gli si riferisce). Sempre accompagnato dall’art det. m. sing. su. Crancu, s. m. Cancro, detto anche su mali mandïadori (la malattia che mangia). Crannaca, s. f. Collana. Nella parlata di Seui la voce mostra una venatura lievemente spregiativa e viene utilizzata anche in riferimento agli animali, soprattutto ai buoi nelle processioni. Crapita, s. f. Scarpa. Viva l’espr. agatai sa c. giusta a su pèi (trovare la scarpa adatta al proprio piede). Crasi, avv. Domani. Crastadura, s. f. Castrazione. Crastai, v. Castrare. Ma per indi- PAOLO PILLONCA care la castrazione di alcuni animali il verbo gergale di maggiore utilizzo nella parlata di Seui è sanai. Crastau/ada, agg. Castrato/a. Crastu, s.m. Pietra. Crastulai, v. Pettegolare. Neologismo di provenienza cagliaritana. Cràstulu, s. m. Pettegolezzo. Cràstulu/a, agg. Pettegolo/a, maldicente. Dina est una c. (Dina è una pettegola). Cravai(si), v. Inserire, conficcare: cravanceddi una puncia (mettici un chiodo). Nella forma riflessiva vale: azzuffarsi/picchiarsi, mettersi in mezzo, inserirsi: Antoni s’est cravau cun Linu (Antonio e Lino si sono azzuffati), cravadinci in sa bassa (fìccati nel cesso). Cravongiu, s. m. Rissa. In sa festa ddu at sussédïu unu c. mannu (nella festa si è scatenata una grande rissa). Crëidori, s. m. Credulone, facile a prestar fede a q.no e/o q.sa. Crëidura, s. f. Credulità, fiducia eccessiva nelle parole del prossimo Crèiri, v. Credere, prestar fede. Chi non biu non creu (se non vedo non credo). Anche al rifl. nel senso di avere un’eccessiva austostima. Maria si crëit meda (Maria è molto presuntuosa). Crescina, s. f. Crescenza, aumento del numero dei capi di bestiame in un gregge. Gergale degli ovili. Mancarìas. La parlata di Seui Crèsciri, v. Crescere. Créscïu/ crèscïa, agg. Cresciuto/a. Crésïa, s. f. Chiesa. La parrocchiale si chiama c. manna (chiesa grande). Cresïedda, s. f. Tempietto campestre. Cresïàstigu/a, agg. Fedele devoto. Con venatura ironica. Vedi bigotu/a. Cresurai, v. Chiudere con siepi. Cresurau/ada, agg. Chiuso/a mediante siepi. Cresuri, s. f. Siepe di confine. Crétïu/a, agg. Creduto/a. Part. pass. di crèiri. Usato più di frequente nel senso di: presuntuoso/a, superbo/a. Sarbadori est unu c. (Salvatore è un presuntuoso). Crïadori, s. m. e agg. Creativo, creatore. Crïadura, s. f. Creatura, infante, neonato, bimbo. Crïai, v. Creare, far nascere qualcosa dal nulla. Crïai, v. Fare l’uovo. Detto di volatili e uccelli in genere. Pudda crïadora è la gallina ovaiola. Crïau, s. m. Creato, universo. Crïau/ada, agg. Creato/a. Crïàntzïa, s. f. Educazione, compitezza, riservatezza. Po ddu nai in c. (per dirlo in modo educato). Crica, s. f. Saliscendi, attrezzo in 161 ferro utilizzato per la chiusura di infissi, formato da un’asta che scorre in un nasello a gancio. Vedi cricai e scricai. Crica, s. f. Gruppo di amici, cricca. Cricadura, s. f. Chiusura di porta con il solo saliscendi. Vedi scricadura. Cricai, v. Chiudere una porta senza usare chiavi, utilizzando soltanto il saliscendi. Cricau/ada, agg. Chiuso/a con il saliscendi. Crïella, s. f. Chiacchiera. Vedi chirïella. Crïolina, s. f. Creolina, soluzione chimica dal caratteristico odore quasi di catrame ancora molto usata come disinfettante negli ovili. Crisa-crisa, s. m. Solletico. Vedi chilighiti. Crisadura, s. f. Sensazione di ribrezzo. Crisai(si), v. Provare ribrezzo. Linu crisat a su casu martzu (Lino prova ribrezzo davanti al formaggio con i vermi). Se si vuole indicare una persona nauseabonda o un luogo sporco si suole dire: fait a ddi c. (fa ribrezzo). Se ellittico del compl. il v. significa: soffrire il solletico. No mi tochis is costas ca crisu (non toccarmi le costole perché 162 soffro il solletico). Al rifl., se riferito al bestiame, vale: sussultare. S’ebba s’est crisada (la cavalla ha sussultato). Crisósigu/a, agg. m. e f. Schizzinoso/a, che prova ribrezzo davanti a un alimento o una situazione in qualche maniera poco gradevole dal punto di vista fisico o morale. Il suffisso ósigu indica questo tipo di tendenza. Vedi primósigu. Crispu/a, agg. Fitto/a, svelto/a, veloce: unu padenti c. (un bosco fitto), a passus crispus (a passi svelti). Cristolu, n. pr. di pers. Cristoforo. Cristu incravau, s. m. Crocefisso. Cristus, n. pr. di pers. Gesù Cristo, Dio. Frequente la similitudine innocenti che C. (innocente come Gesù Cristo). Crisu, s. m. Residuo di potatura e/o decespugliamento. In senso fig. vale: spazzatura e, se rif. all’uomo, persona squallida. Antoni est unu c. (Antonio fa schifo) Crobba, s. f. Attenzione, cura, controllo, percezione. Dona c. (stai attento), a su tagliu ddi ’onat c. Antoni (del gregge si occupa Antonio). Di un malato che perde percezione si dice non donat mancu prus c. (non riesce più nemmeno a PAOLO PILLONCA concentrarsi). Crobecadura, s. f. Coperchiamento. Crobecai, v. Coperchiare. Vedi scrobecai. Crobecu, s. m. Coperchio. Anche in senso fig. nello stesso significato di crobetori. Crobedda, s. f. Piccola corbula. Crobetàntzïa, s. f. Metafora, allegoria. Po ddu nai in c. (per dirlo velatamente). Crobetori, s. m. Coperchio di pentola: su diàulu fait is pingiadas ma no is crobetoris (il diavolo fa le pentole ma non i coperchi). In senso fig. paravento, schermo: a su pobiddu ddu tenit po c. (usa il marito come paravento). Crobetura, s. f. Tettoia. Per il senso lato vedi abba. Crobi, s. f. Corbula. Crobu, s. m. Corvo. Molto usato il prov. c. cun c. non si ndi ’ogat s’ogu (il corvo non cava l’occhio al suo simile). Frequente l’imprecazione scherzosa rivolta ai bambini, con l’uso del diminutivo: ancu ti pighint is crobigeddus (che ti prendano i piccoli corvi). Presente nei soprannomi, proprio al diminutivo, e nella toponomastica. Crocadorgiu, s. m. Luogo dove si sdraiano gli animali per riposa- Mancarìas. La parlata di Seui re. Ma si usa anche in riferimento alle persone nel senso di giaciglio, letto, dormitorio. Cussa forada est su c. de is murvas (in quella spianata le mufle riposano). Crocai(si), v. Coricare, stendere. Fut gherrendu e Antoni dd’at crocau (lottava e Antonio l’ha steso). Crocadì in su póddini (lett. sdràiati sulla crusca, vai a quel paese). Nella forma rifl. mettersi a letto. Si nci crocat (si mette a letto). Crocamentu, s. m. Pernottamento, alloggio d’albergo. Crocau/ada, agg. Sdraiato/a, supino/a. Crocoladori, agg. Gorgogliante. Presente nella stessa forma come toponimo, ad indicare una vallata del territorio comunale a poca distanza dall’abitato di Seui. Crocolai, v. Gorgogliare. Detto dell’acqua delle fontane. Crocoriga, s. f. Zucca. Indica la specie vegetale e il suo frutto. Il s. è frequente nel linguaggio della quotidianità nell’espressione torrai c. per definire una richiesta di matrimonio andata a monte perché respinta dalla candidata sposa o dalla sua famiglia. È anche sinonimo di bocciatura a scuola. Nd’at boddìu una grandu c. (ha preso una gran bocciatura). Il s. definisce anche le zucche che, lasciate 163 seccare e poi lavorate abilmente, si trasformano in contenitori utilizzabili per conservare il vino. Crocorigheddu, s. m. Zucchina. Pres. nei soprannomi. Da notare il cambio di genere del dim. rispetto al s. principale, fenomeno frequente. Vedi castangeddu rispetto a castangia. Cróculu, s. m. Gorgoglio, scroscio. Perpetuato nel top. Sa funtana ’e su c., nella parte alta del territorio comunale, ricca di rosmarini, ginepri e lecci, tra S’’èmida e Sa ’uca ’e su ’oi, quasi al confine con la foresta di Montarbu. Vedi crocolai. Croga, s. f. Anca. Ironicamente, indica la pinguedine di quella zona corporea, con estensione a fianchi e natiche. Ndi portat de crogas (ha un bel paio di fianchi). Crogagliu, s. m. Cucchiaiomestolo in corno di montone o muflone, di dimensioni superiori alla media dei cucchiai e inferiori a quella dei mestoli. Di uso comune negli ovili fino a pochi anni fa, oggi in molte abitazioni del paese è divenuto una sorta di complemento d’arredo, soprattutto quando a creare l’oggetto è un artigiano di buone mani. Uno straordinario creatore di crogaglius è stato ed è Umberto Congera noto Animeta (classe 1920). Presente nei sopran- 164 nomi. Cropu, s. m. Colpo. Vedi corpu. Crosidadi, s. f. Curiosità. Crosidadosu/a, agg. Curioso/a, ficcanaso. Crû/crua, agg. Crudo/a, soprattutto riferito al regno vegetale, dunque nel senso di acerbo, immaturo. Ma anche riferito all’alimentazione. Sa mela est c. (le mele sono acerbe), cussa petza est c. (quella carne è cruda). L’espr. c. perdali vale: crudo come la pietra. In senso met. incompiuto, scarso. Est una conca c. (è un cervello poco sviluppato). Crüangiu/a, agg. Mezzo crudo/a, immaturo/a. Detto dei cibi e dei frutti. Cruculeu, s. m. Passero sardo. Presente nei soprannomi. Cüaddeddu, s. m. Cavallino. Detto di puledrini o anche di cavalli adulti di piccola taglia. Cüaddu, s. m. Cavallo. Parola evocativa e di intensa suggestione per i rimandi di ricordi profondi e di fantasie cui si presta, com’è naturale che sia in una comunità rimasta per secoli a base economica quasi unicamente pastorale. Il s. indica il soggetto che abbia superato i tre anni. Prima di quel tempo, l’animale è ancora purdeddu, puledro. Frequente nel linguaggio metaforico: de cussu c. giai ndi calas PAOLO PILLONCA (ti farò scendere da quel cavallo, quel tuo desiderio non potrà realizzarsi); no est c. chi setzu (non è un cavallo che posso montare, non affronto un rischio del genere), chini setzit c. aglienu ndi calat candu non bolit (chi monta su un cavallo altrui è costretto a scendere quando non vorrebbe). Capriccio, bizza. Est fendu is cüaddus (fa le bizze, detto di un bimbo).Usato assai spesso nei proverbi: su c. in beranu cogliunat su comporadori (il cavallo in primavera inganna l’acquirente, nel senso che la primavera gli conferisce l’aspetto migliore dell’anno), su c. frïau a sa sedda si saddit (il cavallo piagato sussulta nel vedere la sella), su c. piticu parit sèmpiri purdeddu (il cavallo di taglia minuta sembra sempre un puledro), a c. curridori funi curtza (il cavallo da corsa deve essere tenuto a fune corta), c. e pobidda pigadiddus in bidda (cavallo e moglie prendili nel tuo paese). Tuttora molto usata la loc. a c. infrenau (con il cavallo bardato), a scherno dei presuntuosi. Presente nei toponimi (Calendecüaddu). Cüaddu, s. m. Ettolitro. Il riferimento al cavallo si spiega con il fatto che un tempo le bisacce larghe adibite al trasporto del vino potevano contenere un otre da cinquanta litri per ciascuna delle Mancarìas. La parlata di Seui due tasche. Vedi foddi. Cüaddudu/a, agg. Bizzoso/a come un cavallo, ostinato/a, prepotente. Cüaddu ’e ’ingia, s. m. Mantide religiosa (lett. cavallo di vigna). Cüadernu, s. m. Quaderno. Cüadorgiu, s. m. Nascondiglio. Cüadori, s. m.Nasconditore. Cüadrai, v. Quadrare, andare a genio. Candu ddi naras sa beridadi no ddi cüadrat (quando gli dici la verità non gli va a genio). Cüadrau,s. m. Quadrato. Cüadrau/ada, agg. Quadrato/a. Cüadru, s. m. Quadro, dipinto. Cüadura, s. f. Nascondimento. Cüai, v. Celare, non svelare, coprire, proteggere. Cussu fait faddotadas mannas ma sa pobidda ddu cüat (quel tizio fa sbagli grossolani ma la moglie lo copre). Non si usa nel senso dell’it. nascondere, che a Seui è reso con atacai. Cüartu, s. m. Quarto. Misura di capacità. Cüartu/a, agg. Agg. num. card. Quarto/a. Cüàturu, agg. num. card. indeclinabile. Quattro. Cüau/ada, agg. Nascosto/a. Cuba, s. f. Botte. Cubedda, s. f. Barilotto, piccola botte. Artigiani abili preparano questi arnesi a regola d’arte, so- 165 prattutto in legno di ginepro. Cuberai, v. Trovare. Cuboni, s. m. Botte grande. Cucai, v. Sorprendere, cogliere con le mani nel sacco. Cucau/ada, agg. Sorpreso/a, colto/a in flagrante. Cuchedda, s. f. Crocchia. Cucu, s. m. Cuculo. Cucumeu, s.m. Civetta. Cucureddu, s. m. Rialzo del terreno, cocuzzolo. Cùcuru, s. m. Sommità, testa. La loc. a.c. indica il superamento del livello raso nel riempire i contenitori di cereali, anche macinati, e di qualunque altro alimento non liquido. Definisce anche il trasporto di pesi sulla testa da parte delle donne. Su landi nde ddu ’etïaus a c. (le ghiande le trasportavamo sulla testa). Pres. nei toponimi, il più noto dei quali è Cùcurus de pardu, tra Gersadili e Paùli. Cucuruscagliu, s. m. Capriola. Usata la loc. a cucuruscaglius per definire il gioco delle capriole. Cuddu/ a, agg. e pr. dim. Quello/a. Cüestori, s. m. Questore. Cüesturinu, s. m. Poliziotto. Cugliera, s.f. Cucchiaio. Cugudda, s. f. Riccio del castagno che contiene il frutto. Cuguddai, v. Coprire. Anche in 166 senso met.Vedi scuguddai. Cuguddu, s. m. Copricapo annesso al cappotto. Cugùmini, s. m. Cetriolo. Cugutzulloni, s. m. Albero immaginario che dà il nome a un gioco-indovinello di gruppo (sa mata de su c.) che si faceva e talvolta si fa ancora nei vari rioni del paese durante i fuochi di gennaio. Cùidu, s. m. Gomito. Nde ddi ’onas unu c. e si ndi leat unu ’rassu (gli dài un gomito e si prende il braccio intero). Cüìndigi, agg. num. card. Quindici. Culoni/a, agg. Dal culo grande. Per est. fortunato/a. Culu, s. m. Ano, culo. Per est. genitali femminili. Una donna vogliosa è chiamata c. caglienti (culo caldo). In senso fig. fortuna, buona sorte. Piticu su c. (che fortuna). La loc. a c. de ogu - nell’effettiva pronuncia dei parlanti, a cul’’i ogu - vale l’it. con la coda dell’occhio, l’espr. pónniri a c. ingrassare eccessivamente. Culurgioni, s. m. Raviolo di patate tipico della cucina della Barbagia meridionale. La ricetta tradizionale dei culurgionis - suscettibile di lievi elaborazioni e varianti, a seconda dei gusti e della creatività di chi li prepara - prevede questi tre ingre- PAOLO PILLONCA dienti basilari: patate, strutto, formaggio fresco salato. Ma allo strutto si è ormai quasi totalmente sostituito l’olio d’oliva. Presente nei soprannomi. Cumandai, v. Ordinare, comandare. All’imp. pres. (cumandit, spesso abbreviato in cumà) era la risposta obbligata dei giovani alla chiamata degli anziani. Cumandamentu, s. m. Comandamento, precetto cristiano. Cumandanti, s. m. Comandante. Cumandau/ada, agg. Richiesto/a, comandato/a, ordinato/a. Chini at cumandau sa birra si dda pagat (chi ha ordinato la birra se la pagherà). Cumandu, s. m. Ordine, richiesta, faccenda. Depu fàiri unu c. (debbo sbrigare una faccenda). Cumbata, s. f. Lotta, sforzo quotidiano, preoccupazione concreta. Soi sempir in c. (mi ritrovo sempre indaffarato). Cumbàtiri, v. Combattere, darsi da fare, essere sempre in azione. Cumbàtïu/a, agg. Combattuto/a, disputato/a. Cumbenïenti, s. m. Necessario. At fatu prus de su c. (ha fatto più del necessario). Cumbenièntzïa, s. f. Convenienza. Cumbènniri, v. Convenire, esse- Mancarìas. La parlata di Seui re conveniente. Cumbénnïu/a, agg. Convenuto/a. Cumbidai, v. Invitare a bere e/o a mangiare. Ti cumbidu? (gradisci qualcosa?). Cumbidau/ada, agg. Invitato/a. Cumbìdu, s.m. Invito, al bar o in casa. A differenza di altre subvarianti zonali, che registrano la forma sdrucciola cùmbidu, nella parlata di Seui il s. ha l’accento sulla penultima sillaba. Cumbinai, v. Combinare, capitare. Cumbinatzïoni, s. f. Combinazione, casualità. Cumentzai, v. Iniziare, muovere per primo l’azione. At cumentzau Linu (è stato Lino ad iniziare). Esiste anche la variante incumentzai. Cumentzau/ada, agg. Iniziato/a, avviato/a. Cumentzu, s. m. Inizio, origine. A su c. no mi ndi soi acatau (all’inizio non me ne sono accorto). Cumessïoni, s. f. Commissione. Affare da sbrigare. In senso ir. indica l’apparato genitale maschile esterno. Acanciadì sa bragheta ca si bit sa c. (chiudi la braghetta perché altrimenti ti si vedrà tutto). Cumìtiri, v. Commettere. Cumìtïu/a, agg. Commesso/a. 167 Chi depiat pagai totu su chi at c. non dd’iat a bastai su tempus de Noè (se dovesse pagare tutto ciò che ha commesso non gli basterebbero gli anni di Noè). Cumonargiu, s. m. Conduttore di bestiame altrui secondo il contratto di sòccida. Cumoni, s. m. Contratto di sòccida (a c.). L’accordo di base era strutturato così: nelle terre comunali il proprietario metteva a disposizione il bestiame (in quelle private anche il pascolo), il pastore ne garantiva la cura, le spese si dividevano a metà. Al pastore era garantita anche la metà della resa e, allo scadere del contratto (che in origine durava sei anni, ma già alla fine degli anni Cinquanta del Novecento era stato ridotto a tre), aveva diritto di prendersi la metà del gregge o del branco. Cumòu, s. m. Comò, canterano. Cumpadessimentu, s. m. Compassione, compatimento, perdono. Cumpadèssiri, v. Compatire, perdonare, aver pietà. Giüanni ’olit cumpadéssïu ca cumprendit pagu (Giovanni va compatito perché capisce poco). Cumpadéssïu/a, agg. Compatito/a, perdonato/a. Cumpangiu, s. m. Compagno, 168 amico. Frequente l’espressione antifrastica bonu arangiu e meglius su c. (buono l’uno e meglio l’altro). Cumpàrriri, v. Apparire, dimostrare. Tenit norant’annus ma no ddus cumparit (ha novant’anni ma non li dimostra). Cumparta, s. f. Comparsa, apparizione, breve visita. A sa festa ddu apu fatu una c. (ho fatto un salto alla festa). Cumpartu/a, agg. Comparso/a, presente. Cumpatiri, v. Compatire, scusare, giustificare. Ti cumpatu ca no as connotu modu (ti scuso perché non hai avuto una buona educazione). Cumpatìu/a, agg. Scusato/a, giustificato/a. Cumpetenti, agg. Competente, esperto/a. Cumpetèntzïa, s. f. Competenza. Cumpònniri, v. Comporre, adeguare, abbigliare a dovere, abbellire. Cumportai(si), v. Comportare/comportarsi. Cumportamentu, s. m. Comportamento, condotta. Cumpostu/a, agg. Composto/a, adeguato/a. Cumpostura, s. f. Compostezza, adeguatezza, abbellimento. Cumpragèntzïa, s. f. Compiacenza, compiacimento, gentilezza, PAOLO PILLONCA cordialità. Cumpràgiri, v. Compiacere, essere gentili. Ddus at cumpràgïus cun bellu modu (li ha compiaciuti con maniere gentili). Si usa anche nel rifl. compiacersi. Si ndi cumpragit cussu etotu (se ne compiace egli stesso). Cumpràgïu/a, agg. Compiaciuto/a. Cumprèndiri, v. Capire, comprendere. Cumprendit pagu e nudda (capisce poco e nulla). Cumpréndïu/a, agg. Capito/a. Cumprimentu, s. m. Adempimento regolare di un dovere, conclusione. Cumpriri, v. Fare le cose per bene, concludere un lavoro iniziato. Lüisa cumprit beni ’ónnia cosa (Luisa esegue bene tutto). Cumprìu/a, agg. Educato/a, gentile, compìto/a. Giai ses c. (come sei gentile). Cumprobbai, v. Verificare attraverso il confronto. Apu cumprobbau is prétzïus (ho verificato i prezzi). Cumprobbau/ada, agg. Verificato/a. Cumprobbu, s. m. Verifica, controllo serio per stabilire una verità effettiva. Cumpudai, v. Frugare, controllare, perquisire. Cumpudau/ada, agg. Perqui- Mancarìas. La parlata di Seui sito/a, controllato/a. Cùmpudu, s. m. Controllo, perquisizione. Cumunali, agg. Comunale. Cumunu, s. m. Municipio, sede del Comune, uffici comunali. Cumunu/a, agg. Di scarsa qualità. Custa est orrobba c. (quella è stoffa scadente). Modesto/a nelle pretese, soprattutto nell’alimentazione. Est c., papat de totu (nel mangiare non pretende nulla, quello che gli dài accetta). Il contr. di vitzïosu/a e di afitzïau/ada. Cun, prep. Con. Introduce numerosi complementi Compagnia: est andau a sa festa cun Severinu (è andato alla festa con Severino). Mezzo o strumento: nd’apu segau cussa mata cun-d-una seguri (ho tagliato quell’albero con una scure). Modo: chistïonat cun delicadesa (parla delicatamente). Paragone: no mi ddu podis pònniri cun Linu (non puoi mettermelo a confronto con Lino). Unione: papu casu agedu cun cibudda (mangio formaggio acido con cipolle). Introduce anche varie locuzioni avverbiali. Cun bellu modu, con buone maniere: Franciscu fait totu cun b. m. (Francesco fa tutto con buone maniere). Cun manu lèbïa, con mano leggera: su dentista trabbagliat cun m. l. (il dentista lavora 169 con mano lieve). Cun passièntzïa, pazientemente, con pazienza: sa vida mi dda pigu cun p. po non mi disisperai (affronto la vita con pazienza per non farmi vincere dalla disperazione). Cun prageri, con piacere: ddu andu cun p. meda (ci vado con molto piacere). Cun totu, benché, nonostante che: cun t. ca nemus dda cumprendit, Teresa sighit a fàiri beni (nonostante nessuno la capisca, Teresa continua a fare del bene). Cun totu su coru, con tutto il cuore: candu dd’eus pedìu una caridadi nos-i-dd’at fata cun t. s. c. (quando gli abbiamo chiesto un favore ce l’ha fatto con tutto il cuore). Cuncetu, s. m., Idea, concetto. De comenti at füeddau mi nd’apu formau unu c. legiu (da come ha parlato me ne son fatto un cattivo concetto). Cuncordai, v. Preparare, allestire, unire insieme. In senso ironico nelle espressioni giai ti ses cuncordau in bia (ti sei conciato per le feste) e giai ses cuncordu (sei proprio ben messo), quest’ultima riferita in particolare agli ubriachi. Cuncordamentu, s. m. Preparazione, allestimento. Cuncordau/ada, agg. Preparato/a. Ironicamente, l’agg. è usato nel gergo dell’eros nel senso di: 170 eccitato, pronto a fare l’amore. Cuncordu/a, agg. Sistemato/a a dovere. Per lo più in senso antifrastico. Cuncu, s. m. Appellativo affettuoso e di rispetto con cui la popolazione di Seui si rivolgeva ai vegliardi della comunità, gli ultraottuagenari. La notizia è in uno scritto di Demetrio Ballicu (Brevi saggi di indole varia, cit., pag. 12, nota): ”In paese fanciulli, adolescenti e giovani chiamavano l’uomo adulto e quello vecchio col nome anagrafico preceduto da un appellativo fisso che per il primo era tziu e cuncu per il secondo”. Per il corrispondente femm. vedi ddeddai. Cundenna, s. f. Condanna. Cundennai, v. Condannare, assegnare una pena. Dd’ant a c. a paricius annus de galera (lo condanneranno a diversi ani di carcere). Non ti cundennis s’ànima po una caduméntzïa (non condannarti l’anima per una sciocchezza). Cundennau/ada, agg. Condannato. Sia dalla giustizia terrena sia da quella divina. Cundetzïoni, s. f. Condizione, stato (anche economico). Cundimentu, s. m. Condimento. Cundiri, v. Condire, In senso fig. sistemare per le feste, maltrattare. PAOLO PILLONCA Cundìu/a, agg. Condito/a. Cunduta, s. f. Condotta, comportamento. Dd’ant iscapau innanti ’e su tempus po bona c. (l’hanno liberato anzitempo grazie alla sua buona condotta). Cunfàiri, v. Giovare, far bene. Custa mëigina non mi cunfait (questo farmaco non mi fa bene), in Casteddu est s’àiri chi non mi cunfait (a Cagliari è l’aria che non mi giova). Cunfessai, v. Confessare, fare la confessione al sacerdote, accostarsi al sacramento della penitenza. Nel senso più comune dell’it. confessare, vedi scovïai e averai. Cunfidéntzïa, s. f. Confidenza. Cunfinai, v. Confinare. Cunfinau/ada, agg. Confinato/a. Cunfinu, s. m. Confino di polizia. Cunfirmai, v. Cresimare. Cunfirmatzïoni, s. f. Cresima. Cunfirmau/ada, agg. Cresimato/a. Cunfitadura, s. f. Confettatura. Cunfitai, v. Confettare. Il v. definisce in genere le operazioni di conservazione di alcuni alimenti: olive, funghi, peperoni, sott’olio e aceto, ciliegie sotto spirito, etc. Cunfitau/ada, agg. Confettato/a. Cunfitura, s. f. Confettura. Cunfortai, v. Confortare, conso- Mancarìas. La parlata di Seui lare. Cunfortau/ada, agg. Confortato/a, consolato/a. Cunfortu, s. m. Conforto, consolazione. Cunfrarìa, s. f. Confraternita religiosa intitolata di norma a un santo, ma anche a Dio e alla Madonna. Questa istituzione è ancora presente nella parrocchia di Seui. Cunfraru, s. m. Confratello, membro di una confraternita religiosa. Cunfroma, prep. impr. e avv. Conformemente, secondo, in rapporto a. T’arrespundu c. a su chi mi naras (secondo quello che mi dici ti rispondo), c. a su santu sa festa (in rapporto al santo la festa). Cunfùndiri(si), v. Confondere. Non mi cunfundis (non riuscirai a confondermi). Usato anche al rifl. Linu s’est cunfùndïu e no nc’est arrennéscïu (Lino si è confuso e non ci è riuscito). Cunfùndïu/a, agg. Confuso/a. Cunfusïoni, s. f. Caos, confusione, diverbio. Cunfusïonosu/a, agg. Amante delle beghe, litigioso/a. Cungiadura, s. f. Chiusura. Cungiai, v. Chiudere. Desueto, oggi prevale serrai. Cungiali, s. m. Boccale in latta 171 di media dimensione, usato per bere acqua o vino. Usato anche il dim. cungialeddu. Cungiau, s. m. Appezzamento di terreno chiuso. Se il terreno è piccolo si chiama cungiadeddu. Cungiau/ada, agg. Chiuso/a. Cunnu, s. m. Vagina, fica. Frequenti le espressioni volgari su c. chi ti nd’at bogau (la vagina che ti ha fatto nascere) e su c. chi t’at coddau (la fica che ti ha concepito). Di una donna formosa e/o sensuale si dice bellu c. (bella fica), di una donna stupida c. tontu (fica cretina), di una ragazza poco brillante c. mortu (fica spenta). Vedi acunnai(si), detto di chi dipende troppo dalla propria donna e se ne fa comandare in tutto e per tutto. Cunsentimentu, s. m. Consenso, permesso. Cunsentiri, v. Permettere, acconsentire. Cunsentìu/a, agg. Concesso/a, permesso/a. Cuntentai, v. Accontentare, soddisfare nelle richieste. Cuntentau/ada, agg. Accontentato/a. Cuntentesa, s. f. Contentezza, gioia, piacere. Cuntentu, s. m. Soddisfazione, soddisfacimento di richieste. Ddi ’onat dónnia c. (gli dà tutte le sod- 172 disfazioni, lo accontenta in tutto). Cunvìnciri, v. Convincere. Cunvintu/a, agg. Convinto/a. Cupa, s. f. Braciere in rame. Cupas, s. m. Cuori. Gergale del gioco delle carte. Indica uno dei quattro semi del gioco stesso. Gli altri sono bastus, orus e spadas/ispadas. Cura, s. f. Terapia, rimedio, cura. Ada fut malàida e nemus dd’agatàt sa c. (Ada era malata e nessuno riusciva a trovarle la cura adatta). Curai, v. Guarire. S’est amaläidau ma est curendu (si è ammalato ma sta guarendo). Non è usato nel senso dell’it. curare. Curau/ada, agg. Guarito/a, ristabilito/a. Curïosidadi, s. f. Stranezza, curiosità, divertimento. Vedi crosidadi. Curïosu/a, agg. Divertente. Curpa, s. f. Colpa, causa. Po c. tua (per tua colpa), no est c. ’e nemus (non è colpa di nessuno). Vedi incurpai. Currespùndiri, v. Rispondere, dare risposte. Candu si ddu nau non mi currespundit nudda (quando glielo dico non mi risponde nulla). Currespustu/a, agg. Risposto/a. Curridori, s. e agg. Veloce, adatto alla corsa. Detto in particolare dei cavalli. Che unu cüaddu c. PAOLO PILLONCA (come un cavallo da corsa). Currimenta, s. f. Stagione degli amori animali. Cùrriri, v. Correre, rincorrere. Indica il movimento umano veloce (a piedi, a cavallo, o con mezzi meccanici) e quello degli animali. Nel gergo dei pastori segnala, insieme con il verbo portai, il periodo della monta. Ant incumentzau a c. is brebeis (è iniziata la monta delle pecore). In rif. alle persone indica il corteggiamento femminile. Cussa dd’at c. (quella lì l’ha rincorso senza tregua). Curtu/a, agg. Corso/a. Curtza, s. f. Corsa. Curtzu, s. m. Scarica diarroica. Usato quasi escl. al pl.: fut a curtzus (aveva scariche di diarrea). Curtzu/a, agg. Corto/a. Vedi incurtzai. Curva, s. f. Svolta, curva. Di superstrato. Curvai, v. Svoltare, curvare. Cuscïéntzïa, s. f. Coscienza, saggezza, solidarietà. Cussorgia, s. f. Zona omogenea di pascolo sufficiente a contenere un certo numero di greggi e branchi. Cussorgiali, s. m. Vicino di pascolo. Cussorgialis sono detti i pastori che hanno gli ovili a poca distanza gli uni dagli altri. Per la Mancarìas. La parlata di Seui legge non scritta della montagna, che nella sostanza è simile all’àgrafos nomos di Antigone, i cussorgialis sono tenuti ad un comportamento regolato da diritti-doveri reciproci e paritari: l’uguaglianza, l’aiuto nel lavoro e negli eventi sfavorevoli dell’esistenza, il rispetto assoluto del bestiame della cussorgia. Rubare ad un vicino di pascolo è considerata una delle ignominie peggiori e degrada l’autore del furto al rango di cani ’e stregiu. Cussu/a, pr. e agg. dim. Quello/a. Custringimentu, s. m. Costrizione. Custrìngiri, v. Costringere, mettere alle strette. Custrintu/a, agg. Costretto/a. Custu/a, pron. e agg. dim. Questo/a. 173 174 PAOLO PILLONCA D Dadu, s. m. Dado. Il s. indica sia il dado metallico sia quello alimentare. Dama, s. f. Gran signora. Prevalentemente in senso ir. Dama, s. f. Gioco con due contendenti che muovono le pedine su una scacchiera. Dannargiu, s. m. Distruttore. Danneficai, v. Danneggiare, provocare danni. Danneficau/ada, agg. Danneggiato/a. Danneficu, s. m. Danneggiamento. Dannu, s. m. Danno. Ma vale anche: sciagura, disgrazia, incidente grave. Dàrïu, n. pr. di pers. Dario. Quasi sempre al dim. Darïeddu. Data, s. f. Data, indicazione di giorno, mese e anno. Datzïau/ada, agg. Sottoposto/a a dazio. Datzïeri, s. m. Daziere, agente daziario. Figura scomparsa dopo la riforma tributaria, presente a Seui fino alla seconda metà del secolo scorso. Datzïu, s. m. Dazio. Frequente l’uso traslato: ti facu pagai su d. (te la farò pagare). Dàvala-dàvala, loc. avv. Con passo malfermo e ondeggiante. Ddeddai, s. f. Appellativo di rispetto e distinzione, attribuito fino agli inizi del secolo scorso alle donne ultraottuagenarie del paese. Ne riferisce il medico storico di Seui, Demetrio Ballicu, in Brevi saggi di indole varia (cit., pag. 12, testo e nota a pie’ di pagina). Per il corrisp. maschile, vedi cuncu. Ddeddu/a, s. e agg. Carissimo/a, piccolino/a. Appellativo affettuoso riservato ai bambini e agli innamorati. Usato anche al dim. ddeddeddu/a. Ddu/a, pron compl. Lo, la. No ddu facu (non lo faccio), si dda bit legia (se la vedrà brutta). Il pl. e ddus/ddas (li/le). Ddus apu connotus (li ho riconosciuti), ddas portu a càstïu (le sto controllando attentamente). De/di/’e/’i, prep. Di, da. Spesso con aferesi: soprattutto ’e ma anche ’i (davanti a vocale: ferimentu ’i ogu, Mancarìas. La parlata di Seui de prupa e di ossu). Introduce numerosi complementi. Specificazione: su fradi ’e Linu (il fratello di Lino). Argomento: eus chistïonau ’e cassa (abbiamo parlato di caccia). Partitivo: de totu cussa petza mi nd’at donau feti un’orrogu (di tutta quella carne me ne ha dato soltanto un pezzo). Denominazione: sa ’idda ’e Sëui (il paese di Seui). Origine e provenienza: fut de Gàiru e nd’est benìu ’e Casteddu (era di Gairo ed è arrivato qui da Cagliari). Paragone: est meda meglius de tui (è molto migliore di te). In più d’una loc. avv. Debbadas/’ebbadas (de badas), gratis, inutilmente, invano, casualmente: si dd’at donau ’e. (gliel’ha dato gratis), dd’at mortu su cüaddu, no est d. (gli ha ucciso il cavallo, non è un caso), si dd’apu nau ’e. (gliel’ho detto invano). Usata anche la variante indebbadas. De bell’e nou, daccapo: apu dépïu torrai a fàiri totu ’e bell’e nou (ho dovuto rifar tutto daccapo). De canta (de acanta), da vicino: de c. dd’apu póssïu biri meglius (da vicino l’ho potuto vedere meglio). Vedi de fundu. De coru, di cuore: ti ddu nau ’e c. (te lo dico di cuore). Inoltre, l’espr. si sviluppa su due fronti contrapposti: de bonu c. (di cuore tenero), per indicare persone sensibili e solidali) e de c. malu (di 175 cuore duro) per definire individui di indole opposta. De di ora, da molto tempo: fut de di o. in cussu manigiu (era da tempo in quella macchinazione). De fatu (pr. devatu), dopo, in seguito: cussu ddu bïeus de f. (di quello parleremo dopo). De foras, da fuori, dall’esterno: si bit de f. puru (si vede anche dall’esterno). De fundu, da vicino, dappresso: dd’apu castïau ’e f. (l’ho ossservato da vicino). De mancu, di meno, a meno: no ndi facas (pr. facar) de m. (non farne a meno), meglius (pron. megliur) de prus che de m. (meglio di più che di meno). De manu, di turno (gergale del gioco delle carte): non soi ’e manu (non tocca a me giocare). De manu grai, di mano pesante: su barbïeri fut de m. g. (il barbiere era di mano pesante). De meda, da molto, di molto: non fut de m. (non era passato molto tempo), apu faddìu e de m. puru (ho sbagliato e anche di molto). De mesu, di mezzo: nce dd’apu ’ogau ’e m. (l’ho tolto di mezzo) Dennantis (de innantis), un tempo: d. fut aici (un tempo era così). De pagu, da poco tempo: s’olia dd’apu mëigada ’e p. (gli ulivi li ho medicati poco tempo fa). De pala in coddu (pron. de pala ’n coddu), a scaricabarile: si ddu portant de p. in c. (si scaricano le 176 responsabilità a vicenda). De pressi, affrettatamente: sa cosa fata ’e p. no mi pragit meda (le cose affrettate non mi piacciono molto). De prusu, di più: no eus cuncordau in su prétzïu ca ndi ’oliat de p. (non abbiamo trovato l’accordo sul prezzo perché lui pretendeva più soldi). De strémpïu, sgarbatamente: cussu càdumu chistïonat de s. (quel cretino parla sgarbatamente). De sucunas, di colpo e senza annunciarsi: chi ti ndi ’engiu ’e s. tui mi timis (se ti compaio davanti all’improvviso tu ti spaventi). De susu, da sopra: de s. si bit prus craru (da sopra si vede meglio). De tesu, da lontano: dd’a castïau ’e t. (l’ha guardato da lontano). De tressu, di traverso: si costumat pònniri ’e t. (è solito mettersi di traverso). De ùbbitu, improvvisamente (riferito ad eventi irrimediabili): est mortu ’e ù. (è morto all’improvviso). De veras, veramente, sul serio: no est una brulla, ti dd’at nau ’e v. (non è uno scherzo, te l’ha detto sul serio). Sin. di aberu. Debbilesa, s. f. Debolezza. Anche in senso fig. Débbili, agg. Debole. Usato anche il dim. debileddu. Debbilitadura, s. f. Indebolimento. Vedi indebbilitadura. Debbilitai, v. Indebolire. Vedi indebbilitai. PAOLO PILLONCA Debbilitau/ada, agg. Indebolito/a. Vedi indebbilitau/ada. Decìdiri, v. Decidere, stabilire. Decìdïu/a, agg. Deciso/a, stabilito/a. Defetu, s. m. Difetto, deficienza, mancanza. Degennoi, agg. num. card. Diciannove. Anche dijannoi. Degesseti, agg. num. card. Diciassette. Degi, agg. num. card. Dieci. Degïotu, agg. num. card. Diciotto. Dègiri, v. Convenire, adattarsi, star bene. Custu ’estiri non ti degit (questo vestito non ti sta bene), a Maria ddi degit totu (a Maria sta bene tutto), a chistïonai meda non ddi degit (parlare troppo non gli si addice). Dégïu/a, agg. Adatto/a, confacente. Degogliai, v. Danneggiare, sconvolgere, devastare. Ddu degogliat totu (lo danneggia completamente). Degogliu, s. m. Sconvolgimento, danneggiamento, devastazione. Come il verbo da cui deriva, si riferisce a danni di ordine materiale. Su d. non riguarda la sfera dello spirito, neppure in senso metaforico. Dellecüenti, s. m. Canaglia, delinquente, malfattore. Mancarìas. La parlata di Seui Demai, v. Ridurre a malpartito mediante percosse o altri maltrattamenti. Si usa anche in rif. a uno stato fisico precario causato da una malattia. Demanïali, agg. Demaniale, di proprietà pubblica. Demànïu, s. m. Demanio. Nel linguaggio quotidiano indica l’intera estensione della foresta demaniale di Montarbu. Demau/ada, agg. Malridotto/a. Demogràticu/a, agg. Democristiano/a. Demogratzìa, s. f. Democrazia. Era sottinteso che ci si riferisse ai democristiani. Dénghi, s. m. Vizio, capriccio. Ti ddus facu passai ’eu is (pr. ir) denghis (te li faccio passare io i capricci). Vedi addengai. Dengosu/a, agg.Viziato/ a, coccolone/a. Dennùntzïa, s. f. Denuncia. Dennuntzïai, v. Denunciare. Dennuntzïau/ada, agg. Denunciato/a. Dentadura, s. f. Dentatura. Denti/’enti, s. f. Dente. Contr. all’it., in sardo è di gen. f. De is (pron. ir) dentis mias bona parti tenint abbisongiu ’e cura (gran parte dei miei denti ha bisogno di cura). Dentoni, s. e agg. Dai grandi denti. 177 Dépidi, s. m. Debito. Singolare l’uscita in i, vero e proprio municipalismo: gli altri centri della zona hanno tutti dépidu. Chi ha dei debiti è un indepidau. Vedi indepidai. Depidori, s. m. Debitore. Dèpiri, v. Essere in debito. No ddi depu nudda (non gli devo niente). Usato come v. servile. At a d. fàiri trabbagliu meda (dovrà fare molto lavoro). Dépïu/a, agg. Dovuto/a. Depósitu, s. m. Deposito. Senza ulteriori specificazioni è implicito che indichi il deposito dell’acquedotto. Deretu, s. m. Diritto. No ndi tenis d. (non ne hai diritto). Funge anche da agg. nel significato di dritto/a, rettilineo/a. Pigadì sa filada ’ereta (prendi la direzione dritta). Deretu, avv. Sùbito, senza indugi né deviazioni. Bai ’eretu (vai dritto senza indugi). Descridura, s. f. Descrizione. Descriri, v. Descrivere. Descritu/a, agg. Descritto/a. Destinai, v. Destinare, affidare, dedicare. Destinau/ada, agg. Fatato/a, destinato. Destinu/distinu, s. m. Sorte, destino. Nella seconda forma figura nei soprannomi. 178 Detènniri(si), v. Bloccare/bloccarsi. Il v. definisce gli stati di parziale immobilità di una persona in seguito a mialgie, dolori articolari, strappi, etc. Detentu/a, agg. Bloccato/a. Determinai, v. Decidere, determinare, stabilire. Non si scit e chini ddu determinat (non si sa chi lo decide). Determinau/ada, agg. Deciso/a, stabilito/a. Determìnu, s. m. Decisione, determinazione. Deu/’eu, pr. pers. Io. Deus, n. pr. Dio. Vivo in diverse invocazioni e negli auguri. Po mori ’e Deus siat (sia tutto per l’amore di Dio), po Deus (per Dio), Deus ti ddu paghit (Dio ti ricompensi), bai cun Deus (vai con Dio). Devatu/’evatu (de fatu), avv. Dopo, in seguito. Custu dd’eus a biri ’e. (questo lo vedremo dopo). Deventali, s. m. Grembiule. Quello del costume tradizionale f. è di pizzo nero. Dì, s. f. Giorno. Sempre di genere f. Una dì, cheleguna dì, bella dì (un giorno, qualche giorno, bella giornata), no istertzat sa dì cun su noti (non distingue il giorno dalla notte), detto di uno che non capisce nulla. L’avv. intedì PAOLO PILLONCA vale: a giorni alterni. Diàulu, s. m. Diavolo. Vedi tiàulu. Dibbatimentu, s. m. Processo, dibattimento. Diculadura, s. f. Infermità permanente. Diculai, v. Procurare un’infermità permanente. Il part. pass. sostantivato diculau/ada indica una persona sciancata o zoppa, dalla nascita o in seguito a grave infortunio. Diculau/ada, agg. Handicappato/a. Dijanoi, agg. num. card. Diciannove. Variante di degennoi. Dimigiana, s. f. Damigiana. Il s. definisce il contenitore in vetro rivestito di vimini o di materiale plastico destinato a conservare vino ma anche - quando è di dimensioni ridotte - olio. Dimónïu, s. f. Demonio. In senso lato, persona temibile per audacia o nevrilità. Dinareddu, s. m. Monetine, soldini. Dim. usato anche quando si vuole minimizzare la quantità di denaro posseduta. Tenia cosa ’e ’inareddu (avevo un po’ di denaro). Dinari/’inari, s. f. Denaro. Dindu, s. m. Tacchino. Dinnanteriseru, avv. Avantieri. Nella conversazione quotidiana, Mancarìas. La parlata di Seui quando poco prima si è usata la parola eriseru (ieri), la si abbrevia in dinnanti. At niau meda, eriseru e dinnanti (è nevicato molto, ieri e avantieri). Dinnanti, avv. Vedi dinnanteriseru. Dïonisi, n. pr. di pers. Dionigi. Disäogai(si), v. Svagare/svagarsi. Disäogau/ada, agg. Divertito/a, svagato/a. Disäogu, s. m. Svago, ricreazione, pausa di relax. Disatinu, s. m. Azione malfatta, monelleria. Cussu piciocheddu fait d. a donnïora (quel ragazzino combina continuamente sciocchezze). Discansai(si), v. Riposare, ricreare/ricrearsi. Discansau/ada, agg. Riposato/a. Discansosu/a, agg. Ricreativo/a, riposante. Discansu, s. m. Ricreazione, intervallo tra una fatica e l’altra. Discinimentu, s. m. Conclusione. Disciniri/disfiniri, v. Concludere. Discinìu/a, agg. Concluso/a. Discöidai, v. Trascurare, agire lentamente. Contr. di cöidai/cöitai. Discöidau/ada, agg. Trascurato/a, disattento/a, negligente. Discóidu, s. m. Trascuratezza, lentezza eccessiva, disattenzione. 179 Disconnoscimentu, s. m. Misconoscimento, ingratitudine. Disconnòsciri, v. Misconoscere, ignorare. Disconnotu/a, agg. Ignorato/a, misconosciuto/a, sconosciuto/a. Disconsolai(si), v. Sconfortare, sconfortarsi, andare in depressione. Disconsolau/ada, agg. Sconfortato/a, sconsolato/a, depresso/a. Disconsolu, s. m. Sconforto, depressione. Discreteddu/a, agg. Quasi sufficiente. Discretu/a, agg. Sufficiente, passabile. Dìsculu/a, s. e agg. Dìscolo, monello. Disfamïai/disciamïai, v. Calunniare, levare la buona fama. Soprattutto in rif. a donne falsamente accusate di rapporti amorosi illeciti. Disfamïau/ada, agg. Diffamato/a, calunniato/a. Disfàmïu/disciàmïu, s. m. Diffamazione, calunnia. Disfida, s. f. Sfida, agone, competizione, gara. Viva la loc. a d. (in competizione). Disfidai, v. Sfidare, competere, gareggiare. Disfidau/ada, agg. Sfidato/a. Disigliai, v. Desiderare, volere fortemente persone e/o cose. Soi 180 disigliendu castangia a orrostu (sto desiderando castagne arrosto). Disigliau/ada, agg. Desiderato/a. Disigliosu/a, agg. Desideroso/a. Disigliu, s. m. Desiderio. Freq. la loc. a d., a significare un evento atteso. Fui a d. de ti biri (ero desideroso di vederti). Voglia, macchia sulla pelle. Dd’at bessiu unu d. in petorras (glì è comparsa una voglia sul petto). Disisperài(si), v. Disperare, far disperare, disperarsi. Sa pobidda ddu disisperat (la moglie lo fa disperare). Disisperau/ada, agg. Disperato/a. Disisperu, s. m. Disperazione. Candu ddu pensu mi pigat a d. (quando ci penso mi viene la disperazione). Disonestadi, s. f. Disonestà, corruzione. Disonestu/a, agg. Disonesto/a, corrotto/a. Disonorai, v. Disonorare, levare l’onore. Disonorau/ada, agg. Disonorato/a. Disonori, s. m. Disonore. Disparidadi, s. f. Disparità, trattamento diseguale. Disparti (a), avv. Separatamente, a parte. Disprageri, s. m. Dispiacere, sofferenza, dolore. PAOLO PILLONCA Dispràgiri, v. Causare dispiacere, dare dolore. Dispràgïu/a, agg. Dispiaciuto/a, addolorato/a. Dispùta, s. f. Contesa, competizione. Dividiri, v. Dividere, discutere, spartire. Non tengiu nudda ’e d. cun tui (non ho nulla da discutere con te). Dividìu/a, agg. Diviso/a. Divinu, s. m. Indovino. Divisïoni, s. f. Divisione, ripartizione, spartizione. Doa, s. f. Doga. Ciascuna delle parti lignee che compongono una botte. In senso fig. è rif. alle persone nelle espressioni dd’at provau is (pr. ir) doas (lo ha messo a dura prova) e ti segu is (pr. ir) d. (ti rompo qualche osso). Dogi, agg. num. card. Dodici. Dóllaru, s. m. Dollaro. Usato in senso ir. e spesso antifrastico. Ndi tenit de dóllarus Armandu (Armando sì che è ricco). Pres. nei soprannomi. Dolori, s. m. Dolore, sofferenza, pena. Viva l’espr. consolatoria, che diventa talvolta ironica, cunfroma a su d. sa passïéntzïa (la pazienza della sopportazione è in rapporto al dolore). Dolorosu/a, agg. Doloroso/a. Dolu, s. m. Reumatismo. Portu Mancarìas. La parlata di Seui is (pr. ir) dolus.(soffro di reumatismi). D. fridu.(lett. dolore freddo) equivale a: mialgia, risentimento muscolare. Domadura, s. f. Doma, domatura. Domai/’omai, v. Domare, addomesticare. In-d-una pariga ’e mesis Giüanni podit d. sa purdedda (in un paio di mesi Giovanni potrà domare la puledra). Utilizzato anche in senso fig. Su tempus domat a totus (il tempo riduce tutti a più miti consigli). Domanda, s. f. Richiesta di matrimonio. Domanda. Domandai, v. Chiedere in sposa. Chiedere per sapere. Domandau/ada, agg. Chiesto/a, richiesto/a. Domau/ada, agg. Domato/a, ridotto/a a malpartito. Dominai, v. Spadroneggiare, dominare. Dominàrïu, s. m. Grosso caseggiato. Domìnigu/’omìnigu, s. m. Domenica. Di gen. m., a differenza dell’it. e di qualche altra variante della lingua sarda. Nella parlata di Seui solo due sono i nomi dei giorni della settimana femminili: giòbïa e cenarba (giovedì e venerdì). Domìnïu, s. m. Dominio. Domu/’omu, s. f. Casa di abita- 181 zione. In senso lato, talvolta indica la famiglia. Ninu at fatu ’o. ’ona (Nino si è fatto una bella famiglia). Usato anche il dim. domigedda. Donadori, s. e agg. Generoso, che dà (donat) volentieri di ciò che ha, dividendolo con gli altri. Cussu pipìu non parit d. (quel bambino non sembra generoso). Donai/’onai, v. Dare, offrire, regalare. Dd’at donau totu (gli ha dato tutto). Intuire, capire al volo, avvertire. A-i custas cosas Antoni non ci ’onat (queste cose Antonio non le intuisce). Dónnïa/’ónnïa, agg. Ogni, ciascuno, qualunque, qualsiasi. Custu mi parit unu ’estiri de ’ó. dì (questo mi sembra un abito di tutti i giorni). La loc. avv. a d. ora (molto spesso, lett. a qualunque ora) nella pronuncia si abbrevia in a donnïora. Donnìa (in), avv. Sempre, ogni volta. Nella loc. in d. per indicare una frequenza estremamente puntuale di determinate azioni. In d. chi ’enit m’indonat is pipìus (tutte le volte che viene fa dei regali ai miei bambini). Donnïassantu, s. m. Novembre, Ognissanti. Donosu/a, agg. Talentuoso/a, geniale, incline a qualcosa. Donu, s. m. Talento, dono natu- 182 rale. Tenit su d. ’e cantai (ha talento per cantare). Regalo rituale e/o d’obbligo. Bellus is (pron. ir) donus (i regali erano belli). Dòpïu/a, agg. Grosso/a, tracagnotto/a. Più raramente doppio/a. Dotrina, s. f. Catechismo. Chi no imparas sa d., su préidi at nau ca non ti cöiat (il prete ha detto che se non impari il catechismo non ti farà sposare). In senso lato, con lieve ironia: educazione, comportamento, buone maniere. Ti dda ’mparu eu sa d. (te la insegno io l’educazione). Drabbuladura/addrabbuladura, s. f. Caduta improvvisa e movimento repentino. Sin. di dràbbulu. Drabbulai/addrabbulai(si), v. Muovere q.sa e/o muoversi in modo rude e scomposto. Far cadere. Anche al rifl. Una canzoncina scherzosa in voga fino a qualche decennio fa, che rifaceva verosimilmente il verso a qualche allocco del paese, attaccava così: candu fui sposu ’eu totu is (pr. ir) montis s’addrabulànta (quando io ero fidanzato tutte le montagne ballavano scompostamente). Dràbbulu, s. m. Caduta repentina, a peso morto. Particolarmente vivo nella loc. a d. Dràllara, s. f. Pietruzza tondeggiante Al pl. (dràllaras) indica un PAOLO PILLONCA gioco infantile con utilizzo di minuscole pietre tondeggianti. Drìnghili, escl. Ecco qui. Frequente l’espr. e nosu d., quasi intraducibile alla lettera se non con una perifrasi del tipo: ti intestardisci ancora su questo punto, sembra una fissazione, adesso basta, etc. Drinnidura, s. f. Tintinnio, tintinnamento. Drinniri, v. Tintinnare. Anche in senso met. Drinnìu/a, agg. Tintinnato/a, fatto/a vibrare. Dromiri/’ormiri, v. Dormire. Apu ’ormiu pagu e nudda (ho dormito poco e nulla). Al rifl vale: addormentarsi. Non ti ’ormas (non addormentarti). Dromiu/a, agg. Addormentato/a. Düamila, agg. num. card. Duemila. Düasfacis/düasciacis, s. m. Voltagabbana, inaffidabile. Lett. due facce. Duda, s. f. Dubbio. Dudai, v. Dubitare. Dudosu/a, agg. Dubbioso/a, incredulo/a. Düellu, s. m. Disputa, litigio. In domu ’e Fulanu ddu at dónnïa dì d. (in casa di Fulano si litiga tutti i giorni). Dugentus, agg. num. card. Duecento. Mancarìas. La parlata di Seui Duncas, cong. Dunque, pertanto. Dura, s. f. Durata, resistenza. Durai, v. Vivere a lungo, essere longevo. As a biri cantu nci durat, cussu (vedrai quanto vivrà a lungo, quello). Durau/durada, agg. Vissuto/a fino a tarda età, sopravvissuto/a. Tzia Lüigina nc’est (pr. er) durada a centu e tres annus (la “zia” Luigina è vissuta fino a 103 anni). Durci, s. e agg. Dolce. Come s. indica i dolciumi. Custu d. si faìat po Pasca (questo dolce si preparava per la Pasqua), ir durcis de s’ïerru tenint unu sabori prus pragìbbili (i dolci invernali hanno un sapore più piacevole). Come agg. definisce la dolcezza di un alimento, liquido e/o solido. Durciura, s. f. Dolcezza. Anche in senso fig. Duru (a), avv. Tardi. Nella loc. avv. a d. Per l’it. duro/a l’agg. della parlata seuese è tostau/ada. Duruduru, s. m. Filastrocca a ballo. Dus, agg. num. card. Due. Tra i numerali, insieme con unu, ha la forma femminile autonoma. Unu cüaddu, una purdedda, dus crabus, duas crabas (un cavallo, una puledre, due caproni, due capre), mentre tutti gli altri hanno la stes- 183 sa forma sia per il maschile sia per il femminile. Inoltre, dus ha una sorta di plurale-duale esclusivo e neutro se si accompagna con parole come piglia (strato) nell’espr. a dua piglia (a doppio strato). Vedi piglia. Duzina, s. f. Dozzina. Ma spesso definisce una compagnia e il modo di stare insieme. No intrat mai in d. (non sa stare in compagnia). 184 PAOLO PILLONCA E Ebba, s. f. Cavalla. In genere definisce un soggetto di età superiore ai tre anni che abbia già partorito almeno un puledro. In senso fig. indica la donna disponibile ai rapporti amorosi, di facili costumi. Est un’e. (è una sgualdrina). L’espr. volgare sa crai ’e s’e. (lett. la chiave della cavalla) definisce l’organo sessuale del cavallo nei casi in cui si voglia dare una risposta negativa ad una richiesta ritenuta spropositata. Frequente anche il dim. ebbigedda. ’Eca/geca, s. f. Entrata, porticina. Echipagiadura, s. f. Fornitura sufficiente. Echipagiai/achipagiai, v. Fornire del necessario. Echipagiau/ada, agg. Ben fornito/a, equipaggiato/a. Ecu, avv. Ecco. Raddoppiato (ecu-ecu), figura nei soprannomi. Eda, s. f. Bietola (beta vulgaris). Edadi, s. f. Età. S’edadi fait gradu (l’età costituisce di per sé una superiorità sui più giovani). Edénticu/a, agg. Identico/a, uguale, preciso/a, somigliantissi- mo/a. Figlia tua est e. a tui (tua figlia è uguale a te). Educadori/a, s. e agg. Educatore/educatrice. Educai, v. Educare, allevare con regole precise un bambino. Educatzïoni, s. f. Educazione. Efitai, v. Affittare. Dare e prendere in affitto. Efitu, s. m. Affitto, pigione. Ei/ eia, avv. Sì. Eìli, s. m. Recinto per i capretti lattanti, che non seguono mai la madre al pascolo per non contaminare il latte del caglio. Elétricu, s. m. Elettricità, energia elettrica. Dd’est pigau s’e. (ha ricevuto una scarica di elettricità). Ellu, cong. Dunque, ebbene. ’Émida/gémida, s. f. Lamentazione, gemito. Praticamente scomparso nella parlata di tutti i giorni, il s. sopravvive in un toponimo (S’’émida) nei pressi di Sa funtana ’e su cróculu. Emigrai, v. Emigrare, abbandonare la propria terra. Emigratzïoni, s. f. Emigrazione. Questa parola ha segnato e segna Mancarìas. La parlata di Seui ancora di sé da decenni la condizione dei lavoratori precari del paese, costretti a partire in massa verso la penisola e - fino a qualche lustro fa - le miniere di Francia, Germania, Belgio e Inghilterra. Emigrau, s. m. Emigrato. ’Enna/genna, s. f. Porta. Erba, s. f. Erba (la pronuncia della seconda consonante è lenita, come in tutti i digrammi rb). Erba de Santa Maria, s. f. Elicriso (helichrysum italicum), altra essenza di sentore identitario, presente un po’ dovunque nella parte alta del territorio comunale, spesso a fianco del timo serpillo (armidda) e di altre erbe medicamentose. Erba saboni, s. f. Saponaria (saponaria officinalis o vulgaris). Già Ippocrate credeva che avesse il potere di ”richiamare le mestruazioni” (D. Ballicu, Miscellanea, cit., pag. 83). ’Erbegargiu/brebegargiu, s. m. Pastore di pecore. Vedi brebegargiu. ’Erbèi/brebèi, s. f. Pecora. Vedi brebèi. Eremigu, s. m. Diavolo. Il nemico per eccellenza. Eriseru, avv. Ieri. Definisce l’intera giornata, senza distinzione. Per distinguere occorre precisare: e. a mengianu (ieri mattina), e. a merì (ieri sera). 185 Errïargiu, s. m. Coltivazione che prende l’acqua da un fiume, orto nei pressi di un fiume. Vedi errìu. Erricai(si), v. Arricchire, arricchirsi. Sa martinica nd’erricat paricius in dónnïa tempus (il mercato nero ne arricchisce parecchi in ogni tempo). Erricau/ada, agg. Arricchito/a. Errichesa, s. f. Ricchezza. Erricu, s. m. Ricco, benestante. Usato anche come agg. Cussa est una famìlïa errica (quella è una famiglia benestante). Erriga, s. f. Riga, linea dritta. Indica anche la riga in certe pettinature. In senso fig. conoscenza, furbizia, intelligenza. Cussu ndi scit duas errigas (quello lì ne sa due righe, ossia: è persona esperta e furba). Errigali , s. m. Zona renale. Definisce quella parte negli animali. Avere s’e. crobetu (la zona del rene coperta di grasso) è uno dei primi segni di pinguedine e, nei capi allevati allo stato brado, indicatore di probabile buon sapore della carne. Errigau/ada, agg. Rigato/a. Errìgini, s. f. Zecca. Errigu, s. m. Rene. Per est. forza, nevrilità, potenza di slancio. Ndi portat di errigus (ne ha di forza). 186 Errili, s. m. Punto d’incontro delle acque piovane che formano un piccolo canale Errina, s. f. Trivella. Erriri, v. Ridere. Bai ca de mei non si nd’at a e. nemus (stai tranquillo, di me non riderà nessuno). Il part. pass. è errìsïu/a. Erriscioni, s.m. Riccio, porcospino. In senso fig. indica un individuo dal carattere difficile. Errissolu, s. m. Fiumiciattolo, ruscello. Errisu, s. m. Riso, risata. Frequente il dim. errisigeddu, in genere con una venatura di scherno e/o di disprezzo. Érrïu/a, agg. Privato/a del cucciolo. L’agg. è riferito al bestiame da latte, domestico e selvatico. Unu pegus é. (una bestia senza più cucciolo). La privazione può avvenire ad opera del pastore o di un animale predatore. Cussa craba est è. (quella capra non ha più il capretto), candu ddu at margianis a ingìriu as a biri paricias murvas érrïas (se ci sono volpi nei paraggi vedrai parecchie mufle senza più cuccioli). Vedi irderrïai. Errìu, s. m. Fiume. Indica i corsi d’acqua perenni. Nella parlata di Seui definisce tutti quelli non stagionali, eccetto il Flumendosa, detto frùmini per antonomasia. PAOLO PILLONCA Questo nella materialità del dire. Va da sé che il patrimonio di memorie costituito dai fiumi anche per i paesi di montagna corre su sentieri differenti e narra di albe gioiose e tramonti drammatici, di vittime e di eroi, di nebbie e luminosità incomparabili, di notti d’estate e albe di ghiaccio. È una delle parti più nascoste della storia del paese, con i suoi pescatori di frodo e quelli autorizzati, i pastori del territorio comunale al confine con Arzana nella parte alta e con Ulassai in quella inferiore. Inoltre c’è da dire che il diofiume costituisce un riferimento poetico di creatività inesausta. Chini, cussu candu chistïonat? Che un’e., mai sa pròpïa abba (Chi, quello lì quando parla? Come un fiume, mai la stessa acqua).Vedi errissolu, frùmini e tàcinu. Ertessu, s. m. Vitalba (clematis vitalba). Essa, s. f. Esse, ma non tanto per indicare la consonante s quanto la sua linea curva, soprattutto in rif. agli ubriachi. Arremundu andat a essas (Raimondo cammina disegnando delle s). ’Etai/betai, v. Vedi betai. Etotu, avv. Stesso. Ddu facu ’eu etotu (lo faccio io stesso). Ugualmente. Chene paga peruna, ma Mancarìas. La parlata di Seui dd’at fatu e. (senza alcuna ricompensa, ma l’ha fatto ugualmente). Spesso in compagnia di un altro avv. (äìci, così). No m’at invitau ma ddu andu ä. e. (non mi invitato ma io ci andrò ugualmente). Evigedda, n. pr. di pers. Eva. 187 188 PAOLO PILLONCA F Fâ, s. f. Fava. Anche nome collettivo: mi ndi depu ’oddiri sa f. (debbo raccogliere le fave). Fàbbrica, s. f. Fabbrica, industria. Fabbricai, v. Costruire. Fabbricau/ada, agg. Costruito/a. Fàbbricu, s. m. Costruzione, edificio. Faci, s. f. Faccia, viso. In senso fig. sfrontatezza. T’imbìdïu sa f. (invidio la tua sfrontatezza). F. ’e sola (lett. faccia di suola) è chi riesce a non farsi coinvolgere dalle contestazioni e insiste nel dire il falso. Faciarbu/a, agg. Dalla faccia chiara. Rif. al bestiame. Faciargiu/a, agg. Faccia di bronzo, inaffidabile, falso/a. Facìli, s.m. Maschera a visiera che si applicava all’asino al lavoro nei giri attorno alla macina del mulino domestico, per evitare che avesse giramenti di testa. Caminat a conca incrubada che unu molenti a f. (cammina a testa bassa come un asino con la maschera). Faci-mannu, s. m. Persona sfacciata. Faciola, s. f. Maschera del viso. Sost. dev. di afaciolai. Faciudu/a, agg. Insolente, sfacciato/a. Faddidura, s. f. Sbaglio. Faddina, s. f. Errore, sbaglio. Faddiri, v. Sbagliare, fallire. A bortas ddi ’essit finas e sirbonis mannus e si ddus faddit in donnìa (spesso gli passano davanti anche cinghiali grossi e lui li sbaglia ogni volta). Faddìu/a, agg. Sbagliato/a. Faddotada, s. f. Errore grossolano, cantonata, papera. Ndi fait de faddotadas, cuddu (ne prende di cantonate, quello). Faddotai, v. Commettere errori grossolani. Desueto come v., sopravvive molto bene nel dev. di cui sopra. Fadïadura, s. f. Affaticamento. Fadïai(si), v. Stancare/stancarsi. Fadïau/ada, agg. Stanco/a, prostrato/a. Fàdïu, s. m. Stanchezza, prostrazione. Fäidori, s. m. Uomo d’azione, operoso, diligente. Mancarìas. La parlata di Seui Fäina, s. f. Azione impegnativa, domestica e non. Isfäinau è uno che non ha nulla da fare e non ne cerca neppure. Fäincioni, s. m. Favino, usato soprattutto per l’alimentazione del bestiame. Fäineri/a, s. e agg. Amante del lavoro, laborioso/a. Fàiri, v. Fare, agire, operare. Mi parit de àiri fatu totu ma dónnïa ’orta cheleguna cosa t’abarrat de f. (mi sembra di aver fatto tutto ma ogni volta qualcosa ti rimane comunque da fare), candu si ddu-i ponit Franciscu is cosas ddas fait beni (quando ci si mette, Francesco le cose le fa bene). Combinare. Giai nd’at fatu, Antoni, candu fut piciocu: chi fut a ddu pagai imoi no iscìu e comenti iat a f. (ne ha combinato davvero, Antonio, quando era giovane: dovesse pagarlo adesso, non so proprio come farebbe). Anche nella parlata di Seui, questo verbo ricorre a vari modi di dire, soprattutto quando si parla di azioni concrete. F. a bonu, a malu (comportarsi bene, male) f. a isposu (fidanzarsi), f. ’e mancu (fare a meno), f. ’e totu (fare di tutto), f. ’e babbu (far da padre), etc. Vivere, con una forma impropria di accusativo dell’oggetto interno: at fatu una vida sacrificada (ha vissuto una vita di 189 sacrifici). Al rifl. il verbo vale: ritenersi, considerarsi, autostimarsi. Si fait ca scit e no iscit nudda (presume di sapere e non sa nulla). Viva l’espr. unu soi, seti mi fatzu (sono uno e mi ritengo sette), con la particolarità del verbo fatzu usato alla cagliaritana, anziché nella forma seuese facu, come se ci si stesse prendendo gioco degli abitanti del capoluogo. Fallimentu, s. m. Fallimento. Falliri, v. Fallire, dichiarare fallimento. Fallìu/a, agg. Fallito/a. Famigosu/a, agg. Affamato/a, morto di fame. Famìlïa, s. f. Famiglia. Familïari, s. m. Familiare, parente. Fàmini, s. m. Fame. Cando fui gióvunu in bidda nci fut su f. a segari a gorteddu (quand’ero ragazzo nel mio paese c’era la fame da tagliare con il coltello). F. finas a còiri no est f. malu (fame che dura fino alla cottura del cibo non è una fame temibile): lo dice un prov. ancora in auge. Fanceddu/a, s. e agg. Amante. Definisce una situazione illegale. Oggi è piuttosto desueto. Sa fancedda indica la concubina. Fanfarronai, v. Millantare credito. 190 Fanfarronada, s. f. Millanteria, gradassata. Fanfarronau/ada, agg. Millantato/a. Fanfarroni, s. m. Fanfarone, gradasso, millantatore, smargiasso. Fanfarronia, s. f. Smargiassata. Fantana/vantana, s. f. Finestra. Fànuga, s. f. Copriletto. Farci, s. f. Falce, l’attrezzo più importante della mietitura di una volta. Farci po messai è la falce messoria del grano. Presente nella toponomastica nel composto. Gisafarci. Farcinu/a, agg. A forma di falce. Fardassai, v. Rendere liscia una parete interna. Gerg. dei muratori. Fardassu, s. m. Frettazzo, attrezzo ligneo con manico utilizzato dai muratori per rendere lisce le pareti dei muri interni delle abitazioni. Fardugu/a, s. m. Inetto, incapace di far bene una qualsivoglia cosa. Est unu f. (è un inetto). Vedi managu/a. Fari-fari, s. m. Cenere calda. Sa patata est prus bona chi dda cois in su f.-f. (le patate sono più saporite se cotte arrosto nella cenere calda). Farigheddu, s. m. Nevischio. Presente nei soprannomi. Farinaglia, s. f. Insieme di briciole. Nome collettivo. In senso fig. indica persone di poco valore. PAOLO PILLONCA Farra, s. f. Farina. Anche met. No est f. ’e fàiri óstïas (non è farina per ostie). Farramenta, s. f. Ferramenta. Oggi indica, più alla larga, l’insieme degli attrezzi dei fabbri, ma anche dei muratori e degli operai in genere. Attrezzatura. In senso fig. e con venatura negativa: armamentario. Pinnigadindi sa f. (pòrtati via l’attrezzatura). Farranca, s. f. Artiglio. Per analogia maliziosa, mano. Desueto, a parte l’espr. chi mi intras in farrancas (se cadi nelle mie mani). I macarronis sciarrancaus/ sfarrancaus sono gli gnocchi di patate rigati a mano sulle pieghe interne o sul retro dei cestini di asfodelo. Vedi sciarrancai/sfarrancai. Farrutzosu/a, agg. Farinoso/a. Si dice soprattutto di certe mele e pere poco succose. Farta, s. f. Mancanza il cui effetto determina uno stato grave di necessità sostanziale. Mi fait f. (mi causa uno stato di necessità, ne ho grande bisogno). La loc. chene f. (senza indugio, con urgenza) indica l’obbligatorietà di un’azione. Fartai, v. Mancare. De passai igui non fartat (non mancherà di passare di là), nel senso di una previsione scontata. Mancarìas. La parlata di Seui Fartzu/a, agg. Falso/a. Le similitudini più comunemente usate per questo aggettivo sono principalmente due: f. che Giudas (falso come Giuda) e f. che dinari malu (falso come moneta scaduta). Vedi faciargiu/a. Fasolu, s. m. Fagiolo. Usato soprattutto come collettivo. Annada ’ona de f., ocannu (questa è una buona annata, per i fagioli). Fasolufâ, s. m. Fagiolo di dimensioni superiori alla media, vicine a quelle della fava. Lett. il s. significa, infatti, fagiolo-fava. Fassa, s. f. Carbonchio, pustola maligna. Malattia grave, un tempo mortale. Per un esauriente quadro sintomatologico e terapeutico, oltre che storico per i casi registrati a Seui, si può vedere la nota di Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pp.139-142). Fastigiai, v. Amoreggiare, flirtare. Antoni e Maria funt incumentzendu a f. (Antonio e Maria iniziano ad amoreggiare). Fastigiu, s. m. Amoreggiamento, flirt. Fatu, s. m. Fatto, evento. Fatu/a, agg. Fatto/a, compiuto/a. Part. pass. di fàiri. Faturai, v. Comprare cavalli. Faturanti, s. m. Compratore di cavalli. 191 Fàula, s. f. Bugia, menzogna. Pres. nei soprannomi con una definizione singolare, carru ’e fàulas (lett. carro di bugie). Fäulargiu/ a, agg. Bugiardo/a. Favoréssiri, v. Favorire, prediligere. Favoréssïu/a, agg. Favorito/a. Favori, s. m. Predilezione, favore. Usato prev. in loc avv. Fedali, agg. Coetaneo/a. Feddissa, s. f. Cenere con residuo di brace. Fedu, s. m. Feto. Detto in senso compassionevole di un ragazzo che si crede adulto. Est unu f., no ndi ’essit de f. (è un infante, non esce dalla condizione infantile). Fegi, s. f. Feccia. Prov. usatissimo: binu ’onu fin’a f. (il vino buono rimane tale fino alla feccia). Fegliudu/fogliudu, s. m. Velluto. Feli, s. m. Fiele, bile, rabbia. Tirasindeddu su f. a-i cussu figau (togli la bile a quel fegato). Rabbia. Mi ponit f. (mi fa venire la rabbia). Fémina, s. f. Donna, femmina. Riferito anche agli animali. Nel linguaggio comune seuese, in bocca ad un uomo sposato, l’espr. sa f. - senza ulteriore specificazione - corrisponde all’it. ”mia moglie”. Feminargiu, s. m. Donnaiolo, puttaniere. Vedi bagasseri. 192 Feminedda, s. f. Donnetta, donna anziana. Ma definisce anche l’uomo effeminato: Pìlimu est una f. (Priamo è una femminuccia). Femineri, s. m. Donnaiolo. Meno usato di feminargiu. Feminista, s. e agg. Femminista. Fenosu/a, agg. Ricco/a di fieno. Fenu, s. m. Fieno. Fenugheddu aresti, s. m. Finocchio selvatico. Fenugu, s. m. Finocchio (phoeniculum sativum). Indica l’ortaggio coltivato. In senso ir. omosessuale. Fera, s. f. Selvaggina. Pegus de f. indica l’animale selvatico in generale. Ferenai, v. Provocare rabbia e/o rancore. Mi ferenat (mi riempie di rancore). Ferenau/ada, agg. Rancoroso/a. Ferenu, s. m. Rabbia, rancore. Ferimentu, s. m. Colpo, ferita. Su f. ’i ogu è il colpo del malocchio. Per liberarsene senza conseguenze occorreva ricorrere alle parole proibite. Vedi abrebu. Ferradura, s. f. Ferratura, l’operazione del mettere i ferri agli zoccoli di animali, in rif. a cavalli, asini e buoi. Ferrai, v. Ferrare, mettere i ferri a buoi, cavalli e asini. Ma il v. significa anche: munire il bestiame di sonagli. PAOLO PILLONCA Ferramenta, s. f. L’insieme dell’attrezzatura ferrea di un artigiano. In senso lato, per lo più ironico, indica genericamente il complesso di attrezzi di q.no, quel che si suole indicare con la dicitura armi e bagagli. Pinnigadindi sa f. (porta via tutto, armi e bagagli). Ferrau/ferrada, agg. Ferrato/a, dotato/a di sonagli. Ferreri, s. m. Fabbro ferraio. In domu’e su f. schidonis (pron. schidonir) de linna (in casa del fabbro si usano spiedi di legno) è un prov. in auge. Fèrriri, v. Colpire, ma non necessariamente ferire. Dd’at iscutu e dd’at fertu a unu ’rassu (l’ha picchiato e l’ha colpito a un braccio). Il deverbale ferimentu introduce la definizione del malocchio. L’aggettivo fertu senza ulteriori specificazioni indica un individuo non del tutto normale dal punto di vista psichico. Per indicare il ferimento ci deve essere qualche dettaglio in più. Se lo si riferisce alle piante indica genericamente una malattia senza rimedio efficace: cussa mata est ferta (quell’albero è malato). Ferritu, s. m. Arnese da taglio del sarto e del calzolaio. Al plurale is ferritus indica le forbici di misura standard. Le forbicine si chia- Mancarìas. La parlata di Seui mano con il dim. di ferriteddus. Vedi aferritai. Ferru, s. m. Ferro. La genericità della definizione si articola poi a seconda della destinazione d’uso. Nel gergo dei pastori, ad es., su f. indica collettivamente i sonagli e i campanacci del bestiame, is ferrus de tùndiri sono le cesoie da tosatura. Nel gergo degli agricoltori, is ferrus de pudai definiscono le cesoie da potatura. Al diminutivo, ferrigeddu, indica l’attizzatoio. Al pl. (is ferrus) si usa per definire le manette delle forze dell’ordine. Sa giustìssïa dd’at postu is f. (le forse dell’ordine gli hanno messo le manette). Fertu/a, agg. Ferito/a, handicappato/a, malandato/a. Vedi fèrriri. Festa, s. f. Festa. Trascurando per un momento il Natale e la Pasqua, il s. indica innanzi tutto i giorni segnati dal calendario religioso paesano antico ma che nel tempo si è rinnovato notevolmente. Le feste seuesi più note sono, nell’ordine scandito dalla cadenza di ciascuna: Santu Cristolu (San Cristoforo, festa campestre: si celebra nel santuario plurisecolare omonimo sotto la foresta di Tacu, a circa mille metri di altitudine, la prima domenica di giugno), Santa Lugia (Santa Lucia, festa campestre: la si tiene in un santuario anch’esso plurisecola- 193 re che sorge nel mezzo di una fertile vallata posta quasi di fronte al paese la prima domenica di luglio), Nostra Segnora ’e su Carmu/Cramu (la Madonna del Carmelo, festa campestre, nell’omonimo santuario costruito ad Arcüerì, oltre novecento metri di altitudine, tra il 1919 e il 1920, il 16 e 17 luglio, date spostate di recente al fine-settimana più vicino a quelle canoniche), S’Assunta (la Vergina Assunta), di paese, a Ferragosto, Santa Maria Madalena (Santa Maria Maddalena, festa urbana, terza domenica di luglio), Santu Serbestianu (San Sebastiano, festa campestre, riportata in auge dopo un periodo buio da un folto gruppo di giovani volontari: la si celebra nell’omonimo santuario restaurato gratis dagli stessi ragazzi nella zona omonima, a poca distanza dalla miniera di Fundu ’e corongiu, l’ultima domenica d’agosto). Si celebrano poi altre feste religiose senza contorno di manifestazioni civili, come quella del patrono Sant’Or-rocu (San Rocco), Sant’Àrbara (Santa Barbara), etc. Festai, v. Festeggiare, far festa. Indica i festeggiamenti del calendario religioso e civile comunitario ma anche i festini ordinari relativi a diplomi, lauree, fidanza- 194 menti, matrimoni, pensionamenti, etc. Festaïolu/a, agg. Festaiolo, amante delle feste. Festau/ada, agg. Festeggiato/a. Feti, avv. Solamente, soltanto, appena. Tenia noranta ’erbeis e mi nd’at abarrau f. trinta (avevo novanta pecore e me ne sono rimaste appena trenta). Féurra, s. f. Ferula (ferula communis). Cuaddu ’e f. (arbusto di ferula): l’immagine del cavallo nasce dal fatto che dai gambi della ferula i bambini di un tempo si costruivano i loro cavallini immaginari. L’erbacea perenne delle ombrellifere ha sempre costituito e ancora rappresenta un serio pericolo per il bestiame di quasi tutto il territorio di Seui - segnatamente pecore e cavalli - che in certe stagioni dell’anno, come durante le prime piogge d’autunno, possono ammalarsi di ferulosi e anche morirne. Vedi afëurràisi e afëurrau. Fëurrargiu, s. m. Terreno invaso dalle ferule. Fïantza, s. f. Avallo, fideiussione, garanzia. Fichetu, s. m. Impiccione, ficcanaso, invadente. Usato anche come agg. Vedi fichìu. Fichidura, s. f. Intromissione, ingresso più o meno abusivo. Vivo PAOLO PILLONCA nella loc. avv. a f. (forzatamente, senza invito). Fichiri, v. Conficcare, intromettere, far penetrare. Nce dd’at fichìu s’arrasòïa in brenti (gli ha conficcato il coltello nella pancia). Anche nella forma rifl.: si nc’est fichìu in mesu (si è messo in mezzo). Fichìu/a, s. e agg. Ficcanaso, chi non sa farsi i fatti propri. Lina est una f. (Lina è una ficcanaso). Vedi fichetu. Fidai(si), v. Affidare. A Linu dd’ia a f. ’ónnïa cosa (a Lino affiderei qualunque cosa). Confidarsi. Franciscu cun mei si fidat (Francesco con me si confida) Anche al rifl. fidàisi (fidarsi). Fidau/ada, agg. Fidato/a, di fiducia. Fidi, s. f. Fede nella trascendenza. Non tenit f. (non crede in Dio). Confidenza, fiducia. No ddi tengiu f. (non ho fiducia in lui). Fidu, s. m. Credito, fido, garanzia. Nella loc. a f. vale: a credito. Figau, s. m. Fegato. In senso fig. coraggio. Nci ’olit f. (ci vuole coraggio). Figliau/ada, s. e agg. Con figli. Genitore/genitrice. Vedi afigliau/ ada. Figliora, s. f. Figlioccia, di battesimo e/o di cresima. Figlioru, s. m. Figlioccio, c. s. Mancarìas. La parlata di Seui Figliu/a, s. m. e f. Figlio/a. Figliu ’e ànima, s.m. Figlio adottivo. Figu, s. m. Fico (ficus carica), albero e frutto. Figu cràbina, s. f. Caprifico (caprificus), fico selvatico (lett. fico caprino, adatto alle capre). Vedi crabufigu e crabïoni. Figumorisca, s. f. Ficodindia, albero e frutto. Rarissimo nel territorio di Seui, per le temperature che non ne consentono fioritura e maturazione, esclusa la parte più bassa del salto comunale. Figumoru, s. m. Variante e sin. di figumorisca. Filada, s. f. Direzione che il pastore dà al bestiame quando lo riavvia al pascolo dopo la mungitura o il meriggiare. A is crabas ddis apu ’onau sa filada ’e Päùli (ho avviato le capre al pascolo nella direzione di Pauli). In senso fig. comportamento, strada, piega. Gisepu est pighendu una f. legia (Giuseppe sta prendendo una brutta strada). Filadura, s. f. Filatura. Filai, v. Filare. Rif. alla lana, al cotone, etc. Filau, s. m. Rete da pesca fluviale e lacustre. Filau/ada, agg. Filato/a. Filerìa, s. f. Selvaggina di terra e di aria. Collettivo. Depu castïai sa 195 ’ingia ca soi timendu po sa f. (debbo controllare la vigna, ho paura della selvaggina). Gergale venatorio dei vignaiuoli. Fìligi, s. m. Felce. Nell’uso degli ovili di Seui rimane una particolare confezione di formaggio: su casu in f., prodotto estivo di preparazione veloce e di ottimo sapore. L’operazione, subito dopo la cagliata del latte, prevede che il formaggio appena fatto venga raccolto e avvolto nelle felci, quindi legato strettamente in un panno, appeso e lasciato riposare per qualche ora prima dell’assaggio, una volta che ha perso il siero. Vedi soru. Filigiargiu, s. m. Terreno ricco di felci, particolarmente adatto registra l’esperienza contadina alla coltivazione delle patate. Filincu, s. m. Strofinaccio. Filomena, n. pr. di pers. Filomena. Un tempo molto usato nel paese come nome di battesimo. Filongiana, s. f. Filatrice. Desueto. Filu, s. m. Filo. Filuferru, s. m. Fil di ferro. Sotto metafora: acquavite. Filuferru spinosu, s. m. Fil di ferro provvisto di punte simili a spine. Filugghelmu, s. m. Lenza da pesca fluviale. 