Il Calore Sbagliato di Paolo Gera Casa Editrice Copyleft Cose Einaudite 1 Questa opera è soggetta alla licenza Creative Commons “Attribuzione – non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0” (CC BY-NC-ND 3.0) Copertina copyleft: “Calore sbagliato” di malos mannaja (2012) Per Contatti: Paolo Gera Via Trento e Trieste, 19 41012 Carpi (Mo) 3398108817 [email protected] 2 1. roteare il calzino sinistro davanti al proprio volto Meleagro Barton decise di farlo il 21 di febbraio del 2008, alle ore 23 e 34. Nello stesso istante io afferrai il primo foglietto che mi capitasse a tiro, impugnai la penna ed iniziai a scrivere questo romanzo. Il romanzo sta a segnare la fine di un periodo sconclusionato e l’inizio di una nuova vita. E pensate che questo è il quarantanovesimo che scrivo. Meleagro era stato colto da una fulminante intuizione mentre era steso sul suo confortevole divano e stava osservando il cielo stellato attraverso uno dei lucernari con dispositivo elettrico della sua mansarda. Era buio, le stelle erano lontane e familiari. Sua moglie Melania stava dormendo sola nel letto coniugale. Meleagro aveva lo stesso sorriso di un fumatore d’oppio e sentiva dopo anni il conforto della propria solitudine. Gli conferiva un tepore simile a quello della coperta stesa sul suo corpo del tutto rilassato. Lui a quel punto scostò leggermente il plaid, allungò la mano e si sfilò senza fretta la calza grigia dal piede sinistro. Per farne cosa? Al proposito doveva corrispondere un’azione. L’azione arrivò subito. La lunga striscia di lana-cotone che sino a quel momento aveva contenuto tarso, metatarso, caviglia e polpaccio, iniziò a roteare davanti al suo volto. Non puzzava troppo, anche se ci aveva camminato sopra per tutta la giornata. Era una flebile azione senza senso. Il proposito formulato da Meleagro era quello di compiere per i 48 giorni successivi dei piccoli gesti sconclusionati, uno al giorno senza scuse o remissioni. 48 per 48. Solo allora si sarebbe fermato. Inebetito e felice, avvalorò la sua decisione facendo schioccare la lingua: finalmente un punto fermo nella sintassi zeppa di subordinate della sua esistenza. 3 Il romanzo che sto scrivendo nient’altro è che il resoconto dell’esistenza di Meleagro a cavallo dei suoi quarantotto gesti senza senso. Sono fermamente convinto che il mondo riservi emozioni ben più forti di quelle che può dare la lettura di un libro, quindi il consiglio è di alzare il culo e di andarli a cercare ovunque i vecchi brividi sul vecchio pianeta Terra, prima che le pretese dei suoi milioni di abitanti in fatto di brividi non riducano il pianeta in cenere. Sono fermamente convinto che la vita riservi emozioni ben più forti di quelle che può dare un romanzo, a meno che non ci metta le mani sopra Hollywood, e sono fermamente convinto, come quasi tutti ormai, che la vita sia completamente priva di senso. Dunque fate un po’ voi. Qui c’è un ciclo da completare. I quarantotto gesti sconclusionati, ricordate? Che le emozioni nascondano inevitabilmente grosse seccature mi sentirei anche di segnalarlo. Riguardo al fatto di scrivere un romanzo, questa sì che è una bella avventura, potrebbero pensare in molti. Il problema è renderlo interessante e scriverlo decentemente e queste sono le principali seccature. Io, ad esempio, quando inizio a scrivere, non posso fare a meno di incorrere in fastidiose allitterazioni che rendono il fiato corto alla mia prosa già di per sé abbastanza asmatica. Vi riporto di seguito la definizione del Vocabolario della lingua italiana Garzanti: “ALLITTERAZIONE: procedimento stilistico ricorrente soprattutto in poesia (!) che consiste nella ripetizione di sillabe uguali o simili all’inizio di due o più parole successive ( p.e.: il pietoso pastor pianse al suo pianto, TASSO, G.L., VII, 16). Un editor a cui avevo sottoposto il mio ventiseiesimo romanzo non riusciva a sopportare le mie continue allitterazioni, diceva che lì dovevo correggere, che là dovevo riscrivere…Mah! Penso non avesse il coraggio di suggerirmi di darmi alla poesia, che è l’ippica dell’editoria. Il vizio mi è rimasto, non lo faccio apposta. Andate, per comodità, alla riga 8 di questa pagina:”…seccature mi sentirei anche di segnalarlo”. O se avete voglia di tornare a pag.1, c’è un caso clamoroso di 4 allitterazione incrociata: “…sentiva dopo anni il conforto della propria solitudine. Gli conferiva un tepore simile alla coperta stesa sul suo corpo”. Visto che roba? Probabilmente è un sistema di riecheggiamento interiore che spinge avanti la narrazione coi suoi ritmi balzani. Ma il risultato è questo, inizio a sparare mitragliate di sillabe simili…ecco, anche adesso, maledizione! Se decidete di non fermarvi qui e di andare avanti con la lettura, vi prego quindi di non farci troppo caso. L’altra grande seccatura che si accompagna all’inizio dello scrivere è la paura. Una paura, scusate l’espressione, da cagarsi addosso. Mentre Meleagro Barton è perfettamente rilassato e tutto raccolto in quel morbido stato di stupore che precede il sonno, io inizio ad irrigidirmi e a sbarrare gli occhi, a sudare e a rabbrividire. Se inizio a scrivere è come se dessi il via ad una sinistra baraonda. Come se togliessi il tappo ad uno spumante troppo scosso etichettato col segno dell’orrore. Mi pare che qualcuno si nasconda dietro le porte o negli armadi. Non mi trovo solo in casa, care persone stanno dormendo a pochi metri da me, eppure è come se lo fossi. Se mi alzo e vado in altra stanza trasalgo perché qualcuno mi segue. La luce tremola, i muri si stringono, il soffitto si abbassa. Ciò probabilmente succede perché quando uno inizia a scrivere agita con la mano uno specchio d’acqua che prima era immobile. Rovista nei cassetti, mette sottosopra il mondo. Scruta negli angoli bui. Da quelli mai esplorati si sa bene che cosa possa uscire. Forse una volta iniziare a scrivere era iniziare un rito magico che ti metteva in comunicazione col mondo degli spiriti. Mentre lo annoto mi viene la pelle d’oca. I geroglifici, le rune, l’aleph e la kabbalà, gli scrittori cos’erano? Sciamani, stregoni, sacerdoti, aprivano le porte dell’Inferno, stenografavano i mormorii dei boschi, sbalzavano su pietre i sospiri degli dèi. Ma oggi? Di cosa dovrei avere paura? Siamo diventati ciarlatani, papponi di notizie zozze, venditori postali di viagra e cialis e di ogni altro tiracazzo scadente e scaduto. Volgari gestori di deliranti blog – sentite 5 che parole! – chattatori onanisti…gli adepti di Hermes si sono trasformati in digitatori infoiati di sms bestiali. Mi piaci un Toth! Ed io non ne sono immune, anzi ci sguazzo come ognuno! Un po’ da dilettante e dunque per diletto, un po’ perché non si può sfuggire allo spirito del tempo. Ma chi mi capirà? Per scrivere un romanzo ormai bisogna conoscere alla perfezione questi meccanismi, essere laureati in Scienze della Comunicazione e Marketing Aziendale! Povero rudere che sono! Ecco, ho aperto la valvola, ho dato sfogo al gas, ho schizzato fuori i liquidi maleodoranti. Mi sono agitato, troppo. Ma la mano del medium posseduto e sconvolto è ben ferma e scrive sul foglio lettere precise, frasi ben formate e con un senso preciso, anche se descrivono cose senza senso. Come immobile e tranquillo è lui, Meleagro Barton, sdraiato sul divano confortevole, in un dormiveglia troppo soave per trasformarlo in nero sonno. Sospeso. Le stelle domestiche sopra ed il calzino che si è tolto a penzoloni sulla testa e da lì sino al naso, come l’escrescenza che ai tacchini cade sul becco e non si capisce a cosa serve. Meleagro, prima di addormentarsi, fu molto contento di essersi intacchinito, sereno perché finalmente non più pauroso del Giorno del Ringraziamento prossimo a venire. 6 2. gloglottare sull’argine della lama Nella provincia dell’Impero americano dove viveva Meleagro Barton, da alcuni anni il Giorno del Ringraziamento era segnato in rosso. Per tale occasione si mangiava dappertutto il tacchino al forno così come avevano comandato i coloni fondatori del Mayflower nel lontano 1623. La provincia in cui Meleagro Barton portava avanti la sua tranquilla esistenza si trovava in Europa, quadrante meridionale, in una terra allungata, dicevano, a forma di stivale, in un luogo vicino al corso mediano del suo fiume più lungo ed inquinato. Il tacchino era un volatile autoctono del continente americano, introdotto in Europa da un navigatore che si fregiava della sua scoperta – dell’America, non del tacchino – e che portava guarda caso il nome di un altro volatile, di gran lunga meno venduto nei banchi dei supermarket. La Festa del Ringraziamento (Thanksgodgiving), celebrata dal 1623 in America con tutti gli onori del caso, era stata adottata in Europa dopo che ci aveva attecchito perfettamente quella di Halloween. Era stato un comune esempio di colonizzazione psichica autoindotta. Gli europei non c’entravano un cavolo coi padri pellegrini e coi successivi proclami dei presidenti atti a sancire e a ribadire l’importanza della celebrazione, a cominciare da Washington: “Adesso io raccomando e stabilisco che il 26 novembre sia dedicato dal popolo di questi Stati al servizio di quel grande e glorioso Essere che è l’Autore di tutto il bene che è e sarà, noi possiamo allora unirci nel rendere a Lui i nostri ringraziamenti per la sua gentile premura nei confronti di questo popolo e nazione…”. Già da allora si era formata questa idea per nulla presuntuosa che se Dio doveva scegliere un popolo, ebbene doveva essere quello americano. Sempre nel momento della fondazione di un grande