Il Calore Sbagliato
di
Paolo Gera
Casa Editrice Copyleft
Cose Einaudite
1
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Copertina copyleft: “Calore sbagliato” di malos mannaja
(2012)
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1. roteare il calzino sinistro davanti al proprio volto
Meleagro Barton decise di farlo il 21 di febbraio del 2008, alle ore 23 e 34. Nello
stesso istante io afferrai il primo foglietto che mi capitasse a tiro, impugnai la penna
ed iniziai a scrivere questo romanzo. Il romanzo sta a segnare la fine di un periodo
sconclusionato e l’inizio di una nuova vita. E pensate che questo è il
quarantanovesimo che scrivo.
Meleagro era stato colto da una fulminante intuizione mentre era steso sul suo
confortevole divano e stava osservando il cielo stellato attraverso uno dei lucernari
con dispositivo elettrico della sua mansarda. Era buio, le stelle erano lontane e
familiari. Sua moglie Melania stava dormendo sola nel letto coniugale. Meleagro
aveva lo stesso sorriso di un fumatore d’oppio e sentiva dopo anni il conforto della
propria solitudine. Gli conferiva un tepore simile a quello della coperta stesa sul suo
corpo del tutto rilassato. Lui a quel punto scostò leggermente il plaid, allungò la
mano e si sfilò senza fretta la calza grigia dal piede sinistro. Per farne cosa? Al
proposito doveva corrispondere un’azione. L’azione arrivò subito. La lunga striscia di
lana-cotone che sino a quel momento aveva contenuto tarso, metatarso, caviglia e
polpaccio, iniziò a roteare davanti al suo volto. Non puzzava troppo, anche se ci
aveva camminato sopra per tutta la giornata. Era una flebile azione senza senso. Il
proposito formulato da Meleagro era quello di compiere per i 48 giorni successivi dei
piccoli gesti sconclusionati, uno al giorno senza scuse o remissioni. 48 per 48. Solo
allora si sarebbe fermato. Inebetito e felice, avvalorò la sua decisione facendo
schioccare la lingua: finalmente un punto fermo nella sintassi zeppa di subordinate
della sua esistenza.
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Il romanzo che sto scrivendo nient’altro è che il resoconto dell’esistenza di Meleagro
a cavallo dei suoi quarantotto gesti senza senso. Sono fermamente convinto che il
mondo riservi emozioni ben più forti di quelle che può dare la lettura di un libro,
quindi il consiglio è di alzare il culo e di andarli a cercare ovunque i vecchi brividi sul
vecchio pianeta Terra, prima che le pretese dei suoi milioni di abitanti in fatto di
brividi non riducano il pianeta in cenere. Sono fermamente convinto che la vita
riservi emozioni ben più forti di quelle che può dare un romanzo, a meno che non ci
metta le mani sopra Hollywood, e sono fermamente convinto, come quasi tutti ormai,
che la vita sia completamente priva di senso. Dunque fate un po’ voi. Qui c’è un ciclo
da completare. I quarantotto gesti sconclusionati, ricordate? Che le emozioni
nascondano inevitabilmente grosse seccature mi sentirei anche di segnalarlo.
Riguardo al fatto di scrivere un romanzo, questa sì che è una bella avventura,
potrebbero pensare in molti. Il problema è renderlo interessante e scriverlo
decentemente e queste sono le principali seccature. Io, ad esempio, quando inizio a
scrivere, non posso fare a meno di incorrere in fastidiose allitterazioni che rendono il
fiato corto alla mia prosa già di per sé abbastanza asmatica. Vi riporto di seguito la
definizione del Vocabolario della lingua italiana Garzanti: “ALLITTERAZIONE:
procedimento stilistico ricorrente soprattutto in poesia (!) che consiste nella
ripetizione di sillabe uguali o simili all’inizio di due o più parole successive ( p.e.: il
pietoso pastor pianse al suo pianto, TASSO, G.L., VII, 16).
Un editor a cui avevo sottoposto il mio ventiseiesimo romanzo non riusciva a
sopportare le mie continue allitterazioni, diceva che lì dovevo correggere, che là
dovevo riscrivere…Mah! Penso non avesse il coraggio di suggerirmi di darmi alla
poesia, che è l’ippica dell’editoria. Il vizio mi è rimasto, non lo faccio apposta.
Andate, per comodità, alla riga 8 di questa pagina:”…seccature mi sentirei anche di
segnalarlo”. O se avete voglia di tornare a pag.1, c’è un caso clamoroso di
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allitterazione incrociata: “…sentiva dopo anni il conforto della propria solitudine. Gli
conferiva un tepore simile alla coperta stesa sul suo corpo”. Visto che roba?
Probabilmente è un sistema di riecheggiamento interiore che spinge avanti la
narrazione coi suoi ritmi balzani. Ma il risultato è questo, inizio a sparare mitragliate
di sillabe simili…ecco, anche adesso, maledizione!
Se decidete di non fermarvi qui e di andare avanti con la lettura, vi prego quindi di
non farci troppo caso.
L’altra grande seccatura che si accompagna all’inizio dello scrivere è la paura. Una
paura, scusate l’espressione, da cagarsi addosso. Mentre Meleagro Barton è
perfettamente rilassato e tutto raccolto in quel morbido stato di stupore che precede il
sonno, io inizio ad irrigidirmi e a sbarrare gli occhi, a sudare e a rabbrividire. Se
inizio a scrivere è come se dessi il via ad una sinistra baraonda. Come se togliessi il
tappo ad uno spumante troppo scosso etichettato col segno dell’orrore. Mi pare che
qualcuno si nasconda dietro le porte o negli armadi. Non mi trovo solo in casa, care
persone stanno dormendo a pochi metri da me, eppure è come se lo fossi. Se mi alzo
e vado in altra stanza trasalgo perché qualcuno mi segue. La luce tremola, i muri si
stringono, il soffitto si abbassa. Ciò probabilmente succede perché quando uno inizia
a scrivere agita con la mano uno specchio d’acqua che prima era immobile. Rovista
nei cassetti, mette sottosopra il mondo. Scruta negli angoli bui. Da quelli mai
esplorati si sa bene che cosa possa uscire.
Forse una volta iniziare a scrivere era iniziare un rito magico che ti metteva in
comunicazione col mondo degli spiriti. Mentre lo annoto mi viene la pelle d’oca. I
geroglifici, le rune, l’aleph e la kabbalà, gli scrittori cos’erano? Sciamani, stregoni,
sacerdoti, aprivano le porte dell’Inferno, stenografavano i mormorii dei boschi,
sbalzavano su pietre i sospiri degli dèi. Ma oggi? Di cosa dovrei avere paura?
Siamo diventati ciarlatani, papponi di notizie zozze, venditori postali di viagra e cialis
e di ogni altro tiracazzo scadente e scaduto. Volgari gestori di deliranti blog – sentite
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che parole! – chattatori onanisti…gli adepti di Hermes si sono trasformati in
digitatori infoiati di sms bestiali. Mi piaci un Toth!
Ed io non ne sono immune, anzi ci sguazzo come ognuno! Un po’ da dilettante e
dunque per diletto, un po’ perché non si può sfuggire allo spirito del tempo. Ma chi
mi capirà? Per scrivere un romanzo ormai bisogna conoscere alla perfezione questi
meccanismi, essere laureati in Scienze della Comunicazione e Marketing Aziendale!
Povero rudere che sono!
Ecco, ho aperto la valvola, ho dato sfogo al gas, ho schizzato fuori i liquidi
maleodoranti. Mi sono agitato, troppo. Ma la mano del medium posseduto e
sconvolto è ben ferma e scrive sul foglio lettere precise, frasi ben formate e con un
senso preciso, anche se descrivono cose senza senso. Come immobile e tranquillo è
lui, Meleagro Barton, sdraiato sul divano confortevole, in un dormiveglia troppo
soave per trasformarlo in nero sonno. Sospeso. Le stelle domestiche sopra ed il
calzino che si è tolto a penzoloni sulla testa e da lì sino al naso, come l’escrescenza
che ai tacchini cade sul becco e non si capisce a cosa serve.
Meleagro, prima di addormentarsi, fu molto contento di essersi intacchinito, sereno
perché finalmente non più pauroso del Giorno del Ringraziamento prossimo a venire.
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2. gloglottare sull’argine della lama
Nella provincia dell’Impero americano dove viveva Meleagro Barton, da alcuni anni
il Giorno del Ringraziamento era segnato in rosso. Per tale occasione si mangiava
dappertutto il tacchino al forno così come avevano comandato i coloni fondatori del
Mayflower nel lontano 1623. La provincia in cui Meleagro Barton portava avanti la
sua tranquilla esistenza si trovava in Europa, quadrante meridionale, in una terra
allungata, dicevano, a forma di stivale, in un luogo vicino al corso mediano del suo
fiume più lungo ed inquinato. Il tacchino era un volatile autoctono del continente
americano, introdotto in Europa da un navigatore che si fregiava della sua scoperta –
dell’America, non del tacchino – e che portava guarda caso il nome di un altro
volatile, di gran lunga meno venduto nei banchi dei supermarket. La Festa del
Ringraziamento (Thanksgodgiving), celebrata dal 1623 in America con tutti gli onori
del caso, era stata adottata in Europa dopo che ci aveva attecchito perfettamente
quella di Halloween. Era stato un comune esempio di colonizzazione psichica
autoindotta. Gli europei non c’entravano un cavolo coi padri pellegrini e coi
successivi proclami dei presidenti atti a sancire e a ribadire
l’importanza della
celebrazione, a cominciare da Washington: “Adesso io raccomando e stabilisco che il
26 novembre sia dedicato dal popolo di questi Stati al servizio di quel grande e
glorioso Essere che è l’Autore di tutto il bene che è e sarà, noi possiamo allora unirci
nel rendere a Lui i nostri ringraziamenti per la sua gentile premura nei confronti di
questo popolo e nazione…”. Già da allora si era formata questa idea per nulla
presuntuosa che se Dio doveva scegliere un popolo, ebbene doveva essere quello
americano. Sempre nel momento della fondazione di un grande stato bisogna essere
sicuri di avere Dio dalla proprio parte. Anche i nazisti mi pare dicessero “Gott mit
uns”, “Dio è con noi”. Siete liberi di trarre le conclusioni che volete. Comunque, gli
europei non c’entravano un cavolo con il tacchino arrosto e soprattutto con la salsa di
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ossicocco con il quale andava accompagnato. Allora si pensò bene di sublimare i
valori patriottici originari in una più generica Festa dell’Abbondanza che facesse
contenti un po’ tutti. L’Impero Americano aveva conquistato il mondo non da un
punto di vista militare, ma economico e culturale, per buona educazione non si
poteva mica pretendere che la bandiera a stelle e strisce garrisse al vento pure in
Europa. L’asta poteva essere la forchetta, il vessillo il boccone di tacchino. Se vuoi
dominarli, falli mangiare come te, era il motto. La Festa dell’Abbondanza era perfetta
per celebrare i comuni valori di un trionfante capitalismo, che di abbondanza ce n’era
in giro come mai se n’era vista. Per il Giorno del Ringraziamento o dell’Abbondanza,
che cadeva l’ultimo giorno di novembre, venivano massacrati centinaia di milioni di
tacchini. In uno sporadico tentativo di contestazione un esemplare aveva fatto una
fine diversa. In Turchia i terroristi islamici lo avevano farcito di esplosivo e lo
avevano usato come kamikaze, quello era esploso in un autobus di turisti e aveva
fatto una dozzina di vittime umane. Nelle cronache della strage si creò una certa
confusione perché in inglese Turchia si dice ‘Turkey’ e nello stesso modo si dice
tacchino.
Comunque di qua dell’Atlantico e di là del Pacifico le autorità politiche non avevano
ancora compreso l’enorme potenziale demagogico della festa. In America invece gli
ultimi presidenti succedutisi ordinavano ad uno dei loro addetti di salvare dal
massacro un esemplare bello grosso di tacchino e si facevano fotografare con il
sopravvissuto al genocidio fra le braccia. Completava il quadro una mezza dozzina di
bambinelli che guardavano con ammirazione e simpatia il presidente ed il volatile
uniti nel fraterno abbraccio. Il tacchino non sembrava particolarmente felice per
averla scampata bella né particolarmente addolorato per la triste sorte toccata ai suoi
simili. D’altronde anche ogni uomo che si sveglia al mattino non pare particolarmente
felice per aver sottratto l’ennesima giornata all’imprevedibile destino né
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particolarmente addolorato perché intanto se ne sono andati migliaia di suoi simili.
Che tacchini ed umani abbiano più punti in comune di quanto non sembri?
Altro momento imprescindibile nelle celebrazioni ufficiali per il Thanksgodgiving era
il pranzo a base di tacchino arrosto condito con salsa di ossicocco, che il presidente
consumava seduto a tavola con i giovani soldati dell’ Esercito Americano. Quelli che
di lì a poco sarebbero partiti per il Vietnam, il Kuwait, l’Afghanistan, L’Iraq. I soldati
immortalati nella foto intorno al presidente, i piatti ricolmi di carne fumante, non
sembravano particolarmente tristi per la sorte toccata a migliaia di loro compagni o
particolarmente addolorati perché quella poteva essere l’ultima salsa di ossicocco in
cui intingere l’odoroso e dorato trancio di tacchino. Erano allegri per aver allontanato
di un giorno il fronte, la zona di guerra e tutte le altre spiacevoli conseguenze? No, a
vederli, in bianco e nero o a colori, sui giornali, in Tv o su Internet, parevano
piuttosto serenamente inebetiti. Intacchiniti, ecco, esattamente come Meleagro con il
calzino pendente sulla testa, la notte prima del giorno che sto per raccontare. E così
abbiamo chiuso tutti i cerchi.
Giorno radioso nonostante si fosse alla fine di febbraio. C’era il sole ed un’aria
frizzante che portava intorno sentori di primule ed erbe precocemente spuntate.
Meleagro era colpito dal sole e l’aria lo sospingeva o lo tratteneva a seconda di quale
direzione prendessero le ruote della sua bicicletta. Pedalava con scrupolo. Sembrava
dovesse svolgere un compito piuttosto che godersi uno svago. Ed era proprio così.
Con una giacca a vento verde e pantaloni sportivi Meleagro batteva i sentieri sterrati
o le strade dall’asfalto sconnesso nella campagna di Sozzigalli. Che cosa distingueva
nella zona la campagna dalla periferia? Il diradarsi della conurbazione e del traffico,
anche se accanto ai campi
e a cascine disabitate su cui stava scritto “edificio
pericolante”, stavano sorgendo in fretta capannoni industriali e villette cinte da siepi
alte tre metri. Il toponimo Sozzigalli non alludeva né al piumaggio sporco né alle
abitudini licenziose dei pollastri lì residenti. Meleagro che per gioco americanizzava
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le parole, quando passò di fianco al cartello tradusse “Dirtycocks”, trasformando la
sozzura dei pennuti in quella ben più deplorevole di organi genitali maschili. Ma
anche questo involontario tentativo non si avvicinava all’etimologia originale.
Sozzigalli derivava in effetti da “Socii Galli”, perché lì una volta, diciamo più di
duemila anni prima, passava un confine fra i possedimenti dello stato romano e
quelli di altri popoli meno espansionisti a cui era convenuto diventare alleati, amici,
soci di Roma. I Galli. Era la prima faticosa tappa della costruzione di un Impero
vastissimo che avrebbe unificato territori lontanissimi fra loro e a tutti avrebbe dato
una lingua e feste comuni. L’Impero Romano fu fondato da Ottaviano Augusto negli
anni a cavallo della nascita di Cristo e crollò con le deposizione di Romolo Augustolo
da parte del barbaro Odoacre nel 453 d.C. Ogni impero sorge, si rafforza, raggiunge
un punto di massimo splendore, decade, muore. Ad ogni impero, chissà perché, ne
succede un altro. A parte quest’ultimo che avendo conquistato tutto quello che c’era
da conquistare, porterà nella sua inevitabile e vicinissima fine l’intero pianeta Terra.
Anche in questo romanzo – siete avvisati – completato il ciclo dei 48 gesti inutili si
arriverà alla fine e la fine coinciderà con la catastrofe, evitabilissima, ma per stupidità
e paura non evitata.
Meleagro, pedalando, non poteva prevedere e dunque non si inquietava. Gli faceva
piacere pensare, nello svolgere il suo compito quotidiano, che la periferia fosse
campagna e trasfigurava ogni misero filare di pioppi, immaginando foreste del
Kentucky e dell’Arkansas. Là, al centro dell’Impero Americano, vivevano allo stato
brado gruppi numerosi di tacchini. Si spostavano liberi fra gli alberi, becchettavano la
terra, lanciavano il tipico verso che viene chiamato gloglottìo. Alla loro guida c’era
un vecchio maschio che dava il segnale di arresto di fronte ad un ostacolo e quello di
incitamento per superarlo. Se dovevano affrontare la traversata di un fiume, i tacchini
riuniti si ponevano sul punto più alto della riva e rimanevano anche intere giornate a
scrutare l’acqua là sotto. L’unico modo era muovere rapidamente le corte ali sperando
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di staccarsi da terra e di essere sostenuti dal cielo in quella manciata di secondi
necessari per arrivare sino all’altra sponda. Non era facile. E Meleagro a questa
nuova similitudine fra tacchini ed umani, ovvero ai loro inani sforzi per compiere un
balzo, ci pensava mentre con la bici saliva il corto pendio che l’avrebbe portato
all’argine del canale. Meleagro arrivato di sopra si mise a guardare. La lama era
vuota, sul fondo giacevano rami contorti, ferrami arrugginiti e rimasti di acqua
imputridita. Eppure di lì a qualche mese il canale si sarebbe riempito e i pescatori
sarebbero saliti sull’argine guardando l’acqua e non immaginando il fondo. Meleagro
non riusciva a capire quali pesci avrebbero potuto abboccare. Vicino c’erano i tralicci
dell’alta tensione e i cartelli che segnalavano il pericolo di morte. Altri cartelli con il
teschio erano infissi nella terra dell’argine, avvisi ai pescatori di stare attenti a non
andare a toccare con le lunghe canne al carbonio i fili più bassi se non volevano
rimanere folgorati. Come bastava un particolare per cambiare tinta allo scenario! Ora
Meleagro i pescatori se li vedeva arditi, temerari e vigili, terribilmente vigili, che
bastava un attimo di appannamento, un breve sogno ad occhi aperti e al lancio
successivo si sarebbe abbattuto su di loro il fulmine risolutore. E là sotto, i pesci
dovevano essere per forza torpedini! Alzando gli occhi dalla lama prosciugata la
realtà fu più forte delle fantasie. Meleagro vide sull’altra riva una donna biondissima
china fra la sterpaglia. Anche la donna tirò su la testa e XX e XY incontrandosi a
metà via, più o meno al centro della lama, ebbero la loro brava piccola scossa. Soli
nella natura, femmina contro maschio, nudi e crudi. Tutti e due avevano un bisogno
disperato di fare l’amore, ma in un attimo le convenzioni ebbero la meglio e neppure
si scambiarono un saluto o un cenno. Meleagro si girò subito da un’altra parte, la
donna fissò ancora per qualche secondo il lato posteriore dell’uomo, che era
abbondante, poi riabbassò la testa e continuò a cercare. Meleagro provava a non
sentirla più, impreparato a qualunque tipo di sfida che non fosse quella di pedalare.
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A scanso di equivoci, diciamo subito che tra la misteriosa donna bionda e il
protagonista del mio romanzo finisce qui. Non ci sarà avventura né amore, Meleagro
crederà di vederla solo un’altra volta, in mezzo alla folla, in circostanze tutt’altro che
piacevoli. Ma così voltato , anche se faceva l’indifferente, gli erano rimaste due
curiosità: cosa stesse cercando la donna accovacciata e come potessero essere così
chiari i suoi capelli.
La donna che cercava aveva come nome Irena Briezinski e i capelli così chiari non
erano tinti, dalle sue parti nessuno si stupiva per quel colore. La provincia
dell’Impero in cui Irena era nata e portava avanti a turni alterni la sua non tanto
tranquilla esistenza, si trovava in Europa, quadrante centro orientale, una nazione che
si allargava a forma di uovo fritto chiamata Polonia, alle pendici di basse verdi
montagne che si chiamavano Carpazi. Irena veniva prelevata sei volte l’anno e
traversando frontiere che non lo erano più, arrivava alla città di destinazione, la stessa
dove viveva Meleagro Barton. La terra di origine di Irena era profondamente
cattolica, la città in cui arrivava sei volte l’anno per metà lo era e per metà no, ma la
metà che lo era vedeva nella Chiesa romana il fondamento più solido, allo stesso
modo di Irena e dei suoi connazionali. Questo era bastato a procurarle un contatto e a
farle ottenere un lavoro temporaneo quanto mai necessario. Il marito e il figlio più
grande di Irena avevano lavorato in una grande fabbrica aeronautica. La fabbrica che
era del tutto nazionalizzata dopo il crollo dei regimi comunisti non aveva più ricevuto
sovvenzioni statali ed era stata costretta a chiudere. Il marito di Irena andava a
tagliare legna in Norvegia, il figlio svolgeva lavori occasionali, ma a mantenere la
famiglia di cui erano parte integrante altri quattro figli dai sei ai diciassette anni, era
Irena che faceva la spola fra Polonia ed Italia. Irena svolgeva – non ci credereste – la
mansione di badante. La persona a cui doveva badare era tale Artemide Fonzarelli,
anziana signora di 87 anni costretta in carrozzella dopo una vita di fatica e dedizione
ad un’unica grande opera. Artemide Fonzarelli era la patriarca di una famiglia di
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ristoratori che gestiva una storica osteria della campagna o periferia. Da quelle parti
era doveroso trovare sul tavolo un boccettino di aceto balsamico, dolce e vellutato,
doti che non aveva mai avuto Artemide, che anzi in vecchiaia si era ulteriormente
inasprita. L’osteria era specializzata in piatti a base di erbe e se ai figli saltava per
un’ora di spingere la carrozzella, in genere prima di delicate questioni contabili, Irena
veniva spedita nei prati lì intorno a cercare erbe commestibili. Irena conosceva bene
le erbe, anche se doveva tradurne l’appellativo italiano nella sua lingua. Irena dunque
non cercava in quei frangenti fra la sterpaglia pegni d’amore perduti, un anello, una
collanina, ma una pianticella perenne che cresceva spontanea lungo i corsi d’acqua e
le paludi, la valeriana, ottima per le insalate e per l’insonnia. Tutti ora hanno chiarito i
propri dubbi su Irena. Il paradosso è che l’unico che non ne saprà mai niente è
proprio Meleagro, perché si ostinò a rimanere voltato, a non guardare, a non chiedere.
E i dubbi nella labile mente del protagonista avevano già lasciato spazio a due nuove
esigenze da soddisfare in fretta: il bisogno urgente di urinare, l’ispirazione che lo
aveva colto riguardo al secondo gesto sconclusionato. L’una e l’altra cosa avrebbe
potuto farle lì, se non ci fosse stata Irena Briezinski ad ostacolare i suoi propositi.
Nell’uno come nell’altro caso la donna ne sarebbe uscita scossa. Nel primo lo
avrebbe preso per maniaco esibizionista, nel secondo per pazzo scatenato. Meleagro
discese allora l’argine, inforcò la bici e decise di fare ancora un pezzo di strada alla
ricerca di un posto appartato e di un buon palcoscenico. Lo sterrato si univa presto
all’asfalto di una strada comunale e lì erano dolori. Il fondo stradale era sconnesso e
ad ogni buca la vescica gonfia sobbalzava come una borsa della Coop piena di
involucri e bottigliette. La schiena invece non andava tanto male. Meleagro resistette
giusto qualche centinaio di metri, poi dovette rientrare verso il canale, questa volta
dalla parte dove aveva scorto la bionda. Risalì sull’argine dove non c’era molta
copertura, ma molta solitudine sì. Della donna nessuna traccia. C’era un alberello
invece, sostenuto da una piramide di assi e Meleagro decise di farla lì. Se si sbrigava
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e regolava il getto al massimo, nessuno lo avrebbe visto. E finito di pisciare, incitato
da un profondo respiro di soddisfazione che gli era risalito dai precordi, Meleagro
ritrovò la contentezza insensata della notte prima. Si voltò verso la lama che
immaginò larga d’acqua e impetuosa, un Po, anzi un Mississipi, tirò su bene il collo e
si fece salire dalla gola un potente gloglottio che riecheggiò nella campagna o
periferia intorno, come un vecchio tacchino pronto per spiccare il volo. Là in fondo
contro il cielo rosso si distingueva il profilo netto della città e per un attimo la vista
della cupola ottogonale del duomo con i campanili intorno cancellò la percezione
della tangenziale, delle officine e dei capannoni industriali. Sembrò come ognuno si
sogna una città, come sorgesse dal deserto, come un cuore che non abbia bisogno per
sussistere della seccatura di una circolazione sanguigna.
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3. lavarsi i denti con il manico dello spazzolino
- La macchina a…
- La macchina a…
- La macchina a va…
- A vapore. La macchina a vapore.
- Bene. E quando fu inventata, la macchina a vapore?
Di fronte a sé aveva uno sguardo preindustriale. Meleagro riprese.
- Fu inventata nel millese…
- Milleseicento.
- Segui me, Gosht. Non prendere iniziative. Dai che ti voglio aiutare, Gosht. Nel
millesettecento…
- Nel millesettecento.
- Ehm, qualcosina la devi aggiungere tu.
Belli, però, gli occhi. Con il bulbo bianchissimo e l’iride colore del materiale di cui
avrebbe chiesto di lì a poco. Nera, dunque, ma così lucente che davvero sembrava la
somma di tutti i colori. E tra gli occhi terminava la linea drittissima del naso. E sotto
il naso una peluria leggera, precosmesi e prepubblicità. E le labbra sottili che non
riuscivano proprio più ad aprirsi. Meleagro completò da sé la risposta.
- Nel millesettecentocinquanta.
- ….anta.
- Eppure, al di là della scuola, queste sono le cose che dovresti sapere – pensava
Meleagro – Questa, Gosht, è l’origine di tutto, anche di questo istante, di come cioè
tu ti possa trovare in un paese lontano dal tuo di fronte ad un maestro che parla una
lingua diversa dalla tua e non porta una lunga tunica che gli arriva ai piedi.
Dietro di lui altre due giocavano a tris sulla lavagna e lo disturbavano. Servì a farlo
uscire dallo spaesamento, le sgridò e ordinò loro di tornare a posto. Riprese con
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quella che stava interrogando. Domande semplici, nozionistiche per necessità, il
vocabolario di Gosht era limitato.
- Mmmhh, ti ricordi il nome dell’inventore, per caso?
Le labbra ora leggermente aperte, subito pronte a soffiarlo fuori quel nome, se la
memoria riusciva a suggerirlo.
- Abbiamo anche detto che è scritto sulle lampadine. In inglese si dice in un modo,
italianizzato è Va…
- Va…
- Vat.
- Vat.
Meleagro scivolò consapevolmente nel divertimento. Davanti a lui nel mercato dei
banchi tutte sembravano allegre e alcune persino ridevano. Perché lui no?
- Vatte…
- Vatte.
- No. Vattela…
- Vattela.
- Vat-te-la-pe-sca. No, dai. Era giusto Vat o Watt, stavo scherzando un po’.
Gosht lo guardò sgomenta. Poi sorrise. Era da due anni in Italia. Il suo paese si
trovava in Asia, quadrante centrale, monti altissimi e un fiume dinnanzi al quale si era
fermato l’imperatore Alessandro, popolazione per la grandissima parte mussulmana.
Gosht arrivava dal Pakistan.
- Mi sai dire da quale materiale è alimentata la macchina a vapore?
- Cosa è alimentata?
- Che cosa mettevano dentro la macchina a vapore per farla an-da-re – disse
Meleagro gesticolando come avesse tra le mani una pala. Gli occhi di Gosht si
illuminarono. Meleagro immaginò che gli cadessero fra le mani, che gliele
scottassero.
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- Carbone! – disse trionfante Gosht.
- Sì, sì! Brava! – urlò Meleagro battendo un pugno sulla cattedra.
Tutta la classe ammutolì e lo guardò in stato di allarme. La sua classe. Il suo mostro
sempre uguale e sempre diverso, la sua Idra le cui teste rispuntavano ogni mattina.
sgominato da Eracle in una delle sue dodici fatiche. Possedeva un numero
imprecisato di teste, chi diceva sei, chi diceva cento. Qualcuno affermava che fossero
umane. Meleagro era propenso a crederlo. La sua Idra di teste ne aveva diciannove,
pericolose e stronzissime.
Ma a volte invece pensava che quelle ragazze così
precocemente consumistiche e fondamentalmente annoiate, fossero solo una
cucciolata, vivace sì, ma anche molto impaurita. Dipendeva dai giorni, da come si
svegliava lui e da come si svegliava l’Idra.
Lui quella mattina si era svegliato così: si era messo bene di fianco, aveva fatto uscire
dal bordo del materasso prima le gambe e poi aveva tirato su molto lentamente il
resto del corpo. La correttezza di questa delicata operazione gli era stata spiegata
qualche settimana prima dalla fisioterapista Susanna Ford. La fisioterapista Susanna
Ford dalla lunga coda bionda e dagli occhi azzurri spesso sgranati, insegnava
ginnastica posturale a chi come Meleagro aveva problemi alla schiena. A tutti, mentre
correva freneticamente da un paziente all’altro, suggeriva movimenti lenti per non
riacutizzare il dolore lombare. Meleagro quindi si era alzato lentamente anche quella
mattina. Come lui fecero altre dodici persone istruite da Susanna nelle tecniche del
risveglio. Una donna di 53 anni, Suzi D’Angelo, se ne dimenticò perché corse in
fretta a rispondere al telefono di casa, per non far svegliare la vecchia madre malata.
Sentì una lancinante fitta alla schiena. Un uomo di 76 anni, Corrado Flanneri , non
poté attenersi alle direttive di Susanna Ford perché nel frattempo era morto.
Meleagro aveva dato una sbirciatina alla moglie Melania che dormiva ancora nella
sua parte di letto. Aveva avuto una mezza erezione e gli era venuta una mezza
intenzione di saltarle addosso, ma se ne era subito dimenticato. Era passato alla zona17
giorno senza avvertire contrazioni alla colonna ed alle costole, ma traballando un po’
e con un leggero senso di nausea. Si era dato una grattatina ai testicoli ed aveva
accennato a qualche mossa di Qi Kung per riattivare i centri energetici. Il Qi Kung
era un’antica arte marziale cinese praticata all’aperto da milioni di cinesi in genere
anziani. I giovani cinesi giudicavano queste pratiche come testimonianza di
rincoglionimento e correvano in fretta al lavoro. Invece i vecchi di Pechino o Canton
ogni mattina controllavano il respiro e muovevano gli arti in perfetta armonia e lo
facevano ovviamente per tenersi in forma. Meleagro aveva rinunciato quasi subito
alla forma, era andato in bagno e non gli era piaciuto vedersi. Mentre stava pisciando,
aveva deciso di lavarsi subito i denti, anche se non aveva ancora preso il caffè. Aveva
afferrato lo spazzolino dalla parte delle setole, si era reso benissimo conto dell’errore,
ma siccome si era svegliato storto, nonostante le tecniche di Susanna Ford, aveva
deciso di spalmare la pasta dentifricia e di strofinare così zanne e gengive. Alla fine
aveva sputato schiuma, saliva e sangue, ma rialzandosi si era fatto una bella risata
perché avrebbe potuto considerare quello come gesto assurdo della giornata. Subito
in apertura, fantastico!
Le diciannove teste dell’Idra si erano svegliate chi con uno sbadiglio sommesso, chi
spalancando le mandibole al limite dello slogamento, pronte a farlo diventare subito
morso. Il compimento perfetto, là dove tutte le teste si accordavano in una brutale e
devastante armonia, avveniva in aula dove quel bisogno disperato di avventarsi e
mangiare si realizzava
in aperte aggressioni alle compagne vicine e lontane,
all’insegnante di turno che rompeva le palle, alle pizzette nascoste sotto il banco e
dilaniate come brandelli di carne.
Quel giorno la lotta fra Meleagro e l’Idra si era rivelata faticosa e violenta – urla,
minacce, registri roteanti – sino a quando aveva chiamato Gosht alla cattedra per
l’Interrogazione di Storia. A quel punto aveva lasciato libero sfogo alla fame bulimica
e aveva deciso di andare avanti con la pakistana nonostante il casino. Tanto mancava
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sì e no un quarto d’ora alla fine. Quando suonò la campanella Meleagro richiuse il
registro dei voti senza neppure pronunciare un verdetto e lasciando lì la ragazza
dubbiosa sul fatto di essersela cavata o no. Era allo stremo, volle uscire per primo
dalla porta, soppiantare il fiato pesante dell’Idra, correre verso l’aria leggera.
Gosht, che di nome faceva Aisha tornò a posto mentre le altre si precipitavano fuori.
Lei e l’amica Sanim, che la stava aspettando, sistemarono gli zaini ed uscirono da
scuola. Avevano tuniche scure e sotto portavano pantaloni sgargianti. Aisha aveva i
capelli raccolti in una treccia, Sanim li nascondeva sì e no con un velo leggero.
Potevano vestire all’occidentale od onorare la tradizione, le famiglie di appartenenza
le lasciavano scegliere. – Ci sentiamo a disagio con jeans e magliette – rispondevano
Aisha e Sanim – Ci siamo sempre vestite così, fin da bambine.
Anche questo è un esempio di colonizzazione psichica autoindotta.
Le due ragazze affrettarono il passo perché dovevano prendere il bus. Il bus giallo le
avrebbe portate in mezzora, minuto più minuto meno, alla loro cittadina di residenza
che si chiamava Novellara. Novellara aveva una rocca rinascimentale ben conservata,
la tomba di Augusto Daoglio, cantante della famosa band “I Nomadi”, una moschea
ed un tempio sikh. Novellara era gemellata con una cittadina dai due nomi , Nevè
Shalom – Waahat as Salam, un villaggio di duecento abitanti fra Tel Aviv e
Gerusalemme dove convivevano pacificamente e lavoravano insieme israeliani e
palestinesi. Il significato dei due nomi era “oasi di pace”. Le famiglie di Aisha e
Sanim pregavano alla moschea, quella di Aisha, un'indiana che aveva lo stesso nome
della pakistana ed era sua compagna di classe, andava al tempio sikh. Tutte e tre le
famiglie provenivano dal Punjab, sulla quale passava il confine fra Pakistan e India.
Da una parte i mussulmani, dall'altra i sikh. La religione sikh prevedeva che tutti i
suoi adepti portassero come cognome Singh.
Sanim e Aisha Gosht salirono sul bus e si sedettero davanti, Aisha Singh, che aveva
scelto come secondo nome Lucy, si era seduta dietro con i suoi jeans e la sua felpa.
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La sikh e le mussulmane erano parte integrante dell’Idra sorvegliata da Meleagro,
ma non erano amiche e non si erano mai salutate in vita loro. Novellara stava
producendo sforzi notevoli per diventare a sua volta “oasi di pace”, ma la strada da
compiere era ancora lunga. Un intero Impero stava remando contro. O forse
semplicemente le ragazzine pakistane stavano antipatiche a quella indiana e
viceversa, cosa c’entravano le radici culturali e l’ideologia. Il bus partì carico di
confusione ed incrociò la bicicletta carica di stanchezza di Meleagro. Le alunne e
l’insegnante non si scorsero e non si pensarono. Per tutto il pomeriggio e la sera la
scuola non sarebbe più esistita.
Meleagro tornando a casa valutava il tempo. Non faceva freddo e il cielo era di un
bianco lattiginoso, di assenza o di attesa. Erano state messe lungo la strada le
bacheche metalliche per i manifesti delle vicine elezioni, i riquadri d’acciaio tutti
coperti di strati biancastri. Sopra e sotto si somigliavano e non c’era da stare allegri.
Sospensione. Ma tra poco a casa avrebbe ritrovato le sue abitudini, un piatto già
pronto o da riscaldare davanti a cui comunque avrebbe sciolto le tensioni,
riacquistando tono e il pomeriggio se non pioveva avrebbe ripreso a pedalare. Lungo
i viali irritazione per i ragazzini che facevano schiera e non lo lasciavano passare,
irritazione per le auto che non si fermavano alle strisce pedonali, irritazione per il suo
stesso incerto statuto, quello del ciclista che non ha i vantaggi né del pedone né
dell’automobilista. Prima di lasciarsi andare sfinito sul divano del soggiorno, avrebbe
anche dovuto compiere svariate operazioni ispirate dai principi fondamentali
dell’Impero Americano. Safety, la Sicurezza. Capillarmente si diffondeva dai massimi
sistemi militari sino all’ultimo monolocale. Ecco che arrivava davanti al cancello del
condominio. Il cancello era ben chiuso. Cercava la chiavetta nel mazzo, la infilava
nel dispositivo elettrico che ne consentiva l’apertura. La chiavetta che aveva scelto
non girava. Ne provava una seconda che questa volta andava. L’anta destra del
cancello si apriva piano piano. Vedeva che la cassetta delle lettere conteneva varie
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buste. La corrispondenza non era lasciata libera in un contenitore non sigillato.
Muovendo la chiave più piccola faceva alzare la barra che teneva chiusa la cassetta.
Lasciava andare la bici, infilava la mano e prendeva le buste. La bici cadeva a terra.
La tirava su e l’appoggiava alla parte di cancello che non si apriva. Facendo girare in
senso opposto la chiavetta richiudeva la cassetta delle lettere. Fatica inutile:
pubblicità. Entrava con la bicicletta e cercava di infilare la ruota anteriore nell’unico
spazio libero della rastrelliera condominiale. Si abbassava. Le biciclette non si
potevano lasciare sciolte se no le rubavano, infilava la catena antifurto attraverso i
raggi della ruota ed il supporto metallico. Faceva scattare il lucchetto e toglieva la
chiavetta che infilava in tasca. Sceglieva la chiave che gli permetteva l’apertura
manuale della porta di vetro che conduceva alla sua ala di palazzo. La porta andava
richiusa per impedire agli zingari che avessero abilmente superato l’ostacolo del
cancello di entrare negli appartamenti. Inseriva il codice personale sulla pulsantiera
per la chiamata dell’ascensore al piano. Saliva e pigiava il tasto con il numero
quattro. Usciva sul pianerottolo direttamente di fronte alla porta blindata del suo
appartamento. La porta era chiusa in alto e in basso. Le porte degli appartamenti non
erano mai lasciate accostate, neppure se il postino ti chiamava dabbasso per una
firma. Infilava la chiave col disco giallo nella serratura superiore e la faceva scattare.
Infilava la chiave lunga e dentata nella serratura inferiore ed esauriva tutti i giri che
erano stati dati. Girava il pomello di ottone. Entrava in casa. Per entrarvi, per entrare
nella sua piccola casa, per poter accedere al suo spazio privato aveva dovuto
compiere sei o sette manovre. Sei o sette sbarramenti aveva dovuto superare per
colmare
i dieci-quindici metri che separavano il livello della strada dalla sua
sicurissima mansarda. Sei o sette minuti aveva impiegato per poter lasciarsi alle
spalle tutti i fastidi e farsi accogliere dagli spazi e dagli oggetti a lui familiari.
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Esausto, senza più voglia di leggere niente, lesse il biglietto lasciato da sua moglie
Melania Carson: “Ho preso del pollo arrosto. Fallo scaldare in forno, ma anche così è
buono. Insalata in frigo. Io vado al Sert. A stasera”.
Meleagro tirò a sé il pollo e con una coscetta in mano gli prese la nostalgia di un
tempo infantile , di case con le porte aperte, di bambini che correvano a frotte senza
che per vedersi ci fosse la necessità di un compleanno o di una festa di classe. Ora
con gli amichetti bisognava fissare appuntamenti per telefono, scorrendo gli impegni
sull’agenda – danza, nuoto, chitarra, rientri a scuola – neanche si fosse il dentista e
non padri e madri. Meleagro lo sapeva bene, perché così era andata sino a qualche
anno prima con la sua unica figlia, figlia a cui pensava intensamente, visto che si
ritrovava a mangiare solo come un cane. I bambini, comunque, non li si poteva
lasciar andare in giro da soli. Anche lì si trattava di un problema di sicurezza. In giro
c’erano gli zingari, gli esibizionisti, i vecchi sporcaccioni, i pedofili e i drogati. Sì, i
drogati, perchè quelli che volevano disintossicarsi si presentavano al Sert, dove quel
giorno era andata anche la moglie Melania, ma gli altri, eh? Quelli con la siringa in
mano o che penzolava dal braccio dopo il buco, non brancolavano dove avrebbero
potuto trovarsi anche i bambini, nei parchi, ad esempio? I tossici dovevano recarsi al
Sert, tutti erano d’accordo su questo, non girare per i parchi dove giocavano i
bambini, al Sert trovavano assistenza medica e cure farmacologiche, al Sert non
erano più sporchi drogati che rovinavano la vita a se stessi e ai propri famigliari, ma
diventavano TD. I drogati erano tutti uguali per eccesso, i TD lo erano per difetto. Se
le vite erano sporche, le sigle erano pulite. Dei drogati si sapeva vita, miracoli e
soprattutto morte, i TD erano anonimi. TD era una sigla di riferimento per Melania
Carson, moglie di Meleagro Barton, quando si recava al Sert.
Meleagro stava pensando alla moglie con le gocce di sudore che gli imperlavano la
fronte. La moglie aveva avviato il riscaldamento nonostante la giornata fosse già
primaverile e per tutto l’appartamento si era diffuso il calore sbagliato. Meleagro
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andò alla caldaia e bestemmiando fece scattare il termoregolatore sino allo zero.
Quindi in ogni stanza aprì le finestre ed i lucernari in modo che si ristabilisse un
equilibrio termico fra l’interno e l’esterno. Da fuori entrò un vento caldo che lo colpì
sul viso, gli fece trattenere il respiro e socchiudere gli occhi. L’aria africana aveva
svegliato il cielo, strappandogli da sopra quelle lenzuola biancastre. Sino
all’orizzonte era tutta una danza azzurra. Meleagro lavava i piatti con la corrente che
entrava da tutte le parti, gli gonfiava la camicia come una vela, gli solleticava la nuca
e se fosse stato nudo chissà che cosa. Con i rumori che il vento faceva sul tetto
pareva proprio di essere al mare, su qualche molo oppure sempre a lavare i piatti, ma
nel campeggio “Scirocco”, con la pineta a due passi dalla spiaggia. Si asciugò le mani
ed uscì in un leggero stato ipnotico, dimenticando persino di chiudere a doppia
mandata la porta di casa. L’intacchinimento lo stava portando ancora una volta verso
la bici, ma quell’incanto di tempo azzurro e caldo che si percepiva anche in cortile, lo
spinse a salire sul sellino con contentezza e a dare il primo colpo di pedale con
giovanile entusiasmo.
Incrociò il signor Arturo Maloni e lo salutò con trasporto, staccando la mano dal
manubrio ed agitandola come una banderuola. Il signor Maloni, che era l’anziano
capo condomino, gli restituì un frettoloso buongiorno a denti stretti. Non apprezzava
tutto quel calore fuori luogo.
Arturo Maloni durante la seconda guerra mondiale era un ragazzino sfollato . Gli
aerei anglo-americani sganciavano confetti esplosivi per preparare il terreno alla
successiva elargizione di chewing-gum e calze di nylon. Il ragazzino impaurito si era
rifugiato in un condotto che perforava la collina. Dopo il bombardamento tutti erano
usciti fuori dai nascondigli, Arturo Maloni no. Che fosse rimasto incastrato nel buco o
che fosse traumatizzato per le esplosioni, Arturo Maloni non dava alcun segno di sé.
La voce non gli usciva o non si sentiva, altro modo per far capire che era vivo non
c’era. Molti pensarono che una bomba l’avesse centrato in pieno e che lui si fosse
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dissolto nell’aria. Passò qualche giorno senza che dal cielo si predisponessero
ulteriori pianificazioni economiche. Un cagnolino allegro e smagrito s’infilò nel
condotto e riconobbe la presenza umana. C’era un forte odore di urina, questo è
chiaro. Il cane iniziò ad abbaiare e Arturo Maloni uscito dalla catalessi iniziò ad
urlare. Accorsero in molti, in molti chiesero:- Riesci a muoverti? – e Maloni: - Ho
paura di no.
In molti dissero: - Dai, vieni fuori, la guerra è finita – e Maloni: - No ho paura di…
Il problema era che il condotto collegava una lama piena d’acqua ad un altro canale
che doveva essere riempito. Passò un altro giorno. I contadini insistevano. Non si
sapeva se il corpo del ragazzo potesse ostruire a mo’ di tappo il passaggio o se
l’acqua arrivando potesse annegarlo. Male in tutti e due i casi. Allora per risolvere il
problema dell’acqua si pensò al fuoco. Il tubo era lungo una decina di metri.
Incendiarono un groviglio di sterpi e con una pertica lo spinsero verso il centro del
condotto dove si trovava quell’asino di Maloni. Comunque alle prime urla si sarebbe
potuto pompare dentro un po’ d’acqua per spegnere l’incendio. Non ce ne fu bisogno.
Sentendo le fiamme bruciarlo Maloni schizzò fuori dal buco veloce come una lepre.
Un po’ lo abbracciarono, un po’, con la scusa di spegnergli il fuoco addosso, lo
estinsero a scappellotti. Da quel giorno il signor Arturo Maloni vedeva la vita
attraverso il diametro di un tubo e pensava che le manifestazioni di calore nei suoi
confronti fossero del tutto fuori luogo. L’ultima cosa che Meleagro vide del signor
Maloni prima di uscire dal cancello fu il suo berretto con la visiera. Meleagro che non
si considerava di una certa età e che in effetti non lo era, non portava berretti da
baseball. D’inverno usava passamontagna di lana, nella bella stagione lasciava al sole
e al vento i capelli neri e ricci e la chierica che si era formata al centro della zucca.