196 Filumena, s. f. Usignolo. Finantza, s. f. Finanza. Indica anche il corpo delle Guardie specifiche. Finantzïeri, s. m. Finanziere, agente della Finanza. Finas, avv. e cong. Fino. Finas a candu ap’a tènniri poderi ap’a abarrai in su monti (finché avrò forze rimarrò in campagna). Può assumere valore di cong. Anche. Andu finas e deu (andrò anch’io). Findeu, s. m. Spaghetto tradizionale finissimo e fatto in casa. In senso ir. viene rif. a chi a tavola non si bea di queste finezze: Nd’at a bòlliri dus de f. (ne vorrà due, di spaghetti, vale a dire: non si accontenterà di piccole porzioni). Fineri/a, agg. Longilineo/a. Finesa, s. f. Finezza, raffinatezza, intelligenza. Fini, agg. Fine, sottile. Unu cambu fini (un ramo sottile). Quando si vuole indicare una sottigliezza marcata si reitera l’agg.: fini-fini. Astuto, intelligente, perspicace. Est unu ’e menti f. (è uno di mente fine). Finiri, v. Finire, terminare, concludere. Ap’a f. custu trabbagliu in pagu tempus (finirò questo lavoro in poco tempo). Finiu/a, agg. Finito/a, terminato/a, concluso/a, provetto/a. Indi- PAOLO PILLONCA ca anche il buon risultato di una conclusione, soprattutto quando si parla di arti e mestieri. Imoi Efisïu est unu mäistu ’e linna f. (ormai Efisio è un provetto falegname). L’espr. mortu a f., ancora frequente nell’uso quotidiano, significa: morto per consunzione, consumato come una candela. Fìsicu, s. m. Fisico, corporatura. Di superstrato. Meno usato di carena. Fissadura, s. f. Fissazione. Usato anche in loc. avv. Fissai, v. Fissare, guardare a lungo negli occhi un’altra persona o indugiare con lo sguardo su qualsiasi cosa desti interesse. Al rifl. indica una mania: fatu-fatu si fissat ca nemus ddi ’olit beni (ogni tanto si autoconvince che nessuno gli vuol bene). Fissatzïoni, s. f. Paranoia, monomania. Fissau/ada, agg. Esaurito/a, monomaniaco/a. Fitïanu/a, agg. Frequente, comune. Usato come s. per definire i frequentatori abituali di un luogo. Fitzïosu/a, agg. Vizioso/a. Vedi vitzïosu. Fìtzïu, s. m. Vizio, difetto. Vedi vìtzïu. Foddi, s. m. Mantice della forgia. Ma anche ciascuno dei due Mancarìas. La parlata di Seui tasconi laterali della bisaccia. Apu postu sa bértula a su cüaddu e dd’apu carrigau tres angionis pe’ f. (ho sellato il cavallo e ho caricato tre agnelli per ogni sacca). Foddini, s. m. Fuliggine. Foddinosu/a, agg. Pieno/a di fuliggine. Vedi infoddinau. Foddoni, s. m. Grosso mantice. Desueto nell’uso di ogni giorno, sopravvive ancora come soprannome riferito a una persona corpulenta e dal passo malfermo. Fogali, s. m. Malattia dei maiali. Lo si usa anche come impr. nei confronti dei suini, come artana per i cani. Foghista, s. m. Fuochista. Gergale dei ferrovieri indicante l’aiuto macchinista. Ma anche, ironicamente: piromane, incendiario. Fogi, s. f. Pozzanghera, rimasuglio di acqua piovana. Fogili, s. m. Focolare. In senso ir. casa. Non movit de su f. (non esce di casa). Fogina, s. f. Fucina. In senso lato, luogo caldo, letto, riparo di animali selvatici come cinghiali e mufloni. Vedi scioginai/sfoginai. Foglia, s. f. Foglia. Indica anche, genericamente e in funzione di collettivo, l’unità del fogliame di qualsiasi pianta, erba e arbusto, oltre che degli ortaggi foliati. 197 Fogliu, s. m. Foglio. Fogori, s. m. Afa, caldo intenso, tanto da dare una sensazione di fuoco (fogu). Fogoroni, s. m. Fuoco rituale notturno di metà gennaio, strutturato di grossi tronchi, in onore di Sant’Antonio e San Sebastiano (is fogoronis). Ma si usa anche solo per indicare un fuoco di dimensioni superiori alla norma. Fogu, s. m. Fuoco. Definisce il fuoco domestico, innanzi tutto. No dd’ia connotu mai a dèpiri allùiri su f. in su mesi ’e mäiu (non mi era mai capitato di dover accendere il fuoco nel mese di maggio). Indica anche quello impiegato in certe operazioni dell’ovile come il riscaldamento del latte per la confezione del formaggio e della ricotta, oltre ad indicare l’accensione del fuoco per alcuni interventi agricoli come la debbiatura (vedi narbonai) e la bruciatura delle stoppie. Il rapporto con il fuoco è ritenuto estremamente delicato. Infine indica il fuoco degli incendi. Talvolta, anzi, questo s. diviene un vero e proprio sinonimo di incendio. At bessìu unu f. mannu (è scoppiato un vasto incendio). Il grande Demetrio Ballicu in uno dei suoi lavori (Tentativo sperimentale per impedire l’acescenza del vino, Cagliari, 1981, pag. 8) cita un 198 modo di dire diffuso a Seui: cosa passada in fogu a dda papai est unu giogu (non c’è pericolo nel mangiare un cibo passato nel fuoco). Usato nelle imprecazioni ellittiche prive di destinatario (f.) e in quelle a indirizzo specifico: su f. nce ddu papit (che il fuoco lo divori). Folacasu, s. m. Farfalla. Desueto. Usato al dim. come epiteto dei bambini di pochi mesi: folacaseddu (farfallina). Folài(si), v. Diventare secco. Detto dei vegetali e, in un traslato, della donna. Folau/ada, agg. Rinsecchito/a. Forada, s. f. Spazio privo di alberi in mezzo a un bosco o di lato a un luogo alberato. Quando è piccolo si usa il dim. foradedda. Foras, avv. Fuori, eccetto, all’infuori. Viva la loc. a foras. Forasdenosu, s. m. Diavolo (lett. l’entità fuori di noi). Si ddu est postu in mesu su f. (ci si è messo di mezzo il demonio). Forgia, s. f. Fucina. Forra, s. f. Fodera. Forrai, v. Foderare, mettere una fodera. Forrau/ada, agg. Foderato/a. Forredda, s. f. Focolare. Usato anche in senso ir. Forreddu, s. m. Fornello. Soprattutto al pl. in senso ir. Abar- PAOLO PILLONCA radì in is forreddus (férmati accanto ai fornelli). Forrogai, v. Frugare. E ita ses forroghendu? (che vai frugando?). Forrogheri/a, s. e agg. Frugone. Detto soprattutto dei bambini. Est unu f. (è uno che ama frugare). Forrogu, s. m. L’atto e l’effetto del frugare. In senso fig. indica una situazione di disordine. Forru, s. m. Forno. Indica sia il forno per il pane sia la fornace per la calce. Ma per quest’ultimo occorre precisare: unu f. ’e carcina (un forno di calce). Vedi carcina. Fortuna/furtuna, avv. Fortuna, buona sorte. Frequente nei giuramenti: äici sa f. ’olìa (così vorrei la fortuna), poi sempre più ellittica: äici bona f. (così la buona fortuna) e aici f. (così la fortuna).Vedi afortunau e malafortunau. Fortzadura, s. f. Forzatura. Fortzai, v. Forzare, insistere. Fortzaparis, escl. Insieme si è forti. Fortzau/ada, agg. Forzato/a, eceessivo/a. Fosilada, s. f. Fucilata. Fosiladura, s. f. Fucilazione. Fosilai, v. Fucilare. Fosilau/ada, agg. Giustiziato/a mediante fucilazione, fucilato/a. Fosili, s. m. Fucile. Se è piccolo si chiama fosileddu. Mancarìas. La parlata di Seui Fraca, s. f. Fiamma, quasi sinonimo di pampa. La differenza sta nel fatto che f. indica la fiamma già stabilizzata e non nel suo primo manifestarsi.Vedi afracai. Frachesa, s. f. Fiacchezza, infiacchimento, vampata di calore. La si usa soprattutto al plurale (is frachesas) per definire le vampate di cui soffrono le donne in menopausa. Fradi, s. m. Fratello. Fradili, s. m. Cugino primo. Vedi sorresta. Fragai, v. Emanare odore, puzzare. Fragat a bentu, la puzza arriva lontano (con il vento). In senso fig. cercare donne. Lo si utilizza anche per indicare un evento sospetto: custa chistïoni fragat (questa faccenda puzza). Fragellai(si), v. Abbigliare/abbigliarsi con cattivo gusto. Fragellau/ada, agg. Vestito/a in maniera eccessivamente stonata. Fragellu, s. m. Capo d’abbigliamento o ninnolo di cattivo gusto. Si ponit dònnia f. (si mette addosso qualunque porcheria). Fragosu/a, agg. Odoroso, ma anche puzzolente. In senso met. puttaniere. Pres. nei soprannomi. Fragu, s. m. Odore. Se si vuole 199 precisare di che tipo, occorre puntualizzare: f. malu è la puzza, f. ’onu o f. bellu il profumo. Vedi nuscu. Framuladura, s. f. Immobilizzazione, paralisi. Framulai, v. Far restare immobile. Framuladì igui (stai fermo lì). Framulau/ada, agg. Semiparalizzato/a. Ma l’agg. indica comunque una situazione momentanea o passeggera. Franciscu, n. pr. di persona. Francesco. Testimoniate anche le varianti Francischinu e Francischeddu. Francu/a, n. pr. di pers. Franco/a. Francu, s.m. Franco (moneta). La denominazione è rimasta anche con l’avvento della lira. In tutta la Sardegna per indicare la lira si usava questo s. Unu f., milli francus (una lira, mille lire). La mezza lira si chiamava petza (vedi), le cinque lire scudu. Francu, avv. Eccetto, ad eccezione di. F. su ’atiari (ad eccezione del battesimo), f. su Santüanni (eccetto il legame di comparatico). Talvolta in tono scherzoso: f. s’ossu, est totu petza (eccetto l’osso, è tutto carne), per rimarcare che non esiste nessuno senza difetti. Frandigai, v. Lusingare, blandire. 200 Frandigau/ada, agg. Blandito/a, lusingato/a, adulato/a. Fràndigu, s. m. Lusinga, blandizie, adulazione. Viva l’espr. a fràndigus (mediante blandizie). Franella, s. f. Maglietta a contatto della pelle, flanella. Frasca, s. f. Frasca, frascame, Frascu, s. m. Fiasco. Frassu, s. m. Frassino (fraxinus excelsior). Frastimai, v. Imprecare, bestemmiare, maledire. Frastimat a totus (maledice tutti). Frastimau/ada, agg. Maledetto/a. Frastimu, s. m. Imprecazione, bestemmia. Frenada, s. f. Frenata, rallentamento. Frenadori, s. m. Frenatore. Gergale dei ferrovieri. Quella del frenatore, nei convogli trainati dalle locomotive a vapore, era una figura prevista in ogni carrozza e vagone, in assenza di un sistema automatico di frenatura. Frenai, v. Frenare, rallentare. Anche in senso fig. Frenau/ada, agg. Frenato/a. Frénïa, s. f. Desiderio istintivo, sentire naturale, inclinazione, passione, estro. Viva nell’uso la loc. avv. de f. Chi no ddi ’enit de f. non fait mancu speru ’e Deus (se non lo PAOLO PILLONCA sente istintivamente non fa nulla di nulla). Frenu, s. m. Briglia del cavallo. Indica anche il freno delle auto, bici e moto. Vedi infrenai (imbrigliare, mettere la briglia al cavallo). Più in generale, limitazione. Chene f. perunu (senza alcun limite). Frïadura, s. f. Guidalesco. Frïai, v. Provocare un guidalesco, una piaga superficiale. Vivo il prov. su cüaddu frïau a sa sedda si saddit (il cavallo piagato sussulta nel vedere la sella). Frïargiu, s. m. Febbraio. Frïau/ada, agg. Piagato/a da guidalesco. In senso fig. scottato. Fridangiu/a, agg. Piuttosto freddo/a. Fridassu/a, agg. Freddino/a. Detto delle persone poco espansive. Fridu/a, agg. Freddo/a. Est fendu tempus f. (è una stagione fredda). La sim. più ricorrente è f. che nì (freddo come la neve). Viva la loc. a f. (a freddo). Vedi sfridai. Fridùmini, s. m. Freddezza. Fridura, s. f. Raffreddamento. Est unu dolu ’e f. (è un dolore da raffreddamento). Ha anche il senso dell’it. freddura. Acabbadda cun custas friduras (smettila con queste freddure). Fridurosu/a, agg. Freddoloso/a, Mancarìas. La parlata di Seui poco o punto resistente alle basse temperature. Frigadura, s. m. Massaggio. Sa pumada mi dd’apu fata a f. in petorras (la pomata me la sono spalmata sul petto). Fregatura, imbroglio. Frigai, v. Fregare, sfregare, massaggiare. Frigamentu, s. m. Sfregamento, massaggio. Frigatzïoni, s. f. Massaggio con impiego di medicamenti (pomate, unguenti, etc). Frigau/ada, agg. Massaggiato/a, imbrogliato/a. Frigidùmini, s. m. Tempo freddo. Frimada, s. f. Fermata: sosta obbligatoria o facoltativa di treni, bus e auto, pausa liberamente decisa da chi compie un determinato itinerario. In sa processïoni de sa festa ’e Su Cramu eus dépïu fàiri duas o tres frimadas (nella processione della festa del Carmelo abbiamo dovuto fare due o tre soste). Frimai, v. Fermare, interrompere, impedire, bloccare. Frimau/ada, agg. Fermato/a. Frimesa, s. f. Stabilità, fermezza, affidabilità. Nci ’olit f. (ci vuole affidabilità). Frimu/a, agg. Fermo/a, stabile, affidabile. Frincadura, s. f. Dedizione, meticolosità. 201 Frincàisi, v. Dedicarsi a q.sa con il massimo dell’impegno. Si ddu-i frincat (ci si impegna a fondo). Frincadiddoi (impégnatici). Frincau/ada, agg. Dédito/a. Friri, v. Friggere. In senso reale. Mi frïu dus ous e mi nci crocu (mi friggo due uova e me ne vado a letto). In senso fig. nell’espr. bai a ti fàiri f. (vai a farti friggere). Frischetu, s. m. Frescolino. Est fendu f. (il tempo si sta mettendo al fresco). Usato il doppio dim. frischeteddu. Frisciura, s. f. Coratella, frattaglia. Definisce le interiora degli animali e comprende il cuore, i polmoni, il fegato e la milza, escludendo le parti intestinali che vengono comprese in un altro nome collettivo: sa stentina. Vedi sfrisciurai/ isfrisciurai. Friscu/a. agg. Fresco/a. Friscura, s. f. Frescura, tempo fresco. Freq. la loc. a f. per indicare, nella stagione calda, un’ora di maggior refrigerio. Vedi infriscai. Friscurai, v. Prendere il fresco. Indica l’abitudine di stare di notte all’aperto, nei vari rioni, in piccoli gruppi fra una chiacchiera e l’altra. Fritïadura, s. f. Cattiva lievitazione. Viva la loc. avv. a fritïadura. Fritïai, v. Lievitare male, tanto da rendere il pane più duro e 202 amaro, dunque meno saporito. Fritïau/ada, agg. Mal lievitato/a. Fritu/a, agg. Fritto/a. Part. pass. di friri. Fritura, s. f. Frittura, cottura nell’olio d’oliva bollente.. Frius, s. m. Freddo. Frochigiadura, s. f. Abbellimento con fiocchi. Frochigiai, v. Abbellire, ornare con fiocchi. Frochigiau/ada, agg. Infiocchettato/a. Frocu, s. m. Fiocco. Froddoga, s. f. Pasticcio. A dd’as fata a f. (che pasticcio hai combinato). Froma, s. f. Forma. Detto del formaggio di pecora o capra da destinare alla stagionatura (casu ’e f.), per distinguerlo da altre tipologie (casu ’e fita, formaggio a fette da mettere in salamoia, destinato al condimento dei minestroni) e casu agedu, il formaggio a fette da mangiare nel giro di uno o due giorni, ossia di utilizzo quasi immediato). Fromentu, s. m. Lievito. Fromiga, s. f. Formica. Può fungere da collettivo: sa f. (le formiche). Met. indica una persona laboriosa e costante. Fromigargiu, s. m. Formicaio. In senso fig. indica un raggrupparsi eccessivo di folla. PAOLO PILLONCA Fromighedda, s. f. Schiera di formichine. Nome collettivo Froncili, s. m. Musale, cappio per asini. Si lega alla testa dell’animale in maniera da favorire agganci vari per il trasporto di oggetti. Di uno poco avveduto si suole dire: no andat mancu a dópïu f. (non va nemmeno se lo trascini a doppio cappio). Vedi afroncilai. Frongia, s. f. Fogliame e fronde, il rivestimento verde degli alberi. Vedi afrongiai. Frori, s. m. Fiore. In senso lato indica una persona di bell’aspetto. Ancora molto usate sia la similitudine bellu che f. (bello come un fiore, utilizzata però anche in senso antifrastico per indicare un persona brutta) sia la loc. chiaramente antifrastica giai ses a f. (sei proprio mal messo). Frorigiai, v. Adornare con fiori e altri ornamenti. Frorigiau/ada, agg. Adornato/a con fiori o altri addobbi supplementari. Frorigiu, s. m. Ornamento supplementare. Detto anche di certe particolari abilità dei suonatori di läuneddas, organetto e fisarmonica. Froriri, v. Ornare. Ma non l’it. fiorire, che nella parlata di Seui è invece infroriri, sempre. Cussu Mancarìas. La parlata di Seui pipìu ti frorit s’areu (quel bambino ti abbellisce il parentado). Frorìu/a, agg. A fiori, variamente ornato/a oppure colorato/a. Fruca, s. f. Forca. Raro. Vedi furca. Frucargia, s. f. Forcone a doppia punta. Vedi afrucargiai. Fruchita, s.f. Forchetta. Fruconi, s. m. Forcone. Viva nell’uso una singolare imprecazione che si dà in risposta a un interlocutore che abbia fatto una pausa dopo aver pronunciato una parola con desinenza in -oni. Per applicarle la rima efficace si dice ellitticamente: s’abba santa a f. (l’acqua benedetta con il forcone, sott. ti spruzzino). Frùmini, s. m. Fiume. Di norma indica il Flumendosa, il più rilevante della zona, che divide il territorio di Seui da quello di Arzana a nord-est. Per gli altri corsi d’acqua il s. che li indica è errìu . Vedi anche errissolu e tàcinu. Frundidura, s. f. Sfondamento. Frùndiri, v. Sfondare. Nc’eus frùndïu s’’enna (abbiamo sfondato la porta). Frùndïu/a, agg. Sfondato/a. Frungiri, v. Aggrinzire, corrugare, divenire rugoso. Frungìu/a, agg. Rugoso/a, increspato/a. Frùnzïa, s. f. Fionda. 203 Frusca, s. f. Foruncolo. Frequente il dim. fruschigedda. Frùscina, s. f. Fiocina. Frutu, s. m. Frutto. Non solo dell’albero, ma anche del bestiame da latte. Su f. di un gregge è la produzione annua in latte, agnelli o capretti da macello e capi adulti di scarto, senza più contare la lana che ormai da diversi decenni non ha mercato. Una delle forme di contratto più praticate in una sòccida di allevatori era, appunto, quella detta a ladus de f. Vedi sfrutüai. Frutüai, v. Dare frutto. Frutüau/ada, agg. Reso/a, fruttato/a. Fua, s. f. Fuga. La loc. a totu f. vale: correndo all’impazzata. Dev. di füiri. Fucia, escl. Che schifo. Spesso reiterata, per dare più forza all’espr. (fucia-fucia). Füeddai, v. Parlare, iniziare il discorso. Ginu at füeddau ’eni (Gino ha parlato bene). Vedi chistïonai, che però indica il parlare dialogico. Füeddàrïu, s. m. Dizionario, glossario, vocabolario. Lett. elenco di parole (füeddus). Füeddau/ada, agg. Parlato/a. Uno che governa la parola è benifüeddau, uno che non la domina e trascende nel parlare malifüeddau. 204 Füeddu, s. m. Parola. Molto usato la loc. a füeddus (a parole), vivi il prov. a füeddus locus origas surdas (davanti a parole senza senso le orecchie sono sorde) e l’espr. in pagus füeddus (in poche parole). Füeteddu, s. m. Frustino. Füetu, s. m. Frusta. Utensile campagnolo, per cavalli, vacche, maiali e bestiame più minuto. Füidura, s. f. Fuga. Vivo nella loc. avv. a f. (di fretta, come se si fuggisse). Füìri(si), v. Fuggire, dileguarsi. Chi bit arvolotu si fuit inderetura (se vede disordine scappa subito). Sfuggire. Candu fui certendu su pipìu mi nc’est füiu unu ciafu (mentre rimproveravo il bambino mi è sfuggito uno schiaffo). Dimenticare. Tenia idea ’e ndi chistïonai cun tui e candu t’apo ’idu m’est füiu su chi ti depia nai (avevo intenzione di parlarne con te ma quando ti ho visto mi è sfuggito ciò che ti avrei dovuto dire). Füis-füis, loc. avv. Di fretta, frettolosamente. Füìu/a, agg. Fuggito/a. Part. pass. di fuiri. Fulïadura, s. f. Eliminazione, rimasuglio da buttare via. La loc. avv. a f. vale: copiosamente, in tanta abbondanza da poter eliminare il superfluo. PAOLO PILLONCA Fulïai, v. Buttar via. Fulïanceddu cussu marroni (butta via quella zappa). In senso materiale e fig. Il v. si utilizza anche nel significato di colare, avere delle perdite di liquido da qualche parte in seguito a malattia. Mi fulïat un’origa (ho un orecchio che mi cola). Fulïau/ada, agg. Buttato/a, gettato/a via. Fumada, s. f. Fumata. Fumadori, s. m. Fumatore. Fumai, v. Fumare. Rif. al vizio del fumo, di sigaretta e/o di sigaro. Per l’emissione di altro tipo di fumo il v. usato è fumïai. Fumaïolu, s. m. Canna fumaria. Fumïada, s. f. Fumata. Fumïai, v. Emettere fumo. Fumu, s. m. Fumo. Anche in senso met. Non si nd’at bidu nin f. nin fragu (non se ne è saputo più nulla, lett. di lui non si è più visto fumo né sentito odore alcuno). Vivo il prov. anìa at fumu at fogu (dove c’è fumo c’è fuoco), per dire che soltanto di rado i sospetti risultano infondati. Nel gergo delle maledizioni ce n’è una particolarmente intensa: s’andada ’e su f. (che tu possa fare la partenza del fumo, ossia senza tornare mai più). Fundadori, s. m. Fondatore. Fundai, v. Porre le basi, fondare, Mancarìas. La parlata di Seui stabilizzare. Di uno che si è costituito una posizione economica solida si dice: est fundau (ha una ricchezza consistente). Fundamentu, s. m. Base, fondamento, consistenza, sostanza. Fundórïu, s. m. Fondamento sostanzioso e sostanziale. No est ómini ’e f. (non è un uomo di valore). Desueto. Fundu, s. m. Cespo. Unu f. ’e làtïa (un cespo di lattughe). Fundu, s. m. Valle, avvallamento. In su f. ’e Tónneri (nella valle del Tónneri). Fondo. Su fundu ’e sa carrada ’olit cambïau (il fondo della botte è da sostituire). Radice, origine. Candu s’inchïetat ndi segat sa mata ’e fundu (quando si adira taglia l’albero alla radice). Se preceduto dalla prep. a, dà luogo alla loc. avv. a f. (a poca distanza, vicino). Fungudu/a, agg. Profondo/a. Funi, s. f. Fune, corda. Vedi afunai. Il s. dà vita a diverse locuzioni avverbiali. Vedi la voce relativa alla prep. A. Funtana, s. f. Fonte, sorgente, fontana. Indica sia le numerose fonti del paese sia quelle - davvero difficili da elencare tutte - del territorio comunale, di Monti ’e susu e di Monti ’e ’ossu. Il nome delle sorgenti del centro abitato e din- 205 torni è quasi sempre preceduto dalla parola funtana (in un solo caso dal dim. funtanedda) e seguito da un compl. di den. F. ’e Nugi, F. ’e Foras, F. ’e Cocu, in due uscite a breve distanza l’una dall’altra, F.’e Coli-Coli, F.’e Scascia, F.’i Ossu, F.’e Màrgini, Funtanedda ’e Crèsia, Arcèli, Funtalanus, Sparciloi, Calonigassolu. Particolarmente apprezzate la sorgente di Coli Coli nel centro abitato e quelle di Bau ’e Lucheddu e Scirinulu nel territorio comunale. La parola f. ha una grande forza evocativa, per le occasioni di vita e di lavoro che richiama al cuore di ciascuno: per questo ha avuto e continua ad avere un vasto impiego nel linguaggio figurato, come avviene in tutte le lingue del mondo, soprattutto in quello delle làudi sacre e della poesia d’amore. Fura, s. f. Furto. La loc. a f. vale: di nascosto, furtivamente. Furadura, s. f. Ruberìa. Si usa nella loc. avv. a f. (come se si trattasse di un furto). Furai, v. Rubare, appropriarsi di cose altrui, bestiame, denaro o altro. Ma mentre il furto di bestiame è regolato da una serie di norme non scritte, gli altri tipi di furto sono considerati sempre e comunque riprovevoli. Bregungia 206 est a f. (rubare è una vergogna). L’abigeato, invece, a certe condizioni rigidamente contemplate nel codice orale della campagna, non è ritenuto un furto vero e proprio perché - come aveva acutamente rilevato negli Anni Sessanta il grande penalista nuorese Gonario Pinna - è insieme un recupero di perdite subite e un risarcimento anticipato di perdite temute. Ma le norme che lo regolamentano sono severe. La prima regola è quella di non rubare mai ad un compaesano o vicino di pascolo. Unu non s’imbrutat in domu sua (uno non si sporca nella propria casa), si diceva e si dice. Altre norme sono: superare sempre i confini del territorio del proprio Comune (sartai sa làcana), non toccare il bestiame di un allevatore povero e non esagerare comunque nella quantità di capi prelevati. Esistono, poi, i furti di bestiame compiuti per reazione a un cattivo comportamento altrui, anche del proprio paese, e qui praticamente non ci sono regole precise, se non quelle del buon senso, a meno che non si sia scossi dal livello del rancore accumulato. In tutti i casi, comunque, la regola non scritta raccomanda di non usare armi, di operare, come si dice nella parlata paesana e non PAOLO PILLONCA solo, a fura prana (lett. con un furto tranquillo). Furau/ada, agg. Rubato/a. Furca, s. f. Forca. Si usa in alcune imprecazioni: a palas de sa f. (lett. dietro la forca), bai in sa f. (vai sulla forca). Furcidda, s. f. Forcella, forcolo. Furciddai, v. Mettere forcelle. Furciddau/ada, agg. Con diverse forcelle. Detto di fronde e rami di albero che hanno diverse doppie diramazioni. Furcidura, s. f. Covata. Furciri, v. Covare. Detto della gallina e degli altri uccelli. In senso ir. indica uno stato di immobilità dovuto a pigrizia o a mancanza di iniziativa. Furcìu/a, agg. Covato/a. Furdighigliu, s. m. Segone intelaiato. Gergale dei falegnami. Furitu, s. m. Furetto. Molto usato in passato per scovare i conigli selvatici. Furoni, s. m. Ladro. Vedi furai. Furrïada, s. f. Curva a gomito. Furrïadorgiu, s. m. Piccolo agglomerato di case, luogo solitario e sperduto. Est unu f. (lett. luogo da cui tornare indietro). Furrïadura, s. f. Cambio improvviso. Furrïai, v. Girare, cambiare, retrocedere. Sa dì at furrïau totu Mancarìas. La parlata di Seui in-d-una, de soli a nì (la giornata è cambiata di colpo, dal sole alla neve). Fut andendu a su monti e at torrau a f. (era diretto all’ovile ed è tornato indietro). Dar di volta. Paris furrïau ’e ciorbeddu (sembri impazzito, lett. girato di testa). Furrïau/ada, agg. Girato/a, cambiato/a. Furrïotai, v. Fare giri tortuosi. Furrïotau/ada, agg. Rigirato/a confusamente. Furrïotu, s. m. Giravolta, andatura tortuosa. Ginu est sempir a furrïotus (Gino fa sempre giri strani). Furrïotu, s. m. Botticella. Fùrrïu, s. m. Giro, ritorno. Dev. di furrïai. Molto usata la loc. a f. (tutt’intorno). Furuncu/a, agg. Cleptomane, dedito/a al furto continuato. Vedi fura e furai. Fustanu, s. m. Fustagno. Fusteri, s. m. Legnaiolo, taglialegna. Fustèi/fusteti, s. m. e f. Lei, voi. Epiteto di rispetto tuttora in uso, anche se più raro che in passato. Fusti, s. m. Bacchetta, verga, bastone. Fustiga, s. f. Rametto sottile utilizzato in quantità per avviare il fuoco del caminetto. Usato anche come collettivo nel senso di minu- 207 taglia. Alluit su fogu a f. (accende il fuoco con la minutaglia). Fustigu, s. m. Fuscello, rametto piuttosto lungo, utile per rovistare in mezzo all’erba alta alla ricerca di funghi o di oggetti smarriti. Fustinaga, s. f. Insieme di fuscelli. Fusu, s. m. Fuso. Tuttora viva la filastrocca-indovinello infantile che dice: orrodedda conca ’e fusu,/ su ’e ’ossu o su ’e susu? (rotellina testa di fuso,/ quello di sotto o quello di sopra?) Fusu ’e prentza, s. m. Vite di torchio. 208 PAOLO PILLONCA G Gabbelleri, s. m. Daziere, esattore. Desueto. Gabbellotu, s. m. Tabaccaio, venditore di generi di monopolio. Figura nella canzone Eus agatai di Benigno Deplano in rif. a due donne che gestivano altrettanti tabacchini nel paese a metà degli anni Quaranta: Speranza Cosseddu e Amalia Aresu. Gabbina, s. f. Cabina. Gàddara, s. f. Galla di roverella o bacca di agrifoglio e ginepro usata a mo’ di pallina per un gioco infantile chiamato a gàddaras e a gaddareddas, a seconda della galla utilizzata. Vedi bacaredda. Ma il s. indica anche altre formazioni, in particolare un secondo tipo di galla irregolare vagamente simile a un gallo - chiamata anche caboni e molto ben descritta da Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pagg. 88-89). Gaddaredda, s. f. Gallozza di roverella o bacca di agrifoglio e ginepro, di volume ridotto rispetto alla gàddara. Gaddini/’addini, s. m. Pazzia, follia. Ti nde ddu ’ogu eu su ’a. ’e conca (te la tolgo io la follia dalla testa). Gaddinosu/’addinosu/a, agg. Pazzo/a, folle. Detto soprattutto delle pecore matte, ma anche delle persone. Est unu ’a. (è un folle). Gäici, avv. Così. Vedi äici. Gala, s. f. Pompa, vanità, narcisismo. Galantómini, s. m. Galantuomo. Galera, s. f. Carcere, galera. Galïotu, s. m. Galeotto. Galoseddu/a, agg. Piuttosto vanitoso/a. Galosu/a, agg. Vanitoso/a. Vedi gala. Pres. nei soprannomi, al m. Gamu, s. m. Camo, morso. Asticella di legno che si sistema trasversalmente in bocca ai capretti legandola da ambo i lati alle corna per iniziare a svezzarli. Gergale dei caprari. Gana, s. f. Voglia, desiderio. Con un ampio ventaglio di utilizzo. Tengiu g. ’e ’addai, andai a cüaddu, cantai, cùrriri, dromiri, papai (ho voglia di ballare, cavalcare, cantare, correre, dormire, mangiare). Mancarìas. La parlata di Seui Ganamala, s. f. Nausea. Su fragu ’e su puddargiu mi pigat a g. (il puzzo del pollaio mi fa venire la nausea). Ganciu, s. m. Gancio. Vedi canciu. Ganga, s. f. Gola. Usato quasi escl. al plurale (gangas). Gangrena, s. f. Cancrena. Garagi, s. m. Garage. Garantiri, v. Garantire, dare garanzie. Garantiu/a, agg. Garantito/a, assicurato/a. Garza, s. f. Garza, fasciatura. A su strupìu mi ddi pongiu una g. (metto una fasciatura alla ferita) Gasu, s. m. Gas. Gatamarrudda, s. m. Gatta in calore. Esiste anche al maschile, gatumurruddu. Gatóu, s. m. Gateâu, dolce di mandorle. Gatu/’atu, s. m. Gatto. Vedi macitu. Gatu aresti, s. m. Gatto selvatico (felis sylvestris). Gäurru, s. m. Arpione. In senso fig. mascalzone, nullafacente che vive di espedienti. Gava, s. f. Cava. Gazosa, s. f. Gassosa. Gazoseri, s. m. Produttore di gassose. Gazoseria, s. f. Industria che 209 produce gassose, attività che nel paese risale a oltre mezzo secolo fa. Gea, s. f. Pianura incassata. Desueto. Pres nel top. Sa g. ’e su fossu, nella foresta di Montarbu, sopra Sa Muragessa, tra Margiani Pubusa e il Tónneri. Geca/’eca, s. f. Ingresso, entrata. Geladina/’eladina, s. f. Gelatina. Nella parlata di Seui indica la preparazione dei piedini di agnelli, capretti e porcetti messi a bollire a lungo fino a farli scuocere. Una volta ridotti quasi in poltiglia, si eliminano le parti ossee e si condisce il tutto con noci sminuzzate e pepe. Una volta era il piatto tipico delle feste di Capodanno e dell’Epifania, oggi lo si prepara senza calendarizzarlo, ma si tratta pur sempre di un piatto invernale. Gelai, v. Provare gelosia. Desueto. Gelau, s. m. Gelato. Gelosia, s. f. Invidia, gelosia. Gelosu/a, agg. Invidioso/a, geloso/a. Gemellu/a, s. e agg. Gemello/a. Genïosu/a, agg. Simpatico/a, affascinante, carismatico/a. Génïu, s. m. Simpatia naturale, carisma, fascino. Non tenit g. (non ha carisma). Genna/’enna, s. f. Porta. Desueto nel parlare quotidiano ma 210 intangibile nei toponimi: G. ’e mori, G. ’e màndara, G. ’e solagi, G. ’e susèi, G. Ìsili, G. lìmpia, etc. Gennargiu, s. m. Gennaio. Génneru/’énneru, s. m. Genero. Genti, s. f. Gente, folla. Ddu iat g. meda (c’era molta gente), sa g. fait sa festa (la g. fa la festa), in apparente contradd. con un prov. diffusissimo: pagu g., bona festa (poca gente, buona festa). Voce popolare. Ddu narat sa g. (lo dice la voce popolare). Razza, stirpe, parentado, famiglia. Lüisu fut de g. ’ona (Luigi era di buona famiglia). Gentigedda, s. f. Gente di poco conto, parentado scadente. Gentiglia/’entiglia, s. f. Lenticchia. Anche collettivo. Gentimala, s. f. Gentaglia. Genughera, s. f. Ginocchiera. Genugu/’enugu, s. m. Ginocchio. Gerda/’erda, s. f. Residuo carnoso del lardo di maiale già utilizzato per ottenerne lo strutto, con cui si prepara una focaccia detta pani ’i ’erda. Germanitu/’ermanitu, s. m. Cugino di terzo grado. Germanu/’ermanu, s. m. Cugino di secondo grado. Germendadi, s. f. Compagnia, confraternita, cricca. Anche in senso ir. PAOLO PILLONCA Gespargiu/’espargiu, s. m. Nido di vespe, vespaio. Gespi/’espi, s. m. Vespa.In senso fig. è detto di persona insopportabile. Äici imparas a isciustigai is (pron. ir) gespis (così impari a infastidire le vespe). Getu/’etu, s. m. Modo di fare, maniera. A su ’e. paris ingiogassau (dal tuo modo di fare sembri desideroso di giocare). Gevi, agg. Tenero/a. Indeclinabile, conserva la stessa forma anche al f. Ghenga, s. f. Compagnia di amici amanti del divertimento o delle birichinate. Bella g. seis (siete proprio una bella comitiva), in senso antifrastico. Gherra, s. f. Guerra, evento bellico, conflitto tra Stati. Lotta quotidiana. Seus sempir in g. cun su tempus (siamo sempre in lotta contro il tempo). Gherradori, s. m. Combattente. Funge anche da agg. per indicare persona ostinata e difficile da sottomettere, che non si arrende ai soprusi e alle ingiustizie. Gherrai, v. Combattere. Nel linguaggio quotidiano, indica soprattutto la diuturna lotta per una vita dignitosa. Anche nelle formule di saluto, alla domanda iniziale di rito (coment’istas?, come stai?) si Mancarìas. La parlata di Seui risponde frequentemente con il gerundio di questo verbo: gherrendu. Gherrau/ada, agg. Combattuto/a. Gherrïeri, s. m. Guerriero, combattente, lottatore. Ghetau, s. m. Grossa catena in argento. Ghia, s. f. Guida. Nel gergo dei pastori, su mascu ’e g. è l’ariete capobranco, quello che guida il gregge al pascolo. Ghïadori, s. m. Conduttore, guida. Quasi sinonimo di ghïa. Ghïai, v. Guidare, fare da battistrada. Anche in riferimento a una guida spirituale. Ghilisoni, s. m. Bacca di corbezzolo, corbezzola. Vedi lïoni. Ghìndulu, s. m. Arcolaio. Gergale delle tessitrici. Ghisciu, s. m. Gesso. Vedi inghisciu e inghisciau. Giai, avv. Sì, già. Se reiterato (giai-giai) vale: quasi quasi, lì per lì. Giana/jana, s. f. Fata, maga (buona, in genere). Personaggio favoloso dei racconti popolari per bambini. La domus de janas (lett. casa delle fate) in realtà è un tipo di monumento sepolcrale preistorico. Giancheta, s. f. Giacca. Giarra, s. f. Ghiaia. Giarretu, s. m. Zerro. 211 Giassu, s. m. Posto, sito, punto di una località, varco difficoltoso. Giganti, s. m. Gigante. Pres. nei soprannomi. Gióbïa, s. f. Giovedì. Si usa di freq. nell’espr. giai funti duas (pron. duar) gióbïas (ne è trascorso di tempo), quasi che il fluire degli anni venisse misurato solo sui giovedì, e nella variante no at éssiri po custas (pron. custar) gióbïas (non sarà in tempi brevi). Giogadorgiu, s. m. Luogo in cui si gioca. Presente nel top. Su g. de ’r murvas (il terreno di gioco delle mufle), nella foresta di Montarbu. Giogadori, s. m. Giocatore. Definizione generica che si applica a qualunque tipo di gioco: calcio, carte, morra, etc. Giogai, v. Giocare. No est ora ’e g. (non è ora di giocare). Capitare, al di là delle intenzioni di chi ci si ritrova: giai mi giogas in ungas (mi capiterai a tiro). Al rifl. significa anche: uccidere. Si ddu giogat su mali chi portat (lo ucciderà la malattia di cui soffre). Come segai, anche questo v. riacquista quella che forse era la sua forma più antica (giogari) dell’infinito pres. nell’espr. giogari a cartas. Giogau/ada, agg. Giocato/a. Sa partida dd’apu g. äici äici ma meritïaus de bìnciri (la partita l’ho gio- 212 cata così così, ma meritavamo di vincere). Gioghitai, v. Giocherellare. Gioghitu, s. m. Giochetto, divertimento leggero. Giogu, s. m. Gioco, divertimento. Indicazione generica. Per quelle specifiche occorre aggiungere i particolari. Viva la loc. pigai a giogu (prenderla alla leggera). Giogulanu/a, s. e agg. Amante del gioco, giocoso/a. Vedi ingiogassau. Giorronada/giornada, s. f. Giornata lavorativa retribuita. Est andendu a g. (lavoro a giornate). Giossu, avv. Giù. Andaus a g. (andiamo giù). In fonetica sintattica, a seconda della vocale che lo precede, perde la cons. iniziale e la vocale successiva. Fui in Monti ’i ’ossu (ero sul monte della parte bassa del territorio), andu bi’ ’iossu (vado verso giù). Gioventudi, s. f. Giovinezza, gioventù. Gióvunu, s. m. Giovane, ragazzo. Meno usato di piciocu. Freq. il dim. giovuneddu. Giponi, s. m. Giacchetta del costume femminile tradizionale. Di raso nero, decorato a fiori viola. Girabbarchinu, s. m. Trapano. Girai, v. Girare, vagare. Indica anche il mutare improvviso e inat- PAOLO PILLONCA teso di un modo di pensare e/o di un atteggiamento concreto. Fut de acòrdïu cun mei e defatu at girau totu in-d-una (era d’accordo con me, poi ha cambiato idea all’improvviso). Giramentu, s. m. Giramento, giro. G. ’e conca è il capogiro. Giramundu, s. m. Vagabondo. Giranteri, s. m. Ambulante, vagabondo. Desueto. Girau/ada, agg. Girato/a, rivoltato/a, mutato/a in peggio. Gironi, n. pr. di pers. Girolamo. Questo n. non figura nell’anagrafe comunale ma è registrato in un toponimo (Santu Gironi), al confine con il territorio di Ussassai, paese che in quella zona possiede un santuario campestre dedicato a questo illustre scrittore della tarda latinità e padre della Chiesa. Girou, s. m. Girò, vitigno locale. Giru, s. m. Giro, escursione. Giscu/aiscu, s. m. Fiscella, recipiente di legno, alluminio o plastica per il formaggio fresco che deve ancora essere liberato dal siero. Gisepu, n. pr. di pers. Giuseppe. Molto usati i diminutivi Pepinu e Pepineddu. Giû, s. m. Coppia di buoi da aggiogare al carro. Prov.: pobidda e giûs in logus tûs (moglie e buoi nei luoghi tuoi). Mancarìas. La parlata di Seui Giua, s. f. Criniera. Giüai, v. Giovare, aiutare, far bene. S’armidda mi giuat po su tussi (il timo serpillo mi giova contro la tosse), cuddu trabbaglieddu ddi giuat (quel lavoretto lo aiuta). Giüali, s. m. Giogo, l’attrezzo ligneo che tiene insieme i buoi da traino. Indica anche il solco dell’orto e/o della vigna. Giüali, s. m. Filare della vigna. Giüalis, s. m. Segno identificativo del bestiame da allevamento. Il nome deriva dal fatto che si tratta di un segno curvo come una mezzaluna su un orecchio dell’animale da marchiare: somiglia al giogo dei buoi (giüali) nei punti in cui si attacca alle corna degli animali da traino. Giüanni, n. pr. di persona. Giovanni. Giüannicu, n. pr. di persona. Variante di Giuanni. Il dim. è Giüannicheddu. Giubba, s. f. Giacca, giubba. Giubbilai, v. Mandare in pensione. Giubbilau/ada, agg. Pensionato/a. Giudas, s. m. Giuda. Usato come nome comune ad indicare i traditori. Giudeu, s. m. Giudeo. Usato soprattutto al pl. Indica i perso- 213 naggi che nella sacra rappresentazione del Venerdì Santo (Su Scravamentu, la deposizione del Cristo dalla croce) interpretano il ruolo dei giudei. Pres. nei soprannomi come compl. di spec. preceduto dal s. conca. Giugi, s. m. Giudice. Giumpadori, s. m. Saltatore. Giumpai, v. Saltare, guadare. Ninu giumpat s’errìu che nudda (Nino guada il fiume come se niente fosse). Frequentemente in senso fig. Giumpau/ada, agg. Saltato/a, guadato/a. Giunchigliu, s. m. Catenina utilizzata per unire i bordi di un copricapo femminile o di un mantello del costume tradizionale. Giuncu, s. m. Giunco. Giungidura, s. f. Accoppiamento. Giùngiri, v. Aggiogare, accoppiare. Comenti giungit su giû Antoni est unu spantu a ddu biri (come aggioga i buoi Antonio è una meraviglia a vedersi). Giunta/’unta, s. f. Manciata. Giuntigedda/’untigedda, s. f. Manciatina. Giuntu/a, agg. Aggiogato/a, accoppiato/a. Giura, s. f. Giuramento, verifica interna alla comunità che vuole 214 sincerarsi di un buon comportamento. Dd’at postu a g. (l’ha sottoposto a giuramento). Giurai, v. Giurare. Il giuramento poteva anche essere ritualizzato in modo complesso tanto da costringere chi ci si sottoponeva a riflettere bene prima di giurare il falso. Le narrazioni popolari sulla fine degli spergiuri facevano il resto. Il rifiuto di sottoporsi alle formule più complesse del giuramento non era ritenuto, di per sé, ammissione implicita di colpevolezza. Giuramentu, s. m. Giuramento, quello che si presta davanti al giudice dello Stato. Giurau/ada, agg. Giurato/a. Giustìssïa, s. f. Giustizia, tutto l’apparato poliziesco e giudiziario dello Stato, dai carabinieri alla polizia, dalla guardia di finanza alla magistratura (ma per i carabinieri esiste nella parlata di Seui uno spazio autonomo, quasi confidenziale, che li colloca in una posizione differenziata rispetto agli altri, forse per quella annosa condivisione di continuità quotidiana che gli uomini dell’Arma hanno vissuto con la popolazione in anni difficili). Vedi Arma. Ancora molto usate le imprecazioni sa g. ti curgiat (la giustizia ti persegua), sa g. ti pregonit (la g. ti ban- PAOLO PILLONCA disca), sa g. t’isparit (la g. ti spari addosso) e sa g. ti ’ociat (la g. ti ammazzi). Giustissïeri, s. m. Giustiziere, persona prepotente e vendicativa. Giustu, s. m. Giusto, misura di giustizia. Tuttora vivissima nell’uso l’espr. su g. po totus (il giusto per tutti). Giustu/a, agg. Esatto/a, giusto/a. Gobba, a. f. Gobba. Gobbetu/a, agg. Gobbetto/a. Nella lingua quotidiana l’agg. non è utilizzato ma figura nei nomignoli al maschile. Gobbigeddu/a, agg. Piuttosto curvo/a. Gobbosu/a, agg. Gibboso, a forma di dosso. Detto di persone e cose. Gobbu/a, agg. Gobbo/a, curvo/a. Gociu, s. m. Làude sacra. Usato quasi escl. al pl. - gocius - per indicare i canti sacri in versi ottonari per le celebrazioni di Dio, della Madonna, dei Santi. Nell’archivio parrocchiale di Seui esiste una serie di gocius sui Santi venerati nel paese, anche quelli attualmente meno festeggiati. Godangiai, v. Guadagnare. Godangiu, s. m. Guadagno. Godimentu, s. m. Godimento, gioia. Mancarìas. La parlata di Seui Godiri, v. Godere. S’est amaläidau candu fut in su meglius de g. (si è ammalato proprio quando era nel tempo migliore per gustare le gioie dell’esistenza). Al rifl. vale: assaporare, godersi, etc. Non s’est godìu ’e nudda (non ha goduto di nulla). Nel gergo dell’eros significa raggiungere l’orgasmo. Godìu/a, agg. Goduto/a. Göici, avv. Così. Vedi äici. Golopu, s. m. Vitigno locale. Gomari, s. f. Comare. Gomiri, v. Mangiare smodatamente, divorare. Ndi gomit de cosa, cussu (ne mangia di roba, quello), non si scit ania si nci ponit totu su chi gomit (non so dove mette tutto ciò che divora). Spagnolismo. Gopari, s. m. Compare. Il comparatico a Seui si divide in due specie: de froris (legame che si istituiva in occasione di alcune feste di primavera, senza bambini da battezzare o da cresimare) e de Santu Giüanni (che comporta, invece, un rapporto più serio e meglio regolato, oltre che consacrato da uno dei due Sacramenti). Gorteddu/’orteddu, s.m. Coltello da cucina. Gorteddeddu, s. m. Coltellino. Molto usato l’aforisma g. manighedda (a un piccolo coltello corrisponde un manico di dimensio- 215 ni ridotte). Fuori metafora, ogni causa ha un effetto corrispondente o, se volete, Dio li fa e Dio li accoppia. Gosai, v. Godere, gioire, provare piacere. Gosau/ada, agg. Goduto/a. Gosu, s. m. Gioia, piacere, allegria. Gradonamentu, s. m. Costruzione dei gradoni, gradonatura. Gradonai, v. Fare i gradoni, gradonare. Gradonau/ada, agg. Munito/a di gradoni. Gradoni, s. m. Gradone. Gergale del mondo agrario e forestale. Gradu, s. m. Grado, prestigio. Chi ddu fais puru, giai no nci perdis su g. (se anche lo facessi, non ci perderesti il prestigio). Gragaglia/’argaglia, s. f. Capra giovane. Vedi ’argaglia. Grai, agg. Pesante. Custu pacu mi parit g. (questo pacco mi sembra pesante). Per est. duro, difficile da sopportare. Cussu disprageri fut g. meda (quel dolore era molto duro da sopportare). Vedi ingraïai. Gräiteddu/a, agg. Pesantuccio/a. Grandilada, s. f. Grandinata. Grandilai, v. Grandinare. Come gli altri verbi indicanti fenomeni atmosferici vuole l’ausiliare avere. At grandilau (è grandinato). 216 Gràndili/Gràndini, s. m. Grandine. Grandu, agg. indecl. utilizzato soltanto al sing. Notevole, grande. Uguale sia per il m. sia per il f. At fatu una g. niada (è sopraggiunta una gran nevicata), at bessìu unu g. fogu (è scoppiato un vasto incendio), est una g. fèmina (è una gran donna). Granitu, s. m. Granito. Granu, s. m. Grano del rosario. Grassu, s. m. Grasso. Rif. soprattutto al grasso per mezzi meccanici. Grassu/a, agg. Grasso/a. Grassura, s. f. Grassezza, pinguedine. Vedi ingrassai. Gratzïa, s. f. Armonia di portamento, delicatezza, grazia. Gratzïa, n. pr. di pers. Grazia. Presente il dim. Gratzïedda. Gratzïanu, n. pr. di pers. Graziano. Gratzïosu/a, agg. Delicato/a. Gravellu, s. m. Garofano. Pres. nei soprannomi. Grifoni, s. m. Rubinetto. Del lavandino e della botte. Grilloni, s. m. Pastoia in ferro. Vedi trava. Grillu, s. m. Grillo. Presente nei soprannomi. Grimimentu, s. m. Faticaccia, lavoro continuato. PAOLO PILLONCA Grìmiri, v. Lavorare sodo e il più delle volte senza pause. Seu a totu dì grimendu (oggi ho lavorato sodo per tutto il giorno). Grìmïu/a, agg. Faticato/a. Grivillosu/a, agg. Schizzinoso/a. Groddi, s. m. Uno dei nomi della volpe. Gergale del mondo pastorale e venatorio. Vedi margiani. Grofali, s. m. Ganghero, arpione in ferro che sostiene e rende girevoli porte, finestre, etc. Grogassu/a, agg. Giallastro/a. Grogu/a, agg. Giallo/ a. La similitudine più comune nel linguaggio della quotidianità è g. che cera (giallo come la cera). Vedi ingroghiri. Grollitzu, s. m. Volpe. Gergale dei pastori. Gropa, s. f. Groppa. Ma al sing. non viene mai usato, si usa soltanto al pl. nella loc. a gropas (in groppa). Gropera, s. f. Groppa. Gròrïa, s. f. Gloria, in senso religioso. A ddu connòsciri in sa Santa G. (speriamo di riconoscerlo in Paradiso), formula rituale di condoglianze. Grorïàisi, v. Gloriarsi. Grorïosu/a, agg. Glorioso/a. Detto dei Santi e dei Beati riconosciuti dalla Chiesa. Grugi/’rugi, s. f. Croce, sofferenza, impegno perpetuo. Anche Mancarìas. La parlata di Seui in senso fig.: a dda portas a g. (ti sei assunto proprio un bell’impegno). Grussàrïa, s. f. Grossezza. Grussu/a, agg. Grosso/a. Presente nei soprannomi. Gruta/’ruta, s. f. Grotta, cavità. Güanti, s. m. Guanto. Gisepu ’olit a ddu tratai in g. ( Giuseppe vuole essere trattato con i guanti). Güardabboscu, s. m. Agente della Forestale, guardiaboschi. Güardïa, s. f. Agente, custode, guardia. Quando è usato senza specificazioni ulteriori vale: guardia municipale. Nelle invocazioni religiose si usa in rif. all’angelo custode (s’àngilu ’e sa güardïa). Güastai, v. Rovinare, guastare. Vedi irgüastai. Güefu, s. m. Dolce di mandorle. Güetu, s. m. Razzo usato di solito nelle feste per annunciare l’inizio di un rito o di uno spettacolo. Güida, s. f. Guida, di auto e camion. Güidai, v. Guidare. Solo riferito alla guida di auto e camion. Per tutte le altre guide il v. utilizzato è ghïai. Vedi anche ghia. Gunnedda/’unnedda, s. f. Gonna. Anche quella del costume tradizionale, di raso nero a fiori viola. In senso ir. donna.. Vedi agunned- 217 dadura e agunneddai. Gurulai/’urulai, v. Urlare. Gùrulu, s. m. Urlo. Viva la loc. a gùrulus. Guta, s. f. Colpo apoplettico. Gutoni/’utoni, s. m. Bottone. Quello dei cappotti, pantaloni, giacche, etc. Quello delle camicie, invece, si chiama animeta. Vedi agutonai. Gusarïosu/a, agg. Saggio/a, sapiente. Gusàrïu, s. m. Saggezza. Gustu, s. m. Gusto, piacere. Guturada/’uturada, s. f. Collare per i campanacci del bestiame. Vedi gùturu. Guturinu/’uturinu, s. m. Strettoia, viottolo. Lett. piccola gola Gùturu/’ùturu, s. m. Gola. Custu frius m’at pigau a g. (questo freddo mi ha preso alla gola). Guvernadori, s. m. Governatore. Guvernai, v. Governare, comandare. Guvernu, s. m. Governo. 218 PAOLO PILLONCA I ’Iagi/bïagi, s. m. Tragitto, peso, percorso, carico. Vedi bïagi. Idas (mesi ’e), s. m. Dicembre. Vedi mesi. Idea/bidea, s. f. Ideale, scopo, idea, intenzione. Preced. da cons., sopr. nel parlare veloce, il s. assume un b eufonica. Tenit bideas (pron. bidear) legias (ha cattive intenzioni), tengiu s’i. de mi nd’andai (ho intenzione di andar via), ddu tenit in b. (ce l’ha in mente), non podis pretèndiri chi totus tengiant is (pron. ir) bideas tuas (non puoi pretendere che tutti abbiano le tue stesse idee). Idëàtigu/a, agg. Strampalato/a, strano/a. ’Ìddigu/bìddigu, a. m. Ombelico. Vedi bìddigu. Ïerrada, s. f. Stagione invernale, invernata. Ïerradorgiu, s. m. Luogo in cui si sverna, pascolo invernale. Ïerrai, v. Svernare. In su Sessantases iàus ïerrau in Santu ’Idu (nel Sessantasei avevamo svernato a San Vito), ocannu ïerraus in Lacarda (quest’anno sverneremo a Lacarda). Vedi tràmuda. Ïerrau/ada, agg. Svernato/a. Ïerru, s. m. Inverno. È la stagione più dura dell’anno per i fenomeni atmosferici che la caratterizzano, specie la neve e il gelo, soprattutto quest’ultimo che brucia i pascoli e impedisce la successiva crescita dell’erba. Un’i. legiu impóberat su pastori (un brutto inverno impoverisce il pastore): era vero ieri ed è vero anche oggi, per fortuna in misura minore. Fin dagli inizi del secolo scorso, i pastori di Seui effettuavano - secondo le annate - la transumanza verso il Sarrabus, la Trexenta, la Marmilla e il Campidano di Cagliari. Dagli anni Ottanta in poi gli ovili della montagna sono stati migliorati e/o costruiti con qualche concessione in più alla comodità dei recinti del bestiame e della dimora degli allevatori. Il s. è anche presente fra i soprannomi, accompagnato da un art. det. (S’ïerru). Igliari, s. m. Pancetta. La parte della bestia macellata - capra soprattutto, ma anche pecora, più raramente vitello - che le donne di Mancarìas. La parlata di Seui Seui amano farcire in svariati modi, con l’utilizzo di erbe aromatiche. Cras ap’a fàiri un’igliari prenu (domani cucinerò una pancetta farcita). Ignàtzïu, n. pr. di pers. Ignazio. Ilàrïu, n. pr. di pers. Ilario. Ìligi, s. f. Leccio (quercus ilex), sicuramente l’albero di alto fusto più presente nel territorio di Seui. Pianta regina, in tutti i sensi, per gli incommensurabili doni di cui è stata per secoli e continua ad essere portatrice: per la legna da ardere che ha fornito e fornisce alla popolazione, per le centinaia di tonnellate di ghiande che produce tutti gli autunni, per l’impagabile ristoro dell’ombra che regala nelle giornate calde, per la bellezza che aggiunge a luoghi già di per sé fascinosi. Nella parlata seuese, il bosco per eccellenza è la foresta di lecci: su padenti per antonomasia, senza specificazione alcuna, è proprio la lecceta. Il salto comunale e demaniale di Seui squaderna lecci di tutte le dimensioni, dal novellame che ogni anno spunta dovunque al celebratissimo leccio colossale di Canali, considerato un vero e proprio monumento vegetale (per la storia di questa pianta plurisecolare vedi alla voce Canali), per non dire di altri alberi che svettano solenni, in tutti i punti 219 cardinali del territorio seuese. Il leccio è una delle anime più profonde della comunità paesana, il paese e l’albero costuiscono due entità inseparabili: s’ìligi è uno dei simboli primari della resistenza del villaggio e della sua lunga storia dolceamara. Quando è piccolo, il leccio si chiama iligedda. Presente nei toponimi per un sito tra Sa Funtana ’e su cròculu e Sa ’Uca ’e su ’oi, detto Ìligis longas. Ìligi süergia, s. f. Leccio-sughera. Si tratta di un ibrido, presente nel territorio di Seui in pochi esemplari: la pianta ha le fronde del leccio e il tronco da quercia da sughero. Illacanai, v. Togliere i confini, rendere sconfinato un territorio, un pensiero, un sogno. Vedi làcana e lacanai. Illacanau/ada, agg. Sconfinato/a, senza confine. Vedi làcana e lacanai. Illadaradura, s. f. Divisione in due di un animale, lungo la colonna vertebrale. Illadarai, v. Dividere in due, in lungo, un animale macellato. Illàdara cussu crabitu (dividi in due quel capretto). Vedi ladus. Illadarau/ada, v. Diviso/a in due. Illargai, v. Allargare. Illargau/ada, agg. Allargato/a. 220 Illargu(a), avv. Lontano. Nella loc. a i. per indicare una lontananza generica. Cussu logu est a i. meda de innoi (quel posto è molto lontano da qui). Illascadura, s. f. Afflosciamento. Illascai(si), v. Afflosciare, afflosciarsi. Vedi lascu. Illascau/ada, agg. Afflosciato/a. Illebïai, v. Alleggerire, alleviare, lenire, rendere più sopportabile un peso o un dolore, non solo in senso fisico. Cussa mëigina m’illébïat is puntas a brenti (quel farmaco mi allevia i dolori addominali). Anche in senso fig. S’agiudu ’e is amigus m’illebïàt is pensamentus (l’aiuto degli amici mi alleggeriva le preoccupazioni). Illebïau/ada, agg. Alleviato/a. Illébïu, s. m. Alleggerimento, lenimento, diminuzione di intensità soprattutto in rif. a situazioni di sofferenza fisica. Illegiai, v. Imbruttire. S’arba longa t’illegiat (la barba lunga ti imbruttisce) Illegiau/illegiada, agg. Imbruttito/a. Maria s’est illegiada (Maria si è imbruttita). Illimbai, v. Tagliare la lingua, impedire la parola a q.no. Illimbau/ada, agg. Linguacciuto/a. Che non tiene a freno la lingua. Lett. senza lingua, nel senso PAOLO PILLONCA che non è capace di governarla. Fémina i. prus (pr. prur) de tui no ndi connosciu (non conosco una donna più linguacciuta di te). Illimpïai, v. Pulire, rendere limpido. Ancora viva la metafora erotica i. sa vista, nel senso di compiere un atto sessuale ben riuscito e tale da rendere, in un certo senso, più limpido lo sguardo del protagonista. Il contr. è imbrutai. Illimpïau/ada, agg. Ripulito/a. Illiscinai/irliscinai, v. Scivolare. Vedi irliscinai e derivati. Illugerrai, v. Abbagliare. In rif. all’effetto dei raggi del sole, di una fiamma o delle luci di un’automobile. Non mi pragit a güidai in is oras de scuriu ca a bortas sa lugi de is farus m’illugerrat (non mi piace guidare nelle ore di buio perché talvolta la luce dei fari mi abbaglia). Illugerrau/ada, agg. Abbagliato/a. Illüinai, v. Far provare vertigini, far venire i capogiri. Su fàmini illùinat (la fame fa venire il capogiro). Illüinau/ada, agg. In preda a capogiri. Illùinu, s. m. Capogiro, vertigine. Soi a illùinus (ho dei capogiri). Illùdiri, v. Illudere. Illùdïu/a, agg. Illuso/a. Illusïoni, s. f. Illusione, fantasti- Mancarìas. La parlata di Seui cheria. Imaginai, v. Immaginare, pensare. Imaginadì una niada manna che-i sa ’e ocannu passau (prova a pensare a una grande nevicata come quella dell’anno scorso). Imaginau/ada, agg. Immaginato/a, pensato/a, creduto/a. Imaginatzïoni, s. f. Immaginazione, fantasia. Imaginedda, s. f. Immagine sacra, santino. Per una sorta di estensione dissacrante, oggi si chiamano imagineddas anche i foglietti volanti delle campagne elettorali. Imàgini, s. f. Immagine, fotografia. Imbarài(si), v. Appoggiarsi. S’imbarat a su muru totu sa dì, si bit ca sa gana de trabbagliai est pagu (rimane appoggiato al muro per tutto il giorno, si vede che la voglia di lavorare è poca). Oziare. Imbarau/ada, agg. Appoggiato/a. Per est. ozioso/a. Imbarcai(si), v. Imbarcare, imbarcarsi. Nel rifl. ha anche un significato gergale: si riferisce ai giochi di carte in cui ciascun giocatore può far entrare nel proprio mazzo un certo numero di pezzi che si trovano in quel momento sul tavolo, scartati in altre giocate. Imoi m’imbarcu eu, cun custa arëi- 221 gedda ’e cartas (adesso m’imbarco io con questo piccolo gregge di carte). Imbaschiri(si), v. Accaldare, sentir caldo. Mi parit ca oi imbaschit prus di eriseru (ho l’impressione che oggi farà più caldo di ieri). Vedi basca. Imbaschìu/a, agg. Accaldato/a. Mi paris i. (mi sembri accaldato). Anche in senso fig. Imbastardimentu, s. m. Corruzione, imbastardimento, involuzione. Imbastardiri(si), v. Imbastardire, corrompere. Ant imbastardìu s’arratza de is sirbonis sardus (hanno imbastardito la razza dei cinghiali sardi). Imbastardirsi. Su modu de erriciri su strangiu s’est imbastardìu (lo stile di accogliere un ospite si è imbastardito). Imbastardìu/a, agg. Imbastardito, corrotto, involuto. Imbatiladura, s. f. Sistemazione del sottosella sul cavallo. Imbatilai, v. Mettere il sottosella al cavallo. Vedi bàtili. Imbatilau/ada, agg. Fornito di sottosella. Di norma riferito agli equini, lo si utilizza talvolta anche per l’uomo, in senso ir. Ses totu beni i. (sei tutto ben guarnito). Imbàtiri, v. Arrivare, finire in un luogo più lontano del previsto. Cichendu crabas de cómpuru nos est 222 capitau de nc’i. atesu meda (cercando capre da compare ci è capitato di finire molto lontano). Imbàtïu/a, agg. Finito/a in un luogo più lontano del previsto. Imbäulladura, s. f. Sistemazione del cadavere nella bara. Imbäullai, v. Mettere nella bara. Imbäullamentu, s. m. Sistemazione del cadavere nella bara. Sin. imbäulladura. Imbäullau/ada, agg. Messo/a nella bara. Imbeciai, v. Invecchiare. A i. est una bonasorti (invecchiare è una fortuna). Imbeciamentu, s. m. Invecchiamento. Imbeciau/ada, agg. Invecchiato/a. Imbelletadura, s. f. Imbellettamento. Imbelletai, v. Imbellettare. Imbelletau/ada, agg. Imbellettato/a. Imbellimentu, s. m. Miglioramento dell’aspetto esteriore. Imbelliri, v. Farsi più bello, migliorare il proprio aspetto esteriore. Lo si riferisce solo a persone, mai a cose. Apu ’idu a Maria e m’est partu ca s’est imbellìa (ho visto Maria, e mi è sembrata più bella). Vedi abbelliri, rif. a cose. Imbellìu/a, agg. Migliorato/a PAOLO PILLONCA sotto il profilo della bellezza. Imbertuladura, s. f. Sistemazione del contenuto di una bisaccia. Imbertulai, v. Mettere nella bisaccia. Vedi bértula. Imbertulau/ada, agg. Messo/a nella bisaccia. Imbessi (a sa), avv. Al contrario, alla rovescia. Nella loc. a sa ’mbessi. Imbestimentu, s. m. Miscuglio, confusione. Imbestiri, v. Mischiare. Apu imbestiu su ’inu ’e Asortu cun su ’e Fundu ’e corongiu (ho mischiato il vino di A. a quello di F.) Spesso in senso ironico-dispregiativo. Est unu chi imbestit (è uno che mischia tutto). Imbestìu/a, agg. Mischiato/a. Imbestussu, s. m. Miscuglio caotico e mal eseguito. Bellu i. as cuncordau (bel miscuglio hai preparato). Imbïau/ada, agg. Beato/a. Usato come esclamazione, ellittica del soggetto e non. I, i. cuddu piciocu, i. ’e tui (beato, beato quel ragazzo, beato te). Imbidai, v. Fornire il necessario - in denaro o altro - per un’emergenza o un periodo medio-lungo, anche forzando il ricevente ad accettare l’aiuto. Giai dd’as imbidada (le hai fornito un bell’aiuto). Imbidau/ada, agg. Aiutato/a, Mancarìas. La parlata di Seui rimesso/a in sesto. Imbiddigai(si), v. Diventare panciuto (con venatura ironica). Alla lettera: farsi un grande ombelico. Vedi bìddigu (ombelico). Imbiddigamentu, s. m. Obesità, aumento della circonferenza dello stomaco. Imbiddigau/ada, agg. Panciuto/a. Imbìdïa, s. f. Invidia, gelosia. Imbidïai, v. Invidiare. Imbidïau/ada, agg. Invidiato/a. Imbidïosu/a, agg. Invidioso/a. Imbirdigai(si), v. Colorare di verde. Su logu est cumentzendusì a i. (la campagna inizia a colorarsi di verde). Nel rifl. definisce anche il mutamento di colore del viso di un malato. S’est imbirdigau (è diventato verde). Imbirdigamentu, s. m. Colorazione verde, più patologica che naturale. Imbirdigau/ada, agg. Rinverdito/a, colorato/a di verde. Imbissai, v. Avvezzare, abituare, viziare. Chi s’imbissat a su casu agedu dd’as a ténniri ónnïa dì in mesu is peis (se si avvezza al formaggio acido lo avrai ogni giorno tra i piedi). Prov. Cani imbissau a craba ndi tenit finas a sa morti (il cane avvezzo alla carne di capra ne avrà fino alla morte). 223 Imbissau/ada, agg. Viziato/a, avvezzo/a. Imbissu, s. m. Vizio, cattiva abitudine. Imboddïai, v. Coprire, avvolgere. Chi niat m’apu a i. (se nevica mi coprirò). In senso fig. vale: coprire, nascondere. Ant imboddïau totu po sarvai chelegunu cani mannu (hanno coperto tutto per salvare qualche personaggio importante). Imboddïàmini, s. m. Copertura, coperta. S’est crocau in foras chene i. perunu (ha dormito fuori casa senza alcuna coperta). Imboddïau/ada, agg. Ben coperto/a, nascosto/a. Imbóddïu, s. m. Fagotto, copertura. Imbonadura, s. f. Miglioramento d’aspetto, recupero di floridezza. Imbonài(si), v. Riacquistare e far riacquistare peso e floridezza. Su papai ’eni dd’at imbonau (il mangiar bene lo ha fatto ridiventare florido), Linu fut istasìu ma giai est imbonendusì (Lino era deperito ma si sta rimettendo in peso). In senso fig. vale: arricchirsi, migliorare la propria posizione. Imbonau/ada, agg. Rimesso/a in carne. Imboscai (si), v. Nascondere, to- 224 gliere dalla vista di q.no. Anche al rifl. Imboschendu is fosilis si fut faddiu (nascondendo i fucili si era sbagliato). Imboscamentu, s. m. Isolamento, presa di distanza. Imboscau/ada, agg. Nascosto/a, imboscato/a. Imbovadura, s. f. Inganno, presa in giro, raggiro, tranello. Imbovai, v. Ingannare. Vedi abbovai e bovu/a. Imbovamentu, s. m. Presa in giro, inganno, raggiro, tranello. Imbovau/ada, agg. Ingannato/a. Vedi abbovau/ada. Imbrachinadori, s. m. Imbianchino. Imbrachinadura, s. f. Imbiancatura. Imbrachinai, v. Intonacare. Desueto. Vedi scovitai. Imbrachinau/ada, agg. Intonacato/a. Imbrassada, s. f. Bracciata, quantità di materiale che si può tenere fra le braccia. Un’i. ’e linna (una bracciata di legna). Imbrassai, v. Abbracciare. Comenti dd’at bidu dd’at imbrassau (appena l’ha visto l’ha abbracciato). Imbrassau/ada, agg. Abbracciato/a. Imbrassu, s. m. Abbraccio. PAOLO PILLONCA Imbrechiladura, s. f. Incastro fortuito fra pietre di dirupi, incidente di cui rimangono vittime gli animali selvatici, mufle e mufloni in primo luogo. Imbrechilai(si), v. Incastrare tra le pietre nei dirupi. Sopratt. al rifl. Nd’apu ’idu ’e murvas chi s’imbréchilant in is spérrumas (ne ho visto di mufle incastrate nei dirupi). Imbrechilau/ada, agg. Incastrato/a, bloccato/a in una pietraia. Imbregungimentu, s. m. Sensazione di vergogna. Imbregungiri(si), v. Vergognare. Mi fait i. (mi fa vergognare). Nella forma rifl. vale: vergognarsi, provare vergogna. Dd’at fatu e no si nd’imbregungit (l’ha fatto e non se ne vergogna). Nella lingua di tutti i giorni, tuttavia, si ricorre a una perifrasi: ma non ti ndi parit bregungia? (ma non ti vergogni?).Vedi bregungia. Imbregungìu/a, agg. Intimidito/a. Vedi bregungiosu. Imbrentonadura, s. f. Scorpacciata. Imbrentonai(si), v. Riempire la pancia. Anche nel rifl. S’est imbrentonau (si è riempito la pancia). Vedi brenti e brentoni. Imbrentonau/ada, agg. Satollo/a. Imbrïagai, v. Ubriacare. Ddu Mancarìas. La parlata di Seui cumbidat a bufai e a tassa-tassa ddu ’mbrïagat (lo invita a bere e, un bicchiere dopo l’altro, lo ubriaca). Anche nella forma rifl. Cuddu s’imbrïagat meda (quel tizio si ubriaca spesso). Anche in senso fig. Dd’at imbrïagau a füeddus (l’ha ubriacato di parole). Imbrïaghera, s. f. Ubriacatura, sbornia, sbronza. Imbrïagoni/a, s. e agg. Ubriacone, alcolista. Imbrïagu/a, s. e agg. Ubriaco/a. Imbrunconada, s. f. Inciampo. Imbrunconai, v. Inciampare. Anche in senso fig. Imbrunconau/ada, agg. Inciampato/a. Imbrùncunu, s. m. Inciampo. In senso met. errore, infortunio. Imbrutadura, s. f. Produzione di sporcizia. Imbrutai, v. Sporcare. Sa scala dd’ia sciacüada custu mengianu ma mi ddu ant imbrutau inderetura (avevo lavato la scala stamattina ma me l’hanno sporcata subito dopo). Prov.: pipìus e puddas imbrutant su logu (i bambini e le galline sporcano dovunque). In senso fig. abbassarsi a qualcosa di disdicevole. No m’imbrutu cun tui (non mi sporco con te). Vedi brutu. Imbrutau/ada, agg. Sporcato/a. Imbucada, s. f. Entrata, ingresso. 225 Imbucadorgiu, s. m. Entrata. No ddu at i. perunu (non c’è alcuna entrata). Imbucadura, s. f. Morso della briglia. Vedi buca/’uca. Vale anche: entrata, ingresso, quasi sin. di imbucada e imbucadorgiu. Imbucai, v. Entrare in un luogo, chiuso o aperto. Nc’imbucat in dónnïa logu (riesce ad entrare dovunque), nc’est imbucau in crèsïa, nc’est imbucau in padenti (è entrato in chiesa, è entrato nel bosco). Imbucau/ada, agg. Entrato/a. Imbudu, s. m. Misura di capacità corrispondente a due litri e mezzo, un sedicesimo dello starello. Vedi mou. Imburdugada, s. f. Azione grossolana. Imburdugai, v. Far maldestramente le cose, come se intervenisse nell’azione un q.sa di spurio (burdu, lett. figlio illegittimo). Imbastardire. Imburdugheri/a, s. e agg. Persona maldestra, incapace di fare le cose a regola d’arte. Il s. può essere usato anche come agg. e dunque esteso al genere femminile. Imburdugu, s. m. Azione maldestra e grossolana. Il s. è usato spesso nella loc. avv. a i. (grossolanamente). Proprio in loc. conclusiva figura in una poesia di Benigno De- 226 plano, pubblicata nel 1979 dal giornale del liceo scientifico Funtanïossu e dedicata alla centenaria di allora, tzia Manüela de Papasucu. Imbuscinadura, s. f. Gioco infantile che consiste nel voltolarsi per terra. Imbuscinàisi, v. Voltolarsi per terra e nella polvere. Su molenti s’est imbuscinau in su prùini, (l’asino si è voltolato nella polvere). Imbuscinau/ada, agg. Voltolato/a, sdraiato/a ripetutamente per terra. Oltre che degli animali, si dice anche dei bambini. Imbussadura, s. f. Protezione mediante coperture adeguate a proteggere dal freddo o semplicemente dall’aria e dalla polvere. Imbussaddu cussu pani (avvolgi quel pane). Imbussai(si), v. Coprire/coprirsi, proteggersi con tessuti adatti per non prendere freddo. Imbussadì (còpriti). Imbussau/ada, agg. Coperto/a, protetto/a. Imbustu, s. m. Busto. Imbutidura, s. f. Scorpacciata, pasto abbondante. Imbutiri, v. Imbottire, in questo senso il v. è poco usato. Più frequente l’uso nell’accezione: nutrire copiosamente, dar da mangiare in modo eccessivo. Non timas ca sa PAOLO PILLONCA nonna giai dd’at a i. (stai tranquillo, la nonna lo farà mangiar bene). Imbutìu/a, agg. Imbottito/a, ipernutrito/a. Imoi, avv. Ora, adesso. Reiterato vale: poco fa. Si nd’est andau i. i. (è appena andato via). Impachetadura, s. f. Impacchettamento. Impachetai, v. Impacchettare. Impachetau/ada, agg. Impacchettato/a. Impacu, s. m. Impacco, cataplasma. Impaghimentu, s. m. Diminuzione, calo. Impaghiri, v. Diminuire, scarseggiare. Su lati est impaghendu dì po dì (di giorno in giorno il latte diminuisce).Vedi pagu (poco). Impaghìu/a, agg. Diminuito/a. Impanadura, s. f. Avvolgimento nell’uovo sbattuto e di seguito nel pane grattugiato di una fetta di carne, melanzana, zucchina, etc. Impanai, v. Avvolgere un alimento nell’uovo sbattuto e nel pane grattugiato per una cottura diversa dal solito. Ma il v. indica anche l’azione di mettere del pane nel latte per la colazione mattutina o nel brodo di carne o in altri liquidi. Impanau/ada, agg. Avvolto/a nelll’uovo sbattuto e nel pane grattugiato. L’agg. si può riferire Mancarìas. La parlata di Seui anche al latte e al brodo in cui si sia messo del pane. Imparadori, s. m. Maestro, insegnante, ma anche alunno, discepolo. Imparai, v. Apprendere. Dd’at imparau in iscola (l’ha appreso a scuola). Ma nella lingua sarda questo v. ha anche il significato opposto: insegnare. Totu custu füeddus mi ddus ’mparat tzia Arrafïela (tutte queste parole me le insegna la zia Raffaella). Imparau/ada, agg. Appreso/a. Imparisadura, s. f. Appianamento, in senso reale e fig. Imparisai, v. Appianare, rendere pianeggiante. Nel traslato: eliminare le differenze, anche di opinioni: Marïeddu imparisat totu (Mario appiana tutto). Imparisau/ada, agg. Appianato/a. Imparu, s. m. Apprendimento, insegnamento. Impastai, v. Impastare. Impastau/ada, agg. Impastato/a. Impastu, s. m. Impasto. Imperdau, s. m. Selciato. Vedi perda. Imperradura, s. f. L’atto di imperrai. Viva la loc. a i. (a mo’ di posa del cavalcare). Imperrai, v. Accavalciare, mettersi a cavalcioni, montare una cavalcatura. Imperrat su cüaddu 227 (monta a cavallo). Si dice anche del sole e della luna quando sono sul punto di sparire alla vista di chi li osserva dietro una vetta montana. Vedi perra. Imperrau/ada, agg. Salito/a, messo/a cavalcioni. Impestadura, s. f. Contagio diffuso, epidemia. La loc. a i. vale: in forma epidemica. Impestai, v. Contagiare, appestare, infettare. Impestau/ada, agg. Infetto, contagiato/a. In rif. soprattutto ad infezioni veneree. Impibirai, v. Condire con il pepe, spargere il pepe. In rif. so-prattutto ad una fase della confezione domestica dei prosciutti. Vedi pìbiri. Impibiramentu, s. f. Condimento con il pepe. Impibirau/ada, agg. Condito/a con il pepe. Impicai, v. Impiccare. Impicau/ada, agg. Impiccato/a. Impicu, s. m. Impiccagione. Forca. Impigiadura, s. f. Impeciatura. Gergale dei calzolai. Vedi pigi. Impigiai, v. Impeciare, mettere la pece. Impigiau/ada, Impeciato/a, cosparso/a di pece. Impigliadura, s. f. Copertura completa, fino alla sommersione. 