stato bisogna essere sicuri di avere Dio dalla proprio parte. Anche i nazisti mi pare dicessero “Gott mit uns”, “Dio è con noi”. Siete liberi di trarre le conclusioni che volete. Comunque, gli europei non c’entravano un cavolo con il tacchino arrosto e soprattutto con la salsa di 7 ossicocco con il quale andava accompagnato. Allora si pensò bene di sublimare i valori patriottici originari in una più generica Festa dell’Abbondanza che facesse contenti un po’ tutti. L’Impero Americano aveva conquistato il mondo non da un punto di vista militare, ma economico e culturale, per buona educazione non si poteva mica pretendere che la bandiera a stelle e strisce garrisse al vento pure in Europa. L’asta poteva essere la forchetta, il vessillo il boccone di tacchino. Se vuoi dominarli, falli mangiare come te, era il motto. La Festa dell’Abbondanza era perfetta per celebrare i comuni valori di un trionfante capitalismo, che di abbondanza ce n’era in giro come mai se n’era vista. Per il Giorno del Ringraziamento o dell’Abbondanza, che cadeva l’ultimo giorno di novembre, venivano massacrati centinaia di milioni di tacchini. In uno sporadico tentativo di contestazione un esemplare aveva fatto una fine diversa. In Turchia i terroristi islamici lo avevano farcito di esplosivo e lo avevano usato come kamikaze, quello era esploso in un autobus di turisti e aveva fatto una dozzina di vittime umane. Nelle cronache della strage si creò una certa confusione perché in inglese Turchia si dice ‘Turkey’ e nello stesso modo si dice tacchino. Comunque di qua dell’Atlantico e di là del Pacifico le autorità politiche non avevano ancora compreso l’enorme potenziale demagogico della festa. In America invece gli ultimi presidenti succedutisi ordinavano ad uno dei loro addetti di salvare dal massacro un esemplare bello grosso di tacchino e si facevano fotografare con il sopravvissuto al genocidio fra le braccia. Completava il quadro una mezza dozzina di bambinelli che guardavano con ammirazione e simpatia il presidente ed il volatile uniti nel fraterno abbraccio. Il tacchino non sembrava particolarmente felice per averla scampata bella né particolarmente addolorato per la triste sorte toccata ai suoi simili. D’altronde anche ogni uomo che si sveglia al mattino non pare particolarmente felice per aver sottratto l’ennesima giornata all’imprevedibile destino né 8 particolarmente addolorato perché intanto se ne sono andati migliaia di suoi simili. Che tacchini ed umani abbiano più punti in comune di quanto non sembri? Altro momento imprescindibile nelle celebrazioni ufficiali per il Thanksgodgiving era il pranzo a base di tacchino arrosto condito con salsa di ossicocco, che il presidente consumava seduto a tavola con i giovani soldati dell’ Esercito Americano. Quelli che di lì a poco sarebbero partiti per il Vietnam, il Kuwait, l’Afghanistan, L’Iraq. I soldati immortalati nella foto intorno al presidente, i piatti ricolmi di carne fumante, non sembravano particolarmente tristi per la sorte toccata a migliaia di loro compagni o particolarmente addolorati perché quella poteva essere l’ultima salsa di ossicocco in cui intingere l’odoroso e dorato trancio di tacchino. Erano allegri per aver allontanato di un giorno il fronte, la zona di guerra e tutte le altre spiacevoli conseguenze? No, a vederli, in bianco e nero o a colori, sui giornali, in Tv o su Internet, parevano piuttosto serenamente inebetiti. Intacchiniti, ecco, esattamente come Meleagro con il calzino pendente sulla testa, la notte prima del giorno che sto per raccontare. E così abbiamo chiuso tutti i cerchi. Giorno radioso nonostante si fosse alla fine di febbraio. C’era il sole ed un’aria frizzante che portava intorno sentori di primule ed erbe precocemente spuntate. Meleagro era colpito dal sole e l’aria lo sospingeva o lo tratteneva a seconda di quale direzione prendessero le ruote della sua bicicletta. Pedalava con scrupolo. Sembrava dovesse svolgere un compito piuttosto che godersi uno svago. Ed era proprio così. Con una giacca a vento verde e pantaloni sportivi Meleagro batteva i sentieri sterrati o le strade dall’asfalto sconnesso nella campagna di Sozzigalli. Che cosa distingueva nella zona la campagna dalla periferia? Il diradarsi della conurbazione e del traffico, anche se accanto ai campi e a cascine disabitate su cui stava scritto “edificio pericolante”, stavano sorgendo in fretta capannoni industriali e villette cinte da siepi alte tre metri. Il toponimo Sozzigalli non alludeva né al piumaggio sporco né alle abitudini licenziose dei pollastri lì residenti. Meleagro che per gioco americanizzava 9 le parole, quando passò di fianco al cartello tradusse “Dirtycocks”, trasformando la sozzura dei pennuti in quella ben più deplorevole di organi genitali maschili. Ma anche questo involontario tentativo non si avvicinava all’etimologia originale. Sozzigalli derivava in effetti da “Socii Galli”, perché lì una volta, diciamo più di duemila anni prima, passava un confine fra i possedimenti dello stato romano e quelli di altri popoli meno espansionisti a cui era convenuto diventare alleati, amici, soci di Roma. I Galli. Era la prima faticosa tappa della costruzione di un Impero vastissimo che avrebbe unificato territori lontanissimi fra loro e a tutti avrebbe dato una lingua e feste comuni. L’Impero Romano fu fondato da Ottaviano Augusto negli anni a cavallo della nascita di Cristo e crollò con le deposizione di Romolo Augustolo da parte del barbaro Odoacre nel 453 d.C. Ogni impero sorge, si rafforza, raggiunge un punto di massimo splendore, decade, muore. Ad ogni impero, chissà perché, ne succede un altro. A parte quest’ultimo che avendo conquistato tutto quello che c’era da conquistare, porterà nella sua inevitabile e vicinissima fine l’intero pianeta Terra. Anche in questo romanzo – siete avvisati – completato il ciclo dei 48 gesti inutili si arriverà alla fine e la fine coinciderà con la catastrofe, evitabilissima, ma per stupidità e paura non evitata. Meleagro, pedalando, non poteva prevedere e dunque non si inquietava. Gli faceva piacere pensare, nello svolgere il suo compito quotidiano, che la periferia fosse campagna e trasfigurava ogni misero filare di pioppi, immaginando foreste del Kentucky e dell’Arkansas. Là, al centro dell’Impero Americano, vivevano allo stato brado gruppi numerosi di tacchini. Si spostavano liberi fra gli alberi, becchettavano la terra, lanciavano il tipico verso che viene chiamato gloglottìo. Alla loro guida c’era un vecchio maschio che dava il segnale di arresto di fronte ad un ostacolo e quello di incitamento per superarlo. Se dovevano affrontare la traversata di un fiume, i tacchini riuniti si ponevano sul punto più alto della riva e rimanevano anche intere giornate a scrutare l’acqua là sotto. L’unico modo era muovere rapidamente le corte ali sperando 10 di staccarsi da terra e di essere sostenuti dal cielo in quella manciata di secondi necessari per arrivare sino all’altra sponda. Non era facile. E Meleagro a questa nuova similitudine fra tacchini ed umani, ovvero ai loro inani sforzi per compiere un balzo, ci pensava mentre con la bici saliva il corto pendio che l’avrebbe portato all’argine del canale. Meleagro arrivato di sopra si mise a guardare. La lama era vuota, sul fondo giacevano rami contorti, ferrami arrugginiti e rimasti di acqua imputridita. Eppure di lì a qualche mese il canale si sarebbe riempito e i pescatori sarebbero saliti sull’argine guardando l’acqua e non immaginando il fondo. Meleagro non riusciva a capire quali pesci avrebbero potuto abboccare. Vicino c’erano i tralicci dell’alta tensione e i cartelli che segnalavano il pericolo di morte. Altri cartelli con il teschio erano infissi nella terra dell’argine, avvisi ai pescatori di stare attenti a non andare a toccare con le lunghe canne al carbonio i fili più bassi se non volevano rimanere folgorati. Come bastava un particolare per cambiare tinta allo scenario! Ora Meleagro i pescatori se li vedeva arditi, temerari e vigili, terribilmente vigili, che bastava un attimo di appannamento, un breve sogno ad occhi aperti e al lancio successivo si sarebbe abbattuto su di loro il fulmine risolutore. E là sotto, i pesci dovevano essere per forza torpedini! Alzando gli occhi dalla lama prosciugata la realtà fu più forte delle fantasie. Meleagro vide sull’altra riva una donna biondissima china fra la sterpaglia. Anche la donna tirò su la testa e XX e XY incontrandosi a metà via, più o meno al centro della lama, ebbero la loro brava piccola scossa. Soli nella natura, femmina contro maschio, nudi e crudi. Tutti e due avevano un bisogno disperato di fare l’amore, ma in un attimo le convenzioni ebbero la meglio e neppure si scambiarono un saluto o un cenno. Meleagro si girò subito da un’altra parte, la donna fissò ancora per qualche secondo il lato posteriore dell’uomo, che era abbondante, poi riabbassò la testa e continuò a cercare. Meleagro provava a non sentirla più, impreparato a qualunque tipo di sfida che non fosse quella di pedalare. 