Pedalò, poi si fermò a togliere la giacca, pedalò ancora e decise di liberarsi pure del
maglione. Il caldo era veramente esagerato. Passò accanto ad un segnalatore posto su
un negozio che dava la temperatura coi cristalli liquidi. Segnava 26 gradi. Ed era il
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due di marzo. Ora che era fuori città, dalle parti di Gargallo, vedeva nugoli di
margherite ai margini dei fossi e la loro crescita pareva così irresistibile da sentirlo
addirittura, il rumore dello sboccio. Il sole schioccava la frusta e – oplà – loro in un
attimo si alzavano in piedi. Le auto che gli passavano accanto avevano i finestrini
abbassati e i gomiti fuori. Non si capiva se tutto quel calore fuori stagione fosse una
benedizione oppure una disgrazia. Si era in quegli anni che in ogni angolo
dell’Impero si compilavano statistiche sui dati del surriscaldamento atmosferico.
Anche Meleagro non capiva se gli piacesse o no. E’ risaputo che il bel tempo stimoli
le endorfine, le sostanze chimiche che danno il buonumore, per ogni uomo era così e
dunque anche per Meleagro. Ma il vento stava diventando molto forte e faticava a
pedalare e poi era caldo, caldissimo, un ghibli del deserto che lo faceva sudare e gli
attaccava la maglietta della salute alla pelle del dorso. Sbuffando si fermò di fronte a
una fattoria e quando riprese fiato si divertì a vedere come il vento scompigliasse il
piumaggio di una comitiva di oche che procedeva imperterrita per l’aia. Fu a quel
punto che Meleagro sentì il lamento e subito dopo, come era accaduto ad Arturo
Maloni sessant’anni prima, vide sotto il manto dell’erba la buia apertura del condotto.
Il capo condomino non aveva mai raccontato a Meleagro della sua disavventura
bellica e quindi non pensò affatto avvicinandosi che quello poteva essere il tubo in
cui si era infilato da ragazzino lo sfortunato Maloni. Si avvicinò perché dal centro del
tubo gli pareva provenisse un insistito lamento e non poté fare a meno di pensare che
vi fosse rimasto incastrato un innocente. La Tv riferiva sempre di poveri bambini che
per giochi innocenti o crudeltà umana finivano in pozzi profondi o contorti cunicoli.
Meleagro si mise in ginocchio e tese l’orecchio verso l’oscurità. Ancora quel verso
disumano, straziante. Allora non ci pensò su nemmeno un attimo. Dimenticò la
lombalgia, dimenticò la separazione dalla figlia, dimenticò il rapporto complicato con
la moglie, dimenticò la ricerca del senso della vita su cui si stava applicando ormai da
vari mesi. L’emergenza stava mettendo a posto ogni cosa e rispondeva ad ogni
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domanda. Qualcuno stava soffrendo e lui doveva portare aiuto al più presto. Tutto lì.
Si mise sul fianco e strisciando come un verme introdusse il capo e le spalle nel buco.
Per il testone non ci furono problemi, ma le spalle dovette stringerle a modo. Era un
pezzo dentro ed uno fuori. Là dentro c’era buio e puzza di putrido. Il lamento
sembrava avvicinarsi o forse era stato Meleagro a ridurre le distanze.
A questo punto occorre una precisazione. Non provate a pensare che Meleagro fosse
un eroe. Meleagro innanzitutto non esiste, è una semplice finzione letteraria, un filo
neppure troppo logico che serve allo scrittore per far procedere una storia
sconclusionata, un sughero galleggiante che ogni tanto riaffiora dalle acque troppo
basse del racconto. Smettiamola di proiettare le nostre aspirazioni sui personaggi dei
romanzi o sui concorrenti dei reality. Nella realtà non esistono, sono figure
bidimensionali. Basta che uno si affacci dalle pagine del libro o dal video della Tv per
riscuotere la fede indiscussa di ogni persona. Gli si crede ciecamente, si pende dalle
sue labbra, i suoi gesti ci inchiodano alla poltrona. Il protagonista è l’eroe
trascinatore, infatti “protagonista” significa “Il primo che combatte”. Avete presente
Achille? Un tempo quando gli uomini erano piccoli piccoli l’ipertrofia dell’ego era
affidata agli eroi ed alle loro immani imprese. Ora che ognuno di noi ha un ego
spropositato, proiettiamo il nostro interesse anche sugli esseri più vili e sulle loro
scorregge. Una volta erano guerre selvagge e peripezie intorno al mondo, ora può
essere anche una casa, una stanza, la noia del giorno e della notte. Combatti tu
dunque per me, porta avanti tu l’inesausta fatica della ripetizione quotidiana. Noi ci
riconosciamo in te, ti affidiamo il fazzoletto come faceva la dama medievale al
proprio campione di torneo. Combatti e vinci per noi. Mostraci tutti i tuoi difetti in
modo che possiamo riconoscerci in loro, sobbalzeremo ad ogni tuo sospiro e ti
saremo grati se riporterai la più stupida delle vittorie.
Ebbene, io vi dico di non fare il tifo per Meleagro. E’ fatica sprecata. Meleagro ha il
nome di un ‘protagonista’, ma lui non lo è. Nel tempo lontanissimo del mito
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esistevano gli eroi e Meleagro era uno di
quelli. Meleagro allora uccideva
giganteschi cinghiali divini e ingaggiava lotte all’ultimo sangue con popoli interi che
pretendevano di mettere le mani su quelle magiche spoglie. Era invulnerabile. Il suo
destino era legato però ad un tizzone che ardeva nel focolare. Se si fosse ridotto in
cenere anche la vita di Meleagro si sarebbe estinta. Come fare? La madre Altea
spense il legno e conservò il simulacro in uno scrigno, sino a che Meleagro le uccise i
fratelli e lei per la rabbia non ributtò il tizzone nel fuoco. Bruciò completamente e
Meleagro cadde a terra senza un lamento.
Dunque, se volete pensare a qualcosa, pensate alla brevità della vita, ai capricci del
destino piuttosto che alla statura sempre inappropriata dei protagonisti. In questa
storia s’immagina poi che i genitori lo abbiano così battezzato per ricordare un
campione di tempi più recenti, un amico partigiano grecista che leggendo l’Iliade
proprio Meleagro aveva scelto come nome di battaglia e che era morto combattendo i
nazisti, non perché il tizzone si fosse estinto, ma perché il mozzicone di una sua
sigaretta rosseggiasse nel buio del bosco, esponendolo al tiro crudele di un cecchino
nemico.
Ebbene, c’è un terzo personaggio che porta questo nome e quando il nostro Meleagro
lo scoprì, sorrise ed ebbe una più profonda comprensione della propria natura. Di
questo parleremo più avanti. Degli altri due, l’eroe e il partigiano e con il loro
coraggio non aveva niente in comune. Non era di quella stoffa, era una canaglia, un
vigliacco. Combatteva solo con la sua classe avendone una paura folle ed ogni
concessione al dialogo era solo un mezzuccio per ottenere benevolenza e fare andare
avanti il tempo, cercando di suscitare entusiasmi che fingeva di condividere ed invece
disprezzava.
E allora perché si era prontamente infilato nel tubo per salvare il piccolo? Oh basta!
Per fare in modo che non vi affezioniate troppo, sospendiamo a questo punto la sua
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storia, lasciamo Meleagro nel tubo e raccontiamo di altri personaggi, anche questi, vi
assicuro, per niente eroici. Di Meleagro non sentirete più parlare per pagine e pagine.
28
4. umanità
Comunque, per non disorientarvi troppo, anche questo capitolo inizia con un condotto
e fatte le debite proporzioni, con qualcosa di grosso che vi finisce dentro.
Melania Carson, come nel film “Scopare bene sotto il tavolo…e anche sopra!”, si sta
facendo montare da TD sulla scrivania di un ufficio del Sert. TD aveva fatto capire a
Melania che la sua irrefrenabile passione non conosceva tempi e luoghi opportuni, ma
in effetti la sua intenzione era riprodurre su scala reale una scena del film visto su
Sky Hot Club la notte prima. - E’ vecchiotta, ma non è male – aveva pensato TD
prima di lanciarsi all’attacco – e poi ha quel che mi serve per rifare la scopata del
film. – E ora stava pensando: - Sì, proprio come nel film, cazzo! - Mentre lo faceva si
guardò intorno e pensò ancora: - Anzi, meglio! Mi sto scopando la psicologa del Sert!
Questi slanci di esaltazione erano stati indicati come elementi sintomatici nella
cartella personale di TD, alla voce “disturbi della personalità”, cartella inutilizzata
che stava vibrando nel cassetto sotto i poderosi movimenti sussultori delle reni
inarcate di TD.
TD aveva energia da spendere perché prima di arrivare al Sert si era aspirato da
esperto formichiere una striscia di polverina bianca chiamata cocaina. In quel periodo
la cocaina stava avendo un notevole ribasso di prezzo perché la nuova strategia del
narcotraffico aveva previsto di lanciarla come droga di largo consumo. A TD che
costasse poco o tanto non fregava assolutamente niente perché di soldi ne aveva a
palate. La cocaina l’aveva sniffata sulla plancia del suo SUV, qualche granellino
residuo lo aveva raccolto con la lingua rialzando il bavero della sua giacca griffata
Dolce e Gabbana.
Il SUV ( Sport Utility Vehicle) era un’automobile corazzata molto in voga e che
provocava incidenti spesso mortali, ma non potendolo fare i morti, anche i feriti più
gravi giravano la testa verso l’automezzo colpevole, ma tenebrosamente splendido e
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lanciavano fischi di ammirazione. Il SUV di TD era un Lincoln Navigator, prodotto
da
un’industria
automobilistica
dell’Impero
Americano
chiamata
Ford
e
soprannominato scherzosamente dal proprietario Black Death, Morte Nera.
In un posto da sfigati come il Sert, anche il suo nome, per ragioni di riservatezza, era
stato cancellato e lui, come vari altri, era diventato TD. TD era ai ferri corti con la
famiglia, detentrice di un logo che fatturava annualmente più di 100 milioni di euro.
Il logo veniva impresso su felpe, t-shirt, berretti, borse, giubbotti ed era fatto così
La ditta era quella di Ares ed Arianna Truman, i genitori di TD, diventati ricchi negli
anni Settanta con la storia della maglieria, quando ancora l'idea vincente contava
meno del duro lavoro applicato. Quel loro ultimo figlio invece incarnava
perfettamente lo spirito dei tempi. La trovata per il logo era stata sua e uno staff di
geniali disegnatori l'aveva solo rielaborata, ma bastava il cacamento di un'ideuzza ,
anche se foriera di soldi a palate, per sentirsi in diritto di esimersi da ogni attività
lavorativa ed imprenditoriale e di dedicarsi ad ogni tipo di divertimento, sano o
insano che fosse? Il padre non era dell'avviso. A 27 anni non si poteva poggiare il
culo su di un divano di design con la convinzione di non alzarlo più. A TD era stato
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assegnato il commerciale, avrebbe dovuto occuparsi di promuovere l'immagine della
ditta in ogni parte del mondo e lui in effetti in ogni parte del mondo c'era pure stato. A
New York e Los Angeles, a Londra e ad Hong Kong aveva organizzato e partecipato
a feste dove però circolava roba che le immagini più che fissarle le deformavano. Il
suo tour di apprendistato gli aveva lasciato il cervello zeppo di metaboliti di cocaina e
tornato a casa non aveva potuto far altro che correre alla ricerca di pusher locali per
rilanciare lo sballo. Tutti lo sapevano in giro, lo vennero a sapere anche il padre e la
madre. Arianna Truman si dispiaceva, ma vedeva in quel vizio l'acquisizione di una
nuovo brillante status sociale. Il fashion system era crudele, per rimanere all'altezza
qualche erroruccio lo si poteva commettere. Ares Truman lo ammonì una prima ed
una seconda volta, gli cambiò incarico, non lo mosse più da casa, gli mise al fianco
uomini di fiducia. Niente da fare. Tutti in ditta erano tenuti a timbrare il cartellino,
TD lo arrotolava e lo usava come cannuccia per sniffare. Ad una riunione decisiva
con i giapponesi, tutta la famiglia presente, TD non riusciva a stare fermo, rideva a
sproposito, faceva strani versi con la bocca. Ares era imbarazzatissimo, i clienti
facevano finta di nulla. In un momento di riflessione plenaria – il silenzio che precede
la firma o il rientro delle Mont Blanc nel taschino – tutti sentirono il ticchettio
intermittente di una goccia. Ci fu chi guardò fuori – una splendida giornata di sole –
chi in alto – nessuna macchia di umidità -, poi tutti si voltarono verso TD. Aveva il
capo piegato e la mano destra gli sosteneva la fronte nascondendo gli occhi ed il
naso. Per un attimo il padre si stupì nel vederlo così assorto, poi : plop! Era dalle sue
narici che stavano scendendo sul tavolo di cristallo grosse gocce di sangue, l' una
dietro l'altra. Infine l'emorragia esplose in tutta la sua violenza ed una delegata
giapponese seduta accanto a lui portava un tailleur bianco...- Una roba orrenda...il
completo, cioè -commentò la madre – se gliel'ha rovinato va tutto a suo vantaggio! -.
Ares Truman lo convocò in ufficio.
Devi smetterla con quella porcheria.
−
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TD sembrava sinceramente contrito.
Sì, babbo. Voglio smettere.
−
Aveva portato con sé un pieghevole.
C'è questo centro di disintossicazione in Texas...dicono che fanno i miracoli...c'è
−
stato anche Michael Douglas...completamente ripulito...
Ares gli tolse il dépliant e aggiunse allo sguardo durissimo un ghigno beffardo.
Li conosco io questi centri...guarda qua, le piscine, il casinò...tu rimani qui e poi
−
fai la fila all'AUSL come qualunque altro drogato. Basta coca e basta puttane. Ti
ci porto io di persona all'ospedale. Ed anche in ditta, gavetta!
Non c'erano state ragioni. Anche Arianna aveva accettato con la morte nel cuore,
pronta a subire l'umiliazione e a farsi asciugare le lacrime dalle amiche del solarium.
Per un mese era stato senza droga e senza sesso. Quel giorno stesso uno spacciatore
di quelli bravi – all'apparenza un ragazzone entusiasta per le macchinone - gli aveva
attaccato la stagnola al tubo di scappamento del SUV. Il tipo che controllava TD era
girato col telefonino. TD aveva recuperato la roba e se l'era fatta nel parcheggio
dell'AUSL, dove gli uomini del padre lo mollavano e giravano indietro. Dopo aver
benedetto in quel modo la terra del nemico, TD era entrato al Sert. Ora si stava
scopando alla grande la psicologa del Sert direttamente sulla sua scrivania ed il suo
nucleus accumbens debitamente resettato dal tiro di coca e dalla replica live della
scena porno, stava pompando a mille. Il nucleus accumbens! Un agglomerato di
cellule della grandezza di un'oliva ficcato per nostro sommo spasso al centro del
cervello... Lì si concentrano le trasmissioni dopaminergiche, quella è la sede della
nostra suprema gratificazione, che si faccia sesso, si fumi, si sniffi o si mangi
semplicemente cioccolata! Dunque, dopo averlo titillato sino al botto finale , TD si
riassettò tutto tranquillo come se realmente avesse soltanto mangiato pane e nutella.
Restava il fatto che era tutto sudato. Ci volle fare una battuta sopra.
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Ahò, me l'avevi detto che per la mia terapia bisognava sudare tanto! - disse a
−
Melania riallacciandosi la cintura. Melania scendendo dalla scrivania non poté
fare a meno di fissarlo negli occhi. Le pupille di TD erano fortemente dilatate.
Sapeva sin troppo bene a cosa associare quel sintomo, ma confusa com'era volle
illudersi che fosse dovuto alla passione suprema che il suo partner aveva profuso
nel consumare l'atto. La sua ingenuità le derivava dalla quasi totale inesperienza in
quel tipo di incontri. In quasi vent'anni di matrimonio aveva tradito il marito solo
due volte: una volta con un suo ex, un'altra, ubriaca, con un collega ad un
congresso in una città europea. Mai su una scrivania. Per TD era normale dopo il
sesso riacquistare la giusta distanza, per Melania la faccenda era più complicata.
Avrebbe voluto buttarsi tra le sue braccia per esserne rassicurata, ma si rese conto
solo in quel momento del tempo e del luogo. Nel suo ufficio? Stava per arrivare
una crisi di panico. Andò alla finestra e l'aprì.
−
Ho caldo – disse voltando le spalle a TD.
−
Hai voglia! – disse TD allungando le braccia e facendo scrocchiare le dita
intrecciate.
Melania si voltò di scatto tutta rossa in viso. Aveva inteso l'innocente commento di
TD riferito alle condizioni metereologiche come una domanda riferita ad un suo
eventuale appetito sessuale non ancora appagato. TD non comprese il
fraintendimento e riempì il silenzio che si era creato infilandosi la giacca di Dolce e
Gabbana. Notò una macchia biancastra sul bavero, poi abbassò lo sguardo e ne notò
un'altra sulla patta dei pantaloni. Sorrise tra sé ripassando in un flash multicolore le
sue ultime imprese. - Il campione sta tornando! - Pensò tutto allegro. O forse lo stava
dicendo? - Beh, allora alla prossima seduta... - fu sicuro di dire armeggiando con la
maniglia della porta. La porta era chiusa. Melania accorse con la chiave. I due erano
di nuovo troppo vicini. TD voleva passarle una mano sul culo,ma lei si scostò
facendo scattare la serratura.
33
−
Ma tu vuoi veramente... – sussurrò Melania.
−
Mio padre rompe. Gli appuntamenti sono stati fissati. Tutto a posto, no? - concluse
TD, che vedeva solo colori accesi e nessuna sfumatura.
Melania, come fosse un comune td, gli infilò nella tasca della giacca il cartoncino con
la data del successivo incontro. - Arrivederci – disse, sforzandosi di essere formale,
ma aspettandosi almeno un bacio di commiato.
Ciao, eh! – disse con bella disinvoltura TD. Si passò le mani sulle labbra che
−
sentiva secchissime e pensò al boccale di birra fresca su cui le avrebbe poste
appena uscito di lì.
Dopo che se ne fu andato Melania si lasciò andare sulla sua sedia girevole. Aprì la
mano e la posò sulla scrivania per sentire se c'era ancora calore. Le venne anche
voglia di annusare, ma se ne vergognò. Lasciò scorrere lo sguardo per la stanza. Nelle
riproduzioni di impressionisti appese alle pareti non un filo d'erba s'era mosso, non
una foglia era volata via. Dov'era andata la bufera?
Si sentiva sporca, aveva bisogno di una doccia, ma abbassò la testa per
capire
se
l'odore di TD lo aveva ancora addosso. Perché poi lo aveva fatto? TD era un bel
ragazzo, ma non si capacitava che fosse bastato questo. L'aveva toccata. Aveva
tagliato di netto il nodo, era stato semplice. Lei, abituata al controllo spietato della
situazione e al predominio dialettico, era crollata clamorosamente quando avevano
iniziato a parlare le mani e la lingua aveva smesso di agitarsi per discutere, tornando
ad essere un dolce muscolo muto. Se ci pensava c'erano stati segnali. Non si erano
trattati di richiami del corpo, ma di uno sfibramento di quella che era la sua principale
attività esercitata quotidianamente nella professione. Parlava ai pazienti, ma era come
se recitasse una parte. I gesti e le parole erano diventati vuoti, da un mese almeno. E
così il palazzo era crollato dall'interno, la città nuda si era consegnata spontaneamente
agli assedianti. Era arrivato un re selvaggio a cui era facile obbedire. Questo detto in
bella calligrafia. In realtà Melania aveva i brividi anche se si crepava dal caldo e non
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aveva voglia di analizzare un bel niente. Vide sul muro la laurea incorniciata e pensò
alla deontologia professionale che le vietava categoricamente di stabilire quel tipo di
rapporti con un paziente. Pensò con terrore che avrebbe dovuto passare TD per la
terapia a qualcun altra. Non sarebbe più entrato nel suo ufficio, non ne avrebbe più
varcato la soglia. E se si vedessero fuori? Pensò che un chiarimento era necessario.
Occorreva troncare tutto e subito per non lasciare dubbi sulla sua onestà di psicologa
e di donna. Avevano deciso quella cosa consensualmente, da persone adulte e
consapevoli. Consapevole TD? Se lo vide di fronte come prima e si portò la mano
all'inguine.
TD aveva messo in moto Black Death. L'impianto stava sparando a manetta i System
of a down e lui sentiva l'arsura in gola. Ricordò con fastidio che il padre, per
rieducarlo, gli aveva affidato un incarico da negro. Doveva passare dalla lavanderia
industriale e prendere un carico di stoffe ripulite pronte per l'impressione del famoso
marchio. - Cazzo! E la mia birra? - In zona c'era un baretto in cui era entrato due o tre
volte. Lì avrebbe bevuto a canna e nessuno avrebbe potuto obiettare. - Il campione
sta tornando – urlò, pigiando sull'acceleratore. In un minuto si ritrovò davanti al Bar
Bone, che aveva come insegna un vagabondo stracciato che si stava scolando una
bottiglia. Entrò ed ordinò una Beck's ghiacciata. Non staccò le labbra, fino all'ultima
goccia. Il nucleus accumbens ebbe un leggero sussulto che fu interpretato da TD
come licenza di ordinarne una seconda. Questo volta però decise di gustarsela, a
piccoli sorsi.
Seduto ad un tavolo d'angolo del Bar Bone, davanti ad un bicchiere di acqua minerale
frizzante, c'era un ragazzo con una tunica color sabbia, la pelle scura e una leggera
peluria sopra il labbro e sul mento. Il suo nome era Salman Gosht ed era il fratello
maggiore di quella Gosht non troppo preparata sulla prima rivoluzione industriale.
Salman aveva più o meno la stessa età di TD, ma non aveva mai consumato alcolici
né fatto l'amore con una donna su di una scrivania o in qualsiasi altro posto più o
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meno comodo. Salman sapeva chi era TD perché lavorava alla lavanderia industriale
ed una volta gli aveva consegnato personalmente i pacchi con le pezze pulite. Stava
aspettando di iniziare il turno di notte e la finestra del bar incorniciava perfettamente
il capannone in cui avrebbe consumato ogni sua energia sino alle cinque del mattino
successivo. Il giovane uomo pakistano incontrò lo sguardo di quello italiano e gli
sorrise. In fondo avevano più o meno la stessa età e facevano parte dello stesso
impero mondiale. TD ricambiò il sorriso alzando la mano sinistra come giurasse di
dire tutta la verità e – Giuro – infatti disse, posando il boccale di birra e rivolgendosi
non a Salman, ma al barista dall'altra parte del bancone. - Giuro che il campione è
tornato! - disse. Il barista era uno di quelli bravi a prendere la palla al volo e a
rilanciarla più forte ancora. Si chiamava Lando Erris, aveva 62 anni, gli occhiali, la
pelle rossastra, la testa pelata sopra, ma con i pochi capelli grigi lunghi sul collo.
Quel giorno Lando Erris era in uno stato euforico perché aveva appena mollato la
moglie per una donna di 25 anni più giovane. La moglie non funzionava più non solo
dal punto di vista del nucleus accumbens, era ingrassata, passava ore davanti al
televisore a guardare reality e quando lui le aveva comunicato la decisione storica,
aveva semplicemente cambiato canale. Con l'altra riusciva ad andare una volta al
cinema ed una a ballare, per non parlare del suo nucleus accumbens che era tornato a
pompare alla grande.
Non solo è tornato – ribattè dunque Lando Erris riflettendosi nell'entusiasmo di
−
TD – ma è capace di fare filotto, carambola e di mettere tutte le palle dentro!
Salman riusciva a capire alcune parole quando gli italiani discorrevano fra loro, ma
altre le perdeva per strada e non riusciva più a recuperarle. “Carambola”, “filotto”:
cosa significavano? Che TD fosse un campione per Salman non c'erano dubbi e poi
era propenso a credere per la confidenza e la velocità con cui si scambiavano le
battute che lui e il barista fossero grandi amici. In effetti era la prima volta che si
vedevano, ma una comune esperienza di gioia, artificiale o naturale che fosse, li
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accomunava e li rendeva solidali in quel giro di allusioni. Salman era convinto che
tutti gli altri non appartenenti alla sua comunità risultassero più amici di quanto in
realtà non fossero. Era una sensazione ricorrente che segnava la distanza del suo
isolamento e lui si ritraeva ancora di più, consapevole che quella scioltezza fra
uomini non l'avrebbe mai conosciuta. Salman finì la sua acqua minerale e lasciandosi
alle spalle la coppia che continuava a scambiarsi battute e a sghignazzare, uscì dal
Bar Bone.
Per arrivare alla lavanderia bisognava attraversare un parchetto con una giostra
divelta e chiazze di erba strinate. Seduti sullo schienale di una panchina tutta scritta,
c'erano Zaccaria Danson e Gino Aiello che stavano succhiando un ghiacciolo. Salman
passò accanto e tirò dritto. Zac e Gino lo videro e si diedero di gomito.
Mannaggia a'morte! Ma non è il nostro amico Salman chillo che è trasito? - disse
−
Gino a voce alta apposta per farsi sentire.
E Zac, alzando il tono anche di più: - Sei un mona, c'hai i maccheroni al posto del
cervello! Che se era Salman, ostrega se si fermava!
Salman aumentò il passo senza dare ascolto. La comprensione delle espressioni
dialettali non era più complicata dell'Italiano, anzi quel tipo di coloritura gli faceva
capire il tono di una frase, se non il suo senso logico, meglio e più in fretta. Nel caso
dei due tipi, era meglio girare alla larga.
Gino Aiello aveva ventiquattro anni ed era venuto su da Somma Vesuviana con la
famiglia cinque anni prima. Zaccaria Danson di anni ne faceva 28 ed era arrivato in
città da Mestre per fare il muratore. Sulla carta geografica dell'Impero gli abitanti
africani ed asiatici avrebbero cercato Napoli e Venezia fra le zone colorate in oro, ma
a ben vedere sotto la patina di vernice dorata un po' di ruggine c'era. Un po' di
miseria, soltanto un po', relativa certo se paragonata a quella annichilente di Africa e
Asia, ma che spingeva giovani come Gino e Zaccaria a spostarsi dal luogo di nascita
alla ricerca di prospettive di vita migliore. Non era poi sicuro se questi trasferimenti
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accomunassero o dividessero. Molti della regione di Zaccaria erano ostili alla povertà
esibita di Aiello e dei suoi conterranei, alla loro lingua, alle loro abitudini. In Zaccaria
l'ostilità si tramutava piuttosto in presa per il culo metodica, ma bonaria. Strane robe:
dei due il biondino con gli occhi chiari era Gino, quello scuro di pelo e di capelli era
Zac. I due tenevano il culo attaccato ad una panchina perché per loro era il modo più
soddisfacente di passare il tempo. Può sembrare poco, ma questa convergenza ne
portava con sé altre significative: la scarsa voglia di guadagnarsi il pane sudando,
l'invidia feroce verso i detentori di quel potere che obbligavano gli altri a guadagnarsi
il pane sudando. Zac aveva fatto per qualche anno il punkabbestia e l'A di anarchia
disegnata sullo scivolo era una sua tardiva e trascurabile opera. I punkabbestia erano
dei vagabondi che giravano per le metropoli accompagnati da cani mal in arnese e
sporchi quanto loro, chiedendo spiccioli ai passanti per il sostentamento
della
persona e dell'animale. A Zac un giorno il cane era morto e lui aveva deciso di
rientrare nei ranghi e darsi un minimo da fare. Avrebbe potuto tirare su i muri, ma
prendere gli ordini lo faceva incazzare, specie se a darli erano tipi mingherlini per
nulla intimoriti dalla sua mole ragguardevole e dal fatto che si dicesse in giro che era
un violento. A Gino una decina di euro al giorno glieli passava la madre che faceva le
pulizie, ma ci aveva altri tre figli piccoli da provvedere che almeno loro la voglia di
studiare ce l'avevano. Il padre non lavorava, aveva un cancro alla prostata e passava
tutto il giorno davanti al televisore, anche spento.
Zac e Gino erano da circa due ore sulla panchina. Per raggiungere Salman presero
l'iniziativa di alzare le chiappe. Zac fece più fatica dell'altro e quando Gino raggiunse
il ragazzo, lui era un tre metri indietro.
Allora, non saluti, marocchino e'mmierda? - attaccò Gino con un bel sorriso ed un
−
tono affabile che contrastava con le parole. Con 'marocchino' in quel quadrante
dell'Impero si identificavano spesso extracomunitari di ogni razza e paese. Salman
aumentò il passo. Zac arrivò alle spalle di Gino e lo caricò con forza. Gino
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proiettato dalla spinta arrivò quasi ad abbrancare il bacino o le gambe del
pakistano. Sembrava rugby e Zac provò una fitta di nostalgia perché da ragazzo ci
giocava. Salman si divincolò e riuscì a portarsi al di là del cancello che segnava il
confine della lavanderia. I due sapevano bene che a loro non conveniva
oltrepassarlo.
−
Ma dai, lo sai che ha sempre voglia di scherzare , 'sto terrone! - gli urlò dietro Zac.
Gino aveva trasformato la mancata presa in un balletto bloccato, dove muoveva le
braccia come se avvitasse delle lampadine. - Ueh! −
Dai, tu che hai lo stipendio fisso, vieni fuori a pagarci una Heineken. Così la provi
anche tu la birra, con 'sto caldo fuori stagione. Va giù che è un piacere, cazzo!
Ma Salman stava già entrando. Gino e Zac lo fissarono ancora per un po', quindi
tornarono alla panchina e questa volta si appoggiarono per bene allo schienale. Passò
un minuto di assorto silenzio, che poi si fece assortito perchè era interrotto ogni tanto,
a destra e a sinistra, da un rutto o da una scorreggia.
−
Che se la mettano nel culo la loro lavanderia di merda! Mi ci lavo la mona con i
loro sofisticati macchinari!
Gino si limitò a ghignare e ad alzare il dito medio contro il capannone. Dieci giorni
prima nord-est e profondo sud ci lavoravano dentro. Erano stati richiamati più volte
per scarso impegno ed assenteismo. Un giorno erano stati trovati con le mani nel
sacco. Stavano imboscando una partita di jeans ancora da lavare, per passarli poi al
florido mercato del taroccamento. Gli era andata anche bene che erano stati soltanto
licenziati. Niente più busta paga, ma tanto era una miseria per tutta quella fatica. Di
soldi in giro ce n'erano, bastava trovarli.
−
E ora che si fa? - chiese Gino fra uno sbadiglio e l'altro.
−
Ci sarebbe da prelevare il fumo – rispose Zac.
−
Vabbè, andiamo a prendere o' spaccimme... - disse Gino senza muovere un
muscolo. I due sbuffarono all'unisono.
39
−
Ohé, guarda il Suv nero parcheggiato – fece Zac.
−
E' un Ford Lincoln Na-vi-ga-tor – precisò Gino e poi aggiunse: - Ecchè? Te lo vuoi
fottere?
−
Siam troppo vicini alla fabbrica. Ci sono anche le videocamere, puttana! Però me
lo vedevo bene sotto il culo...ohé, Gino bisogna pensare al grande colpo, altro che
spaccio! - esclamò Zac battendosi le mani sulle coscie.
−
Pensiamoci, pensiamoci – concluse Gino, stirando insieme come un gatto le
braccia e le secche gambe.
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5. inginocchiarsi su uno skateboard e pregare rivolti a Roma
Arturo Maloni era un tipo preciso e coltivava la precisione in ogni ambito di sua
competenza. Aveva lavorato una vita per la cooperativa dei muratori, da semplice
manovale a capocantiere, e sapeva distinguere senza uno sbaglio i cento e più palazzi
della città che anche grazie a lui erano stati tirati su a regola d'arte. Dal primo mattone
all'ultimo infisso, eccome se la vecchia scuola ci sapeva fare! C' erano bravi architetti
e geometri scrupolosi, muratori che non si tiravano mai indietro, falegnami ed
idraulici d'esperienza, elettricisti che collegavano i fili ad occhi bendati. Passavano
decenni prima che le case avessero bisogno di manutenzione e non c'era stata scossa
di terremoto – anche quello col botto del 1996 – che le avesse buttate giù o avesse
danneggiato seriamente le strutture, solo qualche crepa nell'intonaco che si rimetteva
a posto con lo stucco.
Maloni aveva cominciato a masticare amaro qualche anno prima della pensione, ma
ora che non lavorava più la bile la poteva sputare fuori senza paura di offendere
nessuno. Passava davanti ai cantieri e i colleghi lo chiamavano per salutarlo o perché
desse una controllata. Maloni però iniziava a storcere il naso e a dire che entrarci per
lui era una fitta al cuore anche solo a vedere le impalcature. No, non c'era più
precisione. A partire dalle fondamenta, ovvero i fondamenti, le basi proprio. Le ditte
che si pigliavano gli appalti erano diventate delle vere associazioni a delinquere, per
guadagnarci si rifornivano di materiali pessimi che spacciavano per l'eccellenza e
facevano tirar via in fretta sui lavori di precisione per pagare meno ore alla
manodopera. Risparmio su risparmio, profitto su profitto. E il muratore ormai chi lo
voleva imparare, per questo e per le minori pretese, nei cantieri la manovalanza era
tutta di extracomunitari. Maloni era cresciuto alle feste dell'Unità e con gli anni, lui
che ci aveva sempre servito il gnocco fritto, aveva accettato anche gli stand con il
cus-cus ed il kebab, dunque non poteva essere pregiudizialmente contrario a quelli di
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altri paesi. Però la verità bisognava pur dirla e la verità era che c'era più precisione
quando i muratori si chiamavano Tarcisio, Nellusco, Pippo o Santino. Meglio girare
al largo dai cantieri allora, puntare verso il centro e inorgoglirsi di fronte ai cento e
più palazzi che anche grazie alla sua pertinenza erano stati tirati su a regola d'arte.
Maloni ne sapeva riconoscere l'annata al primo colpo d'occhio. Questo l'abbiamo
tirato su nel '79, questo con lo scivolo e i garage sotterranei ci abbiamo sudato
nell'83, in questo così stretto ci abbiamo bestemmiato per ricavarci il vano ascensore
nel 2001. Le case del centro storico non superavano mai i quattro piani d'altezza e per
pitturarle bisognava scegliere in una gamma cromatica che andava dal vermiglione al
bordeaux, con qualche concessione all'arancione e all'ocra. I blu, i gialli e verdi non
erano ammessi e c'era un'ordinanza del Comune al proposito. A Maloni quei colori
andavano benissimo. Li riconosceva e ci si riconosceva. Le tinte delle facciate erano
interrotte da finestre, finestroni, finestrelle a cui corrispondeva la planimetria delle
stanze che Maloni ricordava benissimo. Fior fiore di ristrutturazioni, minimo 2.500
euro al metro quadro, appartamenti grandi abitati dai proprietari e arredati con cura,
oppure divisi in mono e bilocali affittati magari agli stessi muratori extracomunitari
che ci avevano lavorato dentro, ammobiliati molto chic da 800 euro al mese, davanti
alla cui soglia spiccavano vasi di ficus e scarpe da lavoro imbiancate di calcina.
Arturo Maloni la gente che ci abitava , per sua riservatezza, non provava neppure a
immaginarla. Ce n'era già tanta da studiare fra quella che girava per le strade e per la
piazza. Quel giorno aveva deciso di farsi una bella camminata sino alle poste per
pagare una bolletta. Si sorprese. Nella folla c'erano persone d'ogni colore, sia per la
pelle che per i variopinti abiti. Il Comune non aveva ancora emesso ordinanze che ne
limitassero l'esibizione, nessuno era tanto pazzo da richiederle, naturalmente, eppure
che la città diventasse mondo coglieva tanti impreparati e per tanti era proprio un
fastidio, un brutto pensiero rimosso, ma che si ripresentava ogni giorno appena si
metteva il naso fuori. Maloni ingannò se stesso e non volendo ammettere il proprio
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disorientamento di fronte a donne velate e uomini coi turbanti, preferì rifugiarsi
nell'abitudine. Alzare la testa e guardare i muri, dritti e precisi, uguali a se stessi per
sempre. Passò per la piazza e salutò un capannello di anziani toccandosi la visiera del
berretto da baseball. Entrò alla posta e lì il problema della precisione gli si parò
davanti pesante ed ostile. Doveva separare la bolletta con l'importo dal foglio con
l'intestazione e la lettura del contatore. Piegò, da una parte e dell'altra. Passò l'unghia
del pollice sulla linea di divisione. Diede un primo strappo veloce e la lacerazione
invece di seguire il tratteggio, si portò via anche un pezzo di conto corrente.
Bestemmiò. Provò più lentamente, millimetro dopo millimetro, ma la carta faceva
resistenza e alla fine lo strappo andava su e giù, un brandello di matrice e un
brandello di bolletta. Concluse che anche quello era un segno dei tempi. Non
esistevano più i bei tratteggi di una volta, non ti mettevano più nella condizione di
essere preciso. Quando arrivò il suo numero la postelegrafonica allo sportello non
commentò il lavoro mal fatto, ma prese le forbici e rese pari il tagliando prima di
inserirlo nella macchina. Maloni doveva pagare e quando diede i soldi contati vide la
sua mano tremare e se ne vergognò. Quella era la ragione per cui si era pensionato, se
no a tirar su palazzi ci sarebbe andato sino ad ottant'anni. Il filo a piombo con la
mano che trema non era proprio possibile. E poi Maloni pensava che quando iniziava
a tremare la mano, anche la testa prima o poi...
La postelegrafonica, che si chiamava Suzi D'Angelo, aspettò con pazienza che
Maloni recuperasse dal portamonete i 70 centesimi di tassa suppletiva. Gocce di
sudore le imperlavano la fronte sino alle sopracciglia ben modellate da un'amica
estetista. Dentro l'ufficio postale c'era il calore sbagliato perché l'impianto di
riscaldamento era ancora a pieno regime sebbene quello fosse l'inizio marzo più caldo
degli ultimi cent'anni. Sarebbe bastato girare una manopola, ma nessuno era
autorizzato a farlo e quindi si lasciava tranquillamente crepare dal caldo gli addetti ed
il pubblico. Suzi D'Angelo si tamponò il sudore con un kleenex e sorridendo chiese al
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signore dalla mano tremante i cinque centesimi che ancora mancavano alla manciata
di monetine lasciata cadere sulla plancia. Da cosa nasceva l'infinita pazienza di Suzi
D'Angelo? Non c'entravano i corsi d'aggiornamento o le terapie antistress. Suzi
D'Angelo, un'esile signora bionda cinquattottenne, doveva prendersi cura della
madre, malata di Alzheimer da alcuni anni. Finito il turno correva a casa a dare il
cambio alla badante e l'infinita stanchezza era dimenticata in nome dell'amore filiale.
La madre non bisognava perderla di vista un attimo. Il giorno prima Suzi D'Angelo
si era assentata – se permettete – per cinque minuti in bagno. Tornata nella camera
dove l'aveva lasciata, tutti i vestiti e la biancheria intima sparsi sul pavimento, del
corpo materno nessuna traccia, come l'avesse evaporato un raggio alieno. Aveva
guardato in ogni stanza, persino negli armadi. Sente voci provenire dalla via
sottostante, si affaccia, vede la madre nuda e passanti compassionevoli che cercano di
coprirla. I malati di Alzheimer credono di vivere in tempi e luoghi diversi rispetto a
quelli della comune realtà. Il caldo assurdo fa scambiare marzo per agosto, le ragazze
in top e i gelati riportano alla mente la riviera. La figlia di sessant'anni che ti prende e
la mano e ti riporta dentro è la figlia che tu prendi per mano ed accompagni fuori. Il
mare.
La pazienza insegna la pazienza sino a farla diventare inesauribile oppure a forza di
accumularla, ecco arriva il momento che si esaurisce all'improvviso? E crolla con un
fragore di valanga?
Il signore con la mano tremante era andato via ed al suo posto c'era ora una
ragazzotta col trucco pesante e le labbra chiuse intorno a un bastoncino bianco.
Abbassando gli occhi Suzi D'Angelo vide una canotta nera, gonfiata da un seno
prosperoso, su cui era impresso in giallo il marchio:
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La ragazza si chiamava Meri Grant ed era originaria di una terra vicina al centro
nevralgico dell'Impero, ma su cui la ricchezza dell'Impero cadeva soltanto sotto
forma di briciole chiamate turismo internazionale. La terra magnifica e povera si
chiamava Santo Domingo. Meri Grant che voleva sedersi alla tavola imbandita e non
raccattare le briciole dal pavimento, era in città da alcuni anni. Un minuto prima,
arrivata bella e fresca alle Poste, sul pavimento si era in effetti abbassata per
raccattare un numerino caduto. Era passata davanti ad un'anziana confusa esibendole
il pezzetto di carta straccia, si era presentata davanti a Suzi D'Angelo con il chupachups penzoloni ed un'aria sfrontata che era il suo modo di difendersi dalle
complicazioni del sistema. Aria sfrontata e scorciatoie erano le sue idee per
semplificarsi la vita. Il chupa-chups era una caramella sferica infissa su di un
bastoncino che i bambini consumavano per golosità e gli adulti per darsi un tono.
Prego? – chiese Suzi D'Angelo, a cui stava per scadere il turno.
−
Meri si sistemò la pallina del chupa contro una guancia , in modo che la lingua fosse
libera e sciolta.
Dammi la lettera – disse, buttando verso lo sportello l'avviso per riscuotere la
−
raccomandata. Suzi D'Angelo stava vivendo il suo momento più critico. Aveva
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terminata la pazienza spettante agli utenti e da lì a poco si sarebbe dovuta
ricaricare della pazienza dovuta alla madre. Vide benissimo chi aveva di fronte –
una ragazza maleducata e volle darle una lezione portando alle estreme
conseguenze la corretta prassi burocratica. Iniziò apposta a parlare complicato.
Innanzitutto questi gesti non sono consentiti dal regolamento, vede, se io apro
−
questo libro e vado all'articolo tale , comma tale, lei potrà leggere... in che termini
siano da concepire i rapporti fra l'utenza e gli addetti postelegrafonici. Quindi
riprenda la cartolina con l'avviso e cerchi di adeguarsi per favore, di avere un
comportamento rispettoso delle regole e delle persone.
Meri Grant si passò il chupa contro l'altra guancia, sbuffò e riprese la cartolina.
Ed ora devo informarla che questo sportello non espleta il servizio da lei richiesto.
−
Non è a questo sportello che lei potrà ritirare la sua raccomandata, qui si
effettuano solo versamenti. Per il ritiro delle raccomandate lei dovrebbe rivolgersi
a quello in fondo. Lei sa leggere, vero?
Meri estrasse il chupa-chups dalla bocca e – Vaffanculo – sibilò, non sapendo
neppure lei se si trattasse di un'imprecazione tanto per oppure un insulto rivolto alla
stronza che si trovava davanti. Perché tutto era così maledettamente complicato?
Invece a quel punto dall'altra parte la semplificazione diventò totale. Un urlo. Un urlo
altissimo fine di ogni pazienza. Un urlo che era uno schiaffo, un pugno, un toro
infuriato che incorna e fa volare via ogni cosa. A quell'urlo ogni operazione si bloccò,
i colleghi rimasero con le banconote e i moduli in mano, gli utenti con il dito bloccato
sulla macchina dispensatrice di numerini e tutti si voltarono verso lo sportello da cui
l'urlo era salito. Tutte le teste si voltarono insieme provocando una sventagliata d'aria
fresca che diede sollievo. Ce ne furono due che si sorpresero proprio un istante prima
che la porta col congegno elettronico si chiudesse alle loro spalle, riconsegnandoli
allo spazio esterno del piazzale con le biciclette e le auto parcheggiate. Erano le teste
infantili di Alex e Kevin Tarantino. La madre che li teneva per mano e che si
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chiamava Beatrice Appalachi, una bionda minuta ma grintosa, neppure ci fece caso,
tutta concentrata nello stringere piccole mani, nello spingere fuori bambini che
volevano stare ancora dentro a pigiare bottoni, a nascondersi dietro le poltroncine, a
fare disegni sui moduli delle A/R.
Allora andiamo a giocare al parco – disse con tono perentorio Kevin, che era il
−
più grande e avrebbe compiuto nove anni da lì a poco.
Ci vai, però stai nei dintorni ed ogni tanto ti fai vedere. Alex invece sta a casa con
−
la mamma e l'aiuta in cucina.
Alex non protestò per il trattamento diverso che gli sarebbe toccato. Stava ben attento
che non gli cadesse dalla mano collegata a quella della madre un cavallino di plastica
che da qualche giorno era diventato il suo oggetto portafortuna. Lo portò alla mano
libera. Trotterellava sulle corte gambe, da una parte ora un morbido caldo contatto e
dall'altra una cosa piena di sporgenze, complicata da tenere e che si poteva perdere,
ma su cui profondere impegno e sviluppare progetti. Alex aveva due anni e mezzo,
stava imparando a conoscere il facile ed il difficile, la comodità e l'avventura, la
stabilità ed il progresso. Sentiva spesso il bisogno di farsi abbracciare dalla madre,
ma anche quello di divincolarsi, prendere il cavallino ed andarlo a posare sul ripiano
sotto la finestra. Alex aveva la testa colma di riccioli biondi e suscitava in chiunque lo
incontrasse la voglia di accarezzarlo e di stringerlo al cuore. Questo sentimento era
sviluppato in ogni angolo dell'Impero-pianeta in maniera proporzionale al prodotto
interno lordo e all'indice di benessere per abitante, quindi molto sviluppato nella città
dove viveva Alex e scarsamente sviluppato in luoghi come il Darfur africano o
l'Afghanistan in guerra. Questo sentimento in effetti era cosa di poco conto e si
consumava in un attimo, perché subito dopo il gridolino di entusiasmo e la profusione
di tenerezza, ognuno tornava agli affari suoi, più o meno sporchi, e che non
prevedevano quasi mai l'idea di salvaguardare quella specie di cuccioli che a causa
delle disfunzioni dell'Impero-pianeta correva il rischio di estinguersi in pochi
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decenni. Non più gridolini di entusiasmo e piccoli stretti al petto. Troppo lunga la
distanza fra cuore e cervello.
La madre caricò Kevin e Alex su una scatola di latta che produceva il calore sbagliato
e iniziò a guidare verso casa. Come fare altrimenti? Kevin aveva i capelli più scuri e
l'aspetto smilzo di un mozzo rapido ad arrampicarsi sulle sartie di un vascello.