228 Impigliai, v. Coprire completamente, sommergere. Vedi pigliu. Impigliau/ada, agg. Sommerso/a. Impinniri, v. Mettere le piume. Detto degli uccelli. Unu storitu mancu i.’eni (un falchetto neppure ben impiumato). In rif. alle persone, il v. indica il formarsi della pelurie puberale. Vedi pinnìa. Impinnìu/a, agg. Piumato/a. In senso lato equivale a: danaroso, benestante. Impipïai, v. Ritornare bambino. Giüanni parit impipïendusì (è come se Giovanni stia ritornando bambino). Vedi pipìu. Impipïau/ada, agg. Tornato/a bambino/a. Impiticadura, s. f. Rimpicciolimento, ridimensionamento. Impiticai, v. Rimpicciolire. Anche nel rifl. Mi paris impitichendudì (mi sembra che tu ti stia rimpicciolendo). Impiticau/ada, agg. Rimpicciolito/a. Imposta, s. f. Messaggio, ambasciata. Dd’apu lassau una i. (gli ho lasciato un messaggio). Impostai, v. Imbucare, inviare per posta. Impostau/ada, v. Imbucato/a, spedito/a, inviato/a per posta. Imprëissai(si), v. Impigrire. Impigrirsi, diventare pigri. Vedi PAOLO PILLONCA amandronai e prëìssa. Imprëissau/ada, agg. Impigrito/a. Vedi amandronau/ada. Imprenimentu, s. m. Diffusioni di voci false e calunniose. Imprèniri, v. Convincere qualcuno a schierarsi contro una terza persona con falsità e calunnie. Imprenu/a, agg. Convinto/a da un calunniatore, istigato/a contro qualcuno. Impresonadura, s. f. Arresto, messa in galera. Impresonai, v. Arrestare, imprigionare, incarcerare. Vedi presoni. Impresonau/ada, agg. Imprigionato/a. Impressimentu, s. m. Velocizzazione. Impressiri, v. Mettere fretta. Non ti lessis i. (non ti far mettere fretta). Anche nel rifl. A s’i. non cumbenit (non conviene mettersi fretta). Vedi pressi. Impressìu/a, agg. Affrettato/a, frettoloso/a, in preda alla fretta, frenetico/a. Antoni mi parit mesu i. (Antonio mi sembra piuttosto frenetico). Imprestai, v. Prestare, dare in prestito. Is (dîs) imprestadas sono gli ultimi due giorni di gennaio, ritenuti comunemente i più freddi dell’anno: secondo un racconto popolare, il mese di febbraio avrebbe Mancarìas. La parlata di Seui dato due giorni a gennaio raccomandandogli però di tenersi nella media delle temperature precedenti: ti ndi ’ongiu duas ma fai ’e is tuas (te ne darò due ma fai delle tue). Imprestau/ada, agg. Dato/a in prestito. Impréstidu, s. m. Prestito. Imprïastai, v. Impiastrare. Provat a i. in cheleguna arti ma no ndi giuat a nudda (prova a cimentarsi in qualche mestiere ma non serve a niente). Imprïastau/ada, agg. Impiastrato/a, malfatto/a. Imprïasteri, s. m. Impiastrone. Imprïastu, s. m. Impiastro. Rif. all’uomo vale: persona di scarso valore. Lo si usa anche nel senso di cataplasma. Impringiadura, s. f. Gravidanza. Impringiai, v. Ingravidare, rimanere gravida. Detto del bestiame ma anche delle donne. No arrennescit a i. sa pobidda (non riesce a ingravidare la moglie). Imprïoddai, v. Sporcare malamente e in modo diffuso. In senso fig: agire senza competenza. Imprïoddat de totu ma non tenit manu ’ona (cerca di fare un po’ di tutto ma non ha una buona mano). Imprïoddau/ada, agg. Insozzato/a. 229 Imprïodderi, s. e agg. Pasticcione, incapace. Imprïoddu, s. m. Azione male eseguita. Impromìntiri, v. Promettere, assicurare. Chi non mantiene le promesse viene bollato con l’epiteto di improminti e non dona (prometti e non mantenere). Impromintu/a, agg. Promesso/a. Impromintza, s. f. Promessa, voto. Apu fatu una i. (ho fatto un voto). Improsai, v. Illudere, adulare, raggirare. A mei no m’improsas (non mi freghi). Improsau/ada, agg. Illuso/a, raggirato/a. Improseri, Imbonitore, adulatore. Chi cerca di guadagnarsi la fiducia altrui con belle parole e complimenti eccessivi. Imprüinadura, s. f. Impolveramento. Imprüinai, v. Impolverare, ammantare di polvere. Vedi prùini. Imprüinau/ada, agg. Impolverato/a, polveroso/a. Imprupìri(si), v. Rimpolpare, rimettersi in carne, riacquistare floridezza. Cudda mardi est imprupendusì (quella scrofa sta ridiventando florida). Imprupìu/a, agg. Rimesso/a in carne, rimpolpato/a. 230 Imputai, v. Accusare. Riferito soprattutto a vicende giudiziarie, ma anche ad accuse non ufficializzate davanti alla giustizia dello Stato. Imputau/ada, agg. Imputato/a. Imputu, s. m. Capo d’accusa in un procedimento penale. In, prep. In. Con vari complementi. Stato in luogo: in domu, in bidda, in su sartu (in casa, in paese, in campagna). Moto per luogo: apu caminau in padenti totu sa dì (ho camminato in foresta per tutto il giorno), ma mai, diversamente dall’italiano, nel moto a luogo, preceduto costantemente dalla prep. a. Andu a su monti (vado in campagna), torru a bidda (torno al paese). Materia: custa conca apu meledau ’e nde dda ’ogai in linna tostada (questa testa ho pensato di scolpirla in legno duro). Mezzo o strumento: andu in trenu (vado in treno). Tempo determinato: in beranu (in primavera) e continuato: in duas o tres dis possu acabbai su trabbagliu (in due o tre giorni posso concludere il lavoro). Introduce diverse locuzioni avverbiali. In àndïas, su una portantina (ossia con trattamento di estremo riguardo): Antoni iat a bòlliri a nce ddu pònniri in a. (Antonio vorrebbe essere portato PAOLO PILLONCA su una sedia gestatoria, ossia trattato come un papa). In baganti, in bilico, in equilibrio instabile: cussa biga est in b. (quella trave è in bilico). In bonora, in ora fortunata: bai in b. (vai e che la fortuna ti accompagni). In burrutzonis, in fregola: imoi Linu est in b. e ddi fut tempus puru chi s’essit móvïu (adesso Lino è in fregola ed era anche tempo che si decidesse). In colori ’e brenti ’e mongia, in colore di addome di monaca: Ginu fut in c. ’e b. ’e m. (Gino aveva il colorito del ventre di una monaca), ossia il pallore che viene dalla mancanza di sole tipico di chi non si espone mai al chiarore solare. In contus e chirïellas, in storielle e litanie, ossia in chiacchiere senza costrutto: non ti perdas in c. e c. (non perdere tempo in chiacchiere). In debbadas, invano: parit chi ti ddu neri in d. (sembra che te lo dica invano). In denanti, davanti: mi dd’apu ’idu in d. de ùbbitu (me lo sono visto davanti all’improvviso). In donnìa, ogni volta, tutte le volte: in donnìa chi ddu certu nde ddi parit mali (tutte le volte che lo sgrido si offende). In-d-unu patrefìlïu, in un attimo (lett. nel tempo di un Patris et Filii, nelle benedizioni): at allistrìu s’angioni in-d-unu p. (ha preparato l’agnello Mancarìas. La parlata di Seui in un battibaleno). In manus (pr. manur) bonas, in buone mani: cun Franciscu su cüaddu giai est in m. b. (con Francesco il cavallo è in buone mani). In manus (pr. manur) de Deus, nelle mani di Dio: sa maladia est (pr. er) legia, imoi seus in m. de D. (la malattia è di quelle brutte, adesso siamo nelle mani di Dio). In pïota, in forma, in stato di grazia: mancai ’eciu Franciscu est ancora in p. (nonostante l’età avanzata, Francesco è ancora in forma). In pressi, in fretta: depu fàiri in p. (debbo fare in fretta). In prusu, in sovrappiù, senza alcuna importanza: tui nci ses in prusu (tu sei in sovrappiù, non conti nulla). In punta ’e pèi, in punta di piedi: si movit in p. ’e p. chene fàiri sonu (si muove in punta di piedi senza far rumore). In totu, in tutto: dd’apu ’idu una pariga ’e ’ortas in t. (l’ho visto un paio di volte in tutto). In troga, mediante un raggiro: si nde dd’at boddiu in t. (gliel’ha preso con un imbroglio). Inarfabbetu, s. m. Analfabeta, illetterato, indotto. Incaboniscadura, s. f. Ringalluzzimento. Incaboniscai(si), v. Ringalluzzire, fare il galletto. Vedi caboniscu. Incaboniscau/ada, agg. Ringal- 231 luzzito/a, eccitato/a. Incaddotzadura, s. f. Atto ed effetto dello sporcare. Incaddotzai, v. Sporcare, rendere sporco per poca cura. Vedi caddotzu. Incaddotzau/ada, agg. Sporcato/a, lordato/a. Incadenadura, s. f. Incatenamento. Incadenai, v. Incatenare, legare con catene. Anche in senso met. Vedi cadena. Incadenau/ada, agg. Incatenato/a. Incadessimentu, s. m. Incarico. Incadéssiri, v. Incaricare. Dd’apu incadéssïu, ma no at fatu nudda (gli ho affidato un incarico, ma non ha fatto niente). Incadéssïu/incadèssïa, agg. Incaricato/a. Incadumadura, s. f. Declino psichico, depressione momentanea. Cuss’ómini s’est fatu a i. (quell’uomo sta perdendo colpi). Incadumai, v. Diventare stupido. C’è anche la forma rifl. Su presoni incàdumat (la galera rincitrullisce) cussu piciocu s’est incadumau (quel ragazzo si è rimbecillito), s’incàdumat dì po dì (declina di giorno in giorno). Vedi càdumu. Incadumau/ada, agg. Rimbecillito/a. Incaminai, v. Avviare, incammi- 232 nare, iniziare a fare q.sa. Soi incaminendu su prangiu (sto avviando il pranzo). Incaminamentu, s. m. Avvio, inizio. Incaminau/ada, agg. Incamminato/a, avviato/a. Incanadura, s. f. Messa in funzione, preparazione dei cani del fucile. Incanai, v. Azionare i cani del fucile. Voce gergale dei cacciatori. Incanudai, v. Diventare canuto, ingrigire. Su tempus m’incanudat (il tempo mi colora di bianco i capelli). Incanudamentu, s. m. Incanutimento, l’ingrigire progressivo e inesorabile delle chiome umane. Incanudau/ada, agg. Incanutito/a, invecchiato/a. Incarcinadura, s. f. Pulizia con la calce. Incarcinai, v. Dare una mano di calce ai muri di una casa, rinfrescare il colore degli interni delle abitazioni anche se non più con la calce. Vedi carcina. Incarcinau/ada, agg. Tinto/a di calce. Incardassai, v. Sporcare. Ma il v. oggi è usato soprattutto in senso metaforico ad indicare il ritrovarsi in situazioni difficili dal punto di vista materiale. Candu at iscïudau PAOLO PILLONCA Lina fut incardassada mali aberu (quando ha perso il marito, Lina era in grosse difficoltà economiche). Vedi cardassu e scardassai. Incariri, v. Rincarare, aumentare di prezzo. Cun s’euro funt incarendu totu (con l’euro tutti i prezzi stanno aumentando). Incarimentu, s. m. Rincaro. Incariu/a, agg. Rincarato/a, aumentato/a di prezzo. Incasciadura, s. f. Chiusura in cassa, incassatura. Incasciai, v. Chiudere in una cassa. Incasciau/ada, agg. Chiuso/a in una cassa, incassato/a. Incatramadura, s. f. Incatramazione, sistemazione del catrame su una superficie da impermeabilizzare. Incatramai, v. Incatramare, spargere catrame su una superficie esterna per facilitarne l’impermeabilizzazione. Vedi catramu. Incatramau/ada, agg. Incatramato/a. Incerai, v. Mettere la cera. Incerau/ada, s. e agg. Incerato/a. Al m. indica il mantello rustico impermeabile dei pastori per proteggersi dalle piogge. Come agg. f. indica la tovaglia plastificata e la tela impermeabi- Mancarìas. La parlata di Seui lizzata che si stende a contatto con i materassini delle culle dei bimbi lattanti. Inchïetài(si), v. Adirarsi. S’inchïetat po nudda (si adira per futili motivi). Inchïetau/ada, Adirato/a. Inchïetosu/a, agg. Iracondo/a, facile all’ira. Inchïetu, s. m. Ira, rabbia, dispiacere. Mi nd’at donau ’e i. oi Lüisu (oggi Luigi mi ha provocato molta rabbia). Inchïetu/a, agg. Arrabbiato/a. Inciascai, v. Scherzare abilmente e divertirsi in maniera brillante con battute riuscite. Inciascau/ada, agg. Divertito/a. Inciascheri, s. m. Persona scherzosa, amante del divertimento e delle uscite geniali. Inciascu, s. m. Scherzo divertente, con botte e risposte acute. Incillìrisi, v. Incupirsi, corrucciarsi, corrugare la fronte (lett. le sopracciglia). Incillìu/a, agg. Corrucciato/a, incupito/a. Incimiri, v. Germogliare. Incimiu/ada, agg. Germogliato/a. Vedi cima/gima. Incingïadura, s. f. Inaugurazione. Incingïai, v. Inaugurare, indossare per la prima volta un abito. Custu ’estiri ddu depu i. po Pasca 233 (questo vestito lo indosserò per la prima volta a Pasqua). Incingïau/ada, agg. Indossato/a per la prima volta. Incinisadura, s. f. Velo, strato di cenere. Incinisai, v. Ricoprire, sporcare di cenere. Mai nel senso di incenerire. Vedi cinisu e scinisai. Incinisau/ada, agg. Sporco di cenere. Per l’agg. italiano incenerito si ricorre ad una perifrasi: torrau a cinisu (ridotto in cenere). Incirdinadura, s. f. Irrigidimento. Incirdinai v. Irrigidire. Sa ciligìa incìrdinat is pannus spartus (la brina irrigidisce la biancheria stesa ad asciugare). Irrigidirsi. Coment’est orrutu, su pipiu s’est incirdinau (subito dopo la caduta, il bambino si è irrigidito). Vedi cìrdinu. Incirdinau/ada, agg. Irrigidito/a. Detto delle cose e delle persone, anche in senso fig. Inciupidura, s. f. Assorbimento di liquidi. Viva la loc. a i. Inciupiri, v. Assorbire. At própïu meda ma sa terra s’abba nce dda ’nciupit totu (è piovuto molto ma la terra assorbe tutta l’acqua). Inciupìu/a, agg. Assorbito/a. Incódina, s. f. Incudine. Incogotidura, s. f. Rossore forte dovuto a collera improvvisa o sforzo gravoso. 234 Incogotiri(si), v. Diventare rosso per un attacco d’ira e/o di febbre ma anche in seguito ad uno sforzo violento. Candu s’inchïetat s’incogotit totu (quando si arrabbia diventa tutto rosso). Incogotìu/a, agg. Rosso/a in seguito a un attacco di febbre, un sussulto d’ira o uno sforzo. Incolladura, s. f. Incollatura. Incollai, v. Incollare, attaccare con la colla. Incollau/ada, agg. Incollato/a. Incordïoladura, s. f. Legamento con lacci. Vedi cordïolu. Incordïolai, v. Legare con lacci. Incordïolau/ada, agg. Legato con lacci. Incorradura, s. f. Incornata. Incorrai, v. Incornare. Incorrau/ada, agg. Incornato/a. Incorrïadura, s. f. Legamento con corregge di cuoio. Vedi corrìa. Incorrïai, v. Legare con corregge di cuoio. Incorrïau/ada, agg. Legato/a con corregge di cuoio. Incortigliadura, s. f. Accerchiamento. Incortigliai, v. Circondare, accerchiare, far entrare nella mandria. In rif. al bestiame, ma più spesso in senso traslato, per dire di una difficoltà immateriale. Füeddendu, a Antoni no ddu ’ncortigliat nemus PAOLO PILLONCA (nel parlare nessuno riesce a mettere in difficoltà Antonio). Incortigliau/ada, agg. Messo/a alle strette, accerchiato/a. Incrabistadura, s. f. Sistemazione della cavezza. Incrabistai, v. Mettere la cavezza. Vedi crabistu. Il contr. di iscrabistai. Incrabistau/ada, agg. Incavezzato/a. Incrabonadura, s. f. L’atto e l’effetto del coprire e/o dello sporcare con il carbone. Velo, strato di carbone. Incrabonai, v. Coprire con carbone, sporcare con il carbone. Incrabonau/ada, agg. Sporco di carbone. Incracadura, s. f. Pressatura, pressione. Incracai, v. Calcare, premere, pressare. Incracau/ada, agg. Pressato/a, premuto/a. Incräitadura, s. f. Chiusura mediante chiavistello. Incräitai, v. Chiudere con un chiavistello. Incräitu, s. m. Chiavistello. Incrarada, s. f. Breve comparsa. Chi seis in Arcüeri mi parit ca mi ddu-i facu una i. (se siete ad Arcuerì, quasi quasi ci faccio un salto). Incraradedda, s. f. Comparsa- Mancarìas. La parlata di Seui lampo. Incraràisi, v. Affacciarsi. Incraradì in sa vantana (affàcciati alla finestra), su soli s’incrarat in is (pron. ir) nuis (il sole si affaccia tra le nuvole). Fare una capatina da qualche parte. No iscìu chi mi ddu apu a pódiri i. (non so se mi ci potrò avvicinare). Incrarau/ada, agg. Affacciato/a. Incravai, v. Inchiodare, fissare con chiodi. Incravamentu, s. m. Inchiodatura. Ma il s. è usato soprattutto nel significato di crocifissione. Il suo contrario, iscravamentu/scravamentu, indica la deposizione del Cristo dalla croce e il rito del Venerdì Santo che la rievoca con una apposita sacra rappresentazione, da oltre trent’anni tornata in auge anche nella parrocchia di Santa Maria Maddalena dopo una breve parentesi di oblio negli anni Sessanta e attualmente sempre più seguita anche da visitatori esterni. Incravau/ada, agg. Crocifisso/a. Incremèntzïa, s. f. Disturbo, fastidio, evento inatteso e doloroso. Incresïadura, s. f. Rientro in chiesa delle puerpere dopo il battesimo del neonato. Vedi crésïa. Incresïàisi, v. Rientrare in chiesa. Il v. indica l’atto di tornare alla frequenza delle funzioni religiose da 235 parte delle puerpere che, per antica consuetudine, erano tenute a compierlo appena trascorsi quaranta giorni dal battesimo del neonato. Anna Maria s’incresïat oi (Anna Maria rientrerà oggi in chiesa). Vedi pana. Incresïada, agg. Rientrata in chiesa. Si utilizza solo al f. Incresurai, v. Chiudere un terreno con una siepe. Vedi cresuri. Incresurau/ada, agg. Chiuso/a a siepe. Incrìbida, s. f. Movimento crescente di persone vocianti. Incribidai, v. Far salire di tono una protesta, velocizzare e dar forza a un’azione. Incribidau/ada, agg. Aumentato/a di tono e di volume. Incrispadura, s. f. Aumento di ritmo, irruvidimento. Incrispai, v. Velocizzare. Incrispa is passus (affretta l’andatura). Far diventare meno liscia una superficie. Incrispau/ada, agg. Aumentato/a di ritmo, irruvidito/a. Incróiri, v. Importare, interessare. Il verbo è intrans. A mei no m’incröit (non me ne importa). L’argomento oggetto dell’interesse deve essere prec. dalla prep. de o da una perifrasi. De tui no mi nd’incröit nudda (di te non 236 m’importa nulla). Incröìu/a, agg. Interessato/a, importato/a. Incrüadura, s. f. Esacerbazione, recrudescenza. Incrüai, v. Incrudire, esacerbare. In senso met. peggiorare. Sa maladia si dd’est incrüada (la sua malattia ha avuto una recrudescenza). Incrüau/ada, agg. Esacerbato/a. Incrubadura, s. f. Curvatura, china. Incrubai, v. Chinare, curvare. Anche in senso fig. e nella forma rifl. Chini s’incrubat amostat su culu (chi si china fa vedere il culo). Incrubau/ada, agg. Chinato/a, curvato/a. Incumentzai, v. Incominciare, iniziare. Vedi cumentzai. Incumentzau/ada, agg. Iniziato/a. Vedi cumentzai. Incumentzu, s. m. Inizio. Vedi cumentzu. Incungia, s. f. Raccolto. Anche in senso fig. Incungiai, v. Raccogliere. At incungiau centu mous (pron. mour) de trigu (ha raccolto cento starelli di grano). Rinchiudersi, chiudersi. Est bivendu incungiau (vive chiuso in casa). Incungiau/ada, agg. Raccolto/a, rinchiuso/a. Incungiamentu, s. m. Isolamen- PAOLO PILLONCA to, volontario o coatto. Incungiau/ada, agg. Raccolto/a, rinchiuso/a in casa. Incurtzadura, s. f. Abbreviazione, accorciamento. Incurtzai, v. Accorciare, abbreviare. Su pantaloni fut longu e mi dd’apu fatu i. (i pantaloni erano lunghi e me li sono fatti accorciare), incurtza su caminu (prendi una strada più breve). Per dare un taglio a un dialogo fastidioso si ricorre all’espr. segai in curtzu (tagliare netto). Incurtzau/ada, agg. Accorciato/a. Indanimadura, s. f. Incoraggiamento. Indanimai, v. Incoraggiare, esortare. Chi no m’indànimat fradi miu e chini ’olis chi ddu facat (se non mi incoraggia mio fratello, chi vuoi che lo faccia). Indanimau/ada, agg. Incoraggiato, esortato/a. Indebbilitadura, s. f. Indebolimento. Usata la loc. avv. a i. Indebbilitai, v. Indebolire, rendere fiacco. Sa caglientura m’indebbilitat (la febbre mi fiacca). Vedi debbilitai e debbilesa. Indebbilitau/ada, agg. Fiaccato/a, indebolito/a. Sa maladia dd’at i. meda (la malattia l’ha molto indebolito). Vedi debbilitau/ada. Mancarìas. La parlata di Seui Indeghinò, avv. Altrimenti, in caso contrario. Indepidàisi, v. Indebitarsi. Indepidendusì est arrennéscïu a fàiri a erricu (ricorrendo ai prestiti è riuscito a diventare ricco). Nel giudizio comunitario è una situazione estrema da cui occorre uscire al più presto. Vedi dépidi. Indepidamentu, s. m. Indebitamento. Indepidau/ada, agg. Indebitato/a, carico/a di debiti. Inderetura, avv. Immediatamente, subito. Candu ddu lamu ndi ’enit i. (quando lo chiamo viene subito). Indicai, v. Insegnare, dare indicazioni, ammonire. Vedi inditai. Indicau/ada, agg. Indicato/a, ammonito/a, avvertito/a. Indìcu, s. m. Indicazione, insegnamento, avvertenza, monito. Su babbu ddi ’onat bonus indicus (il padre gli fornisce buone indicazioni). Segnale visibile. Innoi no nci biu i. perunu (qui non vedo alcun segnale). Dev. di indicai. Indignu/a, agg. Antipatico/a, insopportabile, intrattabile. Indimonïau/ada, s. e agg. Indemoniato/a, persona posseduta dal demonio. Indipendèntzïa, s. f. Indipendenza, autonomia. Inditadura, s. f. Indicazione, 237 suggerimento. Inditai, v. Indirizzare, suggerire, consigliare. Inditaddu ’eni, non siat chi si ddu-i perdat (consìglialo bene, in modo che non ci si perda) Inditau/ada, agg. Indirizzato/a, instradato/a, consigliato/a. Indìvïa, s. f. Indivia, verdura. Indonai, v. Fare i doni di rito, nei casi previsti dalla tradizione: battesimi, cresime, fidanzamenti ma non solo. Dd’at indonada (le ha fatto i regali dovuti), dónnïa ’orta chi ’enit a domu indonat sempir is pipius (tutte le volte che viene a casa mia fa regali ai bambini). Indonamentu, s. f. Donazione, regalo. Indonau/ada, agg. Destinatario/a di regali. Indoradura, s. f. Doratura, fregio dorato. Indorai, v. Rendere dorato. Nel lessico alimentare, pani indorau è il pane affettato, bagnato nel latte, successivamente immerso nell’uovo sbattuto e quindi fritto. Una volta terminata la frittura, il pane assume una tinta dorata. Indorau/ada, agg. Dorato/a. Indromiscadura, s. f. Assopimento, dormiveglia. Indromiscai(si), v. Assopire, assopirsi, essere in dormiveglia. Una tassigedda ’e binu ddu 238 ’ndromiscat (un sorso di vino lo assopisce). Indromiscau/ada, agg. Assopito/a, in dormiveglia. Mi paris mesu i. (mi sembri come in dormiveglia). Indùgliri, v. Piegare, curvare, abbassare. A i. sa schina no ddi pragit meda (non ama molto curvare la schiena). Anche nella forma rifl. nel senso fig. di: sottomettersi, umiliarsi. Ddi ’enit a maroglia a s’i. (è costretto, suo malgrado, a piegarsi). Frequente l’utilizzo sul piano traslato. Induglïu/a, agg. Chino/a, piegato/a, sottomesso/a. Indurcïai, v. Addolcire, rendere dolce. In senso reale e fig. Indurcïau/ada, agg. Addolcito/a. Indurtu/a, agg. Chino/a. Sin. di induglïu/a. Indùstrïa, s. f. Industria. Industrïali, agg. Industriale. Infatu, avv. Dopo. Tempus i. (qualche tempo dopo). Dietro. M’at postu i. (mi ha seguito, mi è venuto dietro). Infertura, s. f. Innesto. Vedi annestu, di superstrato. Infèrriri, v. Innestare. Candu infergiu una mata càstiu sèmpiri sa luna (quando innesto un albero tengo sempre conto della fase lunare). Toccare un luogo lontano PAOLO PILLONCA dopo qualche peripezia. Cichendu is brebeis chi nde dd’iant furau nc’est infertu in su sartu ’e Talana (cercando le pecore che gli erano state rubate è finito nel territorio di Talana). Inferru, s. m. Inferno. Per est. situazione grave, difficoltà estrema. Infertu/a, agg. Innestato/a, pervenuto/a. Infiladura, s. f. Introduzione del filo nella cruna dell’ago. In senso fig. la creatività di ciascun parlante lo impiega come meglio ritiene opportuno ed efficace. Infilai, v. Infilare. Indica sia l’azione di introdurre il filo nella cruna dell’ago sia, per est., ogni altra azione - lecita o illecita - che preveda una intromissione di persone o cose. Infilau/ada, agg. Infilato/a. Infinis, avv. Infine, in conclusione. Infoddinadura, s. f. Sporcizia, tinta proveniente da fuliggine. Infoddinai, v. Tingere di fuliggine. Vedi foddini. Infoddinau/ada, agg. Macchiato/a di fuliggine. Infogai, v. Infiammare, spingere, aizzare. Infogau/ada, agg. Infiammato/a, ardente. Inforrada, s. f. Infornata. Mancarìas. La parlata di Seui Inforrai, v. Infornare, mettere nel forno. Inforrau/ada, v. Infornato/a, messo/a al forno. Infrenadura, s. f. Imbrigliamento, reale e metaforico. Infrenai, v. Imbrigliare, mettere la briglia al cavallo. Infrenau/ada, agg. Munito/a di briglia, imbrigliato/a. Viva la loc. avv. a cüaddu i. (vedi alla lettera A). Infriscada, s. f. Rinfrescata. Infriscai, v. Rinfrescare. Detto delle bevande. Apu postu su ’inu a i., ho messo il vino a rinfrescare). Ma anche del tempo. Passau mesäustu infriscant is àiris (dopo la metà di agosto il tempo si mette al fresco). Infriscau/ada, agg. Rinfrescato/a. Infrissa, s. f. Piega, sgualcitura. Poneddu ’eni indeghinò su ’estiri s’infrissat (mettilo bene, altrimenti l’abito si sgualcisce). Anche nel senso di ruga. Portat sa faci prena ’e infrissas (ha il viso pieno di rughe). Infrissai, v. Sgualcire, provocare pieghe o rughe. Su ’estiri ti dd’as totu infrissau (hai completamente sgualcito il tuo abito). Rif. al naso vale storcere. Infrissat is càrigas (storce il naso). Infrissau/ada, agg. Pieno/a di rughe. Rif. agli abiti: sgualcito/a. Infrochitadura, s. f. Infiocchet- 239 tamento. Infrochitai, v. Infiocchettare, mettere i fiocchi. Infrochitau/ada, agg. Infiocchettato/a. Infromigadura, s. f. Formicolio. Infromigai(si), v. Provocare e/o provare formicolii in varie parti del corpo, specie mani e piedi. A bortas mi s’infròmigant is peis (talvolta sento un formicolio ai piedi). Infromigau/ada, agg. Informicolito/a. Portu una manu i. (ho dei formicolii ad una mano). Infrorèntzïa, s. f. Influenza. Infroridura, s. f. Fioritura. Infroriri, v. Fiorire. Detto delle piante e degli arbusti. S’armidda infrorit a primus de làmpadas (il timo fiorisce all’inizio di giugno). In tono scherzoso, vale anche: essere sul punto di prendere l’influenza. Mi parit ca tui puru ses infrorendu (mi sembra che anche tu stia per prendere l’influenza). Infrorìu/a, agg. Fiorito/a. Infrusadura, s. f. Intromissione veloce, anche a dispetto altrui. Pìlimu si nci fait a i. (Priamo è veloce nell’intromettersi). Infrusai(si), v. Intromettere rapidamente. Nce dd’at infrusau inderetura (lo ha subito messo in mezzo). Anche nella forma rifl. Chi bit cravongiu si nc’infrusat (se 240 vede una rissa vi si intromette). Infrusau/ada, agg. Intromesso/a. Infùndiri(si), v. Bagnare/bagnarsi. Infundi su pani (bagna il pane), piga su paracu chi nou t’infundis (prendi il parapioggia altrimenti ti bagnerai). Infurcai, v. Inforcare. Vedi furca. Infurcau/ada, agg. Inforcato/a. Infustu/a, agg. Bagnato/a. Part. pass. di infùndiri. Linu fut infustu cola-cola (Lino era fradicio di pioggia). Infustura, s. f. Bagno d’acqua piovana. Nd’at boddìu una grandu i. (si è preso un bel bagno). Ingamadura, s. f. Sistemazione di una musolina di legno in bocca ai capretti per iniziare a svezzarli. Ingamai, v. Mettere un’asticella lignea trasversalmente in bocca ai capretti legandola da ambo i lati alle corna per farli desistere dal poppare. È il primo passo verso lo svezzamento del bestiame destinato alla riproduzione. Ingamau/ada, agg. Sistemato/a con l’asticella lignea in bocca. Sempre rif. ai capretti da svezzare. Ingäungiada, s. f. Messa a punto e utilizzo del companatico. Ingäungiai, v. Aggiungere il companatico al pane. No iscìu e comenti ddu i. (non so quale companatico scegliere). In senso fig. PAOLO PILLONCA avere il superfluo. Ingäungiau/ada, agg. Accompagnato/a da companatico. Ingäungiu, s. m. Companatico. Teniaus un’orrogu ’e pani e una fita ’e lardu po i. (avevamo un pezzo di pane e una fetta di lardo come companatico). Ingenugài(si), v. Inginocchiarsi. Esiste, ma meno usata, la variante ingegunàisi, con metatesi tra terzultima e penultima sillaba. Vedi genugu. Ingenugau/ada, agg. Inginocchiato/a. Ingermigài(si), v. Riempirsi di vermi. Chi no dda càstïas sa castangia s’ingèrmigat (se non te ne prenderai cura, le castagne si riempiranno di vermi). Vedi bremi/’ermi. Ingermigau/ada, agg. Pieno/a di vermi. Ingestu, s. m. Smorfia, gestaccio. Ddi fait dònnïa i. (gli fa gestacci di tutti i tipi). Inghisciadura, s. f. Ingessatura. Inghisciai, v. Ingessare. Indica l’intervento ortopedico. Vedi ghisciu (gesso). Inghisciau/ada, agg. Ingessato/a. Inghisciu, s. m. Ingessatura. Sin. di inghisciadura. Ingiogassài(si), v. Aver molta voglia di giocare. Candu s’ingiogassat no ddu poderat nemus Mancarìas. La parlata di Seui (quando gli viene voglia di giocare non lo frena nessuno). Vedi giogu. Ingiogassau/ada, agg. Voglioso/a di giocare. De cantu est i. parit unu pipìu (giocare gli piace così tanto che sembra un bambino). Ingirïada, s. f. Aggiramento. Ingirïai, v. Circondare, fare il giro. In senso fig. tentare di raggirare il prossimo. Fut ingirïendudeddu ma cuddu dd’at cumpréndïu (tentava di raggirarlo, ma l’altro l’ha capito). Ingirïau/ada, agg. Circondato/a. Ingirïotai, v. Girare attorno a q.no o q.sa. Ingìrïu, s. m. Aggiramento, giro intorno. Usata la loc. avv. a i. Ingólliri, v. Portare con sé. S’ingollit su fosili (si porta appresso il fucile). Il part. pass. è ingortu. Ingordigiosu/a, agg. Ingordo/a, vorace. Ingortu/a, agg. Portato/a con sé. Ingraïada, s. f. Appesantimento. Ingraïai, v. Aggravare, appesantire. Is annus m’ingràïant sa carena (gli anni mi appesantiscono il corpo). Ingraïau/ada, agg. Appesantito/a. Ingrassadura, s. f. Ingrassaggio. Ingrassai, v. Ingrassare. Rif. alle persone che acquistano peso e volume e agli arnesi che hanno necessità di ingrassaggio e/o lubri- 241 ficazione. Ingrassau/ada, agg. Ingrassato/a. Ingringhillitadura, s. f. Attrazione forte. Viva la loc. a i. Ingringhillitai, v. Attirare fortemente, attrarre in modo speciale, stimolare, spingere a q.sa. M’ingringhillitat a provai una murra (mi sento stimolato a provare una partita di morra). Ingringhillitau/ada, agg. Attratto/a fortemente. Ingroghimentu, s. m. Ingiallimento. Ingroghiri, v. Ingiallire. Sa castangia ingroghit in s’atongiu (il castagno ingiallisce in autunno). Vedi grogu. Ingroghiu/a, agg. Ingiallito/a. Ingrugiadura, s. f. Incrocio. Ingrugiai, v. Incrociare. Ingrugiau/ada, agg. Incrociato/a. Ingrussada, s. f. Ingrossamento. Ingrussai(si), v. Ingrossare. S’errìu est ingrussendu (il fiume diventa grosso). Al rifl. vale arricchirsi, in denaro e beni immobili: Gisepu in custus annus est ingrussendusì a ispantu (Giuseppe in questi anni si sta arricchendo in modo straordinario). Ingrussau/ada, agg. Ingrossato/a. Inguddidadura, s. f. Riscaldamento. 242 Inguddidai, v. Riscaldare, far riscaldare al e/o sul fuoco. Inguddidamiddu cussu lati (riscaldami quel latte). Inguddidau/ada, agg. Riscaldato/a. Ingurdadura, s, f. Perdita del filo della lama. Ingurdai, v. Far perdere il filo alla lama di un coltello. Cust’arrasòia s’ingurdat (questo coltello ha una lama senza più filo). Ingurdu/a, agg. Senza filo di taglio. Cussa seguri est i. (quella scure ha perso il filo, non taglia più). Ingurtidura, s. f. Inghiottimento. Ingùrtiri, v. Inghiottire. No nci possu i. nudda (non riesco ad inghiottire nulla). Met. nel senso di credere a tutto: m’at contau una fàula ma no nce dd’apu ingùrtïa (mi ha raccontato una bugia ma non l’ho inghiottita). Ingùrtïu/a, agg. Inghiottito/a. Innadïada, s. f. Sculacciata. Ti tzacu duas innadïadas (ti rifilo due sculaccioni). Vedi nàdia. Innadïai, v. Dare sculaccioni. Ìnnidu/a, agg. Intatto/a. Usato per il terreno non ancora frequentato dal bestiame: su logu est ì. (il terreno non è stato ancora pascolato). In senso ir. e antifrastico, riferito alla donna, vale vergine, illibata. Insabonadura, s. f. Insaponatura. PAOLO PILLONCA Insabonai, v. Insaponare. Insabonau/ada, agg. Insaponato/a. Insacai, v. Insaccare, mettere in un sacco. Insacau/ada, agg. Insaccato/a. Insangüentadura, s. f. Insanguinamento. Vedi sànguni. Insangüentai(si), v. Insanguinare, macchiare/macchiarsi di sangue. Candu ’ocis un’angioni t’insangüentas (quando macelli un agnello ti macchi di sangue). Insangüentau/ada, agg. Insanguinato/a, sporco/a, macchiato/a di sangue. Inseddadura, s. f. Sellatura. Inseddai, v. Sellare. Insedda su cüaddu (metti la sella al cavallo). In senso fig. vale: ingannare il prossimo. A mei no m’inseddas (non mi freghi). Inseddau/ada, agg. Sellato/a. Met. frodato/a, imbrogliato/a. Inserradura, s. f. Reclusione. Inserrai, v. Rinchiudere. Cudda craba aresti d’apu inserrada in-dun’acorru (quella capra indocile l’ho rinchiusa in un recinto). Nella forma rifl. vale: rinchiudersi in casa. Vedi serrai. Inserrau/ada, agg. Rinchiuso/a. Inserru, s. m. Prigionia, isolamento anche domestico. Insidadura, s. f. Assunzione di Mancarìas. La parlata di Seui pessimo odore e sapore. Detto degli animali maschi in amore. Insidai(si)/intzidai(si), v. Avere pessimo odore e sapore. Detto della pelle e della carne degli animali maschi durante la stagione degli amori. Su sirboni fut in portamenta candu Fulanu dd’at bocìu ma de sa petza no at fatu a ndi papai ca fut insidada (il cinghiale era in amore quando Fulano l’ha ucciso ma non ne abbiamo potuto mangiare perché la carne era puzzolente). Insidau/ada, agg. Puzzolente, maleodorante. Insoru, agg. poss. Loro, indecl. Sempre posposto al s. cui si riferisce. Custas funt is terras i. (queste sono le loro terre). Intedì, avv. A giorni alterni. Intéri, prep. Tra, fra, nel frattempo. Candu sirboni at incrarau su runcu in su matoni ’e tùvara, interi su dd’àiri ’idu e sa fosilada no at passau mancu dus segundus (quando il cinghiale ha mostrato il grugno in un arbusto di erica, tra l’averlo visto e la fucilata non sono trascorsi neppure due secondi). Interrai, v. Dare sepoltura, seppellire. Tappa inevitabile nel cammino terreno di chi viene al mondo. Tuttora vivissima nell’uso l’espr. candu morgiu mi nc’interrant (quando morirò mi seppelliranno). 243 Interrau/ada, agg. Sepolto/a. Interrogai, v. Interrogare, rispondere all’interrogatorio. Uno dei casi in cui lo stesso verbo ha il duplice significato di compiere un’azione e di subirla. Dopo l’avvento della scuola dell’obbligo, il v. ha assunto anche il significato più prettamente italiano del gergo scolastico. Interrogau/ada, agg. Interrogato/a, sottoposto/a ad interrogatorio. Interrogatzïoni, s. f. Interrogazione a scuola. Interrogu, s. m. Interrogatorio davanti al magistrato. Interru/’nterru, s. m. Funerale, seppellimento. Una delle peggiori maledizioni della parlata di Seui è questa: ancu ti paghit su ’nterru su Cumunu (che il Comune ti paghi le spese del funerale). Dev. di interrai. Intessidura, s. f. Intessitura. In senso fig. trama, raggiro. Intéssiri, v. Intessere. Intéssïu/a, agg. Intessuto/a. Intessonnus, avv. In dormiveglia. Fui i. e candu mi nd’ant iscidau apu tìmïu (ero in dormiveglia e quando mi hanno svegliato ho avuto paura). Intingidura, s. f. Cambiamento di colore di un vestito o di una capigliatura. 244 Intìngiri, v. Tinteggiare, cambiare colore a un capo di abbigliamento o ai capelli. Maria s’at intintu is pilus (Maria si è tinta i capelli). Vedi tìngiri. Intinnìri(si), v. Essere di salute cagionevole, al confine di una patologia. Desueto. Intinnìu/a, s. e agg. Malaticcio/a, sul punto di ammalarsi seriamente. Mi parit ca ses mesu i. (mi sembra che tu stia per ammalarti). Intintu/a, agg. Tinteggiato/a. Da intìngiri. Intrada, s. f. Ingresso, entrata (di una casa, di una scuola, etc). Entrata, incasso, risorsa economica. Nel gergo dei pastori, il s. indica ciò che il gregge produce in una giornata. Intradura, s. f. Entratura, potere di conoscenza e di ascolto. Ndi tenit de intraduras, cussu (ne ha di conoscenze, quello). Acquisizione. Unu parenti de i. (un parente acquisito). Intrai, v. Entrare, introdursi in una casa. Non bolia mancu i. ma Linu m’at obbrigau (non volevo neppure entrare, ma Lino mi ha costretto). Iniziare un discorso che abbia poteri di persuasione. Franciscu no iscit i. (Francesco non riesce a trovare un buon esordio). Intrau/ada, agg. Entrato/a. Intregai, v. Affidare. Dd’intregu PAOLO PILLONCA is crabas (gli affiderò le capre). Quando si tratta di affidamento sospetto o addirittura demoniaco, allora il verbo diventa ellittico del compl. di termine. S’est intregau (ha venduto l’anima al diavolo). Intregau/ada, agg. Affidato/a. Intregu, s. m. Affidamento. Intremesidura, s. f. Intromissione. Intremésiri, v. Introdurre, intromettere. Al rifl. vale: intromettersi. Linu s’intremesit in donnia (Lino si intromette sempre). Intremésïu/a, agg. Intromesso. Intreu/a, agg. Intero/a, integro/a. Intristadura, s. f. Rattristamento. Intristai, v. Rattristare. Su tempus malu m’intristat (il maltempo mi rattrista). Anche nella forma rifl. S’intristat po nudda (si rattrista per un nonnulla). Intristau/ada, agg. Rattristato/a, intristito/a. Intruladura, s. f. Intorbidimento. Intrulài(si), v. Intorbidire. Cica ’e no i. s’abba (cerca di non intorbidire l’acqua). Custu ’inu est intrulendusì (questo vino sta diventando torbido). In senso fig., nella forma rifl. e in rif. alle persone, vale: irarsi, perdere la calma, etc. Candu s’intrulat est legiu Mancarìas. La parlata di Seui (quando si adira è da temere). Vedi trulu. Intrulau/ada, agg. Intorbidito/a. Intzalada, s. f. Insalata. Intzerrïai/tzerrïai, v. Chiamare a voce alta, richiamare. Molto meno usato di lamai. È assunzione recente, frutto degli scambi dovuti alla migrazione a Cagliari, iniziata nei primi anni del secolo scorso. Intzerrïau/ada, agg. Chiamato/a. Intzérrïu/tzérrïu, s. m. Grido, urlo. S’est pesau a i. (si è messo a gridare). Intzertai, v. Indovinare. Non contat a si ndi pesai a cöìdu, bisongiat a i. s’ora (non conta levarsi presto, occorre indovinare l’ora). Intzertau/ada, v. Indovinato/a. Intzidai(si), v. Vedi insidai(si) e derivati. Intzuddai, v. Far entrare la setola (tzudda, vedi) nella cruna dell’ago o inserirla a dovere nella punta dello spago del calzolaio. In senso fig., per lo più ir. e satirico: colpire nel segno, procurarsi. Franciscu s’intzuddat cogheras de spantu (Francesco si procura sbronze terribili). Intzuddau/ada, agg. Procurato/a, colpito/a nel segno. Intzugliai, v. Aizzare, scatenare contro. Dd’intzugliu is canis (gli aizzo i cani contro). Intzugliamentu, s. m. Provoca- 245 zione. Intzugliau/ada, agg. Aizzato/a. Intzunfïai, v. Piangere tentando di soffocare i singhiozzi. Intzùnfïu, s. m. Singhiozzo sordo. Maria fut prangendu a intzùnfïus (Maria piangeva singhiozzando sordamente). Intzurdadura, s. f. Assordamento. Intzurdai, v. Assordare. Custus sonus m’intzurdant (questi rumori mi assordano). Intzurdau/ada, agg. Reso/a sordo/a. Intzurpadura, s. f. Accecamento. Intzurpai, v. Accecare, rendere cieco. Intzurpau/ada, agg. Reso/a cieco/a. Ira, s. f. Scoppio improvviso di una precipitazione, aggravamento delle condizioni atmosferiche. Nd’at benìu a corpu un’ira ’e abba (all’improvviso si è scatenato un temporale). Mai usato nel senso che ha nella lingua italiana. Irbagliai, v. Sbagliare, cadere in errore. Apu irbagliau totu (ho sbagliato tutto), est raridadi chi non s’irbaglit (è raro che non si sbagli). Irbagliau/ada, agg. Sbagliato/a, errato/a. Irbagliu, s. m. Errore, sbaglio. Irbentïadura, s. f. Perdita di 246 profumo e sostanza. Irbentïai, v. Perdere profumo e sostanza. Tupaddu cussu fiascu, ca su ’inu s’irbéntïat (tappa quel fiasco, altrimenti il vino perde sostanza). In senso fig. perdere acume, accortezza, prontezza di riflessi. Est totu irbentïau (è completamente sventato). Smaltire la sbornia, tornare padrone di sé. Imoi est imbriagu ma giai at a i. (adesso è ubriaco, ma la smaltirà). Irbentïau/ada, agg. Sventato/a. Irbentugliadura, s. f. Sventolìo. Irbentugliai, v. Sventolare. Est irbentugliendu una bandela (sventola una bandiera). Prendere vento. Oi in su monti fortzis ddu irbentuglias (oggi in montagna forse prenderai un po’ di vento). Irbentugliau/ada, agg. Sventolato. Irbertulada, s. f. Caduta repentina e violenta, come di oggetto che cada da una bisaccia. Irbertuladura, s. f. Estrazione dalla bisaccia, cacciata, espuslsione. Irbertulai, v. Estrarre dalla bisaccia. In senso fig. gettar via. Nce ddu ’rbértulu atesu (lo butto via lontano). Irbertulau/ada, agg. Gettato/a via. Irbïancadura, s. f. Tintura di bianco. PAOLO PILLONCA Irbïancai, v. Sbiancare, rendere più bianco. Irbïancamentu, s. m. Sbiancamento. Irbïancau/ada, agg. Sbiancato/a. Irbirru, s. m. Martora. Irbregungiadura, s. f. Svergognamento. Irbregungiri, v. Svergognare. Dd’at irbregungìu in su prùbbicu (l’ha svergognato pubblicamente) Irbregungìu/a, agg. Spudorato/a, svergognato/a senza più remore. Vedi bregungia. Irbuddadura, s. f. Riduzione in bolletta, ritorno a zero, sconfitta su tutta la linea. Irbuddai, v. Ridurre in bolletta nei giochi che comportano puntate in denaro. Lett. lasciare senza pancia (budda, vedi). Nde dd’at irbuddau (l’ha lasciato in bolletta). Irbuddau/ada, agg. Lasciato/a senza un soldo. Irbüidadura, s. f. Svuotamento. Sin. di irbuïdamentu. Irbüidai, v. Vuotare, svuotare. Irbùïda cussa cubedda (vuota quel barilotto), dd’at irbuïdau sa ’omu (gli ha vuotato la casa). Irbuidamentu, s. m. Svuotamento. Sin. di irbuïdadura. Irbuïdau/ada, agg. Svuotato/a. Irbùïdu/a, agg. Vuoto/a. Irdarrastadori, s. m. Cercatore di Mancarìas. La parlata di Seui tracce. Era una vera e propria arte, articolatasi nei secoli per difendersi dagli abigeatari. Vi eccellevano gli abitanti di Ussàssai, ai quali i pastori seuesi derubati spesso si rivolgevano. Di loro si diceva che riuscissero a trovar tracce di passaggio di bestiame anche sulle pietre. Irdarrastadura, s. f. Ricerca di tracce di selvaggina e/o di bestiame rubato. Irdarrastai, v. Cercare tracce (arrastas) di selvaggina e/o bestiame rubato, una delle prime operazioni per neutralizzare un furto di bestiame. Inderetura at mòvïu sa cica, irdarrastendu furint in paricius (immediatamente è iniziata la ricerca, erano in molti a cercar tracce). Irdarrastau/ada, agg. Rintracciato/a. Irdarrellogiàisi, v. Andare fuori di testa (lett. non avere più orologio mentale). Irdarrellogiamentu, s. m. Uscita di senno, temporanea o defintiva. Irdarrellogiau/ada, agg. Incosciente, imprevedibile. Lett. senza orologio (mentale). Irdassadura, s. f. Rottura del filo di una lama. Viva la loc. a i. Irdassai, v. Rompere il filo di una lama (assa): un coltello, una roncola, una scure, etc. Custus ferrus de pudai funt irdassendusì (que- 247 ste cesoie per la tosatura stanno perdendo il filo). Irdassau/ada, agg. Senza più filo. Detto di lame, coltelli e oggetti da taglio. Irderrïadura, s. f. Privazione del cucciolo (rif. alle femmine di selvatici e domestici) da parte dell’uomo e dei predatori selvatici della terra (volpi) e dell’aria (aquila reale, falco). Usata la loc. a i. Irderrïai, v. Togliere agnelli, capretti e porcetti alle madri. Una craba irderrïada (una capra privata del suo capretto). Ma si usa anche nei confronti dell’azione degli animali predatori che possono togliere il cucciolo alla mufla. Cussa murva dd’at irderrïada s’àbbila (l’aquila reale ha tolto il mufloncino a quella mufla). Irderrïau/ada, agg. Privato/a del cucciolo. In cussu tagliu ’e crabas m’est partu de àiri ’idu unu pegus i. (in quel branco di capre mi è sembrato di aver visto un animale privato del suo cucciolo). Vedi érrïu/a. Irderrigadura, s. f. Lesione alla zona renale (lett. asportazione dei reni), dolore in quella sede. Usata la loc. a i. Irderrigai, v. Togliere forza alla zona renale, prostrare, abbattere (lett. asportare i reni). Su ’e segai linna m’irderrigat (il taglio della 248 legna mi prostra). Irderrigau/ada, agg. Privo/a di colpi di reni, per est. senza forze. Soi totu i. (mi sento completamente privo di forze). Irdogadura, s. f. Accecamento mediante cavatura degli occhi. Irdogai, v. Cavare gli occhi, accecare. Una bomba dd’at irdogau (una bomba gli ha cavato gli occhi). In senso fig. rovinare. Certus erricus irdogant sa genti (certi ricchi rovinano il prossimo). Irdogau/ada, agg. Privo/a degli occhi. Irdorigadura, s. f. Taglio di orecchie. Irdorigai, v. Tagliare le orecchie. Nelle imprecazioni: su buginu e/o sa giustissïa chi ti irdorighit (il boia e/o la giustizia che ti tagli le orecchie). Vedi origa. Irdorigau/ada, agg. Senza orecchie. Irdorrobbai, v. Svaligiare, saccheggiare una casa, un’auto, etc. Lett. portar via tutta la roba.Vedi orrobba. Irdorrobbatórïu, s. m. Saccheggio. Irdorrobbau/ada, agg. Svaligiato/a. Irdorrobberi, s. m. Saccheggiatore. Irdorrocadura, s. f. Demolizione. PAOLO PILLONCA Irdorrocai, v. Demolire, danneggiare gravemente. Irdorrocau/ada, agg. Demolito/a, sfasciato/a. Irdorrocu, s. m. Danneggiamento grave, sfascio. Anche in senso met. At fatu unu ’rdorrocu (ha provocato uno sfascio). Irdorrüamentu, s. m. Taglio dei rovi. Irdorrüai, v. Liberare dai rovi un terreno. Fui totu su mengianu irdorrüendu (per tutta la mattina ho tagliato rovi). Anche in senso fig. per dire del sollievo di una liberazione da impicci gravi. Irdorrüau/ada, agg. Liberato/a dai rovi. Irganàisi, v. Perdere l’entusiasmo e la voglia di fare. Vedi gana. Irganamentu, s. m. Perdita di entusiasmo e di voglia di fare. Svogliatezza. Irganau/ada, agg. Senza più entusiasmo né voglia di fare, svogliato/a. Irgannadorgiu, s. m. Scannatoio. Irgannadura, s. f. Sistema di macellazione che prevede di scannare il bestiame. Irgannai, v. Scannare. Rif. agli agnelli e capretti ma anche all’uomo. Dd’at irgannau coment’e un’angioni (l’ha scannato come un agnello). Mancarìas. La parlata di Seui Irgannau/ada, agg. Scannato/a. Irgüastai, v. Mettere fuori uso, guastare. Irgüastau/ada, agg. Messo/a fuori uso, guastato/a. Irgüastu, s. m. Guasto, messa fuori uso, panna. Lüisu at fatu i. cun su tratori (Luigi ha avuto un guasto con il trattore). Irgüastu/a, s. e agg. Rovinato/a, handicappato/a dalla nascita. Viene usato anche per indicare un superdotato sessualmente: est i. Irgùbbïa, s. f. Sgorbia, attrezzo degli intagliatori su legno. Gergale dei falegnami. Irgubbïadura, s. f. Lavoro con la sgorbia. Irgubbïai, v. Lavorare di sgorbia. Irgubbïau/ada, agg. Trattato/a con la sgorbia. Irliscinada/illiscinada, s. f. Scivolata Irliscinadura/illiscinadura, s. f. Scivolamento. Quasi sin. di irlìscinu. Irliscinai/ illiscinai, v. Scivolare. Irliscinau/ada, agg. Scivolato/a. Irliscinosu/a, agg. Scivoloso/a. Irlìscinu/illìscinu, s. m. Scivolata. Dónnïa tanti ferit unu i. (ogni tanto incappa in una scivolata). Sin. di irliscinada. Irmamadura, s. f. Liberazione della vite dai succhioni. 249 Irmamai, v. Togliere i succhioni alla vite in modo da lasciare a ciascun ceppo solo la quantità giusta dei grappoli da portare a maturazione senza sacrificare la piantina. Soi irmamendu sa ’ingia (sto procedendo a liberare i ceppi dai succhioni). Irmamau/irmamada, agg. Liberato/a dai succhioni. Irmengüadura, s. f. Diminuzione, riduzione, calo. Irmengüai, v. Diminuire, ridurre, calare. Soi meledendu de i. is crabas (sto pensando di ridurre le capre). Irmengüau/ada, agg. Diminuito/a, ridotto/a. Irmerdada, s. f. Smerdata, riduzione a più miti consigli. Irmerdai, v. Smerdare. In senso fig. sbugiardare, svergognare. Irmerdau/ada, agg. Sbugiardato/a, svergognato/a. Irmesadura, s. f. Riduzione a metà, dimezzamento. Candu ddi naras unu prétzïu fait a i. (quando gli proponi un prezzo te lo dimezza). Irmesai, v. Dimezzare, ridurre a metà. Dd’at nau ca dd’irmesat sa paga (gli ha detto che gli dimezzerà il salario). Irmesau/ada, agg. Dimezzato/a. Irmïoddadura, s. f. Smidollamento. 250 Irmïoddai, v. Togliere il midollo. Met. rendere impotente. Irmïoddau/ada, agg. Smidollato/a. Funge anche da s. In senso fig. persona senza carattere, che si rassegna alle decisioni altrui senza ribellarsi. Irmoladorgiu, s. m. Luogo scosceso e pericoloso (lett. in cui si rischia di rompersi l’osso del collo, sa mola ’e su sugu). Irmolai(si), v. Rompere/rompersi l’osso del collo. Più in generale, procurarsi fratture multiple. Irmolau/ada, agg. Con il collo fratturato, politraumatizzato/a. Irmorimentu, s. m. Spegnimento. Irmòrriri, v. Spegnere. Rif. al fuoco e alla luce elettrica: cussu fogu mi parit ch’est irmorendusindi (mi sembra che quel fuoco stia per spegnersi), irmorindedda cussa lampadina (spegni quella lampadina). Vedi studai. Irmortu/a, agg. Spento/a. Detto del fuoco e delle lampade. Irmurdegai, v. Liberare il terreno dal cisto. Irmurdegamentu, s. m. Bonifica del terreno attraverso l’eliminazione del cisto. Irmurdegau/ada, agg. Libero/a dal cisto. PAOLO PILLONCA Irmurrada, s. f. Percossa diretta in bocca, lett. sul muso (murru). In senso fig. vale: risposta dura. Irmurradura, s. f. L’effetto del colpo sul muso. M’at iscutu e su ciafu m’est fertu a i. (mi ha colpito e il suo schiaffo mi è arrivato sul muso). Irmurrai, v. Colpire sul muso. In senso fig. replicare duramente. Irmurrau/ada, agg. Colpito/a sul muso, contestato/a duramente. Irmurzai, v. Far colazione. Chini cenat a binu irmurzat a abba (chi beve molto vino a cena farà colazione con l’acqua). Irmurzau/ada, agg. Rifocillato/a con la colazione. Irmurzu, s. m. Colazione, spuntino. Irmuscïadura, s. f. Pronunzia lieve, per sussurri. Irmuscïai, v. Sussurrare, fiatare, parlare debolmente. Candu si dd’apu nau no at mancu irmuscïau (quando gliel’ho detto non ha nemmeno fiatato). Irmùscïu, s. m. Sussurro, accenno di risposta. Irvïadura, s. f. Svitamento. Irvïai, v. Svitare. Contr. di viai, vitare, fissare una vite. Irvïau/ada, agg. Svitato/a. Anche in senso fig. Irvirtudai, v. Levare la virtù, to- Mancarìas. La parlata di Seui gliere i poteri. Sa luna prena irvirtudat dónnïa frori (il plenilunio toglie i poteri a tutti i fiori), se-condo un antico convincimento popolare oggi confermato da ri-cerche specifiche nel campo delle erbe medicamentose che non debbono essere mai raccolte durante il plenilunio, pena la totale inefficacia. Ma il v. può essere riferito anche all’uomo, soprattutto per ciò che attiene alla virilità. Unu préidi dd’iat fatu una maìa e finas a candu non si nde dd’at isconciada Giüanni fut irvirtudau e non fut arrennéscïu a tocai sa pobidda (un prete gli aveva preparato una ”fattura” e fino a quando non si decise a disfargliela Giovanni rimase impotente e non riuscì ad avere rapporti con la moglie). Irvirtudamentu, s. m. Privazione di virtù e/o potere. Irvirtudau/ada, agg. Privo/a di virtù in seguito ad eventi contrari, impotente. Isca, s. f. Terreno umido. Presente nella toponomastica. Iscadenai, v. Scatenare. Vedi scadenai e derivati. Iscambadura, s. f. Debolezza di gambe. Iscambai/scambai, v. Tagliare, indebolire le gambe. Vedi scambai 251 e derivati. Iscapai/scapai, v. Liberare, sospendere. Trasudare.Vedi scapai e derivati. Iscarada, s. f. Quantità sproporzionata. A i. (a dismisura). Benigno Deplano usa questa espressione in una poesia citata. Vedi acronnotu. Ischina/schina, s. f. Schiena, portamento. Viva la loc. a i. ’ereta. (con la schiena dritta, ossia con grande dignità). Vedi schina. Isci, escl. Stai fermo. Invito rivolto al bestiame domato e/o aggiogato. Isciaborïadura, s. f. Perdita di sapore. Isciaborïai(si), v. Togliere, perdere il sapore. Chi ddi ’etas abba meda s’isciabórïat (se gli metti molta acqua perde il sapore). Isciaborïau/ada, agg. Privo/a di sapore. Iscorrutai (si), v. Levare, levarsi il lutto. Vedi corrutu. Iscorrutamentu, s. m. Liberazione dal lutto, conclusione del periodo di lutto e cambiamento di colore nell’abbigliamento. Iscorrutau/ada, agg. Senza più lutto. Iscrabistadura, s. f. Eliminazione della cavezza. Iscrabistai, v. Togliere la cavezza. Vedi crabistu. 252 Iscrabistau/ada, agg. Senza cavezza. In senso fig. vale: senza freni, scatenato, sregolato, libertino, dissoluto. Est fendu una vida iscrabistada (conduce una vita sregolata). Iscramïai, v. Gridare debolmente e in tono lamentevole. Iscramïau/ada, agg. Gridato/a, lamentato/a. Iscràmïu, s. m. Grido piagnucoloso. Rif. a bambini e piccoli animali, domestici e selvatici. Iscriri/scriri, v. Scrivere. Per il v. e i suoi derivati vedi scriri. Iscrófïu/a, agg. Trovato/a, casualmente o dopo ricerca. Part. pass. di iscròiri. Iscröidura, s. f. Rinvenimento casuale o voluto. Iscròiri, v. Trovare in maniera difficoltosa o casuale. Iscùdiri/scùdiri, v. Picchiare, scuotere far cadere. Per la fraseologia vedi scùdiri. Iscusa, s. f. Scusa, pretesto. Iscusai/scusai, v. Perdonare, giustificare, scusare. Iscusi (a), avv. Nascostamente, di nascosto. Sempre preceduto dalla prep. a. Ginu fait totu a i. (Gino fa tutto di nascosto). Iscuta/scuta, s. f. Colpo, percossa. Vedi scuta. Iscuta/scuta, s. f. Breve interval- PAOLO PILLONCA lo di tempo. Vedi scuta. Iscutu/a, agg. Picchiato/a, scosso/a. Part pass. di iscùdiri/scùdiri. Isfäinadura, s. f. Negligenza, pigrizia, disoccupazione. Isfäinàisi, v. Darsi alla negligenza e alla disoccupazione volontaria. Vedi fäina. Isfäinau/ada, agg. Inoperoso/a, disoccupato/a. Isfïudadura, s. f. Entrata in vedovanza. Isfïudai/iscïudai, v. Diventare vedovo/a, entrare in vedovanza. Isfïudau/ada, agg. Diventato/a vedovo/a. Isfrisciuradura, s. f. Sventramento, ferita nella zona pettoraleaddominale. Isfrisciurai, v. Sventrare, togliere le interiora. Vedi frisciura e. Isfrisciurau/ada, agg. Sventrato/a. Ispagliadura, s. f. Spagliatura. Vanterìa. Ispagliai/spagliai, v. Spagliare, liberare il grano dalla paglia. In senso fig. gloriarsi, vantarsi, essere troppo loquace. Candu cumentzat a i. giai est cosa ’e ddu sustènniri (quando inizia a vantarsi diventa insopportabile). Vedi paglieri. Ispagliau/ada, agg. Spagliato/a, senza più paglia. Isparessidura, s. f. Scomparsa, Mancarìas. La parlata di Seui sparizione. Isparèssiri, v. Scomparire, sparire. Vedi sparéssiri. Isparéssïu/a, agg. Sparito/a. Vedi sparéssïu. Ispassïai, v. Giocare. Ma quando ha per compl. ogg. il s. pl. castangias (gli alberi di castagno) indica le ultime operazioni di raccolta, quelle che iniziano ai primi di novembre e sono libere per chiunque, finito il periodo riservato ai proprietari dei castagneti. Ispassïài(si), v. Divertire/divertirsi. Vedi spassïai(si). Ispassïosu/a, agg. Divertente. Vedi spassïosu. Ispàssïu, s.m. Divertimento. Vedi spàssïu. Ispeddïai, v. Desiderare ardentemente. Viva la loc. a ispeddìu (vedi gli esempi alla voce A). Ispeddïau/ada, agg. Desiderato/a ardentemente. Ispeddìu, s. m. Desiderio ardente, da non stare nella pelle. Vedi peddi. Isperdissïai, v. Dilapidare, sperperare, disperdere un bene. Vedi sperdissïai. Isperdissïau/ada, agg. Prodigo/a, dalle mani bucate. Vedi sperdissïau. Isperdìssïu, s. m. Prodigalità eccessiva, sperpero. Viva la loc. avv. 253 a i. (attraverso lo sperpero). Vedi sperdìssïu. Isperradura/sperradura, s. f. Divisione a metà. Isperrai/sperrai, v. Dividere a metà. Mi tocat a ddu s. (lo dovrò dividere in due). Isperrau/ada, agg. Spaccato/a, diviso/a metà. Vedi Perra. Isprugadura/sprugadura, s. f. Sbucciatura. Isprugai/sprugai, v. Sbucciare. In senso fig. risolvere q.sa. Per la fraseologia vedi sprugai. Isprugau/sprugau/ada, agg. Sbucciato/a. Risolto/a. Vedi sprugau. Issoradura, s. f. Eliminazione del siero dal formaggio. Issorai, v. Togliere il siero al formaggio durante le ultime fasi della lavorazione della forma. Vedi soru. Issorau/ada, agg. Liberato/a dal siero. Issu/a, pron. pers. Lei. Anche il voi di una volta. Issu e ita ndi narat? (lei cosa ne dice?). Istadi, s. f. Estate. Il tempo di minor lavoro dei pastori: in pratica, va dalla tosatura all’imminenza delle prime nascite di agnelli e capretti. È la stagione in cui i contatti si fanno più frequenti e si socializza meglio negli incontri conviviali campestri. È anche il 254 tempo delle feste religiose e civili e dei ritorni in montagna degli emigrati all’estero e dei seuesi che vivono e lavorano a Cagliari. Istadu, s. m. Stato, condizione. Antoni est a istadu legiu (Antonio è in condizioni pessime). Quando è privo di attributo, il s. indica una situazione negativa. Ad es., se una donna verifica il mancato riassetto di un ambiente di solito dice: a nc’est a i. in cust’aposentu (in quali condizioni è questa stanza). Istafa/stafa, s. f. Staffa. Istentai/stentai, v. Ritardare, arrivare in ritardo. Vedi stentai. Istentau/istentada, agg. Ritardato/a. Istentosu/a, agg. Lungo da compiere. Est unu trabbagliu i. (è un lavoro lungo). Istentu/stentu, s. m. Ritardo. Vedi stentu. Presente fra i soprannomi. Isterrimenta/sterrimenta, s. f. Stesura. Rif. ai prologhi di poesia e di canto. Isterrimentu/sterrimentu, s. m. Preparazione di un giaciglio. Istérriri/stérriri, v. Stendere. Preparare un giaciglio o un letto sistemando la base di appoggio. Vedi stèrriri. Istérrïu/a, agg. Steso/a. Istertzai/stertzai, v. Sterzare, PAOLO PILLONCA cambiare direzione al veicolo in marcia. Gigi pighendu sa curva istertzat totu a corpu (Gigi nell’affrontare una curva sterza di colpo). In questa accezione il v. è di uso relativamente recente, ma lo si impiegava e lo si impiega di più nel significato di: distinguere, discernere, valutare. Linu no istertzat una craba de un’’erbei (Lino non distingue una capra da una pecora). Istertzau/ada, agg. Distinto/a, separato/a. Istertzu, s. m. Sterzo, sterzata. Istëuladura/stëuladura, s. f. Stegolatura. Vedi stëuladura. Istëulai/stëulai, v. Togliere le tegole. Vedi stëulai. Istëulau/ada, agg. Dissennato. Vedi stëulau. Istiddïadura, s. f. Gocciolamento. Indica anche il completamento dell’arrosto allo spiedo quando si fanno cadere sulla carne gocciole roventi di lardo fuso. Istiddïai/stiddïai, v. Gocciolare. Rif. ai rubinetti difettosi che lasciano gocciolare acqua. Spruzzare gocce su alimenti, come l’olio sul pane carasau etc. Istiddiau/ada, agg. Gocciolato/a. Si usa soprattutto per indicare la carne sottoposta a istiddïadura. Istiddìu/stiddìu, s. n. Goccia. Vedi stiddìu. Mancarìas. La parlata di Seui Istrina/strina, s. f. Regalo, dono. Istrinai/strinai, v. Regalare. Vedi strinai. Istrossa/strossa, s. f. Strozzatura, pioggia torrenziale. Vedi strossa. Istrumbuladura, s. f. Pungolatura. Istrumbulai, v. Pungolare. Vedi strumbulai. Istrumbulau/ada, agg. Pungolato/a. Istrùmbulu, s. m. Pungolo. Vedi strùmbulu. Istrumpa, s. f. Antica lotta sarda fra due contendenti per volta regolata da norme precise. Ci si afferra alla cintola e vince chi atterra l’avversario. Vedi strumpa. Istrumpadura, s. f. Atterramento. Istrumpai, v. Atterrare, gettare a terra, travolgere. Vedi strumpai. Istruncadura, s. f. Scorciatoia. Po cöidai apu fatu a i. (per fare più in fretta ho preso una scorciatoia). Vedi struncadura. Istruncai, v. Tagliare, tagliar corto, scegliere la strada più breve. Vedi struncai. Istruncau/ada, agg. Ridotto/a, abbreviato/a. Istudai/studai, v. Spegnere. Attualmente meno usato di irmòrriri. Vedi studai. Istudau/ada, agg. Spento/a. Anche in senso fig. di persona senza 255 più entuasiasmi. Vedi studau. Isvirtudai, v. Togliere i poteri, privare della virtù. Vedi irvirtudai. 256 PAOLO PILLONCA L Labai, v. Guardare, vedere. Lo si usa quasi escl. nelle avvertenze. Labaddu (eccolo). L’esortativo laba (guarda) è spesso oggetto di apocope (la’). Nelle esortazioni: la’ ca orruis (guarda che cadi), la’ ca funt erribbendu, (guarda che stanno per arrivare), etc. Làcana, s. f. Confine. Generalmente indica il limite tra un territorio comunale e un altro. Si usa anche in senso met. per dire del limite naturale che ciascuna azione ha in sé dalla norma non scritta del codice comportamentale e da quella del buon senso. Lacanai, v. Segnare il confine tra terroritori appartenenti a Comuni diversi. Su sartu ’e Seui làcanat cun Ulassa in s’errìu (il fiume segna il confine tra il territorio di Seui e quello di Ulàssai). Lacananti, s. m. Confinante. Indica un cittadino di un paese limitrofo o un vicino di pascolo. Lachitu, s. m. Contenitore di piccole dimensioni, in pietra o legno. Funge da mangiatoia e abbeveratoio. Vedi allachitai. Lacu, s. m. Vasca in pietra o cemento per raccogliere l’acqua da destinare agli orti. Lacu ’e mola definisce invece il cassone ligneo della vecchia macina asinaria. Ladàrïa, s. f. Larghezza. Vedi longàrïa. Ladu/a, agg. Largo/a. Tuttora molto usato il prov. in peddi agliena corria l. (la pelle altrui si taglia a corregge larghe). Frequente anche l’espr. cantu longu l. (lungo e largo alla stessa maniera), sia per indicare persona molto bassa e grassa sia per dire di una caduta improvvisa e scomposta. Ladus, s. m. Lato di un animale macellato. Voce gergale dei pastori. Vedi illadarai. Ladus de frutu, s. m. Accordo di compartecipazione alla resa. Una delle forme più frequenti di contratto pastorale fra i proprietari di bestiame e i conduttori. Vedi la loc. a l. d. f. nelle esemplificazioni sotto la lettera A. Läinosu/a, agg. Deperito/a, smagrito/a, in rif. ad uomini e animali. Nella parlata di Seui, diver- Mancarìas. La parlata di Seui samente da altre di paesi vicini, l’agg. non assume mai il senso di sporco, schifoso etc. Né esiste il s. läina, come sin. di escremento. Lamada, s. f. Chiamata, avviso. Lamai, v. Chiamare. A voce o per telefono. Fui lamendudì (ti stavo chiamando), ti lamu custu merì (ti chiamo stasera). Lamau/lamada, agg. Chiamato/a, avvisato/a. Làmbriga, s. f. Lacrima. Lambrigai, v. Lacrimare, piangere. Lambrigamentu, s. m. Lacrimazione. Lambrigau/ada, agg. Lacrimato/a, pianto/a, rimpianto/a. Lambrigosu/a, agg. Lacrimoso/a. Lamenta, s. f. Lamentazione, lamento, protesta. Lamentai, v. Protestare, lamentare. Ma in questa accezione, soprattutto nella forma rifl. è tuttora largamente preferito chesciàisi. Lamentau/ada, agg. Lamentato/a. Làmpadas, s. m. Giugno. Lampai, v. Lampeggiare, scatenarsi dei fulmini. Può essere accompagnato, a seconda dei casi, da entrambi gli ausiliari. Est lampendu totu su mengianu (è da stamattina che si vedono fulmini), at lampau meda (sono caduti molti fulmini). 257 Lampalugi, s. m. Primo bagliore mattutino, chiaroscuro, balenìo, lampeggio. L’espr. biri a l. indica una visione limitata e come offuscata dalla scarsezza della luce. Esiste anche la variante int’e lampu e lugi nel medesimo significato. Lampamentu, s. m. Lampeggio. Lampau/ada, agg. Lampeggiato/a. Lampu, s. m. Lampo, fulmine. S’àiri est prena ’e lampus (l’aria è piena di fulmini). Usato come esclamazione e imprecazione (l. ddi calit, sia fulminato). Lana, s. f. Lana. Delle pecore, soprattutto. Ma come dev. di allanai, vale muffa. Nel gergo dell’eros, la peluria del pube femminile. Lana becia (lana vecchia) è l’epiteto di chi non sottilizza sull’età delle donne da conquistare. Questa espr. figura nei soprannomi. Lanarrangiu, s. f. Ragnatela. Lett. lana di ragno. Vedi arrangiolu e arrangiu. Landi, s. m. Ghianda. Usato anche come collettivo. Ddu at meda l. ocannu in padenti (quest’anno la foresta è particolarmente ricca di ghiande). Langiu/ a, agg. Magro/a. Per est. lo si riferisce anche a magrezze metaforiche sulla inconsistenza di 258 certi modi di argomentare. Cussa ’essida fut langia (quell’uscita era magra). Làntïa, s. f. Lampada, lanterna funeraria. Lantïoni, s. m. Lampione. Lett. grande lanterna. Figura nei soprannomi. Lantzada, s. f. Fascia larga in cotone con cui fino ad una trentina di anni fa si avvolgeva il dorso dei neonati. Lantzoru/ lentzoru, s. m. Lenzuolo. Larderi, s. m. Striscia cospicua di lardo che si separa dalla carne nei giorni successivi all’uccisione dei maiali per essere salata, conservata e consumata nei mesi seguenti fino alla provvista dell’inverno appresso. Lardu, s. m. Lardo. Indica soprattutto il lardo del maiale che dopo la salagione rappresentava una delle risorse della cucina rustica di una volta. Ancora molto usata l’immagine che l. in sali (come il lardo tra il sale). Per est. e in senso ir. si può riferire anche all’uomo. Ndi portas de l. (ne hai di lardo, sei molto ingrassato). Largàrïa, s. f. Larghezza. Largu/a, agg. Largo/a, vasto/a. Lascu/a, agg. Afflosciato/a, largo/a, sfilacciato/a. PAOLO PILLONCA Lassai, v. Lasciare, trascurare, abbandonare. Ddu lassu ’e sèi (lo lascio perdere), non lassu a nemus (non abbandono nessuno). Prestare. Mi ddu lassas su cüaddu? (me lo presti il tuo cavallo?). Vendere trattando sul prezzo. Mi dd’at lassau a baratu (me lo ha venduto a prezzo scontato). Lassau/ada, agg. Lasciato/a, abbandonato/a. Viva l’espressione fatu e l. per dire di uno che non ha migliorato affatto. Lassu, s. m. Lacciolo, trappola per piccoli animali. Làstima, s. f. Commiserazione, pietà, compassione. Est una l. a ddu biri (il vederlo fa compassione). Molto usato in due esclamazioni di segno opposto: l. (che peccato) e ita l. (ben gli sta), quando si parla di una punizione meritata. Làstimai, v. Commiserare, aver pietà. Ddu làstimat sa ’idda intrea (lo commisera il paese intero). Lastimau/ada, agg. Commiserato/a. Lastimosu/a, agg. Compassionevole, di animo sensibile. Lati, s. m. Latte. Della mamma che allatta il bambino e degli animali che si mungono (capre, pecore e vacche). Ma anche il liquido lattiginoso come il succo dell’euforbia Mancarìas. La parlata di Seui (lati ’e lua). Vedi allatai e lua. Làtïa, s. f. Lattuga. Latranga, s. f. Sottocoda, parte della sella, ora praticamente negletta e messa fuori uso. In senso fig. persona noiosa. Latrangosu/a, s. e agg. Attaccabottoni. Läudai, v. Lodare, riconoscere meriti. Läudatzïoni, s. f. Làude. Läudau/ada, agg. Lodato/a riconosciuto/a meritevole. Läuéru, s. m. Alloro (laurus nobilis). L’albero poetico per eccellenza ha un uso più prosaico nella vita comunitaria: le sue foglie si utilizzano per tisane e decotti, oltre che per aromatizzare salse e zuppe. Läuneddas, s. f. Antichissimo strumento musicale a tre canne tumbu, mancosa e mancosedda -, patrimonio millenario venuto a noi come per un prodigio dalle nebbie della preistoria. Làvara, s. f. Labbro. Al plurale is lavras, con caduta della a interconsonantica. Lavaredda, s. f. Piccolo labbro. Lea, s. f. Grumo. Di sangue, in genere (una l. ’e sànguni). Lëai/lïai, v. Prendere. Vedi lïai. Lebïesa, s. f. Leggerezza. Lébïu/a, agg. Leggero/a, agile. Vedi illebïai. 259 Legiori, s. m. Bruttezza. Legiu/a, agg. Brutto/a, detto di persone e animali. Quasi un luogo comune, ormai, la similitudine l. che cani (brutto come un cane), l. che-i s’annada mala (brutto come la cattiva annata). Vedi illegiai. Lèi, s. f. Legge. Chi est l. depit éssiri l. po totus (se è legge deve essere legge valida per tutti). Pres. nella toponomastica per la collina e il nuraghe omonimi nella parte inferiore delle terre comunali. Lénïa, s. f. Linea ferroviaria. Peri l., lungo la ferrovia. Lentina, s. f. Avvisaglia di pioggia a gocce di solito piccole e sempre rade, spruzzo di acqua piovana. Usato il dim. lentinedda (pioggerellina). Lentinada, s. f. Pioggerella, spruzzata d’acqua. At fatu una l. ma at sentzau inderetura (è venuto giù un inizio di pioggia ma ha subito smesso). Lentinai, v. Iniziare a piovere. Est lentinendu, inizia a piovere. Lentinau/ada, Spruzzato/a. Lentinedda, s. f. Primissimo annuncio di pioggia, a gocce rade. Lentori, s. m. Rugiada. Desueto. Vedi allentorai. Lentu/a, agg. Lento/a, poco sveglio. Lentza, s. f. Lenza. Sia quella del 260 pescatore sia quella del muratore. Lenu/a, agg. Lieve, lento, leggero. Cand’est erribbau a domu sua, Linu fut a brenti l. (quando è arrivato a casa sua, Lino aveva lo stomaco leggero). Lepa, s. f. Coltello a serramanico costruito a regola d’arte. Lèpi-lèpi, loc. avv. Sul punto di chiudersi per il sonno. Si tratta di loc. scherzosa in rif. precipuo agli occhi di un bambino o di un dormiglione. Lepuciu, s. m. Coltello a serramanico di piccola dimensione e di scarsa qualità. Se è piccolissimo si chiama lepuceddu. Pres. nei soprannomi. Lepureddu, s. m. Leprotto. Lepurinu/a, agg. Dal colore della lepre, simile alla lepre. Lépuri, s. m. Lepre (lepus mediterraneus). Pres. in un toponimo, Su Pranu de is lépuris (il pianoro delle lepri), appena sotto il nuraghe di Ardasai, a circa mille metri di quota. Lepuritanu, s. m. Ciclamino. Lestresa, s. f. Sveltezza. Lestru/a, agg. Svelto/a, veloce. La loc. avv. a l. significa: presto, velocemente. Létïa, s. f. Catafalco. Una delle maledizioni più terribili che si registrino nella parlata di Seui si PAOLO PILLONCA riferisce proprio a questo s. Ancu ti pèdanta su ’estiri ’e sa l. (per te chiedano alla carità del paese il vestito per il catafalco). Letu, s. m. Letto. Levadora, s. f. Levatrice, detta anche mäista ’e partu. Levanti, s. m. Levante, oriente. Lïai/lëai, v. Prendere, esigere. Po unu trabaglieddu ’e mes’ora ndi leat binti éurus (per un lavoretto di mezz’ora prende venti euro). Rubare. Is porceddus nde ddus at lïaus cuddu strangiu de s’atra ’orta (i maialetti li ha rubati quel forestiero dell’altra volta). Libba, s. f. Libbra, antica misura di peso corrispondente a 400 grammi, l’equivalente di dodici once. Vedi untza. Libbertadi, s. f. Libertà. Libbertadura, s. f. Liberazione, riordino. Libbertai/illibbertai, v. Liberare, vuotare, riordinare. Imoi illibbertaus sa cogina (ora riordiniamo la cucina). Libbertau/ada, agg. Liberato/a, vuotato/a, riodinato/a, ripulito/a. Usata anche la variante libbertu/illibbertu. Libbureddu, s. m. Opuscolo, piccolo libro, librino. Libburetu, s. m. Libretto, il quaderno nero su cui i negozianti Mancarìas. La parlata di Seui segnavano il debito di chi acquistava a credito e sistemava tutto alla fine di ogni mese o anche con altre scadenze. Lìbburu, s. m. Libro. Liceu, s. m. Liceo. Licori, s. m. Liquore. Il s. si usa anche quando si vuole elogiare un vino buono per davvero: est unu l. (è un liquore). Lidigori, s. m. Livido. Soi orrutu e m’apu fatu unu l. mannu (sono caduto e mi sono procurato un grosso livido).Vedi allidigorai. Ligérïu/a, leggero/a. Rif. al vino e alle bevande poco alcoliche. Lìgiri, v. Leggere. Il part. pass. è lìgïu. Lilla, s.f. Pene. Termine met. giocoso. Pres. nei soprannomi. Esiste la variante lillìa. Vedi anche pica. Lillu, s. m. Giglio. Usato in senso antifrastico quando si vuole indicare una persona poco bella e/o corretta. Giai ses unu l. bellu (sei proprio un bel giglio). Lima, s. f. Lima. Limadura, s. f. Limatura. Limai, v. Limare. Limau/ada, agg. Limato/a. Pres. nei soprannomi al maschile. Limba, s. f. Lingua. Sia l’organo della bocca di uomini e animali, sia il complesso di parole e suoni 261 che costituiscono il patrimonio genetico di un popolo e ne esprimono lo spirito profondo nei suoi principali valori di riferimento del lavoro, della resistenza agli imprevisti della vita, della giustizia, della solidarietà, della lealtà, dell’onore e della parola virtuosa. In senso fig. questo s. viene usato a definire chi si sa difendere molto bene a parole: bella l. portas (hai proprio una bella lingua) e chi dice pane al pane: arratza ’e l (che razza di lingua). Uno che non governa la comunicazione e si fa trascinare dalla furia verbale del momento è definito illimbau, lett. senza lingua. Limbassa, s. f. Batacchio osseo di un campanaccio. Limbassu, s. m. Acetosella (Rumex acetosella), pianta erbacea somigliante al trifoglio, di sapore acido, della famiglia delle oxalidacee: se ne estrae il sale di acetosella, impiegato in tintoria e come smacchiatore di ruggine e inchiostro. Limbicadura, s. f. Distillazione. Limbicai, v. Distillare (acquavite dalle vinacce). Limbicheri, s. m. Distillatore, amante di alambicchi e, dunque, di acquavite. Per est. beone, alcolista. 