11 A scanso di equivoci, diciamo subito che tra la misteriosa donna bionda e il protagonista del mio romanzo finisce qui. Non ci sarà avventura né amore, Meleagro crederà di vederla solo un’altra volta, in mezzo alla folla, in circostanze tutt’altro che piacevoli. Ma così voltato , anche se faceva l’indifferente, gli erano rimaste due curiosità: cosa stesse cercando la donna accovacciata e come potessero essere così chiari i suoi capelli. La donna che cercava aveva come nome Irena Briezinski e i capelli così chiari non erano tinti, dalle sue parti nessuno si stupiva per quel colore. La provincia dell’Impero in cui Irena era nata e portava avanti a turni alterni la sua non tanto tranquilla esistenza, si trovava in Europa, quadrante centro orientale, una nazione che si allargava a forma di uovo fritto chiamata Polonia, alle pendici di basse verdi montagne che si chiamavano Carpazi. Irena veniva prelevata sei volte l’anno e traversando frontiere che non lo erano più, arrivava alla città di destinazione, la stessa dove viveva Meleagro Barton. La terra di origine di Irena era profondamente cattolica, la città in cui arrivava sei volte l’anno per metà lo era e per metà no, ma la metà che lo era vedeva nella Chiesa romana il fondamento più solido, allo stesso modo di Irena e dei suoi connazionali. Questo era bastato a procurarle un contatto e a farle ottenere un lavoro temporaneo quanto mai necessario. Il marito e il figlio più grande di Irena avevano lavorato in una grande fabbrica aeronautica. La fabbrica che era del tutto nazionalizzata dopo il crollo dei regimi comunisti non aveva più ricevuto sovvenzioni statali ed era stata costretta a chiudere. Il marito di Irena andava a tagliare legna in Norvegia, il figlio svolgeva lavori occasionali, ma a mantenere la famiglia di cui erano parte integrante altri quattro figli dai sei ai diciassette anni, era Irena che faceva la spola fra Polonia ed Italia. Irena svolgeva – non ci credereste – la mansione di badante. La persona a cui doveva badare era tale Artemide Fonzarelli, anziana signora di 87 anni costretta in carrozzella dopo una vita di fatica e dedizione ad un’unica grande opera. Artemide Fonzarelli era la patriarca di una famiglia di 12 ristoratori che gestiva una storica osteria della campagna o periferia. Da quelle parti era doveroso trovare sul tavolo un boccettino di aceto balsamico, dolce e vellutato, doti che non aveva mai avuto Artemide, che anzi in vecchiaia si era ulteriormente inasprita. L’osteria era specializzata in piatti a base di erbe e se ai figli saltava per un’ora di spingere la carrozzella, in genere prima di delicate questioni contabili, Irena veniva spedita nei prati lì intorno a cercare erbe commestibili. Irena conosceva bene le erbe, anche se doveva tradurne l’appellativo italiano nella sua lingua. Irena dunque non cercava in quei frangenti fra la sterpaglia pegni d’amore perduti, un anello, una collanina, ma una pianticella perenne che cresceva spontanea lungo i corsi d’acqua e le paludi, la valeriana, ottima per le insalate e per l’insonnia. Tutti ora hanno chiarito i propri dubbi su Irena. Il paradosso è che l’unico che non ne saprà mai niente è proprio Meleagro, perché si ostinò a rimanere voltato, a non guardare, a non chiedere. E i dubbi nella labile mente del protagonista avevano già lasciato spazio a due nuove esigenze da soddisfare in fretta: il bisogno urgente di urinare, l’ispirazione che lo aveva colto riguardo al secondo gesto sconclusionato. L’una e l’altra cosa avrebbe potuto farle lì, se non ci fosse stata Irena Briezinski ad ostacolare i suoi propositi. Nell’uno come nell’altro caso la donna ne sarebbe uscita scossa. Nel primo lo avrebbe preso per maniaco esibizionista, nel secondo per pazzo scatenato. Meleagro discese allora l’argine, inforcò la bici e decise di fare ancora un pezzo di strada alla ricerca di un posto appartato e di un buon palcoscenico. Lo sterrato si univa presto all’asfalto di una strada comunale e lì erano dolori. Il fondo stradale era sconnesso e ad ogni buca la vescica gonfia sobbalzava come una borsa della Coop piena di involucri e bottigliette. La schiena invece non andava tanto male. Meleagro resistette giusto qualche centinaio di metri, poi dovette rientrare verso il canale, questa volta dalla parte dove aveva scorto la bionda. Risalì sull’argine dove non c’era molta copertura, ma molta solitudine sì. Della donna nessuna traccia. C’era un alberello invece, sostenuto da una piramide di assi e Meleagro decise di farla lì. Se si sbrigava 13 e regolava il getto al massimo, nessuno lo avrebbe visto. E finito di pisciare, incitato da un profondo respiro di soddisfazione che gli era risalito dai precordi, Meleagro ritrovò la contentezza insensata della notte prima. Si voltò verso la lama che immaginò larga d’acqua e impetuosa, un Po, anzi un Mississipi, tirò su bene il collo e si fece salire dalla gola un potente gloglottio che riecheggiò nella campagna o periferia intorno, come un vecchio tacchino pronto per spiccare il volo. Là in fondo contro il cielo rosso si distingueva il profilo netto della città e per un attimo la vista della cupola ottogonale del duomo con i campanili intorno cancellò la percezione della tangenziale, delle officine e dei capannoni industriali. Sembrò come ognuno si sogna una città, come sorgesse dal deserto, come un cuore che non abbia bisogno per sussistere della seccatura di una circolazione sanguigna. 14 3. lavarsi i denti con il manico dello spazzolino - La macchina a… - La macchina a… - La macchina a va… - A vapore. La macchina a vapore. - Bene. E quando fu inventata, la macchina a vapore? Di fronte a sé aveva uno sguardo preindustriale. Meleagro riprese. - Fu inventata nel millese… - Milleseicento. - Segui me, Gosht. Non prendere iniziative. Dai che ti voglio aiutare, Gosht. Nel millesettecento… - Nel millesettecento. - Ehm, qualcosina la devi aggiungere tu. Belli, però, gli occhi. Con il bulbo bianchissimo e l’iride colore del materiale di cui avrebbe chiesto di lì a poco. Nera, dunque, ma così lucente che davvero sembrava la somma di tutti i colori. E tra gli occhi terminava la linea drittissima del naso. E sotto il naso una peluria leggera, precosmesi e prepubblicità. E le labbra sottili che non riuscivano proprio più ad aprirsi. Meleagro completò da sé la risposta. - Nel millesettecentocinquanta. - ….anta. - Eppure, al di là della scuola, queste sono le cose che dovresti sapere – pensava Meleagro – Questa, Gosht, è l’origine di tutto, anche di questo istante, di come cioè tu ti possa trovare in un paese lontano dal tuo di fronte ad un maestro che parla una lingua diversa dalla tua e non porta una lunga tunica che gli arriva ai piedi. Dietro di lui altre due giocavano a tris sulla lavagna e lo disturbavano. Servì a farlo uscire dallo spaesamento, le sgridò e ordinò loro di tornare a posto. Riprese con 15 quella che stava interrogando. Domande semplici, nozionistiche per necessità, il vocabolario di Gosht era limitato. - Mmmhh, ti ricordi il nome dell’inventore, per caso? Le labbra ora leggermente aperte, subito pronte a soffiarlo fuori quel nome, se la memoria riusciva a suggerirlo. - Abbiamo anche detto che è scritto sulle lampadine. In inglese si dice in un modo, italianizzato è Va… - Va… - Vat. - Vat. Meleagro scivolò consapevolmente nel divertimento. Davanti a lui nel mercato dei banchi tutte sembravano allegre e alcune persino ridevano. Perché lui no? - Vatte… - Vatte. - No. Vattela… - Vattela. - Vat-te-la-pe-sca. No, dai. Era giusto Vat o Watt, stavo scherzando un po’. Gosht lo guardò sgomenta. Poi sorrise. Era da due anni in Italia. Il suo paese si trovava in Asia, quadrante centrale, monti altissimi e un fiume dinnanzi al quale si era fermato l’imperatore Alessandro, popolazione per la grandissima parte mussulmana. Gosht arrivava dal Pakistan. - Mi sai dire da quale materiale è alimentata la macchina a vapore? - Cosa è alimentata? - Che cosa mettevano dentro la macchina a vapore per farla an-da-re – disse Meleagro gesticolando come avesse tra le mani una pala. Gli occhi di Gosht si illuminarono. Meleagro immaginò che gli cadessero fra le mani, che gliele scottassero. 16 - Carbone! – disse trionfante Gosht. - Sì, sì! Brava! – urlò Meleagro battendo un pugno sulla cattedra. Tutta la classe ammutolì e lo guardò in stato di allarme. La sua classe. Il suo mostro sempre uguale e sempre diverso, la sua Idra le cui teste rispuntavano ogni mattina. sgominato da Eracle in una delle sue dodici fatiche. Possedeva un numero imprecisato di teste, chi diceva sei, chi diceva cento. Qualcuno affermava che fossero umane. Meleagro era propenso a crederlo. La sua Idra di teste ne aveva diciannove, pericolose e stronzissime. Ma a volte invece pensava che quelle ragazze così precocemente consumistiche e fondamentalmente annoiate, fossero solo una cucciolata, vivace sì, ma anche molto impaurita. Dipendeva dai giorni, da come si svegliava lui e da come si svegliava l’Idra. Lui quella mattina si era svegliato così: si era messo bene di fianco, aveva fatto uscire dal bordo del materasso prima le gambe e poi aveva tirato su molto lentamente il resto del corpo. La correttezza di questa delicata operazione gli era stata spiegata qualche settimana prima dalla fisioterapista Susanna Ford. La fisioterapista Susanna Ford dalla lunga coda bionda e dagli occhi azzurri spesso sgranati, insegnava ginnastica posturale a chi come Meleagro aveva problemi alla schiena. A tutti, mentre correva freneticamente da un paziente all’altro, suggeriva movimenti lenti per non riacutizzare il dolore lombare. Meleagro quindi si era alzato lentamente anche quella mattina. Come lui fecero altre dodici persone istruite da Susanna nelle tecniche del risveglio. Una donna di 53 anni, Suzi D’Angelo, se ne dimenticò perché corse in fretta a rispondere al telefono di casa, per non far svegliare la vecchia madre malata. Sentì una lancinante fitta alla schiena. Un uomo di 76 anni, Corrado Flanneri , non poté attenersi alle direttive di Susanna Ford perché nel frattempo era