Osservava dal sedile posteriore lo svolgersi delle strade e delle case, soffiava sul
vetro per appannarlo e pensava di essere in un sommergibile. Controllava un po' per
gioco un po' per impegno preso che la cintura del seggiolino di Alex fosse ben
agganciata. Quando l'auto si fermava ai semafori chiedeva con delicatezza al piccolo:
- Alex, quello cos'è? - Stava passando sul marciapiede un cane al guinzaglio. E Alex
con la sua vocina rispondeva: - Sembra un cane. - Poi arrivava un bambino che
attraversava le strisce. - E quello, Alex? - - Sembra un bambino. Si fermarono ancora di lato ad un albero in fiore. - Alex, cos'è quello? - -Sembra un
albero. Di ogni cosa Alex diceva che sembrava essere, non che era, anche se nessuno avrebbe
potuto esprimere dubbi in proposito. Era il periodo del 'sembra' – tutti lo
confermavano – e poche soddisfazioni eguagliavano quella di formulare la domanda
per avere invariabilmente la risposta col 'sembra'.
Quando si arrestarono davanti alla casa che sembrava la loro casa, Alex andò dentro
con la mamma e Kevin ebbe il permesso di prendere lo skateboard per giocare al
parco. Non c'erano pericoli perché la casa era una villetta che si affacciava sul parco
ed ogni movimento del ragazzo, se non si allontanava troppo, poteva essere
controllato affacciandosi alla finestra.
Kevin piazzò la tavola con le rotelle sulla piazzola di cemento e provò qualche facile
numero di equilibrismo. Si trattava in effetti di un diversivo, perché l'occupazione
maggiore di Kevin era precisamente l'essere in quel posto in quel momento, per farsi
trapassare come un soldato pazzo da tutte le sensazioni che il posto poteva offrire. Ad
48
esempio, facendo finta di niente, inarcando la schiena e roteando le braccia in un
gioco di copertura, osservare gli adulti sulle panchine, ascoltarne i discorsi, anche se
non arrivava a capire proprio tutto. Quello era l'odore che poteva trattenerlo per ore
ed inebriarlo. L'odore reale dei due tipi che sedevano sulla panchina era di alcol,
sudore e fumo e forse Kevin a sentirlo si sarebbe ritratto o forse no, perché anche
quello gli poteva parlare del futuro e delle sue golosità, giuste o sbagliate che fossero.
I due seduti sulla panchina erano Zac Danson e Gino Aiello. Il parco non era quello
spelacchiato di fronte alla lavanderia industriale, ma uno del centro, accanto
all'ospedale e alle strutture dell'Ausl.
Zac si grattò i testicoli e Kevin scorse quel gesto in un lampo mentre piroettava su se
stesso. Gino si mise a posto gli occhiali a specchio.
Ehi, stronzo, ce l'hai una paglia? – chiese Zac.
−
Gino per tutta risposta iniziò a canticchiare:- Me so' attaccato a'tte perdutamente.
So'nnamurate e te eternamente...
Se avessero svuotato le tasche il loro capitale sarebbe ammontato a 3 euro e 59
centesimi, una somma veramente irrisoria in quella parte d'Impero. E i telefonini
avevano la voce della stronza che suggeriva una pronta ricarica.
−
Che fiacca! -esclamò Zac.
−
Me'sso attaccate a'tte comme'na colla...
−
Calma piatta...- rimarcò Zac.
−
...ca nun se stacca per l'eternità!
−
Bisognerebbe pensare al grande colpo, eh Mergellina? Bisognerebbe veramente
pensarci, porco zio!
−
E pensiamoci...
−
Bisognerebbe fare il botto, come la notte di Capodanno. Pensa a 'sti fanatici di Bin
Laden, con tutto il potenziale che hanno potrebbero assaltare le banche americane
e invece si fanno saltare in aria nei bus...ma che cazzo, dico io...
49
Quelli so'ccape toste...
−
Prendono una pausa di riflessione. Guardano un bimbetto che fa le mosse con lo
skate. A Gino verrebbe voglia di fregarglielo, così, per farlo piangere.
Lo tieni sempre quell'amico che fa l'import dei petardi? A'bbomba
−
e'MMaradona...- Zac provò la cadenza partenopea con esiti poco credibili.
Come no? A esposizione!
−
Kevin lanciò il suo skate che attraversò la piazzola e andò a fermarsi sull'erba.
L'arrivo del bus della linea rossa lo distolse dalle parole dei due. Ancora non aveva
capito chi fossero. Li catalogava come adulti generici. Quella che invece era scesa dal
bus era una ragazza e Kevin notò che aveva le tette grosse.
−
Il colpo. Dove? Un gioielliere...- si espresse Zac.
−
'Na pizzeria.
−
Il tabaccaio – sospirò Zac.
−
Facciamo il colpo a quegli stronzi della lavanderia.
−
Qualcosa di grosso grosso. L'Ipercoop.
La ragazza era arrivata alla panchina e si era bloccata.
Meri è andata via, l'hanno vista piangere... – cantò Gino vedendola.
−
Lei si era messa a braccia conserte e masticava il chewing-gum a bella posta.
- E' arrivato il cammello con le gobbe davanti, la mitica Meri Grant! – la prese in giro
Zac – Ce l'hai una paglia?
Meri si infilò a sedere fra i due. Kevin, a proprio rischio e pericolo, rimase incantato a
fissarli.
Sei incazzata, Meri – fece Zac con la voce in falsetto – Vuoi tirarti su con il mio
−
narghilè? - disse tastandosi il pacco. Meri gli rifilò una gomitata, non tanto forte
però.
Meri e Zac non stavano insieme, ma ogni tanto facevano sesso. Una volta avevano
chiamato anche Gino. Non era venuta molto bene. Gino, nel viluppo dei corpi, aveva
50
smaneggiato Zac e si era preso un pugno come risposta.
Sono stata alla posta. Ci è arrivato l'avviso, ci tagliano il gas se non paghiamo-
−
disse Meri con una smorfia di disprezzo.
Non ti preoccupare che mo' facciamo il colpo – fece Gino scandendo bene ogni
−
singola parola.
Zac la strinse a sé e col gomito le fece la mossa del cappio intorno al collo.
−
Mi fai male, stronzò – si ribellò Meri.
−
Stronzo a chi? Ora per farti perdonare ci porti a casa tua. Ce l'hai qualcosa in
frigo?
Meri alzò le spalle. I tre si guardarono negli occhi, si alzarono insieme dalla panchina
e si avviarono tutti abbracciati. Kevin li guardò allontanarsi con uno strano senso di
nostalgia per quello che immaginava potesse essere il suo futuro. Un rumore però lo
fece girare e questa volta la visione del mondo adulto che prima lo aveva incuriosito,
arrivò a pietrificarlo. Era pericoloso, c'entrava qualcosa di personale di cui qualcuno
stava abusando e lui non sapeva proprio che fare. Kevin vide sul prato un uomo
grande e grosso inginocchiarsi sul suo skateboard che sotto quel peso affondava
nell'erba. L'uomo in questione aveva un cerotto sul naso ed era sua intensione
prostrarsi verso sud e dire una breve preghiera. Il piccolo Alex intanto si era
affacciato alla finestra e se qualcuno gli avesse chiesto chi fosse quella strana sagoma
inginocchiata sul prato avrebbe risposto:- Sembra un uomo.
Se a suo fratello, non fosse stato così sbigottito, o ad altri ragazzini della sua età
avessero posto la stessa domanda: – E' un mussulmano – avrebbero detto.
L'educazione consisteva allora nell'anteporre giudizi belli e pronti alla semplice
capacità di vedere. No, non era un mussulmano, ma un uomo lo era di sicuro.
51
6. accendere e spegnere il computer per tre volte di seguito.
Le alunne della II B lanciavano occhiate frettolose verso il naso incerottato del prof,
parlottavano fra loro, ridacchiavano. A Meleagro quello stato di subdola agitazione
iniziava a dare fastidio. Aveva lavorato tutta la sera precedente alla versione ufficiale
e dunque era più che pronto. E le vigliacche non avevano neppure il coraggio di
chiederlo, anzi contente di trovare una nuova occasione di pettegolezzo che una
chiarificazione avrebbe smontato. Doveva essere lui a fare il primo passo. Era il
colmo.
Si accettano scommesse per il totonaso – esclamò chiudendo il registro – Lo ha
−
picchiato un metallaro, ha sbattuto contro un fanale mentre guardava il culo a una
signora, la moglie gli ha tirato un piatto che lo ha colpito come un frisbee... dai, un
po' di fantasia, provate anche voi...
Strano. Non una sfacciata come la Giuseppina, che una volta per fare il numero aveva
avuto il coraggio di chiedergli se lui lo usava il preservativo – la Giuseppina stava
nascondendo la faccia dietro il libro di Storia – fu una delle più timide invece, la
Denise Vaccaro, che non apriva mai bocca per via del vergognoso apparecchio.
Ma prof, come se l'è fatto? Lì c'è subito l'osso... – disse, ricordandosi
−
empaticamente di una botta tremenda al suo, cadendo di bici.
Le rimarrà la gobba? - chiese un'altra e poi le teste dell'Idra cominciarono ad
−
agitarsi tutte insieme e tutte insieme a buttar fuori fiato e fare baccano.
Ferme, ferme, che così non capisco niente! L'osso non si è rotto, c'è un taglio
−
profondo da cui è uscito un fiume di sangue... – si schiacciò teatralmente le mani
contro le tempie – Se ci ripenso... no, non ci posso ancora credere!
L'Idra ammutolì di colpo:
Avete presente quel famoso film di Hitchcock, “Gli uccelli”, no, ma voi quando
−
mai li vedete 'sti film!
52
Qualcuna lo smentì annuendo col capo.
- Stavo passeggiando per una via di campagna quando un enorme corvo ad ali
spiegate è piombato giù dal cielo e con quel suo becco tagliente come un rasoio mi ha
colpito il naso! Hai voglia a difenderti... troppo rapido, improvviso! Non me ne sono
quasi accorto, solo nero davanti agli occhi e poi via! La bestiaccia è risalita da dove si
era buttata. Dopo il nero, il rosso, tanto rosso...era il sangue che iniziava a colarmi...
Era una versione macabra pensata apposta per colpire le ragazzine, anche farle un po'
spaventare magari, in modo che sull'incidente non si proiettasse la benché minima
ombra di ridicolo. Anche nella realtà Meleagro aveva avuto a che fare con un volatile
e che fosse meno terribile di un diabolico corvo... ma riprendiamo il filo del discorso
esattamente da dove l'avevamo interrotto. Meleagro infilato dentro un tubo, un eroico
slancio, una decisione presa in un attimo per salvare uno di quei poveri bambini che
spesso vi finiscono dentro. Dal condotto arrivavano lamenti sempre più flebili,
bisognava fare in fretta. Io, per ricordare ai lettori la differenza che passa fra una
diretta televisiva e un romanzo, avevo giurato che ce l'avrei lasciato per un bel po'.
Ventitré pagine mi sembrano un tempo ragionevole per passare ora a soddisfare la più
irragionevole delle curiosità. Meleagro immerso nell'oscurità sentiva il piccolo
avanzare a piccoli passi insicuri, o forse era sui gomiti e sulle ginocchia che si
trascinava, facendo appello alle sue estreme forze. Si avvicinava, si fermava. Un
movimento, uno stop.
Vieni piccino – sussurrava accorato Meleagro Barton – voglio solo aiutarti.
−
Ancora un piccolo sforzo, allunga la manina, dai che ce l'hai fatta!
Ecco, adesso era molto vicino, ne avvertiva la presenza a un metro da sé, probabile
fosse talmente scioccato da non riuscire più a parlare. Emetteva soltanto assurdi versi
da bestiola. Meleagro protese le braccia sperando di afferrarlo e fu allora che sentì il
primo colpo. Per il gran dolore nel buio più totale vide rosso. Pensò che forse si erano
dati una zuccata e si preoccupò più delle condizioni del piccolo che delle sue.
53
- Oddio! Ti sei fatto male? Dimmi qualcosa? - La seconda terribile botta gli fece
crollare alcune certezze. Il terzo colpo lo gettò in una totale crisi di panico. Ora
capiva! Quello che aveva di fronte a sé non era un bambino intrappolato, ma una
bestia inferocita. E non si vedeva niente! Cercò di parare i colpi successivi con le
mani e con tutto il fiato che aveva in gola iniziò ad urlare: -Aiuto! - e poi – Via! Via! Il pericolo nonostante le urla non si allontanava, anzi tornava all'attacco e Meleagro
non riusciva a sfilarsi dal tubo in cui probabilmente si era incastrato. Maledisse la sua
tendenza alla pinguedine, nel calvario si rivide davanti Melania che più volte lo aveva
rimproverato per la sua dieta dissennata. Quando i contadini lo tirarono fuori aveva il
naso sanguinante e gonfio come una patata.
C'è un cane inferocito o una volpe o un coyote! Presto, fatemi l'antirabbica! E
−
attenti a stanarlo, è pazzo furioso! – delirava Meleagro. Invece dal tubo della
morte apparve prima il profilo caratteristico e poi tutto il resto di penne e zampe.
Era un grosso esemplare di tacchino. Meleagro sgranò gli occhi, sopraffatto da un
sentimento di stupore, di vergogna e di risentimento. Portò la mano al naso
dolorante. Ma come, proprio a lui che amava i tacchini? Quale cifra simbolica si
nascondeva dietro quella subdola e spietata aggressione? Ebbe modo di pensarci a
lungo, mentre al Pronto Soccorso lo medicavano e lo incerottavano. Uscito
dall'ospedale volle fare un giro al parco dirimpetto per riprendere contatto con la
realtà. Si piegò su uno skateboard adagiato sull'erba e si prostrò in direzione di
Roma, sussurrando una fervida breve preghiera. Riacquistato l'equilibrio ed
insieme il disincanto, pensò di considerare quello come gesto improduttivo della
giornata. Ora però si trovava a scuola e si trattava di tutt'altra faccenda.
Dopo il resoconto fasullo del corvo, Meleagro chiese alle ragazze di scrivere un
componimento dal titolo: “Il pericolo. Quando ci cala addosso inaspettato e quando lo
si va a cercare. Quando si presenta con un volto sconosciuto e quando mostra fattezze
che si credevano amiche. Rifletti e scrivi”. Alle alunne la traccia piacque e si misero
54
di buona lena col capo chino sul foglio protocollo. Dovette inizialmente aiutare le
ragazze straniere che non ne capivano il senso, eppure diverse fra loro provenivano
da zone di guerra. Poi anche quelle, bene o male, iniziarono a scrivere e Meleagro in
tutta tranquillità si diede a compilare il registro, inserendo a casaccio le A, le C e le E
che indicavo il raggiungimento più o meno riuscito degli obbiettivi educativi. Rimase
perplesso quando Angela Tilson, originaria di Castellamare di Stabia, gli chiese se si
poteva considerare come pericolo uno zio che ogni sabato sera trovava nudo sul letto
della propria cameretta. Poi la campanella suonò.
Meleagro superava gli innumerevoli sbarramenti che lo separavano da casa e intanto
pensava a Melania. Era stata genericamente informata dell'infortunio – una caduta
dalla bicicletta, una ferita al naso, nessuna preoccupazione. D'altronde da vari mesi la
loro comunicazione era diventata fortuita e generica. Meleagro sentiva ancora di
amare Melania, di non vedere in altro modo la propria vita se non con la moglie e la
figlia accanto ed anche la faccenda dei gesti inutili era riconducibile ad un sistema
superstizioso atto al ripristino dei migliori sentimenti di Melania nei propri confronti.
In ascensore pensò pure che se calcava un po' sui lamenti, sui sospiri, sul riassetto del
cerotto, forse Melania si sarebbe intenerita e gli si sarebbe avvicinata almeno per una
coccola. Invece lo salutò in fretta come pensasse ad altro, gli servì la pasta e iniziò a
mangiare con la testa china sul piatto. Lui iniziò a tirare su col naso, a buttare un ohi
lì ogni tanto, a far girare i maccheroni nel piatto senza più portare la forchetta alla
bocca.
−
Che c'è, non ti piace? – chiese Melania più risentita che preoccupata.
−
No, è buono. E' che col naso non riesco a respirare bene... e se ho la bocca piena
soffoco...
Vuoi farti vedere, ti porto con me all'Ausl... – ma mentre lo diceva si accorse del
−
passo falso. Sarebbe stato assolutamente normale sino a due giorni prima, ma ora
l'Ausl non era più soltanto un anodino luogo di lavoro. Così pensò a TD, si strozzò
55
con l'acqua e si alzò annaspando alla ricerca del fiato che non gli arrivava più ai
polmoni.
A proposito di soffocamento... – commentò Meleagro, ma siccome vide in
−
quell'incidente una risposta del tutto inadeguata, anzi un netto rifiuto alle sue
richieste di attenzione, non mosse un dito per aiutarla. Melania si riprese
dall'apnea con gli occhi lucidi come se avesse pianto. In realtà, in quella mezza
crisi isterica, qualche lacrima l'aveva pure versata.
Devo andare – disse e lo fissò sperando con tutte le sue forze che non accettasse
−
l'invito per quella controllata all'ospedale. Era sul naso che infatti stava puntando
il suo sguardo colmo di apprensione, non lo stava guardando negli occhi.
No, il naso me l'hanno torturato abbastanza. Fermati a bere il caffè, facciamo due
−
parole...
Lei stava già prendendo la cartellina e la borsa. - Ho del lavoro arretrato.
Lavoro arretrato...un tossico di ieri, si potrebbe dire nel tuo caso – disse con un
−
certo sarcasmo Meleagro.
Questa volta Melania si strozzò anche senza acqua. Le era apparsa l'immagine di lei e
TD sulla scrivania. Reagì aggredendo.
Pensa ai tuoi di casi umani, a tutte quelle mongole che hai davanti ogni mattina! E
−
non permetterti più insinuazioni del genere!
Corse alla porta ed uscì sbattendola.
Insinuazioni? – chiese Meleagro allargando le braccia e poi – Ma cosa ho fatto? -
−
alzando il tono caso mai fosse ancora piantata sul pianerottolo in attesa
dell'ascensore. Meleagro sbuffò una sola volta, poi rimase pietrificato. Si fissò sul
bordo cromato del lavello sentendone l'insostenibile estraneità. Da quel momento
il metallo cominciò ad infestare tutta la stanza, coprì le mura,il soffitto, le sedie, il
tavolo, i resti di cibo che aveva ancora nel piatto ed il pezzo di pane che aveva
afferrato. Non riusciva a distogliersi, anche lui si sentiva di ferro, stava diventando
56
un pezzo del mobilio, una cosa dura e senz'aria. Finalmente riuscì a respirare. Non
conveniva aspettare oltre. Andò all'armadietto dei medicinali e si ficcò in bocca
una pillola di benzodiazepina. La benzodiazepina, di cui molti in città erano golosi
senza esprimere nessun verso eccessivo di ghiottoneria, non funzionava come la
cocaina che faceva arrivare stimoli orgasmici al nucleus accumbens. Non so
esattamente come funzionasse la benzodiazepina, ma caso mai c'entrasse con i
dintorni del nucleus, era come una musichetta d'ambiente molto rilassante o un
bagno caldo o una carezza lunga, anche se non troppo convinta. Comunque,
Meleagro mandò giù la pillola e decise di anticipare il giro in bicicletta. Una volta
al manubrio prese però la direzione opposta rispetto a quella della recente
disavventura col tacchino. All'inizio del suo percorso incrociò l'auto di Melania
senza che l'uno si accorgesse dell'altra. Melania bloccò la macchina di lato alla
strada e prese in mano il telefonino. Non compose il numero di TD, ma anche solo
a sfiorare i tasti corrispondenti le pareva un preliminare all'atto sessuale. Chiamò
invece la sua amica Vanessa Del Rio, che dopo l'Università aveva deciso di aprire
un negozio di intimo maschile e femminile. Se un uomo o una donna avevano
bisogno di un comunissimo slip, andavano all'Ipercoop perché spendevano un bel
po' meno. Da Vanessa ci si recava per l'occasione speciale, il lussuoso, il bizzarro,
l'osè e nel retrobottega c'era anche un reparto nascosto con l'equipaggiamento
sadomaso. Vanessa vendeva i suoi capi femminili a uomini che li sceglievano più
per le proprie amanti che per le proprie mogli. In certi casi per i propri amanti. Le
mogli, diceva Vanessa, erano al terzo posto, anzi no al quarto, perchè diversi
mariti compravano mutandine di pizzo per se stessi. Melania non sapeva se
crederci o no, ma queste storie la facevano ridere, avevano un salubre effetto
antianalisi. Ci si vedeva e si iniziava chiedendo: - Come va col lavoro? Vanessa iniziava seriamente con gli incrementi e i decrementi delle vendita, poi
inevitabilmente il discorso passava dai contenitori di tessuto agli ammennicoli che
57
contenevano e le risate si sprecavano. Nell'Impero-pianeta – non si capisce bene ma
una ragione ci sarà pur stata – si rideva come pazzi ogniqualvolta si parlava di cazzo
e di figa e per lo stesso argomento come pazzi si piangeva. Entrambe le ragioni
dipendevano probabilmente dal nucleus accumbens. Che fosse un argomento
destabilizzante ora anche Melania se ne stava accorgendo.
−
Vanessa hai un minuto sono sconvolta...
−
Che ti succede, cara? Problemi col lavoro...ti ha aggredito un tossico?
−
In un certo senso... tutte e due le cose – fece una risata isterica.
−
Ti sento strana. Vuoi che ci vediamo?
−
No, devo andare da lui, al lavoro cioè...
Vanessa era esperta di cose nascoste, ci mise un attimo a capire.
Melania, guarda tu dovresti essere quella che i lapsus li studia e non li fa. Chi
−
sarebbe 'sto lui?
Un cocainomane... stavo per fare il suo numero, ma poi...è normale sfiorare i tasti
−
con le sue cifre e sembrarti che sia un preliminare all'atto sessuale?
Cosa? Fra te e il cocainomane... non capisco, ti piace il tipo? Hai dei pensieri li-bi-
−
di-no-si su di lui?
Mi ha scopata selvaggiamente sulla scrivania del mio ufficio! – doppia risata
−
isterica.
−
Non ci credo! Ti sei fatta di cocaina anche tu?
−
Non scherzare. Ora non posso più vederlo, capisci? Mi cancellano dall'albo
professionale. Le analiste non fanno sesso con i loro pazienti, la conosci la storia
no? Sto di merda...
−
Senti cocca, a parte che sei una gran troia, lui com'è?
−
Un bel ragazzo, Vane, e ha vent'anni meno di me... Dio mio, mi sento male!
−
Cazzo, un ventenne! E... là sulla scrivania... insomma, ti è piaciuto?
−
Credo di sì.
58
Credi, eh? Allora senti, vuoi un consiglio? Basta con la scrivania...o comunque
−
basta con quella del tuo ufficio... lì non lo devi più vedere, capisci?
−
Certo, a questo punto non posso più tenerlo...
−
Lo tieni come stallone.
−
Sì, lo devo passare ad una mia collega
−
Vi dovete vedere fuori, dimentica il caso professionale e goditi la storia... a
proposito, tuo marito?
−
Oggi a momenti mi tradivo.
−
Stronza!
−
L'ho anche trattato male.
−
Non lo devi trattare né male né bene, se no si insospettisce. Trattalo come al solito.
−
Il solito è squallido, Vane.
−
Appunto, fatti una pausa pranzo col coca e stai muta. A proposito, il coca c'ha i
soldi?
−
Ah no, non posso dirti nulla! E' un segreto professionale.
−
Hai appena detto che lo passeresti a Dr House! Dai che muori dalla voglia, dimmi
chi è!
−
Mi giuri?
−
Sulle mie mutandine.
−
E'... sì insomma, uno in vista.
−
In vista come?
−
In vista dappertutto.
−
Dappertutto?
−
E' il figlio... l'erede del marchio.
−
Quel marchio!?
−
Sì.
−
Vieni subito da me che provvedo a rifarti il look. Cazzo, il figlio del marchio! Che
59
grandissima troia!
Il narratore che qui scrive è un grandissimo intercettatore telefonico. Quella che
segue è la seconda telefonata che fece Melania, subito dopo aver chiuso con la
convincente Vanessa.
−
Pronto? Sono la dottoressa Melania Carson.
−
Oh, cazzo! Sono in ritardo? Arrivo subito. Non farmi rapporto dal vecchio!
−
No... volevo dirle... dirti... che c'è stato un cambiamento di programma per il
suo… tuo recupero. Non puoi più venire in ufficio da me.
Non posso più venire al Sert? Calma e sangue freddo. Io lì ci devo venire eccome,
−
se no il vecchio mi taglia i viveri. Lo stronzo l'ha promesso ed è capacissimo di
farlo.
Sì, ci vieni lo stesso, ma non con me. Ti seguirà un'altra dottoressa.
−
C'è una pausa. Io oltre ad intercettare le telefonate, so interpretare i silenzi. Lei si
aspetta che lui esprima il suo dispiacere, che alla sua affermazione vada fuori di
matto perché ha bisogno di lei, che le sussurri che ha una voglia pazzesca di
rivederla. Lui invece tira semplicemente un sospiro di sollievo.
Ah beh, allora! Ma gli orari cambiano? Perché a me andavano bene quelli che
−
avevo con te.
Melania crede di percepire in queste parole un incoraggiamento e si fa ardita.
Beh, gli orari... io e te potremmo vederci fuori.
−
Lui non capisce.
Un incontro della terapia fuori?
−
Melania sta morendo. Voglia e vergogna se ne contendono il cadavere.
−
Forse un incontro... ma non per la terapia... tu cosa ne pensi?
−
Ah no, senti. Io sono sorvegliato speciale. Non posso girare a vuoto. Se ci
vediamo devi dire al vecchio che è per la rieducazione, capisci?
Per Melania l'equivoco di una frase non va chiarito se serve ad alimentare la
60
speranza. Deve vederlo ad ogni costo.
−
Va bene. Possiamo dire che è per la... rieducazione.
−
Senti, lui è qui. Te lo passo un attimo che glielo spieghi? Digli che è una terapia
esterna, va bene? Cazzo ne so, l'essudorazione.
L'essudorazione?
−
Sente una voce diversa, più profonda ed arrochita, più simbolica. Il marchio in
persona. Prova la strana sensazione di dover chiedere la mano di suo figlio. Un
imbarazzo totale.
Senta, sono la dottoressa Melania Carson, c'è un cambiamento di programma nel
−
programma di recupero di suo figlio. Ci vediamo fuori dal Sert.
Sente di nuovo la voce del rampollo, un po' più lontana.
Dai babbo, ma cosa te ne frega di dove ci vediamo? Tra un'ora alla palestra
−
Tenax... perché alla palestra, babbo? E' per il programma di essudorazione, no?
Ora è vicina come prima.
−
Dottoressa Carson, glielo confermi lei al babbo.
−
Sì, è per il programma di essudorazione. Lo confermo.
Anche Meleagro aveva iniziato e portato a termine il suo personale programma di
essudorazione. Aveva pedalato infatti per chilometri e chilometri, con la ferma
intenzione di non fermarsi mai. A volte pericolosamente con gli occhi chiusi, per via
dell'intorpidimento da benzodiazepina. Le strade che aveva scelto si addentravano in
una campagna che un tempo era stata palude. Era frequentata da aironi che da alcuni
anni erano tornati alla grande. Ogni tanto ne vedeva uno là in mezzo all'erba rasa, che
non sapeva che fare. Girava al largo perché un po' di apprensione per i volatili di
grossa taglia gli era rimasta. E poi gli aironi immobili gli suscitavano una certa
antipatia. Li assimilava a certi bulli tutti ingobbiti e con le mani in saccoccia che
pasturavano nelle aree cortilive della scuola. Forse gli aironi erano gli spacciatori del
61
mondo aereo, se Aristofane fosse rinato ai tempi dell'Impero Americano – pensava –
avrebbe riscritto “Gli uccelli” e gli aironi avrebbero portato bustine sotto le ali. Ma sì,
pusher sfaccendati! Le strade di quella parte finivano però per ricondurlo in fretta alla
provinciale dove correvano Suv e grossi camion. Meleagro sul ciglio della strada, a
pochi millimetri dal declivio del fosso, rifletteva sull'evoluzione degli ultimi
discendenti della macchina a vapore che stava spiegando all'Idra. In quanto a puzza e
rumore sicuramente in peggio. Lo spostamento d'aria ed il gas di scarico dei Tir gli
asciugavano il sudore addosso ed in un percorso salute questo non era per nulla
salutare.
Rientrato a casa Meleagro fece la doccia e poi decise di chattare un po' con la figlia.
La figlia Maddalena – Maddy in famiglia e per gli amici – aveva 16 anni ed era
trasvolata nel centro dell'Impero per un programma scolastico della durata di un
intero quadrimestre. Per imparare alla grande la lingua dominante e chissà cos'altro.
La sua bambina nel centro dell'Impero, a mangiare tacchino arrosto con salsa di
ossicocco. Gli mancava. La maniera più economica per comunicare con Maddy era
mettersi al computer e chattare con lei. Chattare significava scambiarsi messaggi in
tempo reale utilizzando la rete. Era una chiacchierata scritta in cui la prontezza
andava ovviamente a scapito della riflessione. Si poteva sapere dall'altro se era triste
o allegro, ma comprenderne a pieno i motivi diventava complicato. Quella era giusto
l'ora in cui Maddy chattava con il resto del mondo. Meleagro aveva la sensazione un
po' frastornante di cadere dentro un cartone animato. La figlia e tutta la tribù della
chat line a volte invece di parole usavano immagini chiamate emoticon. Così dopo un
bollino giallo sorridente che gli esprimeva la contentezza di Maddy perché il papi era
in linea e dopo varie labbrone turgide che comunicavano l'affetto più profondo,
comparve la faccina della Sirenetta che si soffiava via dalla fronte il ciuffo fluente.
Cosa voleva dire? Meleagro cliccò sulla parte destra del mouse e al posto del disegno
comparve la scritta “uffa!” - Perché sei stufa? - chiese. - Booooh! - rispose la figlia.
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Vuoi tornare a casa? – digitò Meleagro. Apparve il volto di un famoso
−
personaggio televisivo in abiti settecenteschi che scuoteva la testa come un
forsennato. Che soddisfazione! Poi Maddy gli comunicò che c'era una sua amica
che voleva intervenire, ma lui poteva rimanere per una comunicazione a tre.
Meleagro non volle ridursi a rimandare l'emoticon precedente e scrisse. - Nooo!
L'ultima cosa che ricevette da Maddy fu un pinguino che alzava la pinna in segno
di saluto.
Meleagro uscì dalla chat line e rimase a fissare il desktop con un paesaggio marino. Gesti inutili, gesti inutili – pensò. Già non ci credeva quasi più. Qualcosa a portata di
mano. Chiuse il computer e poi lo riaccese. Compì l'operazione per altre due volte,
poi sentì che Melania stava entrando in casa.
Melania? – disse.
−
Non ricevette risposta. Si alzò e andò in bagno dove lei stava facendo pipì.
Melania, io e te dobbiamo parlare.
−
Melania si asciugò con la carta igienica e si tirò su i pantaloni.
−
Ora sono stanca.
−
Non sai nemmeno come mi sono ferito il naso. Com'è andata veramente, cioè.
−
Oh, 'sto naso!
−
Se mi vergogno di dire una cosa a te, figuriamoci il resto del mondo.
−
Ti prego, la fase vittimistica no – disse Melania passando fra il corpo del marito e
il battente della porta.
−
Melania sei sfuggente.
−
E tu aggressivo.
Avrebbero potuto andare avanti così per ore. L'uno a rincorrere, l'altra a fuggire per le
stanze e a nascondersi dietro occupazioni vere o fittizie. Quello era il solito, fra
Meleagro e Melania.
63
7. scrivere rivoluzione sulla lavagna
Melania Carson aveva aspettato il buio della notte per ripensare al nuovo incontro
con TD. Tutta raccolta nella sua parte di letto, rivedeva il luogo, rivalutava parole e
azioni. Era così impegnata e partecipe che neppure si rendeva conto se Meleagro
giacesse al suo fianco o fosse rimasto là dove lo aveva lasciato, sul divano di fronte
alla Tv.
La palestra si chiamava Tenax e Melania aveva aspettato TD davanti ai tornelli per
buoni dieci minuti. Intanto passavano ed uscivano uomini e donne in tuta, più
sorridenti che no, facendo ciondolare con estrema disinvoltura i borsoni ginnici che
parevano lucidati. Lei per mostrarsi a proprio agio ed inserita nel contesto aveva
accennato a un sorriso e aveva provato a far oscillare leggermente la valigetta da
ufficio. Ma trasformare agli occhi altrui un tailleur primaverile in una tuta Nike era al
di sopra delle sue possibilità. Decise di entrare e di chiedere. TD era già dentro,
glielo indicarono. Prima di farla passare le dissero che il regolamento prevedeva per
la verità scarpette da ginnastica. - Oh no, non sono iscritta, è solo per una
comunicazione urgente- rispose accorata. Seduto ad una macchina lucente di metalli
sollevava ed abbassava una barra senza fatica apparente. I bicipiti però si tendevano e
a Melania caddero gli occhi sui pantaloni aderenti alla ricerca di altri gonfiori. TD
non si fermò.
Ho pensato di entrare e di avvantaggiarmi un po' col lavoro. Era da un casino che
−
non ci venivo... va bene così? Sto sudando abbastanza?
Melania era arrossita e si era guardata intorno preoccupata che altri avessero sentito,
ma sembrava che ognuno badasse principalmente ai propri esercizi ed alle proprie
essudorazioni.
Da psicologa a personal trainer. Come sono caduta in basso! – pensò Melania
−
64
rigirandosi nel letto. Sul momento: - Ma sì – era riuscita soltanto a mormorare,
completamente spiazzata dalla domanda di TD e l'imbarazzo era raddoppiato
quando lui si era fermato e con un movimento della mano le aveva chiesto di
abbassarsi. - E così mi sono accucciata di fianco a lui, accucciata! – pensò
Melania raccogliendo involontariamente le gambe al petto.
Hai visto se per caso nel parcheggio c'è una Tipo metallizzata? Gli stronzi per
−
mimetizzarsi meglio girano in utilitaria. Quelli che mio padre manda a
sorvegliarmi, capito? – le aveva sussurrato.
Non so, non ci ho fatto caso... – aveva risposto Melania.
−
Allora TD si era alzato e aveva sbirciato dalla vetrata come un agente segreto.
Sì, ci sono... Tu sei dalla mia parte, vero? – le aveva detto guardandola dritto negli
−
occhi e sfiorandole la mano.
Melania sotto le lenzuola si accarezzò il viso per rivivere i brividi che aveva provato.
Certo – aveva risposto con un filo di voce.
−
Lui allora aveva ripreso l'aria disinvolta di figlio del marchio e mettendo da parte gli
esercizi di essudorazione – Bene – aveva detto – Vado a cambiarmi e torno. Dovevi
parlarmi, no?
Melania lo aveva aspettato nell'angolo relax rifiutando beveroni energetici e tisane
rilassanti. TD si era presentato bello come il sole, camicia di seta, pantaloni a vita
bassa con cinturone, i capelli ravvivati dal gel. Pareva però irrequieto e la psicologa
del Sert conosceva bene le ragioni di quel nervosismo. Non riusciva a star fermo sulla
poltroncina, si rosicchiava le unghie. Il rigurgito di professionalità ebbe su di lei
l'effetto di una doccia fredda. Era solo un ragazzo che aveva bisogno urgente di aiuto,
cosa si era messa in testa? Ma se le fosse stata più vicina – aveva ipocritamente
pensato subito dopo e ancora stava pensando mettendosi a posto il cuscino – l'aiuto
non sarebbe stato più spontaneo e premuroso? Restava il fatto che come caso clinico
dovesse passare ad un'altra dottoressa. Ogni frase pronunciata alla palestra – si
65
rendeva ora conto – era risultata paradossale e si era prestata ad equivoci.
−
Non possiamo più vederci al Sert. Un'altra psicologa farà il mio lavoro.
−
Questo lo hai già detto per telefono.
−
Io però vorrei continuare a vederti.
−
Altre volte qui in palestra?
Le sembrava continuasse a fare finta di niente, non accennava minimamente a quello
che era successo fra loro. Era contato così poco? La sua mente annebbiata già non lo
rammentava più? Oppure era imbarazzato quanto lei, che da parte sua non trovava il
coraggio per parlare apertamente del loro unico incontro? Lo trovò il coraggio,
invece, per formulare un'audace proposta.
−
No, no, non in palestra! Possiamo vederci una volta... da te?
−
La visita a domicilio del dottore? Risparmiami, per piacere! A casa poi sono
supercontrollato. Secondo me il vecchio ha fatto mettere le cimici dappertutto.
TD aveva scostato leggermente la testa e in quel gesto aveva rivelato tutto il suo
splendore giovanile. A Melania era tornato caldo, il desiderio di intimità era
diventato impellente, avrebbe rischiato l'impensabile per averlo. La velocità dei suoi
pensieri era aumentata vertiginosamente, stava procedendo come i delinquenti che in
un attimo per i loro piani criminosi scartano mille ipotesi ed altrettante ne
considerano. Infine scelgono. Consultò mentalmente l'orario scolastico di Meleagro e
poi la buttò lì come una cosa cosa naturale, anche se stava scivolando su di un fondo
di ghiaccio.
−
Ti va bene se ci vediamo da me... giovedì alle dieci e trenta?
−
A casa tua? Vabbe', può sembrare una visita privata...Però me ne togli una al Sert,
con l'altra psicologa?
Melania non capiva cosa stesse girando nella testa di TD, forse stavano parlando due
lingue diverse, ma la voglia di stare con lui senza nessuno intorno era troppo forte per
non prestarsi ad ogni sua condizione. E forse a lui qualcosa del messaggio era
66
arrivato. Quando le aveva stretto la mano per salutarla, non aveva indugiato, non
aveva premuto, non aveva stabilito già un contatto più profondo?
E così fra tre giorni...magari proprio qui – pensava Melania non riuscendo a
−
dormire. No, non nel letto dove era stata centinaia di volte con Meleagro. Era un
riguardo per il marito o per TD? Magari sul divano...Sul divano Meleagro stava
facendo zapping con i canali più insulsi non decidendosi di andare a dormire
anche se il giorno dopo avrebbe avuto la prima ora. Nel letto avrebbe allungato
una mano e avrebbe incontrato una massa inerte a lui completamente estranea, che
fosse addormentata o no era la stessa cosa. Dal lucernario nessuna stella, nessuna
luce. Che il cielo era nuvoloso lo si sentiva anche di notte.
A qualche chilometro di distanza già pioveva, ad esempio sulla casa colonica dove
abitava Salman con la sua famiglia. Il ragazzo pakistano sentiva il respiro tranquillo
delle sorelle e dei fratelli già addormentati. Lui nella sua brandina non dormiva né si
rigirava. Stava disteso, le braccia incrociate sotto la nuca, attento a non perdersi una
sola immagine: contro il soffitto buio veniva proiettato il film della sua futura vita
sentimentale. Il film iniziava con la fotografia di Tahira, la ragazza che avrebbe
sposato fra un anno. Gli occhi scuri, le labbra grandi, il volto quasi triangolare
avvolto da un velo turchese che non impediva di scorgere la scriminatura centrale dei
capelli. Ma ciò che gli dava i brividi era accanto al collo una porzione di treccia che
per un gioco prospettico sembrava distaccarsi dalla capigliatura e diventare un manto
scuro e vellutato che immaginava rivestisse altre e più intime parti del corpo. A quel
punto il nero si diffondeva intorno, come una nuvola di temporale occupava l'intera
inquadratura. L'immagine fissa della sua casta promessa sposa si perdeva, altri volti e
corpi, come lampi o fuochi d'artificio, le si sovrapponevano. Erano tutte le ragazze
che gli capitava di vedere ogni giorno per strada. Ragazze italiane, non soggette alla
legge della religione e delle tradizioni. I capelli li portavano lunghi e sciolti e se erano
67
anche biondi il contrasto con quelli corvini e raccolti delle sue sorelle gli toglieva il
respiro. Vedeva su in alto ragazze che si dicevano parole proibite e poi ridevano come
pazze, ragazze incupite che muovevano svelte le dita smaltate di rosso sulla tastiera
dei cellulari, ragazze che portavano alle labbra la sigaretta e soffiavano via infastidite
una nuvola di fumo, ragazze che portavano magliette cortissime e lasciavano scoperta
la pelle del ventre dove a volte spiccava una lucente pallina di metallo, ragazze che si
accorgevano che le stava fissando e scappavano via spaventate, ragazze che si
mettevano il casco e partivano sicure sullo scooter, ragazze che portavano pantaloni a
vita bassa e chinandosi mostravano senza vergogna la linea diritta che divide le
natiche, ragazze che sulle panchine forzavano le labbra di ragazzi distratti e li
baciavano con la lingua in modo tanto violento che anche le guance ne erano scosse,
gonfiate,
incavate.
Quel
modo
di
baciarsi
lo
chiamavano
'limonare'
e
quell'espressione era stata per lui a lungo un mistero. Aveva pensato ad una promessa
di fedeltà che due ragazzi si scambiano davanti ad una bibita. Poteva essere così
stupido? Ma ora le ragazze nel buio si staccavano dalle labbra, dalle sigarette, dai
telefonini, dalle panchine. I jeans e le t-shirt si trasformavano in sari variopinti e
iniziavano a muoversi in una danza bhangra. Il medio che troppe avevano alzato di
fronte a lui mandandolo al suo paese, si univa alle altre dita in gesti raffinati che
significavano un invito all'amore. La camera si illuminava dei colori abbaglianti di
Bollywood, Salman assumeva le sembianze di Hrithik Roshan, l'affascinante attore
indiano, tutte le ragazze italiane si prostravano ai suoi piedi implorando i suoi favori.
Salman si scusava con loro, affari urgenti lo chiamavano. Le ragazze sospiravano,
deluse e adoranti. Con mosse di kung fu sgominava bande di delinquenti, gli ultimi
che rimanevano ad affrontarlo avevano le sembianze di Zac Danson e Gino Aiello.
Botte anche a loro, anzi più che agli altri. A terra tramortiti cercavano di trascinarsi
lontano dal suo raggio d'azione. E lui neppure una goccia di sudore ad imperlargli
l'alta fronte, gli occhiali a specchio ancora perfettamente al loro posto. Quando
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tornava trionfante al suo harem, solo allora li toglieva ed iniziava a ballare con le sue
belle, meglio di Michael Jackson. Chi non conosce Michael Jackson? Ballava, con
tutte le mosse giuste, ballava e cantava. Cantava del suo amore, bello come una stella,
profumato come un gelsomino. Salman nella stanza afferrava la torcia elettrica che
teneva sotto il cuscino e creava un cerchio di luce contro il soffitto buio. La luce da
lassù si scaricava ora al suo fianco con un potente effetto speciale. Dal nulla si
materializzavano il corpo ed il volto stupendi di Aishwarya Ray, la Miss Universo
famosa anche al centro dell'Impero. Gli occhi verdi di Aishwarya! Aishwarya iniziava
a duettare con lui, faceva il controcanto, ritmava i suoi stessi passi. Le ragazze non
sono invidiose, ma un metro dietro di loro ondeggiano le braccia e si librano sulle
punte. Il Giardino del Profeta e le uri pronte all'abbraccio d'amore! Ma il cielo
improvvisamente si oscura ovvero dall'alto degli studios dove stanno girando la
scena, si stacca una lastra gigantesca e piomba su di loro. Scompaiono i divi e le
comparse, le mille ragazze ne sono annientate. E' la gigantesca fotografia di Tahira,
che ora domina su tutto. - Esci, esci Tahira, vieni da me! – la implora Salman, gonfio
di desiderio. Lei si libera dell'involucro di carta, è una ragazza in carne ossa ed una
ragazza a sedici anni è già una donna. - Togliti il velo, Tahira! Sono il tuo sposo,
ormai. Sciogli i capelli, Thaira, sono tuo marito, i capelli, Thaira, fammi vedere! Sono i lunghi capelli che desidera vedere, toccare, vi affonderà le mani, ne sentirà il
profumo. Tahira sorride, con un gesto deciso si scopre. E Salman muore. Il cranio è
rasato, qua e là spuntano ciuffi viola e arancione. E lui deve rinunciare, ancora
rinunciare, rinunciare come fa con le ragazze che vede per strada ogni giorno.
L'ultima parte della visione non si è impressa contro il soffitto buio, ma è tutta
racchiusa nella mente di Salman, sotto i suoi occhi chiusi. Si sveglia dall'incubo
perché la mano della sorella lo scuote. Sono le quattro ed è ora di alzarsi. Aisha ora
dovrà preparare la colazione per i fratelli che vanno al lavoro, la madre è in Pakistan
e chissà quando torna. Torna quando avrà i soldi per l'aereo, mica una cosa facile.
69
Aisha dopo la colazione preparerà il riso e le verdure per il pranzo, poi chiamerà le
sorelle più piccole ed anche a loro darà la colazione. Correrà per prendere il bus delle
sei e quarantacinque che la porterà a scuola. Alla prima ora avrà il prof di Italiano e
Storia e quando inizierà a spiegare, lei di quello che dirà ci capirà pochissimo.
Meleagro scrisse sulla lavagna: UN CORSO D'ACQUA DI POCO CONTO.
E sotto: LA META' DELLA LUNA.
E ancora più giù: UN PARENTE STRETTO E GROSSO.
Si rivolse all'Idra che la novità del gioco aveva reso mansueta:- Ora, se voi trovate la
soluzione alla prima definizione e poi la incastrate alla seconda e alla fine aggiungete
la terza, ecco che troverete la parola intera che corrisponde alla definizione finale. E
dunque la definizione finale è – scrisse –
LA TERRA OGNI ANNO E SULLA TERRA AD OGNI SECOLO.
Capito? Cucire insieme i pezzi, va bene per voi... E' un giochetto che si chiama
sciarada.