262 Limbicu, s. m. Alambicco. Limbudu/a, agg. Linguacciuto/a. Poco usato. Liminargiu, s. m. Limitare dell’uscio di casa. Limoni, s. m. Limone. In senso fig. seno di donna. Desueta la metafora andaus a sa festa de is limonis (andiamo a pomiciare), molto in voga fino a pochi decenni orsono. Limpïadura, s. f. Ripulimento, pulizia. Vedi illimpïadura. Limpïai/illimpïai, v. Ripulire. Vedi illimpïai e illimpïau/ada. Limpïori, s. m. Pulizia. Lìmpïu/a, agg. Pulito/a. In senso reale e metaforico, ad indicare una persona onesta e di buona condotta (l. che-i s’oru, netto come l’oro, e anche l. che isprigu, pulito come uno specchio). Vedi illimpïai. Il contr. è brutu/a. Limùsina, s. f. Elemosina. Limusinai, v. Elemosinare, chiedere insistentemente. Limusinau/ada, agg. Elemosinato/a. Lindirera, s.m. Pettine dai denti fitti, un tempo adibito all’asportazione dei lendini. Lìndiri, s. m. Lendine, uovo di pidocchio. Lingidura, s. f. Leccamento. Lìngiri, v. Leccare. Part. pass. PAOLO PILLONCA lintu. Espr. idiom. lintu e pintu, identico e preciso, lett. leccato e dipinto. In senso fig. adulare. Lintu/a, agg. Leccato/a. Linna, s. f. Legna da ardere. In particolare: erica, corbezzolo, leccio, roverella. Linnàmini, s. m. Legname da opera: castagno, noce, ciliegio selvatico, roverella. Linnàrbu, s. m. Pioppo (populus alba), lett. legno bianco. Registrato anche come toponimo: Su L., nel cuore della foresta demaniale di Montarbu. Linnargiu, s. m. Legnaia, localedeposito di legna da ardere. Ha dimensioni varie, a seconda della disponibilità dei proprietari, ma la sistemazione dei diversi tipi di legna segue criteri precisi ed ha una disposizione molto ordinata: gli inverni sono lunghi, in un paese a 820 metri di altitudine, e richiedono saperi precisi di utilizzo del legnatico. Per avviare il fuoco tornano utili i rami di erica e corbezzolo e la ramaglia di piante d’alto fusto, castagno compreso. Ma per garantire un riscaldamento funzionale sono indispensabili i tronchi di leccio e di roverella, talvolta con aggiunta di ciocchi di corbezzolo e di erica. Linnosu/a, agg. Legnoso/a. Mancarìas. La parlata di Seui Linu, s. m. Linu. Lïonagi, s. m. Oleandro (nerium oleander). Lïonargiu, s. m. Bosco di corbezzoli. Lïoni, s. m. Corbezzolo (arbutus unedo). Il s. indica soltanto la pianta (per il frutto vedi ghilisoni). Liporra, s. f. Cicoria selvatica (chondrilla juncea), interamente commestibile, radici comprese. Lisca, s. f. Lisca di pesce. Liscinai/illiscinai, v. Scivolare. Lissa, s. f. Muggine. Lissìa, s. f. Lisciva, bucato. Lisu/a, agg. Stinto/a, semiconsumato/a. Detto dei capi di vestiario vecchi e consunti. Vedi allisai. Lìtara, s. f. Lettera dell’alfabeto. Scrittura. Non bit de l. (è analfabeta). Lettera. De candu si nd’est andau no m’at iscritu manc’una l. (da quando è partito non mi ha scritto nemmeno una lettera). Litarau/ada, s. e agg. Letterato/a. Litaredda, s. f. Letterina. Lïuru/a, agg. Dritto/a. Vedi allïurai. Loba, s. f. Coppia. Cudda craba at angiau a l. (quella capra ha partorito una coppia di capretti). Lobai, v. Accoppiare. Ma in questo significato il v. è ormai desueto. Mantiene solo il senso di controllare una gallina per verifi- 263 care se sta per fare l’uovo. Lobu, s. m. Archetto, trappola per uccelli. Così lo descrive Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pag. 121) parlando di caccia al merlo: ”L’archetto consiste in un ramoscello verde e quindi flessibile che si pianta nel terreno e si curva ad arco tenuto teso da un cordoncino fatto con crini di cavallo, il quale termina con un cappio; in connessione col legaccio si colloca a terra un fuscello recante l’esca (in genere si tratta di olive di cui il pennuto si rivela particolarmente vorace)”. Lobu, s. m. Ciascuno dei segmenti in cui si divide una salsiccia (l. ’e sartissu). Lochìmini, s. m. Dissennatezza. Sin. di locura. Locu/a, agg. Dissennato/a, matto/a, folle. Desueto nel linguaggio della quotidianità, vive nell’espr. a füeddus locus origas surdas (le orecchie sono sorde davanti alle parole dissennate). Vedi allochïai. Locura, s. f. Follia, dissennatezza. Loddàina, s. f. Donna di basso rango che gira per le case e si perde in chiacchiere. Vedi alloddäinàisi e derivati. Logu, s. f. Luogo. No andu a 264 perunu l. (non vado da nessuna parte). Spazio. No ddu at prus logu (non c’è più spazio). Lolla, s. f. Loggia, loggiato. Lompéu/a, agg. Maturo/a. Rif. escl. ai frutti commestibili degli alberi. Lómpiri, v. Arrivare, raggiungere. Lómpïu/a, agg. Arrivato/a, giunto/a. Longàrïa, s. f. Lunghezza. Longu, s. m. Parte finale dell’intestino di bovini e suini (longus), che si cucina alla brace. Longu/a, agg. Lungo/a. Longufresu, s. m. Tasso (taxus bacata). Specie forestale ritenuta una sorta di fossile vegetale e forse perciò chiamata volgarmente albero della morte. Oggi, invece, dopo la recente scoperta di una molecola anticancro contenuta nella corteccia dell’albero, quel nome infausto si è mutato in definizione beneaugurante. Nel territorio di Seui è presente in vari siti, da Ardasai alla foresta di Montarbu. Loradura, s. f. Assottigliamento mediante coltello. Lorai, v. Assottigliare con un coltello adeguato. Detto soprattutto dei bastoni lignei e di tutti gli oggetti artigianali della stessa materia che debbono essere resi PAOLO PILLONCA più sottili. In senso fig. e scherzoso, se rif. alle persone, indica la necessità di renderle più sottili. Iat a bòlliri a ddu l. (sarebbe necessario renderlo più sottile). Loramentu, s. m. Sin. di loradura. Lorau/ada, agg. Assottigliato/a con un coltello. Lori, s. m. Cereale in genere (grano, orzo, etc.). Lóriga, s. f. Attrezzo metallico circolare. Sia quel piccolo cerchio in ferro che si attaccava ai muri esterni delle case e serviva per legarvi i cavalli, sia gli orecchini in metallo pregiato (lórigas). Ma non si usa mai per indicare l’anello vero e proprio. Loru, s. m. Correggia di pelle bovina utilizzata per legare al giogo le corna dei buoi da traino. Lua, s. f. Euforbia (euphorbia). Il liquido biancastro dei rametti di questo arbusto si chiama lati ’e lua (latte di euforbia). Vedi lati e allüai. In senso fig. male, peste, sventura, veleno. Luchetu, s. m. Lucchetto. Luchitu, s. m. Luce di zolfo. Gergale dei minatori. Presente nei soprannomi. Ludargiu, s. m. Luogo pieno di fango. Ludu, s. m. Fango. In senso fig. Mancarìas. La parlata di Seui vale: scandalo, situazione riprovevole. Nc’est orrutu in su l. (è caduto nel fango). Lüegu, avv. Sùbito, immediatamente. Lüegu ’enit (arriva subito). Lugenti, agg. Luminoso/a, splendente, lucente. Lugi, s. f. Luce, quella naturale e quella prodotta dall’uomo. Nel linguaggio delle metafore e delle similitudini poetiche, il s. rappresenta una splendida bandiera di rimandi sentimentali. Lugìa, n. pr. di pers. Lucia. La santa che porta questo nome è venerata da secoli a Seui e la sua festa si celebra tutti gli anni la prima domenica di luglio in un santuario campestre nella località omonima. Lùgiri, v. Risplendere. Sa virtudi lugit che-i s’oru (la virtù risplende come l’oro). Il v. viene utilizzato anche in un particolare senso fig. per dire dei riflessi positivi o negativi nelle azioni di ciascuno. Franciscu est erricu ma no nde ddi lugit (Francesco è ricco ma non per questo brilla), sa bellesa chi prusu ddi lugit est sa chi portat anintru (la bellezza che più gli riluce è quella interiore). A chi ostenta i propri averi si suole replicare: po ti ndi l. puru (sarà, ma non se ne vede lo scintillio). 265 Lùgïu/a, Brillato/a, illuminato/a. Lugori, s. m. Luce lunare. La luce preferita dai cacciatori di frodo, oltre che dagli innamorati. Pres. nei soprannomi. Lüisu, n. proprio. Luigi. Con la variante Lüisicu. Lumbu, s. m. Lombo. Lumburai, v. Rotolare. Lùmburu, s. m. Rotolo. Definisce anche il rotolarsi giocoso dei bambini. Su pipìu est andendu a lùmburus in terra (il bambino si rotola per terra). Gomitolo. Unu l. ’e lana (un gomitolo di lana). Luna, s. f. Luna. Definisce il satellite della terra e tutto ciò che gli si lega negli usi comunitari. Non seus in l. giusta po ’ociri procus (non siamo nella luna giusta per ammazzare maiali), po ndi ’oddiri s’armidda e po segai sa linna tocat a castïai sa l. (per raccogliere il timo e tagliare la legna occorre guardare la luna), argüai a chini scupat in l. prena (guai a chi svina durante la luna piena). Molti i modi di dire legati alla luna. Nàscïu in l. ’ona (nato in buona luna) è chi viene favorito dalla fortuna nelle ore cruciali della sua esistenza. Al contrario, nàscïu in l. mala è chi non gode delle carezze della buona sorte. Dromiri in s’albergu ’e sa l. è un’espr. colorita del mondo pasto- 266 rale che definisce con un eufemismo le notti trascorse all’addiaccio nelle solitudini dei quattordicimila ettari di territorio comunale. Lunàdiga, agg. Femmina sterile (detto di pecore, capre, vacche e scrofe, talora anche delle donne). Lunis, s. m. Lunedì, il giorno della luna. Lùpïa, s. f. Cisti del cuoio capelluto. Lupinu, s. m. Pastore tedesco. Talvolta si precisa: cani l. (lett. cane lupo). Lurdagu, s. m. Luogo sporco. Lurtzina, s. f. Pozzanghera. Lussai, v. Orinare, pisciare. Desueto. Lussau/ada, agg. Pisciato/a. Lussu, s. f. Pipì. Desueto. In uso fino agli Anni Settanta. Oggi si usa pisci. Lutu, s. m. Lutto. PAOLO PILLONCA Mancarìas. La parlata di Seui 267 M Ma, cong. avversativa. Ma, però. Macànica, s. f. Freno del carro a buoi. Macarronada, s. f. Maccheronata. Macarroni, s. m. Maccherone. Usato quasi escl. al pl. con la specificazione del tipo che si prepara e/o si utilizza. In senso fig. allocco, scimunito. Maceddai, v. Multare per omessa custodia del bestiame, per pascolo abusivo e/o per danneggiamento da parte del gregge incustodito. Maceddau/ada, agg. Multato/a. Maceddu, s. m. Contravvenzione in materia di abigeato. Macellai, v. Macellare. Macellu, s. m. Macelleria. Machillotu/a, s. e agg. Pazzerello/a. Machìmini, s. m. Follia, azzardo, pazzia. Mi parit unu m. (mi sembra una follia). Màchina, s. f. Automobile. Machinista, s. m. Macchinista. Indica principalmente il conduttore di locomotive a vapore. Machïori, s. m. Rischio grosso tanto da essere considerato una follia. Quasi sinonimo di machìmini. Macia, s. f. Macchia. In senso reale e fig. Cussa camisa portat una m. manna (quella camicia ha una grossa macchia), sa traitorìa est una m. chi non si podit samunai (il tradimento è una macchia che non si può lavare). Vedi amaciai e derivati. Macioni, s. m. Ghiozzo. Pres. nei soprannomi. Maciteddu, s. m. Gattino. Macitu, s. m. Gatto. Vedi amacitai e derivati. Macosu/a, agg. Sinistro/a. Manu m. (mano sinistra). Diversamente da altri centri della zona, che hanno prevalentemente mancosu. Macu/a, s. e agg. Matto/a, pazzo/a. M. lìmpïu vale: pazzo furioso. Nel gergo del gioco delle carte, Su M. per eccellenza è il Matto dei tarocchi. Maddalena, n. pr. di pers. Maddalena. Come santa, Maria Maddalena è la titolare della chiesa parrocchiale. 268 Maduru/a, agg. Grande. Con una leggera venatura d’ironia. Pres. nei soprannomi. Màfulu, s. m. Tappo superiore della botte, generalmente in sughero. Magangia, s, f. Sputo. Magasinu, s. m. Cantina. Vedi mangasinu. Magiori, agg. Primo, maggiore. Obreri m. è il presidente dei comitati delle feste religiose paesane. Magistradura, s. f. Magistratura. Magistrau, s. m. Magistrato. Maglia, s. f. Maglia. Magliadura, s. f. Colpo di maglio. Usato in una loc. avv. (a m.) per indicare percosse violente. Magliai, v. Colpire con il maglio, picchiare. Ddu magliat (lo picchia per bene). In senso fig. vale: sprizzare, emanare. Magliat fogu (sprizza fuoco). Vedi magliu. Magliau/ada, agg. Picchiato/a, sconfitto/a, maltrattato/a. Magligedda, s. f. Maglietta. Maglioni, s. f. Maglione, pullover. Maglioreddu, s. m. Vitello. Dim. di maglioru. Pres. nei soprannomi. Maglioreddus, s. m. Gnocchetti della tradizione sarda. Il nome viene dalla forma particolare, a suo modo stilizzata, di vitelli in miniatura. PAOLO PILLONCA Maglioru/a, s. m. e f. Vitellone, manzo/a. Pres. nei soprannomi, come il dim. Magliu, s. m. Maglio, martello ligneo e/o ferreo a due teste. Attrezzo del falegname e del fabbro. Mai, avv. Mai. Spesso iterato: mai mai (giammai) e/o rafforzato: mai prus (mai più). Maìa, s. f. Rimedio magico. Fattura. Maïargia, s. f. Fattucchiera, strega. Màida, s. f. Contenitore ligneo di media dimensione per trasportare a spalle o sulla testa le pietre di vigne e orti da ammassare poi in un punto stabilito durante i lavori di spietramento. Mäimoni, s. m. Maschera spaventevole. Per est. persona di pessimo aspetto. Parit unu m. (sembra una maschera orrenda). Mäimuru, s. m. Mulinello. Detto del vento che produce mulinelli d’aria. Maïolu, s. m. Tramoggia, cassone del mulino che immette il grano nella macina. Mäirana, s. f. Maggiorana. Mäista, s. f. Maestra elementare. Molto usato anche il dim. mäistedda (maestrina), con lieve venatura scherzosa. Mancarìas. La parlata di Seui Mäista ’e partu, s. f. Ostetrica. Mäistrali, s. m. Maestrale. Mäistu, s. m. Maestro. Di qualunque arte o professione, che però va specificata, altrimenti si rimane sul generico di un magistero indefinito. Con una eccezione: il fabbro è definito ferreri e non m. ’e ferru, come in altri paesi limitrofi. Mäistu ’e linna, s. m. Falegname. Mäistu ’e muru, s. m. Muratore. Mäistu ’e pannu, s. m. Sarto. Mäistu/a ’e scola, s. m. e f. Insegnante elementare, maestro/a. Mäiu, s. m. Maggio. Malacarìu/a, agg. Malsano/a. Pres. nei soprannomi. Maladìa, s. f. Malattia. Si usa per definire le patologie vere e proprie, esclusi dunque i mali leggeri. Maladitu/a, agg. Maledetto/a. Convive con maläigïu. Malafortunau/ada, agg. Malfatato/a, senza fortuna. Mischinu, cuddu, m. de candu est (pron. er) nàscïu (poveretto, quello, sfortunato fin dalla nascita). Malagràtzïa, s. f. Malagrazia, sgarbatezza. Maläidongiu/a, s. e agg. Malaticcio/a. Malàidu/a. s. e agg. Malato/a. Vedi amaläidàisi. 269 Maläìgiri, v. Maledire. Maläigïu, agg. Maledetto/a. Con tutti gli altri tempi del v. (dd’at maläigïu, lo ha maledetto) ma non nelle esclamazioni, nelle quali si usa sempre maladitu/a. Malandau/ada, agg. Malandato/a, male in arnese. Malapiga, s. f. Beccaccia. Malasorti, s. f. Sfortuna, cattivo destino. Malassortau/ada, agg. Malfatato/a, sfortunato/a. Vedi malafortunau. Malavida, s. f. Malavita. Maleducau/ada, agg. Maleducato/a. Malesa, s. f. Cattiveria, malizia, malvagità, cattiva intenzione. Custu dd’at fatu chene m. peruna (questo l’ha fatto senza alcuna cattiva intenzione). Contr. di bonesa. Mali, s. m. Malattia. Il termine è generico. Quando si vuole precisare, si ricorre alla nomenclatura specifica: su m. caducu è l’epilessia, su m. mandïadori il cancro, su m. ’e ’s perdas la calcolosi renale, su m. ’e su costau la pleurite, su m. frantzesu la sifilide, etc. Spesso per il cancro, come se lo si volesse esorcizzare, si ricorre a una perifrasi: cuddu m. legiu (quella brutta malattia). Cunfroma a su m. sa mëigina (a seconda della malattia il farmaco), 270 sa cadumèntzïa est unu m. chi non curat (la scempiaggine è una malattia inguaribile). Male, cattiveria, malvagità. A fàiri m. non cumbenit (non conviene fare del male). Mali, avv. Male. At giogau m. meda (ha giocato pessimamente). L’espr. torràisi m. vale: dimagrire. Malibbìu/a, agg. Malvivo/a, sofferente. Si dice di chi è stato sul punto di morire per ferite o malattie e si trova in uno stato fisico precario. Malidadi, s. f. Dolo, inclinazione al male. No ddu at m. (non c’è dolo), ddu fait chene m. peruna (lo fa in perfetta buona fede). Malïestìu/a, s. e agg. Malvestito/a. Malifüeddau/ada, s. e agg. Sboccato/a, sconcio/a, dalla parola oscena. Vedi füeddai e füeddu. Malimbissau/ada, s. e agg. Malabituato/a, viziato/a. Malincómïu, s. m. Manicomio. Malingidadi, s. f. Cattiveria, malignità. Malingiu/a, agg. Maligno/, astuto/a. Malïòfiu/a, s. e agg. Malvoluto/a, malvisto/a, antipatico/a. Malipigau/ada, s. e agg. Malconcio/a, malpreso/a. Malipostu/a, s. e agg. Malmesso/a. PAOLO PILLONCA Malisanu/a, s. e agg. Malato/a cronico/a, disabile. Malitentu/a, s. e agg. Maltenuto/a. Malitorrau/ada, s. e agg. Malridotto/a. Malitratau/ada, s. e agg. Maltrattato. Malitrogiau/ada, s. e agg. Malcombinato/a. Malocu/a, agg. Piuttosto cattivo/a. Pres. nei soprannomi, al maschile. Maltesas, s. f. Brucellosi, altrimenti detta febbre maltese o melitense. Nella parlata seuese il s. si usa al plurale, con l’ellissi del s. vero e proprio, dal momento che la denominazione - di per sé un agg. - nello specifico assume funzione sostantivale. Per molti decenni la patologia ebbe a Seui carattere quasi endemico, date le frequenti epidemie dovute alla presenza di migliaia di capi caprini. Vedi Demetrio Ballicu (Miscellanea, cit., pag. 135 e sgg.). Malu/a, agg. Cattivo/a. Rif. a persone indica cattiveria d’animo e/o di condotta. Rif. ad animali e cose ha vari significati. Est un’ómini legiu de ’isura e m. de atzïonis (è un uomo brutto di aspetto e cattivo nelle sue azioni), cussa genti est totu m. po natura Mancarìas. La parlata di Seui (quella gente è tutta di indole cattiva), po ’igliai is crabas custu est unu cani m. (per custodire le capre questo cane è inadatto), ocannu s’àgina parit m. (quest’anno l’uva sembra di scarsa qualità), cussa petza tenit fragu m. (quella carne ha un brutto odore). Malucoru, s. m. Avarizia, insensibilità alle necessità altrui. Mama, s. f. Madre, mamma, genitrice. Ma questa parola-chiave di tutte le lingue del mondo ha un campo semantico molto vasto anche nel patrimonio lessicale seuese, come in tutte le società umane legate alla vita all’aria aperta che mostrano ampi squarci di matrilinearità. Indica anche le femmine degli altri animali. Custu mascu parit bonu po is (pron. ir) mamas (questo ariete sembra buono per le fattrici). Sa m. de su cafeu è ciò che rimane del caffè macinato dopo l’ebollizione dell’acqua. Mamai, s. f. Madre. Veniva usato anche come vocativo dai figli che si rivolgevano alla propria genitrice. Desueto. Mamaterra, s. f. Lombrico. Mamòrïa, s. f. Ricordo. Usato nell’espressione sa bonamamòrïa, riferita ai morti che acquistano, tutti, la dignità di essere ben ricordati, senza eccezione, per il fatto 271 stesso di non essere più tra i vivi. Mamulada, s. f. Mascherata. In senso fig. situazione ingarbugliata, caos, confusione. Est una m. (è tutto un casino). Managu/a, agg. Privo/a di manualità. Detto dell’individuo incapace di usare le mani in maniera passabile, sia pure per faccende di minimo impegno. Vedi fardugu/a. Mancai, v. Mancare. Anche nel senso di avere qualche deficit: su chi ddi mancat est prus de su chi tenit (ciò che gli manca è più di quello che ha). Sbagliare. Apu mancau (ho sbagliato). Mancai, Cong. Sebbene, anche se, nonostante che, magari. M. prangias non ndi ’scabbullis nudda (anche se piangi non otterrai nulla). Frequente l’espr. m. e fessit (magari fosse così). Mancàntzïa, s. f. Errore, sbaglio, inadempienza. Mancarìas, cong. e avv. Semmai, nulla in confronto. Ma la traduzione letterale rende solo in parte la forza di questa parola, che rappresenta un unicum nelle parlate della zona e non solo. Supponiamo un breve dialogo. A: Bella Rita. B: M. Lüisa! (A. Rita è bella. B. Nulla in confronto a Luisa!). Mancosa, s. f. Seconda canna 272 delle läuneddas. Mancosedda, s. f. Terza canna delle läuneddas. Mancosu/a, agg. Sinistro/a, mancino/a. Anna scrit a manu m. (Anna è mancina). Depis andai a manu m. (devi andare sulla tua sinistra). Ma prevale la forma macosu. Mandada, s. f. Offerta di carne a vicini di casa e amici per l’uccisione del maiale domestico (su procu mannalissu). A seconda degli obblighi della famiglia offerente nei confronti del destinatario dell’omaggio, sa m. poteva essere più o meno copiosa e consistente. Nel primo caso si trattava di m. manna, nel secondo di mandadedda. Mandai, v. Inviare, mandare. Ti ddu nau eu etotu in càrigas, non ti ddu mandu a nai (te lo dico io stesso in faccia, non te lo mando a dire), dd’apu mandau una lìtara (gli ho spedito una lettera). Chini ’olit andit, chini non bolit mandit (chi vuole vada di persona, chi non vuole mandi), suggerisce un prov. per dire che le cose importanti vanno trattate, senza intermediari, dal diretto interessato. Mandau/ada, agg. Inviato/a, mandato/a. Mandïola, s. f. Coccinella. Tuttora ricordata una filastrocca: Mandiola, mandiola/ bai a Casteddu PAOLO PILLONCA e bola/ e betimì un’aneddu, etc. Mandronassu/a, s. e agg. Tendente alla pigrizia. Mandroni/a, s. e agg. Pigro/a, fannullone/a. Vedi ammandronàisi e prëissosu/a. Mandronìa, s. f. Pigrizia, svogliatezza, negligenza. Vedi prëìssa. Manera, s. f. Modo, maniera. Manerosu/a, agg. Di buone maniere, attivo, abile. Màngana, s. f. Vernice colorata di tinta variabile (preferiti il rosso e il verde), messa sulla lana delle pecore durante le vaccinazioni o altre terapie generiche e/o specifiche, per segnalare l’operazione avvenuta e dunque evitare che il pastore si confonda e la ripeta. Vedi amanganai. Mangasinu, s. m. Cantina. Usata anche la variante magasinu, senza distinzione. Mangoni, s. m. Airone. Pres. nei soprannomi. Màniga, s. f. Manico. Manigiai, v. Trattare, manipolare, preparare. Lett. lavorare con le mani. Depu m. s’ortu (devo preparare l’orto). Per est. indica anche i maneggi poco chiari. Manigiau/ada, agg. Trattato, maneggiato/a, lavorato/a. Manigiu, s. m. Trattamento, lavoro. Ma anche, più raramente, Mancarìas. La parlata di Seui nel senso di imbroglio, trama. E ita totu manigius ses fendu? (quali trame vai ordendo?). Mannalissa/u, agg. Animale allevato in casa o comunque in ambito semidomestico. In particolare, ci si riferisce alla capra (sa craba m.) e al maiale (su procu m.). Mannalissargiu, s. m. Conduttore di capre mannalissas. Fino a pochi decenni fa a Seui e in molti altri paesi di montagna era vivo l’uso di ricoverare nel centro abitato - dall’imbrunire allo spuntare del nuovo giorno - il branco comunitario di capre, che veniva condotto al pascolo all’alba e riportato in paese alle prime ombre della sera da un pastore che riceveva da ciascun proprietario una ricompensa mensile. Questa usanza rimase viva a Seui fino ai primi anni Settanta. Il s. viene anche usato in senso ir. se ci si vuole riferire a un pastore che tiene le sue pecore a poca distanza dal paese e non affronta le difficoltà e i rischi della pastorizia vera e propria, con lunghe permanenze in ovili e pascoli lontani dal centro abitato. Mannàrïa, s. f. Grandezza, dimensione, estensione. Manniteddu/a, agg. Grandicello/a. Mannitu/a, agg. Grandetto/a. 273 Mannoci, agg. Piuttosto grande. Indeclinabile, sempre uguale a sé stesso, nel m. come nel f. Mannoi, s. m. Nonno. Ma in questa accezione il s. è desueto. Lo si usa quando si vuole invitare un bambino a non fare i capricci perché ormai deve essere considerato e grandicello: acabbadda, m. (smettila, nonnino). Mannu/a, agg. Grande. Quando è reiterato ha valore di sup. ass. Mannugu, s. m. Mannello, covone. Viva nell’uso popolare l’espr. met. segai su m. in manus (interrompere bruscamente un’azione altrui, sconvolgere i piani). Manobbru, s. m. Manovale, aiuto muratore. Manovali, s. m. Operaio non qualificato. Manta, s. f. Coperta. Manteddu, s. m. Mantello. In senso ir. soprabito di foggia inelegante. Mantelafu, s. m. Materasso. Mantenimentu, s. m. Vitto. Mantènniri, v. Mantenere, sostentare. Ninu est unu mandroni spaciau, ddu mantenit sa pobidda (Nino è un poltrone totale, lo mantiene la moglie). Mantésïu/a, agg. Mantenuto/a. Mantu, s. m. Copricapo di pan- 274 no rosso del costume tradizionale femminile. Mantzavida, escl. di imprecazione e maledizione. Vai in malora! Originariamente sarebbe mai in sa vida (lett. mai nella vita), dunque è una corruzione. Si usa negli alterchi, quando ci si trova di fronte a un diniego ostinato, ad es. del figlio alla madre. No ndi ’olis? Mantzavida (Non ne vuoi? Vai in malora). Manu, s. f. Mano. La destra viene detta m. ’ona, la sinistra m. macosa, soprattutto quando si indica la direzione da prendere. Abilità manuale. Portat una bella m. (ha una bella mano). Segmento di partita nel gioco delle carte. Facu custa m. e ti lassu is cartas ca non possu abarrai prusu (gioco questa mano e ti lascio le carte perché non posso più restare). Il s. dà luogo a qualche loc. avv. Vedi le voci relative alle prep. A, De, In, Cun. Manuda (a), s. f. Mano nuda. Preceduto dalla prep. a diventa una loc. avv. con il significato di: con le sole mani, senza altro mezzo che le mani. Arremundu piscat sa trota a m. (Raimondo pesca le trote con le mani). Manüela, n. pr. di pers. Emanuela. Usato anche il dim. Manüeledda. PAOLO PILLONCA Manüeli, n. pr. di pers. Emanuele. Maràndula, s. f. Guanciale dei suini. In senso ir. e rif. all’uomo: guancia grassa, pinguedine. Bella m. t’as cuncordau (sei ingrassato molto). Marcadura, s. f. Marchiatura del bestiame. Marcai, v. Marchiare, effettuare la marchiatura del bestiame applicando i marchi comunali e padronali. Is angionis ddus eus marcaus eriseru, is purdeddus cras a mengianu (gli agnelli li abbiamo marchiati ieri, i puledri li marchieremo domattina). Segnalare, annunciare un evento. Su pegus marcat su tempus malu (il bestiame segnala l’arrivo del maltempo). Vivo il modo di dire impersonale marcat mali (è un brutto segno). Marcau/ada, agg. Marchiato. Marcheta, s. f. Versamento contributivo. At trabbagliau a piciocheddu in miniera ma non tenit marchetas betadas (da ragazzino ha lavorato in miniera ma non gli sono state versate le marchette). In senso dispregiativo, con palese allusione di carattere morale, il s. vale: marchetta, prostituzione. Nd’at fatu ’e marchetas, cussa (ne ha fatto di marchette, quella lì). Mardi, s. f. Scrofa. Il termine è Mancarìas. La parlata di Seui usato anche in un’espressione figurata particolare, tra l’ironico e lo sdegnato: tenit un’errisu ’e m. angiada, ride come una scrofa che ha partorito (e dunque difende preventivamente i suoi cuccioli con grugniti sordi a bocca spalancata che somigliano a una sorta di risata minacciosa). Mardïedu, s. m. L’insieme delle femmine non primipare del gregge. Nome coll. Vedi bagadìu/’agadìu. Mardi ’e sirba, s. f. Cinghialessa (scrofa di selva). Espressione gergale di pastori e cacciatori. Vedi sirba. Mardina, s. f. Femmina del cervo. Gergale. Margiani, s. m. Volpe (Vulpes Ichnusae). I pastori si difendevano da questi predatori temutissimi anche ricorrendo alle formule magiche di ”legamento”. Vedi àbbila, acapïai e scapïai. La simulazione di morte, finzione in cui si rifugia questo selvatico elevato a simbolo di astuzia, nella parlata di Seui viene definita su mortu m. (lett. la morta volpe) e si può riferire anche alle persone che fingono di dormire. Vedi groddi. Margianinu/a, agg. Volpino/a, nel senso di astuto/a. Con venatura di disprezzo. Mari, s. m. Mare. Viva l’espr. no 275 agatat manc’abba in mari (non riesce nemmeno a trovare acqua in mare). In senso fig. vale: una grande quantità. Ddu iat unu m. ’e genti (c’era una folla enorme). Màriga, s. f. Brocca. Indica sia il contenitore in terracotta - di varia dimensione e misura - utilizzato per l’acqua, sia quello metallico di capacità fissa (12,50 litri) che si usa per il vino. Ma in quest’ultimo caso si specifica: màriga po binu. Marigori, s. m. Amarezza, amaritudine. Anche in senso traslato. M’at abarrau unu m. mannu (mi è rimasta una grande amarezza). Marigosu/a, agg. Amaro/a. Ovviamente, anche in senso fig. Marineri, s. m. Marinaio. Marisciallu, s. m. Maresciallo. Màrmuri, s. m. Marmo. Marmurinu/a, agg. Marmoreo/a. Marradori, s. m. Zappatore. Marradura, s. f. Zappatura. Marrai, v. Zappare. Molto utilizzato anche met. per indicare un’impresa difficile: igui ddu-i marras (lì te la dovrai sudare, non ti sarà facile). Marranu, s. m. Marrano. Esclamazione di sfida, spesso accompagnata da tirri. Marrau/ada, agg. Zappato/a. Marrongiu, s. m. Zappatura. Marroni, s. m. Zappa. Se è pic- 276 cola si chiama marroneddu (zappetta). Marteddada, s. f. Martellata. Marteddadura, s. f. Martellamento. Marteddai, v. Martellare. Gergale dei fabbri. In senso fig. un insistere ostinato. Marteddau/ada, agg. Martellato/a. Marteddu, s. m. Martello. Ustao anche il dim. marteddeddu. Martinica, s. f. Contrabbando, mercato nero. Martinicheri, s. m. Contrabbandiere. Figura in una strofe della canzone satirica in senari doppi Eus agatai, scritta nell’immediato secondo dopoguerra da Benigno Deplano: Eus agatai/ is ferrovïeris,/ is martinicheris/ de professïoni./ In istatzïoni/ non cöigliat cascia:/ tziu Pala Bascia/ nudda ndi scit nai. Martis, s. m. Martedì. Màrturu/a, s. e agg. Paralitico/a. Costretto/a all’immobilità da malattia o trauma. Martzali, agg. Marzolino/a. Vivo il modo di dire Pasca m. annada mortali (Pasqua di marzo, annata di decessi). Martzu, s. m. Marzo. Maschitu, s. m. Ariete giovane. Cussu m. ddu lassu po arratzai PAOLO PILLONCA (quel piccolo ariete lo destinerò alla riproduzione). Mufloncino di età non superiore ai tre anni. In-dun’arèi ’e murvas ddu iat unu bellu m. (in un branco di mufle c’era un bell’ariete giovane). Vedi mascu. Masconi, s. m. Maschione, ragazzone. Il s. è usato in senso giocoso nei confronti dei giovanotti di belle speranze. Beni a innoi, m. (vieni qui, giovanotto). Mascu, s. m. Maschio. Riferito a uomini e animali. Nel gergo degli ovili - in assenza di ulteriore specificazione - indica il montone. L’ariete capobranco si chiama m. ’e ghia perché sta in testa al gregge e lo guida al pascolo. Il muflone è definito m. ’e murva, il caprone semplicemente crabu. Il dim. maschitu si applica all’ariete giovane e al mufloncino fino ai tre anni. Mascu ’e murva, s. m. Muflone. Vedi murva. Masedu/a, agg. Mansueto/a, docile. Lo si usa soprattutto in riferimento agli animali, ma in senso ir. lo si riferisce anche agli uomini. Vedi amasedai. Masonada, s. f. Tavolata pantagruelica. Masoni, s. m. Piccolo gregge. Figura nella toponomastica (M. Moru, nella foresta di Montarbu, e Mancarìas. La parlata di Seui M. ’e Antoni, quasi al confine con il territorio di Seulo). Massa, s. f. Pancia, trippa, ripieno. Sa m. de is culurgionis (il ripieno dei ravioli di patate). In senso fig. bene materiale. Massaïa, s. f. Padrona di casa, massaia. Massaïu, s. m. Contadino. Massàmini, s. m. Ventrame, interiora. In senso fig. beni materiali, ma con chiara venatura dispregiativa. Ndi tenit de m. (ne ha di roba). Massarìa, s. f. Agricoltura. Desueto. Massïai, v. Masticare. In senso fig. faticare, penare, soffrire. Ddu at dépïu m. (ci ha dovuto faticare). Massidda, s. f. Mascella. Desueto. Màssïu, s. m. Boccone (lett. masticazione). Usato quasi escl. al pl. Frequente nell’espr. sarcastica a malus màssïus (controvoglia, masticando amaro), in rif. a chi è costretto ad ingoiare un rospo particolarmente difficile. Massu, s. m. Masso, mucchio. Massudu/a, agg. Panciuto/a. Detto soprattutto delle focacce con troppa mollica. Mata, s. f. Pianta, albero. Genericamente, salve ulteriori specificazioni: una m. de ìligi, de nugi, 277 de castangia, de orroli, de süergiu (una pianta di leccio, noce, castagno, roverella, quercia da sughero). Matafalua, s. f. Anice (pimpinella anisum), piantina e seme. Matedu, s. m. Vegetazione. Luogo alberato. Vedi mata. Matèrïa, s. f. Pus. Matoni, s. m. Cespuglio, intrico, macchione. Definizione generica, salve eventuali precisazioni: m. ’e orrù (cespuglio, intrico di rovi), m. ’e tùvara (cespuglio di erica), etc. Presente nei soprannomi. Matoni, s. m. Mattone. Superstrato it. Matraca, s. f. Raganella. Matrìcula, s. f. Matricola. Matriculai, v. Matricolare, apporre il numero di matricola. Matriculau/ada, agg. Matricolato/a. Matròddiga, s. f. Donnone imponente e poco agile. Matrona, s. f. Matriarca, donna che impone la propria volontà. Matucheddu/a, agg. Grandicello/a. Matucu/a, agg. Assai grande. Mäugia, s. f. Bamboccio grossolano di pezza. In senso fig. donna malvestita e poco curata. Màulai, v. Miagolare. 278 Màulu, s. m. Miagolio. Mäurreddu/a, agg. Sulcitano/a. Mazina, s. f. Stregoneria, sortilegio, fattura. Mazinera, s. f. Strega, fattucchiera. Mécuda, s. f. Menta (mentha longifolia). Municipalismo. Antonio Sanna, compianto Maestro di linguistica dell’Università di Cagliari, si incantava davanti a questo s. che non aveva mai sentito altrove. Meda, avv. Molto. Mi fait erriri m. (mi fa ridere molto), no nci ’olit m. (non ci vuole molto). Medassa, s. f. Matassa. Medïanu, s. m. Mediano. In tempi recenti è entrato nella parlata seuese come gergale del gioco del calcio, per indicare quei giocatori che si muovono prevalentemente nella zona centrale del campo di gioco. Medïanu/a, agg. Mediocre, di medio rilievo. Mediglioni, s. m. Miscuglio, travaso. Ir. Mediri, v. Misurare. Vedi mesurai. Meditu, avv. Non poco, assai. Una sorta di diminutivo di meda, se si potesse fare il dim. degli avv. Meda fut su landi? M. (erano molte le ghiande? Abbastanza). Medìu/a, agg. Misurato/a. An- PAOLO PILLONCA che in senso met. Médïu/a, agg. Matto/a. Riferito agli animali, specie alle pecore (mascu m. montone impazzito), talvolta usato scherzosamente anche nei confronti delle persone: paris unu m. (sembri un pazzo). Vedi amedïai. Meglius, avv. Meglio. Mèiga, s. f. Cura, rimedio. Quando si usa questo s. ci si riferisce soprattutto alle cure parallele alla medicina ufficiale, sia quelle a base di erbe sia quelle fondate sulla forza delle parole magiche. Mëigadori/a, s. e agg. Persona pratica nel curare determinate malattie con rimedi popolari, fuori dalla medicina ufficiale. Mëigadura, s. f. Medicazione. Mëigai, v. Medicare. Riferito soprattutto alla medicina popolare. Mëigina, s. f. Medicina, terapia, farmaco. Méigu, s. m. Medico. Desueto, nella parlata di oggi (che ha quasi esclusivamente dotori), ma reso immortale dalla toponomastica che dà questo nome a una sorgente montana della zona di Tacu, chiamata Sa funtana ’e su m. Si narra che in tempi remoti vi sia stato assassinato un medico. Mela, s. f. Melo (pyrus malus), albero e frutto. Mancarìas. La parlata di Seui Melatidongia, s. f. Mela cotogna (pyrus cydonia). Melai, v. Dolcificare con il miele. Usanza sempre viva a Seui, dove sono ancora attivi e numerosi gli apicoltori. Su cafeu prefergiu a mi ddu m. (il caffè preferisco dolcificarlo con il miele). Melau/ada, agg. Dolcificato/a con il miele. Meledai, v. Pensare, riflettere, meditare. Pressoché ignoto ai giovani ma ancora vivo nel lessico degli anziani, soprattutto dei pastori. Meledu, s. m. Pensiero, riflessione, meditazione, preoccupazione. Seu in su m. de ïerrai in Santu ’Idu (sto meditando di svernare a San Vito). Meli, s. m. Miele. Una produzione di altissima qualità, quella realizzata a Seui per la ricchezza della materia prima con cui alimentare le api. Finora l’apicoltura è stata ed è praticata senza una struttura neppure minimamente adeguata alle possibilità di sviluppo del settore: un bene più potenziale che reale, ma sulla trasformazione dei beni in risorse si potrebbe anche giocare una parte cospicua del futuro economico del paese. Il s. non indica solo il dono delle api, ma, in senso più ampio, 279 definisce tutto ciò che dà dolcezza. Frequente il prov. chini manigiat m. si ndi lingit is (pron. ir) bidus (chi maneggia il miele se ne lecca le dita). Mélinu/a, agg. Color miele. Bachis tenit una purdedda m. (Bachisio ha una puledra dal mantello color miele). Usato anche il dim. melineddu/a. Melongiu/a, agg. Fresco/a e molliccio/a, come il miele. Casu m. è il formaggio che ha appena iniziato la stagionatura. Meloni, s. m. Melone. Méndula, s. f. Mandorlo e anche mandorla, albero e frutto. Mendulau, s. m. Mandorleto. Menésciri, v. Meritare. No ddi menescìat (non se lo meritava), in senso contrario ma anche in senso favorevole. Menéscïu/a, agg. Meritato/a. Mengianeddu, s. m. Primo mattino. Mengianu, s. m. Mattina, mattino. Definisce il segmento di tempo che va dall’alba al mezzogiorno. Se ne indicano le fasi con le espressioni: a mengianeddu (allo spuntare del sole), a primu m. (di primo mattino), a mesu m. (a metà mattina). Mentecòi, avv. Non sia che. Movidindi, m. nd’erribbit una 280 niada (sbrìgati, non sia che sopraggiunga una nevicata). Mentris, s. m. Intervallo, segmento di tempo. Bai ca deu in su m. mi facu cheleguna atra cosa (vai, io nel frattempo mi sbrigherò qualche altra faccenda). Mércuris, s. m. Mercoledì. Transidì, ses in mesu che-i su m. (spòstati, sei in mezzo come il mercoledì). Merda, s. f. Escremento, merda, sterco. Merdosu/a, agg. Schifoso/a, persona da evitare. Vedi irmerdai. Mèri, s. m. Padrone. Su meri mannu (lett. il grande padrone) è il patriarca della famiglia, la persona più anziana ma anche la più riverita per il prestigio di cui gode. Lo si usa talvolta anche scherzosamente. Non bolit su m. (il padrone non vuole). Merì, s. m. Sera. Indica le ore che vanno dal mezzogiorno alle prime ombre del crepuscolo. In una specificazione ulteriore, la parte finale di questo arco di tempo si chiama mericeddu. Merïagu, s. m. Riparo ombroso, in genere una copertura di frasche, per far riposare il bestiame nei pomeriggi più caldi di fine primavera, estate ed inizio autunno. Merïai, v. Riposarsi all’ombra PAOLO PILLONCA durante il pomeriggio, meriggiare. Nel gergo degli ovili, la pausa del gregge sotto un riparo ombroso nei mesi caldi. Igui is brebeis ddu-i mérïant meglius de atrus tretus (lì le pecore meriggiano meglio che in altri spazi). Mericeddu, s. m. Segmento di tempo tra il pomeriggio e la sera, d’estate quando l’intensità dei raggi del sole diminuisce mitigando la calura, d’inverno quando il freddo si fa più intenso. Meritai, v. Meritare. Su votu chi dd’at donau su mäistu Linu non si ddu meritàt po nudda (Lino non meritava affatto il voto che il maestro gli ha assegnato). Meritau/ada, agg. Meritato/a. Merìtu, s. m. Merito. Mermu, s. m. Parte del corpo. Mi ’olit dónnïa mermu (mi fanno male tutte le parti del corpo). Merruleri, s. m. Ghiacciolo. Un’ïerru malu, feti merruleris (un pessimo inverno, soltanto ghiaccioli). Mesa, s. f. Tavolo, tavola. Spesso con specificazioni riferite alla destinazione d’uso. Il tavolo generalmente in legno di castagno - che si utilizza per impastare la farina e lavorare la pasta fino alla panificazione vera e propria si chiama sa m. ’e fàiri pani (il tavo- Mancarìas. La parlata di Seui lo del pane), il deschetto del calzolaio è detto m. ’e sabbateri. Quando è piccola si chiama mesigedda. Una filastrocca recita: Teresa, Teresa/, ponimì sa m./ ponimì su pratu/ Teresa conca ’e ’atu (Teresa, Teresa, apparecchiami la tavola, apparecchiami il piatto, Teresa testa di gatto). Mesapari, avv. Metà per uno (mesu a pari), mezzadria. Antica forma di contratto agrario che prevedeva, all’incirca, che il padrone mettesse la terra, il contadino la lavorasse e poi i due dividessero il frutto in parti uguali. Usatissima la loc. avv. a m. (a mezzadria). Mesi, s. m. Mese. Nella parlata di Seui la divisione dell’anno in dodici mesi è la seguente: Gennargiu, Friargiu, Martzu, Arbili, Maiu, Làmpadas, Mes’’e orgiolas, Austu, Cabudanni, Mesi ’e talàmini, Donniassantu, Mes’’e idas. Mesi, s. m. Mestruo, mestruazioni. Portat su m. (ha le mestruazioni). Mesi ’e idas, s. m. Dicembre. Lett. mese delle idi. Mesi ’e orgiolas, s. m. Luglio. Lett. mese delle aie. Mesi ’e talàmini, s. m. Ottobre. Lett. mese del letame. Mesigedda, s. f. Piccolo tavolo. 281 Vedi mesa. Mes’ora, s. f. Mezz’ora. Messadori, s. m. Mietitore. Messadura, s. f. Mietitura. Sin. di messongiu e messera. Continua a brillare nella loc. a m. (a mo’ di mietitura), che indica l’asporto di q.sa senza distinguere il grano dal loglio. Messai, v. Mietere. Non solo nel suo significato primario e quasi gergale del mondo agricolo, ma anche in senso lato di raccogliere, tagliare, portarsi via. Fut passendu in su stradoni e un’äutocarru nde dd’at messau (passava per la strada e un camion l’ha falciato). Un proverbio: chini non podit m. ispigat (chi non può mietere spigola). Messau/ada, agg. Mietuto/a. Messera, s. f. Mietitura. Desueto. Messongiu, s. m. Mietitura. L’operazione del mietere e tutto ciò che comporta. Vedi messadura. Mesu, s. m. Metà. Donamindi su m. (dàmmene la metà). Non ti ndi creu mancu su m. (di quello che dici non credo nemmeno la metà). Vive le espressioni a m. tèmpera (a tempra media) e a m. càrriga (a mezzo carico), in senso reale e fig., questa ultima soprattutto: apu ’idu a Ginu, fut a m. c. (ho visto Gino, era a mezza carica, 282 cioè semiubriaco), a m. ’èntiri (a pancia semivuota). Mesudì, s. m. Mezzogiorno. La loc. a m. ha anche un impiego traslato nel gergo dell’eros e indica uno stato continuo di erezione. Fulanu est sempir a m. (Fulano soffre di priapismo). La patologia contraria si esprime con un’altra metafora ispirata all’orario: a is ses e mesu. Vedi gli esempi relativi sotto la prep. A. Mesura, s. f. Misura, moderazione. Cussu in sa vida sua at furau chene m. peruna (quello lì nella sua vita ha rubato senza alcuna moderazione). Di recente ha inizato a definire anche il gesto dell’ombrello. Ninu at fatu sa m. a Franciscu (Nino ha fatto il gesto dell’ombrello a Francesco). Figura nei soprannomi. Mesurai, v. Misurare. Anche in senso met. Comenti mesuras t’ant a m. (come misuri verrai misurato): è un prov. sempre in auge. Vedi mediri. Metadi, s. f. Metà. Sin. di mesu. Méurra, s. f. Merlo (turdus merula). Migia, s. f. Calza. Mina, s. f. Miniera. Sostituisce ancora spesso il più recente miniera. Il s. ha segnato per decenni la storia del paese, fra il benessere ini- PAOLO PILLONCA ziale e la drammatica crisi della metà del secolo scorso, con la dismissione dei pozzi. Nella memoria comunitaria rimane l’ombra incancellabile delle tragedie che si sono consumate nelle profondità del giacimento di antracite di Fundu ’e corongiu. Negli archivi del distretto minerario di Iglesias sono registrati infortuni e incidenti mortali avvenuti nella miniera di Seui dal 1929 al 1957, anno di chiusura dei pozzi. Dieci i minatori morti sul lavoro in quell’arco temporale di 28 anni: nell’ordine, Giuseppe Deiana, Giuseppe Aresu, Luigi Meloni, Raimondo Lai, Francesco Aresu, Giovanni Cannas, Roberto Aresu, Salvatore Aresu, Salvatore Moi, Giuseppe Ballicu. Gli infortuni gravi registrati in quello stesso periodo - per gli anni anteriori al 1929 non si hanno documenti furono ben 127. Scrive Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pp. 5556): “I miei sacrifici di medico condotto dei tempi che furono rappresentano ben piccola cosa se paragonati a quelli subiti da altri lavoratori. Mi riferisco ai minatori e in particolare ai minatori seuesi. Parecchi di loro, che formano non un gruppo sparuto ma una nutrita falange, si trascinano, miseri resti umani, tristi, con passo malsicuro e Mancarìas. La parlata di Seui titubante sotto il peso non degli anni ma degli acciacchi e delle sofferenze causate dalla funesta silicosi, mentre il mio cuore pulsa con regolarità fisiologica e i miei polmoni respirano a pieno regime. Non voglio, non posso dimenticare queste vittime del lavoro. Li terrò sempre presenti nella memoria insieme con altri minatori i quali, in condizioni di completa efficienza fisica, perirono sfracellati, schiacciati dalle frane nella ‘miniera Corongiu’. In un periodo gli infortuni nelle gallerie di quella miniera si susseguirono con ritmo pauroso tanto impressionante che i familiari di una delle vittime, nel parossismo della costernazione, fecero scolpire sulla lapide del loro congiunto una scritta che incute orrore e induce a meditare: l’ha ucciso la miniera assassina”. Mina, s. f. Mina. Indica il confezionamento e l’esplosione dell’ordigno. Minadori, s. m. Minatore. Minai, v. Minare, sistemare le mine. Gergale dei minatori e dei soldati. Minau/ada, agg. Minato/a. Minca, s. f. Pene, organo sessuale maschile di uomini e animali. Frequenti la risposta sprezzante e l’esclamazione di meraviglia di 283 quando non si vuole accondiscendere ad una richiesta eccessiva: m. ’e molenti (l’organo sessuale dell’asino) e, quando la si vuole celare sotto il velo di una metafora, neppure troppo nascosta: sa crai ’e s’ebba (lett. la chiave della cavalla). Un uomo senza grinta si definisce m. morta (pene in riposo). Esistono alcune varianti ironicoscherzose: lilla, lillìa, minnanna, pica. Minda, s. f. Piccola zona, ristretta, di pascolo. Vedi amindai. Mindigai, v. Chiedere la carità, elemosinare, essere petulante. Mindigau/ada, agg. Mendicato/a. Mìndighingiu, s. m. Mendicità, carità pubblica, questua. Quasi desueto nella lingua quotidiana, vive però brillantemente nella loc. avv. a m. (im misura minima). Mìndigu, s. m. Mendicante, mendico. In senso fig. miserabile. Desueto. Minerali, s. m. Minerale. Minïera, s. f. Miniera. Vedi mina. Minnanna, s. f. Pene. Termine scherzoso che indica l’organo sessuale maschile. Mintidura, s. f. Infilamento. Mìntiri, v. Infilare, sistemare. Detto soprattutto della carne che 284 si cuoce allo spiedo. Lüisu po m. petza in su spidu ’olit sa parti sua (Luigi ha pochi rivali nell’infilare la carne nello spiedo). Mintu/a, agg. Infilato/a, sistemato/a. Mïoddu, s. m. Midollo. Vedi irmïoddau. Mira, s. f. Mira, capacità di mirare. Gisepu fut de m., raridadi a si faddiri a sirboni (Giuseppe aveva una buona mira, raramente sbagliava il cinghiale). Anche nel senso di brama, desiderio Antoni fut in m. ’e sïenda (Antonio mirava all’eredità). Mirada, s. f. Sguardo. Ti bastit cun sa m. (ti sia sufficiente il mio sguardo). Mirai, v. Guardare, osservare, fare attenzione. Il v. è molto usato all’imperativo pres. abbreviato (mi’, apocope di mira) nelle avvertenze, anche le più banali: mi’ a Lina (guarda, c’è Lina), mi’ ca orruis (attento che cadi), mi’ ca no est äici (guarda che non è così), etc. Mirare, prendere la mira (gergale dei cacciatori). Armandu tenit su vitzïu de isparai a sa tzurpa chene mancu m. (Armando ha il vizio di sparare alla cieca, senza neppure prendere la mira) Missa, s. f. Messa, il rito cattolico che rinnova il sacrificio del PAOLO PILLONCA Cristo sul Golgota. È detta Missa bascia se è senza canti, Missa cantada se è accompagnata da musiche e suoni, Missa ’e mortu se è celebrata in suffragio di un defunto, Missa a tres préidis se è concelebrata da tre sacerdoti, Missa ’e mesunoti a cavallo tra il 24 e il 25 dicembre per la Natività del Messia. L’espressione missa bascia è usata anche ironicamente per dire di una protesta rancorosa e quasi soffocata, pronunciata sottovoce. Est nendu sa m. b. (sta protestando a voce bassa). Missali, s. m. Messale. Missoni, s. m. Messa di suffragio per tutti i defunti senza distinzione, rituale nella ricorrenza novembrina. Pres. nei soprannomi. Era un Missoni il ferroviere Dessì che nella festa del Carmelo del 1919 in territorio di Elini venne ucciso da una coltellata mentre interveniva per separare due contendenti. Dall’anno successivo i maggiorenti di Seui decisero di festeggiare in autonomia la Madonna del Carmelo edificando una chiesetta sulla montagna di Arcüerì. Missu, s. m. Messaggero. Proverbio: chini mandat malu missu est (pr. er) meglius chi ddu andit issu (chi manda un cattivo messag- Mancarìas. La parlata di Seui gero farebbe meglio ad andare di persona). Miu/a, agg. e pron. poss. Miola. Sempre posposto al s. cui si riferisce. Su cüaddu miu (il mio cavallo). Moddi, agg. Molle, morbido/a, tenero/a. Cussa petza mi parit m. (quella carne mi sembra tenera). In senso lato, convalescente. Fui duas cidas in su spidali e m’intendu is cambas (pr. cambar) moddis (ero due settimane in ospedale e mi sento le gambe molli), Antoni fut de coru m. (Antonio era tenero di cuore). Vedi amoddïai. Moddìmini, s. m. Morbidezza, mollezza. Moddissi, s. m. Lentischio (pistacia lentiscus). Il nome deriva forse dal fatto che il legno di lentischio non è duro. De su m. in atrus tempus faïaus s’ogliu stìncini (dal lentischio in altri tempi estraevamo l’olio). Moddissosu, s. m. Focaccia medio-grande, con molta mollica e dunque piuttosto morbido (moddi). Moddori, s. m. Mollezza. Indica il passaggio da temperature molto basse che dànno brina e ghiaccio a valori più accettabili che li escludono e non irrigidiscono il terreno, anzi lo rendono più molle (moddi). Su tempus at furrïau a m. 285 (il tempo è volto al morbido). Moddossu/a, agg. Flaccido/a. Riferito a persona di costituzione robusta ma con pochi muscoli. Moglieddeu, avv. Invece, al contrario. M’iat nau ch’ei, m. no at fatu nudda (mi aveva detto di sì, invece non ha fatto nulla). Municipalismo. Mola, s. f. Macina. L’asino un tempo addetto alla bisogna era definito pegus de mola. Molentargiu, s. m. Asinaio, conduttore di asini. Molenti, s. m. Asino, somaro. Utilizzato per secoli come mezzo di trasporto da e per gli orti della parte bassa del paese e qualche volta anche per i carichi di ghiande dai boschi della montagna per l’alimentazione del maiale domestico da ingrasso, oggi sopravvive in un numero limitatissimo di capi. Quando non lo si vuole nominare direttamente, nelle conversazioni di rispetto, si è soliti usare una perifrasi: cuddu peghiteddu (quel piccolo animale). Vedi bistratzu, burricu, cocineddu, molingianu e pegus de mola. Molessugu (mola ’e sugu), s. f. Osso del collo. Fut acanta ’e si segai sa m. ’e su s. (stava per rompersi l’osso del collo). In senso fig. uomo poco intelligente. Est unu 286 m. (è un cretino, macina del collo - mola ’e sugu -, una delle parti meno ambite della carne arrosto). In questa accezione il s. cambia genere: da f. diventa m. Molidura, s. f. Macinazione. Molinargiu, s. m. Mugnaio. Molingianu, s. m. Asino. Più raffinato rispetto a burricu, molenti e pegus de mola, ma meno usato. Lo si usa quando si vuole mostrare rispetto verso l’interlocutore. Molinu, s. m. Mulino. Molidura, s. f. Macinazione. Móliri, v. Macinare. In senso fig. mangiare senza interruzione. Ndi molit de cosa candu si ddu-i ponit, cuddu (ne ha macina cibo, quando ci si mette, quello là). Moliscedda, s. f. Macinino. Mòlïu/a, agg. Macinato/a. Mongia, s. f. Monaca, suora. Freq. l’espressione popolare che indica la chiarità stinta del pallore annoso con la definizione in colori ’e brenti ’e m. (color ventre di monaca). Mónica, s. f. Monica, vitigno locale. Montargiu, s. m. Uomo di campagna, pastore. Vedi biddargiu. Monti, s. m. Campagna. Nella parlata di Seui indica il territorio comune destinato al pascolo, a prescindere dall’orografia. Depu PAOLO PILLONCA andai a su m. (devo andare in campagna), fut corant’annus in su m. (ha fatto il pastore per quarant’anni). Chi lavora nella pastorizia è detto montargiu, chi agisce in paese biddargiu. Monte, montagna. In cussu monti aresti ddu apu fatu prus de bint’annus (in quella montagna selvatica ho trascorso più di vent’anni). Pietra grossa. Dd’at iscutu unu m. (gli ha lanciato una pietra enorme). Mori, s. f. Amore. Po m. ’e Deus siat (sia per l’amore di Dio). Colpa. Est sussédïu po m. tua (è successo per colpa tua). Móriga, s. f. Bastone a punte plurime per rimestare il latte nel calderino durante la fase del caglio. Morigada, s. f. Pascolo notturno. Nel gergo dei pastori indica lo spostamento del gregge o del branco nel cuore della notte, per sollecitare le bestie al pascolo e favorire una maggior resa di latte nella mungitura mattutina. Pissenti fut unu pastori chi si ’ormiat pagu: mancai fessit fendu tempus malu is brebeis suas bessiant sempir a m. (Vincenzo era un pastore che dormiva poco: anche nelle notti di maltempo le sue pecore uscivano sempre al pascolo notturno). Mancarìas. La parlata di Seui Morigai, v. Rimestare, rimescolare. Il verbo indica anche l’operazione del pastore che rimesta il latte cagliato nel calderino prima di mettere mano alla raccolta del formaggio nelle apposite formelle con cui si dà inizio alla caseificazione vera e propria. È usato anche in senso met. e indica l’azione torbida di chi vuol mettere scompiglio o seminare discordie. Viva l’espr. a su móriga-móriga (in continuo rimestìo). Morigau/ada, agg. Rimestato/a, rimescolato/a. Mórriri, v. Morire, terminare l’esistenza. Prov. Chini tenit santu in corti non morit de mala morti (chi ha un santo protettore non muore di cattiva morte). In sardo spesso il v. diventa transitivo quando assume il senso di assassinare, ammazzare, uccidere. Pìlimu at mortu su procu (Priamo ha ucciso il maiale), non si scit e chini at mortu a Fulanu (non si sa chi abbia assassinato Fulano). Pres. nel nomignolo malamórriri (duro a morire). Morrungiadori, s. e agg. Contestatore perpetuo, mormoratore. Morrungiai, v. Protestare per un diritto negato, vero o presunto, spesso anche a torto. Nella valutazione comunitaria, è un’azione delicata che deve essere mantenu- 287 ta entro limiti precisi, anche di buon gusto e di rispetto del prossimo. L’eccesso nelle proteste, come tutti gli eccessi, è sempre valutato negativamente dal giudizio popolare. Morrungiau/ada, agg. Contestato/a. Morrungiolu, s. m. Orzaiolo. Morrungiu, s. m. Protesta. Est sempir a morrungius (si lamenta di continuo). Morti, s. f. Morte, quella naturale e quella violenta. Antoni fut istétïu cundennau po una m. (Antonio era stato condannato per un omicidio). La vita si può concludere bene e in questo caso si parla di m. ’ona (buona morte), in caso contrario di m. mala o m. legia (brutta morte) Pres. nei soprannomi in un nomignolo di tono spiritoso: sa morti imbrïaga (la morte ubriaca). Mortorgiu, s. m. Luogo in cui si muore e/o si uccide. Rif. in particolare agli animali vittime di malattie o uccisi per vendetta. Un aforisma: a su m. acodint is crobus (dove sono carogne accorrono i corvi). Mortori, s. m. Assassino. Desueto. Mortu/a, s. e agg. Morto/a, defunto/a. Mossïai, v. Mordere. Detto an- 288 che degli uomini, non solo dei cani e di altri animali. Mossïau/ada, agg. Morso/a, morsicato/a. Móssïu, s. m. Morso. S’est cravau a móssïus (ha lottato a furia di morsi). Mossu, s. f. Quantità, parte abbondante di una eredità. Dd’est calau unu bonu m. (gli è toccata una parte buona). Mou, s. m. Starello. Misura di capacità: riempita di grano, ne contiene quaranta chili. Movi-movi, loc. avv. In bilico, malfermo, instabile. Movimentu, s. m. Movimento, mossa, moto. Móviri, v. Partire. Depu m. a Casteddu (devo partire per Cagliari). Spostare. Lassaddu igui, no ddu movas (lascialo lì, non spostarlo). Sollecitare il gregge al pascolo. Fut andau a m. is crabas (era andato a spostare le capre verso il pascolo). Nella forma rifl. indica l’azione repentina di chi va fuori di testa oppure è in preda all’ira. Si movit che unu macu (reagisce come un pazzo). Definisce anche la decisione tardiva di uno scapolo impenitente che prende moglie. Giai fut ora ’e si m. (era ora che si decidesse). Movitìa, s. f. Movimento. PAOLO PILLONCA Móvïu/a, agg. Mosso/a. M. ’e conca vale: impazzito. Mucadoreddu, s. m. Fazzolettino da tasca. Mucadori, s. m. Fazzoletto che funge da copricapo, foulard. Mucosu/a, agg. Moccioso/a. Detto sarcasticamente a un giovane che si ritiene adulto. Citidì, m. (stai zitto, moccioso). Mucu, s. m. Moccio. Muda, s. f. Cambiamento di pelame. Detto soprattutto dei mufloni in primavera, quando perdono il pelo invernale. Mudai, v. Cambiare pelame. Ma il v. si usa anche per indicare il cambio d’abito delle persone. Mudau/ada, agg. Vestito/a di nuovo. Mudu/a, agg. Muto/a. Mùdulu/ a, agg. Privo/ a di corna. Gisepu tenit is crabas bell’e totu mùdulas (le capre di Giuseppe sono quasi tutte senza corna). Muglieri, s. f. Moglie. Desueto, sostituito sempre più freq. da pobidda. Muglidura, s. f. Mungitura. Mùgliri, v. Mungere. Il part. pass. è muglïua/a. Mùina, s. f. Fischio, sibilo. Müinai, v. Fischiare, rumoreggiare. Müinau/ada, agg. Fischiato/a, Mancarìas. La parlata di Seui sibilato/a. Mulloni, s. m. Mucchio. Dev. di amullonai (ammucchiare). Ma nella parlata seuese assume un senso ristretto e riferito quasi esclusivamente a materie non rigide, come il bucato. Non mi pongias s’orrobba totu a unu m. (non mettermi la roba sottosopra). Mundadura, s. f. Ramazzata. Mundai, v. Scopare, ramazzare. Talvolta acquisisce anche il senso di distruggere. Chi ndi ’enit su pibissiu ndi mundat totu (se arrivano le cavallette distruggono tutto). Vedi scovai. Mundau/ada, agg. Scopato/a, pulito/a. Mundeddu, n. pr. di persona. Raimondino. Mundia, s. f. Immondezza, rifiuto. Desueto nell’uso quotidiano, il s. sopravvive in un proverbio (genti bia fait mundìa, la gente viva produce immondezza) e in questa mini filastrocca: Cala, cala, mundìa/ a domu ’e Maria,/ a domu ’e Lorentza/ ca ddu at pani e petza,/ pani, petza e dinari:/a nde dd’ant a donari/ a sa pipia mia./ Cala, cala, mundia. (scendi, scendi, immondezza/ a casa di Maria/, a casa di Lorenza:/ lì c’è pane e carne,/ pane, carne e denaro/: ah, quanto ne daranno/ alla mia bambina./ 289 Scendi, scendi, immondezza). Mundicheddu, n. pr. di persona. Raimondino, variante di Mundeddu. Mundicu, n. pr. di persona. Raimondo. Vedi Arremundicu. Mundu, s. m. Mondo. Su casu sardu ddu connoscint in totu su m. (il formaggio sardo è conosciuto in tutto il mondo). Gente. Ddu narat su m. (lo dice la gente). In questo caso forse si tratta di uno dei francesismi (tout le monde) entrati nella parlata di Seui, come si è già detto per altri vocaboli. Vedi boia-bessa, brichetu, sortiri, turnichetu. Munduruglia, s. f. Rimasuglio di cibo all’interno di un contenitore di liquidi. Muneda/moneda, s. f. Moneta, denaro. Muntonargiu, s. m. Immondezzaio. Muntoni, s. m. Mucchio, grande quantità. Anche per indicare entità astratte, ma più di rado. Vedi amuntonai. Muntza, s. m. Scorpacciata. Sempre con venatura di disprezzo o di ironia per chi vi si dedica con eccessiva frequenza. Muntzigasurda, s. m. Persona taciturna che preferisce agire, non necessariamente e non sempre a 290 fin di bene. Muntzù, s. m. Signore (dal francese monsieur). Veniva chiamato così, al suo ritorno da Lione, un minatore di Seui che si dava arie signorili. Mura, s. f. Mora. Di rovo (murorrùa) e di gelso (muragessa). Muradori, s. m. Muratore. Muradura, s. f. Muratura. Muragessa, s. f. Gelso. Indica l’albero e il frutto. Il s. vive nella toponomastica: indica la grotta più grande e importante del sistema carsico presente nel territorio di Seui, nel cuore del Tònneri. Nel 2004, all’interno della grande cavità, è stato scoperto un insetto fino ad allora sconosciuto in Sardegna, sia in superficie sia nel sottosuolo. Murai, v. Murare. Murau/ada, agg. Murato/a. Murcioni, s. m. Tizzone. Anche in senso traslato: est unu m. (è un individuo spento). Murdegargiu, s. m. Terreno ricoperto di cisto che in autunno e talvolta, ma più raramente, anche in primavera dà il fungo parassita di questo arbusto (cardulinu ’e murdegu). Murdegu, s. m. Cisto (cistus). Usato anche il dim. (murdegheddu): indica l’arbusto giovane e PAOLO PILLONCA quello di dimensioni ridotte. Muredda, s. f. Muricciolo. Murga, s.f. Morchia. Residuo della lavorazione del formaggio, ma anche fondiglio dell’olio d’oliva. Murgia, s. f. Salamoia. Murgüèu, s. m. Santolina, erba profumata (Santolina Insularis). Murorrùa, s. f. Mora di rovo. Murra, s. f. Morra. Murru, s. m. Muso. Murru/a, agg. Bianco/ a. Si usa in riferimento al mantello degli animali, cavalli soprattutto. Un’ebba m. (una cavalla bianca). Murrudu/a, agg. Dal muso (murru) pronunciato. Murta, s. f. Mirto (myrtus communis), albero e frutto. Indica anche il liquore ottenuto dalla bacche. Murtargiu, s. m. Mirteto. Murtedu, s. m. Sin. di murtargiu. Mùrtinu/a, agg. Sàuro/a. Riferito al mantello del cavallo e talvolta, scherzosamente, anche al colore dei capelli umani. Molto usato il dim. murtineddu/a. Muru, s. m. Muro. Nel gergo dei muratori si distingue tutta una serie di tecniche e di materiali di utilizzo. Murva, s. f. Mufla. Solo la fem- Mancarìas. La parlata di Seui mina. Il muflone (ovis musimon) è indicato con l’ausilio di un compl. di specificazione: mascu ’e m., così come il cucciolo: angioni/angioneddu ’e m. Il nome del maschio vive di vita autonoma soltanto nell’espressione figurata est unu murvoni (è un tipo scontroso), nel v. amurvonai, e nel s. amurvonadura. Quando si indica il branco lo si caratterizza al femminile, un’arèi ’e murvas. Presente in due toponimi del territorio di Seui, Sa scala de is (pr. ir) murvas (la scala delle mufle), e Su giogadorgiu de is murvas (il prato dei giochi delle mufle), entrambi all’interno del perimetro demaniale di Montarbu. Sa murva è sicuramente l’animale di maggiore rimando identitario: non è un caso che nello stemma del Comune di Seui campeggi la splendida immagine di un muflone adulto, vero e proprio animale simbolo di un paese a suo modo resistente. Murvinu/a, agg. Del colore della mufla. Detto del mantello di capre che somiglia a quello castano - più chiaro o più scuro a seconda delle stagioni - dei mufloni e delle mufle . Murvonassu/a, agg. Diffidente, scontroso/a, taciturno/a. Murvoni, s. m. e agg. Muflone, 291 scontroso. Musca, s. f. Mosca. Al fastidioso insetto si ispira un’escl. ancora molto usata: musca ddi pìssïat (alla lettera: la mosca gli dà una sensazione di bruciore). La metafora vale: non sarà mai e rappresenta una previsione negativa ironica su una qualche azione disdicevole. Diffusissima, inoltre, una strofetta popolare cantata dalle nubili: Su cani ’e su dotori/ ddi nanta BuscaBusca:/ no ddu ’ogliu pastori/ ca ddi currit sa musca (il cane del medico si chiama Busca-Busca: non lo voglio pastore/ perché è bersaglio delle mosche). Muscadellu/muscadeddu, s. m. Moscatello, vitigno e vino. Musca de (’i) ’etai, s. f. Estro ovino (lett. mosca che lancia). Con le sue larve, lanciate fulmineamente negli occhi o nella gola del pastore malcapitato, provoca una malattia rara e di breve durata, la zoonosi, fastidiosissima infiammazione delle mucose colpite che di norma si risolve in pochi giorni. Ne parla diffusamente il medico storico di Seui Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pag. 145). Muscau, s. m. Moscato, vino molto dolce, da dessert. Muschetu, s. m. Moschetto. 292 Definisce il famigerato ’91 della prima guerra mondiale, in dotazione anche ai ragazzi di Seui che partirono numerosi e tornarono in pochi. Muschitu, s. m. Moscerino. Musconi, s. m. Moscone. Detto anche delle persone importune. No dd’acabbat mai, custu santu musconi (ma non la smette mai, questo santo moscone). Musculadura, s. f. Impianto di muscoli, muscolatura. Musculosu/a, agg. Muscoloso/a. Mùsculu, s. m. Muscolo. Museu, s. m. Museo. Nella parlata di Seui indica primariamente il museo della civiltà agropastorale e mineraria del paese, costituito nei primi anni Ottanta per iniziativa di un gruppo di giovani e successivamente arricchito dalla pinacoteca e dal carcere spagnolo. Il materiale è ora raccolto in vari locali del Comune tra cui due di nuova acquisizione: la casa natale dello scrittore Filiberto Farci sulla via principale e un’abitazione tipica nella parte bassa del paese. Musicanti, s. m. Strumentista, componente di una banda musicale. Vengono definiti così gli strumentisti della banda paesana Gioacchino Rossini, nata ottanta anni fa e ancora attiva. Oggi è for- PAOLO PILLONCA mata prevalentemente da giovani, maschi e femmine. Musicai, v. Fare musica. Mustaïoni, s. m. Spaventapasseri. In senso fig. persona d’aspetto trasandato. Mustatzu, s. m. Baffo. Mustatzudu/a, agg. Baffuto/a. Mustosa, s. f. Seno femminile prorompente. Il s. veniva usato in tono scherzoso fino a qualche decennio fa. Ora è desueto. Mustu, s. m. Mosto. Quello che si ottiene dalla prima spremitura delle vinacce si chiama m. ’e prentza (mosto del torchio). Talvolta lo si usa in tono scherzoso per indicare il vino vero e proprio. Ddi pragit su m. (gli piace il vino, è un beone). Mutetu, s. m. Strofe di poesia destinata al canto. A Seui la tradizione riguarda più che altro i versi settenari dei canti della culla (anninnìas) e della bara (atìtidus), oltre i mutetus a trallallera e gli andimironnai , in modo particolare gli ottonari cantati con accompagnamento di fisarmonica, organetto o armonica a bocca. Nei mutetus la parte più creativa era sempre svolta dalle donne . Mutiladura, s. f. Mutilazione. Mutilai, v. Mutilare. Mutilau/ada, agg. Mutilato/a. Mancarìas. La parlata di Seui 293 N Nadadori, s. m. Nuotatore. Definisce anche un insetto che nuota nelle paludi e nelle acque stagnanti in genere. Nadai, v. Nuotare. Nàdïa, s. f. Natica. Chi no dd’acabbas ti caglientu is (pr. ir) nàdïas (se non la smetti ti riscaldo le natiche), detto ai bambini. In senso fig. può valere: ragazza, giovinetta. Bella n. (bella fanciulla). Nàdidu, s. m. Nuoto. Nai, v. Dire. Non tengiu nudda ’e nai (non ho nulla da dire). Vedi nàrriri. Molto usata nel lessico quotidiano l’espr. unu nau unu fatu (detto fatto). Nai, s. f. Ramo. Naìbbulu, s. m. Diceria, aneddoto. Nanca, v. Dicono, dicevano. Formazione impersonale di nàrriri/nai. Crasi di nant ca (dicono che). N. non fus in bidda (dicevano che tu non fossi in paese). Nannai, s. f. Nonna. Voce desueta. Nannau, s. m. Nonno. Desueto nel suo senso più proprio, oggi lo si impiega con una venatura ironica, come rimprovero ai bambini cresciuti che continuano a comportarsi da poppanti: imoi torraus a sùiri, n. (adesso torniamo a succhiare, nonnino). Nanu, s. m. Nano. Napa, s. f. Panna. Cussu lati est totu n. (quel latte è tutto panna, ossia troppo grasso). Velo. Portas n. in is ogus (hai gli occhi velati). Diaframma di grasso delle interiora degli animali. Su figau ’e procu a orrostu ’olit imboddïau cun sa n. (il fegato di maiale va arrostito avvolto nel suo diaframma). Per est. velame in genere. Narba, s. f. Muffa. Rif. soprattutto a quella che si insedia su formaggio, prosciutto e uva ma anche sui muri. Vedi annarbai. Narbedda, s. f. Malva (malva silvestris). Piantina medicamentosa utilizzata per secoli e tuttora in uso contro i dolori addominali dei bambini. Narbonai, v. Debbiare, preparare la terra per l’aratura. Narbonau/ada, agg. Debbiato/a. 294 Narboni, s. m. Debbiatura. Nàrriri, v. Dire. Molto utilizzato all’infinito sostantivato (unu n.), nel senso precipuo di voce di popolo ma che spesso assume anche il significato di diceria, pettegolezzo, calunnia. Quasi un sinonimo di naìbbulu. Nartussu, s. m. Nasturzio (nasturtium officinale), crescione. Nascïoni, s. f. Nascita, natura, origine. Ddu tenit de n. (ce l’ha per natura). Nàsciri, v. Nascere. Detto di uomini e animali. Dd’at nàscïu unu pipìu (gli è nato un bambino), is angionis mius cumentzant a n. a mesu ’Onnïassantu (i miei agnelli inizieranno a nascere a metà Novembre). Nàscïu/a, agg. Nato/a. Nasu, s. m. Naso. Nasudu/a, s. e agg. Nasone/a. Natura, s. f. Apparato genitale femminile di animali e genere umano. Cudda craba portàt sa n. ingermigada (quella capra era piena di vermi nell’apparato genitale). Dono naturale, dote innata. S’orrùndula cantat po n. (la rondine ha il dono naturale del canto). Naturali, s. m. Indole, carattere. Cuss’ebba est (pr. er) de bonu naturali (quella cavalla è di buona indole). PAOLO PILLONCA Nau/ada, agg. Detto/a. Part. pass. di nàrriri/nai. Nébida, s. f. Nebbia. Vedi annebidai. Nemancu/nimancu, avv. Neppure, nemmeno. Nemus, pron. ind. Nessuno. De su mali ’e is semus non si nd’erriat n. (nessuno rida delle malattie che dànno piaghe), mònito proverbiale. Nénniri, s. m. Grano lasciato germogliare al buio e poi portato in chiesa a Pasqua. In senso fig. persona estremamente delicata. Pres. nei soprannomi. Néscïa, s. f. Piega del ginocchio. Viva l’espressione ses pighendumì a is (pron. ir) néscïas (stai mettendo a dura prova la mia pazienza). Néspula, s. f. Nespolo (Nespulus germanica) e nespola, albero e frutto. Segundu su tempus si papat sa n. (secondo l’andamento stagionale si mangiano le nespole), detto molto diffuso. Nì, s. m. Neve. È un’altra delle parole-chiave della comunità. L’abitudine alla neve ha sviluppato nel corso dei millenni tutta una serie di competenze, comportamenti e saperi - materiali e non - che costituiscono un eccezionale patrimonio del sommerso paesano, a partire dal confronto di ciascuno con sé stesso, con le proprie possibilità Mancarìas. La parlata di Seui fisiche e i limiti nell’ambito della dinamica del passo e della corsa. La neve ha dato e dà anche la consapevolezza dell’inutilità del contrapporsi al tempo del cielo e alle sue manifestazioni più forti. Nella parlata di Seui, il s. è di genere maschile, come nelle parlate logudoresi: su nì, dunque, non sa nì, come in quelle campidanesi vere e proprie. Sa ciligìa ’olit tìmïa meda ’e prus de su n. (il ghiaccio è di gran lunga più temibile della neve). Nïada, s. f. Nevicata. Nd’ap’àiri ’idu ’e nïadas (ne avrò visto, di nevicate), su pegus aresti marcat sa n. meglius de su pegus masedu (la selvaggina segnala l’arrivo di una nevicata meglio del bestiame domestico). Nel patrimonio dei ricordi collettivi molte le nevicate rimaste indelebili. Quella che a memoria d’uomo viene ancora citata più delle altre è sicuramente la nevicata del febbraio 1956 (un mese ininterrotto di neve alta), non a caso definita sa n. manna. Nïai, v. Nevicare. Con l’ausiliare avere. At nïau meda (è nevicato molto), in Tònneri at costumau n. a fini ’e Arbili puru (nel Tònneri si sono registrate nevicate anche a fine Aprile). Apu mòvïu nïau e nïendu (sono partito che già era nevicato e continuava a nevicare). 295 Nichileddu/a, agg. Sparuto/a, esile, eccessivamente magro/a. Vedi nìchili. Nìchili, s. m. Nickel. Il s. definisce l’insieme delle monete metalliche che ci si può ritrovare in tasca o nel portamonete. Ndi portas n. in buciaca? (hai delle monetine in tasca?). Ma il singolare neologismo assume la funzione di agg. quando definisce una magrezza. Virgilïu mi parit tropu n. (Virgilio mi sembra troppo esile). Nïeddacarta, s. f. Vitigno locale che dà un’uva nera molto adatta alla vinificazione. Nïeddigori, s. m. Nerume. Nïeddu/a, agg. Nero/a. Figura nei soprannomi. Nïeddutzu/a, agg. Nerastro/a. Ni/nin, neg. Né né. Ni artu nin basciu (né alto né basso), Nin deu nin tui (né io né tu), nin bellu nin legiu (né bello né brutto), non portat nin pissu ni ala (non ha né altezza né robustezza). Se ne deduce che davanti a vocale si utilizza la forma ni, davanti a consonante è sempre usata l’uscita nin. Niu, s. m. Nido. Indica il rifugio di tutti i volatili. Figura nei toponimi (Niu ’e crobu, nella parte alta del territorio comunale, sotto il nuraghe di Ardasai). No/non, neg. Non. No andu, non 296 bengiu (non vado, non vengo). La forma no davanti a vocale, non davanti a consonante. Nócidu/a, agg. Deboluccio/a, indifeso/a, inerme. Epiteto ir. e affettuoso, utilizzato quasi sempre al vocativo (beni a innoi, su n., vieni qui, picccolino) e rif. pressoché costantemente ai bambini. Municipalismo in disuso ma vivo fino a pochi decenni fa. Nóciri, v. Nuocere, danneggiare, fare del male. Cussus naìbbulus ti nocint aberu (quelle dicerie ti danneggiano sicuramente). Nócïu/a, agg. Nuociuto/a. Nodìu/a, agg. Riconoscibile, chiaro/a, distinto/a, inconfondibile. L’agg. è spesso rif. al sost. dì (giorno). Una dì n. (un giorno distinto), sia che il calendario lo segnali come importante sia che si tratti di un giorno particolarmente significativo nella vicenda personale di un individuo. Nodu, s. m. Potere di percezione, capacità di distinguere i singoli capi di un gregge. Cristolu fut unu ’e is pastoris prus (pr. prur) de n. (Cristoforo era uno dei pastori più capaci di distinguere il bestiame). Viene considerata una qualità imprescindibile del pastore, in primo luogo del capraro, che deve saper distinguere singolarmente i PAOLO PILLONCA suoi capretti (e rispettive madri) se vuole effettuare in tempi compatibili l’operazione quotidiana di allattamento. Vedi amamai. Nöeddu/a, agg. Novello/a, inesperto/a. Nòi, agg. num. card. Nove. Nell’indicazione dell’orario, mentre gli altri numeri non hanno bisogno di ulteriori specificazioni, per il nove si aggiunge il sost. oras. Si dice: sa una, is (pron. ir) duas, is tres, is cuatru, is cincu, is ses, is seti, is otu ma non ir noi. Si deve dire: ir noi oras. Nomenada, s. f. Fama, riconoscibilità. Pitanu fut de mala n. (Sebastiano aveva una pessima fama). Nomenai, v. Citare, dar fama. Nòmini, s. m. Nome, fama. L’espr. portau a n. indica una persona di gran fama, di norma in un ambito specifico. Po sa cassa fut portau a n. (per la caccia era famoso). Noranta, agg. num. card. Novanta. Noratu, n. pr. di pers. Onorato. Pres. anche nel dim. Norateddu. Nossi, avv. di neg. Nossignore. Nostu/a, agg. e pr. poss. Nostro/a. Sempre posposto al s. cui si riferisce. S’ebba nosta (la nostra cavalla), su cani nostu (il nostro cane). Nosu/nos, pr. pers. sogg. e compl. Noi. Ddu andaus nosu (ci Mancarìas. La parlata di Seui andremo noi). Se il pron. diventa compl., come particella pronominale, la forma è nos. Nos at donau stragu (ci ha fatto faticare). Notali, s. m. Pasta corta in genere. Eus papau notalis (abbiamo mangiato pasta corta). Notesta, avv. Stanotte. Noti, s. f. Notte. Fut una n. legia (era una brutta notte). Ma nelle locuzioni avv. a su n. e a primu noti il s. diventa m. come nel log. Nòu, avv. di neg. No. Apu nau ca nou (ho detto di no). Nóu/a, agg. Nuovo/a. Nova, s. f. Notizia. D’uso negli scambi di saluti. E ita novas tenis? Naraus (pron. naraur) bonas ca si cöidant a agatai (Che notizie hai? Diciamo buone perché si fa più in fretta a trovarle).Vedi annovai. Novidadi, s. m. Novità. Nû, s. m. Nodo. Ne esistono di vari tipi, anche difficili da sciogliere come su n. mortu. Vedi annüai. Nudda, s. m. e pron ind. Nulla. De su pagu si campat, de su n. si morit (dal poco si campa, dal nulla si muore), con una variante: meglius pagu che n. (meglio poco che niente). No dd’at torrau n. (non gli ha risposto nulla). Pres. nelle imprecazioni: ancu torris a n. (che tu possa andare in rovina). Nugedda, s. m. Nocciolo (cory- 297 lus avellana), albero e frutto. Il nome ha sostituito nell’uso dei parlanti l’antico oddana, registrato da Max Leopold Wagner proprio a Seui e ricondotto dal Maestro tedesco nel DES al latino avellana. Nugi, s. f. Noce (juglans regia). Il s. indica l’albero e il frutto. Pres. nei toponimi (Errìu ’e nugi). Nui, s. f. Nuvola. Vedi annüilai. Nüoresu/a, s. e agg. Nuorese. Nura, s. f. Nuora. Sorga cun nura, briga segura (suocera e nuora, litigio certo).Vedi sorga. Nuragi, s. m. Nuraghe. Nella parlata di Seui, su n. per eccellenza è quello di Ardasai. Per gli altri occorre aggiungere il compl. di denominazione. Su n. ’e Cercessa, de s’’Enna ’e s’òmini, de Sa Conca ’e su casteddu, de Sa Lèi, etc. Nuscadura, s. f. L’atto e l’effetto dell’odorare. Nuscai, v. Sentire i profumi, profumare. Màrïu nuscat che pegus de fera (Mario sente gli odori come un animale selvatico). Nuschera, s. f. Portaprofumi. Nuscosu/a, agg. Profumato/a. S’erba ’e Santa Maria est (pron. er) de is prus nuscosas de totu su sartu (l’elicriso è una delle erbe più profumate dell’intero salto comunale). Nuscu, s. m. Profumo, fragranza. 