morto. Meleagro aveva dato una sbirciatina alla moglie Melania che dormiva ancora nella sua parte di letto. Aveva avuto una mezza erezione e gli era venuta una mezza intenzione di saltarle addosso, ma se ne era subito dimenticato. Era passato alla zona17 giorno senza avvertire contrazioni alla colonna ed alle costole, ma traballando un po’ e con un leggero senso di nausea. Si era dato una grattatina ai testicoli ed aveva accennato a qualche mossa di Qi Kung per riattivare i centri energetici. Il Qi Kung era un’antica arte marziale cinese praticata all’aperto da milioni di cinesi in genere anziani. I giovani cinesi giudicavano queste pratiche come testimonianza di rincoglionimento e correvano in fretta al lavoro. Invece i vecchi di Pechino o Canton ogni mattina controllavano il respiro e muovevano gli arti in perfetta armonia e lo facevano ovviamente per tenersi in forma. Meleagro aveva rinunciato quasi subito alla forma, era andato in bagno e non gli era piaciuto vedersi. Mentre stava pisciando, aveva deciso di lavarsi subito i denti, anche se non aveva ancora preso il caffè. Aveva afferrato lo spazzolino dalla parte delle setole, si era reso benissimo conto dell’errore, ma siccome si era svegliato storto, nonostante le tecniche di Susanna Ford, aveva deciso di spalmare la pasta dentifricia e di strofinare così zanne e gengive. Alla fine aveva sputato schiuma, saliva e sangue, ma rialzandosi si era fatto una bella risata perché avrebbe potuto considerare quello come gesto assurdo della giornata. Subito in apertura, fantastico! Le diciannove teste dell’Idra si erano svegliate chi con uno sbadiglio sommesso, chi spalancando le mandibole al limite dello slogamento, pronte a farlo diventare subito morso. Il compimento perfetto, là dove tutte le teste si accordavano in una brutale e devastante armonia, avveniva in aula dove quel bisogno disperato di avventarsi e mangiare si realizzava in aperte aggressioni alle compagne vicine e lontane, all’insegnante di turno che rompeva le palle, alle pizzette nascoste sotto il banco e dilaniate come brandelli di carne. Quel giorno la lotta fra Meleagro e l’Idra si era rivelata faticosa e violenta – urla, minacce, registri roteanti – sino a quando aveva chiamato Gosht alla cattedra per l’Interrogazione di Storia. A quel punto aveva lasciato libero sfogo alla fame bulimica e aveva deciso di andare avanti con la pakistana nonostante il casino. Tanto mancava 18 sì e no un quarto d’ora alla fine. Quando suonò la campanella Meleagro richiuse il registro dei voti senza neppure pronunciare un verdetto e lasciando lì la ragazza dubbiosa sul fatto di essersela cavata o no. Era allo stremo, volle uscire per primo dalla porta, soppiantare il fiato pesante dell’Idra, correre verso l’aria leggera. Gosht, che di nome faceva Aisha tornò a posto mentre le altre si precipitavano fuori. Lei e l’amica Sanim, che la stava aspettando, sistemarono gli zaini ed uscirono da scuola. Avevano tuniche scure e sotto portavano pantaloni sgargianti. Aisha aveva i capelli raccolti in una treccia, Sanim li nascondeva sì e no con un velo leggero. Potevano vestire all’occidentale od onorare la tradizione, le famiglie di appartenenza le lasciavano scegliere. – Ci sentiamo a disagio con jeans e magliette – rispondevano Aisha e Sanim – Ci siamo sempre vestite così, fin da bambine. Anche questo è un esempio di colonizzazione psichica autoindotta. Le due ragazze affrettarono il passo perché dovevano prendere il bus. Il bus giallo le avrebbe portate in mezzora, minuto più minuto meno, alla loro cittadina di residenza che si chiamava Novellara. Novellara aveva una rocca rinascimentale ben conservata, la tomba di Augusto Daoglio, cantante della famosa band “I Nomadi”, una moschea ed un tempio sikh. Novellara era gemellata con una cittadina dai due nomi , Nevè Shalom – Waahat as Salam, un villaggio di duecento abitanti fra Tel Aviv e Gerusalemme dove convivevano pacificamente e lavoravano insieme israeliani e palestinesi. Il significato dei due nomi era “oasi di pace”. Le famiglie di Aisha e Sanim pregavano alla moschea, quella di Aisha, un'indiana che aveva lo stesso nome della pakistana ed era sua compagna di classe, andava al tempio sikh. Tutte e tre le famiglie provenivano dal Punjab, sulla quale passava il confine fra Pakistan e India. Da una parte i mussulmani, dall'altra i sikh. La religione sikh prevedeva che tutti i suoi adepti portassero come cognome Singh. Sanim e Aisha Gosht salirono sul bus e si sedettero davanti, Aisha Singh, che aveva scelto come secondo nome Lucy, si era seduta dietro con i suoi jeans e la sua felpa. 19 La sikh e le mussulmane erano parte integrante dell’Idra sorvegliata da Meleagro, ma non erano amiche e non si erano mai salutate in vita loro. Novellara stava producendo sforzi notevoli per diventare a sua volta “oasi di pace”, ma la strada da compiere era ancora lunga. Un intero Impero stava remando contro. O forse semplicemente le ragazzine pakistane stavano antipatiche a quella indiana e viceversa, cosa c’entravano le radici culturali e l’ideologia. Il bus partì carico di confusione ed incrociò la bicicletta carica di stanchezza di Meleagro. Le alunne e l’insegnante non si scorsero e non si pensarono. Per tutto il pomeriggio e la sera la scuola non sarebbe più esistita. Meleagro tornando a casa valutava il tempo. Non faceva freddo e il cielo era di un bianco lattiginoso, di assenza o di attesa. Erano state messe lungo la strada le bacheche metalliche per i manifesti delle vicine elezioni, i riquadri d’acciaio tutti coperti di strati biancastri. Sopra e sotto si somigliavano e non c’era da stare allegri. Sospensione. Ma tra poco a casa avrebbe ritrovato le sue abitudini, un piatto già pronto o da riscaldare davanti a cui comunque avrebbe sciolto le tensioni, riacquistando tono e il pomeriggio se non pioveva avrebbe ripreso a pedalare. Lungo i viali irritazione per i ragazzini che facevano schiera e non lo lasciavano passare, irritazione per le auto che non si fermavano alle strisce pedonali, irritazione per il suo stesso incerto statuto, quello del ciclista che non ha i vantaggi né del pedone né dell’automobilista. Prima di lasciarsi andare sfinito sul divano del soggiorno, avrebbe anche dovuto compiere svariate operazioni ispirate dai principi fondamentali dell’Impero Americano. Safety, la Sicurezza. Capillarmente si diffondeva dai massimi sistemi militari sino all’ultimo monolocale. Ecco che arrivava davanti al cancello del condominio. Il cancello era ben chiuso. Cercava la chiavetta nel mazzo, la infilava nel dispositivo elettrico che ne consentiva l’apertura. La chiavetta che aveva scelto non girava. Ne provava una seconda che questa volta andava. L’anta destra del cancello si apriva piano piano. Vedeva che la cassetta delle lettere conteneva varie 20 buste. La corrispondenza non era lasciata libera in un contenitore non sigillato. Muovendo la chiave più piccola faceva alzare la barra che teneva chiusa la cassetta. Lasciava andare la bici, infilava la mano e prendeva le buste. La bici cadeva a terra. La tirava su e l’appoggiava alla parte di cancello che non si apriva. Facendo girare in senso opposto la chiavetta richiudeva la cassetta delle lettere. Fatica inutile: pubblicità. Entrava con la bicicletta e cercava di infilare la ruota anteriore nell’unico spazio libero della rastrelliera condominiale. Si abbassava. Le biciclette non si potevano lasciare sciolte se no le rubavano, infilava la catena antifurto attraverso i raggi della ruota ed il supporto metallico. Faceva scattare il lucchetto e toglieva la chiavetta che infilava in tasca. Sceglieva la chiave che gli permetteva l’apertura manuale della porta di vetro che conduceva alla sua ala di palazzo. La porta andava richiusa per impedire agli zingari che avessero abilmente superato l’ostacolo del cancello di entrare negli appartamenti. Inseriva il codice personale sulla pulsantiera per la chiamata dell’ascensore al piano. Saliva e pigiava il tasto con il numero quattro. Usciva sul pianerottolo direttamente di fronte alla porta blindata del suo appartamento. La porta era chiusa in alto e in basso. Le porte degli appartamenti non erano mai lasciate accostate, neppure se il postino ti chiamava dabbasso per una firma. Infilava la chiave col disco giallo nella serratura superiore e la faceva scattare. Infilava la chiave lunga e dentata nella serratura inferiore ed esauriva tutti i giri che erano stati dati. Girava il pomello di ottone. Entrava in casa. Per entrarvi, per entrare nella sua piccola casa, per poter accedere al suo spazio privato aveva dovuto compiere sei o sette manovre. Sei o sette sbarramenti aveva dovuto superare per colmare i dieci-quindici metri che separavano il livello della strada dalla sua sicurissima mansarda. Sei o sette minuti aveva impiegato per poter lasciarsi alle spalle tutti i fastidi e farsi accogliere dagli spazi e dagli oggetti a lui familiari. 