Sguardi vuoti, espressioni perplesse. Meleagro sospirò e riprovò un'altra volta. Con
l'Idra ci voleva pazienza e costanza, lo sapeva. Col gesso tirò delle linee sotto ogni
parola.
Questo 1 + questo 2 + questo 3 uguale questo 4, la soluzione finale!
−
Una alzò la mano:- Ma prof 1+2+3 fa 6...
Basta! Ci vuole un po' di concentrazione...
−
No, pensò che ci voleva l'incentivo:- Allora, diciamo che chi risolve la sciarada avrà
un 9 in Storia! Fate quello che ho detto, in silenzio, io intanto devo interrogare...
Zhang Xi Xi e Samantha Ford, non avete ancora il voto, venite!
La strategia messa in atto da Meleagro riguardava la possibilità di interrogare in santa
pace senza essere disturbato dal casino prodotto dall'Idra. Se pure voi non avete
voglia di seguire l'interrogazione che verterà ancora una volta sulla rivoluzione
industriale, beh, provate a risolvere la sciarada! E non lamentatevi, come le alunne
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della II B, che le definizioni sono troppo difficili. Non è affatto vero. La soluzione
non è in fondo al libro. Però, a pensarci bene, se andate avanti con le pagine qui
sotto, un qualche indizio potreste trovarlo.
Va bene – iniziò Meleagro dopo che le due si erano poste a destra e a sinistra della
−
cattedra – Xi Xi quale invenzione è alla base della prima rivoluzione industriale?
Samantha Ford alzò immediatamente la mano per rispondere qualora la cinese non la
sapesse. Meleagro conosceva bene quel tic da prima della classe.
−
La macchina a vapore... – rispose Xi Xi.
−
La macchina a vapore – continuò la Ford senza che le fosse richiesto – fu
inventata dallo scozzese James Watt nel 1765. La macchina poteva trasformare il
moto verticale in moto rotatorio, il moto si propagava ai telai e li metteva in
azione...
Giusto Ford, ma non ti ho chiesto di intervenire... dimmi Xi Xi, da quale materiale
−
è alimentata la macchina a vapore?
La Ford ebbe un sussulto, serrò le labbra, alzò il braccio ed ondeggiò freneticamente
la mano ad indicare che sapeva benissimo anche quello. Meleagro la ignorò ancora e
prese un gessetto in mano.
Guarda Xi Xi, questo è gesso, lo sai. Una cosa bianca che si può produrre in
−
quantità, ad esempio per ingessare il braccio alla Ford così lo tiene in alto senza
fatica...ma il materiale di cui parliamo noi è molto vecchio, è l'opposto del bianco
e per trovarlo bisogna scavare, in profondità....
Samantha Ford non riusciva più a contenersi, come quei cagnolini che fermi sulle
zampe per ordine del padrone, non possono impedirsi però di scuotere la testa,
implorare con gli occhi, guaire da far pietà. Xi Xi invece gli occhi li alzava alla
ricerca di una risposta plausibile. Ce n'era soltanto una, in verità.
−
Carbone? – disse Xi Xi e per l'insicurezza la parola diventò una domanda.
−
Certo, carbone, Xi Xi. Qualcosa che viene trafugato al ventre della Terra che lo ha
71
custodito per milioni di anni e...
Il carbone viene introdotto nella caldaia, sprigiona calore, porta ad ebollizione
−
l'acqua e di conseguenza si forma il vapore che...
Ford, per favore, sto parlando io. E per sottrarlo alla terra – stavo dicendo – furono
−
costruite le miniere, dove migliaia di uomini, donne e bambini si spaccavano la
schiena e sprizzavano sangue per riempire i vagoni del prezioso materiale.
La Ford alzò ancora il braccio e ripartì. Per lei ogni occasione era buona.
Lavoravano sino a 12,13 ore nelle miniere, uscivano di casa quando ancora era
−
buio, quando risalivano era notte, praticamente non vedevano mai la luce del sole,
i bambini, essendo piccoli, potevano entrare nei cunicoli più stretti...
Non era affatto sbagliato. Ma la Ford diceva queste cose senza nessuna
partecipazione. Era così che andava ripetuta la lezione. Chi mai avrebbe loro
insegnato a distinguere quali nozioni richiedessero un coinvolgimento emozionale e
quali no? La Ford, come sempre, la lezione la sapeva e la diceva bene. Eppure
Meleagro si girò verso di lei con una lentezza agghiacciante, la fissò negli occhi sino
a confonderla, a bloccarne la sequela di parole.
Dimmi, Ford, - sibilò Meleagro Jackson – quali sono i colori della rivoluzione
−
industriale?
Samantha Ford arrossì e fissò il quaderno pensando a quale pagina fosse stato scritto
quell'appunto che ora incredibilmente non riusciva a ricordare.
−
Ma io... – balbettò.
−
Non c'è sul quaderno né sul libro, Ford...sono il rosso e il nero, Samantha, il
carbone e il sangue. Tante altre cose potrebbero rappresentare 'sti due colori, ma
soprattutto carbone e sangue, qualcosa con cui ci si sporca le mani...
Dai banchi cominciavano a sbuffare: - Prof, ci dia un aiuto! Prof, per luna s'intende quella che si vede dalla Terra? Perché pensavamo potesse
−
essere un nome.
72
−
Un nome?
−
Sì, il moroso della Luna – così si chiamava una loro compagna – cioè LA META'
DELLA LUNA.
−
Ragionamento valido, ma sbagliato.
−
Prof, come fa un parente ad essere nello stesso tempo STRETTO E GROSSO?
Meleagro non rispose e tornò alla Ford del tutto frastornata. Che soddisfazione
costringerla all'angolo. E Xi Xi sembrava prendere coraggio: - Nel mio paese è rossa
la bandiera – disse.
Certo Xi Xi, anche allora si usavano bandiere rosse e nere, erano il segnale della
−
rivolta – si alzò in piedi e picchiettò sulla cornice della lavagna. Prese in mano un
gessetto e si schiarì la voce.
Nero e rosso! E voi ragazze, a quando la vostra... rivoluzione?
−
E scrisse sulla lavagna RIVOLUZIONE, bello grande lo scrisse.
Aisha, anche lei copiò la parola, su una pagina intera del suo quaderno, perchè così
l'aveva scritta il prof , riempendo l'intero spazio della lavagna. Non era tanto sicura di
averne compreso il significato, ma non si preoccupò più di tanto. In quella scuola
molte erano le parole che le erano estranee e molte le persone. Era una scuola dove si
insegnava a diventare operatrici per la moda, ad iniziare dalle basi, disegno, taglio,
cucito, confezione. Poteva succedere che figlie di famosi marchi locali e figlie di
tessitori pakistani immigrati si trovassero fianco a fianco nei laboratori. Questo non
significava che entrassero in confidenza e diventassero amiche o che semplicemente
si salutassero. Le due interrogate ad esempio, quando suonò la campana non
scambiarono una parola né si degnarono di uno sguardo. Eppure ciò che segue
dimostra che fossero due rotelline inconsapevoli di uno stesso grande ingranaggio.
Samantha Ford fu prelevata all'uscita da una Mercedes guidata dall'autista della
fabbrica parentale. Zhang Xi Xi venne accolta da un furgoncino dove già si trovavano
altre ragazze e donne cinesi. Il veicolo era guidato da un suo cugino che gestiva gli
73
affari della piccola comunità, un factotum abile e risoluto. Samantha fu portata alla
villa dove la cuoca le aveva preparato le lasagne al forno che la domestica le avrebbe
servito. Samantha pranzava da sola perché i genitori lavoravano sodo anche all'ora
dei pasti. Mentre mangiava ascoltava musica dall'I-pod. Xi Xi venne
scaricata
davanti al fabbricato con i capannoni e mangiò degli involtini primavera direttamente
dalla vaschetta di alluminio. Ce n'erano tante di vaschette sulla tavola dove poi
avrebbero lavorato, ma Xi Xi era una delle poche a mangiare con gli auricolari
inseriti. In quei capannoni si lavorava giorno e notte per consegnare ai proprietari del
marchio un numero sterminato di magliette e pantaloni. I ritmi erano elevatissimi ed i
salari molto bassi, se no che convenienza c'era? Gli operai e le operaie lavoravano,
dormivano qualche ora su brandine disposte nei locali attigui, si alzavano,
riprendevano a lavorare. I giacigli corrispondevano ad un quarto degli addetti perché
quando uno si levava un altro si coricava al suo posto e così via. Xi Xi dava una
mano, anche di notte, nei momenti in cui la consegna si avvicinava ed il ritmo saliva.
A scuola poi le crollava la testa sul banco. I pezzi che i cinesi, compresa Xi Xi,
producevano sottocosto erano ordinati dal marchio di cui era figlia Samantha. Et
voilà.
Ah, dimenticavo: la musica che ascoltavano le due ragazze mentre mangiavano era
la stessa. Era l'hit del momento, una canzone di una cantante imperiale che diceva:No one, no one is getting away for a feeling, ovvero nessuno, proprio nessuno sta
piantando tutto per un sentimento, più o meno.
Meleagro invece non andò subito a casa, ma si fermò davanti alla lavagna provando a
riflettere sulla grossa parola che aveva scritto. Decise che l'avere scritto quella grossa
parola sarebbe stato il gesto inutile della sua giornata.
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8. sorprendere una donna con un abbraccio del tutto inopportuno
Ma se ci pensava prima, se li progettava a tavolino, se decideva in anticipo quando e
dove realizzarli, i gesti potevano ancora essere considerati inutili?
L'ideale sarebbe stato trovarli in un momento fortuito della giornata, l'occasione li
avrebbe offerti, l'estro li avrebbe raccolti e rielaborati. Uno schiocco di dita!
Semplice! Perfetto! Ma Meleagro non era sempre così pronto e lucido e si rassegnava
alla fine a battezzare come inutili azioni su cui esercitava la sua terribile noia o la sua
amara riflessione. Era un presente rallentato o un passato rivisto e corretto.
Spegnere e accendere tre volte di seguito il computer, più tedio che effettiva inutilità.
Scrivere rivoluzione sulla lavagna di fronte ad adolescenti problematiche, più scacco
ideologico che effettivo non-sense.
Ci credeva ancora? O il gioco, come tanti altri precedenti, stava per esaurirsi?
Inizialmente era stato un rigurgito di ribellione contro tutte le cose piene zeppe di
significato che la vita gli propinava ogni giorno. Siccome bisognava assumersi le
vecchie responsabilità e magari aggiungerne di nuove, si sarebbe disimpegnato così,
un piccolo strappo nella tela troppo tesa. C'era un casino di maschi che per sfiatare
andava sui siti porno, lui no, si intristiva, non si eccitava. Era insegnante d'Italiano e
ricordava vagamente l'esempio de “La carriola” di Pirandello. Com'era il
protagonista, un impiegato, un serio professionista, padre e marito modello? Quando
non ce la faceva più il tipo pigliava il suo cane per le zampe posteriori e lo portava
avanti e indietro per la stanza chiusa a doppia mandata. Meleagro sorrideva pensando
all'ingenuità della trovata e a quanto il racconto fosse obsoleto. Fare la carriola con
Fido... embe', chi non ci giocava ormai, con i propri animali domestici? Con i
cagnolini se ne erano viste di tutti i colori, imbarazzanti scene domestiche riprese a
bella posta e poi diffuse da Internet e dalla TV, per non parlare di pratiche sessuali
75
ancora non rese pubbliche, per fortuna. No, per Pirandello il significato della cosa
stava nel nasconderla agli occhi di tutti e nel ripeterla ossessivamente ogni giorno.
Ma allora anche quella diventava una pratica coatta, una dichiarazione di schiavitù,
come il sesso virtuale, dunque! Meleagro invece voleva trovare ogni giorno la
freschezza di un gesto nuovo ed il suo splendore sarebbe risultato più vivo se l'azione
fosse stata pubblica, di fronte a persone del tutto inconsapevoli. Che lo prendessero
per matto non ci sperava, visto che lo spazio fra normalità e follia era stato colmato
da tempo con l'acqua torbida della finzione. Avrebbero pensato ad una telecamera
nascosta, ad un programma di scherzi televisivi etc. etc. Ma chi se ne importava.
Quello che faceva valeva esclusivamente per sé. La sua preghiera nel nome
dell'Assurdo. Il rosario completo ne prevedeva 46 di recite, di formulazioni. Un
peccato originale si era però insinuato da subito nell'elaborazione del coraggioso
sistema. Lo aveva appena deciso e già era andato contro la libertà del progetto,
immediatamente ci era finita dentro la dannata superstizione. Il pensiero selvaggio
era diventato un pensiero da selvaggi. Si era convinto di quanto segue. Se avesse
portato perfettamente a termine il ciclo gliene sarebbe derivato un vantaggio enorme.
I primitivi hanno una paura enorme di perdere ciò che hanno di più prezioso e dunque
si premuniscono salvaguardando ad ogni costo la perfezione dei loro gesti rituali.
Così si era espresso più o meno inconsciamente Meleagro e non aveva il viso segnato
da tinte o il capo adorno di piume o al collo ghirlande di oscuri amuleti. Era un uomo
del suo tempo con addosso una paura enorme, come ognuno di noi, del resto.
Se io li completo questi gesti perfettamente inutili, se io li completo veramente,
−
senza dimenticare e senza arrendermi, Melania ricomincerà a volermi bene come
una volta e tutto come una volta tornerà a splendere. Ne sono convinto, è sicuro.
A parte il bizzarro e irrazionale interesse per i tacchini, Meleagro era un tipo che sulle
cose ci ragionava anche troppo e dunque comprendeva benissimo come tutto quanto
nascesse dalla disperazione. I credenti, in mancanza di una valida alternativa si
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rivolgono ad un dio balzano, i bambini infelici atrofizzano la fantasia e si puniscono
giocando per ore e ore un gioco che li annoia. Così andava avanti Meleagro e
considerava ormai i suoi gesti inutili più con autocommiserazione che con
divertimento. Godeva a vedersi rincoglionito, persisteva nell'ubriacatura anche se il
vino se ne era andato in aceto.
Povero deficiente – diceva a se stesso mentre pedalava – mia figlia è lontana e mia
−
moglie è un Ufo – e pedalava più forte nell'illusione di poterle raggiungere.
Un giorno – ne mancavano alcuni all'agognato appuntamento di Melania con TD –
l'ispirazione lo colse. - Sì – disse sorridendo a se stesso – proprio questo ora.
Eseguì una mezza piroetta che lo introdusse in bagno e invece di trattenersi come
faceva da mesi, abbrancò da dietro la moglie che si stava truccando, la strinse forte,
affondò il naso nei suoi capelli. Meleagro era alto 181 cm. Melania 165. Meleagro
pesava 90 chili. Melania 60. Melania in tempi migliori avrebbe apprezzato in un
simile abbraccio un senso di forte protezione, ora ne avvertiva solamente la minaccia
di stritolamento. La differenza in centimetri e chili non erano più motivo di conforto,
ma di totale estraneità. Unità di misura di allontanamento. Davanti allo specchio
percepì in quell'abbraccio non richiesto tutto il calore sbagliato. Tirò il fiato, posò il
tubetto di fondotinta e disse:- Lasciami.
Meleagro non poteva costringere nessuno a fare capriole con lui, in casa stava
vedendo prati e fiori, ma era un'allucinazione che la moglie non condivideva, un
fumo d'allegria che non aspirava. Si tirò indietro e si scusò.
−
Mi è venuto così d'impulso – disse – ma perché dovrei trattenermi, se mi prende?
−
Non è il momento adatto. Mi sto preparando.
−
Ti stai preparando per quando verrà il momento adatto?
−
Mi sto preparando per uscire.
−
Uscire. Uscire dal guscio, uscire dalla crisi...
−
Devo uscire con Vanessa.
77
−
Esco anch'io
−
Allora prendi un po' d'affettato per stasera.
−
No, esco con te.
−
Non hai capito...
−
Voglio seguirti e vedere dove vai.
−
Cosa?
−
Mi dimentichi. Mi metti sempre più di rado. Vengo sino al negozio dove fai
shopping. Mi metto vicino agli abiti e così tu mi ricompri.
Meleagro aveva abbassato la tavoletta e si era seduto sul water. Melania continuava
davanti allo specchio.
−
Ho voglia di cose nuove – disse – perché dovrei riprenderti?
−
Perché sono una cosa che va bene per sempre. Devi solo vedermi esposto accanto
alla nuova moda per capirlo. Per riportarmi a casa.
−
Ma io ti ho sempre a casa. Sempre intorno, anche nel cesso.
−
Ti annoio, eh? Mi hai sempre detto che dovrei cambiare. In cosa dovrei cambiare?
−
No, Meleagro, ancora 'sta storia! No!
−
Ti prego, ridimmelo. Oggi potrei impararlo.
−
Diventare meno ossessivo. Vaffanculo, avere meno paura del mondo! Ti ricordi?
Prendevi il Tavor per accompagnare tua figlia sull'ottovolante. Non dico l'aereo,
no. L'ottovolante!
Faccio fatica a staccarmi da terra. Solo voletti, ogni tanto. Tu non è che mi hai
−
aiutato molto.
A volte penso che hai sposato una psicologa perché così puoi risolvere i tuoi
−
problemi senza psicoterapia.
Non ho mai voluto deludere mia figlia. Mi sono superato, con o senza Tavor. Mia
−
figlia è in America, non l'ho limitata.
Melania si voltò di scatto e strinse fra le mani la tenda della doccia.
78
−
E il fatto di limitare me? Ci hai mai pensato, a questo?
−
Io ho limitato te? Hai sempre potuto fare ciò che hai voluto e nello stesso tempo
sono sempre stato al tuo fianco. Ti ho portato equilibrio...
Che palle, l'equilibrio! Hai sempre pensato che io abbia una vita avventurosa solo
−
perché affronto ogni giorno gente con problemi, con casini nella testa... beh, la
casistica è abbastanza limitata ed alla fine è un lavoro di scrivania, come qualsiasi
altra impiegata. Ticchete ticchete tac.
Ticchete ticchete tac? E' questo che ti dà fastidio? La noia, la routine. Partiamo
−
subito, ora. Non decidiamo neppure dove andare.
−
Povero Meleagro. Ti ci vedo proprio a partire alla cieca.
−
Mettimi alla prova, dai. Portami con te nel negozio, per ora. Se vuoi mi metto
nudo e ritorno vergine.
No, guarda. Ho bisogno di robe primaverili, non di pellicce per l'inverno.
−
Meleagro si era seduto sul divano ed aveva cominciato a sbottonarsi la camicia.
Dai, mi metto nudo anche qui. Magari non mi riconosci e ti viene voglia di fare
−
l'amore con me.
Melania afferrò la borsetta e se la mise davanti agli occhi.
Melania, seriamente, da quanto tempo non stiamo insieme?
−
Melania non rispose e s'infilò la giacca. Meleagro si era sfilato i pantaloni.
−
Melania, guarda porca puttana, ho un'erezione!
−
Beh, prova con un call-center – disse Melania ridacchiando ed aprendo la porta
per uscire.
Melania, ho il cazzo duro per te, la mia carne ha bisogno della tua, soltanto della
−
tua! - urlò Meleagro.
Sentì la porta richiudersi.
Della tua! Della tua! Della tua!
−
Aveva preso un cuscino e lo stava sfondando contro la sponda del divano. Quando le
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piume iniziarono a svolazzare si fermò sentendosi esausto. Diede un'occhiata agli slip
da cui era scomparsa ogni tensione.
Ed ora che faccio? – si chiese a voce alta. Si guardò intorno. Tra poco i mobili e i
−
muri gli avrebbero comunicato un altro tipo di rigidità che si sarebbe propagata ad
ogni muscolo del suo corpo e avrebbe resa fissa la sua mente. Sentì il silenzio ed
il ticchettio dell'orologio a muro. Doveva riscuotersi. Vide davanti a sé il mobile
che bisognava adattare inserendo una vetrinetta. Era da mesi che Melania glielo
chiedeva. Non lo fece comunque per farsi bello ai suoi occhi, ma per reagire alla
sua imminente trasformazione in pietra. Decise di uscire il più in fretta possibile,
si alzò di scatto ed inciampò nei pantaloni che aveva ancora calati.
Fuori per il caldo se non mezzi nudi, almeno in calzoncini si poteva girare. In cortile
c'era puzza di fogna e vide Maloni sotto il berretto da baseball che stava armeggiando
con la grata di un tombino. Non prese la bici perché la vetreria era ad un isolato di
distanza.
Chiese di Giulio Bellami, il proprietario. Bellami era dello stesso materiale che
trattava. Non fragile, perché sbagliava chi diceva che il vetro si rompe facilmente. Il
vetro è resistente e flessibile, il vetro è trasparente e lascia passare la luce.
Che meraviglia! – pensava Meleagro ogni volta che capitava lì – un corpo che non
−
ostacola la luce, non inerte, non ottuso, che invece di impadronirsene si inebria dei
suoi raggi, ma poi li li lascia andare oltre.
Bellami era della stessa pasta. Chiarissimo di pelo, di occhi e di pelle, non si
contrapponeva mai alle altrui parole. Anche le più banali e malevole, le tratteneva
quel tanto che bastava per colorarsene e poi le rifrangeva pulite e cordiali. Ci si
parlava benissimo dunque, sia del tempo che dei gatti randagi di cui si circondava che
dell'ultimo libro di poesie. Per Meleagro era un conforto anche se non lo vedeva
spesso. Un maestro Zen vicino a Sozzigalli, mica male però. Era da un po' che non lo
andava a trovare e quando arrivò stringendogli la mano, notò che anche il suo volto
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stava assumendo la levigatezza del vetro e ne sorrise. Gli disse delle esigenze di
Melania riguardo alla vetrinetta, cioè, e ai ripiani di cristallo.
Non c'è problema – rispose Bellami – Vieni.
−
E mentre salivano le scale polverose che portavano al piano dei campionari, il
padrone gli mise per un attimo la mano sulla spalla e gli chiese come se la passava.
Come un tacchino pronto per essere farcito – rispose Meleagro.
−
Quella era una specie di parola d'ordine. Bellami a quel punto poteva anche procedere
senza dire più nulla, circa ogni mese Meleagro arrivava con la scusa della vetrinetta e
dava quella caustica risposta di fronte al suo sincero interessamento.
Bellami per cortesia offrì comunque il proprio punto di vista: - Beh, vuol dire che
non sei ancora cotto né tanto meno mangiato.
Intanto erano arrivati. Al centro dello stanzone c'erano box per le docce e porte di
cristallo sistemate su un piedistallo per ammirarne la trasparenza dei colori e la
finezza dei disegni. C'erano pavoni dalle code policrome e disegni geometrici, c'erano
paesaggi toscani e fantasie alla Kandinskij. In un angolo, sopra un'enorme lastra, era
riprodotto preciso preciso il dipinto con l'abbraccio di Klimt. L'uomo e la donna
avvinti. L'esposizione non aveva pretese di eleganza, c'erano trucioli sul pavimento e
polvere di vetro un po' ovunque, anche nell'aria. Su di una vecchia scrivania erano
gettati alla rinfusa progetti, preventivi e tessere colorate che sarebbero andate bene
per un mosaico bizantino. Bellami si avvicinò ad una specie di schedario, tirò un
cassetto ed agganciate ad un sostegno di ferro c'erano le lastre di vetro che si
mostravano come campioni.
Ecco l'ultima volta avevi scelto questo per i ripiani della vetrinetta – disse
−
Bellami, mostrandogli nella sua armatura un vetro azzurrino – ma se vuoi,
guardati ancora un po' intorno. Anche di là, non c'è problema. Io ti aspetto giù.
Gli aveva indicato un altro ambiente a cui si accedeva attraverso una porticina
scassata. Là dentro c'era quella che Meleagro chiamava “la cattedrale”. Tutti e due
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sapevano
che quello era lo scopo essenziale della visita, altro che vetrinetta!
Meleagro sarebbe rimasto dentro una mezz'ora e poi appagato sarebbe sceso per
tornare a casa, non c'era nemmeno più bisogno di salutare. Contò i passi di Bellami
giù per le scale sino al silenzio, ma la mano era già pronta sulla maniglia. Entrò e si
sentì mancare l'aria. Sapeva come fare. C'era una scaletta di legno che portava ad un
lucernaio coperto da uno scuro, lui l'aprì ed insieme ad un soffio di vento penetrò
nello stanzone la magnificenza della luce. Il raggio rimbalzò sulle grandi lastre di
vetro messe in fila ai lati della camera e accatastate al centro e fu tutto un bagliore di
luci rosse, azzurre e gialle. Ed ogni rosso azzurro giallo si espandeva nel canto
sinfonico di cento tonalità. Eccola, la cattedrale, altro che lavori finiti, altro che
eleganza ed utilità per le case. Lì era il materiale grezzo che dominava e trionfava. I
pezzi
Bellami li andava a scegliere direttamente in Germania e Meleagro
immaginava che crescessero come diaspri al centro di un'altissima foresta, che
c'entrassero poco gli uomini, magari era faccenda di draghi, elfi, coboldi che
conoscevano i segreti del fuoco e della pietra. Meleagro abbacinato iniziò a
camminare ed anche il pavimento era di un etereo e durissimo vetro. Sotto di quello,
senza avvertirne alcun rumore, poteva vedere i lavori della falegnameria. Anche
quella era una bella magia, ma Meleagro se ne distolse subito, arrivò sino in fondo e
guardò in alto. Da quel punto si poteva scorgere la finestra della sua camera da letto.
Fuoco e pietra. Meleagro non aveva mai messo in relazione la felicità di lassù con
quella che provava nella cattedrale.
Fuoco e pietra – pensò ancora. E là, dietro la finestra, i corpi abbracciati
−
riuscivano a trasmettere luce, a farla passare, a illuminare come in quel momento
ogni cosa d'azzurro, di rosso e di giallo? Gli pareva che qualche volta fosse
veramente successo.
Quando Meleagro scese, non uscì furtivamente, ma si fece richiamare Bellami.
Li prendo, sai, li prendo adesso i cristalli per Melania.
−
82
−
Ah, ti sei deciso! - esclamò Melania entrando in casa e vedendo i vetri accatastati
−
Adesso passerà un altro anno, prima che tu li metta su?
−
Ma no, è facile. Domani, domani, lo giuro! – rispose Meleagro.
−
Mmmm – fece Melania.
Era proprio confusa. Si era alquanto preoccupata quando Meleagro aveva dichiarato
di volerla seguire. Lo aveva detto a Vanessa e le aveva anche raccontato, per farsi due
risate, della stravagante dichiarazione del marito, con la conseguente solida prova del
suo amore, ma l'amica non l'aveva assecondata. Le pareva di averle già detto che la
maniera migliore per nascondere un tradimento era far procedere le cose esattamente
come prima. Normale come sempre, non più cattiva, non più strafottente, semmai più
dolce, dimostrando l'intenzione di elargire qualcosa di bello e dimenticato.
−
E va bene, gli preparerò una torta – aveva sospirato Melania.
−
Una ciambella – l'aveva bruscamente corretta Vanessa – con il buco in mezzo.
L'una aveva protestato che nella cosa non ci sarebbe stata nessuna poesia, l'altra
aveva ribadito che la poesia non c'entrava e che si trattava di un semplice compito di
ripasso. L'una insisteva che non poteva farlo perché aveva in mente TD, piantato
come un chiodo, l'altra eccepiva che al chiodo si poteva benissimo appendere il
ritratto decoroso di moglie arrendevole, mica quello di una donna invasata dalla
fregola. Rassicurare e calmare il marito, innanzitutto. Che pensasse, per trovare
coraggio, al disgraziato fatto che Meleagro avrebbe potuta seguirla davvero.
Melania se n'era andata perplessa. Lo era ancora mentre stavano cenando, senza una
parola, davanti a un piatto freddo di salumi, mozzarella e insalata. Meleagro era
imbarazzato per via del suo urlo carnale e speranzoso per una risposta anche tardiva.
Melania era imbarazzata perché vedeva l'imbarazzo di Meleagro, ne capiva il motivo
e sperava di ritardare la risposta a data indefinita. Un silenzio imbarazzato e carico di
opposte speranze aleggiava sulla tavola e sulla bottiglia di acqua minerale. In quella
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parte dell'Impero l'acqua si consumava confezionata in contenitori di plastica che
avevano soppiantato quelli precedenti di vetro. In alcune zone del pianeta Impero si
sarebbe benedetta l'arrivo dell'acqua potabile, visto che occorreva rifornirsene da
pozzi e fiumi che si trovavano a chilometri di distanza dalle abitazioni. In quella parte
vicino a Sozzigalli l'acqua del rubinetto scorreva allegramente, ma se mancava la
confezione della minerale si facevano ugualmente i chilometri per comprarla
all'Ipercoop. Cosa c'entra l'acqua minerale col silenzio imbarazzato di Meleagro e
Melania? C'entra perché Meleagro aveva preso in mano la bottiglia e stava leggendo
a mente con finto interesse le percentuali degli elementi chimici disciolti, mentre
Melania beveva a piccoli sorsi dal bicchiere. C'entra perché la faccenda di non bere,
sebbene assetati, l'acqua potabile del rubinetto per andarla ad acquistare lontano
tenendo a bada la sete, è piuttosto simile alla faccenda del differimento del desiderio.
Le coppie che vivevano a Sozzigalli e in un raggio di 3000 chilometri intorno, invece
di saltarsi addosso infoiati come cani al minimo sentore di prurito sessuale,
rimandavano di ore, cercando di non incrociare lo sguardo dell'altro, trovando i più
assurdi pretesti biologici e psicologici pur di non arrivare al dunque. Tra le cena e il
dunque di Meleagro e Melania passò ancora parecchio tempo. Poi a notte fonda, dopo
che il silenzio di un'intera serata era stato riempito dalle scempiaggini di un
programma televisivo e i due, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altra, avevano
provato per ore la paura folle di toccarsi, mascherata da un finto interesse per quella
che nient'altro era se non puzzolente merda catodica, Meleagro ebbe il coraggio di
allungare un braccio e di cingere delicatamente le spalle di Melania. Melania sospirò
– guarda caso il programma era la storia di una santa che si era fatta ammazzare pur
di non cedere alla violenza di un bruto – sospirò una seconda volta e senza guardare
in faccia Meleagro, fece una domanda retorica dalla quale si attendeva una sola
risposta.
Vuoi che facciamo l'amore? – disse.
−
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Sì, lo voglio – rispose Meleagro come in un'altra famosa occasione.
−
Si spogliarono, uno di spalle all'altra, senza guardarsi. A Meleagro il cuore batteva
fortissimo. Per una donna con cui stava da vent'anni. Melania tornò ancora più
indietro nel tempo perché provava lo stesso stato d'animo di quando aveva perso la
verginità. Pensava che arrivati a quel punto andava fatto comunque. Sotto le lenzuola
Meleagro voleva baciarle la bocca ed ogni parte del corpo. Melania scostò il capo e il
corpo e disse che lo voleva subito dentro di sé. Meleagro pur di non mollare era
disposto ad ubbidire a qualunque ordine e a prendere ogni gesto ed ogni parola che
esprimessero la minima collaborazione, come una meravigliosa testimonianza
d'affetto ed una fulminante dichiarazione di desiderio. Sapeva di mentire a se stesso
ignorando la sua freddezza, ma dopo tanto tempo, gli era già d'avanzo che lei fosse lì
solo per lui. Mentre iniziavano a Melania si formò davanti agli occhi l'immagine
assurda di TD alle prese con gli attrezzi ginnici. Fu presa dal panico. - No – disse, si
bloccò e cercò di respingere il corpo che aveva addosso. Meleagro a quel segnale si
strinse più forte, come se scivolando da quella vetta di roccia precipitasse in un
baratro. Ma sentiva anche
la terra fertile e se ne ubriacava, aumentò
vertiginosamente il ritmo e le esplose dentro rabbia e nostalgia insieme, in un solo
gemito. Si scostò subito dopo e respirò forte. Melania mentre piangeva piano, allungò
il braccio e accarezzò i capelli al marito. Ritirò subito la mano, si voltò dalla propria
parte ed esausta si addormentò. Meleagro rimase immobile, adesso sì con la paura
che tutta la freddezza gli sarebbe caduta indietro sino a congelarlo. Ad addormentarsi
aveva la paura di risvegliarsi come un oggetto della stanza, il comodino, la pantofola,
il crocefisso. Si fece forza e si alzò. Andò in cucina e si versò un bicchiere d'acqua.
L'orologio segnava mezzanotte e cinquanta minuti. Si era già in un nuovo giorno.
Stupefatto, pensò che a quel punto poteva proprio escogitare un ennesimo gesto
inutile.
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9. umanità
Salman durante la pausa pranzo aveva preso l'abitudine di arrivare sino alla stazione
delle corriere per dare una controllata alla sorella Aisha. Aisha, insieme all'amica
Sanim, correva in fretta fuori da scuola per salire prima che arrivasse il fratello. Una
volta seduta era al sicuro perché Salman non aveva il coraggio di andarla a scovare
fra i sedili, con le italiane che lo guardavano male. Se lui dal marciapiede gli faceva
dei cenni di richiamo, la ragazza, fingendo di non vederlo, si voltava a parlare o
addirittura,ci fosse o no il sole, tirava la tenda sul finestrino. Aisha si vergognava a
farsi vedere con il fratello, Salman ci andava per non far sentire la sorella troppo
libera e per riempirsi gli occhi della libertà delle ragazze italiane, sdegnato ed eccitato
nello stesso tempo. Era una gara a chi arrivava prima, per eludere o bloccare. Quel
giorno aveva vinto Salman che aveva dovuto aspettare minuti prima che si
profilassero all'orizzonte le shalwar kameez coloratissime di Aisha e Sanim. Mentre
aspettava aveva visto molte ragazze mezze nude e truccate e per riflesso, quando gli
giunse davanti, la prima cosa che fece, visto che tutto il corpo era coperto, fu
controllarle il viso, senza riscontrare nulla d'insolito. Aisha quando lo scorgeva lì in
mezzo, iniziava a sorridere, non per manifestare gioia, ma per nascondere l'enorme
imbarazzo. Sorridendo iniziò mezzo a litigare perché Salman voleva vedere i
quaderni di scuola e lei invece non aveva nessuna intenzione di riaprire lo zaino. Ad
ognuno dei due non piaceva attirare l'attenzione della gente intorno e quindi la
discussione procedeva sommessa e nervosa, con le voci che invece di elevarsi, si
abbassavano verso toni striduli e gravi. Quando più in basso non si poteva scendere,
Salman alzava un dito minaccioso e Aisha era costretta a capitolare. Gli diede il
primo quaderno che era quello di Italiano e Storia. Salman lo aprì e lesse la parola più
grande, del tutto solitaria in mezzo ad un intero foglio bianco. La parola era
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RIVOLUZIONE. Chiese alla sorella se sapeva cosa significasse e lei per risposta alzò
le spalle. Chiese perché l'avesse scritta così grande, sprecando un intero foglio, e la
sorella rispose che così l'aveva fatta il suo insegnante sulla lavagna. Salman richiuse
il quaderno e lo riconsegnò. Sanim aveva assistito alla scena in silenzio, ma a quel
punto tirò l'amica per una manica che era il segnale per salire sul pullman. Salman ,
quando la sorella aveva già il piede sul primo scalino, prese dallo scomparto esterno
dello zaino il vocabolario tascabile italiano-urdu. RIVOLUZIONE. Gli sembrava di
conoscerla quella parola, ma voleva controllare la traduzione. Si allontanò sfogliando
le pagine sottili. P,Q,R. Eccola la parola. Sotto il porticato della sua madrassa in
Pakistan, dopo aver imparato a memoria le sure del Corano, sentiva pronunciare
spesso quel vocabolo da ragazzi più grandi di lui che erano già diventati hafiz,
custodi del messaggio di Dio. La parola era spesso associata al panarabismo, alla
necessità che tutti i fratelli islamici unissero le loro forze contro l'Impero Capitalista
del Male. Tutti insieme per una rivoluzione planetaria. Quegli stessi studenti nelle
città più grandi organizzavano spedizioni punitive contro i bordelli ed i negozi che
vendevano cd e dvd diffusori della cultura occidentale. Dietro c'era il partito
Jama'iyyat Ulama-Al-Islam ed i simpatizzanti di Al Quaeda. Al Quaeda era
l'organizzazione clandestina che aveva progettato e messo in atto l'attentato contro le
Twin Towers a New York, l'11 settembre 2001. I Talebani, Osama Bin Laden. Ma
rivoluzione era stata anche quella 'storica' guidata da Bhutto che nel 1968 aveva
portato in piazza milioni di pakistani che si battevano per i diritti dello stato sociale e
la lotta alla povertà. Il generale Zia aveva allora organizzato una brutale repressione,
ucciso Bhutto e proceduto alla reislamizzazione del paese. Negli ultimi mesi tante
cose erano successe lontano da Salman. Mancanza di cibo. Gas, acqua, elettricità
sempre più scarsi e costosi. La figlia di Bhutto, Benazir, capo del Pakistan People's
Party, assassinata a quarant'anni di distanza dal padre. A capo del governo era stato
chiamato Musharraf, probabilmente un fantoccio nelle mani dell'Impero Americano. I
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kamikaze integralisti che si erano fatti saltare in aria massacrando centinaia di
persone. Le bottigliette di Coca-Cola con la scritta in urdu, i McDonald's aperti ad
Islamabad. Chi pronunciava adesso la parola rivoluzione? Salman era confuso.
Andava a pregare in moschea e non beveva alcol, gli piaceva la musica house,
controllava la moralità della sorella e sognava le ragazze italiane con le loro porzioni
di pelle nuda. Portava la shalwar khameez, ma sotto metteva i jeans. Però
RIVOLUZIONE scritta così grande era una gran bella parola, sapeva di gente in
festa, di eroi che sconfiggevano i cattivi, di mosse di lotta e di fiori rossi lanciati in
aria. E forse il rosso del sangue che si versava era solo una tinta vivace del tutto
artificiale, come quella che scorreva sui set di Bollywood. Così ridacchiando fra sé e
mostrando al mondo i suoi splendidi denti bianchi che nessun dentista occidentale
aveva dovuto rimettere a posto, Salman marciava veloce al ritmo di quel vocabolo
che gli era rimasto in testa. RIVOLUZIONE. RIVOLUZIONE.
Arrivato al Parco dell'Ospedale incrociò due anziani col berrettino da baseball e ne fu
così turbato che la parola che aveva in mente fu cancellata in un attimo per lasciare
spazio a pensieri di altro genere. Le ragioni del turbamento saranno sufficientemente
spiegate più avanti. Uno dei due maturi signori era Arturo Maloni. Arturo Maloni non
era tipo da andare a zonzo per le zone verdi, per precisione stava passando di lì per
recarsi alla Usl dove avrebbe prenotato una visita fisiatrica per la moglie Loretta.
L'altro maturo che amava invece bighellonare in bicicletta, era un suo vecchio
conoscente ed ex collega di lavoro e di nome faceva Sergio Dildo. C'è chi segue una
riga diritta per il proprio percorso quotidiano e chi invece una serie vorticosa di giri e
il destino è il geometra pagato male che fa incontrare le linee in un punto. Dildo e
Maloni si erano salutati come vecchi compagni ed ora di nient'altro potevano parlare
se non di come tirasse il vento per la cooperativa con cui avevano lavorato per
quarant'anni, la Cooperativa dei Muratori. Sbaglia chi pensa possa trattarsi di quattro
amici che vanno in giro a far lavoretti con calce e cazzuola. La Cooperativa dei
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Muratori aveva in effetti un sito internet fichissimo, l'azienda – vi si leggeva – traeva
ricavi annui che superavano i 400 milioni di euro. Ai tempi in cui l'Impero non era
arrivato ancora ad inglobare questa parte di mondo, le cooperative – compresa quella
dei muratori, fondata nel 1908 – predicavano il mutuo soccorso, l'opposizione al
capitale e – dove abbiamo già sentito 'sta parola? – la RIVOLUZIONE. In quel
momento il grande affare della Cooperativa, dopo aver costruito i palazzi e le
fabbriche della città ed aver allargato la sua opera alla provincia ed alla regione, il
grande affare della Cooperativa dei Muratori era costruire una grande base militare al
di là del grande fiume inquinato e la base militare avrebbe dato ospitalità ai soldati di
vario grado che mangiavano tacchino il giorno del Ringraziamento e si facevano
fotografare col loro amato presidente. Soldati del centro dell'Impero, soldati
americani. Di questo appunto stavano parlando in quel momento Arturo Maloni e
Sergio Dildo. Maloni non si preoccupava più di tanto del fatto che si fosse tradito lo
spirito originario: se si continuava a tirar su mattoni e la Cooperativa incrementava i
guadagni, anche i soldi degli americani andavano bene.
Ma proprio una base militare, cazzo, proprio americana! Te lo ricordi ancora il
−
Vietnam, per la miseria? – si lamentava Dildo – Prima del crollo del muro, non
sarebbe mica successo, va là!
Non si riferiva ad una qualche catastrofe civile in cui fosse implicata la Cooperativa,
ma al famoso crollo del Muro di Berlino, 1989, evento simbolo della caduta dei
regimi comunisti europei.
Se il muro è crollato, vuol dire che non era fatto bene ed era tenuto insieme con lo
−
sputo – ribatteva colla sua logica pragmatica Maloni.
Su questo posso anche darti ragione, ma è mica obbligatorio far affari con gli
−
americani e ad essere troppo avidi si diventa come loro. Che si obbedisce anche
noi alla legge del profitto! – concludeva duro e incazzato Dildo.
Anche quello lo abbiamo tirato su noi e serve a fare del bene – diceva Maloni
−
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indicando il vicino ospedale, ma era solo un modo per troncare il discorso e infatti
un attimo dopo Dildo venne salutato con la veridica scusa di un esame che Maloni
doveva prenotare proprio lì. Dildo ricambiò ed augurò salute di ferro ed ogni bene.
Anche lui non aveva troppa voglia di continuare quella discussione di principio.
Mentre stava discorrendo aveva adocchiato dall'alto della sua bici un gruppetto di
ragazzi che conosceva. I ragazzi erano pakistani. Si tolse il berretto da baseball, si
passò bene la mano fra i capelli grigi e si avviò verso di loro con lo scopo preciso
di portare qualcuno dalla sua parte. Quando Salman lo vide avvicinarsi smise di
parlare e si bloccò come se fiutasse un pericolo. Un brivido gli suggerì che il
rischio francamente dipendeva più da una loro scelta morale che da quello che il
vecchio italiano poteva offrire. Gli altri due si davano di gomito e impostavano
sorrisi di circostanza. Uno di loro aveva i capelli con un taglio alla moda e vestiva
all'occidentale con pantaloni stretti, cinturone borchiato e giubbotto nero. L'altro
portava una Shalwar Kameez color sabbia e sulle labbra carnose spiccavano baffi
nerissimi e ben curati. Salman sapeva cosa sarebbe successo. Il vecchio italiano
avrebbe scherzato un po' con loro a proposito delle ragazze, un po' si sarebbe
dimostrato preoccupato delle loro condizioni economiche. Avrebbe finito dicendo
che era solo a casa e che avrebbe offerto volentieri un caffè. Uno dei due avrebbe
accettato e lo avrebbe seguito a distanza. Saliti nell'appartamento, senza dire una
parola, si sarebbero spogliati. Il vecchio italiano in conclusione avrebbe dato un
po' di euro al ragazzo pakistano. Non faceva per lui – pensò Salman – no, davvero,
e poi c'era da riprendere il lavoro. Salutò in fretta gli amici e riprese il suo
cammino.
- Cos'ha l'amico? – chiese Dildo – Non gli sto simpatico?
Salman mentre si allontanava sentì le scuse divertite di quelli della sua generazione.
Generati dopo il vecchio e in un altro posto. Dildo a voce spiegata gli lanciò un Ciao,eh! – che gli rimase appiccicato dietro, una specie di coda cavallina che iniziò
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ad oscillare. Su e giù. Ciao al posto di rivoluzione, ora aveva in testa Salman. Ciao al
posto di rivoluzione, poteva essere uno scambio proficuo, si tormentava il ragazzo
mentre la coda saliva e scendeva. Strade e cassonetti, ville, schiere di empori.