298 PAOLO PILLONCA O Obbidiri, v. Obbedire. Obbilai, v. Fissare con chiodi di legno. Obbilu, s. m. Chiodo di legno, usato per sgabelli e altri utensili in sughero. Obbreri, s. m. Membro dei comitati per feste. Il priore è obbreri magiori. Obbrigai, v. Obbligare, costringere. Chi ddu ’olis fàiri feddu, ma non t’obbrìgat nemus (se lo vuoi fare fallo, ma nessuno ti costringe). Obbrigau/ada, agg. Costretto/a, obbligato/a. Obbrìgu, s. m. Obbligo, costrizione. Obèrriri, v. Aprire. Rif. a porte, finestre, cancelli e a tutti i tipi di ingresso materiale. Ma non solo. Oberi is ogus (apri gli occhi). Il v. ha un largo impiego met. Dd’at obertu unu caminu (gli ha aperto una strada). Molto usato rispetto al comune abèrriri di altri paesi della zona. Obertu/a, agg. Aperto/a. Presente anche la variante abertu/a. Obertura, s. f. Apertura. L’uso del s. è limitato al senso reale. Obïada, s. f. Incontro. Obïai, v. Incontrare, andare incontro. Vedi adobïai/ atobïai. Obïau/ada, agg. Incontrato/a. Ocannu, s. m. Quest’anno. Ocasïoni, s. f. Occasione, opportunità. Oddana, s. f. Nocciolo/a, albero e frutto. Termine ormai desueto ma registrato dal Wagner a Seui e ancora vivo fino ai primi anni Settanta. Vedi nugedda. Presente nei soprannomi. Oghïada, s. f. Occhiata, sguardo Oghïai, v. Tener d’occhio. Oghïau/ada, agg. Tenuto/a d’occhio, controllato/a. Ogliastu, s. m. Olivastro (oleaster). Figura in qualche toponimo, come Erriu O. Ogliosu/a, agg. Oleoso, sporco. Pres. nei soprannomi, al f. Ogliu, s. m. Olio. Nome generico riferito principalmente all’olio d’oliva. Ma per le nomenclature specifiche occorre precisare: o. seu (sego), o. ’e procu (strutto), o. stìncini (olio di bacche di lentischio), o. ’e sèminis (olio di semi). Anche Mancarìas. La parlata di Seui per l’olio d’oliva, tuttavia, di norma si specifica: o. ermanu. Ogu, s. m. Occhio. Definisce l’organo della vista e dà luogo a più di una loc. avv. A o., no ddu possu nai, ant éssiri centu metrus (a occhio, non lo posso dire, saranno cento metri). Ma indica anche altri tipi di occhio, come quello del gergo degli innestatori che chiamano o. la gemma. Oi, avv. Oggi. Oindì, avv. Oggigiorno. Oiomomìa, escl. Ahimé! Di meraviglia mista a dispetto. Olàsticu, s. m. Elastico. Olìa, s. f. Ulivo (olea europaea) e oliva, albero e frutto. In is ïerrus prus fridus paricias olias si costumant sicai (negli inverni più freddi succede che molti ulivi si secchino). Olïargiu, s. m. Uliveto. Olïedda, s. f. Piccolo ulivo, ma anche oliva di dimensioni ridotte. Olöidura, s. f. Premura, interessamento, cura. Olöìri, v. Curare con premura, interessarsi attentamente di persone, animali e cose. Càstïa comenti olöit beni s’ortu Lüisa (guarda come Luisa cura bene l’orto), apu olöìu is crabas (ho governato le capre), no as a pòdiri nai ca Maria no iscit o. su nebodeddu. (non 299 potrai dire che Maria non sa curarsi del nipotino). Olöìu/a, agg. Ben curato/a. Oneddu, s. m. Anello. Forma municipale desueta. Vedi aneddu. Opinu, s. m. Pino (pinus pinaster), albero estraneo al territorio, imposto in qualche zona degradata - comunale e demaniale - ”prima dalla pigrizia mentale e dall’incuria di alcuni dirigenti del Corpo forestale dello Stato e della Regione poi” (il drastico giudizio è di uno stimato botanico, Pasquale Palma, per anni direttore della Stazione sperimentale del sughero di Tempio) e finalmente abbandonato negli ultimi lustri. Ora, s. f. Ora. E it’ora siat no ddu sciu, fortzis sa una mancu cüartu (che ore siano non so, forse l’una meno un quarto). Momento. Non seus a ora, imoi (non è questo il momento giusto). Tempo. Dónnïa cosa a s’ora sua (ogni cosa a suo tempo). Orarìa, s. f. Oggetti d’oro. Nome collettivo. Oràrïu, s. m. Orario, tempo esatto. Orba, s. f. Fortuna, casualità. Orbaci, s. m. Orbace, tessuto grezzo di lana sarda. Orbada, s. f. Vomere. Orbescidorgiu, s. m. Alba. 300 Orbèsciri, v. Albeggiare. Est orbescendu (albeggia). Pres. nei soprannomi al part. pass. (Orbéscïu) e al suo diminutivo (Orbescïeddu). Orbéscïu/a, agg. Albeggiato/a. Anche in senso fig. Orbetu, s. m. Passo cauto del cacciatore di frodo solitario e senza l’ausilio dei cani. Viva l’espr. reiterata a s’o. a s’o. (molto cautamente). Gergale della caccia. Orboni/a, s. e agg. Fortunato/a. Orboredu, s. m. Luogo alberato. Desueto. Sopravvive in un toponimo che definisce un vasta superficie (ottocento ettari) situata in pieno territorio di Esterzili ma appartenente al Comune di Seui. Orborïada, s. f. Inizio dell’alba. Orborïadorgiu, s. m. Annuncio dell’alba, aurora in fieri . Orborïai, v. Iniziare a schiarire. Detto della notte che si dilegua. Orborïau/ada, agg. Schiarito/a, anche in senso met. Orci/orcidda, escl. Ahi, grido di dolore fisico acuto. Orcïau, s. m. Ortica. Ordimingiadori, s. m. Amante delle macchinazioni. Ordimingiai, v. Ordire, tramare, escogitare, macchinare, preparare disordinatamente. Ordimingiau/ada, Tramato, ordito. PAOLO PILLONCA Ordimingiu, s. m. Macchinazione, trama, tranello. Ordinagu(s), s. m. Fune del giogo di buoi. Usato prevalentemente al pl. Ordinàrïu/a, agg. Di scarsa qualità. Órdini, s. m. Permesso, consenso. Chen’ó. miu non depeis fàiri nudda (senza il mio permesso non dovete fare nulla). Orfanai, v. Rendere orfano. Orfanau/ada, agg. Reso/a orfano/a. Orfania, s. f. Sin. di orfanidadi. Orfanidadi, s. f. Orfanità. Condizione considerata il punto estremo del dolore e della tristezza, tanto da far ritenere, soprattutto per gli orfani di madre in tenera età, che nelle espressioni dei loro volti resti impresso un marchio indelebile di dolore senza tempo, mai elaborato pienamente. Per gli esempi vedi alla parola successiva. Órfunu/a, s. e agg. Orfano/a. Fut ó. e dd’at pesau una tzia (era orfano ed è stato allevato da una zia), un’ó. er nodìu finas a beciu mannu (un orfano è riconoscibile anche in tarda età). Molto usato il dim. orfuneddu, parola pronunciata sempre con tenerezza e utilizzata nelle similitudini per descrivere situazioni di particolare sofferenza: est che Mancarìas. La parlata di Seui un’ó. (è come un orfano), parit un’ó. (sembra un orfano), a mirada ’e ó. (con lo sguardo dell’orfano). La solidarietà comunitaria ha dato e dà sempre larghe prove di cure particolari verso chi rimane vittima di questa tragedia. S’ó. est (pron. er) de totus (l’orfano appartiene a tutti), detto molto diffuso. Orgiola, s. f. Aia. Presente in alcuni toponimi (Orgiolóniga, S’Orgiola abbrugiada, S’Orgiola de Antoni Cocu, etc). La forma più diffusa nel sardo campidanese (argiola) nella parlata di Seui non esiste. Orgiolai, v. Impiantare l’aia, lavorare alle operazioni di mietitura e trebbiatura. Anche nel traslato: est sempir orgiolendu (è sempre in movimento). Orgiu, s. m. Orzo. Presente nei soprannomi preceduto dall’art. det. Orgüena/argüena, s. f. Trachea. In senso lato, e in tono ir., vale: voce, potenza di canto. Bella o. (bella voce). Origa, s. f. Orecchio. Rif. agli uomini e agli animali. Origa ’e procu, s. f. Borragine (borrago officinalis). Così la descrive Demetrio Ballicu: ”Pianta annuale con foglie grandi e rugose, di forma rotondeggiante che hanno l’aspetto degli orecchi del maiale”. Da qui, 301 evidentemente, il nome origa ’e procu (orecchio di maiale). Origonis, s. m. Parotite, orecchioni. Su pipìu portat is o. (il bambino ha la parotite). Origudu/a, agg. Orecchiuto/a. Orrobba, s. f. Roba: abiti, vesti, etc. Nel gergo dei pastori o. indica genericamente il bestiame posseduto. Meda o. portas? Unas centubinti (Hai molto bestiame? Circa centoventi). Orrobbertu, n. pr. di persona. Roberto. Orrobbinu, s. m. Perlina che orna la gonna del costume tradizionale femminile. Il s. è usato soprattutto al pl. Orróca, s. f. Roccia. Orròcu, n. pr. di persona. Rocco. È il Santo patrono di Seui, ma non ha né chiesa né festa popolare, salvo il ricordo nei riti religiosi del 16 agosto. Orroda, s. f. Ruota, di qualunque veicolo senza distinzione (carro, automobile, treno, aereo). Presente nei soprannomi. Orrodai, v. Arrotare. Orrodedda, s. f. Rotella. Anche in senso fig., nell’espr. ir. ddi mancat cheleguna o. (gli manca qualche rotella). Orrodïeddu, s. m. Fusaiolo, rotella forata al centro infilata alla 302 base del fuso per garantirne la regolarità di movimento circolare. Orrogaglia, s. f. Minutaglia, materiale frantumato. Orrogadura, s. f. Riduzione a pezzetti, distruzione. In senso fig. lavoro malfatto, azione priva di discernimento. Viva a loc. avv. a o. Orrogai, v. Fare a pezzi. Orrogau/ada, agg. Ridotto/a in pezzi. Orrogu, s. m. Pezzo di qualsivoglia materia, soprattutto pane, carne e legno. Orröidori, agg. Roditore, che rosica. Esiste a Seui una particolare specie di pesco detto péssïu o. perché la polpa - di sapore assolutamente straordinario - non si stacca facilmente dal nocciolo e dunque va rosicata. Orroìna, s. f. Ruggine. Orröinai(si), v. Arrugginire, arrugginirsi. Ancora vivo il prov. s’òmini imbidïosu est che ferru chi s’orroìnat (l’uomo invidioso è come il ferro che si arrugginisce). Orröinau/ada, agg. Arrugginito/a. Orróiri, v. Rosicare. In senso fig. vale: mangiare, mangiucchiare. Nd’orróit de cosa, cussu, chi ddu lassas (ne mangia di roba, quello, se glielo permetti). Il part. pass. è orrósïu. PAOLO PILLONCA Orroleddu, s. m. Roverella giovane. Orròli, s. m. Roverella (quercus pubescens). Albero non molto presente nel territorio di Seui, a differenza del leccio. La pianta è considerata invasiva e perciò tenuta a freno nella sua espansione, soprattutto in prossimità di alberi da frutto. La si ritiene dannosa per le altre colture e la sua legna non è molto apprezzata per gli utilizzi domestici invernali. Orromigadura, s. f. Ruminazione. Orromigai, v. Ruminare. In senso fig. meditare in solitudine. Orromigau/ada, agg. Ruminato/a, meditato/a. Orrosa/Orrosica, n. pr. di persona. Rosa, Rosetta. Orrosa, s. f. Rosa (rosa canina). Dà luogo ad una similitudine divenuta nel tempo luogo comune: friscu che un’orrosa (fresco come una rosa). Orrosa de monti, s. f. Peonia (paeonia officinalis), rosa di montagna frequente nel territorio di Seui e dall’aspetto inconfondibile. Orrosarïada, s. f. Preghiera reiterata. Orrosarïai, v. Rosariare, pregare. Est sempir orrosarïendu (è sempre in preghiera). Mancarìas. La parlata di Seui Orrosarïau/ada, agg. Ripetuto insistentemente, come nel rosario. Orrosàrïu, s. m. Rosario. Il rosario della preghiera cristiana. In senso fig. ripetizione eccessiva di un concetto. Ddu narat a o. (lo ripete come fosse un rosario). Orroscèntzïa, s. f. Noia, disturbo, fastidio. Fulanu est un’o. (Fulano è una noia). Orroscidura, s. f. Venuta a noia. Orròsciri, v. Avere a noia, essere stufo. Anche nella forma rifl. T’orròsciu (mi sei venuto a noia), coidu a m’o. (mi stufo presto). Frequentissima l’espr. divenuta luogo comune o. che-i sa petza pudèscïa (venire a noia come la carne putrida). Orróscïu/a, agg. Annoiato/a, venuto/a noia. Orrosïai, v. Bagnare, velare di rugiada. Indica anche il formarsi notturno della stessa rugiada. A ùrtimus de äustu cumentzat a o. (a fine agosto inizia a cadere la rugiada). Vedi orrosu. Orrosïau/ada, agg. Bagnato/a di rugiada, rugiadoso/a. Orrosica, n. pr. di pers. Rosa. Orrosina, s. f. Pioggerellina leggera e sottile, simile alla rugiada. Orrosinai, v. Piovigginare a goccioline simili a rugiada. Orrósïu/a, agg. Rosicato/a, mangiato/a. Vedi orróiri. 303 Orrosonita, s. f. Rotella, rosnetta. In senso fig. sussa, percossa. Chi intzighis ti passu s’o. (se insisti ne buschi). Orrostiri, v. Arrostire. Rif. soprattutto alle carni. Orrostiu/a, agg. Arrostito/a. Orrostu, s. m. Arrosto. Chi abarras cöeus un’orrogu de petza a o. (se resti con noi cuciniamo un pezzo di carne arrosto). Orrosu, s. m. Riso, la pianta erbacea e il suo prodotto. Orrosu, s. m. Rugiada (ros, roris). Orrovina, s. f. Disgrazia, rovina, fatalità. Orrovinai, v. Rovinare, mandare in rovina. Orrovinau/ada, agg. Rovinato/a, distrutto/a. Orrù, s. m. Rovo (rubus fruticosus) arbusto spinoso per eccellenza. Il frutto si chiama murorrùa (vedi). Orrüargiu, s. m. Roveto. Per est. luogo incolto e difficile da attraversare a piedi e senza protezione. Vedi irdorrüai. Orrubïai(si), v. Arrossare. Sa primu dì ’e mari m’orrùbïat sa peddi (la prima giornata di mare mi arrossa la palle) Nella forma rifl. vale arrossire. Chi ddu certas s’orrùbïat inderetura (se lo rimproveri arrossisce immediatamente). 304 Orrubïastu/a, agg. Rossastro/a. Orrùbïu/a, agg. Rosso/a. Orruga, s.f. Vicolo, viuzza. Est un’o. strinta, fata po is carrus (è una viuzza adatta ai carri a buoi). Escrescenza della pelle, porro. Dd’at bessìu un’o. (gli è spuntato un porro). Bruco. In s’istadi is ìligis furint prenas de o. (d’estate i lecci erano carichi di bruchi). Orrùiri, v. Cadere. Nel camminare e/o nel correre a piedi, ma anche da cavallo, dalla bicicletta, dalla moto, da un albero, da una roccia, da un muro o da un tetto. In senso fig. cadere in trappola. Chi ddi fais una troga nci orrùit che nudda (se gli tendi una trappola ci casca come se niente fosse). Orrulloni, s. m. Bubbolo, sonaglio per finimenti da cavallo: sferetta di metallo dentro cui si muove una pallina. Orrunda, s. f. Vagabondaggio, moto perpetuo. Orrundai, v. Bighellonare, gironzolare, darsi alla bella vita. Est sempir orrundendu (girovaga di continuo). Frequente l’espr. orrundaorrunda, per dare il senso di una vita in costante movimento ma senza meta precisa. Orrunderi/a, s. e agg. Vagabondo/a. Orrundinina/rundinina, s. f. PAOLO PILLONCA Rondinina, segno distintivo del bestiame. Gergale della burocrazia comunale. Per i particolari vedi rundinina. Orrùndula, s. f. Rondine. Orrunduledda, s. f. Rondinella. Orrusciadori, s. f. Innaffiatoio. Orrusciai, v. Innaffiare. Desueto. Orruta, s. f. Caduta semplice. At fertu un’o. (ha subìto una caduta). Orrùtidu, s.m. Rutto. Orrutorgia, s. f. Caduta rischiosa. Quasi un sin. di orruta, ma indica un evento di maggiore gravità e pericolo quando si tratta di caduta multipla, per es. in una corsa equestre. Orrutu/a, agg. Caduto/a. Anche in senso fig. Part. pass. di orrùiri. Ortali, s. m. Orto di vasta dimensione. Ortalìtzïa, s. f. Ortaggio, verdura. È anche nome collettivo. Ortéssïu, s. m. Clemàtide, arbusto rampicante della famiglia delle ranuncolacee. Una volta, l’iniziazione ai misteri del fumo partiva proprio dal tralcio di questo arbusto. Ortigai, v. Raccogliere il sughero dai sòveri con la decorticazione del tronco. Ortigaïu, s. m. Raccoglitore di sughero. Ortigau/ada, agg. Decorticato/a. Mancarìas. La parlata di Seui Ortigeddu, s. m. Orticello. Ortigu, s. m. Sughero. Ortu, s. m. Orto. La cura degli orti è stata per secoli - e continua ad essere, anche se in misura ridotta - una delle principali occupazioni delle donne del paese. Come in tutti i centri di montagna, le colture principali erano e sono: patate, fagioli, zucchine, cetrioli, pomodori, bietole, sedani, oltre all’aglio, la cipolla e il prezzemolo. Un tempo era fiorente anche la coltivazione dello zafferano, ora ridotto alla marginalità. Oggi c’è da dire che le tecniche si affinano, e non sempre sul versante della qualità dei prodotti. Òru, s. m. Oro. Molto usato in senso met. come sinonimo di valore, rarità, eccellenza e simili. Unu piciocu ’i ò. (un ragazzo d’oro). La voc. iniziale è aperta. Óru, s. m. Orlo, del cucito e di qualunque altro elemento, dal burrone (s’o. ’e sa spérruma) al bosco (s’ó. ’e su padenti). L’espr. boddiri ó. vale: intuire, prevedere. Cristolu fut ingirïendu una picioca ma nde dd’at boddìu ó. sa pobidda (Cristoforo stava circuendo una ragazza ma la moglie l’ha intuito). La loc. in s’ó. - tuttora molto usata - vale: vicinissimo. La vocale iniziale è chiusa. 305 Orus, s. m. Denari. Gergale del gioco delle carte. Vedi cupas, bastus e spadas. Ossàmini/ossìmini, s. m. Ossatura. Ossu, s. m. Osso. Indica le ossa in genere, di uomini e animali. Ossudu/a, agg. Ossuto/a. Óstïa, s. f. Ostia, la particola dell’Eucarestia. ’Ostu/bostu/a, agg. e pr. poss. Vostro /a. Sa làcana ’osta (il vostro confine). Otanta, agg. num. card. Ottanta. Otantena, s. f. Ottantina. Otava, s. f. Ottava rima, strofe tipica degli estemporanei. Oténniri, v. Ottenere, guadagnare. Otentu/a, agg. Ottenuto/a. Otu, agg. num. card. Otto. Otugentus, agg. num. card. Ottocento. Otumila, agg. num. card. Ottomila. Ou, s.m. Uovo. Usato anche il dim. öigeddu (ovetto). 306 PAOLO PILLONCA P Pabassa, s. f. Uva passa. Pabassadura, s. f. Appassimento. Pabassai, v. Appassire, rinsecchire, raggrinzire. Pabassau/ada, agg. Appassito/a, rinsecchito/a, raggrinzito/a. Pabassinu, s. m. Dolce di mandorle, nocciole e uva passa. Un tempo calendarizzato rigidamente, lo si preparava per le ricorrenze novembrine dei Santi e dei Morti. Oggi si tende a non rispettare precisi rimandi temporali e lo si confeziona liberamente in tutte le stagioni dell’anno. Pabau, avv. Pochissimo. Contrazione e corruzione di pagu-pagu. Pabäùli, s. m. Papavero. Padenti, s. m. Bosco fitto, foresta. Implicitamente si intende una lecceta, o comunque un bosco con netta prevalenza di lecci o alberi della famiglia delle querce. A tretus su p. est prus cracu (a tratti il bosco si fa più fitto). Vedi ìligi. Pagai, v. Pagare, ricompensare. Deus ti ddu paghit (Dio ti conceda la ricompensa). Pagamenta, s. f. Tassa, balzello. Pagamentu, s. m. Pagamento. Pagau/ada, agg. Pagato/a. Pagi, s. f. Pace. Condizione ideale di convivenza comunitaria, da tenere sempre viva attraverso un intreccio di relazioni costanti di aiuto vicendevole e di scambio di doni, anche attraverso prelibatezze alimentari. Come nel detto antico: chi ’olis chi sa pagi si mantengiat /tandu unu pratu andit e unu ’engiat (se vuoi che la pace si conservi, allora fai in modo che un piatto vada e un altro venga). Pagïosu/a, agg. Pacifico/a, amante della pace, disponibile alla mediazione. Sono questi gli uomini e le donne più apprezzati nel giudizio popolare e spesso chiamati a comporre i dissidi interni al paese. Paglia, s. f. Paglia. In senso fig. vanagloria, narcisismo, logorrea. Nd’iscapat de p. Sarbadori (ne fa volare, di paglia, Salvatore).Vedi spagliai. Paglieri/a, s. m. Vanaglorioso, chiacchierone, superficiale. Pagu, agg. e avv. Poco. Come agg. non muta desinenza se rif. a Mancarìas. La parlata di Seui un s. f. ( pagu genti, pagu friscura, pagu vida (poca gente, poca frescura, poca vita). Pagumali, avv. Menomale. Pagu-pagu, avv. Pochissimo. Nella parlata quotidiana la reiterazione si abbrevia in pau-pau e anche pabau. Pres. in diversi soprannomi formati da composti. Pala, s. f. Spalla, dell’uomo e dell’animale. Indica anche un terreno di altura ma assai pianeggiante. Molte usate le loc. a palas (alle spalle, dietro) e de p. in coddu (lett. dalla spalla all’òmero, quando si vuole indicare un gioco a scaricabarile). Vedi coddu. Palanchinu, s. m. Leva, palanchino di ferro. Pàlïa, s. f. Pala. Senza specificazione ulteriore, indica la pala metallica del muratore. Se è lignea e destinata al forno, si chiama, appunto, p. ’e forru. Se si parlerà male di un morto, sarà facile sentirsi ammonire: lassaddu in pagi, est una p. ’e terra (lascialo in pace, è una pala di terra). Palïetu, s. m. Bagaglio. Molto usata l’espressione ironica si nd’at pigau is palïetus e si nd’est andau (ha preso con sé i bagagli ed è andato via). Palineddu, s. m. Canestrino di asfodelo. Pres. nei soprannomi. 307 Palini, s. m. Canestro di asfodelo dalle pareti basse. Palita, s. f. Piccola pala di ferro per la brace del focolare. Indica anche l’attrezzo a manico corto del muratore per mettere il cemento sui muri in costruzione o restauro. Presente nei soprannomi. Dim. palitedda. Pampa, s. f. Vampa, vampata. Indica il crearsi della fiamma nella prima fase della accensione di un fuoco. Vedi fraca. Pampada, s. f. Vampata, intervallo irregolare tra una sortita e l’altra. Andat a pampadas (procede per vampate). Pampori, s. m. Sensazione di caldo eccessivo, vampata. Pana, s. f. Puerpera. La donna che ha partorito di recente viene considerata p. per la durata di quaranta giorni, il tempo ritenuto a rischio per la sopravvivenza della madre dopo il trauma del parto. Il s. non assume qui il significato di donna morta di parto e poi passata in quella sorta di limbo che sono le rive dei fiumi, senso che invece ha in molte altre zone dell’isola dove sopravvive il mito delle panas. Nella parlata di Seui pana definisce esclusivamente la puerpera: viva e vegeta anche se comprensibilmente debole. Vedi incresïai. 308 Panateri/a, s. m. e f. Fornaio/a, panificatore/panificatrice. Paneri, s. m. Culo. Colorita l’espress.: ses pighendu a p. (sei una rottura). Panga, s. f. Macelleria, rivendita di carni. Desueto. Vedi spangai. Pangargiu, s. m. Macellaio. Desueto. Pani, s. m. Pane. L’alimento primario della civiltà umana ha avuto e continua ad avere anche a Seui come in tutta la Sardegna, con particolare riguardo alle zone interne - una larga articolazione di saperi manuali nelle tipologie, dal civargiu ai vari tipi di civargeddus, a su p. bïancu, il pane candido lavorato talvolta artisticamente come su p. pintau, lett. il pane dipinto, delle occasioni festive, familiari e paesane. In passato si confezionava anche il pane d’orzo. Diversamente dai paesi confinanti dell’Ogliastra, a Seui non si confeziona su pistocu, né ci sono documenti che ne provino la presenza in passato. Numerose le espressioni legate al pane. Una delle più usate suona p. malu (di cattiva qualità), che in senso fig. indica la scarsa armonia in famiglia, dovuta principalmente al disaccordo fra i coniugi o alle estreme necessità materiali del nucleo familiare. Il s. PAOLO PILLONCA è impiegato in senso improprio per definire la confezione di alcune specialità gastronomiche come la cordula di pecora e di capra (p. ’e corda). Pani ’e presta, s. m. Pane ottenuto in prestito, dunque da restituire, In senso met. debito da pagare. Pani ’e saba, s. m. Pane di sapa, dolce tipico di alcune ricorrenze rituali come quella dei Santi. Pannigeddu, s. m. Fazzoletto. Pannissu, s. m. Pannolino. Pannu, s. m. Panno. Indica il tessuto che si dava in premio ai vincitori delle corse equestri e anche, più semplicemente, il tipo di tessuto. In senso fig. vittoria, gloria. Pannuga, s. f. Pannocchia. Pannuga ’e coscia, s. f. Adenite, infiammazione delle ghiandole inguinali che fino ai primi del Novecento si curava con rituali magico-religiosi, come testimonia il medico per antonomasia della comunità seuese Demetrio Ballicu (Ricordi di una fanciullezza e di un’adolescenza lontane…, cit., pag. 18). Pantuma, s. f. Fantasma. Figura in movimento, come un’apparizione. Papadura, s. f. Mangiata. Frequente la loc. a p. Mancarìas. La parlata di Seui Papada, s. f. Mangiata, spuntino copioso. Nos eus fatu una p. ’e petza ’e craba (ci siamo fatti una mangiata di carne di capra). Papai, v. Mangiare, alimentarsi. Si usa in rif. a uomini e animali. Ma per gli uomini vale l’ammonimento contenuto nella vecchia esortazione: papa e citi (mangia e stai zitto), tuttora presente nella lingua di uso quotidiano, tanto che un ristoratore seuese ha dato questo nome al suo locale cagliaritano. Se riferito al fuoco vale: distruggere. Nce dd’at papau su fogu (se lo è divorato il fuoco). Presente nell’imprecazione su fogu nce ddu papit (che il fuoco lo divori), sovente abbreviata in fogu ddu papit (che il fuoco lo bruci) o più drasticamente in fogu. Frequente l’impiego anche come inf. sostantivato: ti depis arregulai in su p. chi ’olis curai a lestru (se vuoi guarire in fretta ti devi regolare nel mangiare). Papalardu, s. m. Specie di passerotto. Papasucu, s. m. Mangiaminestra. Pres. nei soprannomi. Papau/ada, agg. Mangiato/a. Paperàmini, s. m. Scartoffie, mucchio cartaceo. In senso dispregiativo. Paperi, s. m. Carta. Indica ogni 309 tipo di materiale cartaceo, tranne le carte da gioco e le carte bollate dei documenti ufficiali. . Paperotu, s. m. Pacchetto. Usato quasi escl. al pl. Pinniga is paperotus e baidindi (raccogli armi e bagagli e vattene). Papingiu, s. m. Prurito forte. In senso met. desiderio mal dissimulato, frenesia. Ndi portat de p., cudda (ne ha di prurito, quella). Papu, s. m. Nòcciolo commestibile. Para, s. m. Frate. Il frate vero e proprio è p. ’e missa (frate da messa), il confratello questuante è p. cicanti (fraticello questuante, laico). Paracheddu, s. m. Ombrellino. Paracu, s.m. Ombrello. Paragonïai, v. Affrontare un’agonia sofferta, morire fra le sofferenze. Cussu sa morti est paragonïendudedda (quello lì sta morendo tra mille sofferenze). Paragonïau/ada, agg. Sofferto/a all’estremo limite. Paragónïu, s. m. Sofferenza estrema di un malato terminale. Desueto. Parai, v. Allevare bestiame. At parau crabas (si è messo ad allevare capre). Tendere. P. s’origa (tendere l’orecchio), p. unu lassu (tendere una trappola). Affrontare. Linu at parau fronti a unu strangiu 310 chi fut prus mannu meda ’e carena (Lino ha affrontato un forestiero di corporatura molto superiore alla sua). Di recente il v. è entrato anche nel gergo del gioco del calcio. No iscìt p. nudda, cussu portieri (quel portiere non sa parare affatto). Il dev. è paru. Paralìmpïu, s. m. Paraninfo, pronubo. Spesso in senso ir. E ita ’olis, a ti fàiri ’e p.? (cosa vuoi, che ti faccia da pronubo?). Parastagiu, s. m. Scaffale a muro adibito a contenere soprattutto vasellame. Piattaia. Parau/ada, agg. Allevato/a, teso/a. Part. pass. di parai. Pardu, s. m. Prato, pascolo pianeggiante. Nel gergo degli agricoltori, però, il s. indicava quella parte del territorio comunale di anno in anno assegnata alla semina. Ne rimane traccia anche in un toponimo, Cùcurus de p., la parte più alta del territorio assegnato alla semina. Pàrdula, s. f. Formaggella. Pariga, s. f. Paio. Ma l’indicazione non segna rigidamente il tempo né la quantità. Mi pasu po una p. ’e dis (mi riposerò per qualche giorno). Paris, agg. indecl. Pianeggiante. Logu paris è la pianura. Ddi parit totu su logu p. (ogni terreno gli sembra pianeggiante), per indicare PAOLO PILLONCA un ottimista o un facilone. Paris, avv. Insieme. Ddu andaus paris (ci andiamo insieme). Pàrriri, v. Sembrare, apparire. Il part. pass. è partu. Pàrriri, s. m. Giudizio, parere, opinione. Partera, s. f. Partoriente. Parti, s. f. Parte. Is partis depint éssiri ugüalis. Preferenza, difesa. Ddi ponit sempir sa p. Pres. anche nei toponimi, indica una zona sotto il versante sudorientale della foresta di Montarbu. Partida, s. f. Partita, dall’incontro di calcio alla sfida al gioco delle carte. Partidedda, s. f. Partitella, breve partita. Partiri, s. m. Partire. Con l’aus. avere. At partìu (è partito). Partìu/a, agg. Partito/a. Partu, s. m. Parto. Partu/a, agg. Sembrato/a, parso/a. Part. pass. di pàrriri. Paru, s. m. Specie, razza di bestiame. Su p. ’e sa craba, su p. ’e su procu (la specie delle capre, la specie dei maiali). Dev. di parai. Pasai, v. Riposare, sostare. Cristolu trabbagliat totu sa dì chene p. nudda (Cristoforo lavora tutto il giorno senza un attimo di riposo). Pasau/ada, agg. Riposato/a. Pasca, s. f. Pasqua. Quella di Re- Mancarìas. La parlata di Seui surrezione, definita Pasca Manna, per differenziarla rispetto al Natale, Paschigedda (piccola Pasqua). Pascali, s. m. Vitigno tipico che si coltiva insieme con il cannonau nel tentativo di rendere meno forte e più gradevole il vino. Paschigedda, s. f. Festività del Natale. Pascifera, s. m. Favoloso protettore della selvaggina (lett. conduttore di selvatici). Secondo questo mito, vivo nei ricordi dei cacciatori più anziani, le mufle e i mufloni soprattutto, ma anche i cinghiali, in certi frangenti godrebbero della protezione di un personaggio ultraterreno che li salverebbe nei momenti peggiori. Pàsciri, v. Pascolare. Oi is crabas non pascint (oggi le capre non hanno voglia di pascolare). Condurre al pascolo. Franciscu giai chi ddas pascit (Francesco sì che le fa pascolare). In senso fig. coltivare con delicatezza una relazione sentimentale. Ses pascendudidda, cudda piciochedda (te la corteggi, quella ragazzina). Pascïu/a, agg. Pascolato/a. Pasongiu, s. m. Pausa, riposo. Vedi pasai e pasu. Passada, s. f. Percorso pianeggiante. Passada, s. f. Serie di colpi o 311 altro. Dd’at donau una p. ’e ciafus (gli ha dato una serie di schiaffi). Spesso utilizzato per metafore erotiche del tipo donai una p. de cudda cosa (dare una serie di colpi con quella cosa). Passadissu, s. m. Andito. Luogo di passaggio all’interno di una casa. Passai, v. Passare, trascorrere. Fui in Gersadili e nci soi passau a Carrighera (ero a Gersadili e mi sono spostato verso Carrighera), candu soi contonïau fut mesunoti passada (quando sono rientrato a casa era già trascorsa la mezzanotte). Sopportare. Ti nau ca nd’at dépïu p., Franciscu, po mori de is figlius (ti dico che Francesco ne ha dovuto sopportare, per colpa dei figli). Passau, s. m. Tempo passato. Passau/ada, agg. Passato/a, trascorso/a, sopportato/a. Passïali, s. m. Stabbio. Nel gergo dei pastori, il recinto in cui si tiene il bestiame all’aperto durante la notte nella buona stagione. Passïèntzïa, s. f. Pazienza. Cun tui nci ndi ’olit aberu ’e p. (con te ce ne vuole davvero, di pazienza). Al pl. (is passièntzïas), significa condoglianze. Dd’apu ’onau is p. (gli ho presentato le mie condoglianze). Passïentzïosu/a, agg. Paziente. 312 Passillada, s. f. Passeggiata. Passillai, v. Passeggiare. Passillu, s. m. Passeggio. Passìu, s. m. Vagabondaggio, il girovagare senza meta. Est a p. (fa il vagabondo). Passu, s. m. Passo, varco. In questa accezione è presente in un toponimo famoso, Su P. malu, mitico passaggio - strettissimo ed estremamente rischioso - lungo una cengia del massiccio del Tónneri. Modo di camminare, andatura. Bellu p. tenit, Franciscu (Francesco ha un bel modo di camminare), s’ebba tua non poderat su passu de is atrus cüaddus (la tua cavalla non regge l’andatura degli altri cavalli). Pasta, s. f. Pasta. Pastasciuta, s. f. Pastasciutta. Figura nei soprannomi. Pastori, s. m. Pastore. Quando non ha specificazioni, il s. si riferisce all’allevatore di pecore. Chi alleva capre è crabargiu, chi possiede bovini bacargiu, chi bada ai suini procargiu. Al pl. is pastoris indica l’intera categoria degli allevatori, a prescindere dalla specie di bestiame allevato. Per indicare un allevatore giovanissimo, si usa il dim. pastoreddu. Pastorìu, s. m. Classe pastorale, categoria dei pastori. PAOLO PILLONCA Pastura, s. f. Pascolo. Pasu, s. m. Riposo, tranquillità, relax. Dev. di pasai. Vedi pasongiu. Patarru, s. m. Piccola carica di esplosivo da miniera. Patena, s. f. Medaglia. In senso ir. spesso al dim. (patenedda), lo si usa per definire un prosciutto minuscolo: parit una p. (somiglia ad una medaglietta). Patidori/a, agg. Sofferente, addolorato/a. Patimentu, s. m. Sofferenza, più morale che materiale. Patiri, v. Soffrire, patire. Un prov. recita: chini non patit non podit mancu gosai (chi non soffre non può neppure gioire). Patìu/a, agg. Sofferto/a. Lüisa mi parit p. meda (Luisa mi sembra molto provata). Patrefìlïu, s. m. Attimo, momento fuggevole (il brevissimo tempo che si impiega a dire Pater et Filius nelle preghiere). Si ddu est postu e in-d-unu p. at fatu totu (ci si è messo e in un attimo ha fatto tutto). Patus, s. m. Patto, accordo. Pau-pau, avv. Contrazione-corruzione di pagu-pagu. Vedi anche pabau. Paùli, s. f. Palude. Pres. nella toponomastica, indica una zona ricca d’acque - ma ora non più Mancarìas. La parlata di Seui paludosa - nella parte alta del territorio comunale, tra Cùcurus de pardu e S’arenedda bïanca. Pearbu/a, agg. Balzano/a, lett. dalla zampa bianca. Detto dei cavalli morelli, bai e sauri balzani a una zampa. Pebedda, s. f. Afta. Pebeddosu/a, agg. Pieno/a di vescicole. Pecadori/a, s. e agg. Peccatore/peccatrice. Pecai, v. Trasgredire, peccare. In su papai, chi non biu non pecu (nel mangiare, se non vedo non trasgredisco). Pecau, s. m. Peccato, colpa. Pedali, s. m. Pedale. Vedi apedalai. Peddargiu, s. m. Commerciante di pelli. Peddi, s. f. Pelle. No apu ’éndïu manc’una p. ’e crabitu (non ho venduto neppure una pelle di capretto). Vita. S’at sarvau sa p. (ha salvato la vita). Pedditzoni, s. m. Uomo male in arnese, individuo di scarso valore. Pedidori, s. m. Mendicante. Pedidorìa, s. f. Accattonaggio. Pediri, v. Chiedere per avere. Chiedere per sapere è, invece, pregontai. Pedìu/a, agg. Chiesto/a, richiesto/a. 313 Peghiteddu, s. m. Asinello. Dim. scherzoso. Vedi bistratzu, burricu, cocineddu, molenti e pegus de mola. Pegus, s. m. Capo di bestiame in genere (pecus). Per indicarne uno in particolare occorre specificare: p. de craba (capra), p. de mola (asino), p. de ’uli (bovino), etc. Su p. de fera è l’animale selvatico. Il s. è indeclinabile. In senso dispregiativo vale: uomo di scarso valore, mascalzone. Arratza ’e p. (che razza di mascalzone). Pèi, s. m. Piede. Numerosi i composti: peis de coca (piedi d’oca), peisladus (dai piedi larghi, registrato nei soprannomi), peislébïus (dai piedi leggeri, pres. anch’esso nei nomignoli), pèi-maduru (dai piedi enormi), pèi-mannu (dai piedi grandi), pèi-trotu (dai piede storti), pèi-tundu (dai piedi tondi, asino). Pëincareddu, s. m. Gioco infantile prevalentemente femminile, senza alcun premio che non sia l’onore di aver vinto. Consiste nel segnare sul terreno un rettangolo con sei linee divisorie orizzontali e una verticale. I dieci quadrati così ottenuti diventano il campo da gioco. Ogni giocatrice avanza a saltelli su un solo piede, tenendo l’altra gamba piegata o semipiegata. Deve sospingere con la punta della scarpa un sassolino - spesso un coc- 314 cio di tegola - in modo da farlo passare da una casella alla successiva senza che si fermi mai su una linea divisoria, pena l’uscita temporanea dalla tenzone. Chi riesce a terminare il gioco senza errori acquisisce il diritto, nelle giocate successive, di avere una casella personale al cui interno, quando vi transita giocando, può posizionare come crede, anche usando le mani, il sasso o il coccio per poterlo poi sospingere più facilmente nella casella successiva. Per ottenere il diritto alla casella personale, la giocatrice deve però fornire un’ulteriore prova di abilità: con le spalle rivolte al terreno di gioco, deve lanciare alla cieca la pietruzza cercando di farla cadere non soltanto all’interno del rettangolo ma nei confini di una singola casella, senza toccare alcuna linea divisoria. Pena, s. f. Dolore del parto. Is penas per eccellenza sono le doglie. Penai, v. Soffrire le doglie del parto. Su pipìu est su miu ca dd’apu penau (il bambino è il mio perché con lui ho sofferto le doglie del parto). Penau/ada, agg. Sofferto/a. Pendi-pendi, loc. avv. Penzoloni. Pèndiri, v. Pendere. Tendere a, avere propensione per. Pensamentu, s. m. Pensiero, PAOLO PILLONCA riflessione, preoccupazione, ansia. Non mi pongias in p. (non mettermi in ansia). Pentimentu, s. m. Pentimento. Pentìrisi, v. Pentirsi, provare pentimento. Pentiu/a, agg. Pentito/a. Pepi, n. pr. di pers. Giuseppe. Pepineddu, n. pr. di pers. Dim. di Pepinu. Pepinu, n. pr. di pers. Giuseppe, Peppino. Perda, s. f. Pietra. Al termine generico vanno aggiunte le specificazioni del caso tutte le volte che si vuole distinguere. P. tachina è la pietra calcarea, p. ’e schistu lo scisto, p. ’i errìu la pietra levigata dei fiumi, p. ’e orrodai la cote, ossia la pietra nera ricca di quarzo granulare utilizzata dagli arrotini per affilare le lame di coltelli, falci, cesoie, etc. Pres. nei toponimi in rif. ad alcune pietre della zona tra Gersadili e Piras orrùbïas che sembrerebbero mostrare segni plurisecolari di scrittura: Perdas litaradas. Perdali, agg. Petroso/a, di pietra. Vivo nell’espr. beciu p. (vecchio come le pietre). Perdarba, s. f. Pietra bianca. Presente nella top. al plurale: Perdas Arbas, tra Arcüerì e Orgiolóniga. Perdargiu/ Perdïargiu, s. m. Pietraia, pietrame. Usate entram- Mancarìas. La parlata di Seui be le forme, senza distinzione. Perdedu, s. m. Pietraia, luogo ricco di pietre. Desueto nel lessico quotidiano, vive nella toponomastica. Perdidori, s. e agg. Perdente. Perdidura, s. f. Perdita, perdizione. Perdigenti, s. e agg. Testardo fino all’estremo, tanto da costringere l’interlocutore a perdere il controllo di sé e rovinarsi (pèrdirisi). Perdigi, s. f. Pernice (alectoris barbara). Presente nei soprannomi. Perdigoni, s. m. Pallino di cartuccia dei fucili da caccia. Apu carrigau a perdigonis (ho caricato a pallini). Vedi aperdigonai. Perdimentu, s. m. Perdita di bestiame per furto subito. Perdingianu, s. m. Melanzana. Pèrdiri, v. Smarrire, perdere, essere sconfitto. Pérdïu/ pèrdïa, agg. Perduto/a. Perdonai, v. Perdonare, scusare. Perdonau/ada, agg. Perdonato/a, scusato/a. Perdonu, s. m. Perdono. Perdosu/a, agg. Pietroso/a, duro/a. Anche in senso fig., nel lessico comune come nei nomignoli, ad indicare persone dure di comprendonio o di conformazione fisica poco elegante. Pres. nei soprannomi (codinedda perdosa, 315 ciocco pietroso). Perdu, n. pr. di pers. Pietro. Desueto. Perdulàriu, s. m. Perdigiorno, errabondo, ramingo. Perduleri, s. m. Giramondo. Perdusémini, s. m. Prezzemolo. In senso trasl. a definire i ficcanaso e le persone che si propongono eccessivamente. Perefundu, s. m. Voragine, profondità. Custu nce dd’acabbat in is perefundus de su ’nferru (questo finirà nelle profondità dell’inferno. Peréula (a), s. f. e avv. Giro senza meta, vagabondaggio, disordine. Su tagliu de Giüanni est andendu a p. (il gregge di Giovanni vaga per conto proprio). Péritu, s. m. Perito, esperto in grado di periziare nella materia di competenza. Nella parlata di Seui il s. ha l’accento sulla prima sillaba - péritu - anziché sulla seconda come in it. Perìtzïa, s. f. Perizia. Peritzïai, v. Periziare, sottoporre a perizia. Peritzïau/a, agg. Periziato/a, sottoposto/a a perizia. Permanèntzïa, s. f. Permanenza, soggiorno. Usato quasi escl. nell’augurio bona p. Permissu, s. m. Concessione, 316 permesso. Permìtiri, v. Permettere, concedere. Permìtïu/a, agg. Concesso/a, permesso/a. Perómini, avv. Per ciascuno. De custas duas ebbas ndi pigaus una p. (di queste due cavalle ne prenderemo una ciascuno). Perra, s. f. Metà. Al pl. (perras) indica la zona inguinale, che, appunto, divide a metà il corpo umano. Vedi sperrai. Perrerìa, s. f. Falsità grossa, stupidaggine enorme, cattiveria. Lett. cosa detta a metà (vedi perra), dunque di scarso valore. Pèrtïa, s. f. Pertica. Il dim. è pertighita. Pertïassu, s. e agg. Persona testarda, dura, che si piega ma non si spezza, come certe pertiche. Pertùngiri, v. Bucare. Desueto, sopravvive nel part. pass. coniugato al f. che serve a definire uno dei segni della marchiatura del bestiame. Pertunta, s. f. Segno identificativo del bestiame. Consiste in un buco nell’orecchio dell’animale. Uno dei marchi più usati, anche perché facile da praticare e difficile da contraffare, se la pertunta è praticata il più vicino possibile alla testa della bestia. PAOLO PILLONCA Pertuntu/a, agg. Bucato/a. Perunu/a, agg. Nessuno/a, alcuno/a. Non biu caminu p. (non vedo alcuna strada), no ddu at p. ’essida (non c’è nessuna uscita). Pesa, s. f. Bilancia, stadera. Pesai, v. Pesare. Pesa cuss’angioni (pesa quell’agnello). Levare, sollevare. S’est pesau su ’entu (si è levato il vento). Allevare. Fut orfuneddu e dd’at pesau sa pardina (era orfano ed è stato allevato dalla madrina). Togliere via. Pesancedda cussa cadira (togli di mezzo quella sedia). Péssïu, s. m. Pesco (prunus persica). Tanto l’albero quanto il suo frutto, la pesca. Petenai, v. Pettinare. In senso fig. criticare in assenza del criticato. Ddu pètenat beni-’eni (lo critica ben bene). Petenau/ada, agg. Pettinato/a, criticato/a. Pètini, s. m. Pettine. In senso fig. critica. Dd’at passau su p. (gli ha fatto una critica radicale). Petza, s. f. Carne. Indica genericamente la carne commestibile, per definirne il tipo occorre un compl. di specificazione: petza ’e angioni, de craba, de crabitu, de ’erbèi, de lèpuri, de murva, de perdigi, de procu, de sirboni, de maglioru (carne di agnello, di capra, di Mancarìas. La parlata di Seui capretto, di pecora, di lepre, di mufla, di pernice, di cinghiale, di vitello), etc. Per insegnare ai bambini a non essere curiosi, al primo che vuole sapere quale tipo di carne sia quella presente sulla tavola o infilata nello spiedo si risponde in modo scherzoso: petza ’e mortu (carne di animale ucciso). Altra definizione curiosa è petza ’e ’runcu (lett. carne di muso): indica uno stato di discordia familiare e viene usata dai mariti quando rivelano una situazione di malumore nei loro confronti da parte delle mogli: oi apu papau p. ’e ’r. (oggi ho mangiato musi lunghi). In materia di carne esiste a Seui, comprensibilmente, una lunga serie di consuetudini e di saperi materiali e immateriali tramandati e verificati di continuo nell’esperienza quotidiana, che costituiscono un patrimonio di grande rilievo sociale e antropologico. Petza, s. f. Mezza lira. Pìbera, s. f. Vipera. In senso fig. persona irascibile e intrattabile. Pibinca, s. f. Pellicina periungueale. In questo senso il s. è desueto. Molto usato, invece, in senso fig. per indicare una donna noiosa e incline alle lamentazioni Pibincai, v. Piagnucolare, piangere in maniera sommessa ma insi- 317 stente. Usato in senso ironico-sarcastico. Est a donnïora pibinchendu (sta sempre piagnucolando). Pibincu/a, agg. Lamentoso/a, insistente, pignolo/a. Pibïoni, s. m. Acino. Presente anche come soprannome. Vedi spibïonai. Pibirassu/a, agg. Color pepe. Detto del bestiame minuto. Pìbiri, s. m. Pepe. In senso fig. vanità, vanagloria. Cussa picioca portat p., quella ragazza è vanitosa. Pibirista, s. f. Palpebra. Pibiristau/ada, agg. Con le palpebre pronunciate. Pibiristu, s. m. Ritaglio di stoffa. Si usa quasi escl. al pl. in senso fig. S’est posta a pibiristus (ha indossato dei ritagli). Pibironi, s. m. Peperone. Pibirudu/a, agg. Pepato/a, peperuto/a. Pibissìu, s. m. Cavalletta. Pica, s. f. Pene, organo sessuale m. Variante scherzosa di minca. Vedi lilla e lillìa. Picigadura, s. f. Attaccamento fastidioso. Cussu si nci fait a p. (quello lì si attacca invariabilmente). Picigai, v. Attaccare, colpire, attaccar briga. Linu picigat fatu fatu cun Gisepu (Lino ogni tanto attacca briga con Giuseppe). Nella 318 forma rifl. vale: attaccarsi a q.sa e/o a q.no. Si picigat che una càncara ( si attacca come una zecca). Picigau/ada, agg. Attaccato, appiccicato/a. Piciocaglia, s. f. Giovane generazione. Ndi pesat de tréulu totu cussa p. (ne fanno di casino tutti quei ragazzotti). Nome collettivo. Piciocheddu/a, s. e agg. Ragazzino/a. Picioconi/a, s. e agg. Adolescente. Piciocu/a, s. e agg. Giovane. Piconi, s. m. Superdotato. Vedi pica. Pres. nei soprannomi. Picu, s. m. Piccone. Pïedadi, s. f. Pietà. Piedosu/a, agg. Pietoso/a, degno/a di pietà. Pigada, s. f. Presa, afferramento. Est una p. po culu (è una presa in giro). Pigadorgiu, s. m. Appiglio. In senso reale e fig. Pigai, v. Prendere, portar via. Pigau/ada, agg. Preso/a. Pigi, s. f. Pece. La similitudine più comune è nieddu che p. (nero come la pece). Piglia, s. f. Strato. Ma non è un vero e proprio sing. perché viene usato sempre al duale e al plurale neutro (il sing. vero è pigliu). Usato nell’espr. a dua p. (a doppio PAOLO PILLONCA strato). Pigliona, s. f. Pene. Eufemismo scherzoso. Piglionai, v. Germogliare. Piglionassu, agg. Tenero, appena sbocciato, tremebondo. Si usa solo al m. in rif. agli agnelli di pochi giorni. Est un’angioneddu p. (è un agnellino), anche in senso fig. Piglionau/ada, agg. Germogliato/a. Piglioneddu, s. m. Uccellino. Piglioni, s. m. Uccello. Indica genericamente i volatili, di qualunque specie siano. Diffuso l’utilizzo in senso fig. Pigliu, s. m. Strato, superficie. Bogai a p., far emergere, riportare in superficie. Piglius, s. m. usato al pl. Pane biscottato, sia il carasau della Barbagia, sia il pistocu dell’Ogliastra. Pigota, s. f. Vaiuolo. Indica però il postumo cicatriziale dell’esecuzione del vaccino contro quella malattia. Pilarda, s. f. Frutta secca, soprattutto fichi. Sa p. indica l’effetto della seccatura. Ma ne esistono anche altri tipi: p. de tamata (di pomodori), de péssïu (di pesche), de pira (di pere), de pruna (di prugne). Dev. di apilardai. Pìlimu, n. pr. di persona. Priamo. Al femm. è Pìlima, al dim. Mancarìas. La parlata di Seui Pilimeddu/a. Pilla, s. f. Denaro. Assunzione recente, dalla parlata cagliaritana. Pilledda, s. f. Piccolo pene. Esiste anche pillelledda, una sorta di doppio dim. Pilloncu, s. m. Epitelio, parte sporgente sottile di carne o di altro alimento. Vedi spilloncai. Pilota, s. m. Conduttore, pilota. Pres. nei soprannomi. Pilu, s. m. Pelo, pelame. Al sing. si può riferire tanto agli uomini quanto agli animali, al pl. (is pilus) indica i capelli umani. Al sing. il s. viene usato con met. erotica per indicare il pube femminile. Piluca, s. f. Capigliatura. In senso ir. Vedi apilucai e derivati. Pilu de tita, s. m. Mastite. Si dice in rif. alla donna e alle femmine di tutti gli altri mammiferi. Piludu/a, s. m. Peloso/a. Pimpirimpà, s. m. Roba da nulla. Indicare entità pressoché nulle. Est un’omineddu de p. (è un omuncolo da niente). Pindaciu, s. m. Iettatore, portatore di sfortuna. Pìndula, s. f. Pastiglia. Con venatura ironica. Usato anche il dim. pinduledda. Pinduleri, s. m. Divoratore di pastiglie, malato immaginario. Pìnghili-pìnghili, s. m. Deno- 319 minazione di un gioco infantile, tra il non sense e la filastrocca: Pìnghili pìnghili/ a totu pìnghili/ a totu bacu/ foglia ’e tabbacu/ foglia ’e piroi:/ tu-tu, bessiminci foras/ de custa ’idda/ e betimì/ unu scarteddu/ prenu de figumoru. Quest’ultima parola - figumoru, ficodindia cambia con il mutare del giocatore e può diventare il nome di un qualunque altro frutto. Pingiada, s. f. Pentola. Può essere di terracotta o di metallo. Presente nei soprannomi, anche nel dim. m. Il s., infatti, quando è appena più piccolo del normale, conserva il genere f. (pingiadedda), quando è proprio minuscolo diventa m. (pingiadeddu). Pinna, s. f. Penna, scrittura. No ddi pragit sa p. (non gli piace scrivere). Piuma di uccello. Dónnïa pinna manna portàt, cuss’àbbila (quell’aquila aveva delle piume enormi). Parete che serve a due case, dunque in comproprietà. Eus asselïau sa pinna e dd’eus pagada a mesapari (abbiamo restaurato la parete comune e ne abbiamo pagata metà ciascuno). Pinneddu (a), s. m. e avv. Insistenza nell’attendere q.no e/o q.sa. Est sempir igui a p. (è sempre lì che vigila). Pinneta, s. f. Capanna pastorale 320 a cono. Pinnia, s. f. Piumaggio. In senso largo, e con metafora erotica, si usa talvolta in rif. al pube femminile. Pinnica, s. f. Piega. In senso reale e met. nell’accezione di: pretesto, scusa, raggiro. Ndi portat de pinnicas, cussu (ne ha di pieghe, quello). Pinnigadura, s. f. Razzia, raccolta indistinta. Pinnigai, v. Prendere, raccogliere oggetti, portar via. Si nd’at pinnigau is paperis e non s’est torrau a biri (si è preso le sue scartoffie e non si è più rivisto). Riunire gente. Lüisu fut solu, tandu nd’apu pinnigau paricius e dd’eus donau una manu ’e agiudu (Luigi era solo, allora ho riunito parecchie persone e gli abbiamo dato una mano di aiuto). Pinniga totu ca seus andendunosindi (porta via tutto perché stiamo per andarcene). Rubare. Linu ndi pinnigat totu su chi bit (Lino ruba tutto ciò che vede). Il s. dev. pinnigu è usato soltanto nella loc. avv. a p. (fermo a poca distanza). Vedi aciocai. Pìnnigi, s. m. Cimice. Funge anche da collettivo: su pìnnigi (le cimici). Pinnigiosu/a, agg. Pieno/a di cimici. In senso met. spilorcio/a, PAOLO PILLONCA avarissimo/a. Pinnigu, s. m. Presa, possibilità di prendere. Usato in loc. avv. ir. Dev. di pinnigai. Pinninu, s. m. Pennino. Pinnoni, s. m. Bandiera, làbaro, stendardo. Pinóchiu, s. m. Bugiardo, pinocchietto. Pres. nei soprannomi. Pintadura, s. f. Dipinto, raffigurazione, descrizione. Pintai, v. Dipingere, raffigurare, descrivere. Cussu muru dd’at pintau Cristolu (quel muro l’ha dipinto Cristoforo).Viva l’espr. pintu e lintu (dipinto e leccato) per indicare somiglianza fuori del comune. Est p. e l. su babbu (è perfettamente uguale al padre). Pintau/ada, agg. Dipinto/a, raffigurato/a. Nel gergo dei porcari, vale chiazzato/a. Mi mancat una mardi pintada nïedda (mi manca una scrofa chiazzata di nero), su procu pintau orrùbïu dd’apu ’éndïu (quel maiale chiazzato di rosso l’ho venduto). Pintura, s. f. Dipinto, disegno. Vivo nel linguaggio poetico, in rif. alla venustà delle donne. Parit una p. (sembra un dipinto). Pïocu, s. m. Tacchino. Freq. l’espressione dd’as pigau po p. (l’hai scambiato per un tacchino) Mancarìas. La parlata di Seui quando si vuole dire che l’interlocutore ha sbagliato riferimento. Fino agli anni Cinquanta era presente nei soprannomi. Pïoncu, s. m. Gemito, lamento preagonico. Mórriri a pïoncus (morire fra i gemiti). Pïota, s. f. Piede. In questo significato, però, è del tutto desueto. Vive in una loc. avv. - in p. (lett. in piedi) - per indicare uno stato passabile di forma fisica, a dispetto dell’età o di qualche malattia appena superata. Parit in p. (sembra in ripresa). Pipa, s. f. Pipa. Pipai, v. Fumare. Usato in senso ironico. Si dda pipat (se la fuma). Pipeta po ogliu, s. f. Oliatore. Pipia, s. f. Bambina, bimba. Scherzosamente si dice anche di una giovane donna: bella p. (bella ragazza). Frequente il dim. pipïedda. Pipia, s. f. Pupilla (sa pipia ’e s’ogu). Assai ricorrente la similitudine che utilizza questo s. per dare più forza al concetto: m’est caru che-i sa p. ’e s’ogu (mi è caro come la pupilla). Pipïaglia, s. f. Gruppo di bambini. Lo si usa di solito in tono scherzoso. Pipïeddu, s. m. Neonato. Dim. di pipìu. 321 Pipiu/a, s. m. Bambino/a. Est a sentidu ’e p. (quanto a saggezza, somiglia a un bambino). Pira, s. f. Pero (pyrus communis). Il s. indica sia l’albero sia il suo frutto, la pera. Pirastu, s. m. Perastro, albero e frutto. Varietà selvatica del pyrus communis. È frequente dovunque nel territorio comunale e nelle proprietà private (gran parte dei peri del paese sono frutto di innesti dai perastri). Nel passato anche recente qualche pastore di buone mani provvedeva da sé a costruirsi le fiscelle per il formaggio dai tronchi di perastro, sicuro com’era che avrebbero avuto lunghissima durata. Uno di costoro era Franciscu Aresu noto Merrïoni. Ricorre nei toponimi. I più noti sono Su p. trotu, (il perastro storto) nella foresta di Montarbu, al confine con il territorio di Gairo, e Pirastus lobaus (perastri accoppiati). Meno frequente piroi, che ricorre in un’imprecazione: tostau che p. (che tu possa divenire duro come il perastro) Pireddu, s. m. Pernacchia. Pirichitu, s. m. Dolce a base di farina, uova, zucchero e strutto. Pres. nei soprannomi. Piriciolu, s. m. Vinello ottenuto dalle vinacce già spremute e 322 mischiate con acqua. La pratica, ovviamente, è da tempo desueta, ma il s. è vivo nel lessico e lo si usa quando si vuole indicare un vino di scarsa qualità. Piricocu, s. m. Albicocco (prunus armeniaca). Come di norma nel sardo, indica tanto l’albero quanto il frutto, l’albicocca. Volg. fica. Ddi pragit su p. (ama le donne). Piringioni, s.m. Gelone. Usato soprattutto al plurale, is piringionis. Piroi, s. m. Perastro (pyrus communis, varietà selvatica). Desueto, rispetto al più frequente pirastu, ma vivo nell’imprecazione ancu t’agatint tostau che p. (che ti possano ritrovare indurito come il perastro). Pisca, s. f. Pesca, l’attivita dei pescatori. Piscadori, s. m. Pescatore. Piscai, v. Pescare, esercitare l’attività di pesca. Anche nel senso di: rubare, scoprire, venire a sapere, cogliere in fallo etc. Piscau, s. m. Pescato, quantità di pesce raccolto in una uscita. S’at pérdïu totu su p. (ha perso tutto il pescato). Pesca. Piscau/ada, agg. Pescato/a. Pischeri, s. m. Avannotto, trota piccolissima. Pisci, s. m. Pesce. PAOLO PILLONCA Pisci, s. m. Piscio, orina. Vedi lussu. Pisciada, s. f. Minzione, pisciata. Pisciadura, s. f. L’atto e l’effetto dell’orinare. Il s. è anche una sorta di variante di pisciada e viene utilizzato nella loc. a p. (a mo’ di pisciata). Pisciai, v. Orinare, pisciare. Nel variegato pianeta dei nomignoli paesani figura anche un piscia a iscusi (piscia di nascosto). Piscialetu, s. m. Incontinente, che piscia il letto. Epiteto scherzoso rivolto ai bambini. Piscialetu, s. m. Pungitopo, cespuglio arbustivo spinoso che dà una bacca rossa. Pisciau/ada, agg. Pisciato/a. Piscioni, s. m. Polpaccio. Lett. pesce grande, data la forma del polpaccio che potrebbe vagamente somigliare a un pesce. Pisciuca, s. f. Vescica. Di uomini e animali. Pisi(a), avv. A stento. Pìsili, agg. Delicato/a, sensibile. Pissenti, n. pr. di pers. Vincenzo. Nel superstrato esiste anche Vicentzu. Pissïai, v. Provare fastidio al contatto con qualcosa che punge o brucia. Mi pìssïat, cuddu móssïu ’e bobboi (mi duole, quella puntura di insetto). Traslato: provar dolore. Mancarìas. La parlata di Seui Pissïafoi, s. m. Forbicina, insetto dermattero dal corpo allungato posteriormente, con una coda a forma di pinza. Pissigorru, s. m. Punto terminale del pane bianco da cerimonia fatto in casa con grande varietà di disegni, per cui nello stesso pane i punti terminali risultavano molti. Is pissigorrus erano, per buongustai e bambini, le parti predilette. Vedi spissigorrai. Pissïosu/a, agg. Pungente, bruciante. Pissu, s. m.. Ceppo. Unu p. ’e sarmenta (un ceppo di vite). Pissu, s. m. Sommità, la parte alta di un luogo. Presente nel top. P. ’e serra, per indicare la cresta della montagna che sovrasta il paese. Viva l’espr. idiomatica non portat nin pissu ni ala (non ha né altezza né robustezza). Vedi spissai, spissada e spissadura. Il s. viene spesso usato in loc. avv. Pissu càvanu, s. m. Segno identificativo del bestiame. Consiste nel praticare un taglio ad angolo acuto largo, quasi retto, in un orecchio dell’animale. Pissus càvanus faddius, s. m. Segno identificativo del bestiame. Duplicazione del pissu càvanu semplice: dei due segni, uno va nalla parte anteriore dell’orecchio, 323 l’altro in quella posteriore. È definito anche pissus càvanus trevessus. Pissulongu, s. m. Beccaccia. Pistadora, s. f. Utensile ligneo per battere il bucato. Pistadura, s. f. Pestatura. In senso fig. sconfitta. Pistai, v. Pestare. Per est. sconfiggere. Pistau/ada, agg. Pestato/a, sconfitto/a. Pistiddu, s. m. Cervice. Vedi spistiddai. Pistighingiai, v. Essere in ansia, vivere momenti di preoccupazione. Pistighingiosu/a, agg. Ansioso/a, preoccupato/a. Pistighingiu, s. m. Preoccupazione, rovello, ansia. Pistiglioni, s. m. Gecco. Pistinaga, s. f. Carota. Pistocu, s. m. Biscotto. Pistola, s. f. Revolver, pistola. Pres. nei soprannomi. Pisu, s. m. Seme. Pisurci, s. m. Pisello. Utilizzato soprattutto come collettivo: su p. (i piselli). Piticheddeddeddu/a, agg. Microscopico/a. Una sorta di triplo diminutivo. Piticheddeddu/a, agg. Piccolissimo/a. Doppio diminutivo. Piticheddu/a, agg. Piccolino/a. 324 Piticu/a, agg. Piccolo/a. Vedi impiticai. Pitïolai, v. Mettere i campanacci al bestiame brado. Vedi spitïolai. Pitïolu, s. m. Campanaccio. Pres. nei soprannomi. Pitìu/a, agg. Piccolo/a. Variante di piticu/a. Pìtziri, s. m. Pinza di ferro per il caminetto. Usato quasi escl. al pl. is pìtziris. Po, prep. Per. Introduce svariati complementi: di vantaggio (dd’apu fatu po tui, l’ho fatto per te), di causa (po unu buciconi apu pagau milïonis, per un pugno ho pagato milioni), di tempo continuato (apu trabbagliau po tres dis, ho lavorato per tre giorni). Introduce anche prop. e loc. causali, finali, modali e temporali. Po no dd’àiri fatu tui ddu depu fàiri eu (perché non l’hai fatto tu lo devo fare io), po no nce ddu fulïai nde ddu leu (lo porto via, per non buttarlo), Franciscu cussu füeddu ddu tenit po pani e po casu (Francesco usa quella parola come il pane e il formaggio, ossia anche a sproposito), po imoi abarru (per ora resto). Introduce diverse locuzioni avverbiali. Po befa, come una beffa: custu ddu tengiu po b. (questo lo considero una beffa). Po imoi, per adesso, per ora, momentaneamente: po imoi no ddu andu, defatu PAOLO PILLONCA nd’eus a chistïonai (per ora non ci vado, ne parleremo in seguito). Po mori ’e Deus, per l’amore di Dio: po m. ’e D. siat totu (sia tutto per amore di Dio). Teni po teni, quasi alla pari, sul punto di: fustis teni po teni (stavamo per superarci a vicenda). Si ricorre a questa loc. anche ironicamente, quando si vuole parlare di una sfida tra personaggi senza spessore di virtù o assolutamente negativi. Po contai fàulas teneus a Pissenti cun Antoni t. p. t. (Vincenzo e Antonio, bella sfida tra bugiardi). Pobidda, s. f. Moglie. Pobiddu, s. m. Marito. Poboresa, s. f. Povertà. Póburu/a, s. e agg. Povero/a. Poddi-poddi, avv. Lentamente. Póddigi, s. m. Dito. Pressoché desueto come s. Sopravvive il v. apoddigai. Póddini, s. m. Crusca. Frequente l’espr. ir. crocadì in su p. (sdràiati sulla crusca). Poderai/apoderai, v. Tenere con le mani. Ma anche, più in generale: sopportare. Poderi, s. m. Potere, forza, autorità. Ndi tenit de p. cussu (ne ha potere, quello). Pódiri, v. Potere, avere forza. Franciscu non podit nudda, tocat a dd’agiudai finas e po tragai pesiged- Mancarìas. La parlata di Seui dus de pimpirimpà (Francesco non ha alcuna forza, ha bisogno di essere aiutato anche per trasportare pesi risibili). Il part. pass. è póssïu/a. Pöesia, s. f. Canto improvvisato in rima. Pöeta, s. m. Poeta. Pöita, avv. e cong. Perché. Interrogativo: p. non benis? (perché non vieni?). Dichiarativo: no ddu andu p. no ndi tengiu gana (non ci vado perché non ne ho voglia). Polachina, s. f. Stivaletto. Pomentu, s. m. Pavimento. Più che altro indica la base di una stanza rustica in terra battuta. Pompa, s. f. Vanagloria, boria, superbia, ostentazione. Pompada, s. f. Pompata. Azione irregolare, a strappi. Fait totu a pompadas (fa tutto senza continuità). Pompai, v. Pompare. Pompau/ada, agg. Pompato/a. Pompïadura, s. f. Presa forte. Pompïai/apompïai, v. Reggere, tenere stretto. Vedi poderai. Pompïau/ada, agg. Tenuto/a, retto/a. Pomposu/a, agg. Vanaglorioso/a, borioso/a, superbo/a. Pres. nei soprannomi al maschile. Pónniri, v. Mettere, porre, assegnare. A su portali ddi pongiu unu 325 luchitu (al portone metterò un lucchetto), Lina ponit is corrus a su pobiddu (Lina mette le corna al marito). Contribuire. Chi est po asselïai sa crésïa poneus totus (se è per restaurare la chiesa contribuiremo tutti). Dare il nome. A su pipìu ddi pongiu Antoni (al bambino darò il nome di Antonio). Supporre. Poni chi ti nerit ca nou (metti che ti dica di no). A seconda del s. o dell’avv. che lo accompagna, il v. assume vari altri significati. Piantare. At postu una ’ingia (ha piantato una vigna). Appiccare. At postu fogu in padenti (ha appiccato fuoco in foresta). Scrivere, comporre. Lüisu ponit cantzonis (Luigi scrive poesie/canzoni). Unito ad una loc. avv. vale: fare progressi, migliorare. At postu a conca (è diventato una persona seria). Agghindare/agghindarsi. S’est posta in manteddu (si è agghindata con un mantello). Sottoporre. Ddu ponit de pari (lo prende in giro). Apparecchiare. Pongiu sa mesa (apparecchio la tavola). Considerare. A tui non ti ponit in contu nemus (tu non vieni considerato da nessuno), Pinu in bidda fut unu piciocu postu in contu (Pino era un ragazzo molto considerato dalla comunità), etc. Pónniri menti, v. Ubbidire. 326 Cussu piciocheddu non ponit m. a nemus (quel ragazzino non ubbidisce a nessuno). Ponti, s. m. Ponte stradale e ferroviario. Pres. nei toponimi: Su p. mannu, su p. ’e Santu Cristolu, P. ’e Boci, etc. Ponti (in), s. e avv. Vece, posto. In ponti miu ddu andas tui (al mio posto ci vai tu). Populai, v. Popolare, incrementare la popolazione. Populari, agg. Popolare. Popularidadi, s. f. Popolarità, notorietà, fama. Populeddu, s. m. Popolino. Pópulu, s. m. Popolo, folla. Buca ’e p. è uno che non sa mantenere un segreto. Porceddanas, s. f. Scrofolosi. Usato in una colorita imprecazione ellittica: is p. (che ti venga la scrofolosi). Porceddinu/a, agg. Maialesco/a, suino/a. In rif. all’uso approssimativo dell’it. Chistïonat s’italïanu p. (parla un italiano sgrammaticato). Porceddu, s. m. Maialetto di età inferiore a un anno. Quando si tratta di un suino lattonzolo o di dimensioni minuscole si usa il dim. doppio: porceddeddu. Porci, s. m. Porticato, portico. Porcili, s. m. Ricovero per maiali allo stato brado. Desueto nel PAOLO PILLONCA parlare quotidiano, che gli preferiscde suili (vedi), sopravvive in un toponimo - Tuvu ’e porcilis - nella parte alta del territorio comunale, tra Paùli ed il nuraghe di Ardasai. Vedi tuvu. Porta, s. f. Porta, uscio di casa. Serra sa p. (chiudi la porta). Porta del gioco del calcio affidata a un guardiano che si chiama, appunto, portiere. In p. ddu-i ’olit unu chi siat artiteddu e non timat (in porta ci vuole uno alto e che non abbia paura). Vedi genna/’enna. Portai, v. Avere con sé, portare. Non portu ’inari (non ho soldi in tasca). Condurre, guidare convincere, persuadere. Sa pobidda ddu portat comenti ’olit (la moglie lo guida come vuole). Nel gergo degli ovili, il v. definisce la monta degli animali nella stagione degli accoppiamenti. Is crabas no ddas ant ancora portadas (ancora le capre non sono state montate). Portali, s. m. Portone, portale, grande porta. Portamanteddu, s. m. Attaccapanni. Portamenta, s. f. Monta. Riferito alla stagione degli amori del bestiame domestico e selvatico. Is (pron. ir) mascus de murva fut in p. (i mufloni sono in amore). Portamuneda, s. m. Portamo- Mancarìas. La parlata di Seui nete, borsellino. Portau/ada, agg. Avuto/a. Portato/a, montato/a. Portebeti (porta e beti), s. m. Chiacchierone infido, che non sa tenere alcun segreto e parla con tutti (lett. che porta e riporta). Vedi betiri/’etiri. Portellitu, s. m. Scurino, sportello, anta. Portïeri, s. m. Portiere, guardiano della porta nel gioco del calcio. Portu, s. m. Porto, approdo. Non biu s’ora ’e lòmpiri a su p. (non vedo l’ora di arrivare al porto). Posada, s. f. Locale dei santuari campestri adibito ai pranzi comunitari. Po su Cramu eus pràndïu in sa posada (per il Carmelo abbiamo pranzato nello stanzone). Rifugio di ospitalità in altri paesi. No ddu at bidda ania Màrïu non tengiat amigus de p. (non c’è paese in cui Mario non abbia amici che lo ospitino). Possessu, s. m. Possedimento, terreno di una certa consistenza quantitava. Póssïu/a, agg. Potuto/a. Part. pass. di pódiri. Posta, s. f. Ufficio postale. Posta, s. f. Postazione del cacciatore in attesa della selvaggina. Gergale venatorio. Postali, s. m. Corriera postale. Il s. è poi passato a indicare la cor- 327 riera tout court. Postinu, s. m. Portalettere, postino. Postorgiu, s. m. Luogo in cui di solito spuntano i funghi. Gli appassionati cercatori li conoscono e raramente ne rivelano i siti. Postu, s. m. Impiego, posto di lavoro fisso. Postu/a, agg. Messo/a. Part. pass. di pónniri. Postura, s. f. Messa in posizione, positura. Potecarìa, s. f. Farmacia. Desueto. Potecàrïu, s. m. Farmacista. Prafata, s. f. Chiacchiericcio, ciarla. Prafatada, s. f. Chiacchierata. Prafatai, v. Chiacchierare. Est totu s’ora prafatendu (è da tempo in chiacchiere). Prafatau/ada, agg. Chiacchierato/a. Prafateri/a, agg. Chiacchierone/a. Prageri, s. m. Piacere, godimento. Pragerosu/a, agg. Felice, entusiasta. Ndi soi p. (ne sono lieto). Pragi-pragi, s. m. Orgasmo. Dd’est pigau su p.-p. (ha avuto un orgasmo). Pragìbbili, agg. Piacevole, saporito. 328 Pràgiri, v. Piacere. Non mi pragit a fàiri su pastori (non mi piace fare il pastore). Pràgïu/a, agg. Piaciuto/a. Prama, s. f. Palma (chamaerops humilis). Per estensione vale: vittoria, successo. In senso fig. viene spesso riferito alla donna virtuosa. Pramu, s. m. Palmo. Indica la misura, corrispondente all’incirca a 25 cm, e anche la parte inferiore della mano. In senso met. il s. è usato nell’espressione at postu unu p. ’e lardu (ha messo un palmo di lardo) nel senso di aver provato una soddisfazione non comune, una rivincita equiparata alla pinguedine fuori regola. Prana, s. f. Pialla. Pranadura, s. f. Piallatura. Pranai, v. Piallare. Gergale dei falegnami. Pranau/ada, agg. Piallato/a. Pranciadura, s. f. Stiratura. Prancia, s. f. Ferro da stiro. Desueto. Prancia ’e forru indica il tappo metallico della imboccatura del forno. Pranciai, v. Stirare i panni. Anche in senso fig. Pranciamentu, s. m. Stiratura. Pranciau/ada, agg. Stirato/a. Prandidura, s. f. Scorpacciata, sazietà. Cussu strangiu si ’endit po una p. (quel forestiero si vende per PAOLO PILLONCA una scorpacciata), de àgina si nd’at papau a p. (ha mangiato uva a sazietà). Pràndiri, v. Pranzare, consumare il pranzo. Oi non possu mancu p. (oggi non ho neppure il tempo di pranzare). Usato anche nella forma rifl. S’est pràndïu ’eni ’eni (si è saziato a dovere). Pràndïu/a, agg. Sazio/a, satollo/a. Praneri, agg. Piano. Pratu p. è il piatto su cui di norma si servono i secondi. Il piatto concavo è detto cofudu. Prangidori, agg. Facile al pianto, piagnone. Vedi prantuleu, quasi un sinonimo. Prangiminestra, s. m. Lagnoso (lett. che piange per una minestra), che si lamenta di tutto. Pres. nei soprannomi. Pràngiri, v. Piangere, lacrimare. Per indicare un pianto senza lacrime si fa ricorso a giri di frase o a locuzioni avverbiali. Prangioni, s. m. Megapranzo. Prangiu, s. m. Pranzo. Viva l’espr. a prangius prangionis (di spuntino in spuntino), rif. a chi ama gli incontri conviviali. Frequenti le espressioni a p. e a cena (per una situazione ripetitiva) e chini ’onat p. aspetat cena (chi offre un pranzo aspetta una cena). Pranta, s. f. Pianta. Dei piedi Mancarìas. La parlata di Seui soprattutto. Prantadura, s. f. Atto ed effetto del piantare. Prantai, v. Piantare, seminare. Fui pensendu ’e prantai dus tzinnìvurus (pensavo di piantare due ginepri). Nella forma rifl. indica ironicamente una sistemazione di quasi totale immobilità. Si prantat igui e non si tremit (si pianta lì e non si muove più). Prantau/ada, agg. Piantato/a, immobile. Prantedu, s. m. Seme di cipolla. Presente nei soprannomi. Prantu, s. m. Pianto. Dev. di pràngiri. Prantu/a, agg. Compianto/a. Prantuleu/a, agg. Piagnucolone/a. Tendente al pianto, facile alle lacrime. Pranu, s. m. Pianura, altopiano. Presente in diversi toponimi. (P. arcu, P. àlinus, Su P. de is lépuris). Pranu/a, agg. Facile, dritto/a, pulito/a. Pràpala, s. f. Palpebra. Prapellìssïu, s. m. Balza di stoffa o pizzo utilizzata come ornamento degli abiti di donne e bambini. In senso fig. sfoggio, vanità. Prassa, s. f. Piazza. Adobïaus a p. de is acacias (incontriamoci nella piazza delle robìnie). Ma anche lo spazio davanti alla casa di ciascu- 329 no, senza bisogno di dettagli. Chi passas in p. ti pongiu ’r gangas (se passi davanti a casa mia ti strozzo). Prassigedda, s. f. Piazzetta. Prata, s. f. Argento. Pratareddu, s. m. Piattino. Pratera, s. f. Piattiera. Prateri, s. m. Argentiere, argentatore, artigiano dell’argento. Pratu, s. m. Piatto. Se ne distingono due tipi fondamentali: su p. cofudu (il piatto fondo) per le minestre e i primi in genere e su p. praneri (il piatto piano) per i secondi. Precisu/a, agg. Urgente, indifferibile, improcrastinabile. Predicai, v. Predicare, esortare. Prefagliai, v. Ornare un vestito femminile, ma non solo, con balze e merletti. Prefagliau/ada, agg. Ornato/a, abbellito/a con ornamenti. Prefagliu, s. m. Ornamento di vesti femminili con balze, merletti. Preferéntzïa, s. f. Predilezione, preferenza. Prefèrriri, v. Preferire, prediligere. Preferìu/a, agg. Preferito/a, prediletto/a. Pregadoria, s. f. Preghiera. Pregai, v. Pregare. Dd’apu pregada che una santa (l’ho pregata come una santa), a chini pregat Deus non negat (Dio non rifiuta grazie a chi prega). 330 Pregantadori, s. m. Esorcista. Pregantai, v. Pronunciare scongiuri, fare esorcismi. Pregantau/ada, agg. Esorcizzato/a. Pregantu, s. m. Esorcismo, scongiuro. Pregau/ada, agg. Pregato/a. Pregonai, v. Bandire, mettere al bando. Nell’imprecazione sa giustìssia ti pregonit (la giustizia ti metta al bando). Pregonau/ada, agg. Messo/a al bando. Pregoni, s. m. Bando dell’autorità politica, militare, giudiziaria. Pregontai, v. Chiedere per sapere. Pregontasiddu, bïeus chi t’arrespundit (prova a chiederglielo, vediamo se ti risponde). Chiedere per avere è, invece, pediri. Pregonta, s. f. Domanda. Desueto come dev., sopravvive copiosamente nel verbo. Pregontau/ada, agg. Richiesto/a. Pregu, s. m. Pidocchio. Préïdi, s. m. Prete, sacerdote. Prëìssa, s. f. Pigrizia, svogliatezza. Vedi imprëissai e mandronìa. Prëissosu/a, agg. Pigro/a, fannullone/a. Vedi mandroni/a. Prenda, s. f. Gioiello. Anche in senso fig. Est una p. (è una persona splendida). Talvolta usato in PAOLO PILLONCA senso antifr. per indicare un soggetto di nessun pregio. Prenimentu, s. m. Riempimento, ripieno. Usato soprattutto nel gergo culinario, per definire genericamente i vari tipi di farcitura delle carni. Préniri, v. Riempire. Prentza, s. f. Torchio per la spremitura dell’uva. Pres. nei soprannomi. Prentzai, v. Torchiare, spremere l’uva. Prentzau/ada, agg. Torchiato/a, spremuto/a. Prenu/a, agg. Pieno/a, completo/a. Presoneri, s. m. Prigioniero, carcerato. Presoni, s. m. Carcere, prigione. Unu p. legiu aberu, su ’e Santu Tanïeli (bruttissimo carcere, quello di San Daniele). Usato nelle imprecazioni e maledizioni. Presonia, s. f. Prigionia, detenzione. Pressi, s. f. Fretta. Una caratteristica per niente apprezzata dal giudizio comunitario sulle azioni umane. Vedi apressibbiri, impressiri e derivati. Chi ha sempre fretta e un impressìu. Presta, s. f. Prestito. Vivo nell’espr. met. pani ’e presta (pane avuto in prestito) per indicare una Mancarìas. La parlata di Seui colpa da scontare, così com’è obbligatorio restituire il pane avuto in prestito. Prestai, v. Prestare, dare e/o ricevere in prestito. Lüisu s’at prestau ’inari (Luigi ha chiesto dei soldi in prestito). Presumiri(si), v. Presumere, sopravvalutare/sopravvalutarsi. Presumìu/a, agg. Presuntuoso/a. Presutu, s. m. Prosciutto. Preta, s. f. Blatta. Pretai, v. Litigare davanti a un giudice. Desueto. Pretali, s. m. Sottopancia in cuoio del basto per asini. Pretori, s. m. Pretore. Pretu, s. m. Dissidio, controversia davanti all’autorità giudiziaria. Pretura, s. f. Pretura. Ufficio giudiziario mandamentale, con competenza sui reati minori, in funzione a Seui per molti decenni, fino all’abolizione di questi uffici con la recente riforma dell’amministrazione della giustizia. Pretzetai, v. Costringere, precettare, dare ordini perentori. Dd’at pretzetau su babbu (è stato il padre a costringerlo), soi obbrigau a ddu p. (sono costretto a precettarlo). Pretzetu, s. m. Precettazione, costrizione, ordine prentorio. Ma si usa anche per definire il rito religioso del Precetto pasquale. 