21 Esausto, senza più voglia di leggere niente, lesse il biglietto lasciato da sua moglie Melania Carson: “Ho preso del pollo arrosto. Fallo scaldare in forno, ma anche così è buono. Insalata in frigo. Io vado al Sert. A stasera”. Meleagro tirò a sé il pollo e con una coscetta in mano gli prese la nostalgia di un tempo infantile , di case con le porte aperte, di bambini che correvano a frotte senza che per vedersi ci fosse la necessità di un compleanno o di una festa di classe. Ora con gli amichetti bisognava fissare appuntamenti per telefono, scorrendo gli impegni sull’agenda – danza, nuoto, chitarra, rientri a scuola – neanche si fosse il dentista e non padri e madri. Meleagro lo sapeva bene, perché così era andata sino a qualche anno prima con la sua unica figlia, figlia a cui pensava intensamente, visto che si ritrovava a mangiare solo come un cane. I bambini, comunque, non li si poteva lasciar andare in giro da soli. Anche lì si trattava di un problema di sicurezza. In giro c’erano gli zingari, gli esibizionisti, i vecchi sporcaccioni, i pedofili e i drogati. Sì, i drogati, perchè quelli che volevano disintossicarsi si presentavano al Sert, dove quel giorno era andata anche la moglie Melania, ma gli altri, eh? Quelli con la siringa in mano o che penzolava dal braccio dopo il buco, non brancolavano dove avrebbero potuto trovarsi anche i bambini, nei parchi, ad esempio? I tossici dovevano recarsi al Sert, tutti erano d’accordo su questo, non girare per i parchi dove giocavano i bambini, al Sert trovavano assistenza medica e cure farmacologiche, al Sert non erano più sporchi drogati che rovinavano la vita a se stessi e ai propri famigliari, ma diventavano TD. I drogati erano tutti uguali per eccesso, i TD lo erano per difetto. Se le vite erano sporche, le sigle erano pulite. Dei drogati si sapeva vita, miracoli e soprattutto morte, i TD erano anonimi. TD era una sigla di riferimento per Melania Carson, moglie di Meleagro Barton, quando si recava al Sert. Meleagro stava pensando alla moglie con le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. La moglie aveva avviato il riscaldamento nonostante la giornata fosse già primaverile e per tutto l’appartamento si era diffuso il calore sbagliato. Meleagro 22 andò alla caldaia e bestemmiando fece scattare il termoregolatore sino allo zero. Quindi in ogni stanza aprì le finestre ed i lucernari in modo che si ristabilisse un equilibrio termico fra l’interno e l’esterno. Da fuori entrò un vento caldo che lo colpì sul viso, gli fece trattenere il respiro e socchiudere gli occhi. L’aria africana aveva svegliato il cielo, strappandogli da sopra quelle lenzuola biancastre. Sino all’orizzonte era tutta una danza azzurra. Meleagro lavava i piatti con la corrente che entrava da tutte le parti, gli gonfiava la camicia come una vela, gli solleticava la nuca e se fosse stato nudo chissà che cosa. Con i rumori che il vento faceva sul tetto pareva proprio di essere al mare, su qualche molo oppure sempre a lavare i piatti, ma nel campeggio “Scirocco”, con la pineta a due passi dalla spiaggia. Si asciugò le mani ed uscì in un leggero stato ipnotico, dimenticando persino di chiudere a doppia mandata la porta di casa. L’intacchinimento lo stava portando ancora una volta verso la bici, ma quell’incanto di tempo azzurro e caldo che si percepiva anche in cortile, lo spinse a salire sul sellino con contentezza e a dare il primo colpo di pedale con giovanile entusiasmo. Incrociò il signor Arturo Maloni e lo salutò con trasporto, staccando la mano dal manubrio ed agitandola come una banderuola. Il signor Maloni, che era l’anziano capo condomino, gli restituì un frettoloso buongiorno a denti stretti. Non apprezzava tutto quel calore fuori luogo. Arturo Maloni durante la seconda guerra mondiale era un ragazzino sfollato . Gli aerei anglo-americani sganciavano confetti esplosivi per preparare il terreno alla successiva elargizione di chewing-gum e calze di nylon. Il ragazzino impaurito si era rifugiato in un condotto che perforava la collina. Dopo il bombardamento tutti erano usciti fuori dai nascondigli, Arturo Maloni no. Che fosse rimasto incastrato nel buco o che fosse traumatizzato per le esplosioni, Arturo Maloni non dava alcun segno di sé. La voce non gli usciva o non si sentiva, altro modo per far capire che era vivo non c’era. Molti pensarono che una bomba l’avesse centrato in pieno e che lui si fosse 23 dissolto nell’aria. Passò qualche giorno senza che dal cielo si predisponessero ulteriori pianificazioni economiche. Un cagnolino allegro e smagrito s’infilò nel condotto e riconobbe la presenza umana. C’era un forte odore di urina, questo è chiaro. Il cane iniziò ad abbaiare e Arturo Maloni uscito dalla catalessi iniziò ad urlare. Accorsero in molti, in molti chiesero:- Riesci a muoverti? – e Maloni: - Ho paura di no. In molti dissero: - Dai, vieni fuori, la guerra è finita – e Maloni: - No ho paura di… Il problema era che il condotto collegava una lama piena d’acqua ad un altro canale che doveva essere riempito. Passò un altro giorno. I contadini insistevano. Non si sapeva se il corpo del ragazzo potesse ostruire a mo’ di tappo il passaggio o se l’acqua arrivando potesse annegarlo. Male in tutti e due i casi. Allora per risolvere il problema dell’acqua si pensò al fuoco. Il tubo era lungo una decina di metri. Incendiarono un groviglio di sterpi e con una pertica lo spinsero verso il centro del condotto dove si trovava quell’asino di Maloni. Comunque alle prime urla si sarebbe potuto pompare dentro un po’ d’acqua per spegnere l’incendio. Non ce ne fu bisogno. Sentendo le fiamme bruciarlo Maloni schizzò fuori dal buco veloce come una lepre. Un po’ lo abbracciarono, un po’, con la scusa di spegnergli il fuoco addosso, lo estinsero a scappellotti. Da quel giorno il signor Arturo Maloni vedeva la vita attraverso il diametro di un tubo e pensava che le manifestazioni di calore nei suoi confronti fossero del tutto fuori luogo. L’ultima cosa che Meleagro vide del signor Maloni prima di uscire dal cancello fu il suo berretto con la visiera. Meleagro che non si considerava di una certa età e che in effetti non lo era, non portava berretti da baseball. D’inverno usava passamontagna di lana, nella bella stagione lasciava al sole e al vento i capelli neri e ricci e la chierica che si era formata al centro della zucca. Pedalò, poi si fermò a togliere la giacca, pedalò ancora e decise di liberarsi pure del maglione. Il caldo era veramente esagerato. Passò accanto ad un segnalatore posto su un negozio che dava la temperatura coi cristalli liquidi. Segnava 26 gradi. Ed era il 24 due di marzo. Ora che era fuori città, dalle parti di Gargallo, vedeva nugoli di margherite ai margini dei fossi e la loro crescita pareva così irresistibile da sentirlo addirittura, il rumore dello sboccio. Il sole schioccava la frusta e – oplà – loro in un attimo si alzavano in piedi. Le auto che gli passavano accanto avevano i finestrini abbassati e i gomiti fuori. Non si capiva se tutto quel calore fuori stagione fosse una benedizione oppure una disgrazia. Si era in quegli anni che in ogni angolo dell’Impero si compilavano statistiche sui dati del surriscaldamento atmosferico. Anche Meleagro non capiva se gli piacesse o no. E’ risaputo che il bel tempo stimoli le endorfine, le sostanze chimiche che danno il buonumore, per ogni uomo era così e dunque anche per Meleagro. Ma il vento stava diventando molto forte e faticava a pedalare e poi era caldo, caldissimo, un ghibli del deserto che lo faceva sudare e gli attaccava la maglietta della salute alla pelle del dorso. Sbuffando si fermò di fronte a una fattoria e quando riprese fiato si divertì a vedere come il vento scompigliasse il piumaggio di una comitiva di oche che procedeva imperterrita per l’aia. Fu a quel punto che Meleagro sentì il lamento e subito dopo, come era accaduto ad Arturo Maloni sessant’anni prima, vide sotto il manto dell’erba la buia apertura del condotto. Il capo condomino non aveva mai raccontato a Meleagro della sua disavventura bellica e quindi non pensò affatto avvicinandosi che quello poteva essere il tubo in cui si era infilato da ragazzino lo sfortunato Maloni. Si avvicinò perché dal centro del tubo gli pareva provenisse un insistito lamento e non poté fare a meno di pensare che vi fosse rimasto incastrato un innocente. La Tv riferiva sempre di poveri bambini che per giochi innocenti o crudeltà umana finivano in pozzi profondi o contorti cunicoli. Meleagro si mise in ginocchio e tese l’orecchio verso l’oscurità. Ancora quel verso disumano, straziante. Allora non ci pensò su nemmeno un attimo. Dimenticò la lombalgia, dimenticò la separazione dalla figlia, dimenticò il rapporto complicato con la moglie, dimenticò la ricerca del senso della vita su cui si stava applicando ormai da vari mesi. L’emergenza stava mettendo a posto ogni cosa e rispondeva ad ogni 25 domanda. Qualcuno stava soffrendo e lui doveva portare aiuto al più presto. Tutto lì. Si mise sul fianco e strisciando come un verme introdusse il capo e le spalle nel buco. Per il testone non ci furono problemi, ma le spalle dovette stringerle a modo. Era un pezzo dentro ed uno fuori. Là dentro c’era buio e puzza di putrido. Il lamento sembrava avvicinarsi o forse era stato Meleagro a ridurre le distanze. A questo punto occorre una precisazione. Non provate a pensare che Meleagro fosse un eroe. Meleagro innanzitutto non esiste, è una semplice finzione letteraria, un filo neppure troppo logico che serve allo scrittore per far procedere una storia sconclusionata, un sughero galleggiante che ogni tanto riaffiora dalle acque troppo basse del racconto. Smettiamola di proiettare le nostre aspirazioni sui personaggi dei romanzi o sui concorrenti dei reality. Nella realtà non esistono, sono figure bidimensionali. Basta che uno si affacci dalle pagine del libro o dal video della Tv per riscuotere la fede indiscussa di ogni persona. Gli si crede ciecamente, si pende dalle sue labbra, i suoi gesti ci inchiodano alla poltrona. Il protagonista è l’eroe trascinatore, infatti “protagonista” significa “Il primo che combatte”. Avete presente Achille? Un