Incrociava molte auto perché quello era il giorno disinquinante del blocco del traffico
ed i bravi cittadini si facevano il giro della tangenziale. Le persone che camminavano
o erano anziane signore o extracomunitari senza un euro perché tutti gli altri non
potevano fare a meno delle quattro ruote. In diversi se ne fregavano del divieto,
acceleravano e puntavano dritti verso la piazza. Su e giù la coda, ciò che si può fare e
ciò che non si può. Seduto sul ciglio della strada, con la schiena appoggiata ad un
pioppo con la corteccia smangiata dai solfati, vide un tipo che si stava scolando una
bottiglia di birra. Gli fece pena perché era ubriaco e la testa gli ciondolava sul petto,
ma a vedere la birra gli venne sete. Su e giù la coda. Beh, anche Salman avrebbe
potuto attingere tranquillamente perchè di alcolico nella bevanda non c'era proprio
nulla. Acqua pura. Il tipo brillo, che si faceva passare per l'infelice marocchino Sabri
Abdallah, col permesso di soggiorno in scadenza, era un italiano del tutto astemio
ovvero il giornalista Orso La Guardia. Il fatto di essere incazzato contro la sorte
avversa gli riusciva comunque bene, anche se neppure lontanamente si sarebbero
potute paragonare le sventure del vero italiano con quelle del marocchino
interpretato, che in realtà esisteva e sul quale ci si era documentati per creare una
copia del tutto somigliante. Orso La Guardia imprecava come un vero ubriaco perché
gli avevano chiesto di iniziare la sua inchiesta vicino ad un parcheggio fuori mano,
così poteva dare una mano anche per il rilevamento statistico dei cittadini che
obbedivano alle misure anti-smog lasciando lì la macchina per farsi un chilometro a
piedi. Complimenti. Nessuno che passasse. Iniziava a pentirsi di aver accettato
l'incarico, di essersi tinto i capelli, di aver scurito la faccia con una seduta intensiva di
lampade. L'Assessorato alle Politiche Sociali gli aveva promesso più gloria che
retribuzione, ma era un affare che andava di moda e che si portava avanti con
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successo in molte città di quella parte dell'Impero. Aveva detto sì, ma che cazzo! Se
solo l'avessero lasciato rantolare contro un muro delle vie del centro, avrebbe potuto
misurare con precisione indifferenza ed umiliazione, sguardi indignati e commenti
razzisti. Lì la giornata gli sembrava del tutto sprecata. Era rientrato subito nella parte
quando aveva visto avvicinarsi qualcuno, ma l'eccitazione si era del tutto raffreddata
allorché aveva visto che era soltanto un ragazzo pakistano. Fuori da qualunque tipo di
parametro stabilito con l'assessore. Non aveva potuto trattenere un vaffanculo
all'indirizzo. Poi iniziò a grattarsi furiosamente la schiena perché per meglio
interpretare Abdullah era da una settimana che non si faceva una doccia. I marocchini
erano persone che amavano la pulizia, ma quello scelto da loro era agli sgoccioli e
dunque lo immaginavano sporchissimo. Per il casino del traffico Salman non colse
l'insulto, ma pure lui si grattò all'altezza del coccige e si mise a posto la tunica che gli
si era un tantino appiccicata alle natiche. Dovette fare una deviazione perché un
grosso operaio si stava lavorando un pezzo d'asfalto col martello pneumatico che
sussultava fra le sue gambe divaricate. Aveva un grosso paio di cuffie in testa per
ripararsi dal rumore assordante, ma Salman pensò diffondessero musica per
alleggerire un noioso lavoro di ore. Quando passò proprio vicino vide due grossi seni
sussultare dentro la tuta arancione e questo lo fece vibrare più delle scosse della
perforazione. Capì che nonostante i capelli cortissimi si trattava di una donna. E i seni
andavano su e giù come fossero azionati da un frullatore impazzito. Su e giù la coda
di Salman. Ciò che è lecito e ciò che non lo è. La gigantesca svellatrice si chiamava
Nora Jones ed al riparo delle cuffie si era completamente isolata dal luogo insalubre e
dall'infame lavoro. Stava pensando a quale tipo di bomboniera acquistare per Nancy
che la domenica successiva avrebbe fatto la prima comunione. Nora aveva come
compagno di vita un commerciante egiziano ex campione di lotta greco-romana ed
era stata una dura lotta fargli accettare il rito cattolico per la loro unica figlia. Il nome
Nancy lo aveva scelto perché era quello della fidanzata di Syd Vicious, un famoso
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personaggio punk. Il punk era stato un filone rivoluzionario della musica rock fine
anni Settanta, ma dopo 30 anni non era ancora morto. Le bomboniere erano dei
contenitori di confetti che si distribuivano in occasioni speciali, insieme a fiocchi
colorati e bigliettini con scritte dorate che avrebbero ricordato negli anni a venire
l'avvenimento. Tutti dopo qualche giorno si disfacevano in fretta di quegli oggetti
inutili o li lasciavano ammuffire negli angoli più reconditi degli scaffali, tuttavia per
la prima comunione o per i matrimoni tutti si facevano prendere dalla frenesia di
scegliere le bomboniere. Mentre le macchine le sfrecciavano intorno ed il suo corpo
era scosso dall'onda energetica del martello pneumatico, Nora Jones doveva prendere
una decisione su un sacchetto di tulle chiuso da una catenella con un cuoricino o su
un minuscolo cesto di maiolica da cui spuntava il muso di un gattino. Economici, ma
d'effetto. E a un'altra cosa pensava. Se dovendo accompagnare Nancy per le prove in
chiesa insieme alle altre bambine, sarebbe poi riuscita ad arrivare in tempo alle sue di
prove, quelle con il gruppo punk “Le Skazzate”, in cui lei suonava il basso. Una
possente base ritmica, in diversi le avevano fatto i complimenti. A Nancy avrebbe
potuto pensarci il papà che ormai conosceva tutti in parrocchia, ma quella era la
serata della moschea e poi del cazzeggio con gli altri uomini. La solita vita incasinata.
Guardò davanti a sé e vide la kameez di Salman allontanarsi in una specie di
nebbiolina che neppure ad agosto. Si terse il sudore con il braccio e vide più lontano
il tendone colorato di un circo. Anche Salman lo vide, sul piazzale bitumato oltre la
rotonda spartitraffico. Ora le ville ed i negozi erano sostituiti dalle aziende con le
insegne giganti, sigle misteriose che non comprendeva, e dai profili anonimi dei
capannoni industriali. Salman attraversò correndo le strisce pedonali e si avviò verso
la zona della lavanderia. Vide un omino con la giacca viola chiusa da tanti bottoni
dorati sino al colletto tondo. Salman si accorse che apparteneva alla sua gente. Era
più basso di un bel po' e più anziano di una decina d'anni, ma i capelli erano neri, gli
occhi molto scuri ed aveva il suo stesso colore di pelle. Il ragazzo sorrise, ma quello
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passandogli accanto gli ficcò nella mano senza alzare lo sguardo tre o quattro
tagliandi colorati. L'uomo si chiamava Kabir Singh e arrivava da Amritsar, a pochi
chilometri dal confine, ma questo bastava ad indicarlo come indiano e non come
pakistano. Salman vide sui biglietti il volto colorato di un clown ed una tigre con le
fauci spalancate. Non aveva mai assistito ad uno spettacolo circense, ma alla Tv
qualcosa aveva visto ed un'idea se l'era pur fatta. Si voltò a guardare l'uomo del circo
che procedeva per la sua strada. Viaggiò con l'immaginazione ed immaginò itinerari
avventurosi, poi pensò che nel circo esisteva sicuramente una lingua comune per lui
misteriosa, attraverso cui tutti gli artisti internazionali riuscivano a parlarsi
facilmente. Non avrebbe fatto né il domatore né il trapezista, ma il giocoliere con le
clave ed i piatti. Avrebbe avuto una roulotte molto accessoriata. Avrebbe alla fine
dimenticata la sua famiglia e gli obblighi legati alla parentela. Tappa dopo tappa,
spettacolo dopo spettacolo forse sarebbe arrivato in Pakistan. Quanti paesi aveva
visto il piccolo uomo con i bottoni dorati? Due.Amritsar e quella città italiana dove la
famiglia che dirigeva il circo teneva il suo deposito, sopra a un terreno in periferia.
Anche gli stabbi con tristi animali troppo anziani o malandati per esibirsi ancora.
Kabir Singh era stanziale, non seguiva il circo nei suoi spostamenti, faceva il
guardiano e l'inserviente, portava da mangiare alle bestie dismesse, puliva la loro
merda. Il circo partiva sempre dal luogo d'origine per i suoi lunghi giri e gli avevano
dato i biglietti con gli sconti da distribuire. Le roulotte e i camion sarebbero partiti e
lui sarebbe rimasto lì, a fissare negli occhi il leone sdentato, a lanciare una manciata
di noccioline alla scimmia depressa. Ma questo Salman non lo poteva sapere e la
coda là dietro si muoveva, tra quello che nel futuro si poteva ancora decidere e quello
che sarebbe rimasto soltanto un sogno. E intanto era tornato al suo destino
quotidiano. Vide l'edificio della lavanderia. Nel parchetto aumentò il passo perché
sulla panchina c'erano Zac, Gino e la ragazza. Nessuno di loro richiamò la sua
attenzione, eppure sino a quel momento era stato proprio lui l'argomento principale di
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una vivace discussione. Così Salman apparve al gruppo come l'omino di un
videogioco che prima o poi sarebbe stato riportato al punto di partenza, a completa
disposizione. Per ora potevano lasciargli passare il cancello. Una vita salvata, una vita
sprecata, dipendeva dai punti di vista.
−
Il tuo uomo – disse Zac puntando il mento verso la sagoma ormai lontana.
−
Non voglio. Puzzano.- commentò Meri, buttandosi i capelli davanti agli occhi.
−
Quanto sei delicata! Meri che considera o' pesce 'na fetenzia...questa me la devo
proprio segnare – disse Gino fingendo di scrivere su di un taccuino immaginario.
Con o' pesce, per chi non l'avesse intuito, si indicava nel dialetto di Gino l'organo
sessuale maschile. Zac intanto le aveva preso il braccio con il tribale e aveva
iniziato a torcerle la pelle facendole gli spilli. Meri urlò e cercò di liberarsi.
Non hai capito una cosa, bella! Quando si vota e si decide insieme, mica ci si può
−
tirare indietro – precisò Zac.
Meri si massaggiava e piagnucolava.
E poi sei anche una grandissima ignorante. Perché gli islamici si lavano alla
−
grande. Ogni volta che pisciano si lavano, vero Zac?
−
Sì, intanto a chi tocca? A me! – si lamentò ancora Meri.
−
E stai a vedere che toccava a me! Cosa credi che so' diventato nu poco ricchione?
– disse Gino dandole una spinta che la rimandò dalla parte di Zac. Zac non perse
l'occasione e la strinse al petto con la mossa del gorilla.
Ascolta, amore. Quello non l'ha mai vista neppure da lontano. Appena sente
−
l'odore, sai come lo teleguidiamo? Playstation pura. Quello che vogliamo, lui lo
fa. Ma prima deve assaggiarla. L'hai capito il concetto? – e finì dandole dei
pugnetti sulla fronte perché l'idea le restasse ben impressa.
E poi anche tu c'hai bisogno degli euro, no? – chiese Gino, separandole
−
delicatamente la frangetta da una parte e dall'altra della fronte – Altrimenti ti
tagliano il gas e l'elettricità...statte accuorta.
95
Meri si divincolò, sembrò che stesse vomitando, ma poi le uscì fuori solo un colpo di
tosse. Si accese una paglia. Fece una lunga tirata.
−
Voglio tremila euro. Se no col cazzo che mi muovo!
−
Macchè tremila! Di più, di più. Hai presente il venerdì sera, come sono imbottite
le casse dell'Ipercoop? – rispose Zac tutto entusiasta.
−
E se c'è la polizia? Le guardie?
−
E a questo punto che serve il pakistano, no? E' il diversivo ideologico, tutti gli
occhi saranno puntati su di lui – spiegò Zac stimandosi molto per il grande
progetto e per le parole di presentazione che sapeva trovare.
E noi intanto arraffiamo il malloppo – chiosò Gino, strappando il mozzicone dalle
−
mani di Meri.
−
E per quando sarebbe la cosa? – chiese Meri riprendendo la paglia e sbuffando.
−
Qualche giorno. Ho ancora i miei informatori là dentro – disse indicando la
lavanderia – Ancora qualche giorno.
Ahò, un giorno o due e poi ti diverti alla grande. Nero e circonciso, Meri! – la
−
sfotté Gino.
Vaffanculo – rispose secca Meri, ma si vedeva che sotto sotto le veniva un po' da
−
ridere.
96
10. rubare la palla in un gioco straniero
La radiosveglia sul comodino, il quadrante sul muro del soggiorno, il display del
telefonino lo confermavano. Ciò che stava succedendo alle lancette del suo orologio
da polso era vero. Un inesorabile avanzamento. Accese lo schermo del Pc e vi lesse
gli odiosi implacabili numerini, aprì un tiretto della scrivania e trovò un plastificato
al quarzo made in China con la pubblicità della Cooperativa Muratori impressa sul
cinturino. Era funzionante e l'ora che vi si leggeva era quella temuta. Troppo, troppo
avanti. Le 11 e 4 minuti. TD aveva già più di mezzora di ritardo. Melania cercò di
calmarsi e di effettuare un rapido calcolo. Meleagro sarebbe arrivato da scuola alle
13e 20, dunque le restavano ancora due ore e quindici minuti, se il campanello avesse
suonato in quell'istante. Non suonò. Controllo ancora il cellulare, per vedere se fosse
segnalato un nuovo messaggio. Nulla. Forse poteva provare lei. Non lo stava facendo
da amante impaziente – cercò di ingannarsi – ma da seria analista preoccupata per
quella sconcertante mancanza di puntualità. Ma sì. Mentre componeva il numero la
mano però le tremava. Maledì la segreteria telefonica e le venne voglia di scagliare
sul pavimento il malefico aggeggio che conteneva la voce mancante di TD. Stirò con
una mano il grande foulard rosso che aveva steso sopra il divano dove si sarebbero
abbracciati. Corse in bagno e si diede una nuova mano di rossetto. Le parve di essere
orrenda.
Davanti alla stazione una ragazza, molto più giovane e slanciata di Melania, stava
compiendo lo stesso gesto, protendeva la testa e sbirciava la strada assai trafficata.
Per quanto riguardava la bellezza delle due donne messa a confronto, la bellezza, si
dice, è una questione soggettiva, però...la ragazza della stazione si chiamava
Malgorzata Okazek, in arte Malgor Z. La sua bellezza era stata patinata da viaggi
transoceanici e party ai bordi di piscine tropicali, ma i suoi lineamenti originari erano
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quelli di una figlia di Boemia, una parte dell'Impero un po' al di sopra nella cartina
geografica rispetto a quella di cui stiamo raccontando. Malgor Z era alta un metro e
ottantadue centimetri senza tacchi e pesava 49 chili, aveva la pelle bianca, gli occhi
verdi smeraldo ed i capelli neri tagliati cortissimi.
Melania non era sicura. Aveva mille pensieri sulla differenza di età, sulla possibilità
di essere presa in giro, di non essere sessualmente all'altezza, di rimanere incinta e da
ultimo sul fastidioso fatto di tradire Meleagro e di sentirsi in colpa per questo. Se
Meleagro si aggirava nei dintorni la classifica veniva ribaltata e allora Melania
sentiva una rabbia sorda contro quell'uomo inutile da cui non riusciva a staccarsi. Ma
le attitudini delle ultime ore smentivano clamorosamente ogni suo dubbio, anche se
lei preferiva rivestirle di un'aura ipotetica. Perché aveva comprato un nuovo
accappatoio maschile e l'aveva appeso accanto alla doccia? Casomai. Perché aveva
disinfestato dalla canfora e spruzzato leggermente di Chanel il perizoma che Vanessa
le aveva regalato dieci anni prima? Casomai. Perché poi se l'era applicato? Casomai.
E la ceretta del mattino che oltretutto le aveva lasciato tutto l'interno coscia arrossato?
Casomai. Si bloccò di colpo. E se casomai TD fosse stato attratto dalla sua
intelligenza e cultura? Forse poteva spiegarsi così che la faccenda si fosse
brutalmente consumata nel suo studio, sotto la laurea e i master incorniciati, il ritratto
di Freud, la riproduzione in plastica del Mosè di Michelangelo...Prese il tomo di
“Psicopatologia della vita quotidiana” e quello di “Totem e tabù” e li dispose sul
tavolino basso di fronte al divano del coito. Non seppe resistere ed aggiunse alla pila
i “Tre saggi sulla sessualità”. Passò ancora la mano sul foulard rosso su cui lui o lei
avrebbero posato le natiche nude. Ricontrollò il cellulare. Rifece il numero. Nulla.
Malgor Z da lì a una settimana avrebbe salutato tutti e sarebbe tornata in Cekia. Casa.
Sognava ad occhi aperti i cetriolini della nonna e le corse a piedi nudi per i prati dei
monti Doupovské, la ricerca dei porcini nei boschi, il successivo essiccamento.
Avrebbe fatto un pellegrinaggio alla Madonna di Pribram. Un voto. Ma per il
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momento era ancora lavoro. L'agente l'aveva convinta ad aggiungere al carnet degli
impegni un servizio fotografico per il famoso marchio ed era molto stanca. Sbuffò e
sporse ancora la testa, tenendo ferma la mano sul manico del trolley. Vide arrivare il
Suv nero chiamato Black Death, lo vide fermarsi di fronte a lei. TD aprì lo sportello,
la salutò e la invitò a salire. Malgor si tirò dietro il bagaglio e TD le suggerì di
ficcarlo dietro. Lo fece e TD poté valutarle il culo fasciato dai jeans. Intanto le stava
dicendo: Sorry. I'm late. And now I just meet my fucked doctor! Se non vado, quella
mi spara!
Malgor Z non capì cosa c'entrasse il dottore con le pistole, ma mentre TD avviava
l'auto fece un sorriso di circostanza. Oltretutto un'esigenza corporale la stava
tormentando.
−
Ho bisogno di un bagno – disse in Italiano.
−
Not in station? – chiese TD, alzando per un attimo il piede dall'acceleratore.
−
No...Io..pipì – rispose Malgor coprendosi gli occhi e scuotendo forte la testa.
TD non riusciva a comprendere se la ragazza non avesse trovato i cessi o se piuttosto
le facesse schifo poggiare le sue chiappe da top model su di una pubblica ciambella.
In ogni caso non gliene fregava niente. Indietro non sarebbe tornato.
Don't worry – disse, spostando la mano dal volante e toccando in modo
−
cameratesco la spalla di Malgor – You'll piss by my doctor. In her bathroom.
Tienila sin là – aggiunse nel suo idioma, spingendo a manetta per darle prova che
ci teneva realmente alla sua salute.
Malgor ci pensò su e all'inchiodata successiva davanti ad un rosso, espresse i suoi
dubbi.
−
Why the doctor, please? Are you sick?
−
No, no, Not sick – rispose TD facendosi una risata – Just a little problem for my
nose.
La guardò malizioso e tirò su come avesse il raffreddore.
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Malgor diede a se stessa dell'ingenua, arrossì e finì con una pacca sulla fronte.
Esclamò:- Ah, your doctor! I understand now!
Aveva inteso che con 'doctor' indicasse il suo pusher, il suo fornitore primario di
cocaina. Per le speranze di TD non era poi andata così lontana dal vero.
11 e 24. Melania andava avanti e indietro come una pazza. Alzò il citofono sperando
di sentire quello che immaginava come il caratteristico rumore di un Suv che sta
parcheggiando. Silenzio. Aprì una o due volte la porta d'ingresso sperando che ci
fosse lui con un mazzo di rose rosse. Infine il campanello squillò e sul visore apparve
l'immagine un po' nebulosa di TD. Melania spinse il pulsante d'apertura ingoiando la
saliva e non fece caso alla figura femminile che si era materializzata dietro il suo
amante. Aspettò un minuto, due, interminabili. Soffocando pensò di aver immaginato
tutto. No. Ecco di nuovo il viso puntinato di TD.
−
Ehm, l'ascensore... – gli sentì dire e il suo cuore fece un balzo. Cretina che era! Il
codice!
−
614526! – urlò come fosse una formula per sciogliere un incantesimo.
Aprì la porta, sicura finalmente. Eccolo lì l' uomo... ma perché c'era una donna con
lui? E poi, così alta! Probabilmente aveva sbagliato piano. Ora avrebbe dovuto
perdere minuti preziosi per spiegare a quale porta del condominio dovesse bussare.
Malgor Z intanto recalcitrava perché si era ricordata che il dottore possedeva una
pistola con cui sparava ed aveva una fifa blu. TD la prese per mano e un po'
rudemente la tirò dentro. TD sapeva che doveva scusarsi, ma non ricordava bene di
che cosa. Passò alle presentazioni ed ancora fece fatica a mettere a fuoco.
−
Dottoressa – disse – questa è... – e non venendogli il difficile nome, fece
schioccare le dita.
Malgor Z fece un passo avanti, si guardò intorno allarmata e si presentò. A Melania
quella parola parve un ruggito e si ritrasse come avesse davanti una letale felina, una
lince delle nevi giraffiforme. TD si affrettò a spiegare: - E' una modella boema.
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Bella,eh? La devo portare in ditta per un servizio e allora ho pensato di portarla qui
con me, prima...
Perché non riusciva a terminare mai le frasi? L'impellenza intanto spingeva Malgor Z
a farsi coraggio: - Sorry, I need a bathroom, please.
−
Oh, scusa. E' che deve... – cercò di spiegarsi TD.
Melania allibita alzò un braccio indicando il percorso per arrivare al bagno. TD ,
come se conoscesse l'appartamento, aprì la strada, passò per la zona notte e scorgendo
un lettone gli venne un'idea: - Darling, you can lie down in bed for a moment if
you're tired. Me and the doctor...
Malgor Z credette di capire e lo bloccò: - Ok, ok, no problem! I will stay here, don't
worry!
La paura le era passata, ma non voleva infastidire con la sua presenza, visto che si
trattava di compravendita di cocaina, mica di cosmetici. Mentre si sedeva sul water,
pensò che il doctor in effetti se l'era immaginato molto diverso e invece ecco una
signora con la messa in piega ed un tailleurino verde. C'era persino una certa
somiglianza con una sua zia di Praga. Beh, in quell'ambiente ne aveva viste di tutti i
colori...
Melania e TD si sedettero sul divano.
−
Scusa, ho detto alla ragazza di stendersi sul letto – fu il pessimo esordio di TD.
Melania sgranò gli occhi. TD invece aveva fretta di iniziare gli esercizi essudatori.
Per cos'altro era stato invitato, se no? Psicologa, fisioterapista, che differenza c'era?
−
Vuoi che lo facciamo qui o hai una camera attrezzata? – chiese.
Melania non capiva quale razza di equivoco si fosse creato. La ragazza straniera,
quella richiesta brutale...perché invece non le si avvicinava per abbracciarla?
−
O preferisci andare di là e farlo lì con la ragazza? Se a te non dà...
Il colpo fu tremendo. Ecco cosa voleva da lei! Un incontro a tre! Sesso con due
donne. La ragazzina e la matura, l'intellettuale e la modella! Melania non riuscì più a
101
controllarsi.
−
Sei un porco, un bastardo! Ti sei portato la carne giovane perché io non ti
bastavo,eh?
TD stava cadendo dalle nuvole...cosa c'entrava la carne giovane con la ginnastica,
l'essudorazione, il passaporto di cui aveva bisogno per dimostrare che era uscito dal
tunnel?
−
Ma cos'è stato per te l'altro giorno? – lo incalzava Melania – la scena di un film
porno?
Senza saperlo aveva fatto centro. Era stato proprio così.
−
Io uso la mente, ma ho dei sen-ti-men-ti, cosa credi?
TD finalmente si era ricordato. Si stava riferendo alla botta e via consumata nel suo
studio, vero?
−
Beh, un bel flash, no? – disse strofinandosi la punta del naso.
Melania diede un pugno sui cuscini e scoppiò a piangere. Si sentiva nuda, sporca e
senza difese.
−
Tu mi hai preso tutto. Tutto mi hai preso! – stava urlando tra i singhiozzi.
Malgor era scattata su dal letto sentendo il pianto della donna e si era affacciata sulla
porta proprio mentre stava strillando quelle precise parole. Vaffanculo. Il tipo col
Suv gli era stato sulle palle sin dal primo momento. Non aveva i soldi per la droga e
aveva sottratto con la violenza la roba alla povera donna. Per questo lei piangeva e si
lamentava che le aveva preso tutto.
−
Stronzo! Ridagli quello che hai preso – urlò a sua volta Malgor, avvicinandosi
come una belva a TD – Fuck off, bastard! Gimme the stuff! Son of a bitch!
Buio nella mente di TD, solo fra due donne imbestialite, paura, caos, il sudore stava
arrivando, ecco come avevano pensato di cavarglielo quella mattina!
Anche in mezzo al casino che facevano, Melania sentì girare la chiave nella serratura,
passò con un balzo fra Malgor e TD, si precipitò alla porta d'ingresso, mise il fermo
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che la bloccava. Azioni tanto veloci da precedere il pensiero. Dall'altra parte si
sentiva il tipico gloglottio di Meleagro di ritorno da scuola.
−
Vattene! Vattene! Vattene! – urlò Melania.
−
Eh? Cosa? Stai bene? – disse Meleagro attraverso l'uscio.
−
Vattene! Vattene! Vattene! – ripeteva Melania e poi – Non restare qui! Vai giù!
Vai giù! Vai giù!
Meleagro girò sui tacchi come un automa, rientrò in ascensore e schiacciò lo zero.
Era tornato un'ora prima perché l'Idra aveva un incontro sulla prevenzione delle
tossicodipendenze e questa era la reazione che riceveva da Melania. Uscì dal portone
e si appoggiò al muro. Respirò profondo. Perché Melania era isterica? Perché non
l'aveva fatto entrare nella sua legittima casa? Cosa gli stava nascondendo? Pensò di
ritornare, ma vide che l'ascensore era stato richiamato proprio al suo piano. Si
nascose. Dopo un minuto vide uscire una ragazza altissima ed un giovanotto in tuta.
Sembravano ignorarsi. Chi erano? Arrivavano realmente da casa sua? Bestemmiò
perché l'ascensore era stato richiamato un'altra volta. Col batticuore si fece tutte le
scale a piedi e arrivò davanti alla sua porta col fiatone. Provò a girare la chiave, ma
c'era ancora il blocco. Nessun rumore. Suonò. Chiamò forte e piano il nome di sua
moglie. Provò col cellulare. Nulla. E se l'avevano ferita? Se l'avevano... Rabbrividì.
Ma il fermo alla porta si poteva inserire solo da dentro e ciò significava che lo aveva
rimesso Melania quando i due erano usciti di lì. Se erano usciti di lì. Basta. Decise di
chiamare i vigili del fuoco per forzare la porta, buttarla giù se fosse stato necessario.
Stava per farlo, quando sentì all'interno dei passi leggeri. Avvicinò il viso allo
spioncino, come se avesse potuto vedere nella sua casa. Per Melania, che stava
guardando dall'altra parte, assunse l'aspetto di un marziano.
−
Melania- sussurrò dolcemente Meleagro – Sei tu? Rispondimi.
−
Ti prego – rispose lei – Ho bisogno di stare un po' da sola... perché sei tornato
prima?
103
−
Dimmi che stai bene – implorò Meleagro- E' successo qualcosa a Maddy?
−
Ma no... cosa vai a pensare. Ed io sto benissimo. Va', va'. Torna tra un po'.
−
Ma ho visto uscire dei tipi. Erano da noi?
−
No... sì... poi ti spiego.
La sua voce era scossa, ma decisa.
−
E... quando devo tornare? Per pranzo?
−
No. Torna oggi pomeriggio. Devo riflettere.
−
Riflettere su di noi?
−
Ti prego, va' via!
Meleagro rimase ancora un minuto sperando che riprendesse a parlare. Soltanto
quando si rese conto che non c'era più, fece una carezza alla porta e se ne andò.
Cosa avrebbe fatto sino al pomeriggio? La fame gli era completamente passata e
dubitava che sarebbe riapparsa, anche se mangiare qualcosa era comunque un modo
per far passare un po' di tempo. Si ritrovò la bici fra le mani e iniziò a pedalare, ma
quando si trattò di superare il circuito cittadino e puntare verso Sozzigalli o Gargallo
o Campogalliano la volontà non lo sostenne oppure un muro misterioso lo respinse.
Doveva tornare verso il centro e consumare le ore in giri concentrici, cosicché i
meandri urbani potessero riflettere il suo lambiccamento mentale, il suo groviglio di
viscere. Avrebbe pedalato per piste ciclabili pitturate di fresco, per parchi delle
rimembranze dove nessun ricordo l'avrebbe confortato, per la strade fiancheggiate dai
portici che coronavano di raggi drittissimi la regale e spaziosa fronte dalla piazza. Lì
avrebbe fatto avanti e indietro come un pidocchio, in lungo e in largo dal corso al
duomo, dal portico all'entrata del castello. Come un pidocchio avrebbe aspettato che
una mano gigantesca, unendo il pollice e l'indice, schizzasse via quell'unico essere
addolorato ed improduttivo. Il parassita Meleagro Barton. O ci avrebbe pensato il
sole e lui si sarebbe liquefatto, il sole che batteva e batteva. L'ombra faceva il filo alle
mura del castello e giusto ad un pidocchio avrebbe potuto dare riparo, ma anche
104
quando la sua macchia si fosse allargata a coprire zone via via più vaste, Meleagro si
sarebbe vietato il refrigerio e ancora si sarebbe consegnato alla trafittura dei raggi.
Era coperto a sufficienza dal suo malumore, dalla sua accidia, non si aspettava
vantaggi, non cercava trasformazioni.
−
Io sono una piattola – pensava Meleagro mentre pedalava piano e di malavoglia –
e questo è un gigantesco buco di culo. Io sono una piattola e vado avanti e indietro
per 'sto buco di culo sfondato. Così e così. E' il mio destino, la mia natura.
E immaginava che sotto il foro ufficiale, sotto la pavimentazione pulita e la perfetta
squadratura, qualche metro più in giù del rispettabile, brulicasse l'infestazione più
micidiale. La tradizione e l' assolutamente nuovo. Cunicoli di nutrie immersi nel
liquame, covi di sorci spellati dalla diossina, seni macerati dal cancro, cloni sfatti di
cloni di cloni sfatti, aborti rinsecchiti, carcasse di automobili, fanghi industriali,
mostarde di liposuzioni, carrozzine con vecchie vive e badanti inscheletrite. Dietro le
vetrine luccicanti c'erano botole speciali che liberavano i negozianti dagli abiti fuori
moda, dai cascami imputriditi, dai conti sporchi, dai registri falsificati, dalle foto
pedopornografiche, dai pompini a serrande abbassate. Altro che raccolta differenziata,
altro che scopa della camorra. Tutto, attraverso passaggi interrati, veniva scaricato
sotto la piazza liscia e composta, rinascimentale, comunista, consumista. Ma un
giorno o l'altro, all'improvviso, il putrido sarebbe esploso fuori e tutti i cittadini ne
sarebbero rimasti invischiati. Scuole, chiese, case, banche...Meleagro, a cui la visione
aveva fatto girare la testa, sentì che le ruote iniziavano a sobbalzare sopra piccole
gobbe. Quando la merda generale sarebbe saltata al cielo, qualcuno già mezzo
imbrattato dal lerciume avrebbe chiesto:- Perché? E gli altri, aprendo gli ombrelli,
avrebbero risposto che così andava il mondo, che ognuno ormai si era adeguato e non
si poteva fare altrimenti.
Sembrava ci fosse veramente un maleficio perché Meleagro andò avanti e indietro
attraverso la piazza per più di un'ora, ma nessuno notò il suo assurdo andirivieni
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perché tutti transitavano e nessuno riposava e se si fermavano all'edicola era soltanto
per una manciata di secondi. Faceva eccezione il giornalista Orso La Guardia, a
ridosso del muro del portico nella sua parte di finto mendicante marocchino. Vedeva
passare fra le due colonne che inquadravano il suo spicchio di piazza, una bicicletta
con un omone sopra, un movimento ripetuto che lo stava facendo abbandonare al
sonno. C'erano pochi passanti che non gli sganciavano un euro e poi quella figura che
passava e ripassava in una nebbiolina di calore. Ogni volta sbadigliava e gli occhi gli
si chiudevano e la figura era un miraggio che invece di incuriosirlo, lo stava
narcotizzando. Poi Meleagro finalmente si fermò. Un attacchino stava attaccando alle
grandi bacheche metalliche i manifesti elettorali. Meleagro si terse il sudore e fu
colpito dalla straordinaria somiglianza fra il leader massimo del centro-sinistra ed il
pennuto che a lui stava simpatico più di ogni altro e che adesso pure un po' temeva. Il
tacchino. Meleagro aveva visto centinaia di volte quella faccia sui giornali o alla Tv,
ma solo in quel momento, forse dopato dal suo estenuante giro, la somiglianza gli
parve lampante. Sulla foto era scritto in caratteri colorati lo slogan “Si può fare” che
il leader aveva bellamente copiato da un politico americano vicino alle sue posizioni
ideologiche. Il politico americano era in ballottaggio per le elezioni americane nel
partito di opposizione a quello che deteneva il potere, ma la dipendenza dall'Impero
americano si notava in quel quadrante di territorio anche quando ci si schierava
contro, anche nel cosiddetto pensiero antagonista. Ah, l'America! Il leader che voleva
fare l'americano aveva appena fondato un partito che prendeva il nome da quello
americano e quella città che voleva fare l'americana amava moltissimo il fantastico
spirito innovatore del leader che, guarda caso, pareva somigliare tanto
all'emblematico pennuto americano. Meleagro provò a deglutire e sentì nella gola
come carta vetrata. Aveva sete, molta sete. Anche se gli costava fatica, decise di
andare a bere qualcosa in un circolo culturale affiliato al vecchio partito che si stava
trasformando in nuovo. Capirete fra poco se si trattò di un'encomiabile reazione allo
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stato di prostrazione che lo aveva colpito o un ennesimo colpo di coltello nella piaga
del suo malessere cosmico. Diede un colpo di pedale e si liberò in un attimo della
piazza e dei suoi sortilegi.
Il circolo ricreativo occupava uno stabile, ex casa del popolo, sul viale appena usciti
dalla cinta muraria. Spinse la porta a vetri e provò un senso di spaesamento. C'era aria
di pulizie primaverili, ma il riassetto degli stanzoni sembrava forzato, come se si
obbedisse a degli ordini. Si spostavano mobili e quadri, ma senza nessuna allegria,
anche se fra donne e uomini, in genere anziani, erano parecchi a darsi da fare.
Sembrava fosse arrivata un'ingiunzione del tribunale e gli sguardi erano bassi e
sfuggenti. Nessuno che esprimesse allegria perché ci si liberava della polvere e
finalmente sarebbe entrata aria nuova. Qualcuno che fischiettasse o accennasse a una
canzone non lo si trovava. Meleagro si avvicinò all'angolo del bar e ordinò una birra.
Quando alzò la testa vide che l'anziano di turno dietro il bancone era il vicino Arturo
Maloni. Meleagro diede il buongiorno e chiese timidamente la ragione delle grandi
manovre. Arturo Maloni rispose laconico:- E' il Partito Democratico - . Meleagro
domandò se poteva dare un'occhiata intorno e Maloni non disse né sì né no, ma chinò
leggermente la testa. Con il boccale in mano, come fosse stato invitato ad una festa,
Meleagro iniziò ad aggirarsi fra le sale sino ad arrivare a quella più grande, dove si
svolgevano le riunioni plenarie. Era già stato fissato il nuovo stemmino metallico con
la sigla del nuovo partito del leader tacchino, ma a far trasalire Meleagro fu la nuova
denominazione del circolo che sino ad un giorno prima, scolpita nel metallo, faceva
“Enrico Berlinguer”. Ebbene, inamovibili sulla targhetta, come se ci fossero stati da
sempre, un altro nome e cognome ora si leggevano e questi erano “Aldo Moro”.
Il partito nel corso degli anni aveva subito una lenta ed articolata trasformazione, uno
spostamento perfettamente lubrificato. Da Partito Comunista era diventato Partito
della Sinistra Democratica e poi Democratici di Sinistra e infine, tolta la sinistra che
sapeva ancora di sinistro, Partito Democratico. Al tempo del Partito Comunista il
107
leader carismatico era un ometto serio e dallo sguardo triste che si chiamava Enrico
Berlinguer. Dall'altra parte dello schieramento esisteva un'enorme formazione di
maggioranza di matrice cattoliche che si chiamava Democrazia Cristiana ed il leader
era un tipo un po' più alto, ma egualmente serio e triste che rispondeva al nome di
Aldo Moro. Enrico Berlinguer ed Aldo Moro, anche se fra loro il confronto era
civilmente aperto, sedevano seri e tristi dalle parti opposte degli schieramenti. Enrico
Berlinguer si spense in modo commovente durante un comizio, Aldo Moro fu
barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse, comunisti che avevano scelto la lotta
armata e la violenza. Sì, d'accordo, poteva essere considerato un martire, ma cosa
c'entrava con questo Partito Democratico? Il valore simbolico del suo nome era così
forte da diventare l'emblema di un movimento che aveva radici così lontane da quello
che lui aveva rappresentato vita natural durante? Il leader tacchino candidato alle
elezioni voleva aggiudicarsi i voti del popolo cattolico e centrista, ma a Meleagro la
lubrificazione sembrava forzata e poco riuscita ed anzi iniziò a sentire un attrito che
faceva presagire un acuto dolore. E le tradizioni, le battaglie, i colori, dove erano
andati a finire? Il male profondo arrivò quando vide due anziani che portavano fuori
in mestizia la grande foto incorniciata di Enrico Berlinguer. Dentro la sala era già
stato fissato al muro il ritratto di Aldo Moro. Non si vedeva nemmeno il segno
lasciato sulla parete. Stessa misura, perfettamente coincidente.
Meleagro restituì il boccale vuoto con meno delicatezza di quando lo aveva preso e si
accodò a Maloni che aveva finito il turno.
−
Ma lei cosa ne pensa? – chiese Meleagro mentre uscivano in strada.
Maloni assunse un'espressione perplessa. Non era per nulla scontato in quel momento
che le loro preoccupazioni fossero le stesse. Magari Maloni aveva già ammortizzato il
colpo. Cercò di essere più preciso.
−
Intendo dire il grande cambiamento, il nome del circolo, il ritratto sostituito... –
disse indicando con un cenno della testa tutto quello che avevano lasciato dietro.
108
−
Se loro hanno pensato che è utile, lo sarà veramente. Avranno fatto delle ricerche
orientate...E poi cosa cambia per noi? Il posto rimane, le persone sono le stesse...
−
Oh sì, come la televisione – venne da ribattere a Meleagro. Maloni si bloccò di
colpo e lo squadrò gelidamente, ma la conversazione non andò avanti perché un forte
rumore metallico fece sollevare il capo ad entrambi. Era una gru altissima che stava
roteando il suo braccio metallico. Sulla sommità c'era la sigla della Cooperativa
Muratori. Meleagro si guardò intorno ed altre ne vide all'orizzonte, altissime, forti,
eleganti.
−
Lavorano... – commentò Maloni che aveva provato l'antico senso di appartenenza
e si era inorgoglito. A Meleagro parve di cogliere un'allusione al suo di mestiere,
che gli permetteva di fare lo sfaccendato già a quell'ora e: - Sì ... – riuscì a dire
soltanto. Aveva capito che le gru ed ogni cosa che aveva visto quel giorno erano
come i mulini a vento contro cui ogni battaglia è persa in partenza. Camminarono
un po' affiancati senza dire più nulla. Meleagro, che trascinava la bicicletta, si
sentiva goffo rispetto a quel piccolo uomo dal baricentro perfettamente bilanciato.
Cercava qualche parola per riavviare un discorso, ma poi se la rimangiava.
Accanto a Maloni si sentiva timido e cinico nello stesso tempo. Che discorsi si
potevano fare? Arrivarono al piazzale della stazione delle corriere. Un gruppo di
ragazzi pakistani si era disposto in quadrato, qualcuno lanciava una pallina,
qualcun altro cercava di colpirla con un lungo bastone piatto. I bambini autoctoni
non si riunivano più per dare quattro calci a un pallone. I genitori li iscrivevano a
corsi pomeridiani di ogni tipo per cui servivano iscrizioni e tessere. Se erano
interessati al football si provava subito ad inserirli nei settori giovanili delle
squadre locali. Le piazze e i giardini erano alla mercé dei bambini extracomunitari
che vi sciamavano liberi e disordinati con i loro giochi incomprensibili. Arturo
Maloni ne era infastidito, come tanti altri nella città, ma non riusciva a capire
perché. Eppure era semplice. Non erano più i figli e i nipoti a replicare le corse e
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le contese di un tempo e quella mancata conferma era un'impostura per tutti i
ricordi. E i luoghi frequentati un tempo in calzoncini erano provati dalle scosse
telluriche di quei passi stranieri. Le piazzette, le strade in cui si giocava una volta
erano diventate poco riconoscibili e indefinite perché gremite da ragazzini col
volto più scuro che urlavano in modo diverso. Possibile che non ci si riuscisse a
convincere che erano soltanto giochi e bambini? Le persone stavano diventando di
vetro, erano tutte delle finestre impaurite. Ogni pallina lanciata nel cielo le colpiva
e le faceva tremolare.
Meleagro ne ricevette una al volo, alzando la mano sopra la propria testa e tutta la
rabbia repressa nei confronti di quell'impenetrabile compagno si tradusse in un gesto
insensato. Infilò la pallina nella giacca di Maloni e: - Scappi ora! – urlò – Gliel'ha
presa, finalmente!
I ragazzi pakistani guardavano da lontano i due uomini, il grande e il piccolo, senza
sapere cosa fare.
110
11. scrivere una frase allusiva nella cabina dell'ascensore
Meleagro vide arrivare l'ascensore che l'avrebbe riportato a casa e fu colto da
un'improvvisa illuminazione. Per far scendere e salire il cubicolo di metallo di
qualche metro erano necessari bracci e braccetti metallici, leve, incastri, catene,
argani, ruote dentate, rotelline, cuscinetti a sfera, viti, bulloni. Ad ogni fermata
qualcosa si alzava, qualcosa si ritirava, qualcosa s'incastrava perfettamente in
qualcos'altro. Solo a quel punto le porte si aprivano e allorché si richiudevano il
perfetto meccanismo si svolgeva al contrario, i pezzi fuoriuscivano, le guide si
liberavano, gli attriti si scioglievano e il tamburo girava. Meleagro si ritrovò a
riflettere non sull'assoluta precisione, sull'incomparabile armonia che si creava tra le
parti, dalle più grandi alle minuscole, ma sull'assurda complicazione che ne aveva
sostenuto l'idea, sulla fatica e la pazienza folle che aveva richiesto la sua messa in
opera. Per salire e scendere di dieci metri. E vedeva il primo esemplare di uomo che
lo aveva ideato disegnare per nulla sicuro un primo elemento che così da solo non
serviva assolutamente a niente e allora chiedere alla sua mente ed alle sue dita il
soccorso di un secondo supporto che reggeva l'iniziale e così via sino alla fine, 20,
30, 40 pezzi totalmente dipendenti l'uno dall'altro. E una volta prodotti ed assemblati
nel progetto comune, i pezzi richiedevano assidua manutenzione perché bastava
soltanto che uno di loro si logorasse per far ingrippare tutto il resto. Possibile che
nessuno vedesse il difetto originario di quel cervellotico sistema di pensiero?
Possibile che non si fosse trovato niente di meno contorto e più leggero? Era da
alcuni secoli che l'homo meccanicus si era affermato sulla faccia della Terra e nulla di
alternativo si era sviluppato per contestarne la supremazia.
−
Salire e scendere senza meccanica. Così, schioccando le dita – stava immaginando
Meleagro mentre i battenti metallici si aprivano di fronte a lui – Zaum! E si sale.
111
Muaz! E si scende. Perché nessuno ha voluto investire sulla forza del pensiero,
perché nessuno ha dedicato i migliori anni della sua vita a studiare seriamente i
fenomeni della levitazione?
Era evidente che le sue considerazioni non nascevano dal nulla, che tutte quelle
critiche alla complicazione e all'affanno, derivavano principalmente da una giornata
complicata e da una vita affannosa. La porta di casa si stava avvicinando, tra un
minuto avrebbe visto Melania e tutto si sarebbe chiarito. Forse. Non avrebbe fatto
male l'aiuto di un'azione inutile. In quel caso tra il pensiero e l'azione esisteva un
rapporto diretto – altro che complicazioni meccaniche!
Cercò nella tasca uno
strumento di scrittura, trovò un pennarello nero e sorrise. Scrisse sul foglio con i
numeri dell'assistenza, “NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO”. Il pennarello era
indelebile.
Anche Melania stava scrivendo, ma di cose utilissime. Aveva reagito allo choc
emotivo riassettando tutta la casa, con sudore e fatica, come se con lo straccio potesse
raccogliere tutta l'acqua sporca che le si era rovesciata addosso. Finito di pulire aveva
spolverato tutti i soprammobili e mentre riequilibrava sulla libreria un gattino
portafortuna regalo di Maddy, aveva allungato la mano per rimuovere il fermo dalla
porta. Le era tornato in mente il pensiero tormentoso di TD e vedendo che intorno
nient'altro poteva essere rimesso a posto, aveva preso carta e penna. Ora stava
redigendo una lista di beni di prima necessità e di prodotti per la casa da comprare
all'Ipercoop. Sentì la chiave girare, ma decise di continuare e completò la parola
AMMORBIDENTE. Meleagrò entrò in cucina
e la trovò piegata sul foglio,
concentrata, totalmente assorbita. Pensò stesse stendendo una relazione per un
convegno od uno studio psicologico su qualche suo assurdo paziente. O era invece
una lettera di addio? Per questo lo aveva allontanato? Meleagro le si accostò, le sfiorò
con le mani i capelli e cercò di sbirciare.
−
Stai meglio ora? – le chiese.
112
−
Ah, sei rientrato... – replicò Melania distrattamente, come se non fosse stata lei a
spingere fuori il marito.
Meleagro passò dall'altra parte del tavolo e vide che si trattava solo di un elenco. E se
erano le condizioni nero su bianco poste da lei per la loro separazione? Mentre
decifrava cotone idrofilo, pose la seconda domanda, quella che aveva tenuto a bada
per tutto il pomeriggio a colpi di pedale.
−
Chi erano quei due?
Melania rispose ricollegandosi al precedente quesito.
−
Ti preoccupi se sto bene e poi mi chiedi chi erano quei due?
Meleagro tirò leggermente verso di sé il foglio di Melania.
−
Allora vuoi dire che c'è una relazione tra come stai ed il fatto che quella coppia è
venuta qui… – disse Meleagro guardando la carta su cui le righe d'inchiostro
parevano confondersi.
−
Non c'è una relazione. Dico solo che non si chiede a una persona stai bene, per
poi cambiare completamente discorso... o si approfondisce dopo lo stai bene,
ovvero ci si preoccupa realmente e realmente ci si informa o quello stai bene
risulta una cazzuta formula di circostanza con cui ti stai sciacquando la bocca!
Melania stava alzando il tono. Succedeva spesso in quel periodo e in quella parte
dell'Impero che se una persona aveva bisogno di attenzione e dolcezza diventasse al
contrario molto aggressiva. Meleagro non capì. Avrebbe potuto prenderle le mani e
dirle che veramente era preoccupato e veramente l'amava e invece quel chiodo fisso
piantato in testa aveva bisogno di smentite secche e immediate. Meleagro pensava
che si fosse andati troppo oltre. Quando la misura è colma e non si può più tornare
indietro. Era una paura folle e generica.
−
Erano due avvocati?
Melania non voleva scoprisse quanto si fosse spinta oltre nello specifico.
Il
tradimento con TD. La misura era un filo ingarbugliato senza capo né coda. Non
113
capiva realmente se voleva stare ancora con Meleagro.
−
Tu sei completamente pazzo – disse arrossendo.