331 Prëubbiri, v. Vietare, proibire, negare. Non mi ddu prëubbit nemus (non me lo vieta nessuno). Prëugosu/a, agg. Pidocchioso/a, in senso met. miserabile, morto/a di fame. Di formazione irregolare rispetto al s. cui si riferisce (pregu). Prigu, s. m. Disturbo, fastidio. Pesadinci ca mi fais p. (spòstati, mi disturbi). Prima, s. f. Disaccordo, inimicizia, discordia. Con varie gradazioni intermedie tra funt a p. (sono in disaccordo) e funt a p. ’e morti (sono nemici mortali). Primadìu/a, agg. Prematuro/a. Detto delle primizie. Primàisi, v. Imbronciarsi, offendersi, rattristarsi. Primau/ada, agg. Triste, dispiaciuto come se fosse in discordia con q.no. Primósigu/a, agg. Permaloso/a, suscettibile, ipersensibile, che si offende per un nonnulla. Primu/a, agg. num. ord. Primo/a. Pringia, agg. Incinta, gravida. Vedi impringiai. Pringiamanna, agg. Gravida ormai prossima al parto. Prïorissa, s. f. Prioressa. Priu/a, agg. Lento/a, tardo/a, pesante. Di movimenti e di riflessi. Detto degli uomini e degli ani- 332 mali lenti per natura o per circostanze particolari. Pìlimu est priu (Priamo è tardo di riflessi), s’unturgiu candu papat si fait priu (l’avvoltoio dopo il pasto diventa pesante). Procargiu, s. m. Porcaro, allevatore di maiali. Procu, s. m. Maiale. In senso fig. si usa per definire una persona spregevole. Il dim. è porceddu. Quando lo si allevava nel cortile di casa per le provviste era chiamato p. mannalissu. Procumuntoni, s. m. Insetto di colore scuro che di norma si rifugia sotto le pietre. Procura, s. f. Procura, ufficio giudiziario. Dd’ant interrogau in p. (l’hanno interrogato in procura). Delega a far da padrino. Dd’at batïau in p. (l’ha battezzato per procura). Procuradori, s. m. Procuratore. Procurai, v. Procurare, ottenere, riuscire ad avere. Procurau/ada, agg. Procurato/a. Prodesa, s. f. Prodezza, per lo più in senso ir. Prodùsiri, v. Produrre. Prodùsïu/a. agg. Prodotto/a. Produtzïoni, s. f. Produzione. Profetu, s. m. Tornaconto, utilità, vantaggio. Naramì e cali profetu nd’as tentu (dimmi quale van- PAOLO PILLONCA taggio ne hai ottenuto). Profìa, s. f. Sfida, dispetto. Mi dd’at fatu a p. (me l’ha fatto per dispetto). Profitài(si), v. Approfittare, avere vantaggi personali, pescare nel torbido. Argüai a chini si ndi profitat de un’òrfunu (guai a chi approfitta di un orfano). Profitau/ada, agg. Approfittato/a, avvantaggiato/a. Profundidadi, s. f. Profondità. Profundu, s. m. Luogo profondo. Usato soprattutto al pl. per indicare le profondità misteriose dell’ignoto e dell’irrazionale. Profundu/a, agg. Profondo/a. Progressu, s. m. Progresso, evoluzione. Proi, s. m. Pro’, favore. Augurale. Bonu proi ti facat (buon pro’ ti faccia). Pròiri, v. Piovere. Proisina, s. f. Pioggia leggera. Proisinai, v. Piovigginare. Prontesa, s. f. Prontezza, rapidità. Prontu/a, agg. Pronto/a, sveglio/a, rapido/a. Propïedadi, s. f. Proprietà privata. Propïetàrïu, s. m. Proprietario. Própïu/a, agg. Piovuto/a. Própïu, avv. Proprio, propriamente. Prospori, s. m. Ardore, brama, calore. No mi pongias is prosporis Mancarìas. La parlata di Seui de su cóidu (non farmi venire la voglia di fare in fretta). Protesta, s. f. Lamentela, protesta. Pres. nei soprannomi. Protestai, v. Protestare. Protestau/ada, agg. Protestato/a. Protestu, s. m. Protesto. Prùbbicu/a, agg. Pubblico/a. Con lieve venatura di ironia e spregio. Est una bagassa prùbbica (è una puttana pubblica). Pruga, s. f. Purga, lassativo. Prugadórïu,s. m. Purgatorio, il secondo regno dell’oltretomba cristiano, e soprattutto il rito dei doni di novembre ai ragazzini in suffragio delle anime purganti.. Prugadura, s. f. Primizie incompiute, ad es. le ciliegie ancora immature. Depit èssiri cichendu prugadura (forse sta cercando qualche frutto acerbo). Impurità del grano. Prugai, v. Purgare. Su dotori dd’at prugau (il medico gli ha ordinato un purgante). Ma anche pulire il grano, togliendo le impurità. Prugau/ada, agg. Purgato/a, ripulito/a. Prùini, s. m. Polvere. Prüinosu/a, agg. Polveroso/a. Prumoni, s. m. Polmone. Prumonita, s. f. Polmonite. Vedi aprumonitai. Prumu, s. m. Piombo. Pruna, s. f. Susino (prunus dome- 333 stica) e susina, albero e frutto. Pruniscedda, s. f. Susino e susina selvatici, albero e frutto. Prupa, s. f. Polpa. Rif. agli animali e all’uomo. Seu ’e prupa e di ossu che tui etotu (sono fatto di polpa e di ossa proprio come te). Prupu, s. m. Polpo. In senso fig. cretino. Vedi balossu, bambassu, càdumu, codina, codobba, conciofa, tontu. Prupudu/a, agg. Polposo/a. Riferito alla carne viva e a quella macellata. Ddu bis comenti est prupudu (lo vedi com’è polposo). Vedi imprupìu/a. Prus/prusu, avv. Più. Prussïera, s. f. Polvere di carbone. Francesismo dovuto al fenomeno migratorio che nella prima metà del secolo scorso portò molti operai di Seui nelle miniere francesi. Come boïabbessa, brichetu, sortiri, turnichetu. Vedi aprussïerau. Puba, s. f. Fantasma, apparizione veloce. Pubusa, s. f. Ciuffo. Presente nel top. Margiani p., cima della foresta demaniale di Montarbu. Pubusau/ada, agg. Munito/a di ciuffo. Usato prevalentemente in senso ironico Pres. nei soprannomi. Pudadori, s. m. Potatore, esperto di potatura. 334 Pudadura, s. f. Potatura. Operazione obbligatoria in quasi tutte le coltivazioni, ma a tempo debito e sempre in luna calante. Pudai, v. Potare, tagliare i rami in eccesso. Si tratta di un’operazione articolata in modo sapiente e legata all’esame delle fasi lunari. Vari i sistemi di potatura. Pudau/ada, agg. Potato/a. Pudassa, s. f. Cesoia, potatrice, arnese per potare. Pudassedda, s. f. Cesoia da potatura di piccole dimensioni. Pudassoni, s. m. Cesoia da potatura più grande della pudassa. Pudda, s. f. Gallina. P. crïadora è la gallina ovaiola. Vivo il proverbio puddas e piciocheddus imbrutant su logu (galline e ragazzini sporcano dappertutto). Frequente un modo di dire concentrato in un’immagine che dà l’idea dell’equilibrio instabile: che p. in pèrtïa (come una gallina su una pertica). Pres. nei soprannomi. Puddargiu, s. m. Pollaio. Pudda ’e abba, s. f. Gallinella d’acqua. Puddigedda, s. f. Gallinella. Pudesciori, s. m. Putridume, odore nauseabondo. Pudèsciri, v. Rendere putrido. Pudescit totu (rende tutto putri- PAOLO PILLONCA do). Nel rifl. vale imputridire. In senso ir. nei confronti dei poltroni che amano dormire a lungo: s’est pudéscïu (si è imputridito) come se il sonno eccessivo imputridisse le persone. Viva l’espr. est pudéscïu a bentu (puzza da lontano, lett. il lezzo arriva con il vento). Pudéscïu/a, agg. Putrido/a, puzzolente. T’apu orróscïu che-i sa petza p. (mi sono stufato di te come della carne putrida). Pùini, s. m. Pugno. Ma nel senso di misura, non di colpo da sferrare, cazzotto: unu p. ’e sali (un pugno di sale). Il colpo si chiama punnigosu. Pulenta, s. f. Polenta. Pulentoni, s. m. Mangiatore di polenta, polentone. Epiteto ir. rivolto dai soldati sardi della prima guerra mondiale ai loro colleghi del nord Italia, ritenuti poco coraggiosi. Pùliga, s. f. Masturbazione. Pùligi, s. m. Pulce. Anche nome collettivo: su p. (le pulci). Pulidura, s. f. Ripulimento. Pulimentu, s. m. Pulizia. Puliri, v. Pulire. Pulitzia, s. f. Pulizia. Puliu/a, agg. Pulito/a. Pumada, s. f. Pomata. Pumu, s. m. Pomo. Puncia, s. f. Chiodo. Mancarìas. La parlata di Seui Puncioni, s. m. Punzone, chiodo grande. Punciudu/a, agg. Appuntito (alla lettera: terminante a punta come un chiodo). Pùngiri, v. Pungere. Dd’at puntu un’abi (è stato punto da un’ape). Accoltellare. Fut cotu a fegi e at puntu unu strangiu (era ubriaco fradicio ed ha preso a coltellate un forestiero). Pungitu, s. m. Polsino. Puniri, v. Punire. Punitzïoni, s. f. Punizione, castigo. Puniu/a, agg. Punito/a. Punnai, v. Dirigersi, andare in una direzione certa. Il v. indica l’intenzione chiara di compiere quell’azione, anche prima del suo inizio vero e proprio. Punnat a contonïai (sta per tornare a casa). Desueto. Punnau/ada, agg. Diretto/a. Punnigosu, s. m. Cazzotto, pugno. Dd’at iscutu unu p. (gli ha affibbiato un cazzotto). Il s. indica il colpo, non l’elemento anatomico. In questo senso, il s. seuese è pùini. Punta, s. f. Punta, sommità. Indica anche un dolore acuto in una parte del corpo. Al pl. definisce le coliche. Eriseru fui totu sa dì a puntas a brenti (ieri ho avuto coliche addominali per tutto il 335 giorno). Puntai, v. Puntare. Gergale dei cacciatori. Puntali, s. m. Puntale, appoggio. Puntarola, s. f. Scalpello da muratore. Puntau/ada, agg. Puntato/a. Puntera, s. f. Calcio dato di punta a un pallone. Scudit/tirat meda ’e p. (calcia/tira spesso di punta). Puntori, s. m. Dolore acuto, spesso mortale. Per est. colpo apoplettico, infarto, sincope. Usato nell’imprecazione ancu ti pighit su p. (che ti venga un dolore mortale) o, ellitticamente, puntori. Vedi apuntorai. Puntu, s. m. Punto. Gergale delle ricamatrici, con dettagliata articolazione di varietà esecutive. Puntu/a, agg. Punto/a, ferito/a da arma a punta, accoltellato/a Freq. l’espr. ir. p. e mortu (accoltellato e ucciso), per dire di una pretesa di effetto immediato in qualsiasi evento. P. e m. che-i s’abi (punto e morto come l’ape). Part. pass. di pùngiri. Puntüali, agg. Puntuale, che rispetta gli orari e le scadenze. Puntüalidadi, s. f. Puntualità, rif. soprattutto al rispetto di scadenze e di orari stabiliti. Virtù 336 molto apprezzata, soprattutto dai pastori anziani. A chi non ne ha, o non ne dimostra, sono riservate battute di scherno: cussu sa p. dd’at lassada in brenti ’e sa mama (quello la puntalità l’ha lasciata nel grembo materno). Purdedda, s. f. Callo delle mani nella fase iniziale, al formarsi delle vesciche. Purdeddu, s. m. Puledro. Cavallo di età inferiore ai tre anni, allo stato selvatico o appena all’inizio della domatura. Purdïadura, s. f. Marciume. Frequente nella loc. avv. a p., quando non si tratta di marciume vero e proprio. Purdïài(si), v. Marcire. Cussu presutu chi no ddu càstïas si purdïat (quel prosciutto, se non stai attento, marcirà), sa linna est purdïendusì (la legna sta marcendo). Purdïau/ada, agg. Marcio/a. Purdoni, s. m. Grappolo. Vedi apurdonai. Purificai, v. Purificare. Purificau/ada, agg. Purificato/a. Puru/a, agg. Puro/a, senza difetti né aggiunte. Puru, cong. Pure, anche. Ddu andu eu puru (ci vado anch’io). Pusti(a), avv. Dopo. Pusticena, s. m. e avv. Dopocena. PAOLO PILLONCA Pusticrasi, s. m. e avv. Dopodomani. Anche in senso ir. per rimarcare una promessa fatta e non mantenuta. Fui aspetendu su ’ncrasi ma no est erribbau mancu su p. (ho aspettato all’indomani, ma non è arrivato neppure il giorno successivo). Pustiprangiu, s. m. Primo pomeriggio, dopopranzo. Custu p. andaus a su monti (nel primo pomeriggio di oggi andremo in campagna). Putzinosu/a, s. e agg. Schifoso/a. Putzu, s. m. Pozzo. Mancarìas. La parlata di Seui 337 R Racumandada, s. f. Raccomandata. Vedi arrecumandai e derivati Radïeddu, s. m. Radiolina. Ràdïu, s. m. Radio. Radunu, s. m. Raduno. Raga/braga, s. f. Gonnellino d’orbace del costume maschile. Ràfïa, s. f. Raffia. Ragionai, v. Ragionare. Supestrato che tende ad affermarsi sulla forma anteriore. Vedi arregionai e arregioni. Ragionïeri, s. m. Ragioniere. Rapina, s. f. Rapina. Rapinai, v. Rapinare, compiere una rapina. Rapinau/ada, agg. Rapinato/a. Raportu, s. m. Rapporto, confronto. Dd’at lamau su capu a r. (il capo l’ha chiamato a giustificarsi). Rapresentai, v. Rappresentare. Rapresentanti, s. m. Agente di commercio. Raridadi, s. f. Rarità. A biri àbbilas est una r. (è una rarità vedere le aquile reali). Raru/a, agg. Raro/a, difficile da trovare. Prov. S’oru est caru ca est raru (l’oro è caro perché è raro). Rata, s. f. Rata. Ratzïonamentu, s. m. Razionamento. Ratzïoni, s. f. Razione. Realidadi, s. f. Realtà. Réchia, s. f. Preghiera, requiem. Recita, s. f. Rappresentazione, recita. Recitadori, s. m. Attore di teatro. Recitai, v. Recitare. Refetzïoni, s. f. Refezione. Regimentu, s. m. Reggimento. Regipetu, s. m. Reggipetto. Religioni, s. f. Religione. Religiosu/a, agg. Religioso/a, praticante. Rendimentu, s. m. Rendimento, resa. Réndiri, v. Rendere. Rendïu/a, agg. Reso/a. Repenti, agg. Improvviso/a. Con la prep. de è usato avverbialmente: su babbu fut mortu ’e repenti (il padre era morto all’improvviso). Reti, s. f. Rete di recinzione. In su cungiau ddu-i pongiu una r. (metterò una rete nel mio terreno). Marcatura di un punto nel gioco del 338 calcio. At fatu una pàriga ’e retis, una meglius de s’atra (ha segnato un paio di reti, una migliore dell’altra). Revudai/arrevudai, v. Rifiutare. Revudau/arrevudau/ada, agg. Rifiutato/a. Revudu/arrevudu, s. m. Rifiuto, negazione. Ricamai, v. Ricamare. Vedi arrecamai. Ricatai, v. Sequestrare a scopo di estorsione. Ricatau, s. m. Sequestrato, ostaggio di sequestratori. Ricatu, s. m. Sequestro di persona a scopo di estorsione. Rigori, s. m. Rigore, serietà. Rigori, s. m. Calcio di rigore. Gergale del gioco del calcio. Rigorosu/a, agg. Severo/a, rigoroso/a. Rima, s. f. Rima. Rimadori/a, agg. Rimatore/rimatrice. Rimai, v. Rimare, trovare la rima. Rimandai, v. Rimandare a settembre. Gergale della scuola. Rimandau/ada, agg. Rimandato/a a settembre. Rimau/ada, agg. Rimato/a. Ringratzïai, v. Ringraziare, rendere grazie. Ringratzïamentu, s. m. Ringraziamento. PAOLO PILLONCA Ringratzïau/ada, agg. Ringraziato/a. Risolutu, s. m. Uomo deciso, irremovibile, impavido, temerario. Est unu r. (è uno deciso a tutto, un temerario). Riveréntzïa, s. f. Omaggio, complimento, gentilezza. Rivolutzïoneri, s. m. Ribelle, contestatore. Rivolutzïoni, s. f. Rivoluzione, disordine. Roleta, s. f. Rotella metrica. Romanu, n. pr. di pers. Romano. Romanu/a, agg. Romano/a. Romanzu, s. m. Romanzo, storia incredibile. Chene fàulas non bessit r. (senza bugie non nascerebbe un romanzo). Rullu, s. m. Rullo. Rundinina, s. f. Rondinina. Segno identificativo del bestiame. In pratica consiste in una sorta di giuali ma molto più piccolo come mezzaluna sulla punta dell’orecchio dell’animale, dunque molto facile da contraffare. Il nome nasce dal fatto che questo segno somiglia a una rondine in volo. Ruspa, s. f. Ruspa. Mancarìas. La parlata di Seui 339 S Sa, art. det. f. La. Davanti a vocale si apostrofa. S’abba (l’acqua), s’anadi (l’anatra), s’artàrïa (l’altezza, l’altitudine). Al pl. is, come per il m. su. Saba, s. f. Sapa, vino cotto. Pani ’e s. (pan di sapa), un dolce che fino a pochi anni fa era preparato ritualmente per la ricorrenza di Santi e Defunti e per la Pasqua d’Aprile e ora, invece, non ha più limiti di calendario. Sabbata, s. f. Scarpa confezionata artigianalmente e non assemblata in laboratorio. Pres. nei soprannomi. Vedi cosingiu. Sabbateri, s. m. Calzolaio. Sabidorìa, s. f. Sapienza, saggezza, equilibrio interiore Sabïori, s. m. Saggezza. Sin. del prec. Sàbïu/a, agg. Saggio/a. Sabonetu, s. m. Saponetta. Saboni, s. m. Sapone. Vivo il prov. samunendu sa conca a su molenti si perdit tempus e s. (lavando la testa all’asino si perde tempo e sapone). Vedi insabonai. Sabori, s. m. Sapore. Saborìu/a, agg. Saporito/a, gustoso/a. Il contr. di sciaborïau/ada. Sàbudu, s. m. Sabato. Sacaïa, s. f. Pecora giovane. Dim. sacaïedda. Si usa anche in rif. alla mufla. Sacaïu, s. m. Agnellone. Sachiteddu/a, s. m. e f. Sacchettino. Sachitu/a, s. m. e f. Sacchetto. Saconi, s. m. Saccone, gran sacco. Sacramentu, s. m. Sacramento. Sacrificai, v. Sacrificare. Sacrificau/ada, agg. Sacrificato, sottoposto a sacrifici. Sacrifìtzïu, s. m. Sacrificio, privazione, sofferenza. Sacru/a, agg. Sacro/a. Sacu, s. m. Sacco. Sàddidu, s. m. Sussulto, balzo, reazione nervosa incontrollata. Saddidura, s. f. Sussulto prolungato. Saddìrisi, v. Sussultare. Dd’apu amelessau e s’est totu saddìu (l’ho minacciato ed ha sussultato). Tuttora vivo il prov. su cüaddu frïau a sa sedda si saddit (il cavallo con il guidalesco sussulta al solo 340 comparire della sella), ovviamente in senso traslato, per dire dell’effetto perdurante di una qualsivoglia scottatura. Saddìu/a, agg. Sussultato/a. Safata, s. m. Vassoio. Sagliu, s. m. Zanna di cinghiale, molto più pronunciata rispetto a quella del suino domestico. Quella di maiale si chiama sanna. Sàguma, s. f. Sagoma. Sagumai, v. Sagomare. Sagumau/ada, agg. Sagomato/a. Säinada, s. f. Scuotimento, scossa, sussa. In senso fig. scorpacciata. Ddu iat una pingiada ’e petza a buddiu, si nd’at donau una s. chi ddu-i nd’iat po cussu e po àtiri puru. Säinadura, s. f. Scuotimento, scossa ripetuta. Nella loc. avv. a s. Säinai, v. Scuotere. Sàina sa mata (scuoti l’albero). Lo si impiega ironicamente nel senso di: picchiare, percuotere. Giai ti sàinat (ti picchierà sicuramente). Nel rifl. vale anche: mangiare abbondantemente, ingozzarsi. Säinau/ada, agg. Scosso/a, picchiato/a. Sàinu, s. m. Scuotimento, scossa. Sinonimo di saïnadura. Salàmini, s. m. Salame. Salatïeri, s. m. Insalatiera vassoio. Più in generale, contenitore per alimenti. PAOLO PILLONCA Salera, s. f. Saliera, piccolo contenitore per il sale. In senso fig. e per lo più ir. vale: riserva di saggezza. In su ’atiari ’e Fulanu s’ant iscaréscïu sa salera (nel battesimo di Fulano hanno dimenticato la saliera). Sali, s. m. Sale. Quello per uso alimentare si divide in s. fini (per le vivande già pronte) e s. grussu (per l’acqua di paste e minestroni). Ne esiste un terzo tipo, in grani ridotti, per la salagione del lardo e del prosciutto. Ma il s., al di là dell’uso materiale, è impiegato in campo met. come sinonimo di intelligenza e saggezza. Salia, s. f. Saliva. Al pl. - is salìas - indica l’accenno sprezzante ad uno sputo per terra in replica a una qualche affermazione offensiva. D’at betau is salìas (gli ha lanciato un accenno di sputo). Salia longa/Saliaciu, s. m. Saliva amara. Salidassu/a, agg. Piuttosto salato/a. Salidura, s. f. Salagione, salatura. Sàligi, s. m. Salice. Presente in un toponimo, al pl. e senza art. Sàligis -, posto quasi all’inizio della parte bassa del territorio comunale, Monti ’e ’ossu o, nella pronuncia di oggi, Montïossu. Saliri, v. Salare, fare la salagione. Mancarìas. La parlata di Seui Depu s. is presutus (debbo salare i prosciutti). Saliu/a, agg. Salato/a. Salomoni, s. m. Salomone. In senso ir. per definire un saputello. Saludai, v. Salutare. Sia nel significato normale di porgere il saluto (no ddu mancu saludat, non lo saluta neppure) sia in quello più recente, assunto dall’it., di perdere una speranza e di veder svanire un auspicio (ocannu s’andada a mari dda saludas, quest’anno la vacanza al mare la saluti). Saludau/ada, agg. Salutato/a. Saludi, s. f. Salute. Si dà come augurio, anche nel porgere il saluto e nell’aprire un brindisi, e si ottiene in risposta un’altra bella parola: vida. Vivo il detto chini tenit s. tenit dónnïa cosa (chi ha la salute ha tutto). Saludu, s. m. Saluto. Su s. dd’at lassau Deus (il saluto è un dono di Dio), ossia non si nega a nessuno. Samunadorgiu, s. m. Lavatoio. Samunadura, s. f. Lavatura, lavaggio. Bonu fut cussu ’inu? Bah, s. ’e pratus (era buono quel vino? Macché, lavatura di piatti). Samunai, v. Lavare, sciacquare. Riferito alle pulizie personali. Non mi soi nemancu samunau (non mi sono neppre lavato), delle stoviglie (sàmuna pratus e tassas, lava piatti 341 e bicchieri) e dei tessuti (sàmuna ’r mantas, lava le coperte). Samunamentu, s. m. Lavaggio continuo. Samunau/ada, agg. Lavato/a. Sanadura, s. f. Castrazione. Sanai, v. Castrare. Voce gergale dei pastori. Unu mascu sanau (un ariete castrato). Nel senso di guarire la parlata di Seui non lo registra, se non nell’espressione giai ndi sanat (ne guarirà), in riferimento a una faccenda provvisoriamente andata male ma non ancora irrimediabile. Sanatórïu, s. m. Sanatorio, tubercolosario. Sangeddu, s. m. Persona carica di livore, intrattabile. Sangìa, s. f. Ascesso purulento, postema. Sangradori, s. m. Salassatore, persona pratica nel fare i salassi. Sangradura, s. f. Salasso. Sangrai, v. Salassare. Met. approfittare. Giai ddu sangrat (gli toglierà il sangue), custa ’orta ti sangru ’eu (stavolta sarò io a salassarti). Sangrau/ada, agg. Salassato/a. Sangrìa, s. f. Salasso. Frequente anche l’uso traslato, nel senso di scottare, colpire negli averi. Sin. di sangradura. Sangunau, s. m. Cognome. Sanguneddu, s. m. Sanguinaccio di maiale. 342 Sangunera, s. f. Sanguisuga. In senso fig. profittatore, parassita. Est una s. (è un esoso). Sànguni, s. m. Sangue. Lo si impiega anche per indicare il legame di parentela. Su s. no est abba (il sangue non è acqua). Vedi insangüentai e derivati. Sanna, s. f. Zanna di maiale. Quella del cinghiale è sagliu. Santamenti, avv. Nella maniera più opportuna. Chi movias imoi a su monti dda fäias s. (se partissi adesso per la campagna agiresti nel modo più opportuno). Santidadi, s. f. Santità. Santificai, v. Santificare. Santificau/ada, agg. Santificato/a. Santinu, n. pr. di pers. Santino. Usato anche il dim. Santineddu. Santu/a, s. e gg. Santo/a. Santüanni, s. m. Comparatico, detto San Giovanni in rif. al figlio di Elisabetta e Zaccaria, il Battista per eccellenza. Indica il legame sacrale che si stabilisce tra i genitori di un battezzando (e, per estensione, di un cresimando) e le persone scelte per fare da padrini e madrine in questi due sacramenti. Il legame è immune da eventi negativi. Se tra compari le relazioni si raffreddassero, quel vincolo rimarrebbe comunque intangibile. PAOLO PILLONCA Vivo l’inciso francu su S. (fatta eccezione per il comparatico). Santucristu, s. m. Crocifisso. Santumusconi, s. m. Santomoscone, persona petulante. Santu setzi in domu, s. m. Lett. San Siedi a Casa. Espressione scherzosa rivolta soprattutto a bambini che vorrebbero essere accompagnati a una festa religiosa. Santzinada, s. f. Scuotimento, scossa. In senso fig. sussa. Dd’at donau una bella s. (gli ha dato una sussa in piena regola). Santzinai, v. Scuotere. Vedi saïnai. Santzinau/ada, agg. Scosso/a. Sanu/a, agg. Sano/a, di corpo e di mente. Cuddu no mi parit sanusanu (quello lì non mi sembra del tutto normale), quando si vogliono porre dubbi sulla salute mentale di q.no. Sapïenti, agg. Sapiente, saggio/a. Sapïéntzïa, s. f. Saggezza, sapienza. Sapiri(si), v. Accorgersi. Non si ndi mancu sapit (non se ne accorgerà neppure), candu mi ndi soi sapìu fut a duru (quando me ne sono accorto era tardi). Sapìu/a, agg. Saputello/a, presuntuoso/a, pieno/a di sé. Antoni est unu s. (Antonio è un presuntuoso). Mancarìas. La parlata di Seui Sarbadori/Sarbadoricu, n. pr. di pers. Salvatore. Sardadori, s. m. Saldatore. Sardadura, s. f. Saldatura. Sardai, v. Saldare. Fuori dal gergo della meccanica, vale: sistemare, mettere a punto. Eus a s. is contus (sistemeremo i conti a saldo). Sardau/ada, agg. Saldato/a. Sardigna, s. f. Sardegna. Sardismu, s. m. Sardismo. Sardista, agg. Sardista. Sardu, s. m. Lingua sarda. Su pipìu chistionat beni su s. (il bambino parla bene la lingua sarda). Sardu/a, agg. Sardo/a. Sardu, s. m. Saldo. Ti pagu a s. (ti pago a saldo). Sarmenta, s. f. Vite. Nome coll. che comprende in generale tutti i tipi di vitigni. Sartadori, s. m. Saltatore. Sartai, v. Saltare. Sartàini, s. f. Padella da cucina, impiegata generalmente per friggere. Indica anche la padella bucata che si usa per arrostire le castagne. Sàrtidu, s. m. Salto. Sartissu, s. m. Salsiccia. Sartu, s. m. Territorio destinato prevalentemente al pascolo, dunque non adibito a usi agricoli. Lo si usa anche per definire il pascolo 343 invernale, spesso molto lontano dai luoghi familiari. Ocannu andaus a su sartu (quest’anno sverneremo lontano). Sarvai, v. Salvare, aiutare generosamente in una necessità grave. Tenia bisongiu e m’at sarvau (ero in difficoltà e mi ha aiutato). Liberarsi da un pericolo. Äici ti sarvis de dannu (così possa evitare un incidente). Sarvamentu, s. m. Salvezza. Sarvau/ada, agg. Salvato/a. Sarvesa, s. f. Salvezza. Sarvu/a, agg. Salvo/a. Sassadura, s. f. Scorpacciata. Sassagoni, s. m. Goloso, mangione. Sassai/sassàisi, v. Mangiare a dismisura, satollarsi. Sassaluga, s. f. Lumaca senza guscio, lumacone. Sassaresu/a, agg. Sassarese. Sassau/ada, agg. Satollo/a. Saturnu/a, agg. Riservato/a, introverso/a. Säulada, s. f. Abbaiata. Säulai, v. Abbaiare. In senso ir. anche in riferimento all’uomo. Mancai sàulis no m’ispantas (anche se abbai non mi impressioni). Viva l’espressione proverbiale cani sàulat e procu papat (il cane abbaia e il maiale mangia), per dire di una situazione in cui qualcuno 344 approfitta a man bassa a proprio vantaggio nonostante le proteste altrui. Con la cons. iniziale di suono molto forte, che non si attenua davanti a vocale. Sàulu/issàulu, abbaio. Su cani fut a issàulus (il cane abbaiava di continuo). Sbagassai/irbagassai, v. Divertirsi, darsi alla bella vita, allo sperpero con le prostitute. Si nd’at irbagassau ’e bellu ’inari (ne ha sperperato di bei soldi). Vedi bagassa. Sbagassamentu, s. f. Dissipazione, perdita di dignità. Sbagassau/ada, agg. Perso/a, smascherato/a, disonorato/a. Sbalossàisi/isbalossàisi, v. Fare il cretino, eccedere nei comportamenti stupidi. Non t’isbalossis (non fare lo stupido). Vedi balossu. Sbalossamentu, s. m. Rincretinimento. Sbalossau/ada, agg. Rincretinito/a. Sbandai/isbandai, v. Sbandare. Anche in senso fig. Sbandamentu, s. m. Perdita di equilibrio, sbandata. Sbandau/isbandau/irbandau, s. m. Sbandato/a. Funge anche da agg. Sbarcai, v. Sbarcare, approdare. Sbarcau/ada, agg. Sbarcato/a. PAOLO PILLONCA Sbarcu/isbarcu, s. m. Sbarco. Sbirru/irbirru, s. m. Martora. Ma anche, all’italiana, sbirro, spia. Sburzugai/irburzugai, v. Cacciar via, andar via. Nce ddu ’rbùrzugu (lo caccio via), giai nci irbùrzugas de igui (presto andrai via da lì). Sburzugau/ada, agg. Mandato/a via. Scabbalàisi/iscabbalàisi, v. Sbandarsi, perdersi per strada, vagabondare. Scabbalau/ada, agg. Sbandato/a. Scabbessada, s. f. Colpo di mano tra la guancia e la testa (cabeza). Spagnolismo. Scabbessai, s. f. Colpire con scabbessadas. Scabbessu, s. m. Sin. di scabessada. Scabbùlliri, v. Recuperare, riuscire ad avere. Il part. pass. più frequente è irregolare: scabburtu/a. Ma talvolta si afferma anche quello normale scabùllïu/a. Scabudai, v. Lasciar perdere. Scabudau/ada, agg. Trascurato/a, abbandonato/a. Vedi càbudu. Scacamurrada, s. f. Percossa sul muso. Scacamurrai, v. Colpire, percuotere sulla bocca (murru). Ma è usato anche nel senso più esteso e spesso traslato di bacchettare. Fut Mancarìas. La parlata di Seui seghendumì sa passïèntzïa e mi dd’apu scacamurrau ’eni-’eni (mi stava facendo perdere la pazienza e l’ho bacchettato per benino). Scacamurrada, s. f. Percossa inferta sul muso. Scadassai, v. Liberare dalla forfora. Vedi cadassa. Anche in senso fig. Scadassau/ada, agg. Liberato dalla forfora e, più in generale, da situazioni scomode e/o fastidiose. Scadassu, s. m. Liberazione dalla forfora. Scaddai/iscaddai, v. Scottare. Chini iscaddat s’abba ’uddia timit sa frida puru (chi rimane scottato dall’acqua calda teme anche quella fredda). Vedi scramentai. Scaddau/ada, agg. Scottato/a. Scaddu/iscaddu, s. m. Scottatura. Per est. esperienza fallita. Vedi scramentu. Scadenadura/iscadenadura, s. m. Scatenamento, liberazione dalle catene. Scadenai/iscadenai, v. Scatenare, togliere la catena. Scadenau/ada, agg. Scatenato/a, senza catena. Scagareddada, s. f. Sfinimento, debilitamento. Scagareddai, v. Indebolire, debilitare, sfinire, stremare come chi è colpito da attacchi di diarrea (cagaredda). 345 Scagareddau/ada, s. e agg. Sfinito/a, debilitato/a, logorroico/a. Scagliadura, s. f. Scongelamento, dissolvimento. Contr. di cagliadura. Scagliai, v. Scongelare, squagliare, liquefare. Contr. di cagliai . Scagliau/ada, agg. Liquefatto/a. Scala, s. f. Scala. Ddu-i tengiu su mäistu ’e muru ca sa s. fut orrüendudendi (ho in casa il muratore perché la scala stava cadendo a pezzi). Passaggio, varco naturale su una parete ripida di montagna o collina. In questa accezione è presente in diversi toponimi: Sa s. ’e is (pron. ir) murvas (la parete delle mufle), nella foresta di Montarbu, Sa s. ’e Sa Marra e Sa s. ’e sa Träia nel Tònneri. Scaleri/iscaleri, s. m. Scalino, gradino di scala. Frequente l’espr. ir. no at àiri imbrunconau in is iscaleris de s’univerisidadi (non avrà inciampato sui gradini dell’Università). Scalonai, v. Cogliere uva in minigrappoli. Scaloni, s. m. Minigrappolo d’uva. Scambadura/iscambadura, s. f. Debolezza di gambe. Freq. la loc. avv. a i. Scambai/iscambai, v. Tagliare le 346 gambe. Ma più spesso lo si usa per indicare l’indebolimento dell’arto. S’abbardenti mi scambat (l’acquavite mi leva la forza delle gambe). Scambau/ada, agg. Senza gambe, dalle gambe deboli. Scaminai, v. Deviare dalla retta via, perdere la strada. Scaminamentu, s. m. Vagabondaggio, perdita della strada giusta. Scaminau/ada; agg. Vagabondo/a, nullafacente, persona perduta. Lett. che ha perso la strada. Scancelladura, s. f. Cancellatura, cassazione. Scancellai, v. Cancellare, cassare. Scancellau/ada, agg. Cancellato/a, cassato/a. Scàndula, s. f. Scheggia, strato, rimasuglio, avanzo, tegola.Viva l’impr. una scàndula ’e tronu (una scheggia di tuono). Scandulìgiri, v. Svergognare, sputtanare. Lett. togliere le tegole (scàndulas), riportare tutto alla luce del sole. Scanduligìu/a, agg. Svergognato/a. Scàndulu, s. m. Vergogna, scandalo. Scanneddada, s. f. Colpo diretto alla tibia. Vedi cannedda. Scanneddadura, s. f. Serie di PAOLO PILLONCA colpi alla tibia. Scanneddai, v. Colpire la tibia. Gergale del gioco del calcio. Scanneddau/ada, agg. Colpito/a nella regione tibiale. Scannidura, s. f. Incrinatura, filatura. Scanniri/iscanniri, v. Incrinare, provocare una filatura a un contenitore vitreo. Scannìu/iscannìu/a, agg. Incrinato/a, filato/a. Cussa tassa mi parit i. (quel bicchiere mi sembra filato). Scantulada, s. f. Schiaffone, schiaffo. Chi non fais a bonu ndi ’oddis una s. (se non ti comporti bene becchi uno schiaffone). Scantulai, v. Dare schiaffi. Scantzadorgiu, s. m. Deviazione di strada, bivio. Scantzai/iscantzai, v. Deviare. Anche riferito all’acqua di irrigazione, s. s’abba (deviare il corso dell’acqua). Nella forma rifl. vale: andare di traverso. Bufa a bellu ca su ’inu ti podit i. (bevi adagio perché il vino ti può andare di traverso). In senso ir. quando ci si augura che una determinata azione altrui non vada a buon fine. Custa ’orta dd’iscantzat (stavolta gli va di traverso). Scantzau/ada, agg. Deviato/a. Scapai/iscapai, v. Liberare. Fut in Mancarìas. La parlata di Seui presoni ma dd’ant iscapau (era in carcere ma l’hanno liberato). Liberarsi, sospendere il lavoro. Cumentzat a cöidu e iscapat a mesudì (inizia presto e a mezzogiorno sospende). Perdere liquido, trasudare, liberare. Scapat ogliu, cussa agliàuna (quella lattina perde olio). Scapau/ada, agg. Liberato/a, sospeso/a, trasudato/a. Scapïadura, s. f. Slegatura, slegamento, liberazione. Scapïai/iscapïai, v. Slegare, sciogliere, liberare da funi e/o catene. Innanti ’e ddas tùndiri is brebeis s’acàpiant, tùndïas chi siant si nd’iscàpïant (prima di essere tosate, le pecore debbono essere legate e subito dopo la tosatura vengono slegate). In senso fig. sciogliere da legami magici nei rituali che lo prevedono, come quello dell’acqua, della volpe e dell’aquila. Vedi acapïai. Scapïau/ada, agg. Slegato/a. Scapu/a, agg. Liberato/a, di nuovo in libertà. Scaratirau/ada, agg. Senza carattere, intrattabile, inaffidabile. Vedi caràtiri. Scarceddu, s. m. Rifiuto. Rif. alle persone: unu s. ’e presoni (un avanzo di galera). Scardai/scherdai, v. Rinzeppare. Sistemare pietre di piccola dimen- 347 sione tra cemento e pietre più grandi sovrapposte durante la costruzione di un muro. Gergale dei muratori. Scardanciladura, s. f. Sgarrettamento. Scardancilai, v. Sgarrettare. Vedi cardancili. Scardancilau/ada, agg. Sgarrettato/a. Scardangiai, v. Ripulire, togliere su cardangiu, la sporcizia accumulata. Scardangiamentu, s. m. Ripulimento. Scardangiau/ada, agg. Ripulito/a. Scardassai, v. Pulire al meglio in una situazione divenuta difficile per l’eccessiva sporcizia. Nd’apu scardassau ’e cosa eriseru in cussa ’omu (ho pulito davvero molto ieri in quella casa). Vedi incardassai e cardassu. Scardassu, s. m. Pulizia in situazione precaria, ripulimento sommario. Scardimentu, s. m. Infiammazione dell’inguine e di altre parti delicate del corpo. Scardiri(si), v. Infiammarsi una parte del corpo in seguito a contatto o altra causa. Su cartzoni nou ddu totu scardit (i pantaloni nuovi gli causano un’infiammazione). Scardìu/a, agg. Infiammato/a. 348 Scarenadura, s. f. Perdita di forze, infiacchimento. Scarenai, v. Far perdere forze, fiaccare, indebolire. Scarenau/ada, agg. Fiaccato/a, indebolito/a. Scarescidura, s. f. Perdita di memoria. Scarèsciri/iscarèsciri, v. Dimenticare. M’iscarèsciu totu (dimentico tutto). Frequenti le espressioni scaréscïu/scarèscïa che mortu/a (dimenticato come una persona morta) e a sa morti scarescias (che la morte si dimentichi di te). Esiste anche la variante schèsciri. Scaréscïu/iscaréscïu, s. m. Facile all’oblio, persona che dimentica facilmente le cose. Usato anche come agg. Chi soffre di amnesie è definito anche conca scarèscïa (lett. testa che non ricorda). Esiste anche la variante schéscïu. Scargiadura, s. f. Pianto disperato. Scargiàisi, v. Piangere fino a perdere il respiro. Detto soprattutto dei bambini. Candu prangit si scargiat in donnìa (quando piange rimane sempre senza respiro). Scargiau/ada, agg. Temporaneamente privo/a di respiro. Scargiu, s. m. Gozzo. Per estensione, stomaco. S’at prenu ’eni-’eni su s. (si è riempito ben bene lo sto- PAOLO PILLONCA maco), spregiativamente. Scarigadura/iscarigadura, s. f. Epistassi. Dd’at iscutu unu buciconi a i. (gli ha dato un pugno sul naso, is càrigas). Scarigai/iscarigai, v. Provocare un’epistassi, far uscire sangue dal naso a q.no. Dd’at iscarigau (gli ha fatto uscire sangue dal naso). Scarigau/ada, agg. Colpito/a da epistassi. Scarpinada, s. f. Fuga, camminata veloce. Scarpinai, v. Fuggire, dileguarsi. Scarpinau/ada, agg. Fuggito/a, scomparso/a. Scarrabbussonada, s. f. Ravvivamento del fuoco. Brusca cacciata di q.no da un ambiente. Scarrabbussonai, v. Ravvivare il fuoco del forno o del caminetto, in modo da sminuzzare carboni e braci. In senso fig. cacciar via in malo modo una persona prepotente o importuna. Chi abètïat meda nce ddu scarrabbussonaus (se insiste molto lo cacciamo via). Scarrafïai, v. Graffiare. Scarrafïau/ada, agg. Graffiato/a. Scarràfïu, v. Graffio. Quando è di proporzioni ridotte, lo si dice con il diminutivo scarrafïeddu o con l’aggiunta di una precisazione: scarrafïeddu ’e nudda (graffietto da niente). Mancarìas. La parlata di Seui Scarragiai, v. Liberare dalla terra o altro materiale di frana come carbone e/o detriti, disseppellire. Cantu nd’at mortu in miniera carragiaus de craboni chi no nci funt arrennéscïus a nde ddus s. (quanti sono morti in miniera, sepolti dal carbone senza che si sia riusciti a disseppellirli). Vedi carragiai. Scarragiau/ada, agg. Liberato/a da detriti, dissepolto. Scarragiu, s. m. Scavo tendente a liberare un luogo da detriti. Scàrriga, s. f. Scarica. Scarrigadorgiu, s. m. Luogo in cui si scarica. Scarrigai, v. Scaricare. Ndi scarrigaus su fenu (scarichiamo il fieno). Scarrigau/ada, agg., Scaricato/a. Scàrrigu, s. m. Scarico, operazione di scaricamente in genere. Scarronadura, s. f. Ferita da taglio al calcagno. Scarronai, v. Tagliare, ferire al calcagno. Vedi carroni. Scarronau/ada, agg. Scalcagnato/a, ferito/a al calcagno. Scartai, v. Scartare. Rif. sia agli uomini, sia, soprattutto, agli animali. Ocannu depu s. paricias brebeis (quest’anno dovrò scartare molte pecore). Si utilizza anche nel gioco delle carte per definire l’operazione con cui in certi giochi 349 ci si libera di una carta subito dopo averne preso dal mazzo un’altra. Scartau/ada, agg. Scartato/a. Scarteddu, s. m. Cestino. In senso fig. omùncolo. Scartevidada, s. f. Liberazione. Scartevidài(si), v. Liberarsi. Da una situazione di disagio, soprattutto, ma anche da un impiccio di ordine fisico. No est arrennéscïu a si ndi s. (non è riuscito a liberarsi). Scartevidau/ada, agg. Liberato/a da un impiccio fisico. Scartina, s. f. Cesta. Scartu, s. m. Scarto. Est unu pegus de s. (è un animale da scartare), definizione che si usa anche in senso più lato, riferita alle persone che non godono di alcuna stima. Scartzadura, s. f. Lavoro di zappa attorno a un ceppo di vite. Scartzai, v. Togliere la terra intorno a un ceppo di vite facendo un piccolo fosso per favorire il ristagno temporaneo dell’acqua piovana. Scartzau/ada, agg. Liberato/a dalla terra. Scartzonadura, s. f. Liberazione dai calzoni. Scartzonai, v. Togliere i calzoni. Anche rifl. Scartzonau/ada, agg. Prodigo/a, generoso/a al punto da sacrificare perfino i calzoni (cartzonis). Lett. senza più pantaloni. 350 Scascialadura, s. f. Perdita di tutti i molari. Scascialai/iscascialai, v. Estrarre tutti molari. Anche al rifl. S’est iscascialau (ha perso tutti i molari). Scascialau/ada, agg. Privo/a di molari. Scassoladura, s. f. Farneticamento, uscita di senno. Scassolai(si)/iscassolai(si), v. Farneticare, uscir di senno. Detto di chi è in preda a un male oscuro. Est iscassolendusì (sta uscendo di senno). Scassolau/ada, agg. Farneticante, dissenato/a. Scastai/iscastai, v. Tralignare, essere diverso rispetto ai propri familiari. At iscastau (è un figlio degenere). Lo si dice generalmente per rimarcare un peggioramento, ma lo si può utilizzare anche in senso positivo. Vedi casta. Scatai, v. Rilasciare squame. Scata, s. f. Squame, di pelle umana e animale terrestre e/o acquatico. Scatosu/a, agg. Squamoso/a. Scàtula, s. f. Scatola. Scavanada, s. f. Schiaffo in piena guancia. Vedi càvana. Scavanai, v. Dare schiaffi sulle guance. Scavitai, v. Dondolare, muovere ritmicamente. PAOLO PILLONCA Scavitada, s. f. Dondolio, movimento ritmico. Scavitadura/iscavitadura, s. f. Effetto del dondolio. Scavuladura/iscavuladura, s. f. Rifiuto, il gettar via rabbiosamente q.sa. Scavulai/iscavulai, v. Buttare, gettar. Scavulanceddu (buttalo via). Scavulau/ada, agg. Gettato via, buttato/a. Scegïai/sfegïai, v. Perdere la feccia. In senso fig.: smaltire la sbornia. At iscegïau (ora è sobrio). Scempïai(si)/iscempïai, v. Ferire malamente. Nc’est orrutu in-d-una spérruma e s’est iscempïau (è caduto in un dirupo e si è ferito gravemente). In senso fig. scimunire. Scempiau/ada, agg. Scimunito/a. Scetadori, s. m. Cernitore, stacciatoio. Scetai, v. Mettere da parte il fior di farina. Scèti, s. m. Fior di farina. Scetigedda, s. f. Cannella. Schèsciri, v. Dimenticare. Vedi scarèsciri e derivati. Scëurrai/sfëurrai, v. Deferulare. Bonificare il pascolo eliminando la ferula. Candu si scèurrat, su logu abarrat francu féurra po una pariga ’i annus e de fatu torraus a cumentzai ’e bell’e nou (quando si fa il deferulamen- Mancarìas. La parlata di Seui to, il terreno rimane libero dalla ferula per qualche anno poi siamo di nuovo punto e a capo). Vedi afëurrai e féurra. Scëurramentu, s. m. Deferulamento. Scëurrau/ada, agg. Deferulato/a. Su sartu nostu est totu s. (il nostro territorio è tutto deferulato). Schetu/a, agg. Sincero/a, schietto/a, netto/a. Schidonada, s. f. Spiedo già pieno di carne da cuocere arrosto. Schidoneddu, s. m. Piccolo spiedo. Schidonera, s. f. Rastrelliera per spiedi. Schidoni, s. m. Spiedo. Ancora molto vivo nell’uso il prov. in domu ’e su ferreri schidonis de linna (in casa del fabbro gli spiedi sono lignei). Esiste anche la variante spidu. Schina/ischina, s. f. Schiena, colonna vertebrale, dorso. Soi a dolori ’e s. (ho mal di schiena). Ma il s. in senso met. vale: fierezza, dignità di condotta, forza morale. Schirrïulinu/ischirrïulinu/a, agg. Alto/a e magro/a. Schiscïai/ischiscïai, v. Far impazzire, far innamorare. Sa cassa dd’at ischiscïau (la caccia l’ha fatto uscir di senno). Schiscïau/ada, agg. Impazzito, innamorato, entusiasta. 351 Schiscionera, s. f. Cottura in umido. Schìscïu/ischìscïu, s. m. Chiodo fisso, mania, innamoramento. Su palloni ddi pigat a i. (il gioco del calcio lo appassiona follemente). Schistu, s. m. Scisto, particolare tipo di pietra. Schïulai, v. Garrire, emettere versi striduli. Schìulu, s. m. Verso stridulo di uccello. Per est. e in senso ir. vale: grido, urlo. Schivai/ischivai, v. Provare nausea e disgusto. Soi acanta ’e i. s’orrosu (il riso mi sta venendo a nausea). Schivau/ada, agg. Nauseato/a. Sciabbocai, v. Scherzare a man salva, ironizzare. Sciabbocu, s. m. Divertimento. Sciaborïai/isciaborïai, v. Far perdere il sapore. No nde ddi pongias de abba in prus ca sciabòrïat totu (non mettergli troppa acqua perché fa perdere sapore al piatto). Al rifl. vale: perdere il gusto. Sciaborïau/ada, agg. Senza sapore, privo/a di gusto. Contr. di saborìu/a (saporito/a). Sciacüadura, s f. Lavatura, acqua sporca (dopo essere stata usata per lavare i piatti). Sciacüai/isciacüai, v. Lavare con acqua. Ma il v. ha un largo impie- 352 go met. quando si definisce una situazione di antagonismo acceso nella quale uno dei contendenti ne contesta un altro in maniera decisa e senza peli sulla lingua. Mi dd’at isciacüada ’eni (l’ha lavata per bene, ossia: le ha sferrato un attacco deciso). Sciacüau/ada, agg. Lavato/a. Sciaddiri/isciaddiri, v. Scomparire all’orizzonte, perdere di vista. Dona crobba non ti nci sciaddat (attento a non perderlo di vista), candu mi ndi soi acatau, Gisepu nci fut giai s. (quando me ne sono accorto, Giuseppe era già scomparso al mio orizzonte), a mei no mi nc’isciaddit (io non lo perdo d’occhio). Detto anche del sole e della luna. Sciaddìu/a, agg. Scomparso/a alla vista, declinato/a, perso/a di vista. Su soli nci fut belle e i. (il sole era quasi scomparso all’orizzonte). Sciaferru, s. m. Austista. Desueto. Francesismo. Sciäimentu, s. m. Perdita di liquido. Sciàiri, v. Perdere liquido. Detto dei contenitori. Sciallu, s. m. Scialle. Scialu, s. m. Lusso, prodigalità. Sciamigai/sfamigai, v. Sfamare. Il verbo viene usato con marcata venatura ironica o sarcastica. PAOLO PILLONCA Sciamigau/ada, agg. Sfamato/a. Sciampugliadura, s. f. Sbatacchiamento. Sciampugliai, v. Agitare. Riferito soprattutto a contenitori di liquidi. Arregodadì ca cussa mëigina ’olit isciampugliada innanti ’e dda pigai (ricordati che quel farmaco deve essere agitato prima dell’assunzione). Più in generale, lo si impiega anche - e talvolta in senso ir. - per indicare uno stato di agitazione fisica in seguito, ad es., a un viaggio particolarmente veloce e agitato in auto. Sciampugliau/ada, agg. Agitato/a, scosso/a. Sciampugliu, s. m. L’atto e l’effetto di sciampugliai. Sciancai(si), v. Sfiancare, sciancare. Anche al rifl. Sciancau/ada, agg. Sciancato/a. Sciapidórïu, s. m. Sciocchezza, stupidaggine. Linu narat feti sciapidórïus (Lino dice solo sciocchezze). Sciàpidu/a, agg. Insipido/a. In senso fig. sciocco/a, insulso/a. Cussa picioca est prusu s. che sàbïa (quella ragazza è più sciocca che saggia). Sciaputzu, s. m. Persona di poco valore. Usato anche al dim. (sciaputzeddu) quando si tratta di persona giovane o di fisico debole. Sciarrancadura, s. f. Lavorazione manuale della pasta su cestini Mancarìas. La parlata di Seui di asfodelo, graffio. Sciarrancai/sfarrancai, v. Lavorare con le mani. Macarronis sciarrancaus sono un particolare tipo di maccheroni di preparazione domestica manuale, che si passano sopra i cestini di asfodelo una volta lavorata la pasta, prima di ripassarli nella farina. Vedi farranca. Graffiare provocando lesioni. Dd’at totu sciarrancau (l’ha riempito di graffi). Sciarrancau/ada, agg. Graffiato/a. Sciasciadura, s. f. Sfascio, guasto, disfacimento. Sciasciai, v. Sfasciare, guastare, rovinare. Detto delle cose ma anche delle persone, in senso reale e fig. Sciasciapatata, s. f. Schiacciapatate. Sciasciau/ada, agg. Sfasciato/a, guasto/a, inservibile. Sciasciu, s. m. Sfascio, confusione, caos. Sciasolàisi, v. Dire sciocchezze, non seguire fino in fondo un ragionamento. Il v. potrebbe fondarsi su un’osservazione del mondo agricolo. Se è vero che i fagioli all’interno del baccello sono ordinati alla perfezione dalla natura, è altrettanto vero che quando li si sbaccella perdono 353 l’allineamento e l’ordine complessivo. In senso met. il mancato rispetto della logica argomentativa da parte di un individuo potrebbe somigliare al disordine dei fagioli sbaccellati. Sciasolai è il risultato di un originario sfasolai, che alla lettera significa: uscire dallo stato di fagiolo.Vedi fasolu, stegai e tega. Sciasolamentu, s. m. Sbaccellamento. In senso fig. disordine logico, sciocchezza. Sciasolau/ada, agg. Sciocco/a, noioso/a, inconcludente, fuori misura. Scibuddadura, s. f. Infiacchimento, rammollimento. Scibuddai(si), v. Infiacchire, infiacchirsi, rammollirsi come la cipolla bollita. Vedi cibudda. Scibuddau/ada, agg. Rammollito/a, fiacco/a. Scidai/iscidai, v. Svegliare, incitare ad una maggiore concentrazione e/o grinta. Ti ndi scidu ’eu (ti sveglierò io), Chi no nde ddu scidas, cussu s’abarrat crocau (se non lo svegli, quello lì rimarrà a letto). Al rifl. vale: destarsi, uscire dal sonno. Si nd’est iscidau a cöidu (si è svegliato presto) Scidau/ada, agg. Destato/a, svegliato/a. Scidu/a, s. e agg. Sveglio/a, per- 354 sona accorta. Scïenti, s. m. Apprendista. Unu bonu mäistu ’ogat un bonu s. (un buon maestro tira fuori un buon apprendista). Scïentzïa, s. f. Scienza. Scïèntzïau, s. m. Scienziato. Scimingiadura/iscimingiadura, s. f. Sindrome simile a capogiro e vertigini. Ddi pigat a i. (gli viene un senso come di capogiro). Scimingiai/iscimingiai, v. Far venire il capogiro, stressare. Scimingiu/iscimingiu, s. m. Capogiro, vertigine. Scimpradura, s. f. Degrado mentale. Scimprai(si), v. Far diventare scemo. Nel rifl. vale: comportarsi male abbassandosi ad azioni o discorsi poco corretti o comunque sciocchi. Non ti scimpris (non fare e/o dire sciocchezze). Scimprau/ada, agg. Divenuto/a sciocco/a. Scimprigosu/a, agg. Reattivo/a, abile. Scimprìgu, s. m. Abilità, prontezza, capacità di reazione e di iniziativa. Di uno che si rassegna senza reagire, incapace di qualunque presa di posizione creativa si dice: non portat perunu s. (non ha alcuna capacità di reazione). Scimprórïu, s. m. Fesseria, scioc- PAOLO PILLONCA chezza, banalità. Scit nai feti scimprórïus (sa dire solo banalità). Scimpru/a, agg. Sciocco/a, banale. Scincidda/iscincidda, s. f. Scintilla. Cussa linna in sa ziminera bogat tropu s. (quella legna nel camino emana troppe scintille). In senso fig. brillantezza. Scinciddai/iscinciddai, v. Emettere scintille. Traslato: essere brillante. Scinciddosu/a, agg. Che produce scintille (detto della legna da ardere). In senso fig. vale: brillante, scintillante, reattivo, scoppiettante, fantasioso. Scìngirisi, v. Togliersi i vestiti. Scinigai/iscinigai, v. Provare languore, con la conseguenza di avere necessità di alimentarsi sul momento. Scinigau/ada, agg. Illanguidito/a semiaffamato/a. M’intendo totu s. (mi sta venendo appetito). Scinìgu/iscinigu, s. m. Languore dovuto alla necessità di assumere alimenti in tempi brevi. Crisi ipoglicemica. Scinisadura, s. f. Impallidimento. Alla lettera: assunzione del colore della cenere (cinisu). Scinisàisi, v. Diventare pallido, per emozione o malattia. Scinisau/ada, agg. Pallido/a. Mancarìas. La parlata di Seui Lett. color cenere. Lo si rafforza con una similitudine, s. che mortu (pallido come un cadavere). Scintu/a, agg. Liberato/a dai vestiti. Part. pass. di scìngirisi. Scioberai, v. Selezionare, scegliere tra persone o cose. Scioberau/ada, agg. Scelto/a, selezionato/a. Scioberu, s. m. Scelta. Scioginai/sfoginai, v. Far alzare bruscamente dal letto. Vedi fogina. Scioginamentu, s. m. Risveglio brusco. Scioginau/ada, agg. Destato/a bruscamente dal sonno e fatto/a alzare. Sciòlliri, v. Dipanare, detto ad es. di una matassa. In senso fig. risolvere. Sciòllïu/a, agg. Dipanato/a, risolto/a. Sciollorïai, v. Infastidire con discorsi fumosi. Al rifl. vale: perdersi in discorsi senza senso, rincitrullirsi. Sciollórïu, s. m. Sciocchezza, discorso caotico, fesseria. Sciolocada, s. f. Scemenza. Sciolocai, v. Dire sciocchezze. Sciolocau/ada, agg. Cretino/a, sciocco/a. Sciolocu, s. m. Sciocchezza, dissennatezza. Sciopadura, s. f. Rottura, scop- 355 pio. Sciopai/isciopai, v. Scoppiare, rompere. Assai frequente nelle imprecazioni contro chi alza troppo la voce: isciopa! Sciopau/isciopau/ada, agg. Scoppiato/a. Sciorbeddadura/isciobeddadura, s. f. Ferimento alla fronte. Usata la loc. avv. a i. Sciorbeddai/isciorbeddai, v. Ferire alla fronte. Sciorbeddau/ada, agg. Ferito/a in fronte. Sciorta/isciorta, s. f. Diarrea. Sciortori, s.m. Arcolaio. Gergale delle tessitrici. Vedi sciòlliri. Scìpïu/a, s. e agg. Saputello/a. Part. pass. di sciri/isciri. Scircai/iscircai, v. Togliere i cerchi alle botti. In senso fig. devastare, rovinare. Scircau/ada, agg. Privo/a di cerchi. Rif. principalmente alle botti in disuso. Ma si usa anche in senso fig. per definire un individuo non più padrone dei propri movimenti fisici per malattia o incidente. Sciri/isciri, v. Sapere. Dd’at iscìpiu mamma tua puru (è venuta a saperlo anche tua madre).Usato talvolta come inf. sostantivato. Su s. giuat meda (il sapere giova molto). Il part. pass. scìpiu/iscìpiu è usato anche nel senso dell’it. 356 saputello. Scìpïu/a, agg. Saputo/a. Scìpïu, s. m. Saputello/a. Scirradura, s. f. Spampanamento. Scirrai, v. Spampanare. Gergale dei vignaioli. Scirrau/ada, agg. Spampanato/a. Scïudai/sfïudai/iscïudai, v. Diventare vedovo/a. Lüisa at iscïudau ocannu passau (Luisa è rimasta vedova l’anno scorso). Sciuscïai/isciuscïai, v. Disfare, sfasciare, demolire. Sciuscïau/ada, agg. Sfasciato/a, diroccato/a. Cussa ’omu est totu sciuscïada (quella casa è completamente diroccata). Sciusciu, s. m. Demolizione, sfascio. Sciustigai/sfustigai, v. Provocare senza ragione q.no. Lett.: stuzzicare con un rametto (fustiga). Sciustigamentu, s. m. Provocazione. Sciustigau/ada, agg. Provocato/a, stuzzicato/a. Sciutai, v. Asciugare. Detto principalmente dei panni stesi dopo la lavatura. Sciutau/ada, agg. Asciugato/a. Sciutéi, s. m. Cacca. Ti ’ongiu unu bellu sciutei (ti darò un bel po’ di cacca, ossia: non ti darò alcunché). Nulla. Indeclinabile. Sciutori, s. m. Siccità, asciuttez- PAOLO PILLONCA za. Anche sin. di sciutéi. Sciutu/isciutu/a, agg. Asciutto/a. Su pannigeddu fut i. (il tovagliolo era asciutto). Senza nient’altro. Papu pani s. (mangio soltanto pane, senza alcun companatico). Scivedda, s. f. Catino di terracotta, concola. Scivïada, s. m. Getto di liquido, per lo più acqua. Lett. gettito di una quantità d’acqua di quella contenuta nel catino ligneo detto scivu. In senso fig. vale serie di colpi. Dd’at nau una s. ’e füeddus (pron. füeddur) malus (gli ha detto una serie di parolacce). Scivïai, v. Lanciare un gettito d’acqua contro qualcuno. Scivïau/ada, agg. Lanciato/a. Scivu, s. m. Catino ligneo di media dimensione per impastare il pane, madia. Scocioladura, s. f. Decorticazione. Scociolai, v. Scorticare. Rif. soprattutto alle piante. Vedi cociolu. Scociolau/ada, agg. Scorticato/a. Scöadura, s. f. Taglio di coda. Scöai, v. Tagliare la coda. Scöau/ada, agg. Senza coda. Scöetai, v. Scodinzolare, muovere la coda, guizzare. Togliere il sottocoda (cöeta) alla sella degli equi- Mancarìas. La parlata di Seui ni. Vedi coa. Scöetamentu, s. m. Scodinzolamento. Scöetau/ada, agg. Scodinzolato/a. Scofada de pei, s. f. Pedata, calcio. Scofai, v. Dar colpi. Scofau/ada, agg. Fortunato/a. Vedi cofa. Scoïadori/a, s. e agg. Disfacitore di matrimoni e/o fidanzamenti. Caratteristica che si attribuiva a persone viventi, ma anche a qualche Santo del calendario liturgico, come Sant’Elena, venerata a Sàdali. In quello stesso paese, al contrario, San Valentino, cui è dedicata la festa principale, è ritenuto coïadori (pronubo).Vedi coïa. Scoïai, v. Mandare a monte un matrimonio e/o un fidanzamento. Scoïau/ada, agg. Separato/a dal coniuge. Scolletai, v. Trasportare legna da ardere dal punto del taglio al luogo del carico su un mezzo meccanico. Anche, ma più raramente: trasportare pesi in genere. Scolletamentu, s. m. Trasporto manuale di legna da ardere da un punto a un altro. Scolletau/ada, agg. Trasportato/a. Scollocai, v. Smontare, mettere 357 fuori uso. Scollocau/ada, agg. Smontato/a. Scollocu, s. m. Smontaggio. Scomadura, s. f. Taglio delle fronde. Scomai, v. Tagliare le fronde, svettare. Vedi coma. Scomau/ada, agg. Svettato/a, potato/a. In senso fig. umiliato, ridotto a miti consigli. Scomìniga, s. f. Scomunica. Per est. sfortuna, disdetta. Scominigai/iscominigai, v. Scomunicare. Scominigau/ada, s. e agg. Scomunicato/a. Per est. sfortunato/a, malfatato/a. Sconcadura/isconcadura, s. f. Decapitazione (conca, testa). In loc. avv. indica una maniera di colpire all’altezza del capo. Sa perda nde dd’at boddiu a i. (la pietra l’ha colpito al capo). Sconcai/isconcai, v. Decapitare, tagliare la testa, ferire alla testa. Sconcau/ada, s. e agg. Senza testa. In senso fig. indica chi non riflette sulle azioni che compie e rischia sempre più del dovuto. Pres. nei soprannomi al f. Sconciaballus, s. m. Perturbatore, incline ai diverbi. Lett. che interrompe i balli. Sconciagiogus, s. m. Importuno. Lett. che interrompe i giochi. 358 Sconciai/isconciai, v. Guastare, rovinare, tendere al peggio. Su tempus s’est isconciau (il tempo si è messo al brutto). Slogare. M’apu sconciau unu ’rassu (ho un braccio slogato). Sconciu, s. m. Slogatura, distorsione, guasto. Sconciu/a, agg. Guasto/a. Scopa/iscopa, s. f. Scopa, gioco di carte. Scorai/iscorai, v. Far provare un dolore forte, tanto intenso da togliere le forze e lasciare senza fiato (lett. strappare il cuore). M’at iscutu una calada ’e pei a sa cannedda e m’at iscorau (mi ha dato un calcio alla tibia e lasciandomi senza fiato). Scoramentu, s. m. Sensazione di dolore forte e di impotenza a reagire. Scorau/ada, agg. Colpito/a al cuore, stremato/a, senza fiato. Scorgiadori, s. m. Scuoiatore, abile a scuoiare. In senso fig. profittatore del denaro altrui. Scorgiadura, s. f. Scuoiamento. Scorgiai, v. Scuoiare, spellare. In senso lato: depredare. Scorgiau/ada, agg. Scuoiato/a, spellato/a. Scorporai(si)/iscorporai(si), v. Mangiare oltre misura. Candu est in logu ’e muntza s’iscòrporat in PAOLO PILLONCA donnìa (quando si trova in qualche banchetto eccede sempre nel cibo). Scorporau/ada, agg. Crapulone/a. Scorradura, s. f. Scorno. Scorrai, v. Scornare, tagliare le corna. In senso reale e traslato. Scorrau/ada, agg. Deluso/a, amareggiato/a, scornato/a. Scorrïai, v. Sfilacciare. In senso fig. litigare, rovinare i rapporti interpersonali. Vedi corria. Scorrïau/ada, agg. Sfilacciato/a. Scórrïu, s. m. Sfilacciatura di un tessuto. Ma può indicare anche una ferita da taglio. In senso fig. vale: litigio, bisticcio, dissidio. Scorrovonai, v. Frugare, muovere la terra (in genere, con le mani, ma anche con il grugno di maiali e cinghiali). Nella canzone Eus agatai di Benigno Deplano, citata, c’è una strofe che dice: Eus agatai/ totu is patateris/ ca funt is obbreris/ de Santu Lugori:/ su stadu magiori/ Bugarru e Bagianu/ is lestrus de manu/ po scorrovonai. Scorrovonau/ada, agg. Messo/a sottosopra. Detto di un terreno. Scorróvunu, s. m. Movimento superficiale di terra. S’ortu fut totu scorrovonau de is sirbonis (l’orto era stato messo sottosopra dai cinghiali). Mancarìas. La parlata di Seui Scorrutai(si), v. Togliere/togliersi il lutto. Nelle regole comunitarie il lutto perpetuo nel vestiario di una donna era previsto soltanto per la morte del marito, fino ad eventuali seconde nozze, ma più di una madre non si è mai tolta di dosso il colore nero per la perdita del figlio. A pustis de tres annus a Lüisa nde dd’at iscorrutada su pobiddu (dopo tre anni il marito ha fatto togliere il lutto a Luisa). Oggi prevale la tendenza ad abolire il lutto perpetuo. Scorrutau/ada, agg. Senza più lutto. Scorrutu, s. m. Abbandono dei segni esterni di lutto. Scorta, s. f. Controllo, scorta. Scortai/iscortai, v. Controllare, ma senza che il controllato se ne avveda. A Linu est iscortendudeddu ’e di ora sa giustìssia (Lino è da tempo sotto controllo da parte delle forze dell’ordine). Non nel senso dell’it. “scortare”. Scortesu, s. m. Maleducato. Linu est unu s. e non càstïat in faci a nemus (Lino è un maleducato e non rispetta nessuno). Il s. assume anche il significato particolare di crapulone, goloso, smodato nel mangiare. Scoscimingiai, v. Sgangherare, rendere inservibile. 359 Scoscimingiau/ada, agg. Sgangherato/a. Scoscimingiu, s. m. Sgangheratezza. Lo si usa in rif. a q.no che cammina male in permanenza: est unu s. Scossadura, s. f. Rimozione. Scossai, v. Rimuovere, sfavorire, smuovere. Est una bintina ’e annus in cussu postu e no nde ddu scossat nemus (è da una ventina d’anni in quell’impiego e non lo rimuove nessuno). Contr. di acossai. Scossau/ada, agg. Rimosso/a. Scova, s. f. Scopa, ramazza. Scova de orrosu è la scopa granata. Scovadori, s. m. Spazzino, netturbino. Scovai, v. Scopare, pulire con la scopa. Vedi mundai. Scovau/ada, agg. Scopato/a, ramazzato/a. Scovïadori, s. m. Spione, spia, incapace di mantenere un segreto. Scovïai, v. Confessare, svelare un segreto, fare la spia. Scovïau/ada, agg. Confessato/a, svelato/a. Scovilai, v. Togliere il raspo (su scovili) ai grappoli d’uva. Scovili, s. m. Raspo del grappolo dell’uva. Secondo una convinzione, e conseguente usanza, d’élite, l’uva liberata dal raspo dà un vino più amabile. 360 Scovita, s. f. Grosso pennello per le operazioni di pulizia delle pareti di un edificio. Scovitadura, s. f. Pulitura delle pareti di una casa. Scovitai, v. Pulire, imbiancare le pareti di una casa. Gergale dei muratori. Vedi imbrachinai. Scovitau/ada, agg. Imbiancato/a, pulito/a. Scrabargiai, v. Smettere di fare il capraro. Antoni scrabargiat (Antonio non farà più il capraro). Scrabargiamentu, s. m. Abbandono del branco di capre. Scrabïonadura, s. f. Spettinatura. Scrabïonai, v. Spettinare. Bastat unu ’entigeddu e mi ndi scrabionat (un venticello è sufficiente a spettinarmi). Scrabïonau/ada, agg. Spettinato/a, con i capelli in disordine. Ses totu s. (hai tutti i capelli in disordine). Scrabistai/iscrabistai, v. Togliere la cavezza. Vedi incrabistai. Scrabistamentu, s. m. Eliminazione della cavezza. Scrabistau/iscrabistau/ada, agg. Senza cavezza. In senso fig. persona priva di freni inibitori. Ninu fait una vida scrabistada (Nino fa una vita sregolata). Scracagliai, v. Ridere sonora- PAOLO PILLONCA mente. Scracagliu, s. m. Scoppio di risa, risata fuori misura e/o fuori luogo. Scrafangiadura, s. f. Screpolatura. Scrafangiai, v. Screpolare, rendere ruvido. Scrafangiau/ada, agg. Screpolato/a. Scrafangiosu/a, agg. Ruvido/a. Scrafeddai, v. Scalpellare, lavorare di scalpello. Scrafeddau/ada, agg. Scalpellato/a. Scrafeddu, s. m. Scalpello. Scrafidura, s. f. Scalfitura. Scrafingiu, s. m. Prurito. In senso fig. desiderio intenso, smània. Ndi portat de scrafingiu, cussu (è troppo smanioso, quello). Scràfiri, v. Grattare, scalfire. In senso ir. contrastare verbalmente in maniera decisa. Oi mi ddu scrafu (oggi lo contrasterò vivacemente). Scràfïu/a, agg. Grattato/a, contestato/a. Scramentai, v. Scottare, far passare la voglia di q.sa. Vedi scaddai. Scramentau/ada, agg. Scottato/a, disilluso/a. Scramentu, s. m. Scottatura. A su s. no ddu-i torrat de seguru (dopo la scottatura non ci riproverà di sicuro). Vedi scaddu. Scramïai, v. Piangere all’improv- Mancarìas. La parlata di Seui viso, soprattutto dei bambini. Scràmïu, v. Pianto subitaneo. Scrarìa, s. f. Asfodelo secco (asphodelus ramosus). Quando è tenero si chiama serbussu. Scrava, s. f. Detrito, scoria, materiale di risulta. Fuliaminci cussa s. (butta via quei detriti). Scravadura, s. f. Schiodamento. Scravai, v. Schiodare, trogliere i chiodi. In senso lato: distaccare con forza, strappare. Vedi incravai. Scravamentu, s. m. Deposizione del Cristo dalla croce nel rito del Venerdì Santo. Vedi incravamentu. Scravau/ada, agg. Schiodato/a. Vedi incravau. Sc(j)rebinadura, s. f. Cottura eccessiva, rammollimento. Sc(j)rebinai(si), v. Rammollirsi, scuocersi. Tenendi cussa minestra ca si scjrébinat (togli quella minestra dal fuoco, altrimenti si scuoce). Rammollirsi. Sc(j)rebinau/ada, agg. Scotto/a, rammollito/a. Sc(j)rémpili, s. m. Persona suscettibile e permalosa che per un nonnulla risponde male. Scricadura, s. f. Apertura di una porta chiusa con il solo saliscendi. Scricai, v. Aprire una porta utilizzando soltanto il saliscendi. Vedi crica e cricai. Scricamentu, s. m. Attivazione 361 del saliscendi. Scricau/ada, agg. Aperto/a con il saliscendi. Scridda, s. f. Scilla (urginea maritima). Infiorescenza simile all’asfodelo per il modo di manifestarsi, nel senso che sboccia all’apice e migliora nettamente e di colpo il suo aspetto. Per la sua bellezza, la scilla fin dall’antichità era utilizzata come un amuleto dai grandi poteri: Lo sostiene Plinio il vecchio nella Naturalis Historia. Scriddada, s. f. Miglioramento chiaro e repentino nell’aspetto fisico e nella cura della persona. S’at donau una bella s. (si è dato una bella rinfrescata). Scriddai/iscriddai, v. Migliorare di netto e quasi di colpo, progredire. Lett. aprirsi come sa scridda, la scilla. Ddu scriddat sa pobidda (la moglie lo migliora). Esiste anche la forma riflessiva: as a biri ca si scriddat Giüanni (vedrai, Giovanni migliorerà radicalmente). Scriddau/ada, agg. Migliorato/a nettamente. Scridori, s. m. Scrittore. Scridura/iscridura, s. f. Scrittura. Scriri/iscriri, v. Scrivere. Scriscïoni, s. f. Cura, preoccupazione. Scritu/a, agg. Scritto/a. 362 Scrobecadura, s. f. Scoperchiamento. Scrobecai, v. Scoperchiare. Scrobecau/ada, agg. Scoperchiato/a. Scrobïai/iscrobïai, v. Dividere, separare. Antoni fut cravendusì cun Pìlimu, tandu si ddu est postu in mesu Franciscu e ddus at iscrobïaus (Antonio stava per aggredire Priamo, allora ci si è messo di mezzo Francesco e li ha separati). Ma il v. indica anche una divisione di comune accordo, ad es. in una società. Ant iscrobïau (si sono separati). Vedi acrobïai. Scrocorigai, v. Bocciare. Di recente acquisizione, l’ital. zucai. Scrocorigau/ada, agg. Bocciato/a. Scrogai/iscrogai(si), v. Sciancare. Usato anche al rifl. Arremundicu s’est iscrogau (Raimondo si è sciancato). Vedi croga. Scrogau/ada, agg. Sciancato/a. Ma l’agg. si impiega quando la frase assume senso dispregiativo. Parit una pudda s. (sembra una gallina sciancata). Scronnai, v. Contrastare, contraddire, mancare di rispetto, opporre/opporsi. Non bolit a ddu scronnai nemus (non permette a nessuno di opporsi a lui). Scronnau/ada, agg. Contrasta- PAOLO PILLONCA to/a, contraddetto/a. Sc(j)rubbicai, v. Farsi i fatti altrui. Desueto. Scrucuddadura, s. f. Caduta a precipizio. Scrucuddai/iscrucuddai, v. Cadere pesantemente, precipitare. Fut in pissu ’e una mata e nd’est iscrucuddau a terra (era su un albero ed è caduto pesantemente a terra). Scrucuddau/ada, agg. Caduto/a, precipitato/a. Sc(j)ruma, s. f. Gruppo numeroso di persone. Ddu iat una s. ’e piciocheddus (c’era una schiera di ragazzini). Questo s. fa registrare un particolare fenomeno fonetico nel nesso sc. che nonostante la r successiva ha la stessa pronuncia dell’it. scena. Identico fenomeno si verifica nel s. sc(j)rémpili (persona suscettibile) e nei vv. sc(j)rebinàisi (rammollirsi), sc(j)ridai (raffreddare), sc(j)rubbicai (farsi i fatti altrui) e i loro derivati. Scüaddigacanis, s. m. Importuno, scocciatore, bastiancontrario. Lett. che separa bruscamente i cani durante l’accoppiamento. Scüaddigadura, s. f. Caduta da cavallo. Deposizione, perdita di poltrona, mancato successo elettorale. Scüaddigai/iscüaddigai, v. Cadere da cavallo. In senso fig. vale: Mancarìas. La parlata di Seui essere deposto, perdere una carica importante, decadere da un incarico, etc. Giai ndi scüàddigas (sicuramente cadrai), ti creis su meri ’e totu ma chelegunu ti ndi ndi scüàddigat (credi di essere il padrone assoluto ma qualcuno ti farà cadere). Scüaddigau/ada, agg. Caduto/a da cavallo, deposto/a, sostituito/a, trombato/a. Scüartaradura, s. f. Squartamento. Scüartarai/iscüartarai, v. Squartare. Usato quasi escl. nel rifl. e nella forma rafforzata di diniego non si ddu ’ongiu mancai si scuàrtirit (non glielo darò neppure se si dovesse spaccare in quattro). Scüartarau/ada, agg. Squartato/a. Usato escl. nelle imprecazioni contro chi grida in modo eccessivo. Scuda, s. f. Maleppeggio, attrezzo da lavoro agricolo a doppia forma e doppio uso: da una parte una sorta di zappa, dall’altra una specie di piccone. Scùdiri/iscùdiri, v. Scuotere, far cadere. A s’ìligi su landi si nde ddu scudu cun-d-una pértïa (con una pertica farò cadere le ghiande dal leccio) Molto più frequente nel senso di percuotere, picchiare. Fulana scudit su pobiddu (Fulana picchia il marito). Torna al signifi- 363 cato primario nella definizione di un rituale magico-religioso per far cadere i vermi dalle ferite del bestiame grosso (vitelli, maiali) allo stato brado: su ’e scùdiri (il rituale dello scuotimento). La definizione deriva dal fatto che lo si esegue scuotendo una fronda di erica fiorita, nelle ore canoniche dell’alba o del tramonto. Il dev. è scuta, il part. pass. scutu/iscutu. Scuditu, s. m. Parte dura del costato dei cinghiali. Scudu, s. m. Scudo (moneta). Valeva cinque lire. Scuguddadura, s. f. Liberazione delle castagne dal riccio che le racchiude. Scuguddai/iscuguddai, v. Togliere il riccio alle castagne. Vedi cugudda e cuguddai. La castagna senza più riccio è scuguddada. Vedi cuguddai. Scüidada, s. f. Gomitata. Vedi cùidu. Scüidai, v. Dar di gomito. Definisce un’azione lieve, un cenno d’intesa e non una gomitata. Per indicare un’azione aggressiva si dice: dd’at iscutu unu corpu ’e cùidu. Scüidau/ada, agg. Colpito/a di gomito. Sculadura, s. f. Interruzione brusca di q.sa, sospensione, disfa- 364 cimento. Sculai/isculai, v. Disfare, interrompere bruscamente, sospendere, annullare. Cussu non tenit passièntzia, nd’isculat totu inderetura (quello lì non ha pazienza e disfa subito tutto). Rif. in particolare al gioco. Sculau/ada, agg. Interrotto/a, sospeso/a. Scuncordai/iscuncordai, v. Entrare in disaccordo, litigare. Furint amigus e ant iscuncordau (erano amici e hanno litigato). Scundutu/a, agg. Trasandato/a, senza nessuno che lo/a agghindi a dovere. Scupai/iscupai, v. Svinare. Lett. togliere il vino novello dalla botte. Scupai/iscupai, v. Mischiare le carte al termine di una partita per poi ridistribuirle nella ”mano” successiva. Gergale del gioco delle carte. Vedi cupas. Scurigadorgiu/iscurigadorgiu, s. m. Crepuscolo, tramonto. Scurigai/iscurigai, v. Tramontare, imbrunire. Anche in senso met. Scurigau/ada, agg. Tramontato/a. Scurïosu/a, agg. Scuro/a. Est unu logu s. (è un luogo buio). Scurìu/iscurìu, s. m. Buio. Ancora frequenti l’espr. s. che in buca (buio come in una bocca chiusa) e la loc. a i. (al buio). Scurtzai/iscurtzai, v. Togliere le PAOLO PILLONCA scarpe. Fut dromìu, dd’ant iscurtzau e non si nd’est mancu sapìu (era addormentato, gli hanno tolto le scarpe senza che se ne accorgesse). Anche nella forma riflessiva: mi seu scurtzau (mi sono levato le scarpe). Scurtzau/ada, agg. Senza calze. Quasi sin. di scurtzu/a (scalzo/a). Scurtzoni, s. m. Filare corto e mal fatto di un orto o di una vigna. Piccolo rettile. Rif. a persone, ne indica la bruttezza evidente. Scurtzu/a, agg. Scalzo/a. Presente anche nei toponimi: Su Scurtzu è una località all’interno della Foresta di Montarbu. Scusorgiu, s. m. Tesoro nascosto. Anche in senso ir. per dire di un piccolo risparmio tenuto segreto. Scussura, s. f. Sciame di api. Scuta/iscuta, s. f. Breve intervallo di tempo. Su muru mi nde ddu pesu totu a i. a i. (il muro me lo costruirò negli intervalli di tempo libero). Scuta/iscuta, s. f. Percossa. Dev. di scùdiri/iscùdiri. Scutu/a, agg. Picchiato/a, scosso/a. Part. pass. di scùdiri/iscùdiri. Scutulada, s. f. Scossa, caduta. Scutuladura, s. f. L’atto e l’effetto dello scuotere. Scutulai/iscutulai, v. Scuotere, cadere. Chi non donas crobba nd’iscùtulas a terra (se non stai Mancarìas. La parlata di Seui attento cadrai a terra). Scutulau/ada, agg. Scosso/a, colpito/a, caduto/a. Seberai, v. Scegliere tra il bestiame, separare una parte del gregge. Indica anche la scelta insita nella divisione di un gregge tra due pastori che decidono di non lavorare più insieme. Eus seberau, abbiamo diviso il gregge. Séberu, s. m. Scelta. Cussas crabas ddas at pigadas a s. (ha comprato quelle capre scegliendole una per una). Seda, s. f. Seta. Sedda, s. f. Sella del cavallo e sella del monte. Talvolta la denominazione sarda passa come calco anche nella toponomastica italiana, come nel caso della Sella del diavolo a Cagliari. Frequente nella top. locale: Sedda Ussarci, Sedda Ermeddai, etc. Vedi serra. Seddoni, s. m Grande sella. Per il basto si specifica: sedda ’e molenti (sella d’asino). Sedduceddu, s. m. Sgabellino per bimbi. Sedduciu, s. m. Sgabello in sughero, in ferula o in legno. . Sédula, s. f. Lettera anonima. Municipalismo. Segada, s. f. Percorso contorto, senza meta precisa. Est andendu a segadas (percorre sentieri irregola- 365 ri), detto di uno che delinque e va per vie oblique. Segadorgiu, s. m. Base dei funghi, punto in cui si tagliano durante la raccolta, traccia visibile del passaggio dei cercatori sul terreno dopo il taglio. Apu agatau paricius segadorgius ma cardulinu nudda (ho trovato parecchi segni di raccolta ma niente funghi). Segadura, s. f. Rottura, rottura. Segai/segari, v. Rompere. Cussa tassa s’est segada (quel bicchiere si è rotto). Tagliare. Apu segau sa linna (ho tagliato la legna). In senso fig. l’espr. s. in curtzu vale: affrettarsi, tagliar corto. Frequente il modo di dire segau ’e crésciri nel senso di definito fin dai primi anni della sua crescita. Est unu càdumu segau ’e crésciri.