tempo quando gli uomini erano piccoli piccoli l’ipertrofia dell’ego era affidata agli eroi ed alle loro immani imprese. Ora che ognuno di noi ha un ego spropositato, proiettiamo il nostro interesse anche sugli esseri più vili e sulle loro scorregge. Una volta erano guerre selvagge e peripezie intorno al mondo, ora può essere anche una casa, una stanza, la noia del giorno e della notte. Combatti tu dunque per me, porta avanti tu l’inesausta fatica della ripetizione quotidiana. Noi ci riconosciamo in te, ti affidiamo il fazzoletto come faceva la dama medievale al proprio campione di torneo. Combatti e vinci per noi. Mostraci tutti i tuoi difetti in modo che possiamo riconoscerci in loro, sobbalzeremo ad ogni tuo sospiro e ti saremo grati se riporterai la più stupida delle vittorie. Ebbene, io vi dico di non fare il tifo per Meleagro. E’ fatica sprecata. Meleagro ha il nome di un ‘protagonista’, ma lui non lo è. Nel tempo lontanissimo del mito 26 esistevano gli eroi e Meleagro era uno di quelli. Meleagro allora uccideva giganteschi cinghiali divini e ingaggiava lotte all’ultimo sangue con popoli interi che pretendevano di mettere le mani su quelle magiche spoglie. Era invulnerabile. Il suo destino era legato però ad un tizzone che ardeva nel focolare. Se si fosse ridotto in cenere anche la vita di Meleagro si sarebbe estinta. Come fare? La madre Altea spense il legno e conservò il simulacro in uno scrigno, sino a che Meleagro le uccise i fratelli e lei per la rabbia non ributtò il tizzone nel fuoco. Bruciò completamente e Meleagro cadde a terra senza un lamento. Dunque, se volete pensare a qualcosa, pensate alla brevità della vita, ai capricci del destino piuttosto che alla statura sempre inappropriata dei protagonisti. In questa storia s’immagina poi che i genitori lo abbiano così battezzato per ricordare un campione di tempi più recenti, un amico partigiano grecista che leggendo l’Iliade proprio Meleagro aveva scelto come nome di battaglia e che era morto combattendo i nazisti, non perché il tizzone si fosse estinto, ma perché il mozzicone di una sua sigaretta rosseggiasse nel buio del bosco, esponendolo al tiro crudele di un cecchino nemico. Ebbene, c’è un terzo personaggio che porta questo nome e quando il nostro Meleagro lo scoprì, sorrise ed ebbe una più profonda comprensione della propria natura. Di questo parleremo più avanti. Degli altri due, l’eroe e il partigiano e con il loro coraggio non aveva niente in comune. Non era di quella stoffa, era una canaglia, un vigliacco. Combatteva solo con la sua classe avendone una paura folle ed ogni concessione al dialogo era solo un mezzuccio per ottenere benevolenza e fare andare avanti il tempo, cercando di suscitare entusiasmi che fingeva di condividere ed invece disprezzava. E allora perché si era prontamente infilato nel tubo per salvare il piccolo? Oh basta! Per fare in modo che non vi affezioniate troppo, sospendiamo a questo punto la sua 27 storia, lasciamo Meleagro nel tubo e raccontiamo di altri personaggi, anche questi, vi assicuro, per niente eroici. Di Meleagro non sentirete più parlare per pagine e pagine. 28 4. umanità Comunque, per non disorientarvi troppo, anche questo capitolo inizia con un condotto e fatte le debite proporzioni, con qualcosa di grosso che vi finisce dentro. Melania Carson, come nel film “Scopare bene sotto il tavolo…e anche sopra!”, si sta facendo montare da TD sulla scrivania di un ufficio del Sert. TD aveva fatto capire a Melania che la sua irrefrenabile passione non conosceva tempi e luoghi opportuni, ma in effetti la sua intenzione era riprodurre su scala reale una scena del film visto su Sky Hot Club la notte prima. - E’ vecchiotta, ma non è male – aveva pensato TD prima di lanciarsi all’attacco – e poi ha quel che mi serve per rifare la scopata del film. – E ora stava pensando: - Sì, proprio come nel film, cazzo! - Mentre lo faceva si guardò intorno e pensò ancora: - Anzi, meglio! Mi sto scopando la psicologa del Sert! Questi slanci di esaltazione erano stati indicati come elementi sintomatici nella cartella personale di TD, alla voce “disturbi della personalità”, cartella inutilizzata che stava vibrando nel cassetto sotto i poderosi movimenti sussultori delle reni inarcate di TD. TD aveva energia da spendere perché prima di arrivare al Sert si era aspirato da esperto formichiere una striscia di polverina bianca chiamata cocaina. In quel periodo la cocaina stava avendo un notevole ribasso di prezzo perché la nuova strategia del narcotraffico aveva previsto di lanciarla come droga di largo consumo. A TD che costasse poco o tanto non fregava assolutamente niente perché di soldi ne aveva a palate. La cocaina l’aveva sniffata sulla plancia del suo SUV, qualche granellino residuo lo aveva raccolto con la lingua rialzando il bavero della sua giacca griffata Dolce e Gabbana. Il SUV ( Sport Utility Vehicle) era un’automobile corazzata molto in voga e che provocava incidenti spesso mortali, ma non potendolo fare i morti, anche i feriti più gravi giravano la testa verso l’automezzo colpevole, ma tenebrosamente splendido e 29 lanciavano fischi di ammirazione. Il SUV di TD era un Lincoln Navigator, prodotto da un’industria automobilistica dell’Impero Americano chiamata Ford e soprannominato scherzosamente dal proprietario Black Death, Morte Nera. In un posto da sfigati come il Sert, anche il suo nome, per ragioni di riservatezza, era stato cancellato e lui, come vari altri, era diventato TD. TD era ai ferri corti con la famiglia, detentrice di un logo che fatturava annualmente più di 100 milioni di euro. Il logo veniva impresso su felpe, t-shirt, berretti, borse, giubbotti ed era fatto così La ditta era quella di Ares ed Arianna Truman, i genitori di TD, diventati ricchi negli anni Settanta con la storia della maglieria, quando ancora l'idea vincente contava meno del duro lavoro applicato. Quel loro ultimo figlio invece incarnava perfettamente lo spirito dei tempi. La trovata per il logo era stata sua e uno staff di geniali disegnatori l'aveva solo rielaborata, ma bastava il cacamento di un'ideuzza , anche se foriera di soldi a palate, per sentirsi in diritto di esimersi da ogni attività lavorativa ed imprenditoriale e di dedicarsi ad ogni tipo di divertimento, sano o insano che fosse? Il padre non era dell'avviso. A 27 anni non si poteva poggiare il culo su di un divano di design con la convinzione di non alzarlo più. A TD era stato 30 assegnato il commerciale, avrebbe dovuto occuparsi di promuovere l'immagine della ditta in ogni parte del mondo e lui in effetti in ogni parte del mondo c'era pure stato. A New York e Los Angeles, a Londra e ad Hong Kong aveva organizzato e partecipato a feste dove però circolava roba che le immagini più che fissarle le deformavano. Il suo tour di apprendistato gli aveva lasciato il cervello zeppo di metaboliti di cocaina e tornato a casa non aveva potuto far altro che correre alla ricerca di pusher locali per rilanciare lo sballo. Tutti lo sapevano in giro, lo vennero a sapere anche il padre e la madre. Arianna Truman si dispiaceva, ma vedeva in quel vizio l'acquisizione di una nuovo brillante status sociale. Il fashion system era crudele, per rimanere all'altezza qualche erroruccio lo si poteva commettere. Ares Truman lo ammonì una prima ed una seconda volta, gli cambiò incarico, non lo mosse più da casa, gli mise al fianco uomini di fiducia. Niente da fare. Tutti in ditta erano tenuti a timbrare il cartellino, TD lo arrotolava e lo usava come cannuccia per sniffare. Ad una riunione decisiva con i giapponesi, tutta la famiglia presente, TD non riusciva a stare fermo, rideva a sproposito, faceva strani versi con la bocca. Ares era imbarazzatissimo, i clienti facevano finta di nulla. In un momento di riflessione plenaria – il silenzio che precede la firma o il rientro delle Mont Blanc nel taschino – tutti sentirono il ticchettio intermittente di una goccia. Ci fu chi guardò fuori – una splendida giornata di sole – chi in alto – nessuna macchia di umidità -, poi tutti si voltarono verso TD. Aveva il capo piegato e la mano destra gli sosteneva la fronte nascondendo gli occhi ed il naso. Per un attimo il padre si stupì nel vederlo così assorto, poi : plop! Era dalle sue narici che stavano scendendo sul tavolo di cristallo grosse gocce di sangue, l' una dietro l'altra. Infine l'emorragia esplose in tutta la sua violenza ed una delegata giapponese seduta accanto a lui portava un tailleur bianco...