−
Due agenti immobiliari? Non mi sopporti più, vuoi trovare un altro appartamento,
viverci da sola...
−
Sì, una casa dove non essere continuamente tormentata da un paranoico.
−
Allora è vero...
−
Che sei paranoico?
−
No. Che vuoi andare via.
−
Tu hai le visioni.
−
Quei due erano in carne ed ossa.
Melania aveva ripreso il foglio e lo stava facendo a pezzetti. Doveva trovare un'idea.
Perché poi gli aveva detto che erano stati lì?
−
Allora, me lo vuoi dire?
−
Cosa?
−
Chi erano quei due, la ragazza e... l'uomo.
−
Due di Dianetics.
−
Tu che ti intrattieni con due di Dianetics, inventane un'altra.
Se una bugia pareva tanto grossa e veniva messa in dubbio con tanta forza, occorreva
difenderla ad ogni costo e farla apparire come verità.
−
Prova ad immaginare perché una come tua moglie invita in casa due di Dianetics e
poi ci parla. Io sono una psicologa, sai? Devo tenermi informata sulle manie dei
miei pazienti, idiota!
Meleagro fece uno sforzo per riavere davanti agli occhi le fattezze dei due che aveva
incrociato per una manciata di secondi. Lei era alta, bionda, sì, poteva essere
americana, lui era un bel ragazzo, sportivo, un po' rozzo e con uno sguardo allucinato,
però. In effetti erano abbastanza strampalati per appartenere alla pazza confraternita
di Dianetics. Ma che cos'era Dianetics? Dianetics era stata fondata dallo scrittore di
114
fantascienza Ron Hubbard. Il suo scopo era di convincere le persone delle
meravigliose potenzialità nascoste che grazie al metodo Dianetics sarebbero uscite
fuori, garantendo fascino, affermazioni professionali, soldi a palate per sempre. In
quel periodo, in quello ed altri quadranti dell'Impero, proliferavano centinaia di
associazioni con la precipua missione di gonfiare l'io della gente comune come un
turgido palloncino colorato. Non esiste una sola associazione al mondo che cerca di
fare proseliti ricordando agli individui che la loro importanza sul pianeta è
paragonabile ad una cacchina di mosca e che la loro esistenza – l'esistenza di ogni
individuo, fosse anche l'Imperatore del mondo – non è che un esecrabile sputo tra
l'eterno buio dell'inizio e della fine. Beh, se esistesse, io sarei il primo ad aderire. Ma
non esiste, non può esistere.
Comunque Meleagro, portando dalla sua parte i brandelli di carta di Melania, stava
chiedendosi che rapporto ci fosse tra i due eventuali tipi di Dianetics e la crisi di
disperazione della moglie dietro la porta sbarrata. Possibile che le loro
argomentazioni fossero tanto convincenti da stendere al tappeto un osso duro come
lei? Meleagro voleva la verità e il destino gli fece capitare tra le dita un coriandolo
con le lettere TD, frammento della scritta DUSTDEFENDER, il mangiapolvere
attivo. Come avrebbe potuto cogliere l'allusione? Il disvelamento non si verificò e
Meleagro gettò lontano la cartina al pari di un insettino morto.
−
Ma... la tua crisi nasce dal confronto che hai avuto con 'sti due di Dianetics?
−
Assolutamente no – rispose Melania. Mentiva e diceva la verità nello stesso
momento.
−
E allora? E' colpa mia?
−
Senti, Mel, volevo soltanto restare da sola. Mi era preso 'sto schizzo. Difficile da
capire, vero? Sarà la menopausa.
Melania si alzò ritenendo chiusa la discussione. Meleagro tamburellò le dita sul
tavolo, tirò indietro la sedia e la seguì per le stanze. Melania odiava che la tallonasse
115
in quel modo.
- Sai, ho pensato... – disse mentre lei si abbassava a tirare un cassetto del comò.
−
Sì, ho pensato mentre ero fuori... – e lei ignorandolo tirava su un paio di mutande
ed una canotta.
−
Cioè, io credo... – Melania si dirigeva all'armadio e frugava tra gli appendiabiti.
−
Ecco, le cose tra noi due non vanno tanto bene, come negarlo... – Melania era
quasi scomparsa tra vestaglie, camicie e pigiami.
−
Ci ho pensato bene, sai, e credo che tutto è iniziato... – Melania era venuta fuori
con un accappatoio fra le braccia.
−
...quando Maddy ha preso quel maledetto aereo ed è andata via.
−
Lascia fuori Maddy. Maddy sta bene dove sta – rispose secca Melania – Io vado a
fare una doccia. Prepari qualcosa tu per cena?
−
Beh... sì. Cosa ti va?
−
Quello che vuoi tu. Una cosa semplice.
−
Anche pasta in bianco?
−
Sì. Dopo la doccia voglio andare al computer.
−
Ah. Ci volevo andare anch'io...
−
Per fare cosa?
−
Così. Chattavo un po' con Maddy. E' da un po' che non la sentiamo. La piccola.
Melania gettò con cattiveria la maglietta nel cesto della biancheria e tirò giù con
violenza la zip della gonna. Meleagro vide che aveva addosso il tanga. Per chi l'aveva
messo se non per lui? Restava sulla soglia del bagno senza capire se dovesse entrare.
−
Mentre sono al Pc ci penso io a Maddy – disse Melania sbattendo la porta sul naso
del marito. Ancora una volta chiusa dentro. Irraggiungibile.
Non parlarono più. Nessuno dei due aveva voglia di ingaggiare una nuova
discussione. A tavola, costretti a stare uno di fronte all'altra, Meleagro provava il
silenzio di Melania con un sospiro o un verso di sazietà dopo un mezzo bicchiere di
116
vino mandato giù sino all'ultima goccia. Era in attesa che sciogliesse il suo riserbo e
diventasse nuovamente disponibile, anche se non sapeva neppure lui per cosa.
Aspettava un cenno che lo facesse correre da lei, ma come un cane sospettoso perché
troppo bastonato, non si azzardava a strofinare la testa contro la sua mano. Melania,
che aveva il fantasma di TD intorno a sé, lo scacciava con gesti più duri del normale,
quando afferrava la bottiglia, un pezzo di pane o lasciava ricadere il bicchiere e la
forchetta con più violenza. Senza volerlo era un deterrente sonoro che scoraggiava
Meleagro dall'iniziare qualsiasi discorso. Anche quando iniziò a sciacquare i piatti e a
riporli nella lavastoviglie, i rumori sembravano accentuati, ma Meleagro vi colse , più
che l'irritazione della moglie, un nuovo difetto della tecnologia e gli parve di nuovo
assurdo che l'ennesima complicazione di meccanismi fosse sprecata per
un'operazione tanto semplice. Per millenni non erano bastati due mani e un po'
d'acqua?
Vide Melania rinchiudersi nuovamente, nello studio. Lui si mise il pigiama e si
distese davanti alla TV. Si proibì di sperare che lei arrivasse con impeto e dolcezza
accanto a sé. Era depresso in generale per come funzionavano le cose. La vita – come
l'ascensore e la lavastoviglie – gli pareva un marchingegno astruso e faticosissimo.
Non voleva lasciarsi andare completamente, non voleva arrivare al punto di sentire il
gelido richiamo degli oggetti e diventare un pezzo amorfo. Reagì trasformando tutta
l'amarezza in una delirante allegria. C'erano perlopiù trasmissioni elettorali in cui i
politici di turno si insultavano per finta giocando alla commedia dell'arte. Decise di
saltare da un canale all'altro alla ricerca non dei programmi, ma degli inserti
pubblicitari. Appena vedeva la faccia di un politico schiacciava sul telecomando alla
ricerca di uno spot. In fondo era la stessa cosa. Anche se di schieramenti opposti i
politici erano sostenuti dalla stessa logica di mercato, figuriamoci, e dunque era
meglio la stupida sfacciata pubblicità con le storielle assurde, i bei panorami, le tette,
i culi e i motivetti stupidi. Quando si mise a letto era completamente esausto,
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inebetito. Aspettò però che arrivasse Melania per chiederle notizie di Maddy. Intanto
si vergognava che fosse proprio la figlia l'argomento per poter riprendere a parlarle.
Melania aveva impiegato il suo tempo sul Pc, a scrivere una lettera che continuava a
cancellare e a reimpostare. Nella lettera chiedeva come risarcimento a TD che
potessero veramente vedersi da soli. Infine, quando fu soddisfatta, cercò
disperatamente sul sito del famoso marchio se per caso, come figura di rilievo
nell'organico della ditta, TD avesse una sua e-mail personale. Non trovò niente,
divenne fatalista e fece sparire le parole con un tocco leggero della mano. Passò
qualche minuto a chattare con Maddy e venne a sapere che gli studi procedevano e
che lei stava bene. Avrebbe partecipato ad un saggio teatrale. Brava.
A Meleagro, mentre posava la testa sul cuscino, rispose che la figlia era in salute,
senza accennare all'impegno artistico. Nel buio Meleagro non sapeva se allungare un
braccio o un piede per stabilire un contatto. Melania tutta raggomitolata pensava a
quanto fosse brutta e sformata rispetto alla fantastica ragazza di TD. Prima di
addormentarsi entrambi pensarono con nostalgia a quando la piccola Maddy a volte
dormiva con loro. Allungarono un braccio verso lo spazio vuoto là al centro, ma le
mani non arrivarono a toccarsi.
Meleagro ebbe una notte tormentata. Sognò che gli operai spostavano dalla parete un
suo grande ritratto e lo sostituivano con quello di un uomo-tacchino verso cui tutti
dimostravano una grande venerazione. La sua casa era diventata una specie di chiesa
dedita a quel culto. I fedeli si genuflettevano davanti all'enorme ibrido di piume,
cascami di pelle ed occhiali. Lui era diventato una specie di custode con tanto di
berretto in testa ed ognuno che entrava od usciva gli stringeva compunto la mano.
La mattina dopo Meleagro volle interrogare sulla prima rivoluzione industriale. L'Idra
alzava guardinga la testa per fiutare che aria tirasse, prima di scatenare i suoi infidi
giochi. Meleagro chiamò alla cattedra Pamela Maloni, nipote del suo vicino di casa
Arturo Maloni, ragazza attenta e studiosa, anche se quasi del tutto priva di
118
intelligenza. Insieme a lei volle la tunisina Marwa Rihai, la più grande rompiballe
della classe, non tanto per verificare la sua preparazione che immaginava nulla,
quanto per togliere all'Idra con un colpo a sorpresa il suo elemento più aggressivo.
Marwa aveva una situazione confusa in famiglia, era confusa perché indecisa fra due
ragazzi, aveva una gran confusione nella testa, dunque non poteva far altro che
confusione. Meleagrò osservò le due interrogande. Già sapeva per esperienza cosa
sarebbe successo. La tarda Pamela, lo sguardo perso nel vuoto, sarebbe arrivata ad
esporre il concetto richiesto tra estenuanti raschiamenti di voce, pause affannose e
respiri profondi. Marwa all'opposto avrebbe sparato tutte le sue cartucce ad un ritmo
impressionante, mischiando nel suo scriteriato couscous cause, effetti, fenomeni, date
e personaggi. Sarebbe stata una lotta fra poche precise minuzie e un caos totale
ribollente di inesattezze. Un inferno.
Chiese a Pamela di esporgli in maniera piana i principali effetti della prima
rivoluzione industriale sulla vita quotidiana degli individui. Dopo sforzi disumani
ottenne da lei due cacchine didattiche già belle che fossilizzate che ricaddero sulla
cattedra e che lui fece in fretta ad incastonare nel suo registro dei voti. Disse: Trasporti – e poi disse – sfruttamento. - Mentre la prima si spremeva e sudava, l'altra
sbuffava, le lanciava occhiate di commiserazione, la incitava a fare in fretta, perché
lei da parte sua non riusciva più a trattenersi e voleva dimostrare quante cose sapesse
e con quale rapidità riuscisse a dirle. Meleagro le diede il via con un gesto sconfortato
della mano.
−
Allora, Umberto Saba che è nato a Trieste dice a sua moglie che cammina come
una gallina cioè fa parte del movimento poetico però più tardi e come lui è di
Trieste un altro scrittore che faceva una strada in salita e poi dice a sua moglie che
è una gran vacca forse perché lo tradiva...
Meleagro, assorto nei suoi pensieri, stava disegnando sghiribizzi su di un foglio,
quando fu colpito dalle parole 'moglie', 'gran vacca' e 'tradiva'. Si mise una mano fra i
119
capelli e con l'altra bloccò il delirio verbale della ragazza.
−
Marwa?
−
Sì?
−
Ci sei?
−
Sì.
−
Ti sei resa conto che questa è un'interrogazione di Storia e non d'Italiano?
−
Ah sì? Umberto Saba è Storia?
−
Marwa non voglio che tu mi racconti di Umberto Saba e sua moglie che in questo
momento si staranno rivoltando nella tomba, ma della prima-rivoluzioneindustriale. Storia, Marwa. Prima-rivoluzione-industriale. Sei connessa?
−
Ah, Storia, perché credevo... vabbe', dico Storia... la prima rivoluzione industriale
nasce nel 1800 a Trieste...
−
Marwa, a Trieste è nato Umberto Saba.
−
Ah sì. La prima rivoluzione industriale nasce in Francia nel 1800, ah no, in
Inghilterra, grazie all'invenzione dei sindacati che arrivano alle fabbriche dalle
campagne, sì, ci arrivano coi treni e distruggono la macchina a vapore.
Meleagro diede uno sguardo al resto della classe, la desolazione più totale. Ragazze
che scribacchiavano sul diario, altre che risolvevano gli esercizi di Matematica per
l'ora successiva, una che di nascosto inviava sms col telefonino, un'altra che si stava
dando lo smalto alle unghie. Non si schifò per loro, ma per se stesso. Da quante
settimane stava interrogando sulla prima rivoluzione industriale? E la sua opinione
personale, a qualcuno gliene fregava? E invece l' avrebbe clamorosamente rivelata al
mondo. Le sue ultime e definitive parole sulla prima rivoluzione industriale! Ovvero
NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO! Si alzò di scatto e batté con violenza il
registro di classe sulla cattedra. Marwa rimase a bocca aperta e sgranò gli occhi. La
nipote di Maloni si fece pallida ed inghiottì la saliva. Tutte le altre dell'Idra non
poterono far altro che ritornare attentissime.
120
−
La prima rivoluzione industriale – stava urlando Meleagro tutto congestionato – è
la strada più assurda che potesse imboccare l'uomo. Una tappa dell'evoluzione
sbagliata e catastrofica! Uno: pensare di far andare avanti il mondo con materiali
rubati alla Terra, che li nascondeva gelosamente nelle sue viscere, nella sua
pancia. Nella pancia ci sono cose sporche, ragazze, nella pancia ci sono grosse
quantità di merda nera e puzzolente che l'uomo ha restituito alla Terra sotto forma
di gas neri e puzzolenti che entrano ogni giorno dentro i nostri corpi e le nostre
menti! Due: le macchine che ha costruito sono semplicemente assurde, ferraglie
complicate, ammassi di fili, leve, rotelle che rendono perfettamente l'idea di
quanto sia assurdo e complicato l'uomo e la sua fottutissima civiltà industriale.
Tre: la civiltà industriale ha fatto diventare gli uomini dei grandissimi coprofagi
contenti di esserlo. Cosa vuol dire, ragazze, coprofagi? Mangiatori di merda, vuol
dire! Basta spalmare qualcosa di luccicante sulla merda ed eccoli accorrere tutti al
gran banchetto dove viene servita cacca della più eccellente qualità. Brum brum,
ma vi rendete conto che ci spostiamo su assurde scatolette di latta che producono
tanta tanta merda non smaltibile? Ah no, noi ne andiamo fieri, invidiamo quella
più luccicante del vicino, chiediamo prestiti alle banche per avere merda più
colorata e potente. Brum brum. Quarto: tutti siamo coinvolti in questa falsa felicità
da drogati, per cui ogni giorno bisogna produrre miliardi di tonnellate di merda e
tutti ci vogliono arrivare prima o poi a 'sta gran cagata, a cominciare dagli indiani
e dai cinesi che essendo miliardi pure loro, anche con una piccolissima parte di
merda per ciascuno, manderanno a picco l'intero supermerdoso pianeta! Quinto:
non lo so e non me ne frega niente! Ma la prossima volta è su quello che ho detto
che interrogo e non capisco perché quando io dico delle cose che non ci dormo la
notte, nessuna di voi prende mai appunti! NON E' COSI CHE ANDAVA FATTO.
NO, NON E' COSI'.
E queste parole le scrisse sulla lavagna e fece stridere paurosamente il pezzo di gesso
121
che aveva in mano, come se le volesse incidere per sempre.
122
12. umanità
Il Lincoln Navigator di TD, da lui ribattezzato Black Death, era lungo 5,53 metri. La
Fiat Punto di Arturo Maloni 3,76 metri. La vecchia Panda di Meleagro 3,38 metri.
Viste già soltanto da un centinaio di metri di altezza apparivano tutte quante – in
rapporto all'immensità della terra e del cielo – come povere scatolette di metallo e
grosse differenze tra loro non si notavano. Un rivenditore o un appassionato
automobilista in un minuto ve le avrebbe potute far notare tutte. Saltavano agli occhi.
In particolare quello che impressionava nel Suv di TD era la spettacolarità della
calandra e su tale caratteristica insisteva particolarmente la campagna promozionale.
Era la più grande del mondo, la si sarebbe potuta usare come spostavacche, anzi,
senza correre il rischio di scalfire la lucente cromatura, i bovini si sarebbero messi a
posto da soli, intimiditi dall'avanzamento della portentosa calandra... La calandra era
la parte frontale del cofano anteriore, dentro vi era custodito il potente e aggressivo
motore, che in quel momento, nell'esemplare in uso a TD, non dava forza motrice alle
ruote, ma sonnecchiava pronto a mettersi in funzione e a far divorare a Black Death
chilometri e chilometri di asfalto o di sterrato. Bastava che la chiavetta girasse, che il
quadro elettrico si accendesse, che la cloche del cambio ingranasse la marcia giusta,
che il pedale dell'acceleratore venisse spinto etc. etc. Tutti lo facevano, a cosa serve
spiegarlo? TD aveva fermato Black Death su uno dei viali cittadini e fermo al volante
aspettava che risalisse Malgor Z, da lui prontamente accompagnata per un acquisto
urgente in farmacia. La modella boema si faceva spesso accompagnare in giro per la
città e molto spesso, chissà perché si domandava TD, sceglieva come meta una
farmacia. Non aveva un aspetto malaticcio, né si lamentava per dolori di alcun tipo,
eppure più che boutique o profumerie erano gli spacci di medicinali che amava
frequentare. Dopo la scenata a casa della dottoressa Melania Carson, TD aveva
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cercato di chiarire. Malgor Z gli aveva urlato che doveva pagare il richiesto e lui,
dopo che erano usciti, aveva provato a spiegare che il servizio era del tutto gratuito.
Gratis, for free. - For free? - Sul grazioso volto della ragazza si era disegnato un
sorriso che rivelava il più totale scetticismo. TD aveva insistito che nella sua città era
così che funzionava e che presto avrebbe potuto anche smettere. - Smettere. I give up.
Stop with the doctor-. Il sorriso si era spento, gli occhi erano diventati enormi. TD si
era messo una mano sul cuore ed aveva giurato. Malgor Z aveva abbandonato le mani
lungo i fianchi e aveva detto soltanto: - Yes. I believe you. - Sì, gli credeva. TD nel
successivo cammino aveva cercato di accompagnarla allacciandole un braccio intorno
alle spalle. Malgor Z si era scostata senza aggiungere nulla e da quel momento per le
giornate successive le parole che si erano scambiati erano state davvero poche. Non è
che a TD importasse molto, delle parole cioè, di lei chissà. Quando erano insieme su
Black Death cercava di farla ridere ed ogni tanto, ricordandosi che solo in
quell'occasione le difese della ragazza si erano abbassate o così gli sembrava, ripeteva
senza motivo: - I give up. Stop with the doctor. - Malgor Z si voltava a guardare dal
finestrino per non far veder che in effetti era quella la cosa che la divertiva di più. TD
si era voltato a guardare cosa cavolo stesse facendo dentro la maledetta farmacia.
Erano già venti minuti. Da venti minuti Melania, nascosta dentro la sua auto, stava
controllando i minimi movimenti dell'uomo per cui aveva perduto la testa. Vide che
premeva la mano sul clacson, sentì il suono ripetuto e ne fu trafitta. Se si permetteva
di richiamare la ragazza con segnali di impazienza così forti, voleva dire che tra loro
si era stabilito un rapporto di confidenza, sicuramente di intimità. Pensava a ciò che
succedeva in tutte le coppie, la femmina che non si accorgeva dello scorrere del
tempo, l'impazienza sempre maggiore del maschio. Stava seguendo da vari giorni gli
spostamenti di TD e della spilungona. Non c'entrava più niente con la scheda del Sert
e l'analisi comportamentale del soggetto. Melania era pazza di gelosia. Aveva provato
a ragionarci sopra, ad abituarsi all'amarezza di quella sua storia neppure cominciata, a
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convincersi che l'unico incontro avuto sarebbe stato comunque un ricordo intenso, un
fulmine nel buio. E poi tra poco sarebbe tornata Maddy dall'America e come avrebbe
potuto. Si convinceva che fosse tutto un gioco di proiezioni, fare l'amore con un
proprio assistito era un preciso sintomo di stress professionale. O familiare? Forse
aveva bisogno di una vacanza, un viaggio insieme a Meleagro, per cercare di
recuperare il rapporto. Non serviva a niente. Un attimo dopo che si era ridotta alla
ragionevolezza, la calma imposta si trasformava in furore. Anche i bambini si
comportavano così, quando giuravano obbedienza alle madri e poi correvano
spasmodici verso il gioco proibito. Era più bello sudare. Così senza saperlo Melania
stava già correndo verso i luoghi dove avrebbe potuto incrociare il Suv nero di TD e
scorgere il luccichio della famosa incomparabile calandra. Lui non smontava mai.
Dall'abitacolo della sua auto che cercava di fermare in postazioni strategiche, Melania
vedeva lo sportello aprirsi e scendere l'allampanata ragazza di cui cercava di valutare
obbiettivamente pregi e difetti. Lui non smontava mai e di conseguenza l'attrazione di
quel corpo invisibile si propagava all'involucro che lo conteneva e Melania rimaneva
sospesa ed estasiata di fronte ai bagliori della vernice nera. L'auto era piena di TD da
scoppiare, era una sua formidabile erezione, dal parabrezza al tubo di scappamento.
Col cuore in gola e commossa Melania l'ammirava. TD era come racchiuso in un
prezioso reliquario che emanava gloria e richiedeva preghiere. I reliquari erano
custodie finemente cesellate in oro ed argento, decorate di pietre preziose, a cui in età
passate rispetto a quella che si sta raccontando, si affidavano i resti miserrimi – un
femore, la scapola, i denti – di un uomo venerato come santo. Articoli di fede. E
Melania si rosicchiava le unghie domandandosi perché l'oggetto del suo culto fosse
proprio saltato fuori dall'applicazione quotidiana del suo metodo, una scheggia
impazzita del suo lavoro che l'aveva colpita alle viscere, altro che mente ed
autocontrollo. Un giovane ricchissimo, viziato, malato...cosa c'entrava con lei? Forse
c'entrava il fatto che le si era avvicinato pensando solo al suo corpo e a quello che ci
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si poteva fare. A volte si impauriva contro ogni ragione pensando che lui dentro il
Suv non ci fosse. Così, svanito come fanno gli dei. Una volta era scesa ed era passata
sul marciapiede opposto per controllare. In quel momento lui aveva abbassato il vetro
per buttare fuori un mozzicone. Allora la dottoressa Carson aveva controllato
l'orologio ed aveva aumentato i passi come una donna indaffarata. Chissà se lui da
dentro l'aveva vista ed aveva seguito i suoi finti passi affrettati. Succedeva due giorni
prima. In quel momento invece Malgor Z stava uscendo dalla farmacia con una busta
di medicinali e TD aveva allungato un braccio per mettere a posto lo specchietto. Era
la pelle e la carne di TD, a quella vista inaspettata Melania fu colta da una vertigine.
Nello specchietto di Black Death debitamente regolato, era inquadrata l'auto di
Melania.
−
Sali, presto – disse TD a Malgor Z. Fece uscire il Suv dal parcheggio e partì
piano.
−
Che cazzo vuole, che cazzo vuole! - urlò TD vedendo che lo stava seguendo –
E' da tre giorni che mi viene dietro, puttana!
−
Is the doctor? - chiese Malgor Z resistendo alla tentazione di voltarsi.
−
Sì, the doctor, quella grandissima troia della dottoressa Carson!
−
Ma tu vuoi smettere, vero?
−
Malgor, ne ho le palle piene...ora guarda che faccio.
TD frenò di colpo e per poco la Mini di Melania non andò a sbattere contro Black
Death. Melania era smascherata, ma non pensò che TD lo avesse fatto apposta.
Quando se lo trovò di fianco pensò che fosse sceso per accertarsi che stesse bene,
quando iniziò a parlare pensò che le chiedesse se si era ferita.
−
Scendi! - ordinò TD cercando di aprire lo sportello. Melania obbedì come un
automa.
−
Cosa cazzo continui a seguirmi,eh? Cosa cazzo continui? A seguirmi? Eh?
Melania vide che accanto a lui si era materializzata la bella ragazza. Le veniva da
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piangere, ma non poteva crollare davanti a lei. Cercò di riacquistare il controllo, di
giocarsi la carta ancora valida della prassi professionale.
−
Calmati – disse – E' una procedura normale. La abbiamo decisa io ed i miei
colleghi.
−
Cosa sei? Un poliziotto,eh? Mi spii? Cosa c'entri tu con la mia vita privata?
Melania abbassò gli occhi.
−
Anche se non lo sai, tu hai bisogno di me – sussurrò.
TD fece una risata isterica. Malgor Z lo tirò da parte, si avvicinò a Melania e le poso
delicatamente una mano sulla spalla. Era molto alta.
−
Lui vuole smettere con te. Non vuole più la tua roba. Lascialo – disse con
dolcezza. Melania pensò che se si metteva a correre sarebbe riuscita a salire sul
Suv prima di lei e una volta preso possesso del sedile, nessuno avrebbe potuto
strapparle il diritto di stare al fianco di TD. Invece lasciò che i due scivolassero
fuori dalla sua portata e qualche secondo dopo sentì il rumore dell'auto che
partiva senza di lei. Dall'altra parte della strada correva il tracciato di una pista
ciclabile. Vi passarono due bambini ed entrambi si voltarono a guardare la
donna immobile quasi al centro della strada, con le macchine che la
sorpassavano compiendo una brusca deviazione e facendo deflagrare il clacson
contro di lei. Kevin procedeva impettito sulla sua bici nuova con una
bandierina piantata all'altezza del manubrio. La bandierina era gialla e vi
spiccava questo disegno
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Kevin per essere protetto da brutte cadute portava un vero caschetto da ciclista, con
le cinghie che si allacciavano sotto il mento. Si voltò, vide la donna nella baraonda
del traffico e assaporò una piacevole sensazione di pericolo perché stava pedalando
da solo in una zona dove ne succedevano di tutti i colori e lui, proprio lui, non si
faceva intimidire, ma aveva un perfetto controllo della situazione. Proprio da solo in
effetti non era. Cinque metri dietro di lui procedeva sulla seconda bici Beatrice
Appalachi che portava su un seggiolino applicabile il piccolo Alex, anch'egli con un
piccolo casco fissato al piccolo cranio. Alex si girò, sbilanciando l'assetto sicuro della
madre e vide la strana figura immobile al centro della strada. Allungò un braccio per
indicarla e – Sembra una statua – disse, ma la madre, immersa in pensieri di cui non
ho voglia di rendere conto, non lo ascoltò. I tre andarono avanti così, senza mai
affiancare le biciclette, sino ad un parco della periferia con poco verde e qualche
gioco che aspettava soltanto la dismissione. Lì però Kevin aveva appuntamento con
un suo compagno di scuola. Il parco era quello di fronte alla lavanderia dove TD
andava a consegnare e riprendere i tessuti di famiglia ovvero dell'azienda con il
famoso marchio. Kevin scorse nel parcheggio il grande Suv nero con l'immensa
calandra, la immaginò provvista di canne metalliche bucherellate da cui uscivano a
ripetizione miriadi di infuocati proiettili. Alex sorpassò il veicolo e disse: - Sembra
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una scatola nera. - Smontarono e si sedettero su una panchina all'ombra. Beatrice
Appalachi diede da bere al più piccolo ed iniziò ad organizzare con lui un gico di
compravendita dove gli articoli di scambio erano pigne secche e le monete foglie
palmiformi. Kevin non trovava l'amico, ma i ragazzini della sua età non è che
aspettassero i coetanei in ritardo tranquillamente seduti. Vide un gruppo che stava
organizzando una partita e si avvicinò a loro. I tipetti avevano tra le mani lunghi
bastoni piatti ed una specie di arancia di gomma. C'era concitazione, ma Kevin non
capiva le parole che si stavano urlando. In effetti i tipetti stavano conversando in
punjabi, lingua che Kevin non conosceva affatto e che forse, chi lo sa, avrebbe potuto
conoscere in futuro se la catastrofe imminente non glielo avesse precluso. Uno di
loro, di nome Andleeb, si staccò dal cerchio ed andò a beccare Kevin, discosto di un
metro.
−
Sai giocare a cricket? – chiese Andleeb.
−
Abbastanza – rispose Kevin mentendo spudoratamente.
Andleeb intuì la bugia, sorrise e diede una voce al gruppo che si era ammutolito, in
attesa di conoscere l'esito della consultazione. Qualcuno si mise le mani fra i capelli,
qualcuno fece una piroetta e cadde a terra, qualcuno imitò i passi strascicati di uno
zombi, non si capiva se erano dispiaciuti o se facevano finta. Kevin non sapeva se
unirsi alle risate o se darsela a gambe. Uno lo indicò e disse: - Tu, Fabio Cannavaro. Fabio Cannavaro era il capitano della nazionale italiana di calcio, campione del
mondo 2006, e tutti lo conoscevano.
Uno fra i più alti del gruppo fece scendere il silenzio con un gesto perentorio e parlò
ad Andleeb nella lingua straniera, indicandogli con la mano un punto distante.
Andleeb fece da interprete: - Cannavaro, tu vai là. Se arriva la palla tu la prendi e la
tiri a me. Capito, Cannavaro? - Kevin era contento che lo chiamassero così. Andò a
prendere posizione. Anche se il gioco non lo conosceva per nulla, ora ne era entrato a
far parte. Nessuno ora avrebbe potuto urlargli contro o dargli una spinta, minacciarlo
129
o semplicemente avanzare con passo aggressivo verso di lui, perché questo prevedeva
lo spirito del gioco. Il cricket infatti si legge nel preambolo alle vere e proprie regole,
“deve la sua unicità al fatto che non dovrebbe essere giocato secondo le relative leggi,
ma anche secondo lo Spirito del Gioco. Qualsiasi azione vista come contraria a
questo Spirito, causa un danno al gioco stesso”.
Anleeb, sistemato Cannavaro, fece una corsetta verso una panchina e chiese al
ragazzo in kameesh che vi era seduto se avesse voglia di unirsi alla squadra. Il
ragazzo scosse la testa e si capiva dalla sua faccia che non era il caso di insistere. Il
ragazzo era Salman e a quell'ora del pomeriggio non avrebbe dovuto essere lì fuori a
prendere l'aria. Dentro con i suoi colleghi a lavorare avrebbe dovuto essere. Ma a
Salman era stato comunicato che per un problema di esubero del personale le sue
prestazioni non erano più necessarie. Salman aveva fatto finta di non capire la parola
'esubero' ed era tornato al suo posto a immergere le mani nella schiuma del
detergente. Qualcuno lo aveva fatto smettere, con gentilezza, ci mancherebbe altro e
lo aveva accompagnato all'uscita. Gli avevano dato anche un po' di soldi, ma lui non
era contento, guardava il capannone della lavanderia e provava vergogna, come se gli
avessero impedito per un grave peccato di entrare nella moschea. Era piegato su se
stesso, il capo fra le ginocchia e pensava ad una frase che aveva letto sul quaderno
della sorella. La frase diceva “NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO”. Perché
proprio lui? Si era sempre impegnato al massimo, mai un arrivo in ritardo.
Straordinari anche pesanti non retribuiti perché era arrivato un ordine grosso e i
clienti bisogna sempre accontentarli. Anche la sera prima. Era riuscito a prendere
l'ultima corriera correndo come un pazzo. E ora l'avevano messo alla porta senza un
preavviso, niente più corse e niente più stipendi. A parte quella manciata di biglietti
che si ritrovava fra le mani. Gli veniva voglia di buttarli via, di farne una palla e
colpirli con la mazza, anzi li avrebbe spesi tutti prima di tornare a casa, tanto di
tempo ne aveva. Alzò la testa e notò seduti su una panchina Zaccaria e Gino che gli
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stavano sorridendo. Poteva leggere i loro pensieri: - Hai visto cosa si ottiene a fare il
bravo ragazzo – stavano pensando, questo leggeva nei loro occhi che si stringevano e
nei loro sorrisi. - Non hai più niente – vi leggeva – Ora sei come noi. - Essere uguale.
Se non vi era ancora riuscito nel bene forse poteva provarci nel male. Aveva varie
possibilità. Salire a bere un caffè da un vecchio italiano. Diventare amico dei due
teppisti, fare la loro vita. - Ora sei come noi – dicevano le mani che lo invitavano ad
alzarsi e a raggiungerli.
La palla colpita schizzò in alto, sembrò perdersi fra i rami delle querce e le foglie
degli ippocastani, invece scese all'improvviso e Kevin se la ritrovò fra le mani.
Andleeb stava urlando e agitava le braccia come un pazzo. Kevin gli rilanciò la palla,
un bel tiro, e Andleeb la prese al volo. Quello che stava avvenendo poi nel gioco,
Kevin non riuscì a capirlo, ma quando l'azione si concluse vide i ragazzi fare festa e
qualcuno gli urlò:- Bravo Cannavaro!-. Kevin era soddisfatto, per la gioia e l'orgoglio
fece una piroetta su una gamba sola, senza abbandonare la base però, chi mai gliela
avrebbe potuto far mollare la base, in quel momento.
Siccome Salman non si decideva ad alzarsi furono Zac e Gino a raggiungerlo alla
panchina. Lo strinsero in mezzo e Salman respirò profondamente. Tutti e tre stavano
guardando il cielo sopra la fabbrica ed era un comune cielo azzurro che avrebbe
potuto fare da sfondo ad una montagna di rifiuti o ad un paradiso tropicale. Anche lì
sopra ci stava bene e per un attimo aiutava a dimenticare tutto.
−
Ehi Pakistan, t'hanno dato il benservito pure a te, non è o vero? - disse Gino.
−
Non te la prendere – continuò Zac – Così ti sei liberato dell'oppressione e dello
sfruttamento dell'Impero del male. - Senza farsi vedere dal ragazzo strizzò
l'occhio al compare.
−
Non tutto il male viene per nuocere – disse Gino mettendogli una mano sulla
spalla – Oggi sei libero e bisogna festeggiare, diglielo tu che tenimmo a pazzià!
– fece rivolto a Zac, pulendosi intanto la mano sulla stoffa dei pantaloni.
131
−
Alla grande bisogna festeggiarla 'sta rivoluzione! Costituiamo un comitato di
festeggiamenti per il nostro ragazzo libero e rivoluzionario! – esclamò Zac con
tutta l'enfasi di cui era capace.
Salman alla parola 'rivoluzione' si sentì la testa tutta effervescente, come se dentro gli
fossero esplose bollicine a miliardi. Si sentiva euforico, aveva deciso di compiere un
passo decisivo e tutte le preoccupazioni erano alle spalle. Si alzò di scatto e si rivolse
ai due.
−
Venite – disse con decisione indicando il bar – Vi offro da bere.
I due si guardarono stupiti perché stava andando meglio di quanto avessero sperato.
Era il momento di darci dentro con la commedia per abbattere ogni diffidenza ed
ottenere da lui la più completa fiducia.
−
Eh no – fece Gino alzandosi e mimando un inchino – Ci mancherebbe. Siamo
noi che ti abbiamo invitato, eh Pakistan?
Zac gli arrivò da dietro con una sberla che lo rigirò.
−
Ehi Napoli, ti piacerebbe che ti chiamassero Napoli, eh Napoli? Guarda che qui
il ragazzo il suo nome ce l'ha che gliel'han dato il suo onoratissimo padre e la
sua rispettabilissima madre.
Zac bloccò il suo scoppio di finta indignazione e aspettò a bocca aperta che il ragazzo
si rivelasse. Salman gonfiò il petto e poi buttò fuori il fiato, con decisione ed allegria:
- Aamir Khan! Mi chiamo Aamir Khan! Era l'attore che aveva interpretato decine di film prodotti a Bollywood. Bollywood
era il maggior centro di produzione cinematografico del subcontinente indiano. Aamir
Khan era forte, bello ed atletico. I personaggi che interpretava erano agenti al servizio
del bene e grandi amatori. Ora che stava entrando nella nuova vita, con tutti i rischi
che avrebbe comportato, Salman aveva deciso all'istante che quello sarebbe stato il
suo nome: Aamir Khan.
−
132
Aamir Khan – ripeté Zac
massaggiandosi il mento. Gino finse di essere
sorpresissimo: - Ahò, chisto due nomi tiene, addirittura! Ma in confidenza
come ti dobbiamo chiamare, Amir o Can?
−
Amir, va bene Amir – rispose Salman mentre si incamminavano.
−
Amir, hai capito, questo è il suo nome. E' il cognome è Can, perché è fiol d'un
can -aggiunse Zac per fare lo spiritoso e ad Amir ( anch'io adotterò questo
nuovo nome rispettando la scelta del mio personaggio, ci mancherebbe ) che si
era voltato un po' incerto – Mica per mancare di rispetto, eh? Devi sapere
Gino, nella tua enorme ignoranza, che i Can sono stati tutti grandi condottieri,
a cominciare da Gengis Can, che se incontrava anche uno forte come me,
vinceva comunque lui e mi faceva a fette.
Entrarono al bar Bone, ordinarono e Amir iniziò a bere la sua prima birra della vita
come se l'avesse sempre fatto e fosse la cosa più naturale del mondo. Il barista Lando
Erris notò l'incongruenza del trio e pensò che l'incontro tra i due balordi ed il
pakistano non presagisse nulla di buono, ma come ogni barista che si rispetti fece il
suo lavoro e non si permise nessuna osservazione, anche perché avevano già messo
un pezzo da cinquanta sopra il banco. Amir protestò che voleva pagare lui per tutti,
Zac lo calmò dicendo che a lui sarebbe toccato il giro successivo. Era dunque così
che funzionava, era così che si entrava nel gioco che aveva visto svolgersi tante volte
senza potervi partecipare. Amir si estasiava del liquido biondo che aveva nel
bicchiere e vi scorgeva materializzate le bollicine che aveva nella testa. Voleva che
quell'osmosi continuasse a lungo. E il gusto amaro che sentiva avrebbe sconfitto
l'amaro dei pensieri, lo sentiva già. Dopo il primo boccale Amir parve già abbastanza
cotto per introdurre l'argomento decisivo che nel giro di un'ora avrebbe condotto il
pakistano dalla loro parte e lo avrebbe reso totalmente succube.
−
Amir, ce l'hai la ragazza? – butto lì Zac, pulendosi via la schiuma dalle labbra
con l'avambraccio.
Ad Amir le parole sembravano arrivare da un pozzo profondo, sassi che invece di
133
cadere dentro, da lì saltavano fuori e lo colpivano in piena faccia. Alla parola
'ragazza' migliaia di immagini centrifugate, dal volto di sua sorella a quella di
un'italiana con la lingua trafitta da una punta metallica...Amir per poco non cadde
dallo sgabello, si aggrappò al bordo del bancone e l'immagine che uscì, a cui rimase
tenacemente ancorata la sua mente, fu quella infantile della sposa che lo attendeva in
Pakistan. Era pura. Diecimila chilometri, diecimila rimorsi gli riempirono gli occhi di
lacrime e le lacrime traboccarono.
−
Oh poverino! – fece Gino passandogli con premura un tovagliolino e
rimproverando invece Zac che aveva introdotto l'argomento:- Lo vedi cosa
succede a giocare con i sentimenti delle persone?
−
Ma no, non c'è mica da vergognarsi se non ce l'hai – disse Zac tutto paterno –
Anzi, guarda, io conosco una che gli piaci, giuro, me lo ha detto lei e adesso
proviamo se c'è... – e iniziò a digitare sul telefonino. Gino intanto si era
avvicinato e gli parlava confidenzialmente: - C'ha due poppe così e con quella
vai tranquillo, ti fa tutto quello che vuoi... -
Amir non capiva bene quello che gli dicevano, ma si era consolato ed era all'assalto
della seconda birra. - Rivoluzione! – esclamò alzando il boccale.
−
Ma sì, facimmo 'sta rivoluzione – disse Gino facendo tintinnare il suo vetro.
Zac non stava partecipando al secondo brindisi perché aveva in linea la Meri e si era
girato di spalle. Le stava dicendo che era per la storia del pakistano, le stava
chiedendo se era pronta, le stava intimando di non fare la stronza, la stava
minacciando che l'avrebbe sfregiata, le stava indicando il luogo dell'appuntamento, le
suggeriva che era meglio per lei arrivarci in fretta.
−
Bene. Non vede l'ora. Te l'avevo detto che le piaci – concluse Zac chiudendo il
cellulare e rivolgendosi ad Amir – Ora lo facciamo divertire il nostro ragazzo.
Amir non stava capendo perfettamente ciò che gli sarebbe toccato, ma si lasciò
trascinare fuori perché ora faceva parte della compagnia e quando gli altri due lo
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sostennero perché le gambe gli cedevano pensò si trattasse del modo comune di
uscire da un locale dove si era sancita una nuova forte amicizia. Tutti insieme a
braccetto. Gino si lamentava nel suo dialetto che il sudore gli puzzava, Zac gli
rispondeva di sopportare che alla fine avrebbe avuto il suo bel vantaggio. Passarono
accanto al gruppo di ragazzini con i bastoni lunghi e la palla arancione. Tutti si
girarono preoccupati e seguirono con lo sguardo il loro connazionale che non
avevano mai visto sorridere in quel modo. Lo fece anche Kevin che aveva appena
prestato il suo berretto giallo. Sui capelli neri di Andleeb spiccava alla grande.
Il trio salì su un'auto mezzo scassata , messa tutta storta accanto a Black Death che
raccolse uno sguardo di rapace ammirazione da parte di Zac e Gino. Amir venne
buttato dietro. Vedeva passare dal finestrino capannoni, pilastri, filari di alberi. Là
davanti lo tenevano caldo coi discorsi sul lavoro sbagliato e sul sesso giusto, che con
lui non dovevano fare così e che con lei era così che andava fatto. Che c'erano tanti
modi per procurarsi i soldi e la figa e che per l'una e l'altra cosa con loro poteva stare
tranquillo. Si fermarono davanti a un cascinale mezzo diroccato, presero dal cofano
un'ascia e spaccarono le assi si legno su cui era scritto NON ENTRARE EDIFICIO
PERICOLANTE. Spaccarono le assi e fecero uno squarcio nella porta. Spinsero
dentro Amir e gli dissero di aspettare lì la ragazza. Non gli dissero con che nome
avrebbe dovuto chiamarla, era semplicemente 'la ragazza'.
Meri arrivò in motorino, ma non era più incazzata, anzi rideva come una matta.
Fecero entrare anche lei e si smagliò le calze che si era infilate sotto una mini
vertiginosa. Dentro c'era penombra e non faceva neppure troppo caldo. - Ciao – disse
Meri quando riuscì ad individuare Amir. Amir indietreggiò, ma inciampò fra mattoni
e sporcizia e si ritrovò con le spalle al muro. Meri si chinò davanti a lui e :- Non ti
preoccupare. Faccio tutto io – disse. Amir allargò le braccia e trovò con le mani due
ganci arrugginiti a cui si sostenne. Il cuore gli batteva fortissimo. Fuori Zac si stava
fumando tranquillo una paglia. Gino per essere sicuro sbirciò da una breccia quello
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facevano dentro. Si ritrasse e gli venne proprio da ridere, perché quello che aveva
visto ecco cosa gli stava ricordando:
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13. toccare le ragazzine senza sfiorarle neppure con un dito
Meleagro entrò in classe e scorse il disegno sulla lavagna
Qualcuna aveva voluto fare la spiritosa, ma non fece commenti e per dimostrare di
ignorare la provocazione non scancellò, tanto di quello spazio per una volta avrebbe
fatto a meno.
Per quella mattina aveva organizzato un lavoro speciale. Avrebbe costretto le ragazze
a mettersi in cerchio intorno a lui e avrebbe dato come compito quello di riprogettare
completamente la rivoluzione industriale. Materiali, invenzioni, applicazioni
tecniche, ostacoli, benefici, piani di sviluppo a breve, medio e lungo termine.
Alla sua richiesta l'alunna Giovanna Molinari aveva fissato per un po' le proprie
scarpette lucide appena acquistate, poi aveva alzato la mano e aveva chiesto: - Ma ce
137
lo valuta?
Meleagro aveva risposto seccamente che non era quello il punto, ma aveva visto
innanzi a sé gli occhi smarriti dell'Idra, le sue membra che si stavano rilassando, gli
sbadigli, gli sbuffi... si rese conto dunque che quel tipo di prova , per lui diventata
importantissima al di là della dimensione scolastica, poteva essere dalla classe del
tutto fraintesa e sottovalutata.
- Va bene. Sì – allora disse – Da parte mia fra tutte le assurde inutili prove a cui vi ho
sottoposto, questa è sicuramente la più importante, anzi direi proprio la fondamentale.
Quindi do il voto e fa media, no guardate, fa addirittura più media di tutti gli altri
voti.
Vi furono brusii di disapprovazione, ma le più parevano contente perché le coordinate
scolastiche erano state rispettate ed essere in gara per un voto gratificava il loro
ipertrofico spirito di competizione. Ottenere un mezzo punto in più era una carta
spendibile contro chi si considerava più bella, più simpatica o con più ricariche
telefoniche e messaggini da lanciare.