(è un deficiente fin dalla nascita). Il v. riacquista quella che era la forma antica dell’inf. presente (segari) nell’espr. segari a gorteddu (tagliare con il coltello). Vedi fàmini. Segamentu, s. m. Disturbo, rottura, taglio. Ma il s. è utilizzato con complementi di specificazione ironici e volgari: s. de ancas, s. de massa, s. de culu o anche con ellissi del compl. stesso: est unu s. (è una rottura di scatole). Segau/ada, agg. Rotto/a, tagliato/a. 366 Segudai, v. Proseguire, continuare. Ségudu a trabbagliai finas a su scurigadorgiu (continuo a lavorare fino al tramonto). Raggiungere. Chi ti ponit infatu ti ndi ségudat (se ti insegue ti raggiunge). Segudau/ada, agg. Continuato/a, proseguito/a. Ségudu, s. m. Séguito, prosecuzione, continuazione. Segundarïamenti, avv. Secondariamente. Segundàrïu/a, agg. Secondario/a. Segundu, s. m. Secondo, sessantesima parte del minuto primo. Custu trabbaglieddu ddu facu in pagus segundus (questo lavoretto lo eseguirò in pochi secondi). Segundu/a, agg. num. ord. Secondo/a. Est erribbau s. (è arrivato secondo). Segundu, prep. impropria. Secondo. S. su santu sa festa (la solennità della festa è direttamente proporzionale all’importanza del santo). Seguràntzïa, s. f. Garanzia, sicurezza. Po meglius s. (per maggior sicurezza). Seguresa, s. f. Sicurezza, tranquillità, calma. Di superstrato, rispetto a seguràntzïa. Seguri, s. f. Scure, accetta. Seguru/ a, agg. Sicuro/ a, cer- PAOLO PILLONCA to/a. Seiséi, s. m. Ceràmbice, insetto nero con corna lunghe. I bambini che lo vedevano in volo gli reiteravano una breve invocazione (s., ponidì) nella speranza di farlo posare su qualcosa, per poterlo poi scornare. Semadura, s. f. Lesione permanente. Semai, v. Lasciare segni e cicatrici, percuotere in modo cruento. In senso fig. dare una lezione duratura. Chi ddu lassas fàiri cussu ndi semat medas (se lo lasci fare, quello lì ne ferisce parecchi). Semau/ada, agg. Pieno/a di cicatrici. Semenai, v. Seminare. In senso reale e met. Semenau/ada, agg. Seminato/a. Sementza, s. f. Chiodino da calzolaio, il più minuto di tutti. Di largo impiego anche il dim. sementzedda. Sémini, s. m. Seme, origine. Semu, s. m. Lesione, da malattia, piaga o ferita di cui rimane traccia indelebile in una cicatrice. Dev. di semai. Semucu, s. m. Sambuco (sambucus nigra). Sentidu, s. m. Intelletto, saggezza. Non portat s., non possiede facoltà intellettive. Ma anche nel Mancarìas. La parlata di Seui significato di indole, sensibilità, sentimento. Est un’òmini de bonu s. (è un uomo di buoni sentimenti). Sentimentosu/a, agg. Sensibile, facile alla commozione. Sentimentu, s. m. Capacità di provare emozioni e commozione, sentimento. Sentina, s. f. Insieme di sintomi. Sentinai, v. Mostrare segni o sintomi, essere segnato, essere sul punto di. Est sentinau a ddi pónniri caglientura (inizia a mostrare i segni della febbre). Sentinau/ada, agg. Segnato/a, predestinato/a ad esiti infausti. Sentiri, v. Provare dolore per una morte o altro dramma, commiserare, soffrire. Linu est unu coru ’e perda, non sentit a nemus (Lino è un cuore di pietra, non ha pietà di nessuno). Sentìu/a, agg. Sofferto/a. No at s. mancu sa morti ’e sa pobidda (non ha sofferto neppure per la morte della moglie). Sentzai, v. Smettere, concludere. Non sentzat de nïai (non smette di nevicare). Sentzau/ada, agg. Smesso/a, concluso/a. Séntzïa, s. f. Gengiva. Sentzu, s. m. Capacità di intendere e di volere. Non portat sentzu (non capisce nulla, è incosciente), 367 est in prenu sentzu (è nel pieno delle sue facoltà mentali). Vedi sentidu. Sentzu, s. m. Assenzio. Serbidori/a, s. m. Servo/a. Serbiri, v. Essere a servizio. Cun tziu Franciscu, Antoni ddu at serbìu tres annus (con il signor Francesco, Antonio ha servito per tre anni). Servire, essere utile. Non serbit a nudda (non serve a niente, è inutile). Serbiu/a, agg. Servito/a. Serbussu, s. m. Asfodelo (asphodelus ramosus) ancora tenero. Una volta secco, prende il nome di scrarìa. Sercüestai, v. Sequestrare, mettere all’asta. Indica i sequestri eseguiti dall’ufficiale giudiziario. Tenit su prétzïu giustu non seu mancu ’onendudì orrobba sercüestada (ha il prezzo giusto, non ti sto mica dando roba messa all’asta). Sercüestau/ada, agg. Sequestrato/a, messo/a all’asta. Sercüestu, s. m. Sequestro. Ma non quello di persona. Per il rapimento a scopo di estorsione la parlata di Seui conserva ancora ricatu. Serghestanu, s. m. Sacrista, sacrestano. Serghestia, s. f. Sacrestia. Serra, s. f. Sega, arnese del fale- 368 gname. Serra, s. f. Vetta disuguale di una catena montuosa che somiglia proprio alla lama di una sega. Pres. nei toponimi (Pissu ’e s. e altri). Serrachedddu, s. m. Seghetto di dimensioni minuscole. Serracu, s. m. Seghetto. Serradura, s. m. Chiusura. Serragliu, s. m. Recinto per maiali domestici. Serrai, v. Chiudere. Serra s’’enna (chiudi la porta). Concludere. Dda serraus äici (la concludiamo così). Serrau/ada, agg. Chiuso/a. Serregai, v. Rendere rauco. Custu frius mi serregat (questo freddo mi rende rauco), cöidat a si s. (per un nonnulla gli viene la raucedine). Serregau/ada, agg. Rauco/ a. Serregu, s. m. Raucedine. Sestai, v. Sestare. Gergale dei sarti. Su ’estiri mi dd’at sestau Eligiu (l’abito me l’ha sestato Eligio). Usato nel linguaggio metaforico, nel significato di tramare. Mi ddi sestu una bella troga (gli preparo un bel tranello). Sestau/ada, agg. Sestato, tramato/a. Setzidorgiu, s. m. Sedile. Si riferisce alle panchine sistemate all’esterno delle case e al centro delle piazze, ma può indicare qualunque superficie adatta a fare da PAOLO PILLONCA sedile. Sètziri, v. Sedere, montare. At sétzïu a cüaddu (è montato a cavallo). Traslato, nel senso di imbrogliare. A mei non m’at sétzïu (non mi ha imbrogliato). Anche nella forma rifl.: setzidì (siéditi), setzeïosì (sedetevi). Sétzïu/a, agg. Seduto/a. Seu, s. m. Sego. La definizione completa è ogliu s. Sfiligiadura/sciligiadura, s. f. Sfelciamento. Sfiligiai/sciligiai, v. Liberare il terreno dalle felci. Sfiligiau/sciligiau/ada, agg. Liberato/a dalle felci. Sfregiai/isfregiai, v. Sfregiare, danneggiare. Sfregiau/ada, agg. Sfregiato/a, ferito gravemente al volto. Sfregiu/isfregiu, s. m. Sfregio. In senso fig. beffa. Si dd’at fatu a i. (gliel’ha fatto a mo’ di beffa). Sfridai/isfridai, v. Raffreddare. Lassa s. cussa petza (lascia raffreddare quella carne). Rabbrividire, aver paura. Candu dd’at iscìpïu, Lüisa s’est isfridada (quando è venuta a saperlo, Luisa ha avuto i brividi). Sfridau/ada, agg. Raffreddato/a, in preda a brividi di freddo. Sfrisciuradura, s. f. Sventramento. Mancarìas. La parlata di Seui Sfrisciurai/isfrisciurai, v. Sventrare, devastare internamente. Gergale della caccia. Chi ddu sparas a perdigonis su sirboni ddu podis i. (se lo spari a pallettoni puoi sventrare il cinghiale). Fuori dal gergo venetorio, vale: togliere le interiora a un capo di bestiame. Nella forma rifl. può essere rif. anche all’uomo. S’est isfrisciurau (si è procurato lesioni interne mortali). Sfrisciurau/ada, agg. Sventrato/a. Sfrongiadura, s. f. Sfrondatura. Sfrongiai, v. Far perdere le fronde. Sfrongiau/ada, agg. Senza più fronde. Sfrutüai, v. Utilizzare la rendita, tenere per sé il frutto di un gregge o di altra fonte di reddito. Sfrutüamentu, s. m. Sfruttamento, utilizzazione. Sfrutüau/ada, agg. Utilizzato/a, guadagnato/a. Sfüetada/sciüetada, s. f. Frustata. Sfüetadura, s. f. Serie di colpi frusta. Sfüetai, v. Colpire con la frusta. Vedi fuetu. Sfüetau/ada, agg. Frustato/a. Sghinzai/isghinzai, v. Avere appetito. Ironico. Sghinzu/isghinzu, s. m. Appe- 369 tito, fame. In senso ir. più che altro. O ca tenis i. (mi sembra che tu abbia appetito). Sibbïadura, s. f. Chiusura pressoché ermetica, eccessiva. Dd’at serrada a s. (l’ha chiusa con forza). Sibbïai, v. Stringere eccessivamente, chiudere con forza. Detto anche in senso dispregiativo. Candu ’essit sìbbïat sémpiri s’enna (quando esce chiude sempre bene la porta). Viva la loc. a sibbïadura. Sibbïamentu, s. m. Chiusura stretta. Sin. di sibbïadura. Sibbïau/ada, agg. Stretto, chiuso con forza. Sicadura, s. f. Seccagione, processo che porta l’erba a seccarsi rapidamente. Sicai, v. Seccare. Su ’entu basciu at sicau totu sa pastura (il vento di scirocco ha seccato interamente i pascoli). Sicau/ada, agg. Secco/a. Sicia, s. f. Secchio. Sicigedda, s. f. Secchiello. Dim. di sicia. Sicori, s. m. Siccità. Sida, s. f. Fogliame, fronde sempreverdi. Vedi assidai. Sïenda, s. f. Patrimonio, eredità. Linu no est cichendu una sposa, cicat una s. manna (Lino non cerca una fidanzata, cerca un’eredità sostanziosa). 370 Sighidura, s. f. Raggiungimento. Freq. la loc. a s. (a seguire, in seguito). Cumentzai a caminai, deu facu a s. (iniziate ad andare, io verrò in seguito). Sighiri, v. Raggiungere. Antoni iat mòvïu innanti meda ma Lüisu nde dd’at sighiu (Antonio era partito molto prima ma Luigi l’ha raggiunto), chi non cöidas, Linu ti ndi sighit (se non ti sbrighi, Lino ti raggiungerà). Proseguire, continuare. No mi pragit a s. in custu trabbagliu (non mi piace continuare in questo lavoro). Sighìu/a, agg. Raggiunto/a. Continuato/a. Eriseru a mericeddu fut fendu abba sighìa (ieri nel tardo pomeriggio pioveva ininterrottamente). Signalai/signelai, v. Ferire, marchiare. Signalau/ada, agg. Ferito/a, lesionato/a. Signali, s. m. Segnale, segno, testimonianza di qualsivoglia genere, compreso quello gergale dei passaggi a livello della ferrovia. Ricordo. No nd’at lassau manc’unu po s. (non ne ha lasciato neppure uno come segno). Signori, s. m. Signore. Se è preceduto dall’art. det. m. sing. indica Dio. In altri casi può valere: persona benestante dai modi PAOLO PILLONCA distinti e dal portamento, appunto, signorile. Quando un benestante non si comporta nei modi dovuti decade al rango di s. burdu (spurio) o s. càdumu (cretino). Silicosi, s. f. Silicosi, malattia professionale dei minatori. Nella storia del paese gli effetti infausti di questa patologia hanno listato a lutto interi rioni. Silicosu/a, agg. Silicotico/a, affetto/a da silicosi. Silimba, s. f. Carrubo, albero e frutto. Dona s. a su cüaddu (dài le carrube al cavallo). Simana, s. f. Periodo, lasso di tempo, intervallo. Est a simanas, Antoni: non tenit frimesa peruna, pigat e lassat (Antoni va a periodi, non ha alcuna stabilità, prende e lascia). Sìmbula, s. f. Semola. Simingionera, s. f. Straccio bagnato con acqua zuccherata che si dava da succhiare ai bambini, a mo’ di capezzolo. Per la pronuncia della cons. iniz. vedi sugu. Simingioni, s. m. Capezzolo. Sìndrïa, s. f. Anguria. Sinnai, v. Marchiare il bestiame con particolari segni distintivi, una pratica ormai abbandonata dopo la modifica delle leggi sull’abigeato. Sinnu, s. m. Segno distintivo del Mancarìas. La parlata di Seui bestiame. Ciascun allevatore sceglieva tra i segni identificativi riconosciuti dagli uffici antiabigeato, che dovevano risultare anche nelle bollette anagrafiche del bestiame, ora abolite. L’articolazione dei segni era minuziosa e varia. In ordine alfabetico, a Seui i segni possibili per capre, maiali, pecore e vacche erano questi sette: bogada ’e prana, giualis, pertunta, pissus càvanus, pissus càvanus faddius, rundinina e spissada. La descrizione di ciascun segno viene qui data alle rispettive voci. Per evitare le contraffazioni - sa trassinnadura che avrebbe reso assai difficile l’identificazione degli autori di furti di bestiame, i pastori dovevano stare attenti a definirli bene negli orecchi dei singoli animali. Sinóbiga, s. f. Propoli (la sostanza resinosa con la quale le api proteggono l’alveare). Sìntzulu, s. m. Zanzara. Sirba, s. f. Selva, foresta, bosco. Desueto nel parlare comune, sopravvive nel s. che definisce la cinghialessa: mardi ’e sirba (scrofa della foresta). Sirbonassu/a, agg. Solitario/a, diffidente e difficile da avvicinare. Sirboneddu, s. m. Cinghialetto. Definisce i cuccioli della cinghialessa fino a un anno di età, quan- 371 do il cucciolo si chiama acisorgiu ’e sirba. Sirboni, s. m. Cinghiale (sus sardous). Il s. si riferisce al capo adulto e definisce un selvatico da sempre estremamente diffuso nel territorio e ora in sovrannumero, visto che da alcuni anni si avvicina ai confini del paese devastando vigne e altre coltivazioni. Nei racconti venatori della comunità si parla di cacciatori assaliti da cinghiali. Ne dà notizia anche Demetrio Ballicu (Miscellanea, cit., pag 101) a proposito di Vittorio Mameli, fabbro di professione, che nel 1923 gli mostrò in ambulatorio ”una cicatrice irregolare che dalla regione pubica con decorso obliquo si estendeva fino al livello dell’ombelico”. Era l’esito ”di una ferita prodottagli dalla zannata di un cinghiale, crollato sotto una fucilata ma ancora in vita mentre il Mameli si apprestava a vibrargli il colpo di grazia con un coltellaccio”. Sirili, s. m. Nerbo. In part. indica il nerbo del maiale, salato e pepato, che si conserva per ingrassare gli utensili metallici a punta dei falegnami, soprattutto i seghetti. Per la pron. della cons. iniz. vedi simingioni e sugu. Sissèlïa, n. pr. di persona. 372 Cecilia. Usato anche il dim. Sisselïedda. Sissi, avv. Sì. Sissigorru, s. m. Lumaca. Soddu, s. m. Soldo. Per est. denaro in generale. Pepisoddu è chi si dimostra troppo attaccato al denaro. Soga, s. f. Corda, fune. Vedi assogai. Soleta, s. f. Soffitto, volta, solaio. Vedi bóvida. Solfatai, v. Dare il solfato di rame alle vigne per preservarle dalla peronospera. Solfatu, s. m. Solfato di rame, utilizzato per le vigne. Soli, s. m. Sole. In senso fig. persona di splendido aspetto. Bellu che s. (bello come il sole). Solïanu/a, agg. Soleggiato/a, solatìo/a. Sa ’ingia ’olit posta in logu s. (la vigna va impiantata in zona soleggiata). Solinïeddu, s. m. Solenero. Ir. nel senso di donna brutta. Figura nei soprannomi, con l’art. det. Sonada, s. f. Suonata, concerto. Sonadori, s. m. Strumentista, suonatore. Di qualsivoglia strumento musicale. Sonagliai, v. Applicare i sonagli al bestiame. Sonagliau/ada, agg. Munito/a di sonagli. PAOLO PILLONCA Sonagliu, s. m. Campanaccio, sonaglio. Sonai, v. Suonare. Prova a s. is campanas (prova a suonare le campane). Eseguire un brano musicale. Sonat unu ballu sardu cun is launeddas (esegue un ballo sardo con le launeddas). Il v. registra anche un uso particolare nel rifl. Sonadì su nasu (sòffiati il naso). In senso fig. con evidente influsso it. vale: sconfiggere, battere in un agone, superare nettamente. Gioghendu a sa murra ddus eus sonaus (li abbiamo suonati al gioco della morra). Sonau/ada, agg. Suonato/a. In senso reale e fig. Sonca, s. f. Assiuolo. Con la cons. iniziale molto forte, che in corso di frase non si attenua davanti alla vocale. Vedi simingioni, sirili e sugu. Sonetu, s. m. Organetto diatonico. Ma il s. indica anche il sonetto, la strofe di 14 versi creata in Italia da Dante Alighieri, che nella lingua sarda di tutte le varianti ha avuto e continua ad avere molti cultori. Sonnai, v. Sognare. Sonnau/ada, agg. Sognato/a. A Lüisa mi dd’apu sonnada notesta passada puru (Luisa l’ho sognata anche la notte scorsa). Sonnighera, s. f. Dormita. In Mancarìas. La parlata di Seui senso ironico. Sonnigosu/a, s. e agg. Dormiglione, incline al sonno. Sonnu, s. m. Sonno, sogno. Mi dd’apu’idu ’n su s. (mi è apparso in sogno). Usata la loc. intessonnus (nel dormiveglia). Sonu, s. m. Rumore, suono. Dev. di sonai. Sopìmini, s. m. Zoppìa. Vedi assopiai/atzopiai e tzopìmini. Sopi-sopi, avv. Zoppicando di continuo. Anche tzopi-tzopi. Sopu/a, agg. Zoppo/a. Vedi tzopu. Sordadai, v. Fare il servizio militare. Sordau, s. m. Soldato, milite. Sordi, s. m. Sporcizia. Sordigosu/a, agg. Sporco/a, amante della sporcizia. Sorga, s. f. Suocera. Frequente nelle similitudini. Cussas duas certant che s. cun nura (quelle due litigano come suocere e nuore). Sorgu, s. m. Suocero. Sorigai, v. Il rosicchiare dei sorci sul formaggio e altri alimenti. Sorigau/ada, agg. Rosicchiato/a dai sorci. Custu casu est totu s. (questo formaggio è rosicchiato dai topi). Sórigu, s. m. Sorcio, topo. Sorresta, s. f. Cugina prima. Vedi fradili. Sopravvive nella 373 memoria comunitaria un modo di dire scherzoso sul versante dell’eros, in bisettenario rimato: chini tocat sorresta non perdit dì ’e festa (chi tocca una cugina non perde neanche un giorno di festa). Sorri, s. f. Sorella. Il s. si usa spesso nelle conversazioni fra amiche che si chiamano reciprocamente sorri mia pur non essendolo, in segno di grande confidenza. Sorruschïai, v. Russare. Sorrùschïat a grai (russa pesantemente). Sorruschïada, s. f. Russata. Sorrùschïu, s. m. Azione del russare. Sorti, s. f. Sorte, destino, fortuna. No at tentu sorti (non ha avuto fortuna). Quando le vicende della vita sono favorevoli si tratta di bonasorti, quando non lo sono si parla di malasorti. Di conseguenza, chi è baciato dalla buona stella è bonassortau, chi ha un cattivo destino, invece, malassortau. Sortiri, v. Uscire. Uno dei francesismi (sortir) entrati nella parlata di Seui in seguito alla copiosa migrazione di minatori seuesi in Francia nei primi decenni del secolo scorso. Sortìu/a, agg. Uscito/a, venuto/a fuori. De ania nd’est s. custu? (da dove è venuto fuori questo qui?). Soru, s. m. Siero. Nella parlata 374 seuese, diversamente da altre, indica sia il siero da cui si deve ancora ricavare la ricotta sia quello che rimane a ricotta ottenuta e si dà ai maiali o si butta via. Candu cöigliat s. meda ’olit nai ca su casu est pagu (quando avanza del siero in quantità, significa che il formaggio è poco). Vedi issorai. Negli ultimi tempi il s. è entrato anche nei soprannomi, a definire persona decisionista dai modi sbrigativi. Il trasferimento nei nomignoli paesani di cognomi di persone famose, specie di uomini politici ma anche di personaggi dello spettacolo e dello sport, è una vecchia consuetudine del paese che già dall’inizio del Novecento aveva creato tutta una serie di soprannomi ispirati a persone famose, nel bene e nel male: Cadorna, Colombo, Diaz, Garibaldi, Giolitti, Menelik, Mussolini, Pellico, Prevosto, Su Rei, Togliatti. Nell’ultimo mezzo secolo se ne sono aggiunti numerosi altri, da Carnera a Monzon, da Puskas ad Antognoni, da Japino a Magalli, per non dire del Bagatto, carta numero uno del gioco del tarocchi, fino - acquisizione freschissima - al neo governatore della Sardegna. Sotadura, s. f. Sollecitazione. Sotai, v. Sollecitare, invitare, esortare, incoraggiare fino alla PAOLO PILLONCA persuasione. Sotaddu a papai, su pipiu (sollecita il bambino a mangiare), po trabbagliai cussu non bolit sotau (per lavorare quello lì non ha bisogno di sollecitazioni). Sotau/ada, agg. Esortato/a, sollecitato/a. Dd’apu s. ma no m’at bòfiu ascurtai (l’ho sollecitato ma non mi ha voluto ascoltare). Spaciai/ispaciai, v. Consumare, terminare, finire, esaurire. Linu s’at ispaciau totu su ’inari chi s’iat postu a parti candu trabbagliàt in Germania (Lino si è speso tutti i soldi che aveva risparmiato quando lavorava in Germania), su lori coidat a i. (si fa presto a esaurire il frumento), su spàssïu est ispacendu (il divertimento sta per finire). Spaciau/ada, agg. Finito/a, concluso/a. Spaciu, s. m. Spaccio. Spadas/ispadas, s. m. Picche. Voce gergale del gioco delle carte. Vedi orus, cupas e bastus. Spadentadura, s. f. Disboscamento, taglio indiscriminato. Spadentai/ispadentai, v. Disboscare, operare un disboscamento secondo regole che permettano una ricostituzione boschiva. Vedi padenti. Spadentau/ada, agg. Disboscato/a. Spadinu, s. m. Spaccaossa. Mancarìas. La parlata di Seui Spagliai/ispagliai, v. Far volare la paglia, parlare troppo, essere logorroico. In senso fig. darsi arie, menar vanto, millantare, eccedere nel parlare. Candu cumentzat a i. non fait prus a ddu susténniri (quando inizia a darsi arie diventa insopportabile). Späinai/ispäinai, v. Sparpaglia-re, spargere. Ispàina ’eni su talàmini in s’ortu (spargi bene il letame nell’orto). Diffondere. Candu scit una cosa dda spàinat in dónnïa logu (quando sa una notizia la diffonde dappertutto), con venatura di disprezzo. Späinau/ispäinau/ada, agg. Sparso/a, diffuso/a. Is brebèis funt ispäinadas pagu pe’ logu (le pecore sono sparpagliate di qua e di là). Spàinu/ispàinu, s. m. Sparpagliamento, spargimento, diffusione. Frequente la loc. avv. a ispàinu. Spalïai, v. Spalare. Vedi pàlïa. Spanai(si), v. Far perdere la filettatura. Cussu dadu est ispanau (quel dado ha perso la filettatura). Spanau/ada, agg. Senza più filettatura. Spandessidura, s. f. Diffusione, spargimento. Spandèssiri/ispandèssiri, v. Spargere, diffondere. Lo si usa soprattutto quando ci si riferisce alla diffusione di notizie. Comenti ddu scit ddu spandessit in bidda (appena lo sa diffonde la notizia nel paese). 375 Spandéssïu/a, agg. Diffuso/a, sparso/a. Spangadura, s. f. Macellazione. Spangai/ispangai, v. Macellare, distruggere. Vedi panga. Ma con un forte senso di disprezzo per chi compie l’azione distruttiva. Spangau/ada, agg. Macellato/a. Spantadura/ispantadura, s. f. Scoraggiamento, depressione. Custa maladia mi fait a i. (questa malattia mi fa venire lo scoraggiamento). Spantai/ispantai, v. Meravigliare, sorprendere. M’ispantat, cussu piciocheddu, po comenti giogat beni a bocia (mi sorprende, quel ragazzino per come gioca bene al calcio). Scoraggiare. Custu tempus malu m’ispantat (questo maltempo mi scoraggia). Spantasïàisi, v. Spossarsi. Spantasïau/ada, agg. Spossato/a, al limite delle proprie forze. Spantau/ada, agg. Sorpreso/a, meravigliato/a, scoraggiato/a. Spantosu/a, agg. Meraviglioso/a, temibile. Spantu/ispantu, s. m. Meraviglia. S. mannu (che meraviglia!). Ammirazione mista, talvolta, a timore. Po su trabbagliu chi fait ddu portant a i. (per il lavoro che fa viene citato ad esempio raro). Spaparrociai(si), v. Sdraiarsi, 376 abbandonarsi. Desueto. Spaparrociau/ada, agg. Abbandonato/a a sé stesso, sdraiato/a. Sparadori, s. m. Sparatore, killer. Sparai/isparai, v. Sparare colpi di arma da fuoco. Apu ’idu una murva ma no apu tentu coru ’e dda s. (ho visto una mufla ma non ho avuto l’ardire di spararle). Far scattare la molla delle trappole. In quest’ultimo caso il v. è l’esatto contrario di parai (tendere). Vedi parai. Sparalassu, s. m. Specie di passero abile ad evitare la trappola dei lacci. Vedi lassu. Sparatrapa, s. m. Cerotto. Sparau, s. m. Asparago. Sparau/ada, agg. Sparato/a, esploso/a. Part. passa. di sparai. Spardulai, v. Allargare in cerchio, a somiglianza delle formaggelle (vedi pàrdula). Ma il v. indica soprattutto le situazioni di eccesso. Spardulau/ada, agg. Allargato/a a forma di cerchio. Per est. allargato/a a dismisura. Sparèssiri/isparèssiri, v. Sparire, scomparire. Finas a ocannu passau nci ’eniat meda, a i. aici mi parit ispantu (fino all’anno scorso veniva spesso qui, mi meraviglio che sia scomparso in questo modo). PAOLO PILLONCA Sparéssïu/a, agg. Scomparso/a. Est i. de una dì a s’atra e no dd’ant agatau prusu (è scomparso da un giorno all’altro e non l’hanno più ritrovato). Spàrgiri/ispàrgiri, v. Stendere i panni. In questa accezione, quando non si precisa quali siano i panni stesi, il verbo è spesso ellittico dell’oggetto. Spargere, diffondere. Candu s’ispargit unu nàrriri, finas e in fartzu, benit mali a ddu frimai (quando si diffonde una diceria, anche calunniosa, è difficile da fermare). Spariciai, v. Sparecchiare. Sparicia sa mesa (sparecchia la tavola). Vedi apariciai. Spariciau/ada, agg. Sparecchiato/a. Sparrancadura, s. f. Divaricazione. Sparrancai, v. Aprire del tutto, divaricare, spalancare. Sparrancau/ada, agg. Divaricato/a. Spartu/a, agg. Sparso/a, diffuso/a, steso/a ad asciugare. Sparu, s. m. Sparo, colpo d’arma da fuoco. Spassïai(si)/ispassïài(si), v. Divertire, divertirsi. Il verbo si usa transitivamente in un’espr. tutta particolare, s. is castangias: con questo singolare modo di dire si Mancarìas. La parlata di Seui indica la tradizione che dà ai poveri la possibilità di raccogliere liberamente le castagne nelle proprietà altrui subito dopo la fine del mese di ottobre. Molto più utilizzato intransitivamente. Spassïau ti ses? (ti sei divertito?). Spassïosu/a/ispassïosu/a, agg. Divertente, amante del divertimento. Spàssïu/ispàssïu, s. m. Divertimento. Unu s. grogu (lett. un divertimento giallo) indica una festa malriuscita. Il s. è usato nel senso di giro senza meta. Andaus a i. (andiamo in giro), est sempir a i. (è sempre in giro). Spëadura, s. f. Taglio delle zampe. Spëai, v. Tagliare le zampe, privare dei piedi. Spëau/ada, agg. Privo/a delle zampe. Speciali, agg. Speciale. Specialidadi, s. m. Eccellenza, specialità, ghiottoneria. Custu presutu est una grandu s. (questo prosciutto è una vera specialità). Specialinu, s. m. Sciccheria, rarità. Riferito soprattutto alle bevande al bar, indica le scelte insolite di qualche avventore singolare. Chi bufas su chi bufant ’s atrus ti cumbidu, ma specialinus no ndi pagu (se bevi ciò che bevono gli altri ti invito, ma non sono dis- 377 posto a pagare rarità). Speculadori/a, agg. Pettegolo/a, curioso/a. Speculai, v. Farsi i fatti altrui, cercare di sapere notizie riservate sul fronte del pettegolezzo paesano. Lüisa est una chi spéculat totu su chi podit (Luisa è una che cerca di sapere tutto quello che può). Speddai/ispeddai, v. Spellare, togliere la pelle, scuoiare. Ma anche, al rifl., lo spellarsi tipico di chi va in spiaggia e resta per troppo tempo sotto il sole. In is primus candu andu a mari mi speddu (le prime volte che vado al mare mi spello). Speddau/ada, agg. Spellato/a. Speddïai, v. Desiderare fortemente. Lett. non stare nella pelle (peddi). Speddìu/ispeddìu, s. m. Desiderio intenso. Ddi pigat a i. (lo desidera da impazzire, lett. da non star nella pelle). Speddutzai/ispeddutzai, v. Spellare, con cura e minuziosamente, fare la pelle nel senso di uccidere. In senso fig. criticare aspramente, incalzare con pretese esagerate, sottoporre ad analisi spietata. Speddutzau/ada, agg. Criticato/a aspramente, ucciso/a. Spëigai, v. Ridurre a carcassa. Spëigau/ada, agg. Ridotto a carcassa. 378 Spéigu/ispéigu, s. m. Carcassa. Di uomo e di animale. Est isparéssïu e no ant agatau mancu s. (è sparito e non si è trovata neppure la sua carcassa). Apu agatau unu s. de mascu ’e murva (ho trovato una carcassa di muflone). Spelliri/ispelliri, v. Presentarsi d’improvviso e in modo inatteso. Nd’ispellit candu mancu ti ddu creis (si presenta all’improvviso quando meno lo immagineresti). Spellìu/a, agg. Ricomparso/a di botto. Spèndiri, v. Spendere. Spéndïu/a, agg. Speso/a, consumato/a. Spera, s. f. Alito di vento, soffio leggero, spiraglio di luce tra le nubi di un temporale. Sperai/isperai, v. Sperare. No isperaus prus nudda (non speriamo più nulla). Sperantza, n. pr. di pers. Speranza. Usato anche il dim. Sperantzedda. Sperau/ada, agg. Sperato/a. Sperdïai, v. Spietrare, effettuare lo spietramento di vigne e orti. Vedi perda. Sperdïamentu, s. m. Spietramento. Sperdïau/ada, agg. Spietrato/a. Sperdimentu, s. m. Distruzione. Spèrdiri, v. Disperdere, distrug- PAOLO PILLONCA gere, uccidere ripetutamente fino a eliminare del tutto una determinata genìa. Spérdïu/a, agg. Disperso/a, distrutto/a. Sperdissïai/isperdissïai, v. Dilapidare. S’at isperdissïau su connotu e no dd’at abarrau nudda (ha dilapidato il patrimonio ereditato e non gli è rimasto nulla). Sperdissïau/ada, agg. Prodigo/a, spendaccione. Sperdìssïu/isperdìssïu, s. m. Spreco, sperpero, prodigalità, dilapidazione. Sperefundai, v. Sprofondare, precipitare. Vedi perefundu. Sperefundau/ada, agg. Sprofondato/a, precipitato/a. Sperimentai, v. Verificare. Sperimentau/ada, agg. Verificato/a. Sperimentu, s. m. Esperimento, verifica. Sperradura, s. f. Divisione in due. Sperrai/isperrai, v. Spaccare in due, dividere in parti uguali. Vedi perra. Sperrau/ada, agg. Spaccato/a. Spérruma, s. f. Dirupo, luogo scosceso. Sperrumadorgiu, s. m. Precipizio, dirupo. Lett. luogo adatto alle cadute rovinose. Sperrumai/isperrumai, v. Far Mancarìas. La parlata di Seui precipitare in un dirupo. At isperrumau su cüaddu (ha fatto precipitare il cavallo in un dirupo). Anche nel rifl.: s’est isperrumau (è caduto in un dirupo). Sperrumau/ada, agg. Precipitato/a in un dirupo. Speru, s. m. Speranza. Si tratta di voce residuale, praticamente ristretta ad una sola espressione: mancu s. ’e Deus o, più sinteticamente ancora, mancu s. (proprio nulla, lett. neppure la speranza). Dd’apu marrau sa ’ingia e no m’at donau mancu s. (gli ho zappato la vigna e non mi ha dato nulla). Spesa, s. f. Spesa, uscita. Spesai, v. Spesare. Spesau/ada, agg. Spesato/a. Spessadura, s. f. Taglio di legna in pezzi di ridotte dimensioni. Spessai, v. Tagliare in pezzi piccoli, legna da ardere soprattutto. Spessa sa linna (prepara la legna per il fuoco). Spessau/ada, agg. Sminuzzato/a. Spetai, v. Attendere, sperare. Deus t’acantzit totu su chi spetas (Dio ti conceda tutto ciò che attendi). Spetau/ada, agg. Atteso/a, sperato/a. Spetu, s. m. Attesa fiduciosa, aspettativa, speranza. No ndi tengiu spetu ’onu (non ne ho una 379 buona aspettativa). Spétzïa, s. f. Specie. Est una s. ’e bocia (è una specie di palla). Spétzïa, s. f. Umore. Oi su pipìu parit de mala s. (oggi il bambino sembra di cattivo umore). Spïai, v. Prendere la rincorsa. Poco usato. Spïada, s. f. Rincorsa. S’at donau una bella s. (ha preso una bella rincorsa). Spibïonadura, s. f. Spiluccamento. Spibïonai, v. Togliere gli acini dai grappoli d’uva, spiluccare. Vedi pibïoni. Spibïonau/ada, agg. Spiluccato/a. Spicadura, s. f. Distacco, spiccamento. Spicai, v. Staccare dall’appenditoio, spiccare. Il contr. di apicai (vedi). Spicamentu, s. m. Spiccamento. Spicau/ada, agg. Staccato/a, spiccato/a, preso/a, afferrato/a. Spicigadura, s. f. Distacco, spiccamento. Spicigai, v. Staccare. Contr. di apicigai/picigai. Spicigau/ada, agg. Staccato/a. Spiciu/a, agg. Svelto/a, furbo/a, abile, disinvolto/a. Spiciu, s.m. Denaro in spiccioli. Non portu s. (non ho soldi spiccio- 380 li). Spicu, s. m. Lavanda. Diffusa una strofe popolare di argomento amoroso: in sa mata ’e su spicu cantat su rusignolu: su coru miu est piticu ddui capis tui solu (su una pianta di lavanda canta l’usignolo: il mio cuore è piccolo, c’è posto soltanto per te). Spidali/uspidali, s. m. Ospedale. La struttura medica vera e propria con possibilità di ospitare i ricoverati. Spidu, s. m. Spiedo. Vedi schidoni. Spiga/ispiga, s. f. Spiga, del grano e dell’orzo ma anche di vegetali non coltivati. Spigadura, s. f. Spigolatura. Spigai, v. Spigolare. Chini non podit messai spigat (chi non può mietere spigola). Spigamurra, s. f. Avena selvatica. Usato in senso ir. per dire di un’entità di scarso valore. Spigau/ada, agg. Spigolato/a. Spighita, s. f. La chiusura manuale a forma di spiga dei culurgionis (ravioli di patate tipici della cucina dell’Ogliastra e della Barbagia meridionale). Spillai/ispillai, v. Arraffare denaro, chiedendolo con sotterfugi e/o moìne. Nde dd’at ispillau unu muntoni ’e ’inari (gli ha portato PAOLO PILLONCA via un mucchio di soldi). Spillau/ada, agg. Arraffato/a. Spilloncai, v. Sbocconcellare per un assaggio, ad es. un pezzo di carne arrosto ancora prima che venga sfilata dallo spiedo. Spina, s. f. Spina. Anche in senso met. per dire di persona difficile da sopportare o di evento doloroso. Spinai(si) v. Ferirsi con le spine, riempirsi di spine. Cand’andu a irdorrüai mi spinu totu (quando vado a recidere i rovi mi riempio di spine). Spinarba, s. f. Cardo di colore chiaro. Spina sorigina, s. f. Pungitopo (Ruscus aculeatus), arbusto spinoso utilizzato per abbrostire maiali. Spineta, s. f. Armonica a bocca. In senso fig. donna fastidiosa e pettegola. Spìngiri/ispìngiri, v. Spingere. Volg. fornicare, fare sesso. Il part. pass. è spintu. Spinnascu/ispinnascu, s. m. Piccola estensione di terreno privato. In senso ir. quando ci si riferisce alla boria di certi proprietari di terra. Spinnïadura, s. f. Spennatura, spiumatura, calvizie. Spinnïai/ispinnïai, v. Spennare, spiumare. In senso fig. ridurre in bolletta. Mancarìas. La parlata di Seui Spinnïau/ada, agg. Calvo/a, senza capelli e/o piume, spennato/a, rovinato/a. Spinnicai/ispinnicai, t. Togliere le pieghe. Vedi pinnica. Spinnïociai/ispinnïociai, v. Spennacchiare. Spìnnïu/ispinnïu, s. m. Spennamento. Per lo più in senso fig. per dire di desiderio o dolore talmente intensi da indurre che li prova a strapparsi i capelli. Spinosu, s. m. Agrifoglio (ilex aquifolium). Albero sempreverde della famiglia delle querce, dalle foglie spinose - da cui il nome locale -, ha il suo habitat prediletto nei luoghi ombreggiati, dove vive rigoglioso. Sui monti di Seui cresce spontaneo nelle parti più alte, in foresta demaniale e nel territorio comunale. Spinosu/a, agg. Pieno/a di spine, spinoso/a. Spinta/ispinta, s. f. Spinta, spintone, aiuto. In senso reale e fig. Nce dd’at bogau a i. (lo ha cacciato via a spintoni), dd’at donau una bona s. (gli ha dato un grande aiuto). Vedi spìngiri. Spintu/a, agg. Spinto/a. Spïotai, v, Controllare da lontano, pedinare, spiare. Spïotamentu, s. m. Controllo a distanza. 381 Spïotau/ada, agg. Pedinato/a, spiato/a. Spiriteddu/ispiriteddu, s. m. Animosità, coraggio più apparente che reale. Mancai siat malàidu, cuddu s. ddu poderat ancora (anche se è malato, conserva ancora il suo spirito animoso). Spiritosu/a, agg. Spiritoso, giocherellone, amante degli scherzi. Ma indica anche le persone difficilmente sopportabili. Spìritu/ispìritu, s. m. Animo, coraggio, animosità. Portat unu bellu s. (ha un bel coraggio). Alcol, spirito. Prova a testai cerésïa aresti asuta s. (prova ad assaggiare le ciliegie selvatiche sotto spirito), m’apu fatu unu trincu in sa camba e mi ddu apu postu s. (mi sono procurato una ferita alla gamba e l’ho disinfettata con alcol). Al pl. vale: anime dei morti, fantasmi. Nanca bit is ispìritus (dicono che veda le anime dei morti). Spirritu, s. m. Spigola, pesce di piccole dimensioni. In senso fig. persona eccessivamente magra. Parit unu s. (sembra un pesciolino). Spiscidai, v. Sbuffare improvviso e ripetuto, segno di irrequietezza di alcuni animali domestici e selvatici, soprattutto della capra. Spìscidu, s. m. Verso della capra che segnala la presenza di mosche 382 e alri insetti all’interno del recinto per la mungitura. Gergale del mondo dell’ovile. Spissada, s f. Segno identificativo del bestiame da allevamento. Facile da praticare in quanto consiste nel mozzare la punta (pissu, da cui il nome) dell’orecchio. Se ben praticato è impossibile da contraffare. Spissadura, s. f. Taglio nella parte superiore di un orecchio di animale domestico da marchiare o anche di un elemento vegetale. Spissai/ispissai, v. Strappare o tagliare la parte superiore (pissu) di un arbusto. Spissigorrai/ispissigorrai, v. Smozzare, tagliare sulle punte. Detto del pane bianco da cerimonia lavorato artisticamente in casa. Siccome ogni pane aveva più di una punta terminale, ne derivava la necessità di ammonire i bambini a non tagliare il pane solo sulle punte: no ispissigorrèis su pani (non tagliate il pane solo sulle punte). Vedi pissigorru. Spissigorrau/ada, agg. Smozzato/a. Spissulai, v. Pizzicare. Spissulau/ada, agg. Pizzicato/a. Anche in senso fig. Spìssulu/ispìssulu, s. m. Pizzicotto. Usato anche il dim. spissuleddu/ispissuleddu nell’espr. basai a PAOLO PILLONCA ispissuleddus (baciare a pizzicotti). Spistiddadura, s. f. Ferita nella parte posteriore del capo. Spistiddai, v. Ferire nella parte posteriore del capo (su pistiddu è la cervice). Spistiddau/ada, agg. Ferito/a alla cervice. Spistocadura, s. f. Prima prova dell’olio nella frittura. Spistocai, v. Collaudare l’olio d’oliva che si usa per la prima volta nella frittura: consiste nell’immergervi, quando è ben caldo, un pezzettino di pane che subito dopo si butta via. Spistocau/ada, agg. Collaudato/a a caldo. In senso fig. sottoposto a collaudo brusco. Spistoradura, s. f. Scheggiatura. Spistorai, v. Scheggiare. Detto soprattuto delle stoviglie. Dona crobba ca cussu pratu s’ispistorat (stai attento, quel piatto potrebbe scheggiarsi). Spistorau/ada, agg. Scheggiato/a. Spitïoladura, s. f. Privazione dei campanacci. Spitïolai, v. Levare i campanacci al bestiame. Vedi e pitïolai e pitïolu. Spitïolau/ada, agg. Privato/a dei campanacci. Spoladura, s. f. L’atto e l’effetto di spolai. Spolai, v. Uccidere il maiale fic- Mancarìas. La parlata di Seui candogli un coltello appuntito in corrispondenza del cuore, in modo da far uscire tutto il sangue. Spolau/ada, agg. Ucciso/a con una coltellata al cuore. Spoporai/ispoporai, v. Evaporare, calmarsi. Fut inchïetu meda ma giai spoporat in pressi (era molto adirato adirato ma si calmerà in fretta). Spoporamentu, s. m. Evaporazione, sbollimento, calmata. Spoporau/ada, agg. Evaporato/a, calmato/a. Sporta, s. f. Cesto di vimini, paniere. Sposai/isposai, v. Unirsi in matrimonio, sposarsi, sposare. Sposau/ada, agg. Sposato/a. Sposórïu, s. m. Cerimonia nuziale, sposalizio. Spossidìrisi, v. Essere pronto a tutto, senza più padronanza di sé. Spossidìu/a, agg. Disposto/a a tutto, senza freni inibitori. Sposu/isposu/a, s. e agg. Fidanzato. Mariu at fatu a i. (Mario si è fidanzato). Spragargia, s. f. Chiazza. In Tónneri ocannu ddu iat spragargias de nì finas a primu làmpadas (nel Tònneri quest’anno c’erano chiazze di neve fino ai primi di giugno). Ma il s. definisce qualunque tipo di chiazza. Sprallaciai(si), v. 383 Procurare/procurarsi un ematoma. Sprallaciu, s. m. Ematoma, edema. Antoni nd’est orrutu ’e cüaddu e s’at fatu unu s. mannu (Antonio è caduto da cavallo e si è procurato un vasto ematoma). Sprama, s. f. Grande spavento. Fui acanta ’e ndi ’oddiri una s. (poco mancava che prendessi uno spavento). Spramai/ispramai, v. Spaventare, terrorizzare. Dd’at ispramau (l’ha spaventato molto). Anche al rifl. Chi biu canis mannus solus mi spramu (se vedo cani di grandi dimensioni senza padrone mi spavento moltissimo). Spramau/ada, agg. Spaventato/a. Sprapallociai, v. Aprire pienamente, sgranare. A bortas su pipìu sprapallociat is ogus po nudda (talvolta il bambino sgrana gli occhi per un nonnulla), candu si dd’apu nau at isprapallociau is ogus (quando gliel’ho detto ha sgranato gli occhi). Si utilizza anche in senso fig. soprattutto al part. pass. Sprapallociau/ada, agg. Aperto/a accondiscendente, disponibile. Cun is amigus est totu s. (con gli amici è molto accondiscendente). Sprëai(si), v. Inorridire, spaventarsi. 384 Sprëau/ada, agg. Inorridito/a, spaventato/a. Sprecu, s. m. Prodigalità, spesa eccessiva, spreco. Ninu a ir becesas s’er donau a su s. (Nino in vecchiaia si è dato alle spese fuori misura). Sprefagliai, v. Togliere gli ornamenti ai vestiti. Vedi prefagliai. Sprefagliau/ada, agg. Privo/a di ornamenti. Detto dei vestiti, soprattutto di quelli femminili. Sprefagliu, s. m. Privazione di ornamenti. Spreïdai(si)/ispreïdai(si), v. Spretare, ridurre allo stato laicale. Muntzignori custa ’orta nd’ispréïdat chelegunu (il vescovo stavolta riduce qualcuno allo stato laicale). Spreïdau/ispreïdau, s. m. Spretato. Spremidura/ispremidura, s. f. Spremitura. Sprèmiri/isprèmiri, v. Spremere, strizzare. Is pannus ddus ia ’eni’eni sprémïus beni (i panni li avevo strizzati benissimo), mi parit ca mi spremu unu limoni (quasi quasi mi spremo un limone). Sprémïu/isprémïu/a, agg. Spremuto/a, stizzato/a. Spreni, s. m. Milza. In senso fig. coraggio, ardimento. Arratza ’e spreni chi portat, cussu (che corag- PAOLO PILLONCA gio ha, quello). Sprestocadura, s. f. Depressione, nevrosi, follia. Sprestocàisi, v. Andar fuori di testa. Sprestocau/ada, agg. Scimunito/a. Spreu, s. m. Spavento, orrore. Spridadura, s. f. Emozione forte, choc. Spridai, v. Emozionare, scioccare. Spridau/ada, agg. Emozionato/a, spiritato/a. Contrazione da ispiridau. Sprigada, s. f. Specchiata. Sprigadura, s. m. Specchiamento. Sprigai, v. Specchiare. Al rifl. Si sprigat a dònnïa ora (si specchia spessissimo). Sprigau/ada, agg. Specchiato/a. Sprigu, s. m. Specchio. Springiai, v. Concludere la gravidanza. Desueto. Spronadura, s. f. Spronata, esortazione. Spronai/ispronai, v. Toccare il cavallo con gli speroni, spronare. S’ebba mia non bolit ispronada (la mia cavalla non ha bisogno di essere spronata). In senso fig.: esortare. Spronau/ada, agg. Spronato/a, esortato/a. Mancarìas. La parlata di Seui Sproni, s. m. Sperone, sprone. Sprovistadura, s. f. Privazione delle provviste. Sprovistai, v. Privare, derubare delle provviste. Sprovistau/ada, agg. Sprovvistato/a, derubato/a delle provviste. Sprugadura/isprugadura, s. f. Sbucciatura. Sprugai/isprugai, v. Sbucciare. Spruga sa patata (sbuccia le patate). In senso fig. risolvere. Est una chistioni mala a i. (è un problema difficile da risolvere). Sprugau/ada, agg. Sbucciato/a. Portu unu ’enugu s. (ho un ginocchio sbucciato). Risolto/a. Bidu as cantu cosas sprugadas (hai visto quante cose risolte). Sprüinadura, s. f. Spolveratura. Sprüinada, s. f. Spolverata. In senso met. batosta, sconfitta netta. Chi ti ponis cun mei ndi ’oddis una s. (se ti confronti con me prenderai una bella batosta). Sprüinai, v. Spolverare. Maria sprùinat in dónnïa logu (Maria spolvera dappertutto). Fig. superare q.no in una qualsivoglia dimensione agonistica. S’est postu a cùrriri cun mei e mi dd’apu sprüinau (si è messo a correre con me e gli ho tolto la polvere di dosso). Sprüinau/ada. Spolverato/a. Sprupadura, s. f. Spolpatura. 385 Sprupai, v. Spolpare, levare la polpa. Sprupau/ada, agg. Spolpato/a. Sprumonadura, s. f. Ferita ai polmoni. Sprumonai, v. Ferire ai polmoni, spolmonare. Al rifl. vale: gridare e/o cantare fino a mettere i polmoni a dura prova. Sprumonau/ada, agg. Spolmonato/a, lasciato/a senza più fiato. Sprupadura, s. f. Spolpatura. Sprupai, v. Spolpare. Sprupau/ada, agg. Spolpato/a. Spudai, v. Sputare. Spudau/ada, agg. Sputato/a. Spudu, s. m. Sputo. Spuligai, v. Indebolire. Spuligau/ada, agg. Deboluccio/a, astenico/a. Spumadori, s. m. Mestolo bucherellato, adatto ad eliminare la spumatura superflua dai bolliti. Spumai, v. Schiumare. Detto di un alimento che cuoce nell’acqua bollente e produce schiuma e di un cavallo che dopo una corsa è bagnato e pieno di schiuma. Spumau/ada, agg. Schiumoso, con la bava alla bocca, fuori di sé dall’ira. Spunciai, v. Schiodare, togliere i chiodi. Spunciau/ada, agg. Schiodato/a. Spuncionada, s. f. Stimolo, av- 386 vertimento. Spuncionadura, s. f. Stimolazione ripetuta. Spuncionai/ispuncionai, v. Levare i chiodi, schiodare. In senso fig. incoraggiare, spronare, esortare, stimolare. Su babbu ddu spuncionat meda (il padre lo stimola molto). Spuncionau/ada, agg. Stimolato/a. Spuntai/ispuntai, v. Spuntare, comparire all’improvviso, emergere. Nd’est ispuntau ’e suta terra (è spuntato dal sottosuolo). Spuntai/spuntàisi, v. Rendere acido, inacidire. Spuntinai, v. Fare spuntini. Per est. organizzare riunioni conviviali. Spuntinu/ispuntinu, a. m. Spuntino, merenda. Spuntu/a, agg. Inacidito/a. M’at cumbidau a binu s. (mi ha offerto vino inacidito). Spusosu/a, agg. Sgarbato/a, antipatico/a. Sputanai, v. Svergognare, smascherare. Sputanamentu, s. m. Smascheramento, brutta figura. Sputanau/ada, agg. Svergognato. Stabbacai/istabbacai, v. Tirar fuori, rinvenire senza aver cercato. Ia a bòlliri sciri e de uba nd’as istabbacau cussa càvana (vorrei PAOLO PILLONCA sapere da dove hai tirato fuori quella roncola). Stabbicadura, s. f. Elevazione dei muri divisori tra le stanze di una casa. Stabbicai, v. Elevare dei muri divisori tra una stanza e l’altra all’interno di una casa. Imoi depeus s. (ora dobbiamo elevare i muri interni). Vedi tabbicu. Stabbicau/ada, agg. Diviso/a da muri. Stacai/istacai, v. Uscire di casa. Cussu no istacat mai (quel tizio non esce mai di casa). Anche staccare, ma più raro. Stadda, s. f. Stalla. Stafa, s. f. Staffa. Stagliai/istagliai, v. Dividere il gregge (tagliu) e mettersi ciascuno per conto proprio. Nel gergo dei pastori indica la rottura di un accordo di lavoro comune. Fùrint a cumpangius ma imoi ant istagliau (erano soci ma adesso si sono separati). Stai/istai, v. Stare, trovarsi, essere. Indica prevalentemente le condizioni di salute ma può indicare anche quelle economiche. Antoni istat mali meda (Antonio sta molto male). Stalloni, s. m. Stallone, puttaniere. Presente nei soprannomi. Stampai, v. Bucare, forare, tra- Mancarìas. La parlata di Seui passare. Stampu, s. m. Buco, grotta, cavità. Può trattarsi di foro naturale o artificiale. Presente nei toponimi per indicare una grotta Su Stampu - del massiccio del Tónneri. Stancitai, v. Togliere i chiodini (tancitas) da tavole lignee sottili. Stancitau/a, agg. Iracondo/a, inaffidabile. Lett. privo di tancitas, i chiodi che tengono unite le parti sottili di un manufatto ligneo (ad es. il compensato) a quelle più corpose. Stanga, s. f. Sbarra, spranga, stanga. Stangai/istangai, v. Mettere una stanga davanti a una porta. Ma il v. ha assunto nel tempo anche il significato di: stangare, punire in maniera esemplare, lo stesso che ha in italiano. Stangheri, s. m. Tabaccaio. Stangiai, v. Stagnare, mettere lo stagno, ad es. a un calderino di rame, ma anche riparare con lo stagno un contenitore metallico. Stangiu, s. m. Stagno, metallo utilizzato anche per certe saldature. Stangu, s. m. Tabacchino. Stantargiai(si), v. Mettere, mettersi dritto. Riferito prevalentemente a persone (Stantargiadìndi, àlzati in piedi) ma anche a cose 387 (Stantargiandi cudda biga, metti dritta quella trave). Stantargiau/ada, agg. Levato/asi in piedi. Stantargiu/a, agg. Dritto, in piedi. Riferito soltanto alle persone. La loc. avv. a sa stantargia vale: stando in piedi. Stantissai, v. Rendere noioso, allungare troppo. Al rifl. vale: rendersi insopportabile. Stantissamentu, s. m. Lungaggine eccessiva nel discorrere. Stantissau/ada, agg. Logorroico, noioso. Vedi sciasolau. Stantissu, s. m. Eccesso nella comunicazione verbale. Stasiri/istasiri, v. Dimagrire, perdere peso. Riferito alle persone. Antoni est istasìu (Antonio è dimagrito). Statali, s. m. Impiegato dello Stato. Stàtüa, s. f. Statua, simulacro. In senso lato vale: persona fredda, che non perde mai la calma. Statzïoni, s. f. Stazione. Nella parlata di Seui il s. indica esclusivamente la stazione delle ferrovie complementari della Sardegna, che dal 1894 - anno dell’inaugurazione della linea Cagliari-Arbatax - in poi rappresenta la prima tappa di un esilio raramente interrotto: quasi sempre un luogo di partenze 388 obbligate, quasi mai di ritorni. Dunque il s. ha in sé una venatura dolente. Stàulu, s. m. Pavimento in legno. Stäulufartzu, s. m. Mansarda rustica. Stebidai, v. Intiepidire, rendere tiepida una bevanda o altro alimento caldo, lasciare raffreddare. Lassaddu s. cussu cafeu, est tropu ’uddìu (lascia raffreddare un po’ quel caffè, è troppo caldo). In senso fig. sbollire. Stebidau/ada, agg. Intiepidito/a. Steddau/ada, agg. Stellato/a. Detto del cielo notturno quando è limpido e del cavallo sauro, baio o nero che ha una chiazza bianca simile ad una stella (steddu) tra gli occhi e l’inizio della criniera. Steddu/isteddu, s. m. Stella. In gennargiu is isteddus tenint un’atra lugi (a gennaio le stelle hanno un’altra luce). Il s. si utilizza largamente nella poesia e nel canto, per definire donne di grande bellezza. Stegai/istegai, v. Sbaccellare, sgranare, togliere il baccello alle leguminose: fagioli, fave, piselli, etc. Custu fasolu ddu stegu totu (sbaccellerò tutti questi fagioli). In senso fig. mangiare avidamente, essere una buona forchetta. Stegat, cuddu piciocu, lampu! (Ma quanto PAOLO PILLONCA mangia quel ragazzo!). Stemperai, v. Stemperare, raffreddare. Stemperau/ada, agg. Stemperato/a, raffreddato/a. Stemperïai(si), v. Svanire, decadere, perdere percezione e brillantezza. Stemperïau/ada, agg. Svanito/a. Stentai/istentai, v. Ritardare, far tardi, andare per le lunghe. Bai, ma no istentis (vai, ma non far tardi). Stenterïai, v. Dire sciocchezze. Al rifl. vale rimbambirsi. Desueto. Stentérïu, s. m. Sciocchezza, fesseria. Stentina/istentina, s. f. Intestino, interiora. L’indicazione data dal s. è generica, le viscere di un animale hanno un’articolazione lessicale assai varia e precisa. Stentu/istentu, s. m. Ritardo dovuto a lentezza nel procedere o a disturbi contingenti. Pres. nei soprannomi. Steressai, v. Darsi alla crapula. Steressu, s. m. Crapula, banchetto omerico o pantagruelico. Stèrrida/istèrrida, s. f. Stesura. Indica anche l’incipit di un canto in rima, oltre che la parte iniziale di un discorso. Sterridorgiu, s. m. Giaciglio, luogo dove ci si può sdraiare e Mancarìas. La parlata di Seui anche lettiera per animali. Sterrimenta/isterrimenta, s. f. Stesura, base, fondamento. Gergale delle tessitrici per indicare le diversità dei fili. Indica anche la lettiera degli animali. Apu postu fenu a i. (ho messo del fieno per lettiera). Sterrinai/isterrinai, v. Mettere in posizione supina, atterrare. D’at cafau a brassus e dd’at isterrinau (l’ha preso per le braccia e l’ha atterrato). Stèrriri/istèrriri, v. Stendere, preparare, dare inizio a un’azione, anche immateriale. Stérrïu/stèrrïa, agg. Steso/a, preparato/a. Stertzada, s. f. Sterzata. Stertzai/istertzai, v. Sterzare, manovra al volante o sterzo. Distinguere tra due entità simili, animali o vegetali che siano. No istertzat tra crabitu e angioni e tra ìligi e orroli (non distingue un capretto da un agnello e una roverella da un leccio). Stertzu, s. m. Sterzo, volante. Stesïai/istesïai, v. Allontanare, spostare. Usato anche al rifl. In senso fig. diradare i rapporti sociali e/o amicali. Si nc’est istesïau (si è allontanato). Stëuladura, s. f. Eliminazione delle tegole da un tetto. Stëulai/istëulai, v. Togliere le tegole a un tetto. 389 Stëulau/istëulau/ada, agg. Senza tegole. Cussa crobetura est i. (quel tetto non ha tegole). Dissennato/a, senza comprendonio. Lett. senza tegole, cioè con la testa esposta alle intemperie. Quasi che l’uomo stëulau fosse una casa con il tetto privo di tegole. Stèvini/Istèvini, n. pr. di pers. Stefano. Frequente il dim. Stevineddu/Istevineddu. Stïàrica, s. f. Candela di cera, stearica. Stibba, s. f. Riempimento. Lett. staio. Si usa in rif. al mangiare senza misura, nel significato di scorpacciata. Stibbai, v. Stipare, riempire completamente un contenitore, anche affastellando alla rinfusa il contenuto. In senso fig. mangiare a dismisura. Stibbau/ada, Stipato/a. Stichidorgiu/istichidorgiu, s. m. Nascondiglio. Stichiri/istichiri, v. Far entrare, nascondere. Stiddïai/istiddïai, v. Gocciolare. Vedi istiddïai e derivati. Stiddìu, s. m. Goccia. Riferito all’acqua, al vino, all’olio, etc. Stima/istima, s. f. Amore. No ddi tenit prusu s. e po cussu no dda ponit in perunu contu (no la ama più e perciò non la considera 390 affatto), chi dus si stimant, is parentis non si nci depint intrai in mesu (se due si amano, i parenti non si debbono mettere in mezzo). Non esiste corrispondenza alcuna con l’it. stima, che nella parlata di Seui si rende con cunsidéru e contu. Stimai/istimai, v. Amare, voler bene. Stimau/ada, agg. Amato/a. Nei canti popolari della culla, come nei lamenti funebri, il vocativo struggente coru miu s. (lett. cuore mio amato), nella sua frequenza, indica chiaramente il senso del verbo e dell’aggettivo. Stìncini, s. m. Olio di lentischio. Di norma, però, gli si premette un altro s. e allora la parola assume valore quasi aggettivale. Stintirigu, s. m. Intestino. Stiponai, v. Fumacchiare. Stiponi, s. m. Sigaretta, in senso ir. Stirai/istirai, v. Stirare, crescere in altezza. Per indicare lo stiro, il solo v. usato era pranciai, ora piuttosto in disuso. Stirongiai/istirongiai, v. Slabbrare, stirare eccessivamente. Chi intzighis äici, cussu maglioni ddu stirongias totu (continuando così, slabbrerai del tutto quel maglione). Stirongiau/ada, agg. Slabbrato/a. PAOLO PILLONCA Stitai, v. Svezzare. Lett. togliere la mammella (tita). Rif. all’uomo e agli animali. Ndi stitu su purdeddu (svezzerò il puledro). Stitapipius, s. m. Svezzabambini. In senso fig. persona di brutto aspetto, adatta a svezzare poppanti per la paura che incute. Stitau/ada, agg. Svezzato/a. Stivali/istivali, s. m. Stivale. Nd’est torrau a bidda a i. (è ritornato in paese con gli stivali). Stóbbili, agg. indeclinabile. Fisso/a, sempre disponibile. In domu ’e Maria ddu est Lina s. (a casa di Maria c’è Lina sempre disponibile). Stocada/istocada, s. f. Coltellata. Si funti giogaus a istocadas (si sono accoltellati). Stochigliai/istochigliai, v. Accoltellare. Stochigliau/ada, agg. Accoltellato/a. Stocu/istocu, s. m. Pugnale, coltellaccio. Stòddiri/istòddiri, v. Togliere, diminuire, far mancare, sottrarre. A Ninu dd’ant istóddïu sa paga (a Nino hanno ridotto lo stipendio), sa funtana ’e Carrighera at istóddïu (la fontana di Carrighera ha diminuito il suo gettito). Se ellittico dell’oggetto, il verbo ha una dimensione gergale nel linguaggio Mancarìas. La parlata di Seui erotico, in rif. alla donna infedele. Cussa stoddit (quella toglie, sott. qualcosa al marito). Stóddïu/a, agg. Diminuito/a. Stógumu/istógumu, s. m. Stomaco. Soi ’e di ora a doloris de s. (da tempo soffro di disturbi gastrici). Molto usate le locuzioni avverbiali a i. ’rbùidu (a stomaco vuoto), a i. arvolotau (con lo stomaco in subbuglio), a i. prenu (a pancia piena). In senso fig. resistenza, capacità di sopportazione di eventi sgradevoli e/o persone disgustose. Nci ndi ’olit de s. po ddu ’alïai (ce ne vuole di stomaco per sopportarlo). Stòia, s. f. Stuoia di giunchi. Stonadura, s. f. Stonatura. Stonai/istonai, v. Stonare. In senso lato, agire fuori misura. Stonau/ada, agg. Stonato/a. Stontonai, v. Barcollare. Usato anche nel senso di annoiare, disturbare, scocciare. No mi stóntonis (non mi scocciare). Stontonau/ada, agg. Scocciato/a, annoiato/a, turbato/a. Stóntunu, s. m. Sbandata, oscillazione. Stori, s. m. Falco (accipiter gentilis). Figura tra i soprannomi. Stórïa/istórïa, s. f. Storia. Ma anche: scusa, pretesto. Lassa is i. (lascia le scuse). Stóricu/istóricu, s. m. Appassio- 391 nato di storia, persona colta. Storitu, s. m. Falchetto. Storradura, s. f. Rottura di fidanzamento. Storrai/istorrai, v. Tornare indietro rispetto a una parola data. Si nd’est istorrau de is füeddus (non ha rispettato la parola). Rompere un fidanzamento. Una ragazza non più fidanzata è storrada. Nel secondo dopoguerra una via del centro storico, nella parte bassa del paese - Peis de ’idda - fu ribattezzata Via Storra da Benigno Deplano nella canzone Eus agatai perché vi si erano verificate parecchie rotture di legami amorosi. Storrau/ada, agg. Non più fidanzato/a. Straciulai/istraciulai, v. Stracciare, sfilacciare, ridurre a brandelli. Straciulau/ada, agg. Vestito/a, coperto/a di stracci, malandato/a. Stracu/istracu, s. m. Strappo, sconto considerevole. Nell’espr. a i. baratu (a prezzi stracciati). Stradai/istradai, v. Indicare la strada, instradare, avviare, incoraggiare agli esordi. Stradoneri, s. m. Addetto alla strada principale. Lo si usa in senso ir. per definire gli oziosi che trascorrono le giornate a passeggio. Stradoni, s. m. Strada principale del paese, strada larga. 392 Strafutenti, s. m. Strafottente, arrogante, presuntuoso che parla a vanvera. Stragai/istragai, v. Affaticare, non solo fisicamente. A castïai custu pipìu m’istragat meda (badare a questo bambino mi affatica molto). Stragau/ada, agg. Affaticato/a. Stragasciu/istragasciu, s. m. Rumore forte, frastuono. A duru ’e noti apu inténdïu s. (a tarda notte ho sentito del frastuono). Stragu/istragu, s. m. Fatica, fisica e psicologica. M’at donau s. (mi ha stressato). Stramadura, s. f. Rottura della trama. Stramai, v. Disfare la trama. Gergale delle tessitrici. Stramancadura, s. f. Mancanza improvvisa di qualcosa. Stramancai(si), v. Mancare all’improvviso. Detto di un capo di bestiame come di un oggetto domestico di uso comune. Stramancau/ada, agg. Scomparso/a. Stramau/ada, agg, Senza più trama. Strancanadura/istrancanadura, s. f. Strappo violento. Linu est pagu passïentzïosu, oberit totu a i. (Lino è poco paziente, apre tutto con strappi violenti). Strancanai/istrancanai, v. Strap- PAOLO PILLONCA pare con violenza. Strancanau/ada, agg. Strappato/a violentemente. Strangiai, v. Ospitare un amico forestiero. Strangiau/ada, agg. Ospitato/a. Strangiu/a, s. m. e agg. Forestiero/a, non appartenente al paese, ospite. Custu est bestiàmini s. (questo è bestiame forestiero). Stratagliada, s. f. Strigliata, messa in riga e perfino in ritirata. Chi nci torrat mi ddi’ ’ongiu una bella s. (se tornerà qui lo metterò in riga). Stratagliai, v. Trattar male, mettere in riga, far fuggire. Rif. soprattutto agli animali, ma anche alle persone. Ddu stratagliu (lo tratto male). Stratagliau/ada, agg. Maltrattato/a, messo/a in riga, fatto/a fuggire. Ma lo si usa anche nel senso di malvestito/a. Oi ses totu s. (oggi sei tutto disordinato). Stratamegia, s. f. Strega, donna male in arnese. Stratamegiai, v. Ridurre q.no a mal partito, mettere in disordine. A-i cussa dda stratamegiant in domu sua etotu (quella lì l’agghindano male i suoi stessi familiari). Stratamegiau/ada, agg. Malvestito/a, male in arnese. Mancarìas. La parlata di Seui Stravanau/ada, agg. Inurbano/a, dai modi spicci. Strecai/istrecai, v. Schiacciare. Nostra Segnora strecat sa conca a su colovru (la Madonna schiaccia la testa al serpente). Strecau/ada, agg. Schiacciato/a. Strecosciai/istrecosciai, v. Mettere fuori uso, sgangherare. Strecosciant totu, mesas e cadiras (distruggono tutto, tavoli e sedie). Strecosciau/ada, agg. Sgangherato/a, semidistrutto/a. Cussu cumou est i. (quel comò è sgangherato). Strecosciu, s. m. Guasto, danno, messa fuori uso. Strecu, s. m. Escremento, sterco. Stregia, s. f. Attrezzatura lignea della cantina: botti e tini soprattutto. Strègiri, v. Pulire, tergere. Soi totu s’ora stregendumì su sudori (non faccio altro che tergermi il sudore). Strégïu/a, agg. Pulito/a, terso/a. Stregiu, s. m. Contenitore. Senza ulteriore specificazione, indica le stoviglie. Sàmuna su s. (lava i piatti). Stremenadura, s. f. Eliminazione dei limiti e/o dei confini. Stremenai, v. Togliere, eliminare i confini. Vedi atremenai e trèmini. Stremenau/ada, agg. Privo/a di 393 confini. Strempada, s. f. Colpo sulla guancia. In senso lato, colpo forte.Vedi trempa. Strempai, v. Colpire sulla guancia. Strempau/ada, agg. Colpito alle guance e, più in generale, al volto. Strempïadura, s. f. Trattamento privo di garbo. Strempïai, v. Trattare sgarbatamente. Dónnia ’orta chi ddu bit ddu strémpïat (tutte le volte che lo vede lo tratta sgarbatamente). Strempïau/ada, agg. Trattato/a con sgarbatezza. Strémpïu, s. m. Sgarbatezza, modo inurbano. Usato quasi eslusivamente nella loc. avv. de s. (sgarbatamente). Stria, s. f. Barbagianni, uccello notturno. In senso fig. donna brutta e cattiva. Strichimiddatzu, s. m. Oggetto di piccole dimensioni, non meglio definito. In senso lato: minutaglia, sciocchezza. Striddicada, s. f. Spruzzata, spruzzo, gettito forte. Striddicadura, s. f. Spruzzatura forte. Striddicai, v. Spruzzare con forza. Striddicau/ada, agg. Spruzzato/a. Strìgili, agg. Snello/a, sottile, elegante. 394 Strìgiula, s. f. Spazzola rustica con impugnatura lignea. Strigiulada, s. f. Spazzolatura, spazzolata. Strigiulai, v. Pulire con la spazzola rustica. Strigiulau/ada, agg. Pulito con la spazzola rustica. In senso fig. rimproverato/a con asprezza. Strilletu, s. m. Pugnale. Strina, s. f. Regalo rituale. No dd’at mai fatu una strina, mancu candu s’est cunfirmau (non gli ha mai fatto i regali dovuti, neanche quando si è cresimato). Strinai/istrinai, v. Regalare, fare un dono. Candu at fatu sa primu comunïoni su pardinu de ’àtïu dd’at istrinau una pinna ’i oru (quando ha fatto la prima comunione, il padrino di battesimo gli ha regalato una penna d’oro). Strinau/ada, agg. Omaggiato/a con doni. Stringimentu, s. m. Restringimento, restrizione. Strìngiri, v. Stringere, restringere. Strinta, s. f. Stretta. M’at donau una s. e m’at cancarau unu ’rassu (mi ha dato una stretta e mi ha rattrappito un braccio). Anche in senso fig. per indicare uno stato di difficoltà. Strintorgiu, s. m. Strettoia. PAOLO PILLONCA Strintu/a, agg. Stretto/a. Est unu camineddu s. (è una stradina disagevole). Strobbai, v. Disturbare. Il v. definisce disturbi dovuti più a fatalità che a volontà umana. Strobbau/a, agg. Disturbato/a, ostacolato/a. Strobbu, s. m. Disturbo, inconveniente, imprevisto.Vivissima nell’uso l’espr. äici ti campis de s. malu (così tu possa evitare imprevisti gravi), quando si vuole rafforzare un diniego rispetto a una richiesta o dare comunque forza a una risposta negativa. Strobeddada, s. f. Dipanazione di matassa. Metaforicamente: fuga a tutta velocità. Strobeddai(si), v. Dipanare una matassa intricata, mettersi in salvo, essere svelto di gambe. Strobeddau/ada, agg. Dipanato/a, fuggito/a di gran carriera. Strobidura, s. f. Liberazione dalle pastoie. Anche in senso fig. Strobiri, v. Togliere le pastoie (trobèas) al bestiame. Vedi trobiri. Strobìu/a, agg. Liberato/a dalle pastoie. Strocidura, s. f. Imitazione, distorsione. Stróciri/istróciri, v. Imitare, distorcere. Francu strocit beni meda: a Giüanni ddu fait ugüali, in sa ’ogi Mancarìas. La parlata di Seui puru (Franco è un ottimo imitatore: sa rappresentare perfettamente Giovanni, anche nella voce). Strocìu/istrocìu, s. m. Imitazione, presa in giro. Ddu portant a i. (lo prendono in giro di continuo). Strócïu/a, agg. Imitato/a, deriso/a. Strogadura, s. f. Dipanazione. Strogai, v. Dipanare, svolgere. Contr. di trogai (vedi). Strogau/ada, agg. Dipanato/a. Stronadura, s. f. Fastidio, confusione mentale. Stronai, v. Rintronare, infastidire, confondere. Stronau/ada, agg. Confuso/a, poco padrone di sé. Strópuddu, s. m. Parte finale dell’intestino degli animali. In senso fig. persona ributtante. Strossa/istrossa, s. f. Pioggia violenta e continua, mista a vento. Est proendu a i. (piove a dirotto, diluvia). Strossai/istrossai, v. Incalzare oltre misura, stare addosso. Strossau/ada, agg. Incalzato insistentemente. Strotzinu, s. m. Strozzino, usuraio. Pres. nei soprannomi. Strumadura, s. f. Disfacimento, dispersione. Strumai, v. Disfare, disperdere, distruggere. Diversamente da altre 395 aree, a Seui il verbo non ha mai il senso dell’it. abortire. Strumau/ada, agg. Disfatto/a, distrutto/a. Strumbulai/istrumbulai, v. Pungolare. In senso reale ma anche in quello met. Esortare con molta determinazione. Ddu strùmbulat beni-’eni. (lo pungola ben bene). Strumbulau/ada, agg. Pungolato/a. Più usato in senso met. che reale. Strùmbulu/istrùmbulu, s.m. Pungolo. Il bastoncino di legno con un chiodo in punta e una frusta laterale usato dai contadini per sollecitare i buoi a un passo più spedito o a particolari movimenti nel traino del carro. Strumingiu, s. m. Annullamento, distruzione, disfacimento. In senso reale e fig. Mai nel senso di aborto che il s. ha in altre zone.Vedi strumai. Strumpadura, s. f. Caduta provocata con la tecnica della strumpa. Strumpai/istrumpai, v. Far cadere q.no con la tecnica dello sgambetto iniziale e del successivo utilizzo delle braccia per atterrarlo. Dd’at istrumpau che nudda (è riuscito ad atterrarlo senza alcuna fatica). Travolgere, anche involontariamente. Fui currendu e dd’apu strumpau 396 chene ddu ’òlliri (passavo di corsa e l’ho travolto senza volerlo). Strumpa/istrumpa, s. f. Gioco di lotta sarda con la tecnica omonima. Su giogu ’e sa s. ha avuto un notevole rilancio nelle zone interne per iniziativa di un gruppo di giovani di Ollolai. Anche a Seui da qualche tempo si ritorna a giogai a i. Strumpu, s. m. Cascata. Nd’at bessìu unu bellu s. ’e abba (ne è venuta fuori una bella cascata). Figura nella top. interna paesana: Su S. è una parte del rione di Peis de ’idda. Struncai/istruncai, v. Stroncare. Per est. prendere una scorciatoia. Struncadura/istruncadura, v. Percorso diritto, scorciatoia. Nella loc. avv. a i. ha il duplice senso di frettolosamente e male. Struntzu/a, agg. Stronzo/a. Strupïai/istrupïai, v. Colpire a sangue, ferire. Strupïau/ada, s. e agg. Ferito/a. Strupìu/istrupìu, s. m. Ferita. Con l’accento sulla penultima sillaba. In paesi non lontani da Seui, invece, la parola ha l’accento sulla prima sillaba (strùpiu). Stüai, v. Aiutare nell’operazione di scarico il portatore di un peso sulla testa o sulle spalle. Stüamindi (aiutami a scaricare il peso). Vedi PAOLO PILLONCA atüai e derivati. Stüamentu, s. m. Operazione di scarico effettuata a due: il portatore di peso e chi lo aiuta a sostenerlo per uno scarico morbido. Stüau/ada, agg. Liberato/a dal peso che aveva in testa o sulle spalle. Studai/istudai, v. Spegnere. Rif. al fuoco e alle lampadine. Meno usato di irmòrriri (vedi). Studau/ada, agg. Spento/a. Anche in senso fig., detto di persona che ha perso la sua brillantezza. Studenti/istudenti, s. m. Studente. Resiste a fatica la forma arcaica istudïanti. Studïai/istudïai, v. Studiare. Utilizzato anche nel senso di far studiare, mantenere agli studi. Lüisu at istudïau totu is figlius (Luigi ha fatto studiare tutti i suoi figli), Pìlimu no istudïat nudda (Priamo non studia affatto): Studïau/istudïau, s. m. Diplomato o laureato, con un titolo di studio, persona colta. Is istudïaus puru abarrant chene trabbagliu (perfino chi ha un titolo di studio rimane senza lavoro). Usato anche come agg. Is cosas studïadas comenti si depit abarrant ’n conca (le cose studiate come si deve rimangono nella memoria). Studïosu/a, agg. Sgobbone/a, Mancarìas. La parlata di Seui diligente negli studi. Stùdïu, s. m. Studio, applicazione, diligenza di indagine. Stugiadura, s. f. Sistemazione opportuna, messa da parte per la conservazione. Stugiai, v. Conservare per bene, mettere da parte in un contenitore. Stugiau/ada, agg. Conservato/a per bene. Stugiu, s. m. Barattolo. Più in generale, recipiente adatto a contenere oggetti minuti da conservare. Vedi botu. Stula/istula, s. f. Stoppia. Era frequente, fino a qualche decennio fa, che d’estate, subito dopo la trebbiatura, i porcari di Seui portassero i loro maiali a i. nella Trexenta o nel Sarcidano. Stulai/istulai, v. Pascolare nelle stoppie. Stumbada, s. f. Urto, cozzo, scontro. At donau una s. legia cun sa moto (ha subìto un brutto scontro in motocicletta). Stumbai/istumbai, v. Urtare, dar di cozzo. Da non confondere con atumbai, riferito esclusivamente a cozzi fra animali maschi provvisti di corna nella stagione degli amori. Stumbau/ada, agg. Urtato/a. Stupadura, s. f. Eliminazione di 397 un tappo, uscita improvvisa. Stupai/istupai, v. Stappare, levare il tappo. Nd’apu stupau cuddu fïascu (ho tolto il tappo a quel fiasco). Uscire di fretta. Nc’istupat a cöìdu (esce presto di casa). Venire fuori all’improvviso. De unu matoni ’e tzìpiri mi nd’est istupau unu margiani (da un macchione di rosmarino mi è venuta fuori all’improvviso una volpe). Stupau/ada, agg. Stappato/a, uscito/a di casa, comparso/a all’improvviso. Stùpidu/a, agg. Stupido/a, sciocco/a. Sturru, s.m. Storno. Sturrudai, v. Starnutire. Stùrrudu, s. m. Starnuto. Stuturadura, s. f. Stroncamento, rottura. Stuturai, v. Stroncare, spezzare, rompere. Stuturau/ada, agg. Spezzato/a. Stùturu, s. m. Stroncamento. Stuvuladura, s. f. Incavatura. Stuvulai, v. Render cavo un oggetto. Stuvulau/ada, agg. Reso/a cavo. Su, art. det. m. unico. Il. Su cüaddu (il cavallo). Si apostrofa davanti a vocale: s’onori (l’onore). Precede gli infiniti sostantivati. Su bufai non ti giuat (il bere non ti giova). Al plurale - is -, unico sia 398 per il m. sia per il f., la pronuncia varia a seconda della cons. della parola successiva. Davanti alla b, d, g, l, m, n, z, la s diventa r: ir ballus (i balli), ir dannus (i danni) ir gomaris (le comari), ir leis (le leggi), ir manus (le mani) ir nàìbbulus (i modi di dire), ir zucaus (i bocciati). Davanti alla c, f, p, s, t, tz, la s dell’art. pl. unico rimane invariata: is cüaddus (i cavalli), is féminas (le donne, ma qui occorre precisare che quando si parla in fretta si verifica un fenomeno fonetico tipico di molte subvarianti del campidanese, per cui la f si trasforma in sc dolce): iscéminas (is féminas, le donne) isciàulas, (is fàulas, le donne) isciunis, (is funis, le funi). Per le cons. rimanenti: is prendas (gioielli), is santus (i santi), is tàcinus (i rigagnoli), is tzurpus (i ciechi). Suca, s. f. Conduzione del bestiame domestico e incitamento perché proceda più velocemente. Nel gergo della caccia, sa suca è l’opera dei battitori che aizzano i cani perché si lancino di corsa a stanare i cinghiali. Eus fatu una s. manna cun canis e canargius bonus ma de sirbonis manc’unu po signali (abbiamo fatto una grande battuta con cani e battitori buoni ma di cinghiali non ne abbiamo visto neppure uno come segno di pre- PAOLO PILLONCA senza). Sucadura, s. f. Sollecitazione al bestiame affinché proceda più veloce, ricerca della selvaggina da parte di battitori e cani. La loc. a s. vale: mediante sollecitazione. Sucai, v. Sollecitare il bestiame a un’andatura più svelta. Pìlimu, suca su molenti (Priamo, sollecita l’asino), sucaddu cussu maglioru (sollécitalo, quel vitello). Il v. indica anche l’azione di battitori e cani alla ricerca della selvaggina. Suchitu, s. m. Marinatura, modo di cucinare in umido lepri, conigli, etc. Su lépuri dd’at cotu a s. (ha cucinato la lepre in umido). Suciadura, s. f. Succhiatura. Suciai, v. Aspirare, succhiare. Suciau/ada, agg. Succhiato/a. Suciosu/a, agg. Pieno/a di succo, acquoso/a. Suciu, s. m. Succo. In senso fig. sostanza. No ddu at suciu (non c’è sostanza). Sucu, s. m. Minestrina leggera. Desueto. Sopravvive in un soprannome, Papasucu (alla lettera: mangiaminestra). Sucunas (de), loc. avv. Di colpo, all’improvviso. Vedi negli esempi alla voce de. Sudada, s. f. Sudata, fatica intensa, sforzo. Sudai, v. Sudare. Per est. faticare Mancarìas. La parlata di Seui intensamente. Sudau/ada, agg. Sudato/a, bagnato/a di sudore. Sudau pilu-pilu (completamente sudato, senza neppure un pelo asciutto. Lett. pelo per pelo). Sudori/suori, s. m. Sudore. Süègiri, v. Lavorare la pasta del pane. Part. pass. suetu. Süercu, s. m. Ascella. Süergiu, s. m. Quercia da sughero (quercus suber) , albero simbolo di una sorta di costante resistenziale botanica per le difese che ha elaborato nei millenni. Non più molto presente nel territorio di Seui, se non in piccole macchie. Vedi assüergiai. Presente nei toponimi: S. è una località posta sul versante sud-ovest del salto seuese, ad altitudine inferiore rispetto al centro abitato, adatta anche alla coltivazione della vite. Un tempo dovette essere