- Una roba orrenda...il completo, cioè -commentò la madre – se gliel'ha rovinato va tutto a suo vantaggio! -. Ares Truman lo convocò in ufficio. Devi smetterla con quella porcheria. − 31 TD sembrava sinceramente contrito. Sì, babbo. Voglio smettere. − Aveva portato con sé un pieghevole. C'è questo centro di disintossicazione in Texas...dicono che fanno i miracoli...c'è − stato anche Michael Douglas...completamente ripulito... Ares gli tolse il dépliant e aggiunse allo sguardo durissimo un ghigno beffardo. Li conosco io questi centri...guarda qua, le piscine, il casinò...tu rimani qui e poi − fai la fila all'AUSL come qualunque altro drogato. Basta coca e basta puttane. Ti ci porto io di persona all'ospedale. Ed anche in ditta, gavetta! Non c'erano state ragioni. Anche Arianna aveva accettato con la morte nel cuore, pronta a subire l'umiliazione e a farsi asciugare le lacrime dalle amiche del solarium. Per un mese era stato senza droga e senza sesso. Quel giorno stesso uno spacciatore di quelli bravi – all'apparenza un ragazzone entusiasta per le macchinone - gli aveva attaccato la stagnola al tubo di scappamento del SUV. Il tipo che controllava TD era girato col telefonino. TD aveva recuperato la roba e se l'era fatta nel parcheggio dell'AUSL, dove gli uomini del padre lo mollavano e giravano indietro. Dopo aver benedetto in quel modo la terra del nemico, TD era entrato al Sert. Ora si stava scopando alla grande la psicologa del Sert direttamente sulla sua scrivania ed il suo nucleus accumbens debitamente resettato dal tiro di coca e dalla replica live della scena porno, stava pompando a mille. Il nucleus accumbens! Un agglomerato di cellule della grandezza di un'oliva ficcato per nostro sommo spasso al centro del cervello... Lì si concentrano le trasmissioni dopaminergiche, quella è la sede della nostra suprema gratificazione, che si faccia sesso, si fumi, si sniffi o si mangi semplicemente cioccolata! Dunque, dopo averlo titillato sino al botto finale , TD si riassettò tutto tranquillo come se realmente avesse soltanto mangiato pane e nutella. Restava il fatto che era tutto sudato. Ci volle fare una battuta sopra. 32 Ahò, me l'avevi detto che per la mia terapia bisognava sudare tanto! - disse a − Melania riallacciandosi la cintura. Melania scendendo dalla scrivania non poté fare a meno di fissarlo negli occhi. Le pupille di TD erano fortemente dilatate. Sapeva sin troppo bene a cosa associare quel sintomo, ma confusa com'era volle illudersi che fosse dovuto alla passione suprema che il suo partner aveva profuso nel consumare l'atto. La sua ingenuità le derivava dalla quasi totale inesperienza in quel tipo di incontri. In quasi vent'anni di matrimonio aveva tradito il marito solo due volte: una volta con un suo ex, un'altra, ubriaca, con un collega ad un congresso in una città europea. Mai su una scrivania. Per TD era normale dopo il sesso riacquistare la giusta distanza, per Melania la faccenda era più complicata. Avrebbe voluto buttarsi tra le sue braccia per esserne rassicurata, ma si rese conto solo in quel momento del tempo e del luogo. Nel suo ufficio? Stava per arrivare una crisi di panico. Andò alla finestra e l'aprì. − Ho caldo – disse voltando le spalle a TD. − Hai voglia! – disse TD allungando le braccia e facendo scrocchiare le dita intrecciate. Melania si voltò di scatto tutta rossa in viso. Aveva inteso l'innocente commento di TD riferito alle condizioni metereologiche come una domanda riferita ad un suo eventuale appetito sessuale non ancora appagato. TD non comprese il fraintendimento e riempì il silenzio che si era creato infilandosi la giacca di Dolce e Gabbana. Notò una macchia biancastra sul bavero, poi abbassò lo sguardo e ne notò un'altra sulla patta dei pantaloni. Sorrise tra sé ripassando in un flash multicolore le sue ultime imprese. - Il campione sta tornando! - Pensò tutto allegro. O forse lo stava dicendo? - Beh, allora alla prossima seduta... - fu sicuro di dire armeggiando con la maniglia della porta. La porta era chiusa. Melania accorse con la chiave. I due erano di nuovo troppo vicini. TD voleva passarle una mano sul culo,ma lei si scostò facendo scattare la serratura. 33 − Ma tu vuoi veramente... – sussurrò Melania. − Mio padre rompe. Gli appuntamenti sono stati fissati. Tutto a posto, no? - concluse TD, che vedeva solo colori accesi e nessuna sfumatura. Melania, come fosse un comune td, gli infilò nella tasca della giacca il cartoncino con la data del successivo incontro. - Arrivederci – disse, sforzandosi di essere formale, ma aspettandosi almeno un bacio di commiato. Ciao, eh! – disse con bella disinvoltura TD. Si passò le mani sulle labbra che − sentiva secchissime e pensò al boccale di birra fresca su cui le avrebbe poste appena uscito di lì. Dopo che se ne fu andato Melania si lasciò andare sulla sua sedia girevole. Aprì la mano e la posò sulla scrivania per sentire se c'era ancora calore. Le venne anche voglia di annusare, ma se ne vergognò. Lasciò scorrere lo sguardo per la stanza. Nelle riproduzioni di impressionisti appese alle pareti non un filo d'erba s'era mosso, non una foglia era volata via. Dov'era andata la bufera? Si sentiva sporca, aveva bisogno di una doccia, ma abbassò la testa per capire se l'odore di TD lo aveva ancora addosso. Perché poi lo aveva fatto? TD era un bel ragazzo, ma non si capacitava che fosse bastato questo. L'aveva toccata. Aveva tagliato di netto il nodo, era stato semplice. Lei, abituata al controllo spietato della situazione e al predominio dialettico, era crollata clamorosamente quando avevano iniziato a parlare le mani e la lingua aveva smesso di agitarsi per discutere, tornando ad essere un dolce muscolo muto. Se ci pensava c'erano stati segnali. Non si erano trattati di richiami del corpo, ma di uno sfibramento di quella che era la sua principale attività esercitata quotidianamente nella professione. Parlava ai pazienti, ma era come se recitasse una parte. I gesti e le parole erano diventati vuoti, da un mese almeno. E così il palazzo era crollato dall'interno, la città nuda si era consegnata spontaneamente agli assedianti. Era arrivato un re selvaggio a cui era facile obbedire. Questo detto in bella calligrafia. In realtà Melania aveva i brividi anche se si crepava dal caldo e non 34 aveva voglia di analizzare un bel niente. Vide sul muro la laurea incorniciata e pensò alla deontologia professionale che le vietava categoricamente di stabilire quel tipo di rapporti con un paziente. Pensò con terrore che avrebbe dovuto passare TD per la terapia a qualcun altra. Non sarebbe più entrato nel suo ufficio, non ne avrebbe più varcato la soglia. E se si vedessero fuori? Pensò che un chiarimento era necessario. Occorreva troncare tutto e subito per non lasciare dubbi sulla sua onestà di psicologa e di donna. Avevano deciso quella cosa consensualmente, da persone adulte e consapevoli. Consapevole TD? Se lo vide di fronte come prima e si portò la mano all'inguine. TD aveva messo in moto Black Death. L'impianto stava sparando a manetta i System of a down e lui sentiva l'arsura in gola. Ricordò con fastidio che il padre, per rieducarlo, gli aveva affidato un incarico da negro. Doveva passare dalla lavanderia industriale e prendere un carico di stoffe ripulite pronte per l'impressione del famoso marchio. - Cazzo! E la mia birra? - In zona c'era un baretto in cui era entrato due o tre volte. Lì avrebbe bevuto a canna e nessuno avrebbe potuto obiettare. - Il campione sta tornando – urlò, pigiando sull'acceleratore. In un minuto si ritrovò davanti al Bar Bone, che aveva come insegna un vagabondo stracciato che si stava scolando una bottiglia. Entrò ed ordinò una Beck's ghiacciata. Non staccò le labbra, fino all'ultima goccia. Il nucleus accumbens ebbe un leggero sussulto che fu interpretato da TD come licenza di ordinarne una seconda. Questo volta però decise di gustarsela, a piccoli sorsi. Seduto ad un tavolo d'angolo del Bar Bone, davanti ad un bicchiere di acqua minerale frizzante, c'era un ragazzo con una tunica color sabbia, la pelle scura e una leggera peluria sopra il labbro e sul mento. Il suo nome era Salman Gosht ed era il fratello maggiore di quella Gosht non troppo preparata sulla prima rivoluzione industriale. Salman aveva più o meno la stessa età di TD, ma non aveva mai consumato alcolici né fatto l'amore con una donna su di una scrivania o in qualsiasi altro posto più o 35 meno comodo. Salman sapeva chi era TD perché lavorava alla lavanderia industriale ed una volta gli aveva consegnato personalmente i pacchi con le pezze pulite. Stava aspettando di iniziare il turno di notte e la finestra del bar incorniciava perfettamente il capannone in cui avrebbe consumato ogni sua energia sino alle cinque del mattino successivo. Il giovane uomo pakistano incontrò lo sguardo di quello italiano e gli sorrise. In fondo avevano più o meno la stessa età e facevano parte dello stesso impero mondiale. TD ricambiò il sorriso alzando la mano sinistra come giurasse di dire tutta la verità e – Giuro – infatti disse, posando il boccale di birra e rivolgendosi non a Salman, ma al barista dall'altra parte del bancone. - Giuro che il campione è tornato! - disse. Il barista era uno di quelli bravi a prendere la palla al volo e a rilanciarla più forte ancora. Si chiamava Lando Erris, aveva 62 anni, gli occhiali, la pelle rossastra, la testa pelata sopra, ma con i pochi capelli grigi lunghi sul collo. Quel giorno Lando Erris era in uno stato euforico perché aveva appena mollato la moglie per una donna di 25 anni più giovane. La moglie non funzionava più non solo dal punto di vista del nucleus accumbens, era ingrassata, passava ore davanti al televisore a guardare reality e quando lui le aveva comunicato la decisione storica, aveva semplicemente cambiato canale. Con l'altra riusciva ad andare una volta al cinema ed una a ballare, per non parlare del suo nucleus accumbens che era tornato a pompare alla grande. Non solo è tornato – ribattè dunque Lando Erris riflettendosi nell'entusiasmo di − TD – ma è capace di fare filotto, carambola e di mettere tutte le palle dentro! Salman riusciva a capire alcune parole quando gli italiani discorrevano fra loro, ma altre le perdeva per strada e non riusciva più a recuperarle. “Carambola”, “filotto”: cosa significavano? Che TD fosse un campione per Salman non c'erano dubbi e poi era propenso a credere per la confidenza e la velocità con cui si scambiavano le battute che lui e il barista fossero grandi amici. In effetti era la prima volta che si vedevano, ma una comune esperienza di gioia, artificiale o naturale che fosse, li 36 