−
Forza allora! Si cominci. Mentre vi disponete pensate al materiale. Qualcosa di
meno nascosto e sporco del carbone, qualcosa di meno sudicio ed untuoso del
petrolio...
In un cerchio era difficile isolarsi e chiacchierare, nessuna poteva dire di non aver
capito, almeno a livello di informazione il sistema era una garanzia di successo.
Come partecipazione c'era qualcosa da perfezionare. Per alcuni minuti lungo l'anello
si creò un silenzio passivo che rivelava nessun sforzo di riflessione.
−
Dai – aveva insistito Meleagro – materiale vuol dire energia, proviamo a
pensare a qualche simpatico modo per trasportare milioni di persone da qui al
mare senza dover usare stupide macchinette in cui rimanere intrappolati sotto il
sole cocente.
Il sole, ma certo! Perché non ci avevano pensato prima? Iniziarono con quello e poi
138
snocciolarono tutte le possibili fonti di energia alternativa, l'eolica, l'atomica, il
metano e l'idrogeno. Una propose un certo tipo di alcol che si ricavava dalla
barbabietola. Dimostrarono un forte spirito ecologico e discrete informazioni di base,
ma Meleagro non si accontentava.
−
Queste cose le sanno tutti – le incitava – Più fantasia, non abbiate paura di fare
brutta figura!
Avevano alzato la mano e avevano chiesto perché un treno va così veloce utilizzando
l'energia elettrica e le macchine no. Si sarebbe potuto pensare a mezzi di locomozione
collettivi. L'energia muscolare, ecco! Se fossero state brevettate delle megabiciclette
a centinaia di posti, magari copribili con un tettuccio in caso di pioggia, alternando i
turni delle pedalate, di chilometri all'ora se ne sarebbero fatti parecchi. Ma poi,
quando il ghiaccio fu sciolto e non si correva più il rischio di essere compiacenti
verso l'insegnante – nessuna più pensava ai voti e alla media – qualcuna di loro disse
che per nulla al mondo avrebbe rinunciato all'auto dei genitori e che la prima cosa che
avrebbe fatto una volta compiuti i fatidici diciotto anni era prendere la patente ed una
macchina subito dopo! E se avesse avuto i soldi di quelle belle e veloci. In effetti un
bel Suv sarebbe stato perfetto. Lo sfigato era il prof che si accontentava di una Panda
scassata. Con l'auto, a parte la sua che probabilmente si bloccava ogni due chilometri,
si poteva andare dove si voleva senza chiedere niente a nessuno. Voleva mettere
l'indipendenza, l'autonomia? Voleva mettere come si era soddisfatti e felici con una
Jaguar o una Ferrari sotto il culo? Tutti si giravano, tutti ti ammiravano. A Meleagro
al quale piaceva ogni tanto fare la figura dell'ingenuo nella discussione con le alunne
e che qualche volta lo era davvero, si stupì con loro che fosse davvero così
importante. Non era volgare e vagamente difensivo delegare alla vernice lucente di
un veicolo il fascino che un uomo o una donna potevano emanare? Quasi tutte furono
concordi che non lo era, a parte alcune straniere per cui la discussione si stava
sviluppando troppo velocemente per il loro grado ci comprensione. Meleagro fissò
139
per un attimo gli occhi sgranati di Aisha, la bocca semiaperta e cercò di metterlo sul
tappeto quel brandello di riflessione. Non si voleva andare sempre più veloci, non era
il caso di rallentare e di aspettare gli altri che sul ciglio della strada ammiravano e
basta? No, non si poteva frenare di colpo a 180 km/h. A quella velocità si era soli con
se stessi – venne fuori dall'Idra – ma molto più forti, insomma dei supereroi. Almeno
una volta al giorno, sulla strada, dimenticate le umiliazioni del lavoro e le sfortune
dell'amore, perché voleva togliere loro il piacere di sentirsi così? Meleagro non potè
negare il vantaggio di andarsene ovunque a ciascuno piacesse, ma ne contestava
l'eccesso di competizione, l'aggressività. Per muovere l'auto non era necessario un
motore detto a scoppio? Ecco, vedevano? Tutto iniziava con la violenza, una piccola
deflagrazione che era immagine e figura di tutti i mostruosi ordigni che erano esplosi
e stavano esplodendo in ogni parte del mondo. Le ragazze dissero che in effetti
secondo loro non c'entrava niente. Meleagro provò a riportarle all'origine della
discussione, ovvero una fonte di energia del tutto inesplorata e fantasiosa. Siccome
ormai nessuna dell'Idra credeva realmente alla possibilità di una prova di valutazione,
venne voglia di farlo così per ridere ed i risultati fioccarono.
Ci fu chi immaginò nastri trasportatori senza fine che con le loro spire avviluppavano
l'intero pianeta, tapis roulant da regolare a varie velocità, col vento fra i capelli un'ora
soltanto da Napoli a Milano. Poi gallerie sotterranee in cui venivano applicati i
principi della biglia e della cerbottana ovvero soffi giganteschi che spingevano in
cunicoli interrati palle gigantesche dotate di ogni comfort.
−
Ma non ci stiamo ancora staccando dalla tecnica, dalla meccanica – si
accalorava Meleagro – Provate a cambiare completamente il panorama,
immaginate cose del tutto diverse da ora!
Allora l'aria e i meandri a qualche spiritosa fece venire in mente la possibilità di
utilizzare i gas corporali che se prodotti da uno soltanto producono imbarazzo e
disgusto, ma se debitamente incanalati per miliardi di individui avrebbero potuto
140
spostare le montagne e riscaldare serre planetarie.
−
Una nuova scienza scoreggistica – sospirò Meleagro facendo ridere l'Idra.
Siccome si era arrivati al corpo era facile sbizzarrirsi perché il campo era vastissimo.
Meleagro arrossiva e cercava di moderare, ma l'Idra si era gioiosamente sfrenata.
Giusi la napoletana citò vari detti popolari, ma fu“ tira più un pelo di fica che un
carro di buoi” che prese a modello per svilupparne tutte le altissime potenzialità
scientifiche. Propose di rasare obbligatoriamente il pube di ogni femmina dalla prima
pubertà alla vecchiaia e di riempirne a palate i motori di appositi veicoli che collegati
per via chimica agli ormoni di gruppi di maschi ingorillati, producessero ogni tipo di
trazione di cui si avesse la necessità.
−
Sì, fantasioso – ammise Meleagro – ma passiamo dal corpo alla mente, è lì il
vero tesoro, ragazze, ed è a costo zero!
E raccontò loro che tutti avevano sbagliato sin dall'inizio, che non era nella vita attiva
che bisognava cercare risposte al problema dell'energia, non era scavando,
trivellando, estraendo, sudando e faticando, ammazzando di fatica il corpo, di
confusione il cervello, di rifiuti il pianeta. Contemplazione. Ecco dove si sarebbe
dovuto cercare sin dalle origini. La pulizia, il silenzio. Se tutti avessero seguito la via
suprema dei santoni indiani, che invece di prendersi le dita a martellate se ne stavano
tutto il santo giorno a meditare, i corpi avrebbero levitato senza fatica e per un
discorso di trasmissione genetica i bambini appena usciti dal grembo avrebbero
stazionato beati là in alto, collegati alle madri dal cordone ombelicale come gioiosi
satelliti. Infine fece avvicinare a sé tutte le ragazze del cerchio come dovesse rivelare
il segreto supreno e sussurrò le magiche sillabe: - Zaum. Uomini e donne che con la sola forza del pensiero si spostavano liberamente per
l'aria. Fabbriche, scuole, palazzi, leggeri come deltaplani, veleggiare sopra le cime
degli alberi, edifici per cui le fondamenta non avevano più fondamento, alzarsi come
palloncini colorati sfuggiti dalle mani di un bambino. La materia finalmente liberata
141
dal suo peso e dalla sua tristezza. Innamorati che si accoppiavano sull'arcobaleno!
Riuscivano a vederlo un futuro fatto così? Zaum!
Meleagro aveva osservato una per una tutte le teste dell'Idra, ne aveva colto via via lo
scetticismo, lo stupore, il divertimento. Quasi tutte avevano le labbra socchiuse e
Meleagro si era accorto con sconcerto che un bel po' di loro portavano apparecchi per
correggere la dentatura. Era una cosa tanto normale in quel periodo e in quel
quadrante dell'Impero che nessuno ci faceva più caso ed era occorsa la magia dello
zaum per far riaprire gli occhi a Meleagro. Sperimentavano sulla loro carne le assurde
complicazioni della tecnica, veniva tolto alle ragazze il sorriso nell'età in cui il suo
potenziale era massimo. Cosa c'entravano i denti più o meno storti con il sorriso? Il
sorriso era una categoria dello spirito, era zaum. Gli ortodontisti che lucravano su
quelle infami trappole, loro avrebbero avuto voglia di sorridere, ma sotto le loro
labbra si formavano soltanto degli avidi ghigni di soddisfazione. Non sorrisi.
−
La rabbia! – disse all'improvviso Brenda Riordan, quella che si era sempre
chiusa nel più ostinato silenzio, una ragazza dotata di un apparecchio anche più
vistoso delle altre ed una frangia di capelli neri che le arrivavano a nascondere
gli occhi.
−
Sì – disse – La rabbia! Se il genere umano avesse impiegato ogni sua risorsa e
avesse studiato su questo e su nient'altro, per secoli e millenni, su come
trasformarla in energia tutta la rabbia accumulata per secoli e millenni, per le
ingiustizie, per lo sfruttamento o semplicemente per dei litigi senza senso, non
ne avremmo abbastanza di energia anche oggi, prof, non ne avremmo in
avanzo per anni e anni ancora, per il futuro prossimo e quello più lontano,
prof?
Tornando da scuola Meleagro zigzagava sulla pista ciclabile e toglieva le mani dal
manubrio e le incrociava sul petto. Fischiettava a più non posso e cantava a
142
squarciagola canzoni dei bei tempi passati, tipo: - Verrà, verrà, verrà la fine del
mondo... La lezione circolare sulle fonti di energia alternative gli aveva lasciato l'animo
euforico. Pensava che in mano aveva poco o nulla, poco in banca e poco di gratifiche,
nessuno che ne richiedesse l'opera o l'assistenza, nessuno che lo chiamasse per uno
scambio sessuale o semplicemente per bere un bicchiere insieme. Nulla. Ma era
libero, libero di crearsi una vita a sua immagine e somiglianza. Libero ad esempio di
farsi saltare via dalla testa il tocco accademico e provare a chioma sciolta a toccare le
sue ragazze con discorsi sinceri, per cui si appassionava personalmente. Che strano!
Sui quotidiani e sui Tg si parlava abbastanza spesso di insegnanti morbosi che
toccavano le ragazze, mai che il discorso della molestia e della pedofilia lasciasse
spazio a considerazioni su un modo diverso di toccare che riguardava la testa e il
cuore fusi insieme, il ragionamento e la passione. Eppure era solo per quello che
valeva la pena fare l'insegnante: toccare, conturbare, commuovere, entusiasmare, far
riflettere con i sentimenti, far emozionare con la riflessione. Toccare qualcuno era
pungerlo tanto a fondo da fargli cambiare la sua percezione del mondo. Era acuire la
vista e rendere più ampio l'abbraccio. Scatenare il panico per arrivare ad una quiete
superiore. - Era così che andava fatto, era così – si ripeteva Meleagro mentre tornava
in bici, convinto di aver trovato la formula segreta per ammansire la scolastica Idra.
L'Idra attaccava quando vedeva dinnanzi a sé guerrieri corazzati, con enormi scudi a
difesa e spade sguainate. Invece bisognava andare verso di lei completamente
denudati e cercando di essere profondamente sinceri. Ricordare alle alunne che lui
non era una funzione, ma un uomo in carne ed ossa, con problemi ed emozioni. Solo
così si riusciva a toccare e non era detto che in questo modo si parlasse a vanvera e si
gestisse gli argomenti ad un livello superficiale. Era convinto anzi che la gran parte
del programma lo si potesse affrontare
a questo nuovo livello di emozione.
Mantenendo l'equilibrio si sfregò le mani tutto soddisfatto. Insomma Meleagro si
143
sentiva eroico e fedele, un cavaliere medievale dal cuore puro e dal cavallo bianco.
Non era la prima volta che andava soggetto a questa sorte di trasfigurazione, quando
gli pareva di cogliere ogni aspetto del mondo sotto una luce entusiasmante. Magari il
giorno dopo svegliandosi male neppure si sarebbe ricordato del metodo assicurato. O
ci avrebbe riso sopra o sarebbe stata l'Idra con un colpo di coda imprevisto e
tremendo a farglielo accantonare come pura illusione. Ma quel pomeriggio tutto
pareva andargli dritto e l'effervescenza della mente gli stava già facendo progettare
ore sperimentali che riguardavano la sua vita privata. Quando dunque lesse il
messaggino di Melania che si sarebbe fermata da Vanessa e non sarebbe tornata,
anche quello lo prese per il verso giusto e diede un ulteriore colpo di pedale verso la
libertà dei suoi proponimenti.
144
14. umanità
Zaccaria Danson stava in un monolocale alla periferia est della città. Il monolocale
era inserito in uno stabile edificato anni prima dalla Cooperativa Muratori ed era uno
dei tanti esempi di edilizia popolare architettonicamente all'avanguardia andati alla
malora in pochi giorni, quando un elemento irrilevante come la gente in carne ed ossa
aveva cominciato ad abitarvi. Da ogni balcone, ovvero un metro quadrato di spazio
delimitato da una barra grigia di calcestruzzo, spuntava come un fiore enorme da un
vaso l'antenna parabolica con la sua corolla di metallo. E poi panni stesi, stracci,
sacchi della spazzatura più o meno pieni in bilico sulle ringhiere, idoli asiatici,
calciatori famosi, donne nude sotto forma di poster posti contro il vuoto. E mai
nessuno che si affacciasse a chiacchierare o per guardare le montagne lontane,
bellissime in certe giornate terse e luminose. Ad una vista d'insieme il residenziale si
presentava come una torta di cemento dagli stati degradanti divenuti degradati,
essendo stata tirata via ad opera del fattore umano la N di nettezza. Zaccaria Danson
alla pulizia invece ci teneva e dunque bestemmiava contro i vicini sozzoni. Anche
quando era un punkabbestia nessuno avvicinandosi per dargli le monetine avrebbe
potuto dire che puzzava ed il suo appartamentino di venti metri quadri resisteva più
per uno sforzo ideologico che igienico all'assedio dell'immondizia intorno.
Dall'ascensore alla porta d'ingresso li aveva quasi spinti a correre per non impregnarsi
della puzza extracomunitaria del corridoio e prima di farli entrare li aveva obbligati a
pulirsi le scarpe sullo stuoino. Dentro erano appesi ovunque degli arbre magique, atti
a deodorare di solito gli abitacoli delle auto. Gino iniziò a gingillarsene uno cercando
di capire a quale aroma fosse, ma Zac lo richiamò bruscamente all'ordine. Piazzarono
Amir sul divanetto con una lattina di birra in mano e loro due più la Meri si sedettero
intorno al tavolino con Zac che aveva un notes e una penna per appuntare il piano.
Ognuno fino a quel momento aveva avuto un incarico e Zac volle controllare che
145
nessuno avesse sgarrato, visto che l'ora X si stava decisamente avvicinando.
−
Gino, i petardi ?
−
Arrivati. Palle di Maradona, bombe Bin Laden, Tsunami, Terminator e ci
stanno pure i Razzingher, non so se mi spiego! Neanche a Fuorigrotta c'è un
arsenale simile, possiamo fare la seconda eruzione del Vesuvio, un casino che
nemmeno te lo immagini...
−
Hai perso un'altra buona occasione per rimanere zitto. Di botti non se ne
devono sentire, uno o due, toh, al massimo, per farti contento. Le bombette
devono essere viste e sembrare qualcosa di molto più potente e la loro
vetrinetta sarà la cartucciera che verrà applicata ad Amir. E' chiaro il concetto?
La cartucciera la doveva comprare la Meri... – concluse Zac fulminando con
uno sguardo la ragazza.
Meri sbuffò, aprì il borsone e tirò fuori un sacchetto che gettò con malagrazia sul
tavolino. Zac sospirò.
−
Ora la prendi e gliela provi.
−
Ma perché io? – protestò Meri.
−
Ma perché è il tuo ragazzo, no? – disse Zac strizzando l'occhio – Vuoi che sia
io a maneggiarlo o Gino?
Gino si schermì facendo delle mossettine effeminate, Meri riprese brusca la
cartucciera e andò da Amir. Amir posò la lattina e le fece spazio sul divano, ma
quando lei si abbassò a provare l'aggeggio, il ragazzo fraintese la manovra e frappose
le mani per respingerla.
−
No, no, io non voglio! – quasi urlò Amir.
Gino ridacchiò, Zac bestemmiò, ma poi raccolse tutta la pazienza di cui era capace e
gli si rivolse come ad un bambino.
−
No, Amir, Per certe cose vi lasceremmo soli...vuole solo provarti la cartucciera
intorno alla vita...per la rivoluzione, ricordi? – e intanto indicava a Meri la
146
birra, ancora un bel sorso da fargli mandar giù.
Amir tracannò, sorrise e ripeté la parola: - Rivoluzione... - Allargò le braccia e lasciò
che Meri gli prendesse le misure. Sentì il solletico e si mise a sghignazzare
dimenandosi come un ossesso.
−
Oè, è sensibile al tuo tocco, il ragazzo – commentò Gino dando di gomito a
Zac.
−
Vaffanculo – fu la risposta di Meri, che dando delle botte sulla testa di Amir era
riuscita a farlo star fermo.
La cartucciera si allacciava perfettamente. Zac espresse la sua soddisfazione con un
grugnito.
−
Bene, l'ora prevista le 19 e trenta. La gente è incasinata perché ha fretta di
tornare a casa con la spesa e non ci cagherà, le guardie sono stravolte e non
vedono l'ora di smontare… comunque ci penserà la Meri a distrarli... - disse
tirando a sé la ragazza e palpandole il culo.
−
Non ho capito! Quando si tratta di fare la troia entro sempre in campo io!
−
Va là che ti piace! Non ho detto che te li devi spompinare. Vai da loro e gli
chiedi se hanno visto una tua amica così e cosà, poi puoi fargli una mini
intervista su quello che fanno, se hanno mai usato la pistola etc., insomma li
devi distrarre e quando senti un botto che farà scoppiare 'sto terrone, che solo
così è contento, tu devi svenire, così i vigilantes devono badare a te e non
capiscono più un cazzo.
−
Ma come faccio a svenire? Devo pigliare qualcosa? Una volta ho fumato
mezzo sigaro e sono crollata come un mango marcio...
−
Porcaccia di quella puttana ladra! Ma devi far finta di svenire, no? E poi ti
lamenti quando dico che pesano più le tue ovaie del cervello!
−
Ssstt – fece Gino intenerito – l'amico pakistano sta dormendo.
In effetti Amir aveva gli occhi chiusi e stava placidamente russando. Tutti lo
147
guardarono.
−
Se dorme per un po' va bene. Ohè, dobbiamo farlo stare con noi fino a domani
sera.
−
E se si sveglia? – chiese Gino.
−
Allora lo si fa attaccare al biberon – disse Zac indicando la birra – Altrimenti ci
pensa qui la Meri che c'ha degli argomenti che sono meglio della carta
moschicida. Te lo lavori fino a domani e non voglio sentire storie. O di figa o
di bocca o di mano o con la paletta per schiacciare le mosche, fai te. Ma non
bisogna lasciarcelo scappare.
Meri insorse:- Ahò, avevi detto una sola volta! A me fa schifo!
Zac afferrò Meri per la maglietta e l'avvicinò a sé, ringhiandole nell'orecchio le parole
più convincenti.
−
E i bigliettoni che ti diamo alla fine, ti fanno schifo, eh?
Meri si liberò e si ricompose come una vera complice, mentre Zac continuava con il
piano: - ...perché a quell'ora le trentasei casse sono foderate di bigliettoni meglio del
deposito di Paperon de' Paperoni e noi non dovremo far altro che prelevare... −
Come la banda Bassotti – interloquì Gino.
−
Cazzata! Quelli fanno sempre una brutta fine, a noi andrà tutto liscio. Amir è
meglio che lo teniamo rincoglionito, lo portiamo dentro io e te, Gino, con una
giacca che gli nasconde la cintura esplosiva, poi gliela togliamo quando sarà
dentro.
−
Cioè, facciamo la scena del kamikaze fuori dall'Ipercoop, dove c'è lo spiazzo
con i negozi... – aggiunse Gino, per dimostrare di essere un socio attento e
preciso.
−
E tu non hai capito un cazzo! – lo catechizzò Zac – la scena del kamikaze è
dentro i reparti dell'Ipercoop, così la gente se la fa sotto, scappa fuori e noi
abbiamo libero accesso alle casse, è chiaro?
148
Gino serrò forte le labbra in segno di ammirazione e alzò il pollice per far capire che
tutto andava bene.
−
A questo punto – riprese Zac – il pakistano deve togliersi la giacca, mostrare
l'esplosivo e mettersi ad urlare più forte che può:- Rivoluzione, rivoluzione!
Amir risvegliandosi dal coma alcolico con perfetto tempismo ripeté:- Rivoluzione! per poi ripiombare in un sonno tranquillo. I tre si guardarono con soddisfazione
perché tutto stava funzionando alla grande e per un minuto nel monolocale scese un
silenzio profumato di arbre magique, turbato soltanto da una musica ossessiva, sapida
di spezie arabe che proveniva dall'appartamento accanto. Gino iniziò a tenere il ritmo
tamburellando sul tavolino, ma venne fulminato dallo sguardo di Zac.
−
Fammi una domanda intelligente, Gino.
−
Riguardo a che cosa, Zac?
−
Riguardo alla nostra delicata operazione, Gino.
Ancora la musica araba per un bel po' ed il rumore della limetta sulle unghie di Meri.
−
Mettiamo... – riuscì infine a dire Gino.
−
Mettiamo? – ribatté con finta pazienza Zac.
−
Mettiamo che qui l'addormentato non si ricordi di dirla, la parolina?
−
Vuol dire che la urlerai tu, visto che c'hai una bella voce da cantante melodico.
Il cellulare suonò la sua di musichetta e Zac rispose soltanto con tre parole: 'pronto',
'sì', 'veniamo'.
−
Tirate su il pakistano che togliamo le tende – disse alzandosi di prepotenza e
sorridendo beffardo.
−
E dove dovremmo andare adesso? - chiese Meri con aria scocciata.
−
Andiamo a ritirare la minaccia di morte n.2, l'arma fine del mondo aggiuntiva o
se preferite chiamatela pure la ciliegina sulla torta che va bene lo stesso.
Zac era un perfezionista. Pensava che se qualcuno da un lato ti minacciava con un
coltello e tu pensavi di essere spaventato a morte, c'era la possibilità di trasformare la
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paura in panico totale se dall'altra parte qualcuno ti sbarrava la strada con una sega
elettrica già in azione. Sì, Zac credeva nella potenza dell'amplificazione, gli piaceva
l'heavy metal sparato a manetta, la suoneria che si era sentita prima era “Smoke on
the water” dei Deep Purple, la mitica band antesignana nel genere.
Anche sull'auto, per celebrare il suo genio, Zac sparò rock a manetta, che così al
volante gli sembrava di avere sotto il culo il Suv nero del tipo e non la Uno scassata
con 300.000 km nel motore passatogli dal fratello in uno slancio di generosità del
cazzo. Gino protestava che era troppo alto e che comunque era una musica di merda.
Sul sedile dietro Amir guardava fisso davanti a sé con la voglia di vomitare e si
chiedeva se era quella la felicità che aveva invidiato tante volte ai ragazzi di quella
parte dell'Impero. Meri, ben scostata da Amir, guardava la campagna dal finestrino e
si domandava se Zac lo capiva che quelle cose le stava facendo per amore, altro che
soldi.
Si fermarono davanti ad una bicocca rurale che pareva abbandonata, con i finestroni
serrati ed il tetto con le carie. Zac raccomandò agli altri di rimanere lì buoni, scese
dall'auto e attraversò l'aia con fare guardingo. Gli altri videro che la porta della
cascina si apriva quel tanto che bastava per far passare Zac e poi subito si richiudeva.
Lì dunque era custodito il pericoloso ordigno di cui aveva parlato Zac ed ognuno se
lo immaginava a suo modo. Amir si protese verso Gino e gli sussurrò una parolina
all'orecchio. Gino si voltò verso Meri e senza troppi giri di parole le comunicò che il
suo ragazzo doveva pisciare. Amir si vergognò e Meri senza troppi giri di parole
mandò affanculo Gino, dicendo che almeno quell'incombenza non spettava a lei.
−
Vabbe' – concluse Gino da vero filosofo – con tutta la birra che ha bevuto
rischiamo che ce la fa qui. Vieni Amir, andiamo a farci 'sta pisciatina insieme.
Lo fece scendere dall'auto e si avviarono verso un vecchio olmo ai margini dell'aia.
Gino, tenendo Amir accanto a sé, si sbottonò e se lo tirò fuori, ma il ragazzo non si
decideva.
150
−
Cos'è? Ti vergogni?
−
Io vado là – disse Amir, indicando un fosso subito sotto l'albero.
Gino non poté opporsi perché aveva già iniziato.
−
Vedi di non fare scherzi, eh? – lo minacciò, ma calcolando che il pakistano ne
aveva da fare molta di più, si mise tranquillo ed aspettò che risalisse. Amir
teneva in mano un rosolaccio impolverato. Quando si risistemarono nell'auto
volle donarlo a Meri.
−
Questo fiore nel mio paese vuol dire primo amore – disse inventandosi tutto.
−
Grazie – rispose Meri ed odorò il papavero con i petali già tutti gualciti come
fosse una rosa in boccio, compatta e profumata, di quelle che si prendono col
cellofan a 5 euro per San Valentino. La porta della cascina si riaprì ed il capo
se ne uscì seguito dal contadino, un vecchietto magro ed ingobbito che arrivava
sì e no alla cintola di Zac. Il vecchio contadino si chiamava Aliseo Appalachi,
non si era mai praticamente mosso dal suo fazzoletto di terra che un tempo era
campagna e adesso era periferia, con le torri del centro commerciale dietro i
filari dei pioppi ed una pista ciclabile che passava di fianco alla cascina. Eliseo
di campi non ne aveva più e tirava avanti con qualche gallina ovaiola ed un
orticello ben riparato, riconvertito nella parte più recondita ad un biologico
particolare, che era poi il motivo per cui lui e Zaccaria Danson si erano
conosciuti. Pianticelle che venivano su bene in quel terreno e le cui foglie, per
cui c'era molta richiesta, andavano in fumo in men che non si dica. Eliseo
Appalachi e Zac stavano discutendo animatamente e l'eco del loro bisticcio
arrivava sino alla Uno.
−
Ti ho detto che lo volevo bello grosso, mi vuoi far fare una figura di merda! –
sbraitava Zac.
−
Con la miseria che mi paghi, al massimo ti dovevo dare le pulci dei polli... –
ribatteva l'altro.
151
−
Con tutti i clienti che ti mando. Ma io prendo la benzina e ti do fuoco alla
piantagione!
−
Sì, così dopo nelle cartine ci metti lattuga.
−
Ma almeno ce l'ha un bel piumaggio? Deve saltare agli occhi, capito?
−
Eh, qualche penna qua e là la deve ancora avere...
Intanto i due avanzavano verso un recinto chiuso da uno steccato. Vi entrarono e
sparirono alla vista. Amir chiese se per caso il contadino era il nonno di Zac e Gino si
dovette tenere la pancia dalle risate.
−
Eliseo il nonno di Zac! – diceva con le lacrime agli occhi – Ah, questa me la
devo segnare! Tiene i parenti fra il pollame! Ah, mi stai simpatico, Amir.
Zac alla fine rispuntò fuori con un sacco di iuta fra le mani. Eliseo era ben piantato
davanti al pollaio, con una mano a ripararsi gli occhi dal sole cocente ne controllava
il percorso sino all'auto. Zac si sedette al volante e lanciò il sacco sporco di merda di
gallina, contenente la minaccia di morte n.2, sulla kameez della minaccia di morte
n.1. L'uno e l'altra dovevano stare insieme e non scappare sino all'indomani. Partì
sgommando, alzò il dito medio verso il vecchietto imperturbabile.
−
E' femmina e non ha molte penne – disse poi a Gino che continuava a fissarlo
senza osare chiedere – E' una tacchinella, va bene? Ma se qualche petardo ce
lo attacchiamo anche al pennuto, l'effetto sarà dirompente e tutti si cagheranno
addosso.
Gino non riuscì a trattenersi: - O' pollo del nonnetto! O' pollo Amadori! – commentò
ricominciando a ridere. Amadori era una nota e serissima azienda produttrice di polli
e suoi derivati.
−
Idiota! Analfabeta! – gli urlò sulla faccia Zac – Ma non li vedi i telegiornali?
I Tg di ogni rete nazionale ed estera in quei giorni avevano dato risalto al caso dei
tacchini farciti all'esplosivo che i terroristi islamici avevano fatto esplodere a
Baghdad in un bar frequentato dai soldati americani e che – avevano annunciato –
152
avrebbero presto esportato in Occidente. Eliseo Appalachi lasciò che l'auto uscisse
dalla sua proprietà, dopodiché rientrò ed accese la Tv. Anche lui ascoltava le notizie
che riguardavano lo strano attentato di Baghdad: politologi e specialisti si dividevano
sul significato simbolico da assegnare al pennuto. Eliseo ascoltava distrattamente
perché intanto si stava ripulendo e indossando abiti migliori e non aveva messo in
minima relazione la vendita della tacchinella con la possibilità di un attentato o di
qualsiasi altro disegno criminale. Eliseo si stava preparando perché lo aspettavano a
cena i nipotini, figli di sua figlia Beatrice Appalachi. Doveva mettersi d'accordo
perché il giorno dopo avrebbe dovuto accompagnare Kevin all'Ipercoop per la scelta
del suo regalo di compleanno. Solo non gli facesse spendere una cifra, ma contò
soddisfatto i biglietti da 10 che Zac gli aveva dato controvoglia per la tacchina male
in arnese. Si ricordò che doveva ripassare dal pollaio e prendere le uova fresche per i
bambini. Ci andò e scacciò una gallina che stava becchettando la marijuana. Sei belle
uova per i piccoli. Avevano bisogno di tanta energia per affrontare la scuola ed il
mondo infame che gli si preparava.
153
15. invitare a salire chiunque ne abbia voglia
Dunque Meleagro era a casa da solo. Melania aveva ribadito con una serie successiva
di laconici sms che non sarebbe tornata a casa, che sarebbe uscita a cena con le
amiche, che si sarebbe fermata a dormire da Vanessa che era molto giù. In quei casi di
imprevista solitudine Meleagro si preparava qualcosa di appetitoso, leggeva un buon
libro, tirava fuori le foto della lontana giovinezza, progettava vacanze o andava alla
ricerca di luoghi esotici dove avrebbe trascorso una fortunata senescenza, guardava
un film porno del tipo amatoriale dove puoi riconoscere i vicini dietro la mascherina
e si masturbava con qualche senso di colpa. In alternativa affondava lentamente, ora
dopo ora, nella melma televisiva e si sedava completamente sino all'incoscienza
meglio che con il Tavor. Ma quel pomeriggio si sentiva un surfista spericolato, altro
che tranquillanti, e voleva continuare a cavalcare l'onda fin che l'entusiasmo e
l'inventiva lo sorreggevano, l'onda emozionale sorta dalla nuova esperienza didattica
con la sua carissima Idra. Era tutto un fermento di idee strane, di propositi alternativi,
di visioni capovolte della realtà che gli avrebbero aperto le porte di una nuova vita
piena di calore, dove il dare e il ricevere avrebbero avuto un incremento fantastico.
La sua vita sociale era praticamente a livello zero, scambiava quattro parole sul
tempo e le malattie con la fruttivendola, ne aggiungeva altre due col macellaio sul
calcio e la follia femminile. Si lamentava a più non posso che intorno a sé c'era un
deserto di aridità umana, ma in effetti non si era mai mosso in prima persona per farvi
spuntare l'ipotesi di una qualsiasi relazione amichevole. Sì, doveva recitare prima il
mea culpa , se voleva cambiare realmente le cose. Se voleva che il genere umano
comunicasse con lui, era Meleagro Barton, il misantropo, che doveva compiere il
primo passo. Quando mai lo aveva fatto? Bene, quello era un buon giorno per
incominciare. Sfregandosi le mani come avesse trovato un tesoro – e sinceramente
pensava di averlo trovato – si mise al computer e compose una scritta con caratteri
154
molto leggibili, quindi la stampò scegliendo i colori più vivaci. Con il foglio in mano
scese al cancello e appese l'avviso sotto i campanelli, indicando quello che andava
suonato se qualcuno si fosse deciso di aderire alla sua iniziativa. Sul foglio stava
scritto: “PUOI SALIRE DA ME E SCEGLIERE UN LIBRO FRA GLI
INNUMEREVOLI DELLA MIA BIBLIOTECA. PUOI SCEGLERE UN ANGOLO
CONFORTEVOLE DELLA MIA CASA, METTERTI COMODO E LEGGERE.
NON E' DETTO CHE IO ABBIA VOGLIA DI PARLARE CON TE, MA TI POSSO
SERVIRE UN CAFFE' O UNA BIBITA. FINITO DI LEGGERE POTREMMO
SCAMBIARE ANCHE DUE PAROLE, NEL CASO. MA SE NON NE HAI
VOGLIA, PUOI ANCHE SALUTARE ED ANDARTENE SENZA CHE IO NE
RIMANGA OFFESO. AH, RICORDATI SOLO CHE ABITO ALL'ULTIMO PIANO
NELLA MANSARDA E CON IL CALDO SBAGLIATO DI QUESTO PERIODO,
IL CLIMA QUASSU' E' VERAMENTE TORRIDO. SE NONOSTANTE CIO' HAI
VOGLIA DI SALIRE, BENEVENUTO!”.
Era vero che in mansarda in quei giorni si soffocava, ma era anche vero che i locali
erano dotati di un ottimo impianto ad aria condizionata e la temperatura era regolata
sui 24-25 gradi, insomma faceva un bel freschino. Meleagro però voleva mettere alla
prova gli utenti del suo nuovo servizio e vedere se sarebbero saliti nonostante quella
scoraggiante premessa. In alto i più motivati, quelli veramente interessati all'originale
pomeriggio di cultura e contatti umani! A quel punto non bisognava far altro che
aspettare. Ma già l'impresa in cui si era coraggiosamente messo dava all'attesa una
qualità particolare. Attendeva fiducioso che lo straniero salisse e riempiva il tempo
che mancava alla realizzazione dell'ospitalità con piccoli gesti che l'avrebbero resa
più confortevole. Andò a prendere le bottiglie di birra e le stipò in frigo, in modo che
all'occorrenza fossero ben fresche. Riaccomodò i cuscini dei divani e delle poltrone,
rimise a posto nella libreria i volumi che giacevano da giorni sulle mensole senza che
nessuno si sognasse di consultarli. Prese la scopa e diede una ripulita al pavimento.
155
Sistemò qualche oggettino, controllò che le cornici alle pareti fossero dritte. Tutto
questo a cuor leggero, fischiettando la Marcia Turca di Mozart o il Bolero di Ravel.
Non aveva pensato all'eventualità che l'ospite fosse un fumatore. Non voleva mettere
in bella vista dei posacenere, sarebbe stato ammettere come lecita una pratica che nel
chiuso di una stanza gli avrebbe dato assai fastidio. Avrebbe comunicato a tempo
debito che non era possibile, l'ospite avrebbe accettato il piccolo sacrificio senza
problemi. Sospirò. Scelse un libro, si sedette, provo ad immedesimarsi nell'atmosfera
che si sarebbe creata. Alzò la testa verso il lucernario e constatò che faceva passare la
luce sufficiente per la lettura senza dover accendere le lampade. Perfetto. Intanto era
passata un'ora e nessuno si era fatto vivo. Bisognava essere pazienti. Meleagro si
immerse per dieci minuti nella lettura del suo libro. Lo posò e decise di andare a tirar
fuori
l'album con le foto della sua giovinezza. Le esaminò senza particolare
trasporto. Lanciò l'album sul divano senza badare a dove cadesse. Prese degli
opuscoli turistici su Belize Guatemala e Honduras, iniziò a sottolineare le località più
invitanti e a confortare i prezzi dei resort. Si abbandonò alle fantasie davanti alle
procaci mulatte nei vestiti coloratissimi e attillati. Non aveva pensato all'eventualità
che potesse essere una donna ad accogliere il suo invito a salire. Magari avrebbe
potuto fraintendere, leggere fra le righe dell'innocente avviso il richiamo di un
incontro privato, di un appuntamento a scopo sessuale. Forse esistevano donne che
non sapevano resistere a quel tipo di appello, il rischio, uno sconosciuto. Magari
anche avvenenti. Immaginò di aprire la porta e di ritrovarsi fra le braccia una salita
apposta per farsi scopare e basta. Si spogliavano senza nemmeno presentarsi e si
buttavano per terra. Si stava eccitando e senza volerlo cominciò a toccarsi, quando
realmente il campanello suonò. Non era quello del cancello però, era quello del
pianerottolo. Col cuore in gola Meleagro si precipitò senza nemmeno controllare che
l'erezione gli fosse scesa. Grande fu la sua sorpresa quando si ritrovò davanti
null'altro che Arturo Maloni. Arturo Maloni teneva in mano il cartello con i caratteri
156
colorati. Lì sulla soglia lo stava guardando severamente e con il dito indicava
l'avviso.
−
E' lei che lo ha appeso di sotto? – chiese.
Meleagro ora si sentiva in colpa. Probabilmente aveva violato vari punti del
regolamento condominiale. Come minimo avrebbe dovuto chiedere al capo
condomino, cioè a colui che aveva proprio di fronte.
−
Sì, sono stato io – confessò Meleagro abbassando il capo – Mi dispiace se non
ho rispettato il regolamento, mi è venuto d'impulso, non ci ho pensato...
−
Beh, non mi fa entrare?
Meleagro fece spazio a Maloni, ma una volta entrato lo guardava con aria
interrogativa e si tormentava le mani senza sapere più che fare.
−
Allora, questa storia che è scritta qui – disse Maloni dando un colpetto alla
carta – vale o non vale?
−
Sì, certo, è un'idea che mi è venuta oggi, sì, sì, vale, certo che vale...
−
E allora dove sono i libri?
−
Prego, prego, venga da questa parte.
Meleagro non riusciva a capacitarsi che fosse stato proprio Arturo Maloni, fra tutti, ad
abboccare al suo invito. Il vicino inforcò gli occhiali e iniziò a scorrere i titoli sul
dorso dei volumi, da quelli imponenti e ben rilegati a quelli tascabili. All'improvviso
si bloccò e compì un mezzo giro verso la zona del termoconvettore.
−
L'aria condizionata – disse.
−
Sì, sì, funziona alla perfezione – ribattè Meleagro.
Ecco, con la scusa del mio avviso è venuto a controllare se c'è un qualche guasto
all'impianto – pensava mentre Maloni era tornato a scorrere i libri. Infine, sotto lo
sguardo incredulo di Meleagro, ne scelse uno e chiese dove poteva accomodarsi.
−
Per fare cosa? – chiese sospettoso il padrone di casa.
−
Per fare quello che si fa con un libro. Leggerlo – rispose secco il vicino.
157
Meleagro che ancora non capiva bene, lo invitò a sedersi nella comoda poltroncina
proprio sotto il lucernario. Maloni non gradiva né caffè né birra né acqua minerale,
voleva soltanto leggere. E senza dire nemmeno più una parola si immerse in quella
che a Meleagro parve realmente una coinvolgente lettura. Non sapeva se essere
deluso per l'occasione persa – non avrebbe allargato il cerchio delle conoscenze ad
una nuova misteriosa persona – o se gioire perché il suo sistema aveva attirato
addirittura un osso duro come Maloni. Era in effetti una sorpresa straordinaria. Arturo
Maloni in quei dieci anni di stretto vicinato mai aveva varcato la soglia della
mansarda ed una sola volta Meleagro Barton era stato ricevuto nel suo appartamento,
nemmeno in forma privata, ma per un'assemblea straordinaria dei condomini, tutti
assiepati intorno al tavolo del soggiorno di casa Maloni. Maloni il duro, Maloni il
preciso, Maloni l'uomo del tubo, era salito da lui col cartello ed era stato il primo a
partecipare al gioco. Maloni che leggeva. Chissà che libro aveva scelto. Meleagro
dovette resistere alla tentazione di avvicinarsi con una scusa qualunque per dare una
sbirciata. Avrebbe potuto dedurlo dal vuoto lasciato nello scomparto tra il libro
precedente e quello successivo perché la sua catalogazione alfabetica era rigorosa.
Ma alla fine decise di aggiungere sorpresa a sorpresa e si ritirò in cucina a spentolare,
indeciso se raddoppiare la carne alla pizzaiola nel caso Maloni avesse avuto voglia di
fermarsi a cena. Aveva appena spento il fuoco che sentì nell'altra stanza l'ospite
schiarirsi rumorosamente la voce. - Arrivo! – disse Meleagro pulendosi in fretta le
mani. Arturo Maloni ben dritto e senza alcuna espressione in viso gli stava porgendo
il libro. I racconti di Dino Buzzati. - Ah, buona scelta! – commentò Meleagro.
Probabilmente lo avrebbe detto davanti ad ogni altro testo selezionato dal vicino.
−
Ne ho letto solo uno. Quello che ha come titolo “Sette piani”.
Meleagro pensò che il vecchio non si smentiva. Nella sua parziale visione del mondo
aveva scelto il racconto che già dal titolo richiamava la sua passata attività
professionale, l'edilizia, e ciò che aveva fatto per tutta la sua vita, il tirar su palazzi.
158
Non fece però nessun commento, aspettando che fosse l'altro ad aggiungere qualcosa
se ne avesse avuto voglia.
−
La vista è ancora buona, ma ho avuto dei problemi a girare le pagine. Ecco
perché ne ho letto solo uno – ed alzò la mano per mostrare che era scossa da un
tremito leggero ma costante. Meleagro cadde nel più totale imbarazzo che poi,
di fronte alla debolezza così esibita da quell'uomo tutto d'un pezzo, fece in
fretta a diventare aperta commozione.
−
Mi spiace, io non sapevo – disse Meleagro – avrei potuto aiutarla io... a girarle.
−
Neanche fossi un concertista seduto al pianoforte. Non era una partitura, ma un
libriccino. Ce l'ho fatta benissimo da solo e se vuole possiamo anche parlarne –
ribatté Maloni con un mezzo sorriso.
Meleagro non riusciva a capire se si riferisse al tremito o al contenuto del racconto. In
fondo era la stessa cosa, perché di quello raccontava “Sette piani”, della malattia e
dell'inevitabile destino. Un racconto cupo e pessimista se ce n'era uno, proprio senza
speranza.
−
Venga, sediamoci – lo invitò Meleagro – E una birra?
−
Vuole che gliela versi tutta sul tappeto? – rispose Maloni.
Tra il girare le pagine e il portare il bicchiere alle labbra di un ospite c'era uno spazio
enorme da riempire. Meleagro se ne accorse ed ebbe un'esitazione.
−
Sto scherzando. Ce la faccio a bere. Solo che non ne ho voglia. Non bevo quasi
mai fuori dai pasti – lo soccorse Maloni.
−
E...da quanto tempo? – chiese Meleagro indicando le sue mani trepidanti.
−
Da qualche mese.
Meleagro non aveva il coraggio di chiedere cosa fosse. Cioè, lo sapeva
probabilmente, ma voleva fosse lui a dirlo. Così lo guardò negli occhi, cercando di
esprimere la sua richiesta senza usare le parole. L'altro capì.
−
159
Quello che mi fa rabbia, proprio le mani che ho sempre usato con precisione. Si
chiama Parkinson. E' progressivo – e poi, come se fosse del tutto normale
riallacciare quel discorso ai fili dell'altro - “Sette piani”, eh? Ci hanno fatto
anche un film, credo con Tognazzi.
Tognazzi, di nome Ugo, era una maschera grottesca del cinema italiano, un grande
attore scomparso da vari anni.
−
Comunque non mi è piaciuto per niente. Il racconto, voglio dire. 'Sto Buzzati
non descrive la realtà, chissà se c'è mai stato in un ospedale.
Proprio questo era l'ambiente della storia, un sanatorio nel quale i malati passavano
via via i reparti, dall'ultimo in alto, quando ancora si era sani, sino al primo in basso,
dove semplicemente si moriva. Il protagonista, entratovi per una lievissima
indisposizione, veniva fatto scendere, senza che fosse mai ammessa la gravità della
sua malattia, attraverso tutti i piani sino al letto dove si sarebbero consumate le sue
ultime ore. Il cammino risultava inesorabile e le ultime parole terribili:”...voltò il
capo dall'altra parte e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti ad un misterioso
controllo, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce”.
−
Ma sì, ci sarà anche stato all'ospedale. Il suo però vuole essere un racconto
simbolico – rispose Meleagro – Buzzati vuol far capire come siamo soli e
disperati di fronte al nostro comune destino.
−
Primo, è assurdo un ospedale in cui i piani corrispondono alla gravità della
malattia – continuò nel suo ragionamento Maloni senza badare alle parole di
Meleagro – I reparti, come tutti sanno, sono divisi per specializzazione...
−
Ma in quel sanatorio si curava o meglio non si curava che un'unica malattia e
credo che l'autore ci voglia far capire che quella malattia nient'altro è che la
vita stessa... – cercò di spiegare Meleagro.
−
Davvero? Non lo avevo capito. Ecco a cosa servono gli insegnanti. Ma se si
parla di vita, anche qui mi sembra che Buzzati non ci becchi molto. Questo va
in ospedale e non ha nessuno, parla solo con i dottori che sono come dei
160
carcerieri, delle SS. E' impossibile che non abbia proprio nessuno, una madre
almeno la deve avere...