una foresta di querce da sughero. Oggi predominano i castagni, come notò nel 1972 Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit., pag.155). Vedi assüergiai. Suferèntzïa, s. f. Sofferenza, patimento, dolore, pena. Sufriri, v. Soffrire. Anche sunfriri e derivati. Sufrìu/a, agg. Sofferto/a, patito/a. Sugada, s. f. Colpo diretto sul 399 collo (sugu). La consonante iniziale conserva sempre la sua asprezza - come una doppia s - e non si lenisce nemmeno davanti a vocale. Sugai, v. Decapitare, tagliare il collo. C. s. per l’asperità della pronuncia. Sugamentu, s. m. Decapitazione, lesione al collo. Sugau/ada, agg. Decapitato/a, colpito/a al collo. Sugu, s. m. Collo. Süidura, s. f. Succhiatura. Sùiri, v. Succhiare. Spesso il v. è ellittico dell’oggetto. Cuddu crabitu non süit (quel capretto non succhia il latte). In senso fig. approfittare di q.sa per averne vantaggi materiali. Il part. pass. è sutu. Sula, s. f. Lesina. Sulada, s. f. Soffiata. Suladura, s. f. Soffiata reiterata. Nella loc. avv. a s. (mediante soffiata) Sulafogu, s. m. Soffietto del camino. Sulai, v. Respirare, soffiare. Non possu s. (non posso respirare), sula su fogu (soffia sul fuoco). Il verbo è usato in una metafora singolare che suona così: s. su fridu po ’uddìu (lett. soffiare sul freddo facendo intendere - o ritenendo erroneamente - che sia caldo), con due possibilità interpretative: 400 prendere fischi per fiaschi o ingannare gli altri su una determinata questione. Sulau/ada, agg. Soffiato/a. Sulïai, v. Fischiare. Sùlïu is crabas (fischio alle capre), no iscìt s. (è incapace di fischiare). Sulïau/ada, agg. Fischiato/a, disapprovato/a. Sùlidu, s. m. Respiro, alito. Da sulai. Sulitu, s. m. Zufolo. Rustico strumento a fiato di genesi agropastorale, ancora usato negli spettacoli di musica etnica. Sùlïu, s. m. Fischio. Dd’apu ’etau dus sùlïus e su cani nd’est torrau (gli ho lanciato due fischi e il cane è ritornato da me). Sumentusa, s. f. Pecora di due anni, dunque tosata una sola volta (semel tonsa). Per est. si dice di pecora molto giovane, ricorrendo al dim. Una sumentusedda ’e nudda (una pecorella da niente). Si utilizza anche per indicare una mufla di quell’età. Sùmini, s. m. Pancetta. In senso ironico, pinguedine. Bellu s. t’as cuncordau (ti sei provvisto di un bel tessuto adiposo). Suncùrriri, v. Sopraggiungere. Eus cumentzau in pagus ma nd’at suncurtu atrus tres o cüatru (abbiamo iniziato in pochi ma sono PAOLO PILLONCA sopraggiunti altri tre o quattro) Suncurtu/a, agg. Sopraggiunto/a, sopravvenuto/a. Sunfriri, v. Soffrire, patire. Sunfrìu/a, agg. Sofferto/a. Supa, s. f. Zuppa, minestra Supera, s. f. Zuppiera. Superai, v. Superare. Superau/ada, agg. Superato/a. Superbu/a, agg. Superbo, Suprimentu, s. m. Arrivo ritardato. Supriri, v. Arrivare in un luogo aggiungendosi ad altri convenuti. Fustis in cincu, de fatu nd’est suprìu Pilimu puru (eravamo in cinque, poi si è aggiunto anche Priamo). Suprìu/a, agg. Sopraggiunto/a, arrivato/a in ritardo. Surbidura, s. f. Aspirazione di liquidi. Surbiri, v. Aspirare un liquido e inghiottirlo. Surbìu/a, agg. Aspirato/a. Surcu, s. m. Solco. Vedi assurcai. Surdìmini, s. m. Sordità. Vedi intzurdai. Surdu/a, s. e agg. Sordo/a. Surgimentu, s. m. Blocco dei movimenti del corpo. Surgiri, v. Bloccare nel libero movimento dei muscoli. Su frius a bortas mi surgit (il freddo talvolta mi blocca). Surgìu/a, agg. Bloccato/a, im- Mancarìas. La parlata di Seui possibilitato/a a muoversi. Surpìmini, s. m. Cecità. Vedi tzurpìmini e intzurpai. Surpu/a, agg. Cieco/a. Vedi tzurpu. Surra, s. f. Sussa, batosta. Cussu piciocheddu nd’at pigau su cüaddu a fura, su babbu si nd’est acatau e dd’at iscutu una s. (quel ragazzino ha preso il cavallo di nascosto, il padre se n’è accorto e gli ha dato una sussa). Anche in senso fig.: lezione, insegnamento. At provau a giogai a cartas cun Antoni e nd’at boddìu una s. (ha provato a giocare a carte con Antonio e ha preso una batosta). Surrai, v. Percuotere, picchiare a lungo, dare una sussa. Surrau/ada, agg. Percosso/a, battuto/a. Anche in senso met. Susu, avv. Sopra. Bessi a s. (vieni sopra), in biginau de s. (nel rione alto). Suspiri, v. Aspirare, sorbire, succhiare. Suspìu/a, agg. Aspirato/a, assorbito/a. Suspu, s. m. Linguaggio metaforico o gergale. Si dd’at nau in s. (gliel’ha detto sotto metafora). Sussèdiri, v. Succedere, capitare, avvenire. Il part. pass. è sussédïu, prevalentemente usato per indicare qualcosa di temuto. E ita t’at s.? 401 (cosa mai ti è capitato?). Sussédïu/a, agg. Avvenuto/a, capitato/a, succeduto/a. Sussulìa, s. f. Nibbio, uccello rapace in genere. In senso fig. donna insopportabile per la sua aggressività verbale Sustàntzïa, s. f. Sostanza. Sustantzïosu/a, agg. Sostanzioso/a. Sustenimentu, s. m. Sostento, sopportazione, resistenza. Sustènniri, v. Sostenere, reggere, sopportare, resistere. Non fait a ddu s. (non lo si può sopportare). Susténnïu/a, agg. Sostenuto/a. Meno usato di sustentu/a. Sustentai, v. Sostentare, nutrire. Sustentamentu, s. m. Sostentamento. Sustentau/ada, agg. Sostentato/a, nutrito/a. Sustentu, s. m. Sopportazione, resistenza. Sustentu/a, agg. Sostenuto/a, sopportato/a. Susuncu/a, s. e agg. Spilorcio/a, taccagno/a. Giüanni est unu s. legiu (Giovanni è un avaro della peggiore specie). Suta, avv. Sotto. Vedi a suta alla voce A con relative loc. avv. Sutana, s. f. Sottana. Sutascala, s. m. Sottoscala. Sutu/a, agg. Succhiato/a, sfrut- 402 tato/a. Part. pass. di sùiri. Sû/ sua, agg. poss. Suo/a. Sempre posposto al s. cui siriferisce. Sa tanca sua, su cüaddu sû (la sua tenuta, il suo cavallo), is tancas suas, is cüaddus sûs (le sue tenute, i suoi cavalli). Svirginadori, s. m. Sverginatore. Svirginadura, s. f. Sverginamento, deflorazione. Svirginai, v. Sverginare. Svirginau/ada, agg. Sverginato/a. PAOLO PILLONCA Mancarìas. La parlata di Seui 403 T Tabbacai, v. Assumere tabacco da naso. Un’abitudine che fino a pochi decenni fa era oggetto di una forte critica sociale forse perché a coltivarla erano soprattutto le donne. Tabbacamentu, s. m. Assunzione di tabacco da naso. Tabbachera, s. f. Tabacchiera. Tabbachera ’e margiani, s. f. Vescia (Lycoperdon pratense), piccolo fungo senza gambo, spugnoso, di colore bianco e di scarso pregio che va colto appena spuntato in quanto deperisce in fretta e si riempie di una sorta di polvere scura che somiglia al tabacco (da qui, evidentemente, il nome). Tabbacona, s. f. Donna che ha il vizio di assumere tabacco da naso. Tabbacu, s. m. Tabacco, fumo. Per est. sigaretta/e. Non portu t. (non ho sigarette). Tabbicu, s. m. Muro divisorio tra una stanza e un’altra. Vedi stabbicai. Taca, s. f. Intaccatura, incisione su legno per segnare una misura. Inferri in taca giusta (lett. trovare la giusta incisione) vale: colpire nel segno, trovare esattamenente quel che si cercava. Tachedda, s. f. Piccola incisione. La loc. avv. ironica a t. significa a credito. Vedi alla prep. A. Tacheddai, v. Incidere ripetutamente il legno. Tacheddau/ada, agg. Inciso/a. Tacia, s. f. Chiodo per scarpe. Le scarpe chiodate sono dette crapitas ataciadas. Vedi ataciai e derivati. Tàcinu, s. m. Rigagnolo, ruscelletto, corso d’acqua di durata stagionale. Esiste, però, anche il diminutivo tacineddu. Taconi, s. m. Tacco di scarpa. Se è piccolo si chiama taconeddu. Tacu, s. m. Altopiano e/o catena montuosa calcarea. Presente nella toponomastica locale data la grande presenza di massi calcarei. Il tacu più propriamente detto è però la vastissima zona che va da Gertzadili alla lunga cengia del Tónneri, uno dei simboli del territorio di Seui. Tàcula, s. f. Indica un insieme di 404 merli e tordi, tradizionalmente in numero di sedici (otto per ciascuna specie), che gli uccellatori del Campidano vendono dopo averli lessati e spiumati. La definizione dell’insieme suona piglionis de t. In senso fig. il s. si utilizza per indicare una bella ragazza: arratza ’e t. Taglieri, s. m. Tagliere. Ripiano di legno di varie dimensioni e fatture per tagliare la carne cruda o cotta ma anche per tagliuzzare cipolla, aglio e quanto serve a chi mette mano ai fornelli. In senso ir. indica propensione alla buona tavola. Tagligeddu, s. m. Piccolo gregge. Per lo più con lieve venatura di scherno verso gli allevatori ritenuti incapaci di costituirsi un gregge rilevante. Tagliu, s. m. Gregge, branco. Vedi stagliai. Talàmini, s. m. Letame. Nella parlata di Seui prevale la forma con metatesi delle sillabe iniziali rispetto a quella normale nella variante meridionale (ladàmini). Vedi atalaminai. Tamata, s. f. Pomodoro, piantina e frutto. Funge anche da nome coll. Nd’apu’oddìu sa t. (ho raccolto i pomodori). Tamburu, s. m.Tamburo. Tancita, s. f. Chiodo di dimen- PAOLO PILLONCA sioni ridotte ma dalla testa larga e quadrata, utile per fissare meglio le parti lignee sottili di supporto come il compensato - al legno vero e proprio. Vivo l’uso traslato. Vedi stancitau. Tanca, s. f. Terreno privato delimitato da un muro a secco o rete. Tancadura, s. f. Serratura, chiusura. Tanchita, s. f. Piccola estensione di terreno privato chiuso a muro o rete. Dim. di tanca. Tancu, s. m. Pezzo. Si dice della carne tagliata a pezzetti (fata a tancus), molto spesso con una sorta di venatura critica per la grossolanità del taglio. Tandu, avv. Allora. M’at nau füeddus in prus e de t. dd’apu negau su saludu (mi ha detto parole in più e da allora gli ho tolto il saluto). Quando l’avv. compone da solo un’interrogativa ellittica (tandu?) può valere: che cosa mi dici, che cosa hai deciso di fare? Più spesso è la prima parola che si scambia quando ci si rivede dopo un po’ di tempo, per avviare il discorso: e tandu? Tanïeli, n. pr. di pers. Daniele. Targa, s. f. Targa, per est. marchio di riconoscimento Targai, v. Targare. In senso lato: marchiare per sempre. Mancarìas. La parlata di Seui Targau/ada, agg. Targato/a. Tarocada, s. f. Partita a tarocchi. Imoi feus una t. (ora ci facciano una partita a tarocchi). Tarocai, v. Taroccare, calare uno dei ventuno tarocchi (sarebbero 22, in verità, con il Matto, che però è utilizzabile soltanto da chi se lo ritrova di volta in volta in dote). Vedi starocai (far perdere e/o esaurire i tarocchi). Tarocau/ada, agg. Taroccato/a. A orus no apu t. (a denari non ho taroccato). Tarocus, s. m. Tarocchi, gioco di carte. Sulla grande diffusione di questo particolare gioco a Seui l’ipotesi più accreditata è che sia stato importato alla fine del secolo scorso da dirigenti delle ferrovie (la linea che collega Seui a Cagliari da un lato e ad Arbatax dall’altro venne inaugurata nel 1894). Sta di fatto che il gioco è tuttora molto praticato anche dai giovani e questo costituisce perlomeno una singolarità. Tasca, s. f. Zainetto rustico di pelle di capra o vitello, un arnese che per secoli è stato di uso quotidiano per pastori e cacciatori. Oggi, oltre a resistere nella destinazione tradizionale di utilizzo, è diventato una sorta di complemento di look personale, maschile 405 e femminile, o di arredo. Quando è piccolo diventa taschigedda. La parola italiana tasca, invece, nella parlata di Seui come in tutte le altre e pressoché senza differenze di variante è busciaca. Tascapani, s. m. Tascapane. Taschinu, s. m. Borsellino. Tasi, s. f. Verso di animale. Sa t. ’e margiani (il verso della volpe). Ma può essere rif. anche all’uomo. Per una persona dalle grandi capacità imitative si suole dire: fait dónnïa t. (è capace di rifare qualunque verso, di uomo e di animale). Tasoni, s. f. Trappola costruita con una pietra legata a un bastone. L’espressione tentu a t. vale: catturato con la trappola. Altrove, in area linguistica campidanese, su t. è invece la rete impiegata dagli uccellatori. Ma l’uccellagione non è, e forse non è mai stata, una pratica diffusa a Seui. Tassa, s. f. Bicchiere. A t. a t, Antoni si nci bufat totu sa màriga (bicchiere dopo bicchiere Antonio si berrà l’intera brocca) Tassigedda, s. f. Piccolo bicchiere. Tassoni, s. m. Bicchierone, boccale. Tastu, s. m. Tasto. Tàula, s. f. Tavola. Indica genericamente le tavole appena abboz- 406 zate, senza gli ornamenti del lavoro del falegname. Täuledda, s. f. Tavoletta. Täuloni, s. m. Tavolone. Tebidesa, s. f. Tiepidezza. Tebiori, s. m. Tepore, tiepidezza. Tebi-tebi, agg. indeclinabile. Tiepido/a. Si dice soprattutto del latte che raggiunge la temperatura giusta per il caglio e/o la colazione. Techi, pr. indeclinabile. Qualunque, qualsiasi. Non ponit menti, t. ddi nerint (non dà retta, qualunque cosa gli dicano). Prob. una corruzione da ita chi (qualunque cosa che). Tecussèi, avv. Altrimenti. Beni imoi, t. mi nd’andu (vieni subito, altrimenti vado via). Tedassu, s. m. Setaccio. Tedescu/a, agg. Tedesco/a. Tega, s. f. Baccello, l’insieme delle due valve delle leguminose che racchiudono il frutto vero e proprio di fagioli, piselli, fave, carrube, etc. Tegadia, s. f. Larva d’insetto, tarlo. Si usa nelle imprecazioni, in una in particolare, ellittica del verbo: ancu sa t. (che ti si attacchi il tarlo). Teglia, s. f. Pietra piatta. Ma si usa anche, più genericamente, ad PAOLO PILLONCA indicare una pietra da scagliare contro q.no. La’ ca ti scudu una t. (guarda che ti lancio un sasso). Tela, s. f. Tela. Definisce il tessuto di cotone, lino, canapa e seta. Telargiu, s. m. Telaio. Si tratta del telaio tradizionale, interamente in legno, che quasi ogni famiglia dei paesi della Sardegna interiore possedeva per l’autosufficienza della produzione tessile domestica. Telefonada, s. f. Telefonata, chiamata telefonica. Telefonai, v. Telefonare. Teléfunu, s. m. Telefono. Tèmpera, s. f. Tempra, temperamento virtuoso. Temperai, v. Temprare, abituare. Soi temperau a bentu e soli, a ni’ e a gràndili (sono temprato al vento e al sole, alla neve e alla grandine). Temperare le matite. In senso iron., dd’at temperau a corpus (gli ha dato una sussa). Temperau/ada, agg. Temprato/a, avvezzo/a. Temperinu, s. m. Temperino, piccolo coltello. Temporada, s. f. Bufera, temporale, tempesta. Indica le perturbazioni dovute alle piogge, alle nevicate e alle grandinate, ma occorre precisare: una t. de abba, una t. de nì, una t. de gràndili (una tempe- Mancarìas. La parlata di Seui sta di acqua, di neve, di grandine), etc. Tempus, s. m. Tempo, lo scorrere dei giorni e degli anni che nessuno può fermare. Occorre prenderlo così come arriva. Benit su t. giustu po dónnïa cosa (arriva il tempo giusto per ogni cosa). L’aspetto bello, mediocre o brutto del cielo. Il beltempo è su t. bonu, il maltempo su t. malu. La saggezza degli anziani avverte: contras a su t. s’òmini non podit nudda (contro il tempo l’uomo non può nulla). Il tempo degli uomini è misurato da ciascuno sulla stagione della propria giovinezza. Non fut in tempus nostu (non era nel nostro tempo). Téndili, s. m. Tendine. Tèndiri, v. Tendere. No mi tendit mancu sa manu (non mi tende neppure la mano). Avere il vizio di rubare bestiame (gergale dei pastori). Alla lettera, il v. vale: allungare le mani. Cussu si costumat t. (quello ha il vizio di rubare bestiame). Téndïu/a, agg. Teso/a. Teni po teni, loc. avv. Quasi in parità. Ma anche: lì per lì, sul punto di. Espressione variamente articolata, anche in chiave ironicosarcastica. Lüisu fut t. po t. cun Antoni (Luigi era sul punto di rag- 407 giungere Antonio). Pressoché intraducibile alla lettera, bisogna ricorrere a forme perifrastiche. Per capirci, uno dei significati del verbo ténniri è: catturare dopo un inseguimento. Dd’at curtu e dd’at tentu (l’ha inseguito e raggiunto). T. po t. indica dunque quella particolare situazione in cui è sul punto di definirsi uno stato di parità tra contendenti di livello non eccelso. La loc. si usa per lo più in rif. a situazioni di contesa tra persone poco virtuose. Ténniri, v. Avere, possedere, disporre. No ndi tengiu (non ne ho), tenit dinari (ha soldi). Considerare. Dda tenit fidada (la considera fidata), Maria a su sposu ddu tenit po crobetori (Maria considera il fidanzato come un coperchio), Lüisu a sa pobidda dda tenit in prusu (Luigi considera la moglie un sovrappiù), ti tengiu po chini sesi (ti considero per ciò che sei), su chi m’at fatu Pìlimu ddu tengiu po befa (la condotta di Priamo nei miei confronti la considero una beffa). Catturare. Apu tentu un’angioni ’e murva (ho catturato un mufloncino), cuss’ebba est mala a t. (quella cavalla è difficile da prendere). Tentu/a, agg. Avuto/a, tenuto/a, ottenuto/a. Tenori, s. m. Canto tradizionale 408 antichissimo a quattro voci: un solista e tre coristi, senza alcun accompagnamento strumentale, una delle perle più rare dell’inestimabile patrimonio tramandatoci dai nostri antenati più lontani. Cussu piciocu cantat beni a t. (quel ragazzo canta bene a tenore). Conformità. A t. de su chi mi narat dd’arrespundu (secondo ciò che mi dice gli darò la risposta) Tentura, s. f. Cattura. Rif. al bestiame che pascola dove non dovrebbe. Tenturai, v. Catturare un animale sorpreso a pascolare abusivamente. Su cüaddu ’e Ubbaldu dd’at tenturau sa guardïa ’e muncìpïu (il cavallo di Ubaldo è stato catturato dalla guardia comunale). Tenturau/ada, agg. Catturato/a. Terra, s. f. Terra, il terreno che si calpesta e si lavora, anche quello incolto, sottosuolo compreso. Ma nella parlata di Seui questo sostantivo indica primariamente il territorio comunale, ossia il patrimonio incommensurabile che i cittadini attuali hanno avuto in eredità dai loro antenati nell’antica forma del possesso e dell’uso comune. La singolarità è data dal vincolo degli usi civici che assegnano la proprietà esclusiva dei quattordicimila ettari di terreno a ciascuno dei cit- PAOLO PILLONCA tadini residenti in parti uguali e i tre diritti basilari ed ineliminabili che ne conseguono: legnatico, erbatico e ghiandatico. Questa terra splendida, segnata da strapiombi e foreste secolari di leccio, profonde grotte carsiche e animali selvatici (mufloni, cinghiali, cervi, dàini, martore, falchi e aquile reali), accarezzata dalla neve e dal vento e sulla quale non ha mai avuto applicazione il famigerato editto delle chiudende di casa Savoia, non può essere venduta né affittata e non è nemmeno usucapibile. Verso questa singolare forma di proprietà esiste un sentire comune profondamente tenace, un legame di sentimenti tanto radicati che ricordano un rapporto filiale. Terra madre nel senso più genuino di queste due parole, dunque, quella di su comunali. Una madre carissima per i figli che l’hanno storicamente difesa: l’ultima rivolta di popolo risale al 1973, quando gli ottocento ettari di Orboredu, in pieno salto di Esterzili, vennero occupati per sottrarli a un contratto d’affitto illegittimo stipulato dal Comune con un allevatore forestiero. Sa t. dd’eus connota de is antigus nostus (la terra l’abbiamo ereditata dai nostri antenati): è una frase che si Mancarìas. La parlata di Seui risente di continuo, a Seui, ogni volta che si parla di su comunali, il territorio comune. L’impiego ordinario del s. dà luogo a una lunga serie di espressioni: totus depeus torrai a sa t. (tutti dobbiamo tornare alla terra), su primu est de sa t. (il primo frutto è della terra), sa t. nc’est in basciu (la terra è in basso), per burlarsi dei poltroni che non amano adoperare la zappa, fàiri unu e a t. (morire di colpo), dd’at postu a t. (l’ha licenziato). Vedi aterrai. Terramàina, s. f. Argilla. Terramanna, s. f. Continente. Terramannesu/a, agg. Continentale. Terrangiu/a, agg. Direttamente legato alla terra. Detto soprattutto di insetti e vermi. Terrosu/a, agg. Terroso/a. Tertzinu, s. m. Terzino. Gergale del gioco del calcio. Tertzu/a, agg. num. ord. Terzo/a. Tesoru, s. m. Tesoro. Tessidora, s. f. Tessitrice. Tessidura, s. f. Tessitura. Tessingiu, s. m. Tessitura. Tèssiri, v. Tessere. L’atto della tessitura al telaio a mano. Téssïu/a, agg. Tessuto/a, intessuto/a. Testadori, s. m. Assaggiatore. 409 Testadura, s. f. Degustazione. Testai, v. Assaggiare. Testamentu, s. m. Testamento. Testau/ada, agg. Assaggiato/a. Testimongiu, s. m. Testimone. Téula, s. f. Tegola. È anche nome coll. Mi bisongiat t. (mi servono tegole). Tëulaciu, s. m. Coccio di tegole. Funge da nome coll. Boddendi cussu t. (raccogli quei cocci). Tëulada, s. f. Copertura di tegole. È anche il nome di un paese del Sulcis, tra i più danneggiati dalle servitù militari in Sardegna. Tïaglia, s. f. Tovaglia. In senso lato - rif. a persona amante dei festini - figura nei soprannomi. Tiàmini, escl. Diamine. Tïanu, s. m. Concola, generalmente di terracotta. Usato anche il dim. tianeddu. Tïàulu, s. m. Diavolo, demonio. Spesso in frasi non riferite direttamente al maligno. Pesaminceddu cussu t. ’e marroni (levami di mezzo quel diavolo di zappa). Ticadura, s. f. Sbiadimento, perdita di brillantezza. Ticài(si), v. Scolorire, perdere brillantezza, sbiadire. Detto soprattutto dei tessuti. Cussu lantzoru est tichendusì (quel lenzuolo sta perdendo colore). Il v. si usa anche in rif. all’uomo che porta 410 sul volto i segni di qualche malattia. Coment’e bentina parit ticau (all’aspetto sembra che abbia una malattia interna). Ticau/ada, agg. Sbiadito/a, compromesso/a. Tichitaca, s. m. Ticchettio, tictac. Tiddu, s. m. Pezzo di legno squadrato che - a seconda delle dimensioni - può servire come base per le botti o come banco d’appoggio per sezionare la carne macellata. Tidili, s. m. Cercine. In senso fig., persona di scarsissimo valore. Est unu t. (è un miserabile). Tidongia/melatidongia, s. f. Mela cotogna. Tidori , s. m. Colombaccio (columba palumbus). Figura in un toponimo, T. Murru (colombaccio bianco). Tifosu/a, s. e agg. Tifoso/a, sportivo/a. Tifu, s. m. Tifo, salmonellosi. Timaculu, s. e agg. Pauroso, fifone. Timbradori, s. m. Timbratore. Timbradura, s. f. Timbratura. Timbrai, v. Timbrare. Timbrau/ada, agg. Timbrato/a. Timbru, s. m. Timbro, bollo. Tingia, s. f. Tigna, patologia della pelle. Met. povertà. Tingiosu/a, agg. Affetto/a da PAOLO PILLONCA tigna, tignoso/a. Tengiu is crabas totu tingiosas (ho tutte le capre malate di tigna). In senso fig. povero, misero, indigente. Est unu t. (è un poveraccio). Tìngiri, v. Tingere, colorare. Vedi intìngiri. Tinta, s. f. Inchiostro. Tinteri, s. m. Calamaio. Tintu/a, agg. Tinto/a, colorato/a. Tira, s. f. Tiraggio, trazione. Usato in loc. avv. Cussu calluciu ddu portat a t. (quel cagnolino ce l’ha sempre appresso). Tirada, s. f. Tirata, sforzo continuato. Viva la loc. a una t. Tiradura, s. f. Trazione. Tiragiu, s. m. Leva militare. Tirai, v. Tirare. Tirau/ada, agg. Tirato/a. Tirri, escl.. di sfida. Tìrrïa, s. f. Sfida, pervicacia, ostinazione. Poderat sa t. (si ostina nella sua sfida). Tirri marranu, s. m. Sfida aperta. Dd’at postu su t. m. (l’ha sfidato apertamente). Tirrïosu/a, agg. Ostinato, pervicace, prepotente. Tita, s. f. Mammella, seno. Si usa per la femmina dell’uomo e degli altri mammiferi. Titìa, escl. che esprime sensazione di freddo. Mancarìas. La parlata di Seui Titifoddi, agg. Dalle mammelle grandi. Gergale dei pastori, in rif. a capre e pecore. Titifrïus, s. m. Sensazione di freddo, tremore. Est a t. (trema dal freddo). Titona, agg. Tettona. Sin. di tituda. Tituda, agg. Pettoruta, dai grandi seni. Tocai, v. Toccare. L’atto e l’effetto del venire a contatto. In qualche caso indica il rapporto sessuale. A sa pobidda no dda tocat prusu (non ha più rapporti sessuali con la moglie). Assaggiare per la prima volta il vino nuovo. Cras tocaus su ’inu (domani assaggeremo il vino). Tocai, v. Occorrere, bisognare. Usato impersonalmente. At a t. a mòviri (bisognerà partire), tocat a coidai (occorre far presto). Tocau/tocada, agg. Toccato/a, rintoccato/a. Tocu, s. m. Tocco, contatto, tatto. Dd’apu connota a su t. (l’ho riconosciuta appena l’ho toccata). Tocu, s. m. Rintocco di campana, diverso a seconda dell’annuncio - lieto o triste - che deve dare. Su tocu per eccellenza segnala un decesso nella comunità: dd’ant intrau su t. (gli hanno già dedicato il rintocco). 411 Todonera, s. f. Preparazione di cibi. Il s. è usato in senso ir. per indicare i festini e le scorpacciate. Todoneri, s. e agg. Goloso, mangione, amante dei festini. Tonaglia, s. f. Tenaglia. Presente nei soprannomi. Tontassu/a, agg. Piuttosto sciocco/a. Tontesa, s. f. Scempiaggine, sciocchezza, azione o parola maldestra, stupidaggine. Non neris tontesas (non dire sciocchezze). Tontidadi, s. f. Sciocchezza. Sin. di tontesa. Tontigeddu/a, agg. Sciocchino/a. Tontonai, v. Socchiudere, accostare una porta senza chiuderla del tutto. Tontonau/ada, agg. Socchiuso/a. Tontu/a, agg. Tonto/a. Vedi balossu, bambassu, càdumu, codina codobba, conciofa, prupu. Topi, s. m. Sorcio, topo. Volg. vagina, fica. Bellu t. (bella ragazza). Torracontu, s. m. Tornaconto, guadagno, lucro. Torrada, s. f. Ritorno, rientro. Torrada, s. f. Ritornello di una canzone. Vedi stèrrida. Torrai, v. Tornare, ritornare, come verbo di moto a e da luogo. 412 Domìnigu fortzis ap’a t. a bidda (domenica forse tornerò in paese). Ma ha anche numerosi altri significati. Insistere. E ddu-i torrat (ecco che insiste). Rispondere. Si dd’apu pregontau ma Lüisu no m’at torrau nudda (gliel’ho chieto ma Luigi non mi ha dato alcuna risposta). Con l’avv. mali asssume il significato di dimagrire. Mi paris torrau mali meda (mi sembri molto dimagrito). Restituire. Si ddu depu t. (glielo devo restituire). Rinvenire da una lipotimia. Lüisu s’est addramäinau totu in-d-una e no arrennescia a ddu fàiri torrai (Luigi è svenuto d’un colpo e non riuscivo a farlo rinvenire). Vedi addramäinàisi. Ritorcersi contro. Ti ndi torrat in càrigas (ti si ritorcerà contro, lett. sul naso). Vedi càriga. Torrau/ada, agg. Ritornato/a, restituito/a, risposto/a. Tostadassu/a, agg. Tendente alla durezza, piuttosto duro/a. Nella parlata di Seui, il suffisso -assu attenua il significato dell’aggettivo, assumendo quasi la funzione di diminutivo. Vedi bambassu, fridassu, salidassu, etc. Tostadura, s. f. Indurimento. Tostai(si), v. Indurire, indurirsi. Dd’at tostau sa ciligia (l’ha indurito la brina), cussu durci si tostat PAOLO PILLONCA (quel dolce si indurisce). Il part. pass. tostau è anche sin. di cocciuto, testardo, poco intelligente, duro di comprendonio. Tostau/ada, agg. Duro/a. Tostóinu, s. m. Testuggine, tartaruga. Totoni, n. pr. di pers. Antonio, vezzeggiativo Totorgiai/atotorgiai, v. Attorcigliare. In senso fig. confondere, complicare le cose. Totorgiau/ada, agg. Attorcigliato/a. Totorgiu, s. m. Attorcigliamento, complicazione, confusione, tranello. Lassamì is totorgius (lasciami stare le complicazioni). Totori, n. pr. di pers. Salvatore, vezzeggiativo. Frequente il dim. Totoreddu. Trabbagliai, v. Lavorare. Rif. a tutti i tipi di lavoro, specie a quello manuale. Trabbaglianti, agg. Amante del lavoro. Trabbagliau/ada, agg. Lavorato/a. Trabbagliosu/a, agg. Difficoltoso/a, difficile da realizzare. Trabbagliu, s. m. Lavoro. In bidda no nc’iat t. e est tocau a partiri (nel paese non c’era lavoro e siamo stati costretti ad emigrare). Ma anche difficoltà, preoccupa- Mancarìas. La parlata di Seui zione. A fàiri su chi ’olit dd’at a donai t. (per fare ciò che vuole avrà difficoltà). Faticare. Viva la loc. a t. (a fatica). Tradùsiri, v. Tradurre. Cussu piciocu tradusit de paricias limbas (quel ragazzo traduce da diverse lingue). Decodificare, intuire, immaginare. Su chi no m’at nau soi arrennéscïu a si ddu t. äici etotu (sono riuscito ad intuire ugualmente anche ciò che non mi ha detto). Tradùsïu/a, agg. Tradotto/a. Anche in senso lato, come per gli altri tempi e modi del verbo. Tradutzïoni, s. f. Traduzione. Tragagliai, v. Mormorare, criticare alle spalle, in assenza del criticato. Ndi tragagliat de genti, cussa (quanta gente critica, quella). Tragagliau/ada, agg. Criticato/a. Tragagliu, s. m. Critica, mormorio. Tragai, v. Trasportare. Nd’apu tragau totu sa linna po s’ierru de su padenti a su caminu (ho trasportato tutta la legna per l’inverno dalla foresta alla strada). Tragau/ada, agg. Trasportato/a. Tragera, s. f. Nome collettivo che indica i confettini di zucchero tondi, minuscoli e multicolori, che servono come ornamento di 413 alcuni tipi di dolci. Tragiu, s. m. Modulazione di voce, stile di canto. Träìgiri, v. Tradire. Part. pass. traìgïu e traitu. Träitori, s. m. Traditore. Träitorìa, s. f. Tradimento, inganno. Trama, s. f. Trama, il complesso dei fili che si intreccia con l’ordito attraverso la spola nel telaio. Gergale delle tessitrici. Trampaneri, s. f. Imbroglione, inaffidabile, ingannevole. Tràmuda, s. f. Transumanza. Indica l’operazione autunnale di trasferimento del bestiame dai pascoli alti a quelli di pianura e il corrispondente viaggio di ritorno sulla montagna subito dopo la prima metà di maggio. Trànsiri, v. Spostare. Su fosili fut innoi, chelegunu dd’at trànsïu (il fucile era qui, qualcuno l’ha spostato). Ma anche, più in generale: cambiare, mutare, passare, in un modo di dire ormai desueto: transit ora, transit puntu (passa l’ora, sfuma l’occasione) e nell’espressione de igui non transit (da lì non si sposta), riferito a una conclusione obbligata, stante una determinata premessa. Trànsïu/a, agg. Spostato/a, cambiato/a di posto. 414 Trapa, s. f. Botola lignea. Nelle case di una volta, che non avevano pavimento in muratura, dava adito ad una scala che conduceva al piano successivo, generalmente al pianoterra o alla soffitta. Trassa, s. f. Furberia, imbroglio, inganno, tranello Trassai, v. Macchinare, imbrogliare, ingannare. Trasseri/a, agg. Imbroglione/a, fraudolento/a. Usata anche la variante trassistu. Trassinnadori, s. e agg. Falsificatore. Trassinnadura, s. f. Contraffazione dei segni del bestiame. Trassinnai, v. Contraffare i segni identificativi del bestiame. Trassinnau/ada, agg. Contraffatto/a, falsificato/a. Trassudda, s. f. Il s. è usato esclusivamente nella similitudine cotu che trassudda (ubriaco fradicio). A meno che non si tratti del nomignolo di un ubriacone rimasto famoso e nello stesso tempo anonimo - nel senso che è impossibile dargli nome e cognome -, così soprannominato, come avviene di frequente nella parlata di Seui: unfrau che Lorrai, tzurpu che tzia Tzipiredda, etc. Vedi unfrau e tzurpu. Trasti, s. m. Attrezzo, arnese. PAOLO PILLONCA Trata, s. f. Traccia, orma. Tratabucu, s. m. Fazzoletto da naso. Desueto. Tratacasu, s. m. Grattugia per il formaggio. Vedi tresinacasu. Tratai, v. Intrattenere relazioni. Cun cussu non tratat (con quello non ha rapporti). Trattare. Dd’apu ’idu ’eu cun is ogus mius e comenti ddu tratant (ho visto con i miei occhi come lo trattano). Grattugiare. No iscìt nemancu t. su casu (non sa neppure grattugiare il formaggio). In questa accezione vedi tresinai. Tratalìa, s. f. Interiora dell’agnello, del capretto e talora del suino lattonzolo, avvolte nell’intestino ripulito degli stessi animali e cotte arrosto. Figura nei soprannomi. Tratamentu, s. m. Trattamento, modo di comportarsi nei confronti del prossimo. Iat éssiri a biri su t. (bisognerebbe vedere il comportamentu). Traténniri, v. Trattenere, fermare, intrattenere. Il part. pass. è tratésïu e traténnïu. Vedi apoderai. Trau, s. m. Fenditura, ferita. Per estensione: àsola, pur sempre una fenditura. Trava, s. m. Pastoia di ferro. Travas sono anche i famigerati ferri di campagna. Di qui l’uso Mancarìas. La parlata di Seui della parola anche nell’imprecazione ellittica del pred. verb.: is travas (sott. ti pongiant, ti mettano). Trébini, s. m. Tripode in ferro usato nei caminetti per reggere pentole e padelle. Trebussu, s. m. Forcone a tre punte, tridente. Vedi atrebussai. Tréigi, agg. num. card. Tredici. Trèmini, s. m. Limite, confine tra una proprietà terriera e un’altra. Vedi atremenai. Trèmiri(si), v. Tremare. Chi dd’abóginas Linu si trémit (Se alzi la voce Lino trema). Trémïu/a, agg. Tremato/a. Trempa, s. f. Guancia. In senso lato indica anche quelle pareti delle montagne che dànno l’idea di una guancia. Vedi cùcuru, sedda e serra. Tremposu/a, agg. Superbo/a, grintoso/a. Lett. che mostra la mascella. Trémula, s. f. Tremore, tremolìo. Tremulanti, agg. Tremante, tremebondo. Tremuledda, s. f. Lieve tremore. Trenïeddu, s. m. Trenino. Trenu, s. m. Treno. Pres. nei soprannomi. Tres, agg. num. card. Tre. Nella pronuncia, in fine di frase acquista 415 la vocale paragogica (tresi): nde dd’apu ’onau tresi (gliene ho dato tre). In corso di frase, davanti alle consonanti b, d, g, m, n, si muta in r. (trer bois, tre buoi; trer dentis, tre denti; trer gatus, tre gatti; trer mous, tre starelli; trer nais, tre rami). Davanti alla l si assimila: trellobus (tres lobus, tre lacci). Davanti a tutte le altre consonanti conserva la s (tres canis, tre cani; tres puddas (tre galline); tres funis (tre funi); tres sirbonis (tre cinghiali); tres téulas (tre tegole). Pres. nei soprannomi. Tresinacasu, s. f. Grattugia per il formaggio. Vedi tratacasu. Tresinadura, s. f. Grattugiamento. Tresinai, v. Grattugiare. Mi soi scaréscïu ’e t. su casu (ho dimenticato di grattugiare il formaggio). Più in generale, provocare escoriazioni. Dd’at tresinau unu ’rassu (gli ha procurato escoriazioni a un braccio). Tresinau/ada, agg. Grattugiato/a, escoriato/a. Tressa, s. f. Camminamento stretto fra le rocce. Figura in più di un toponimo della zona del Tónneri, dove quei passaggi sono frequenti e in un altro - proprio Tressa - nella parte bassa del territorio comunale. 416 Tressai, v. Attraversare. Soprattutto in senso fig. Chi ddi tressat fait dannu (se gliene viene voglia fa danno). Frequente la loc. avv. de tressu, di traverso. Tressau/ada, agg. Attraversato/a. Tresseti, s. m. Tressette, gioco di carte. Tressu/trüessu, s. m. e agg. Traverso. Desueto. Tretu, s. m. Spazio poco esteso. La loc. avv. a tretus - spesso anche reiterata - vale: parzialmente, non del tutto. Trëuladura, s. f. Trebbiatura. Ma il s. viene usato in senso ironico, specie nella loc. avv. a t., per indicare un disordine simile al caos dell’aia. Trëulai, v. Trebbiare. In senso fig. portare disordine, sconvolgere, provocare caos. Anche nella forma rifl. Si trëulat (va fuori di sé). Trëulau/ada, agg. Trebbiato/a. In senso fig. travolto/a dall’ira. Trëulera, s. f. Trebbiatura. Tréulu, s.m. Baruffa, disordine, sconvolgimento, confusione. Ddu at sussédïu unu t. mannu (è scoppiata una grande baruffa). Trevessai(si), v. Mettersi di mezzo. Trevessu/a, agg. Contorto/a, PAOLO PILLONCA cattivo/a, ostinato/a, sconcertante. L’espr. andai a t. vale: vagare senza meta. Trevessura, s. f. Azione disdicevole. Fatu fatu fait cheleguna t. (spesso commette azioni sconcertanti). Trïateri, s. m. Teatrante. Trïatu, s. m. Teatro. Per est. divertimento, scherzo, spasso. Ddi pragit a fàiri t. (gli piace scherzare da protagonista). Tridussa, s. f. Pecora tosata tre volte, dunque di quattro anni. Triga, s. f. Pergolato. Trigiolu, s. m. Tovagliolo grezzo in cotone o juta. Tra gli usi frequenti, quello di avvolgere su casu in fìligi (vedi) per togliergli su soru, il siero. Trigu, s. m. Grano. Trilla, s. f. Sussa, percossa. Rif. soprattutto ai bambini. Nd’at boddìu una grandu t. (ha preso una sussa solenne) Trillai, v. Percuotere, picchiare per punizione i bambini disubbidienti e/o discoli. Trillau/ada, agg. Picchiato/a, sempre rif. a bambini. Trinca, s. f. Gruppo di tre diverse carte importanti dello stesso seme oppure di tre carte uguali di semi diversi. Gergale del gioco delle carte. Mancarìas. La parlata di Seui Trincada, s. f. Bevuta. Trincai, v. Bere. Lo si impiega quasi escl. in tono scherzoso. Ndi trincat de binu, cuddu (ne beve di vino, quello). Trincau/ada, agg. Bevuto/a. Trincera, s. f. Ammucchiamento di neve dovuto al vento. Trinceramentu, s. m. Trincea. Gergale residuale dei soldati delle ultime guerre. Trincheteddu, s. m. Passettini svelti di piccoli animali. Linu fut andendu a t. ’e cani (Lino camminava a passettini svelti come un cane). Trinchetu, s. m. Passo svelto, riferito soprattutto all’andatura di animali di taglia media. Presente nei soprannomi. Trinciau, s. m. Tabacco trinciato. Trincu, s. m. Ferita (leggera) da taglio. Trinnitai, s. m. Ornare, ingioiellare. Sarcastico. Chini trinnitat spingit (chi ingioiella ha diritto di fare l’amore). Trinnitu, s.m. Ornamento, gioiello. Usato prevalentemente in senso ir. Trinta, agg. num. card. Trenta. Vivi i modi di dire su chi fait t. fait trintunu (ciò che fa trenta fa trentuno) e su chi fait trinta fait coran- 417 ta (ciò che fa trenta fa quaranta), nel senso di un’esortazione a non essere pignoli. Trinu/a, agg. Celeste. Portat is ogus t. (ha gli occhi celesti). Tristura, s. f. Tristezza. Si usa anche per definire una situazione imprevista difficile da risolvere e piena di complicazioni gravi: est una t. (è una tristezza). Vedi intristai. Tristu/a, agg. Triste. La similitudine più frequente è t. che-i sa noti (triste come la notte). Trobea, s. f. Pastoia. Pres. nei soprannomi. Trobidori, s. m. Impastoiatore. Trobidura, s. f. Impastoiamento. Competenza al limite della specializzazione, più che mai utile durante le operazioni di tosatura quando occorre essere svelti nell’impastoiare le pecore per farle trovare pronte ai tosatori. Trobiri, v. Impastoiare. Trobi s’ebba (metti le pastoie alla cavalla). In senso fig. vale confondere. Al rifl. incepparsi. Si trobit füeddendu (si inceppa nel parlare). Trobìu/a, agg. Impastoiato/a. In senso fig.: incerto/a, insicuro/a, balbettante. Tróciri, v. Spostare. Troci cussa càvana (sposta quella roncola). Vedi trànsiri. 418 Trócïu/a, agg. Spostato/a. Troddïai, v. Scorreggiare. Troddïoni, s. m. Scorreggione. In senso fig. persona di scarsissimo valore, incapace di autocontrollo. Tròddiri(si), v. Muovere, muoversi. Usato in senso ir. Non si podit t. (non riesce a muoversi). Tróddïu, s. m. Scorreggia. Met. chiacchiera, pettegolezzo, ciarla. Ndi ’oddit dònnïa t. (raccoglie ogni tipo di pettegolezzo). Troga, s. m. Imbroglio, pretesto, raggiro, scusa, sotterfugio. Lassamì is t. (mettimi da parte i pretesti). Usata la loc. avv. in t. (con un inganno). Trogai, v. Avvolgere. Trogamiddu in-d-unu pannu (avvolgimelo in un panno). In senso met. imbrogliare. Dd’at trogau (l’ha ingannato). Trogheri, s. m. Imbroglione, inaffidabile. Trogiai(si), v. Vestir male sé stesso o altri, abbigliarsi sconvenientemente. E poita ti trogias aici? (perché ti vesti così male?). Trógulu, s. m. Persona maldestra e dal passo malfermo, che inciampa facilmente. Troïa, s. f. Puttana, troia. Trona, s. f. Pulpito. Per estensione, luogo di privilegio. Giai ndi calas de cussa t. (sei destinato a PAOLO PILLONCA scendere da quel pulpito). Tronai, v. Tuonare. Indica il fenomeno atmosferico. A primu atongiu costumat t. meda (all’inizio dell’autunno si verificano molti tuoni). Candu tronat, su lampu est (pr. er) giai calau (quando tuona, il fulmine è già sceso). Tronu, s. m. Tuono. Anche in senso fig. Dàrïu fut amelessendu lampus e t. (Dario minacciava lampi e tuoni). Molto usata la met. furint prus is sonus chi no is t. (erano più i rumori che i tuoni). Vivo nell’imprecazione ancu ti calit t. (che ti scenda un tuono). Trotu/a, agg. Storto/a. Met. nella loc. avv. a t. (maldestramente). Trubu, s. m. Getto forte d’acqua piovana o di fonte. Cussa funtana calat a t. (quella fontana dà un forte getto d’acqua). Truddoni/a, agg. Grosso/a, maldestro/a, persona dai movimenti difficoltosi. Trudu, s. m. Tordo (turdus philomelus o turdus musicus). In senso fig. introverso, taciturno (rif. soltanto ai maschi). Trüiscu, s. m. Dafne montana (dafne mezereum), usata con l’euforbia e la saponaria per avvelenare i fiumi. Trulu/a, agg.Torbido/a. Cussu ’inu est t. (quel vino è torbido). Mancarìas. La parlata di Seui Vedi intrulai. Trumbugliai, v. Scuotere, sconvolgere. Trumbugliau/ada, agg. Sconvolto/a, scosso/a. Trumbugliu, s. m. Confusione, sconvolgimento. In sa festa ddu at sussédïu unu grandu t. (nella festa sono scoppiati gravi disordini). Truma, s. f. Gruppo numeroso, torma, comitiva. Con venatura di spregio. Ndi ’enint sempir a trumas (arrivano sempre in gruppi numerosi). Truncadura, s. f. Troncamento. Truncai, v. Troncare. Truncau/ada, agg. Troncato/a. Truncheddu, s. m. Piccolo tronco. Trunchesina, s. f. Piccola tenaglia a forma di becco di uccello rapace utilizzata per tagliare il filo di ferro. Tronchesina. Trunconassu, s. m. Uomo impacciato, grossolano. Presente nei soprannomi. Trunconi, s. m. Grosso tronco. Truncu, s. m. Tronco. Trunculimba(a), s. m. Spezzetatura di discorso, come se chi lo pronuncia avesse la lingua mozza (truncada). Usato nella loc. avv. a t. Trunfa, s. f. Scacciapensieri. Strumento musicale, secondo alcuni di probabile origine medio- 419 rientale, costituito da una piccola lamina in acciaio fissata a un supporto in metallo. Si suona appoggiandolo alle labbra e facendone vibrare la làmina. Trutera, s. f. Tegame di terracotta, zuppiera. Presente nei soprannomi. Tudai, v. Ricoprire di terra, seppellirre. Tudau/ada, agg. Ricoperto/a di terra, seppellito/a. Tüedda, s. f. Cespo di funghi spuntati tutti insieme in numero consistente. Eriseru apu agatau una bella t. ’e cardulinu ’e petza (ieri ho trovato un bel cespo di funghi da férula). Tui, pr. pers. Tu. Può fare da soggetto (naramiddu t., dimmelo tu; imoi nci ses t., adesso ci sei tu) e da compl. (soi nendu a t., dico a te; de t. no mi ddi àiri crétïu, da te non l’avrei mai creduto; peus po t., peggio per te). Tumbu, s. m. Canna principale delle läuneddas, che fa da bordone. Vedi mancosa e mancosedda. Tundidori, v. Tosatore, tonsore. Tundidura, s. f. Rasatura di capelli e velli. Freq. in loc. avv. Tundimenta, s. f. Tosatura delle pecore. Sa t. indica l’operazione canonica, che si verifica alla fine della primavera negli ovili, con 420 una gran festa che tradizionalmente coinvolge vicini di pascolo e ospiti esterni. Oggi in declino anche per l’inesistenza del mercato della lana, la si celebra come un normale spuntino agreste. Tùndiri, v. Tosare. Part. pass. tùndïu/a. Si riferisce alle pecore oggi passate quasi totalmente dalle cesoie tradizionali alle macchinette a batteria- scherzosamente anche agli uomini. Mi parit ca mi tundu (quasi quasi mi taglio i capelli). Tùndïu/a, agg. Tosato/a, rapato a zero. Tundu/a, agg. Rotondo/a, tondo/a. Vedi atundai. Tùnigu, s. m. Rudere, relitto fisico e morale. Vivo nell’espressione est unu t. ’eciu (è un vecchio rudere). Tupa, s. f. Macchia, nascondiglio. Tupadura, s. f. Chiusura a tappo. Tupai, v. Tappare, chiudere per bene. Per est. si impiega anche per invitare in modo brusco le persone troppo loquaci a chiudere finalmente la bocca, nell’espr. ellittica del compl. oggetto tupadì (lett. tàppati, sott. la bocca). Tupau/ada, agg. Tappato/a, chiuso/a a dovere. Tuponi, s. m. Tappo di dimen- PAOLO PILLONCA sioni superiori alla media. Turnichetu, s. m. Tornante, curva a gomito. Francesismo entrato nella parlata di Seui, come altri, per effetto della migrazione massiccia di minatori seuesi in Francia nei primi decenni del secolo scorso. Vedi boïabbessa, botada, brichetu, sortiri. Turra, s. f. Mestolo. Più precisamente, turra cofuda è il mestolo vero e proprio, turra stampada indica invece la schiumarola. In senso fig. deficienza, scempiaggine. Est una t. (è un cretino), ndi portat de t. cussu (ne ha di scempiaggine, quello). Turradori, s. m. Tostatore, tostino. Utensile cilindrico a manico lungo, fino a non molti anni fa comunemente usato per la tostatura del caffè e dei ceci. Turradura, s. f. Tostatura. Turrai, v. Tostare. Rif. principalmente al caffè, ma anche alle nocciole, etc. In senso fig. rincitrullire, deteriorare. Est totu turrau (è completamente rincretinito). Turrau/ada, agg. Tostato/a. In senso fig. rimbecillito/a. Turri, s. f. Torre. Turronaïu, s. m. Torronaio, produttore e/o venditore di torrone. Turroni, s. m. Mestolone. In senso fig. deficiente, cretino. Turroni, s. m. Torrone. Attual- Mancarìas. La parlata di Seui mente nessuno lo produce più, ma tra la fine del 1800 e i primi del secolo scorso esisteva nel paese qualche laboratorio artigianale. Lo testimonia una fonte affidabilissima, il medico storico di Seui Demetrio Ballicu, in una sua pubblicazione (Brevi saggi di indole varia, 1977, cit.). Pres. nei soprannomi. Turta, s. f. Torta. Tussi, s. m. Tosse. Con qualche spec. ulteriore: t. canina, ad es., è la pertosse. Tùssiri, v. Tossire. Custu mengianu su pipìu no at tùssïu nudda (stamane il bambino non ha tossito affatto). Tùturu, s. m. Mattarello. Tû/tua, agg. e pr. poss. Tuo/tua. Sempre posposto al s. cui si riferisce. Is crabas tuas (le tue capre), is procus tûs (i tuoi maiali). Tuva, s. f. Albero cavo nella parte iniziale del tronco. Tùvara, s. f. Erica (Erica scoparia). La def. è generica, dell’arbusto nel suo insieme. Se invece si vuole distinguere fra le diverse parti dello stesso si precisa: matoni indica l’arbusto, cambu il ramo, codina la radice Nei rituali magico-religiosi del mondo pastorale i rami dell’erica in fiore venivano utilizzati, nelle ore canoniche del 421 tramonto e dell’alba, per accompagnare la pronuncia dello scongiuro nel rituale terapeutico messo in atto per far guarire il bestiame affetto da ferite purulente.(su ’e scùdiri). Tuvaredda, s. f. Prataiolo (psalliota campestris), fungo frequente in boschi e prati nei pressi dei macchioni di erica scoparia ma non solo. Tuviri, v. Rendere cavo. Detto soprattutto del materiale ligneo. Il part. pass. (tùvïu) lo si utilizza in un’imprecazione-maledizione che suona tùvïu ’e is canis (scavato dai morsi dei cani). Tùvïu/a, agg. Reso/a cavo. Tuvu, s. m. Cavità fluviale che funge da nascondiglio per i pesci. Pìlimu piscat a manu in t. (Priamo pesca tenendo la mano nella cavità). Luogo riparato, conca. Presente nella toponomastica per due località: Tuvusarci, appena sopra Arcèli, e T. ’e porcilis, al confine con Päuli nella parte alta del territorio comunale, zona ricchissima di lecci secolari, nel cuore del Tacu, a oltre mille metri di altitudine. Tuvudu/a, agg. Cavo/a. 422 PAOLO PILLONCA TZ Tzacada, s. f. Colpo. Tzacadura, s. f. Fenditura, spaccatura. Tzacài(si), v. Picchiare. Ddi tzacat de cropus (gli dà una sussa). Nel rifl. scoppiare, dare in escandescenze. Non ti tzachis (non scoppiare). Tzacheponi (tzaca e poni), s. m. Gioco che consiste nel sorteggiare inizialmente una sorta di vittima predestinata a ricevere sul palmo di una mano dei forti schiaffi da uno dei partecipanti che la vittima non vede, avendo le spalle voltate rispetto a lui e agli altri giocatori, e dunque deve tentare di individuare girandosi immediatamente dopo aver ricevuto il colpo. Il colpito che indovina diventa giocatore attivo e il suo posto viene preso dal colpitore scoperto. Un tempo assai diffuso, ora è quasi dimenticato. Tzàchidu, s. m. Botto, fragore, frastuono, rumore improvviso e violento, scoppio. Apu inténdïu unu tz. (ho sentito uno scoppio). Tzafaranu, s. m. Zafferano, col- tivazione un tempo assai frequente negli orti di Seui. Viva la similitudine che-i su molenti chi non connoscit su tz. (come il somaro che non conosce lo zafferano), per definire una mancata intuizione o una svista clamorosa. Tzapulada, s. f. Sistemazione di toppe. Ma il s. è più usato nel linguaggio traslato per indicare una caduta in cui viene colpito il posteriore. At fertu una tz. (è incappato in una caduta). Anche in senso fig. per indicare un intoppo o un pasticcio. Bella tz. ’e cosa ant apariciau (hanno preparato un bel pasticcio). Tzapulai, v. Rattoppare, mettere le toppe. Riferito soprattutto ai pantaloni maschili. Tzapulau/ada, agg. Rattoppato/a. Tzàpulu, s. m. Toppa. Ma anche nel senso di: straccio, pezzo di tela, cotone o lana da buttare. Est prenu ’e tzàpulus (è pieno di stracci). Tzegu/a, s. e agg. Deficiente, stupido/a, incapace, stolto/a. Est una tz. (è una cretina). Verosimile Mancarìas. La parlata di Seui il passaggio dalla sfera reale della cecità - come in altre varianti della lingua sarda - a quella metaforica dell’insipienza. Ma per indicare un non vedente si usa il s. tzurpu/surpu. Tzeracu/a/intzeracu, s. e agg. Servo/a. Piuttosto desueto, nella parlata attuale gli si preferisce largamente serbidori/a. Tzerimónïa/tzirimónïa, s. f. Argomento di conversazione, oggetto di discorso o di dialogo. Nd’eus pigau tz. (abbiamo toccato l’argomento). Tzerimonïai/tzirimonïai, v. Citare in assenza dell’interessato, riferirsi con favore ad una persona assente. Ti tzerimonïaus fatu fatu (ogni tanto parliamo di te). Tzerimonïau/ada, agg. Citato/a, nominato/a. Tzerpi/serpi, s. m. Serpe, rettile in genere. Per estensione definisce qualunque animale di piccole dimensioni ma fastidioso. Anche in senso figurato, per indicare persona irascibile e pressoché intrattabile. Est unu tz. Tzerrïada, s. f. Chiamata ad alta voce. Tzerrïadori, s. f. Strillone. Tzerrïadura, s. f. Serie di strilli. Pres. in loc. avv. Ddu lamat a-i tz. (lo chiama con una serie di strilli). 423 Tzérrïai, v. Gridare, chiamare ad alta voce, strillare. Vedi intzerrïai. Tzerrïamentu, s. m. Alto grido. Quasi sin. di tzerrïadura. Tzérrïu, s. m. Grido, strillo. Vedi intzérrïu. Tziddica, s. f. Cispa. Tziddicosu/a, agg. Cisposo/a. Per est. malandato, sprovveduto. Tzifarosa, n. pr. di persona. Sinforosa. Tzinnivurargiu, s.m. Ginepraio, bosco folto di ginepri, terra adatta al ginepro. Tzinnìvuru, s. m. Ginepro (juniperus oxycedrus).Il s. stavolta indica soltanto l’albero e non il frutto, che prende il nome di bacaredda de tz. L’olio essenziale, secondo Demetrio Ballicu, ”è dotato di triplice attivtà: diuretica, antisettica delle vie urinarie e balsamica”. Il ginepro abbonda nella parte alta del territorio di Seui, talvolta anche in splendida solitudine, specie sui costoni della zona che va da Sa funtana ’e su cróculu a Gersadili e oltre. Tzipirargiu, s. m. Terreno adatto alla proliferazione del rosmarino. Tzìpiri, s. m. Rosmarino (rosmarinus officinalis), arbusto presente in gran copia in varie zone del territorio comunale, con particolare 424 abbondanza a Monti ’e susu, zona di S’’émida. Tzìpula, s. f. Frittella. Usato anche il dim. tzipuledda. Tzïeddu, s. m. Persona anziana e minuta. Tzïu, s. m. Zio. Il s. definisce la parentela in senso stretto ma è anche epiteto di rispetto nei confronto delle persone anziane. Tzopìmini/sopìmini, s. m. Zoppia. Gli anziani preferiscono la forma più antica: sopìmini. Vedi atzopïai/assopïai. Tzopu/sopu/a, agg. Zoppo/a. Usata dagli anziani la forma sopu/a. Tzucurera, s. f. Zuccheriera. Tzucuritu, s. m. Singhiozzo. Tzùcuru, s. m. Zucchero. Tzudda, s. f. Setola. Vedi intzuddai. Tzullu-tzalla, nome giocoso e senza senso, ma presente nei soprannomi. Tzurfurai, v. Dare lo zolfo in polvere alle vigne. Gergale dei viticoltori. Tzùrfuru, s. m. Zolfo. Tzurpìmini, s. m. Cecità. Vedi surpìmini. Tzurpu/a, agg. Cieco/a. Spesso accompagnato da una similitudine: tz. che tzïa Tzipiredda (cieco come la signora Tz.), donna di cui PAOLO PILLONCA oggi si ignora tutto, dunque vissuta in un tempo ormai molto lontano. Vedi intzurpai e surpu. Mancarìas. La parlata di Seui 425 U Ubbidïentzïa, s. f. Obbedienza. Ubbidiri/obbidiri, v. Ubbidire, essere ubbidiente, dar retta. Ma il verbo più usato per dire di un’ubbidenza è pònniri menti. Ubbidiu/a, agg. Ubbidito/a. Ùbbitu, s. m. Fatalità improvvisa e funesta. La voce è ridotta alla loc. avv. est mortu ’e ùbbitu (è morto improvvisamente). Ufìtzïu, s.m. Ufficio. Fino a pochi decenni fa, s’u. per eccellenza era il Comune, oggi il s. può indicare qualunque tipo di ufficio. Uglieras, s. f. Occhiali da vista, ma anche - per estensione e con tono lievemente ironico - altri tipi di occhiali, anche da sole. Si usa solo al plurale. Ula, s. f. Neo, macchia sull’epidermide. Un modo di dire, tra proverbio e filastrocca, riferito alla donna, suona così: u. in su sugu, pobiddu corrudu (neo sul collo, marito cornuto). ’Uli, s. e agg. Bovino. Pegus (pron. pegur) de ’u. (capo di bestiame bovino), petza ’e ’u. (carne bovina), paru ’e ’u. (razza bovina) Ùlimu, s. m. Olmo (Ulmus campestris). S’ù. ’e Paùli, nella parte alta del territorio comunale, in un bosco abbondante d’acqua tra Gersadili e S’arenedda bïanca, piantato agli inizi del Novecento, è un albero monumentale di dimensioni così rilevanti da avere quasi assunto il valore di vero e proprio toponimo, tanto che da qualcuno lo si indica senza compl. di spec. Umanidadi, s. f. Umanità, sentimento di solidarietà. In dónnïa cosa ddu-i ’olit unu pagu ’e u. (in ogni azione ci vuole un po’ di umanità). Umanu/a, agg. Comprensivo/a, solidale, amorevole. Umbra, s. f. Ombra. Umbra ’e figu è la sfortuna. Vedi äumbrai. Umbragu, s,. m. Riparo ombroso. Umbrosu/a, agg. Ombreggiato/a. Umidadi, s. f. Umidità. Ùmidu/a, agg. Umido/a. Ùmili, agg. Umile. Umilïai, v. Umiliare, avvilire, maltrattare. 426 Umilïatzïoni, s. f. Umiliazione, avvilimento. Umilïau/ada, agg. Umiliato/a, avvilito/a, maltrattato/a. Umilidadi, s. f. Umiltà, modestia, disponibilità verso il prossimo. Una delle virtù più apprezzate. Umperai, v. Adoperare, usare, utilizzare, servirsi di. Cussu su marroni dd’umperat pagu e nudda (quello lì la zappa la utilizza poco e nulla) Umperau/ada, agg. Utilizzato/a, adoperato/a. Umperu, s. m. Utilizzo, uso. Umpridori, s. m. Imbuto. Umpridura, s. f. Riempimento. Umpriri, v. Riempire. Si riferisce soprattutto a contenitori di liquidi. Umprìu/a, agg. Colmo/a, riempito/a. Una, art. indet. f. Una. Unas/unus, avv. Circa, suppergiù. Portu unas centunoranta crabas (ho circa 190 capre), is procus furint unus centubinti (i maiali erano circa centoventi). Unda, s. f. Onda, ondata. Ancora viva la loc. a undas, per indicare principalmente un afflusso inatteso di persone. Ùndigi, agg. num. card. Undici. Unfradura, s. f. Gonfiamento. Unfrai(si), v. Gonfiare. Anche PAOLO PILLONCA nel rifl. unfràisi, gonfiarsi, per malattia o morte. Un’imprecazione tuttora viva suona unfrau sias o anche, ellitticamente, soltanto unfrau (che tu possa gonfiarti). Ma nella forma rifl. vale anche: offendersi, prender male una determinata azione. Est unfrendu e no isciopat (cova un risentimento e non lo manifesta palesemente). Unfrau/ada, agg. Gonfio/a, offeso/a. Spesso, nei malauguri, indica il gonfiore tipico dei cadaveri in certe patologie, come nell’espr. tuttora viva u. che Lorrai (gonfio come Lorrai), individuo di cui si è persa la memoria comunitaria ma che certamente fu vittima di una tragedia. Unfrori, s. m. Gonfiamento, edema. Unga, s. f. Unghia. Anche in espressioni idiomatiche. Chi mi giogas in u. as a pòdiri sciri e chini seu (se mi arrivi a portata di mano saprai chi sono). Unghedda, s. f. Unghia dello zoccolo del maiale. In senso ironico. m’at a connòsciri a s’u. ’e su pei (mi riconoscerà dall’unghia più piccola del piede). Ungidura, s. f. Unzione. La loc. a u. vale: a mo’ di unzione. Ùngiri, v. Ungere: con grasso animale, con olio vegetale e con Mancarìas. La parlata di Seui pomate. Anche in senso fig. ad indicare la captatio benevolentiae di q.no tramite doni di un certo valore. Dd’ungit comenti si spetat (lo unge alla grande). Ungoni, s. m. Grossa unghia. Ùnicu/a, agg. Unico/a. Unidadi, s. f. Unità. Unïoni, s. f. Unione, concordia. Uniri/äuniri, v. Unire, radunare, mettere insieme. Unìu/a, agg. Unito/a. Universidadi, s. f. Università. Viva l’espr. ir. no at àiri mancu imbrunconau in is scaleris de s’U. (non avrà inciampato sui gradini dell’Università). Universu, s. m. Universo. Parit su meri ’e totu s’u. (sembra il padrone dell’universo intero). Unta/giunta, s. f. Piccola quantità, manciata. Untu/a, agg. Unto/a, sporco/a, imbrattato/a, sozzo/a, lurido/a. Sciacüa su pipìu ca est totu u. (lava il bambino, è tutto sporco). Part. pass. di ùngiri. Unturgiu, s. m. Avvoltoio degli agnelli (gipaetus barbutus). Molto usato nella sfera della met. nel senso di avido, incontentabile, goloso, smodato nel mangiare, etc. Chi ddu at cosa ’e papai Linu est che-i s’u. (se c’è del cibo Lino è come un avvoltoio). 427 Untza, s. f. Oncia. Misura di peso corrispondente a 33,333 grammi. Nella parlata di Seui fino a qualche decennio fa l’etto si definiva ancora tres untzas (tre once, 99,999 grammi). Unu, art. ind. m. sing. Uno. U. cüaddu (un cavallo), u. mascu ’e murva (un muflone), u. sirboni (unu cinghiale). Al contrario di quanto avviene in it., in sardo si apostrofa davanti a vocale: un’amigu (un amico). Unu, agg. num. card. Uno. Apu comporau u. mou ’e patata (ho comprato uno starello di patate), m’iat a serbiri unu cüaddu ’e binu (mi servirebbe un ettolitro di vino). Al contrario degli altri numerali, unu e dus sono declinabili: dunque hanno il femminile autonomo (una picioca e duas fèminas, una ragazza e due donne). Unu si può usare perfino al plurale. Is unus e is atrus (gli uni e gli altri), donamindi unus cantu (dammene qualcuno). Vedi dus. Urdi, s. m. Otre, in genere di pelle di capra. In senso ir. lo si usa per indicare un uomo piccolo e obeso. S’est fatu a u. (è diventato un otre). Urdidura, s. f. L’azione dell’ordire, ordito. Urdiri, v. Ordire, tramare. 428 Urdìu/a, agg. Ordito/a. Urrei, s. m. Re. Presente nei soprannomi, preceduto dall’art. indet. Urrendidura, s. f. Languore, sfinimento, magrezza eccessiva. Urréndiri(si), v. Languire, sfinirsi, perdere di peso. Urréndïu/a, agg. Magro/a, sfinito/a, macilento/a. Rif. soprattutto al bestiame. Tenit unu tagliu ’e crabas urréndïas (ha un branco di capre magrissime). Ùrtimu/a, agg. Ultimo/a. La loc. a ù. vale: in conclusione. A ù. dd’at nau ca nce ddu depiat bogai (alla fine gli ha detto che l’avrebbe mandato via). Urtzu, s. m. Orso. In senso fig. vale: persona scontrosa e intrattabile, a somiglianza, appunto, dell’orso. ’Urulai/gurulai, v. Urlare. Desueto. ’Ùrulu/gùrulu, s. m. Urlo ripetuto. Nella loc. avv. la gutturale iniziale rimane. S’est pesau a gùrulus. (si è messo ad urlare). Usai, v. Utilizzare, usare, impiegare. Chiaramente di superstrato. Nella parlata di Seui il v. radicato è tuttora umperai. Usàntzïa, s. f. Tradizione, usanza, uso, costume. Innoi no ddu teneus a u. (qui non c’è questa usanza). PAOLO PILLONCA Uscadura, s. f. Abbrostitura del maiale. Uscai/uscrai, v. Bruciare. Rif. soprattutto all’abbrostitura del maiale. Uscau/uscrau, s. m. Terreno percorso da incendio. Uspidali, s. m. Ospedale. Vedi spidali. Usu, s. m. Usanza. Lo si utilizza quasi soltanto al pl. A usus e costumus, secondo le usanze e le consuetudini. Vedi costumu. Usura, s. f. Strozzinaggio, usura. Usureri, s. m. Strozzino, cravattaro, usuraio. Ùtili, agg. indecl. Utile, vantaggioso, proficuo. Vale anche affidabile. Antoni no est u. (Antonio non serve a nulla, è inaffidabile). Utilidadi, s. f. Utililità. ’Uturinu, s. m. Strettoia, viuzza. Vedi guturinu. ’Ùturu s. m. Gola. Vedi gùturu. Mancarìas. La parlata di Seui 429 V Vacheta, s. f. Pelle bovina conciata, in uso anche nella confezione di calzature. Vacinai, v. Vaccinare. Rif. alle persone e al bestiame. Is crabas ddas apu vacinadas totus (le capre le ho vaccinate in massa). Vacinau/ada, agg. Vaccinato/a, sottoposta/a a vaccino. Vacinu, s. m. Vaccino. Definisce sia quelli animali sia quelli umani. Vagoni, s. m. Carro ferroviario, vagone. Esiste anche la variante vogoni. Validori/a, agg. Pregiato/a, valoroso/a. Validorìa, s. f. Valore, pregio, virtù. Valori, s. m. Valore, prestigio, stima. Valorosu/a, agg. Valoroso/a. Vanagròrïa, s. f. Vanagloria, spocchia, narcisismo. Vanagrorïosu/a, agg., Narcisista, spocchioso/a. Vanidadi, s. f., Vanità, futilità, entità effimera. Vantana/ fantana, s. f. Finestra. Vedi afantanai. Varïai, v. Perdere le qualità intellettive. Po s’edadi chi tenit, non vàrïat po nudda (nonostante l’età, è sempre lucido di mente). Varïau/ada, agg. Rimbambito/a, svampito/a. Varïatzïoni, s. f. Mutamento, cambiamento, variazione. Era anche un’espr. gergale della burocrazia municipale riferita alle modifiche che si dovevano effettuare sulle bollette anagrafiche del bestiame, ora abolite dopo la depenalizzazione dell’abigeato. Velenosu/a, agg. Velenoso/a. Velenu, s. m. Veleno. Vena, s. f. Vena, vaso sanguigno. No m’agatànt sa v. po mi pùngiri (non riuscivano a trovarmi la vena per l’iniezione). Falda d’acqua. In su cungiau miu ddu at una bella v. (nel mio terreno c’è una bella falda acquifera). Vena, s. f. Risorsa di fantasia, creatività, vena. Non seu in v. ’e cantai (non ho la vena giusta per cantare). Vena, s. f. Avena, biada. In cussorgia no ddu at prus pastura e dun- 430 cas m’at a bènniri a maroglia a donai unu pagu ’e v. in prus a is cüaddus (nella nostra zona non c’è più pascolo, dunque sarò costretto a dare un po’ di avena in più ai cavalli). Vendeta, s. f. Vendetta. Di acquisizione recente. Molto utilizzata un’espr. che definisce un comportamento turbato dal furore: parit torrendu v. (sembra che si stia vendicando). Lo si usa anche nei confronti di chi mangia con furia. Venga, s. f. Vendetta, risposta spesso sproporzionata all’offesa patita. Abarra seguru ca cussu sa v. dda tenit giai apariciada (stai tranquillo, quello la replica ce l’ha già pronta). La vendetta vera e propria, una volta, era regolata da una normativa precisa sempre proporzionata al danno subìto e mai fuori misura. Vengadori, s. m. Vendicatore, giustiziere. Vengai(si), v. Vendicare, replicare in maniera eccessiva a un torto subìto, pur grave. Nella forma rifl. vale: accanirsi eccessivamente nella vendetta. Si ddu est (pron er) vengau (ci si è accanito oltre misura). Vengau/ada, agg. Vendicato/a oltre misura e senza pietà. Vengosu/a, agg. Vendicativo/a, indisponibile al perdono. PAOLO PILLONCA Venigedda, s. f. Capillare, vaso sanguigno periferico. Via, s. f. Vite. Vïai, v. Avvitare, fissare una vite. Contr. di irvïai. Vïau/ada, agg. Vitato/a. Vicàrïu, s. m. Parroco, vicario. Secondo il diritto canonico il parroco è vicario del vescovo, capo della diocesi e delle parrocchie che la compongono, ma nella parlata di Seui la denominazione viene forse dal fatto che di norma il parroco di Santa Maria Maddalena era anche vicario dell’intera foranìa, come è tornato ad essere in questi primi anni Duemila, in rappresentanza del vescovo di Lanusei. Vicentzu, n. pr. di pers. Vincenzo. Di superstrato rispetto a Pissenti. Vida, s. f. Vita, esistenza. Notevoli gli utilizzi in chiave di linguaggio immaginifico e poetico, specie nella lingua della poesia d’amore. Vilesa, s. f. Vigliaccheria, viltà, azione inqualificabile. Vedi aviliri. Vili, agg. Vigliacco/a, vile, persona da nulla. Vìrgini, s. f. Vergine, illibata. Virginidadi, s. f. Verginità. Virtudi, s. f. Virtù, valore, qualità, capacità di azione moralmen- Mancarìas. La parlata di Seui te alta. Rif. anche ai poteri di alcune erbe medicinali. S’armidda tenit paricias virtudis (il timo serpillo ha parecchie virtù medicamentose). Ma il s. evidenzia, più che altro, le caratteristiche umane forti, acquisite e/o spontanee, anche se nel giudizio popolare la virtù naturale è privilegiata. Nel rigido controllo sociale delle comunità dell’interno che avevano una sorta di tribunale improprio, informalmente costituito ma non per questo meno rigido, sa v. è il segno distintivo più forte e maggiormente considerato nei secoli. Non a caso nel patrimonio gnomico una massima suona: cun sa v. si campat in dónnïa tempus e logu (con la virtù si campa in ogni tempo e in ogni luogo). Vedi isvirtudai e vitzïu. Virtudosu/a, agg. Virtuoso, abile, affidabile, sicuro. Ma l’agg. è di quelli pregnanti e non è articolabile in dettagli di elencazioni. Si può dire che costituisca di per sé una sorta di superlativo assoluto. Vitellu, s. m. Vitello, bovino giovane in genere. Vedi maglioru. Vitzïosu/a, agg. Vizioso/a, difettoso/a. Il contrario di virtudosu. Indica difetti generici e specifici delle persone adulte. In rif. ai 431 bambini, nel significato primario dell’it. viziato gli si preferisce afitzïau/ada (vedi). Detto del cavallo, rimarca una pecca fondamentale nella domatura o anche una tendenza trasgressiva innata che lo rende parzialmente o totalmente inaffidabile. Usata anche la variante fitzïosu/a. Vìtzïu, s. m. Vizio, difetto, cattiva abitudine. Antoni tenit dónnïa v. (Antonio ha tutti i vizi). Il s. è l’esatto contr. di virtudi. Dunque si può facilmente capire che cosa rappresenti nel giudizio comunitario. Usata anche la variante fitzïu, che però sembra piuttosto un esito di fonosintassi. Vïuda/fïuda, s. f. Vedova. Vedi scïudai/sfïudai (diventar vedova/o, perdere il proprio coniuge). Vïudedda, s. f. Vedova giovane, vedovella. Ironico-sarcastico. Vïudedda/fïudedda, s. f. Crisantemo. Vïudedda/ fïudedda, s. f. Ballo sardo tradizionale dal ritmo assai movimentato, con accompagnamento di läuneddas, organetto o fisarmonica. Vïudu/fïudu, s. m. Vedovo. Volanti, s. m. Volante, sterzo. Vedi stertzu. Volontadi/voluntadi, s. f. Volontà, impegno nell’eseguire 432 un’azione o nell’applicarsi al lavoro in generale. Dd’at fatu ’e v. sua (l’ha fatto spontaneamente). Volontàrïu/a, agg. Volontario/a, in guerra come in pace. Votai, v. Votare, scegliere un rappresentante anche fuori dalle cabine elettorali. Votatzïoni, s. f. Votazione. Al pl. vale: consultazioni elettorali. Luegu est tempus de v. (fra un po ’ arriverà il periodo delle elezioni). Votau/ada, agg. Votato/a. Votu, s. m. Voto, consenso (anche al di là del riferimento elettorale vero e proprio). Indica anche la votazione in campo scolastico. Giùlïa at pigau unu v. bellu (Giulia ha preso un bel voto). PAOLO PILLONCA Mancarìas. La parlata di Seui 433 Z Zäineddu, s. m. Zainetto. Poco usato zàinu. Zampillu, s. m. Zampillo, fuoruscita forte di acqua da una tubatura o da una falda. Per alcuni decenni il paese ne ebbe uno in piazza Rinaldo Loi, circondato di robinie. Ora la piazza non ha né l’uno né le altre. Zémeru, n. pr. di pers. Zemerino. Nome più unico che raro, testimoniato nei registri dell’anagrafe comunale di Seui nell’anno 1928. Zeru, s. m. Zero, nulla. Deu a-i cussu ddu contu po unu z. (io quello lì lo considero una nullità), fut erricu ma in pagus annus est torrau a z. (era ricco ma in pochi anni ha perso tutto). Pres. nei soprannomi. Vedi azerai. Zeta, s. f. Zeta, l’ultima lettera dell’alfabeto. In senso fig. coda della fila, ultimo posto. Ti nci ponint in su logu ’e sa z. (ti metteranno nel posto della zeta). Zì, escl. Fruscìo pressoché inavvertibile, nel senso di nulla. Mancu zì ddi fait (non gli fa alcun effetto visibile). Onomatopeico. Zigarraïu, s. m. Sigaraio, venditore e/o fumatore di sigari. Zigarreddu, s. m. Sigarino, mezzo sigaro. Zigarru, s. m. Sigaro, che si fumava anche a fogu anintru (con il fuoco all’interno della bocca, stratagemma attribuito ai soldati sardi della prima guerra mondiale: una precauzione delle ore notturne per non farsi avvistare dai nemici e successivamente divenuta pratica estesa anche alle ore del giorno). Usato talvolta anche per indicare spregiativamente la sigaretta. Fulïanceddu cussu z. (butta via quella sigaretta). Zighirizó, s. m. Formazione onomatopeica indicante un qualsivoglia scioglilingua. Ormai desueto nel linguaggio quotidiano, è però rimasto nell’oasi dei soprannomi. Zighizaga, s. m. zigzag, andatura sinuosa. Detto ironicamente degli ubriachi. Est andendu a z. (procede per linee curve). Ziminera, s. f. Camino, caminetto. Usato il dim. zimineredda. 434 Zingadura, s. f. Zincatura, chiusura con lo zinco. Zingai, v. Chiudere, sigillare con lo zinco. Zingau/ada, agg. Zincato/a. Zingu, s. m. Zinco. Zìngaru, s. m. Zingaro. Ma si usa soprattutto nelle similitudini che definiscono il disordine e la scarsa pulizia personale degli individui. Stratagliau che z. (malmesso come uno zingaro), aici brutu chi parit unu z. (così sporco da sembrare uno zingaro). Zinzonadura, s. f. Andamento dell’altalena. Usata la loc. avv. a z., in senso reale e fig., anch’essa con possibile met. erotica. Zinzonai, v. Altalenare, giocare all’altalena. In senso ir. e con met. erotica: fare sesso. A Maria fatu fatu ddi pragit a z. (a Maria ogni tanto piace giocare all’altalena). Formazione palesemente onomatopeica. Zinzonau/ada, agg. Fatto/a giocare sull’altalena. Zinzoni, s. m. Altalena. Su z. arrechedit a mannus e piticus (l’altalena è gradita a grandi e piccini). In senso fig. coito. Zirónïa, s. f. Nerbo, frusta. Frequente l’uso traslato: punizione, castigo anche quando non si tratta di pene corporali vere e proprie. PAOLO PILLONCA Mira ca po tui ddu at z. (guarda che per te ci sarà un castigo). Zironïada, s. f. Nerbata, frustata. Zironïai, v. Picchiare, colpire con il nerbo. Ziru, s. m. Conchiglia panciuta, giara, orcio. Zonzu (a), loc. avv. A zonzo, a spasso. Giüanni est totu sa vida sua a z. e nemus arrennescit a cumpréndiri e de ita bivit (Giovanni è tutta la sua vita a spasso e nessuno riesce a capire di quali risorse viva). Zorbidadi, s. f. Balordaggine. Zorbu/a, agg. Balordo/a, scemo/a, stupido/a. Zorru, n. pr. di persona. Zorro. Di assunzione comprensibilmente recente, figura tuttavia già da tempo nei soprannomi. Zubbadura, s. f. Percossa. Usata la loc. a z. Zubbai, v. Percuotere, picchiare Candu ddi ’eniat a tretu ddu zubbàt beni-’eni (quando gli veniva a tiro lo picchiava per benino), chi m’intras in manus ti zubbu (se riesco a prenderti ti picchio), m’iat a pràgiri a isciri e poita non fais s’aprobbu de ’énniri a mi z. (mi piacerebbe sapere perché non provi a venire a picchiarmi). Zubbarìa, s. f. Rissa, percossa. Z. è nome coll. che indica Mancarìas. La parlata di Seui l’articolazione dei colpi tipici di una rissa, non esclusi quelli proibiti. Ddu at sussédïu una z. manna (si è scatenata una grande rissa). Zubbau/ada, agg. Picchiato/a, percosso/a. Zucadura, s. f. Bocciatura. Zucai, v. Bocciare. In iscola fut unu conca ’e molenti, domau a ddu z. (a scuola era una testa d’asino, avvezzo alle zucche). Di superstrato, meno diffuso di scrocorigai. Per definire il s. it. zucca nella parlata di Seui c’è solo crocoriga. Zucau/ada, agg. Bocciato/a, respinto/a. Zulù, s. m. Persona rustica. Est unu z. (è un rusticone). Pres. nei soprannomi. Zumïada, s. f. Ronzio, sibilo. Zumïadura, s. f. L’atto e l’effetto dello scagliare con forza un oggetto. In senso fig. maniera sbrigativa di agire. Zumïai, v. Sibilare. In senso lato indica il sibilo di un movimento in velocità. Chi dda ponis a cùrriri zùmïat, cuss’ebba (se la metti a correre, quella cavalla vola). Scagliare con forza, affibbiare. O t’assüermas o ti zùmïu una scavanada (o ti dài una calmata o ti affibbio uno schiaffone). Zumïau/ada, agg. Scagliato/a con forza. 435 Zùmïu, s. m. Sibilo. A zùmïu, che perda scuta a frunda (con un sibilo, come pietra scagliata con una fionda): verso di Benvenuto Lobina in Canzoni, naramì. APPUNTI APPUNTI APPUNTI Finito di stampare nel mese di luglio 2006 presso le Grafiche Ghiani s.r.l. - Monastir (CA)