−
Forse vuol far capire che in fondo ognuno di noi, anche se ha delle persone
intorno, nel suo intimo, nell'essenza, è solo. Sì, che il midollo è la solitudine...
−
Non è vero, a questo poi non ci credo. Sin da quando nasciamo abbiamo della
compagnia, gente che ci vuole male, ma anche gente che ci vuole bene.
−
Alla fine però siamo veramente soli con noi stessi.
−
No, non ci credo. Anzi, le dirò di più, a questa cosa non è morale crederci,
proprio non bisogna. Ma perché farsi così del male? Secondo me non è un
messaggio giusto quello del Buzzati, proprio non dovevano pubblicarglielo,
anzi se aveva un minimo di criterio, non doveva neppure scriverlo.
Meleagro aveva notato che le mani di Maloni si erano fermate, anzi seguivano con
ampi gesti il fervore del suo discorso. Lui invece aveva abbassato la testa e si sentiva
un groppo in gola.
−
Non è morale crederci... – riecheggiò Meleagro
−
No, non fa bene. Credere di essere totalmente soli è un veleno che ti intossica
lentamente – sentenziò Maloni – Essere soli al mondo, anche se fosse così non
bisognerebbe pensarci...Lei ha ancora i genitori?
−
No, li ho persi qualche anno fa.
−
E quelli di sua moglie?
−
Abitano lontano – Meleagro riuscì a dire queste due ultime parole, poi si prese
la testa fra le mani e incredibilmente scoppiò a piangere.
Arturo Maloni allora si alzò ed andò ad accarezzargli la testa e Meleagro provò una
sensazione di calore e fermezza.
−
Non faccia così. Lei non è comunque solo. Ha Melania e Maddalena.
A Meleagro fece piacere che dicesse i nomi, invece di “sua moglie” e “sua figlia”, gli
pareva che così la loro prossimità fosse più concreta e da tutti riconosciuta. Sì, furono
161
quei nomi detti dall'ospite che gli asciugarono le lacrime.
−
Mi scusi – disse Meleagro soffiandosi il naso.
−
Scusarla di che? E' un destino comune, no? Come dice lei. Comunque un'altra
volta me lo chieda, prima di farlo.
−
Prima di piangere?
−
Prima di appendere il foglio. C'è un regolamento, sa? – disse sorridendo –
Grazie di tutto, ma adesso me ne vado. Io e mia moglie andiamo all'Ipercoop
per la spesa del venerdì.
−
Ma oggi è giovedì.
−
Davvero?
−
Lo so perché anch'io e Melania diventiamo dei temibili consumatori il venerdì.
Domani, ne sono sicuro – e fu contento di quel particolare, come se
testimoniasse che erano amici già da tempo e che finalmente erano venuti a
saperlo. Il destino comune.
−
Vado via lo stesso – disse Maloni alzandosi.
Meleagro lo accompagnò alla porta.
−
La prossima volta un libro comico – aggiunse Maloni prima di andare via.
Meleagro aveva voglia di abbracciarlo, invece incerto gli toccò la spalla.
Maloni strizzò l'occhio e per l'ultimo saluto gli porse la mano che era tornata a
sobbalzare.
Quella non doveva essere l'unica sorpresa della giornata. Dopocena Meleagro non si
mise davanti al televisore e tenne a bada le pulsioni sessuali ancora in circolo. Decise
che era il caso di chattare un po' con Maddy. Maddy non era in linea, ma gli aveva
lasciato un messaggio sorprendente accompagnato da un emoticon, ovvero una
vignetta animata, che riproduceva le buffe fattezze di un tacchino un po' ebete.
“Papi tienti forte” , diceva il messaggio “Qui nel detestabile centro dell'Impero, come
dici tu, stiamo procedendo a delle appassionanti lezioni di Storia Naturale ( emoticon
162
di una bocca spalancata a sbadiglio) e scorrendo la prima classificazione del grande
scienziato Linnaeus (emoticon di un demente con gli occhi a cucù) risalente al 1758,
ho scoperto che il nome scientifico del tacchino è (emoticon di una bomba che
esplode) MELEAGRIS MELEAGRIS!!! Il mio adorabile babbo non è altro che uno
scriteriato pennuto che fa glo glo! Beh, ti devo confessare che qualche dubbio l'avevo
sempre avuto, ma così ho ricevuto una piena conferma. Ti ho dato un buon motivo
per riflettere? Tornerò per il Giorno del Ringraziamento, così ti faccio arrosto con le
patatine e la salsa di ossicocco ...no, spero prima,dai! (emoticon di un aereo che
parte) Bacioni bacioni bacioni (emoticon di smack scoppiettanti)”. Meleagro sorrise.
Dunque gli era stato dato il nome scientifico del tacchino, altro che eroe mitologico,
sterminatore di idre e cinghiali! E la coincidenza diventava più assurda perché senza
saperlo sino a quel giorno, era proprio al Meleagris meleagris, con i suoi patetici
tentativi di staccarsi da terra e la del tutto involontaria propensione al sacrificio,a
quell'improbabile pennuto fratello dell'essere umano, che era andata più di ogni altro
animale la sua incondizionata simpatia. In ogni parte del mondo quel pollo
sovradimensionato possedeva un nome diverso e poi c'erano ancora gli appellativi
dialettali e popolareschi, ma per il consesso scientifico e forse pure per Dio si
chiamava Meleagris meleagris. Dietro tutto ciò c'era forse un messaggio segreto per il
signor Barton? In quel momento non ci pensava affatto. Si sentiva tranquillo e
pacificato. Gli aveva fatto piacere che con quello scherzo Maddy avesse dimostrato di
pensare a lui e per quanto riguardava Melania non era così importante che quella sera
non ci fosse. Un foglio appeso gli aveva condotto Arturo Maloni che addirittura gli
aveva allungato una carezza, perché non credere allora che anche Melania prima o
poi sarebbe ritornata a lui? Gli mancava ancora un gesto inutile per completare la
serie e conclusa l'opera Melania lo avrebbe amato di nuovo. Il giorno
dopo.
163
16. umanità (di cui certamente anche Meleagro fa parte)
Era strano spingere il carrello, perché di solito lo facevano Melania e Maddy e lui
vagamente annoiato stava di fianco o procedeva di rincalzo. Ma Maddy era lontana, a
studiare elementi buffi e imprevisti di Storia Naturale e Melania doveva fare gli
straordinari al Sert. Gli aveva telefonato con una voce un po' provata notificandogli
che la spesa del venerdì era da rinviarsi al giorno successivo.
- Vado io, se vuoi, ho visto che hai già preparato la lista... – aveva obbiettato
Meleagro per dimostrare la propria gentilezza. La cosa strana è che lei si era
incazzata e gli aveva quasi urlato di non prendere iniziative assurde, che le erano
venute in mente altre robe da aggiungere e che se per una volta la spesa la facevano il
sabato non moriva mica nessuno.
- Ma stai bene? Hai la voce stanca e ti incazzi per la spesa... – aveva obbiettato
Meleagro.
- Ho la voce stanca perché sono stanca. Non andare all'Ipercoop per nessun motivo –
aveva tagliato corto lei.
Meleagro in casa non sapeva che fare, l'ispirazione per l'annuncio gli era passata ed
aveva buttato nel cestino il foglio che gli aveva riportato Maloni. Era stato l'ennesimo
piccolo balzo da tacchino, insomma. Gli mancava il latte per la colazione, le lamette
ed una lampadina si era bruciata. Allora aveva deciso di andarci ugualmente
all'Ipercoop, avrebbe preso giusto quelle tre cose e Melania non l'avrebbe scoperto.
All'Ipercoop c'era anche Melania con gli occhiali scuri per non farsi riconoscere, non
da Meleagro che per quanto ne sapeva lei se ne stava tranquillamente a casa, ma –
pensate un po' – da TD. Lo stava ancora pedinando ed era reduce da una nottataccia
passata davanti alla discoteca dove si era imboscato con la bella spilungona. Lei si era
rosa le unghie sino alla carne, sino a farsi sanguinare. Con l'auto aveva seguito ancora
TD che aveva accompagnato la ragazza all'hotel. Non era salito con lei e prima di
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lasciarsi si erano scambiati un bacio sulla guancia, saluto variamente interpretabile.
Alle 4 e 30 si era fatta ospitare da Vanessa che le aveva data della pazza. Tre ore di
sonno e poi di corsa al Sert sino al pomeriggio, un panino e via con un nuovo
pedinamento di TD che era andato a prendere la tipa e stranamente l'aveva condotta
all'Ipercoop. Da lì Melania aveva telefonato al marito facendogli giurare che quello
sarebbe stato l'ultimo posto dove avrebbe messo piede, piuttosto l'inferno.
Anche Arturo Maloni avanzava sicuro, pure lui senza compagnia. La moglie aveva
qualche linea di febbre a causa del caldo sbagliato e così l'incombenza della spesa
grossa era tutta sua. Aveva fatto compiere al carrello il piccolo balzo che consentiva
di passare dalla pavimentazione del piano inferiore alla scala mobile che conduceva
al centro commerciale. Il centro commerciale era stato edificato dalla Cooperativa
Muratori e questo per Maloni era motivo di orgoglio. Si emergeva lentamente dando
un'occhiata a lato, alla gente in discesa con i cestelli già doviziosamente riempiti,
l'espressione più narcotizzata che felice, i piccoli che si strofinavano contro i vestiti
delle madri perché erano stati fatti scendere in fretta dal seggiolino portabebè, in
modo che anche quello potesse far da base per le borse Ipercoop stracolme di
prodotti. Per chi saliva sembrava di salire sulla rampa di lancio per il pianeta della
spesa ed Arturo Maloni, una volta arrivato a livello, diede un'occhiata intorno ai
consumauti che giravano a destra e a sinistra. Tra le rivendite di effimero del centro
commerciale e la vera e propria Ipercoop, delimitata dalla barriera lunghissima delle
casse, c'era uno spiazzo molto ampio che in poco tempo aveva sostituito la piazza del
paese. Arturo Maloni vide che in mezzo al viavai gli anziani giocavano a briscola
sulle panchine e ci bestemmiavano pure. Altri pensionati, in modernissime postazioni
circolari, al di là dei prodotti in esposizione, fissavano semplicemente il vuoto e
chissà se anche quello era in offerta. Al punto opposto della circonferenza sedevano
donne velate vestite di scuro ed anche loro scrutavano il nulla. Tra quegli uomini e
quelle donne l'incomunicabilità era così forte che solo una tragedia avrebbe potuto
165
avvicinarli. Arturo Maloni notò Sergio Dildo che usciva dai cessi e salutò senza
trasporto il vecchio compagno di lavoro. Si fermarono. Sergiò notò che Arturo era
sempre indaffarato, veniva all'Ipercoop per fare la spesa – strana idea -, lui vi passava
il pomeriggio girando e dando un'occhiata ai tipi. Rincoglionirsi giocando a carte con
quattro bacucchi, non ci pensava nemmeno. A lui piaceva la gioventù. Arturo Maloni
spinse il carrello dalla parte dei bisogni razionalizzati, verso gli scaffali con le
confezioni ben ordinate, Sergio Dildo fischiettando scese al parcheggio per furmarsi
in pace una sigaretta. Notò una Uno metallizzata perché il suo stato di deperimento
spiccava fra tutte le altre auto tirate a lucido. Se si fosse avvicinato Sergio Dildo
avrebbe scorto
riverso sul sedile posteriore un ragazzo pakistano, si sarebbe
accostato, avrebbe picchiettato sui vetri. Invece non si accorse di nulla, finì la
sigaretta, riprese la scala mobile. In quel momento stavano tornando al loro catorcio
Zaccaria, Gino e la Meri. Controllarono che tutto fosse a posto e ripresero la
discussione che li aveva fatti allontanare, tanto anche in quel casino di bagagliai che
si aprivano e si richiudevano potevano star tranquilli che nessuno li sentisse.
−
Io proprio non capisco cosa cazzo vi sta succedendo a voi due. Se sentite dei
sommovimenti alle budella, cercate di trasformarle in scariche di adrenalina
perché l'obbiettivo è molto vicino! – Che bisognasse trasformare le energie
negative in positive in quel periodo tutti gli psicologi di grido lo sostenevano e
Zaccaria da fine psicologo proprio di quello stava gridando.
−
A bocce ferme, Zac... – cercò di replicare Gino.
−
Le bocce non sono più ferme da tempo, non so se te ne sei accorto, ma è da
qualche giorno che hanno cominciato a muoversi più velocemente e col cazzo
che si possono fermare. Le mie poi, di bocce, stanno girando vorticosamente.
−
A bocce ferme – riprese Gino senza scomporsi – chillo è nu buono guaglione e
noi gli facciamo passare un brutto guaio.
−
166
L'altro giorno mi ha anche regalato una rosa – aggiunse Meri deformando i
ricordi – Qualcuno di mia conoscenza 'sti pensieri per una donna non li ha mai
avuti.
Zaccaria Danson diede un pugno fortissimo sul tettuccio dell'auto vicina e gli uscì del
sangue. Bestemmiò una sola volta, poi fece qualche giro su se stesso tenendosi la
mano colpita.
−
Ditemi se sto sognando – disse a denti stretti.
−
Hai appena avuto la prova che sei sveglio – commentò Gino ridacchiando.
Zac lo afferrò per la gola e lo stese sul cofano.
−
Ohé, soldatino, vedi stare in riga! – gli ringhiò sulla faccia.
−
Ma lasciami! – gridò Gino liberandosi dalla stretta.
−
Vaffanculo Zac! - iniziò a sbraitare Meri – Fai sempre la voce grossa con i più
deboli! Nella tua merdosa vita sei sempre andato avanti perché hai incontrato
degli ingenui che te l'hanno data vinta. Amir è il più ingenuo di tutti,
complimenti. Facile con gli stranieri, eh Zac? Con me, con Amir...
−
Cos'è? Ti piace il cazzo negro? Ti piace il suo gusto di uccello sporco quando
glielo ciucci? – la aggredì Zac.
−
Smettila! – gli urlò contro Gino e poi ancora:- Smettila! Smettila!
Zac capì che gli animi erano esasperati e che doveva riacquistare il controllo della
situazione. Si guardò intorno e si mise un dito davanti alla bocca. Sembrava che il
sangue gli colasse dalle labbra e fu quello più delle parole successive a frenare Meri e
Gino.
−
Ragazzi, stiamo facendo un casino della madonna! Venite qui, dai, e cerchiamo
di darci una calmata, ostrega!
I due non si mossero. A braccia conserte, la schiena contro la carrozzeria lussuosa di
un Suv nero, si fissavano la punta delle scarpe.
−
Ragazzi, non scherziamo. Là dentro c'è una montagna di soldi che ci aspetta e
tutto il piano è stato preparato nei minimi dettagli. Non c'ho dormito di notte
167
per prepararlo e voi lo sapete.
Gino fece un gesto sconsolato con la mano, ad indicare il problema primario, ovvero
che l'arma letale n.1 era alla fin dei conti soltanto un ragazzo, solo un po' più giovane
di loro.
−
Va bene. Amir. – riprese Zac cercando di essere conciliante – Non bisogna
riunire l'Onu per risolvere il problema. Vuol dire che Amir invece di lasciarlo lì
col tacchino, ce lo trasciniamo fuori con noi e poi chi s'è visto s'è visto.
−
E o' passamontagna? – chiese Gino.
−
Quale passamontagna?
−
Sì, c'ha ragione! Mettete pure a lui il passamontagna, così non lo riconosce
nessuno – intervenne Meri tutta trepidante.
−
I kamikaze non hanno il passamontagna – spiegò Zac mantenendo la calma.
Sentirono che la portiera della Uno si stava aprendo. Amir era lì davanti a loro.
−
Io sono pronto – disse e non sembrava neppure ubriaco – e non ho paura di
mostrare la faccia.
A Meleagro Barton per cena era venuta voglia di insalata, aveva preso una bella busta
di misticanza già lavata ed asciugata ed ora si stava spostando faticosamente tra gli
scaffali alla ricerca del mais inscatolato. - Il mais all'insalata aggiunge freschezza –
pensò. O forse era la sua vera natura scoperta e annunciata ufficialmente da Maddy a
spingerlo verso quel genere di consumi. - Becchime per tacchini. Nessuna sostanza
nutritiva. Finisce direttamente nella cacca. Però aggiunge freschezza. Mica male
l'aggiunta di freschezza – questi erano i profondi pensieri di Meleagro quando gli
parve di rivivere un momento preciso della sua vita passata. C'era una donna
esageratamente bionda china sulle ceste contenenti le erbe aromatiche che esaminava
scrupolosamente con le mani guantate... dragoncello, rosmarino, maggiorana...
Meleagro vide proiettata la sua immagine su di uno scenario naturale... ma dove? Poi
si ricordò. L'argine della lama, un mese prima, la donna che raccoglieva l'insalata.
168
Possibile che fosse lei? No, non era lei. Quella , che potete reincontrare a pag.9, si
chiamava Irena Briezinski, questa Maria Wachlowski. Molte cose accomunavano le
due donne oltre al fatto di essere entrambe polacche. Erano molto amiche e facevano
le badanti dell'arcigna ultraottantenne Artemide Fonzarelli e a tempo perso, data la
loro perizia naturalistica, andavano a raccogliere le erbe su cui si basava la cucina
dell'osteria di campagna o di periferia gestita dai figli della Fonzarelli. Tutto già
spiegato. Quello che viene ora no, però. Erano così amiche, Irena e Maria, che si
vedevano soltanto sei giorni l'anno e mai in patria. Siccome non era in regola dal
punto di vista lavorativo, ogni due mesi Irena doveva tornare in Polonia per portare i
soldi, rientrare in confidenza con i figli, fare l'amore con il marito. Si fermava
esattamente un bimestre ed allora era Maria a rimpiazzarla presso la carrozzella
dell'Artemide, dopo che a sua volta aveva portato alla sua famiglia euro e
testimonianze d'affetto, giusto per sessanta giorni. Irena e Maria si incrociavano per
una mezza giornata in cui si passavano le consegne, si informavano sui parenti e sugli
amici, si mostravano le foto dei bimbi che crescevano e dei nipoti che intanto
nascevano. Una giostra indispensabile. Maria Wachlovski si trovava quel giorno
all'Ipercoop per via del calore sbagliato che aveva seccato le erbette della campagna
circostante l'osteria Fonzarelli, costringendo a ripiegare sulle forniture poco ruspanti,
ma affidabili dell'Ipercoop. Intanto al cliente potevano essere presentate come
primizie dell'orto. Che strano però. La posizione assunta da Maria china sui
contenitori di plastica era la stessa del corpo di Irena che si abbassava sull'erba
dell'argine. E uguale fu lo sguardo fulmineo che si scambiarono Maria e Meleagro.
Quegli occhi azzurri Meleagro li avrebbe riconosciuti fra un'ora e ne avrebbe avuto
paura, ma in quel momento se ne distolse per naturale riservatezza e non tornò più ad
incrociarli, perché spingendo avanti il carrello andò quasi a scontrarsi con due
ragazzine che esagerando l'impatto diedero uno strillo e finsero di abbattersi contro
gli scaffali.
169
−
Ma prof, ci vuole uccidere? – si lamentò la prima.
Era Giuseppina Imbruglia, fra le teste dell'Idra la più difficile da tenere a freno.
L'altra era Pamela Maloni: - Prof, che ci fa qui? – chiese sgranando gli occhi.
Meleagro riprese il controllo e improvvisò una pantomima: - Sstt! Venite qui, ve lo
dico in segreto. Sto tentando una difficilissimo esperimento di zaum! Tra pochi
secondi tutti i carrelli ricolmi di prodotti si staccheranno da terra ed inizieranno a
librarsi in aria. Sotto la mia direzione improvviseranno un valzer... dove posso trovare
un grissino, mi servirebbe da bacchetta...
Le due non gli diedero retta.
−
Io sono venuta per aiutare mio nonno – disse Pamela Maloni.
−
Lo sa che suo nonno fa lo scratch con le mani ?– chiese Giuseppina Imbruglia
iniziando a ridere.
Lo scratch era una tecnica elaborata da dj afroamericani per cui si facevano scorrere
le dita su dischi di vinile in movimento, in maniera da ottenere strani effetti sonori.
Maloni era diventato Dj Parkinson.
−
Smettila! – protestò Pamela dandole uno strattone e – Ecco mio nonno! esclamò indicando Arturo Maloni ed il suo carrello.
Arturo Maloni era a pochi metri. Aveva notato una crepa là in alto sulla volta e la
stava fissando preoccupato. Non era regolare per un edificio targato Cooperativa
Muratori.
Meleagro si voltò gioioso alla ricerca del vicino, ricordandosi del mezzo
appuntamento del giorno prima, ma gli sembrò invece di riconoscere, mentre svoltava
dietro uno scaffale, la sagoma fra tutte più riconoscibile, quella cioè della moglie
Melania.
Zaccaria Danson tirò fuori dal bagagliaio il sacco con il tacchino, lo infilò dentro una
borsa del centro commerciale ed il gruppo si avviò baldanzoso verse le scale mobili.
All'ingresso il giornalista Orso La Guardia nelle vesti del finto marocchino Sabri
170
Abdallah tese la mano aperta verso di loro e ricevette in cambio un: - Togliti dai
piedi, pezzente! – detto nel modo brutale in cui solo dei veri pezzenti avrebbero
saputo dirlo. E allora basta con la simulazione della povertà, quel giorno ne aveva già
le tasche piene. Peccato , ancora qualche minuto di pazienza e lo scoop della
catastrofe sarebbe stato suo. Invece marciò deciso verso il parcheggio,dichiarò chiusa
per sempre l'inchiesta e ancora tutto sporco e stracciato mise in moto il suo Suv,
sgasando via dalla confusione e da un roseo futuro professionale.
Individuarono le due guardie della security davanti alle vetrine del centro Tim, le dita
infilate nei cinturoni e larghi sbadigli di fronte agli ultimi esemplari di telefonini
messi in vetrina. Uno era anziano e tracagnotto, l'altro spilungone e giovane, con le
basette a punta e la mosca sotto il labbro. Il primo si chiamava Guglielmo Codi,
vent'anni di servizio senza nessun incidente di rilievo, tranne una volta che si era
sparato in un piede rincorrendo uno scassinatore di bancomat. Il secondo aveva
iniziato sei mesi prima, si chiamava Davide Friman, stava prendendo la maturità
elettrotecnica alle serali e non vedeva l'ora di smontare, rientrare a casa per una
doccia ed uscire con gli amici a far cazzate. Meri assunse un'aria vagamente sperduta,
si tirò ancora più giù il top che conteneva a malapena le grosse tette e si diresse verso
la coppia armata pronta a distrarre e, al momento opportuno, a svenire. Volle
sembrare più straniera di quanto non fosse.
−
Me scusa – si rivolse al più giovane ovvero al più alto che poteva scrutare
meglio nella sua scollatura – Io cerchio negosio de bikino. Por favor, me puoi
tu dire onde estas?
−
Dove sta il negozio di bikini?- Davide Friman arrossì ed indicò l'entrata.
−
Tu sei bel figo. Tu puoi venire con me, così me dici se sta bene il bikino?
Davide Friman deglutì e disse soltanto: - Magari. Gugliemo Codi si sentì in obbligo di intervenire: - Signorina. Stiamo lavorando. Non
può accompagnarla. Si allontani per favore. 171
Zac che stava seguendo la scena tenendo Amir stretto a sé, indicò a gesti che era il
vecchio quello che doveva lavorarsi.
−
Me chiamo Meri, non signorina. Tu sei piccolo, ma muscoloso. Io soy loca,
sono pazza, per i capelli grigi!
−
Meri – si mise a ridacchiare Codi – io c'ho una famiglia...
−
Tutti abbiamo famiglia, no? – disse passandogli una mano sulla barba ispida.
−
Mannaggia, guarda questa, Friman. Che gli dobbiamo fare, a 'sta ragazza? –
domandò Codi mordendosi una mano.
−
Non so, magari quando smontiamo... – suggerì timidamente il giovane.
−
Datemi le vostre pistole. La tua mi sembra più grossa, però – fece Meri,
indicando con malizia la zona di Codi
dove poggiavano armi reali e
metaforiche.
−
Eh no, la pistola non si tocca! – rispose secco Codi, mettendo la mano sul
calcio che sporgeva.
Meri capì che quello era il momento. Arretrò di un mezzo metro come se si fosse
spaventata a morte, iniziò a tremare, a roteare gli occhi. Si lasciò cadere in avanti fra
le braccia del vigilante più anziano. Quando fu sicura che l'avesse presa, iniziò con la
storia della bava alla bocca.
−
Oh cazzo! – esclamò Codi – A questa gli è presa la crisi epilettica. Davide
rimaneva immobile e basito perché per il moto convulso Meri era tutta una
frenesia di tette in movimento. A Codi il corpo della tipa sgusciava da tutte le
parti e non sapeva come fare a metterla tranquilla.
−
Agua, agua... – si lamentava Meri.
−
Vai, vai a prenderle l'acqua! – ordinò Codi a Friman.
−
Ma...dove? – chiese Friman inebetito.
−
Cazzo, svegliati Friman! Vai al bar, no? – urlò Codi.
Friman si mise a correre. Uno con la gelatina di Meri fra le braccia, l'altro che stava
172
entrando al bar. Zac diede di gomito ad Amir e si mossero insieme verso l'entrata
dell'Ipercoop. Gino si accodò e siccome sigillavano le borse che venivano da fuori,
slacciò il sacco, liberò la tacchinella e la spinse oltre la barriera delle casse, fra le
gambe dei consumatori e le ruote dei carrelli. Zac scelse la zona di fronte al bancone
della macelleria perché era più ampia e con meno gente, un buon palcoscenico per
scatenare il terrore. Fece piazzare lì Amir che con le mani si teneva ben chiusa una
giacca mimetica.
−
Quando senti un botto, conta sino a dieci, togliti la giacca, inizia ad urlare il
cazzo che vuoi nella tua lingua e poi, rivoluzione, rivoluzione! Hai capito?
Amir fece cenno di sì.
Ora era rimasto solo. Solo al centro del mondo. Vedeva passare individui di tutte le
razze che spingevano i carrelli carichi di mercanzia. Si illudevano che bastasse così
poco per cambiare una vita, un destino. Bastava non fosse polvere e fango o sangue
rappreso, bastava fosse una patina luccicante stesa sulle preoccupazioni e sul dolore.
Due cinesi stavano portando via una bicicletta cromata. Una famiglia pakistana che
non conosceva portava via un televisore. Una nera alta e bella col turbante variopinto
portava via un carrello pieno di buste di patatine e di pop corn. Gli involucri
brillavano, una bambina con le treccine saltava eccitata e le punzecchiava con un
dito. I locali portavano via tante piccole cose, si distinguevano per la varietà e per i
cibi che mai Amir avrebbe potuto toccare. Amir pensò alla sera prima, quando
avevano mangiato e bevuto ed alla fine fra le risate gli avevano insegnato un gioco
con le carte. Meri gli aveva accarezzato i capelli e lui si era sentito bene. Prima di
addormentarsi aveva telefonato a casa e gli aveva risposto Aisha. Non gli aveva detto
che era stato licenziato, ma che sarebbe stato a dormire da suoi amici. Prima di
salutarla le aveva chiesto che parola le avessero insegnato e lei aveva detto zaum.
Non gli riusciva a spiegare cosa significasse. Zaum, una parola senza traduzione e
senza senso. Come lui in quell'istante, nel centro commerciale al centro del mondo.
173
Meleagro avrebbe voluto che lo zaum funzionasse davvero per sollevarsi al di sopra
della marea di carne e di metallo, per raggiungere la donna che gli era sembrata
Melania. Sì, era sicuro che fosse lei, probabilmente era arrivata a casa in anticipo,
non aveva trovato quel pazzo di suo marito, aveva pensato senza dispiacersene troppo
che le aveva disobbedito, aveva preso la lista e lo aveva raggiunto all'Ipercoop.
L'unico particolare che lo lasciava dubbioso erano quegli occhiali scuri che non le
aveva visto mai neppure d'estate. E poi, perché non l'aveva avvisato col telefonino?
Provò a chiamarla, ma risultava spento, inattivo, morto. Comunque doveva
raggiungerla. Con il carrello. La cerimonia della spesa che lo aveva sempre irritato ed
annoiato sino all'angoscia, gli sembrava ora un atto indispensabile che avrebbe
condiviso con serenità e piacere. Anzi, mentre sgomitava e faceva cozzare il carrello
cercando di guadagnare posizioni, stava attribuendo un valore superstizioso al fatto di
uscire quella sera dall'Ipercoop insieme a Melania e a tutti i prodotti della lista ben
stipati nelle borse di plastica.
Melania stava seguendo TD e Malgor Z ben attenta a non farsi vedere. Quando i due
si fermavano di colpo fingeva di interessarsi alle confezioni, di leggere le etichette,
per poi riprendere il pedinamento camminando rasente gli scaffali ed i cestoni con le
superofferte. Ma le diversioni di Melania non furono numerose perché i due si
dirigevano rapidi verso il reparto dei medicinali. Malgor Z faceva incetta in ogni
farmacia della città di un medicinale che non si trovava in Cekia, unico rimedio già
efficacemente sperimentato contro le terribili emicranie della madre. Aveva letto che
la Coop ne metteva in vendita con il suo marchio ad un prezzo ribassato ed in preda
all'eccitazione aveva implorato TD di accompagnarla. Ne chiese al farmacista come
se si trattasse di mostrarle dei gioielli e TD accanto a lei sentiva uno strano languore
che non capiva se fosse attribuibile a un nuovo sentimento per la ragazza o a tutto
quel ben di Dio di farmaci stimolanti ed anfetamine.
Di fronte al banco dei farmaci c'era il reparto Sport e Tempo Libero e lì si trovava
174
Eliseo Appalachi insieme al piccolo Kevin.
−
Ma sei sicuro di voler 'sta roba per il tuo compleanno? – chiedeva il nonno
allarmato al nipotino.
−
Sì, sì – rispondeva il ragazzino stringendosi al petto il bastone da cricket con
cui sarebbe potuto entrare a pieno titolo nella squadra dei ragazzini pakistani.
A quel punto Eliseo voltò la testa e vide una cosa strana a qualche metro da sé. O
meglio la cosa gli sarebbe apparsa del tutto ordinaria tra i confini della sua vecchia
cascina, ma in mezzo all'Ipercoop, che cosa ci faceva?
−
Che mi venga un colpo! – esclamò – ma quella è la tacchinella che ho venduto
a quel balordo di Zaccaria!
Si strofinò gli occhi, mise meglio a fuoco e si convinse. Altroché se era lei! Poi notò
che intorno al collo scarnito e lungo le ali spennate le avevano piazzato delle strane
cartucce colorate.
Meleagro era dietro a Melania nel corridoio dei prodotti etnici, quasi del tutto
sgombro, ma ebbe paura che la moglie facesse uno scarto improvviso e si dirigesse
verso i settori più affollati. Si sa , quando si arriva a toccare ciò che si desidera, quello
è il momento in cui realmente lo si può vedere svanire.
−
Melania! – chiamò.
La moglie si girò, ma invece di guardare dritto verso di lui, notò che stava fissando
qualcosa in basso, spostato rispetto alla sua destra. Anche Meleagro si voltò, vide il
tacchino e per il tempo che rimase prima dello scatenarsi dell'inferno, ci credette
realmente. Credette di essersi sdoppiato e che a chiamare la moglie , per come si era
girata, non fosse stato lui, ma il volatile Meleagris meleagris. Poi ci fu il botto e si
sentì qualcuno che urlava: - Il tacchino esplosivo! Amir sentì il rumore e decise che avrebbe fatto quanto gli avevano chiesto. Se
volevano i soldi li avrebbero avuti, in fondo non lo avevano trattato male e la sera
prima, mentre giocavano a carte, si era sentito per la prima volta di nuovo a casa. Ma
175
lo avrebbe fatto soprattutto per togliersi la vergogna di dosso. Meri gli aveva fatto
girare la testa, ma così aveva perso la purezza da offrire a Tahira, si era disonorato di
fronte alla sua famiglia, al suo popolo, alla sua religione. Ora si sarebbe tolta la
giacca, avrebbe mostrato il finto esplosivo che avrebbe spaventato tutti, avrebbe
gridato la parola ' rivoluzione'. Lo avrebbero ucciso, avrebbe avuto quello che si
meritava. Chissà se invece meritava il perdono. Così la tolse, la giacca che faceva da
copertura, ma non fece in tempo a mostrare e a dire nulla perché fu travolto e
trascinato via dalla folla immensa che scappava. Era bastata l’arma letale n.2, era
bastata una povera bestia ed un innocuo botto da Carnevale, perché in quei tempi
televisivi la paura reclamizzata spaventava assai più della effettiva realtà.
Meleagro in un balzo fu sul bancale con i pacchi da sei dell’acqua minerale e la
scampò. Vedeva la gente abbandonare i carrelli pieni e mezzi vuoti e fuggire
impazzita di qua e di là. Urtavano gli scaffali che oscillavano paurosamente, tutto
cadeva sulle teste e sulle braccia levate verso l’alto. Qualcuno rimaneva incastrato,
qualcuno scivolava e finiva sotto le ruote, tutti urlavano. E sopra la gente che
scappava Meleagro vide il tacchino che aveva spiccato un ben povero volo e si era
rifugiato sul ripiano delle pirofile da forno .
Il piccolo Kevin ebbe il piede agganciato da un carrello impazzito e trascinato come
un vitello da marchiare verso gli scaffali degli elettrodomestici dove cadevano a
catinelle ferri da stiro e piastre per i capelli. Si salvò dal male incastrando il bastone
ricurvo sotto i supporti metallici dei televisori impilati ed impalati, solidi e saldi, ben
ancorati al reality che ogni modello stava trasmettendo. Il nonno Aliseo, strappato
via il rampollo, non aveva avuto la forza di reagire. Inebetito la merce gli crollava
intorno e lui con le mani sugli occhi continuava a ripetere:- L’erba cattiva, tutta colpa
dell’erba cattiva…
Nell’erba era letteralmente finita Maria Wachlovski che si era tirata addosso le ceste e
gli scomparti con la valeriana, la rucola, la pimpinella e l’alfalfa. Era tornata in un
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attimo sui prati dei Carpazi dove aveva fatto l’amore la prima volta, non più lento e
puzzoso tragitto del pulmino, non più buche sull’asfalto che scuotevano il debole
sonno, non più controlli alle frontiere.
Per Arturo Maloni fu gioco forza pensare ad un evento tellurico, che solo così si
spiegava la crepa che aveva notato sulla volta. Sì, non era un difetto di costruzione
della Cooperativa Muratori, ma una prima avvisaglia del terremoto che si stava
abbattendo su di loro come era accaduto nel 1996. In una logica sequenza di causa –
effetto prima avrebbe dovuto verificarsi la scossa e poi aprirsi la fenditura, ma cosa
gliene importava di quei particolari, sul fatto che il centro commerciale avrebbe
resistito alla grande senza crolli strutturali, su quello ci metteva la mano sul fuoco.
Mentre professava il proprio ennesimo atto di fede e se la rideva in cuor suo di tremiti
e tremori, la sua vecchiaia venne schiacciata da una pesante colonna in finto marmo,
messa lì a delimitare un siparietto promozionale di prodotti per bellezza ed eterna
giovinezza, con ragazzi e ragazze agghindati in tuniche dell’Antica Grecia e
coroncine in finto alloro.
Le alunne di Meleagro Giusi Imbruglia e Pamela Maloni si ritrovarono così in un
viluppo di toghe e chitoni che stavano dandosela a gambe nemmeno si fosse a
Pompei nel 79 d.C. Non impararono nulla di Storia, ma iniziarono a credere alla
magia, ripensando in un lampo, mentre per proteggersi si abbracciavano, alla
faccenda del prof e della parolina che faceva sparire le merci neanche fossero state in
un saldo post-natalizio.
Malgor Z ebbe l’accortezza di allungarsi sotto il bancone della farmacia, ma TD no. Il
figlio del marchio visse per un minuto un sogno beato fatto di flaconi che
schizzavano pillole a mitraglia e nuvole di polvere bianca, sui vestiti e sui capelli.
Talco, magnesio supremo, bicarbonato di sodio, ma pure quelle innocue sostanze
bastarono a procuragli l’epistassi e a farlo svenire.
177
Meri assisteva da fuori, si stringeva forte al petto della guardia più giovane e forte
protestava che non era colpa sua e che lei non voleva.
Meleagro si erse sulle confezioni col cellofan dell’acqua gassata e riconobbe Melania
che fuggiva verso le casse. Le urlò di non voltarsi e di correre forte, non perché
temesse una sua trasformazione in statua di sale – quale peccato poteva aver
commesso? – ma perché dietro di lei c’era la folla impazzita che stava per
inghiottirla. Alle casse il panico dei consumatori travolse tutto. Saltavano sui nastri
trasportatori, schiacciavano le borse che ostruivano il passaggio, tentavano lo
scavalcamento facendo leva sulle commesse che erano rimaste inchiodate con lo
scontrino in mano.
Gino rideva come un pazzo e urlava a Zaccaria: - Guarda che casino, guarda che
bravi! Ora ne sparo un altro! Un altro ne sparo! Zaccaria era diventato di pietra e nessuno sembrava potesse spostarlo.
- Che cosa abbiamo fatto – mormorava tra sé e non pensava più che c’erano i
soldi a portata di mano.
La fuga arrivò alle scale mobili e lì ci fu il crollo, lo schianto.
A bocce ferme, quando ci fu il conteggio, non andò poi così male. Ci furono quasi
duecento di contusi e una dozzina di feriti gravi, schiacciati dalla folla, ma solo un
morto. Il morto era un bambino di due mesi, ancora senza nome e codice fiscale: la
madre lo aveva protetto col suo abbraccio sinché aveva potuto, poi le era scivolato fra
le mani e non l'aveva più visto. Il clandestino proveniva da una regione poverissima
dell'Africa, settore meridionale ed abbandonato dell'Impero, e se non fosse emigrato
più su con la sua famiglia, tanto sarebbe morto lo stesso di fame, di guerra, di Aids o
di qualche altra malattia.
178
17. estremo ultimo gesto.
Comunque non ci fu nessuno in grado di testimoniare. Un botto. Lo scherzo di un
ragazzino o di un adulto demente. La tacchinella foderata di esplosivo che in parecchi
giuravano di avere visto, risultò irreperibile.
In effetti si era prodotta in un altro dei suoi patetici voli ed era ascesa fino a un
finestrone dell’Ipercoop. Quindi era planata su un campo metà campagna e metà
periferia dove si era liberata della cartucciera che gli era stata applicata male,
figuriamoci. Nel campo sopravvivevano fili d’erba agonizzante e qualche lombrico
da becchettare. Subito accanto passava la trafficatissima tangenziale e sull’asfalto
rimanevano i poveri resti appiattiti di diversi animaletti a piuma o pelliccia che
avevano pensato di farcela ad attraversare.
Eppure in questi casi si trova sempre un capro espiatorio. Salman sarebbe stato
perfetto: aveva il corpo del reato attaccato al proprio giovane corpo di mussulmano.
Ma fu annoverato fra i contusi in stato di shock e caricato alla svelta sull’ambulanza,
senza che nessuno gli guardasse sotto la giacca. Su un ponte si formò un ingorgo.
Salman chiese di scendere per pisciare e un infermiere gli diede il permesso. Si voltò
a guardare le luci blu che giravano e giravano. L’urina gli pesava sulla vescica, la
cintura sullo stomaco, le colpe commesse sulla coscienza. Si liberò dell’organico e
dell’inorganico nel fiumiciattolo che passava là sotto. Non più prove né impronte
digitali: una fortuna per Zaccaria Danson e Gino Aiello che avevano i ritratti dei
propri polpastrelli custoditi negli schedari della questura. La giovane guardia Davide
Friman si senti in obbligo di chiedere a Meri cosa volesse dire quel suo “io non
volevo”, ma la furbetta, passato il panico, gli chiuse la bocca con un bacio e già da
quella sera iniziarono a fare l’amore.
179
Nel frattempo intorno all’ospedale sembrava la notte bianca organizzata dal Comune.
Erano arrivate le televisioni con gli inviati e tutti saltavano per farsi inquadrare. Si
festeggiava lo scampato pericolo e ci si sentiva tutti meno stronzi. Circolava la voce
che l’Ipercoop per richiamare i consumatori ed ammortizzare i costi dei prodotti
distrutti, avrebbe lanciato una campagna umanitaria paghi due prendi uno per aiutare
la famiglia del piccolo calpestato. Qualcuno sosteneva che allora tanto valeva dare in
donazione ai migranti africani tutti le confezioni ammaccate, ma ancora utilizzabili .
Sarebbe stato un bel gesto simbolico e non ci avrebbero rimesso i clienti.
Al Pronto Soccorso invece, nonostante avessero dovuto aggiungere sedie e sgabelli in
quantità, c’era una specie di silenzio stupito.
Meleagro non si era fatto nemmeno un graffio, ma era lì, che aspettava lo lasciassero
entrare da Melania. Si guardava intorno, voleva fissare bene negli occhi gli uomini e
le donne per trovare risposte a quello che era successo e invece vi leggeva soltanto
un'incredibile pazienza, come si trattasse di mettersi in coda alle casse col carrello
pieno di sogni. Fu naturale notare un guaglione agitato che canticchiava usando mani
e cosce come batteria e poi lì accanto, a contrasto, un giovane omone con le mani fra
i capelli e lo sguardo fisso sul pavimento. Stranamente i due non avevano neanche un
graffio. Nell’altra stanza due ragazzi pakistani , potevano essere fratello e sorella. Il
maschio piangeva piano, la ragazza, col velo intorno al viso, gli accarezzava i capelli,
ma solo sfiorandoli e sussurrava: - Salman…
Notò una ragazza bella ed altissima che con un fazzoletto cercava di tamponare il
naso sanguinante di un giovanotto dagli abiti imbiancati. Meleagro non li riconobbe.
Infine lo chiamarono. Melania aveva un livido sullo zigomo e alzò la mano per
salutarlo. Meleagro si sedette di fianco al lettino e le passò la mano fra i capelli.
- Eri là per cercare me. Non ti ho obbedito ed ora mi sento in colpa – le sussurrò
Meleagro.
Melania voltò la testa dall'altra parte.
180
- No, non ero là per te. Seguivo un uomo – disse con una strana calma.
- Un tuo paziente.
Melania ritornò a guardarlo.
- Era l'uomo con cui ti ho tradito.
Meleagro spostò la sedia lentamente ed andò alla finestra. Il vento agitava le foglie
degli alberi.
- Ora non ti preoccupare – disse tornando da lei – quando sarai guarita ne
riparleremo.
- Ma io ho paura che sia morto. Ti prego, informati, fammi sapere qualcosa – e
disse il vero nome di TD perché Meleagro glielo cercasse. Poi Melania si mise a
piangere, ma non forte.
Quando Meleagro uscì dalla stanza altri erano arrivati. Vide una donna enorme mezza
pesta che teneva nella mano, con tutta la delicatezza del mondo, una bomboniera coi
confetti. Vide Arturo Maloni con il polso ingessato. Meleagro gli sorrise ripensando
alla carezza di qualche giorno prima.
- Per un po' la mano non si agiterà – disse Maloni ricambiando il sorriso.
L'ultimo che vide fu un bambino che teneva stretto a sé un bastone ricurvo.
Qualcuno molto stupido da lì a un'ora avrebbe cercato di farglielo buttare.
Arrivato a casa Meleagro bevve un bicchiere d'acqua. Si sedette al computer e mandò
un messaggio a Maddalena. “Ciao. La mamma si è fatta poco male. Chiamala. Ti
vogliamo bene”. Chiuse il computer, andò a prendere la scala alta dallo sgabuzzino,
l'aprì e la pose sotto il lucernario del soggiorno. Salì i gradini, tirò via la cerniera
metallica che controllava il meccanismo e passò attraverso la finestra libera sulle
tegole del tetto. C'era un vento caldo ed un cielo rosso bellissimo. Meleagro a carponi
si avvicinò al bordo, dove c'era la grondaia, e guardò giù.
Passarono istanti lunghissimi, ma infine riuscì a distogliersi dal vuoto.
181
−
Non ero mai venuto sul tetto. Non avevo mai guardato da qui giù nel cortile.
Anche questo può essere considerato come un gesto inutile. L'ultimo. – pensò
Meleagro sedendosi sulle tegole caldissime. L'opera poteva dirsi conclusa.
Era sereno. Guardò in alto certe piccole nuvole viola. Poi diresse lo sguardo verso i
tetti intorno e ci vide. C'era tanta gente sui tetti, uomini donne vecchi bambini, come
se un’onda di piena avesse raggiunto la città e si fosse saliti per aspettare i soccorsi.
Ma si era allegri, ci si sorrideva, si agitavano le mani per salutare, da un tetto all'altro.
Io salutai Meleagro e lui salutò me. Poi vidi che prendeva un frammento di tegola,
talmente piccolo da stargli in una mano. Lo lanciò in alto per poi aspettare che
ricadesse, restituendo il plònf che fanno i sassi quando bucano l’acqua d’un fiume.
182
INDICE
1. roteare il calzino sinistro davanti al proprio volto
p. 3
2. gloglottare sull'argine della lama
p. 7
3. lavarsi i denti con il manico dello spazzolino
p. 15
4. umanità
p. 29
5. inginocchiarsi su uno skateboard e pregare rivolti a Roma
p. 41
6. accendere tre volte di seguito il computer
p. 53
7. scrivere rivoluzione sulla lavagna
p. 64
8. sorprendere una donna con un abbraccio del tutto inopportuno
p. 75
9. umanità
p. 86
10. rubare la palla in un gioco straniero
p. 97
11. scrivere una frase allusiva nella cabina dell'ascensore
p. 111
12. umanità
p. 123
13. toccare le ragazzine senza sfiorarle neppure con un dito
p. 137
14. umanità
p. 145
15. invitare a salire chiunque ne abbia voglia
p. 154
16. umanità (di cui certamente anche Meleagro fa parte)
p. 164
17. estremo ultimo gesto
p. 179
PAOLO GERA,
Via Trento e Trieste 19,
41012 Carpi (MO)
3398108817
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Il Calore Sbagliato