accomunava e li rendeva solidali in quel giro di allusioni. Salman era convinto che tutti gli altri non appartenenti alla sua comunità risultassero più amici di quanto in realtà non fossero. Era una sensazione ricorrente che segnava la distanza del suo isolamento e lui si ritraeva ancora di più, consapevole che quella scioltezza fra uomini non l'avrebbe mai conosciuta. Salman finì la sua acqua minerale e lasciandosi alle spalle la coppia che continuava a scambiarsi battute e a sghignazzare, uscì dal Bar Bone. Per arrivare alla lavanderia bisognava attraversare un parchetto con una giostra divelta e chiazze di erba strinate. Seduti sullo schienale di una panchina tutta scritta, c'erano Zaccaria Danson e Gino Aiello che stavano succhiando un ghiacciolo. Salman passò accanto e tirò dritto. Zac e Gino lo videro e si diedero di gomito. Mannaggia a'morte! Ma non è il nostro amico Salman chillo che è trasito? - disse − Gino a voce alta apposta per farsi sentire. E Zac, alzando il tono anche di più: - Sei un mona, c'hai i maccheroni al posto del cervello! Che se era Salman, ostrega se si fermava! Salman aumentò il passo senza dare ascolto. La comprensione delle espressioni dialettali non era più complicata dell'Italiano, anzi quel tipo di coloritura gli faceva capire il tono di una frase, se non il suo senso logico, meglio e più in fretta. Nel caso dei due tipi, era meglio girare alla larga. Gino Aiello aveva ventiquattro anni ed era venuto su da Somma Vesuviana con la famiglia cinque anni prima. Zaccaria Danson di anni ne faceva 28 ed era arrivato in città da Mestre per fare il muratore. Sulla carta geografica dell'Impero gli abitanti africani ed asiatici avrebbero cercato Napoli e Venezia fra le zone colorate in oro, ma a ben vedere sotto la patina di vernice dorata un po' di ruggine c'era. Un po' di miseria, soltanto un po', relativa certo se paragonata a quella annichilente di Africa e Asia, ma che spingeva giovani come Gino e Zaccaria a spostarsi dal luogo di nascita alla ricerca di prospettive di vita migliore. Non era poi sicuro se questi trasferimenti 37 accomunassero o dividessero. Molti della regione di Zaccaria erano ostili alla povertà esibita di Aiello e dei suoi conterranei, alla loro lingua, alle loro abitudini. In Zaccaria l'ostilità si tramutava piuttosto in presa per il culo metodica, ma bonaria. Strane robe: dei due il biondino con gli occhi chiari era Gino, quello scuro di pelo e di capelli era Zac. I due tenevano il culo attaccato ad una panchina perché per loro era il modo più soddisfacente di passare il tempo. Può sembrare poco, ma questa convergenza ne portava con sé altre significative: la scarsa voglia di guadagnarsi il pane sudando, l'invidia feroce verso i detentori di quel potere che obbligavano gli altri a guadagnarsi il pane sudando. Zac aveva fatto per qualche anno il punkabbestia e l'A di anarchia disegnata sullo scivolo era una sua tardiva e trascurabile opera. I punkabbestia erano dei vagabondi che giravano per le metropoli accompagnati da cani mal in arnese e sporchi quanto loro, chiedendo spiccioli ai passanti per il sostentamento della persona e dell'animale. A Zac un giorno il cane era morto e lui aveva deciso di rientrare nei ranghi e darsi un minimo da fare. Avrebbe potuto tirare su i muri, ma prendere gli ordini lo faceva incazzare, specie se a darli erano tipi mingherlini per nulla intimoriti dalla sua mole ragguardevole e dal fatto che si dicesse in giro che era un violento. A Gino una decina di euro al giorno glieli passava la madre che faceva le pulizie, ma ci aveva altri tre figli piccoli da provvedere che almeno loro la voglia di studiare ce l'avevano. Il padre non lavorava, aveva un cancro alla prostata e passava tutto il giorno davanti al televisore, anche spento. Zac e Gino erano da circa due ore sulla panchina. Per raggiungere Salman presero l'iniziativa di alzare le chiappe. Zac fece più fatica dell'altro e quando Gino raggiunse il ragazzo, lui era un tre metri indietro. Allora, non saluti, marocchino e'mmierda? - attaccò Gino con un bel sorriso ed un − tono affabile che contrastava con le parole. Con 'marocchino' in quel quadrante dell'Impero si identificavano spesso extracomunitari di ogni razza e paese. Salman aumentò il passo. Zac arrivò alle spalle di Gino e lo caricò con forza. Gino 38 proiettato dalla spinta arrivò quasi ad abbrancare il bacino o le gambe del pakistano. Sembrava rugby e Zac provò una fitta di nostalgia perché da ragazzo ci giocava. Salman si divincolò e riuscì a portarsi al di là del cancello che segnava il confine della lavanderia. I due sapevano bene che a loro non conveniva oltrepassarlo. − Ma dai, lo sai che ha sempre voglia di scherzare , 'sto terrone! - gli urlò dietro Zac. Gino aveva trasformato la mancata presa in un balletto bloccato, dove muoveva le braccia come se avvitasse delle lampadine. - Ueh! − Dai, tu che hai lo stipendio fisso, vieni fuori a pagarci una Heineken. Così la provi anche tu la birra, con 'sto caldo fuori stagione. Va giù che è un piacere, cazzo! Ma Salman stava già entrando. Gino e Zac lo fissarono ancora per un po', quindi tornarono alla panchina e questa volta si appoggiarono per bene allo schienale. Passò un minuto di assorto silenzio, che poi si fece assortito perchè era interrotto ogni tanto, a destra e a sinistra, da un rutto o da una scorreggia. − Che se la mettano nel culo la loro lavanderia di merda! Mi ci lavo la mona con i loro sofisticati macchinari! Gino si limitò a ghignare e ad alzare il dito medio contro il capannone. Dieci giorni prima nord-est e profondo sud ci lavoravano dentro. Erano stati richiamati più volte per scarso impegno ed assenteismo. Un giorno erano stati trovati con le mani nel sacco. Stavano imboscando una partita di jeans ancora da lavare, per passarli poi al florido mercato del taroccamento. Gli era andata anche bene che erano stati soltanto licenziati. Niente più busta paga, ma tanto era una miseria per tutta quella fatica. Di soldi in giro ce n'erano, bastava trovarli. − E ora che si fa? - chiese Gino fra uno sbadiglio e l'altro. − Ci sarebbe da prelevare il fumo – rispose Zac. − Vabbè, andiamo a prendere o' spaccimme... - disse Gino senza muovere un muscolo. I due sbuffarono all'unisono. 39 − Ohé, guarda il Suv nero parcheggiato – fece Zac. − E' un Ford Lincoln Na-vi-ga-tor – precisò Gino e poi aggiunse: - Ecchè? Te lo vuoi fottere? − Siam troppo vicini alla fabbrica. Ci sono anche le videocamere, puttana! Però me lo vedevo bene sotto il culo...ohé, Gino bisogna pensare al grande colpo, altro che spaccio! - esclamò Zac battendosi le mani sulle coscie. − Pensiamoci, pensiamoci – concluse Gino, stirando insieme come un gatto le braccia e le secche gambe. 40 5. inginocchiarsi su uno skateboard e pregare rivolti a Roma Arturo Maloni era un tipo preciso e coltivava la precisione in ogni ambito di sua competenza. Aveva lavorato una vita per la cooperativa dei muratori, da semplice manovale a capocantiere, e sapeva distinguere senza uno sbaglio i cento e più palazzi della città che anche grazie a lui erano stati tirati su a regola d'arte. Dal primo mattone all'ultimo infisso, eccome se la vecchia scuola ci sapeva fare! C' erano bravi architetti e geometri scrupolosi, muratori che non si tiravano mai indietro, falegnami ed idraulici d'esperienza, elettricisti che collegavano i fili ad occhi bendati. Passavano decenni prima che le case avessero bisogno di manutenzione e non c'era stata scossa di terremoto – anche quello col botto del 1996 – che le avesse buttate giù o avesse danneggiato seriamente le strutture, solo qualche crepa nell'intonaco che si rimetteva a posto con lo stucco. Maloni aveva cominciato a masticare amaro qualche anno prima della pensione, ma ora che non lavorava più la bile la poteva sputare fuori senza paura di offendere nessuno. Passava davanti ai cantieri e i colleghi lo chiamavano per salutarlo o perché desse una controllata. Maloni però iniziava a storcere il naso e a dire che entrarci per lui era una fitta al cuore anche solo a vedere le impalcature. No, non c'era più precisione. A partire dalle fondamenta, ovvero i fondamenti, le basi proprio. Le ditte che si pigliavano gli appalti erano diventate delle vere associazioni a delinquere, per guadagnarci si rifornivano di materiali pessimi che spacciavano per l'eccellenza e facevano tirar via in fretta sui lavori di precisione per pagare meno ore alla manodopera. Risparmio su risparmio, profitto su profitto. E il muratore ormai chi lo voleva imparare, per questo e per le minori pretese, nei cantieri la manovalanza era tutta di extracomunitari. Maloni era cresciuto alle feste dell'Unità e con gli anni, lui che ci aveva sempre servito il gnocco fritto, aveva accettato anche gli stand con il cus-cus ed il kebab, dunque non poteva essere pregiudizialmente contrario a quelli di 41 altri paesi. Però la verità bisognava pur dirla e la verità era che c'era più precisione quando i muratori si chiamavano Tarcisio, Nellusco, Pippo o Santino. Meglio girare al largo dai cantieri allora, puntare verso il centro e inorgoglirsi di fronte ai cento e più palazzi che anche grazie alla sua pertinenza erano stati tirati su a regola d'arte. Maloni ne sapeva riconoscere l'annata al primo colpo d'occhio. Questo l'abbiamo tirato su nel '79, questo con lo scivolo e i garage sotterranei ci abbiamo sudato nell'83, in questo così stretto ci abbiamo bestemmiato per ricavarci il vano ascensore nel 2001. Le case del centro storico non superavano mai i quattro piani d'altezza e per pitturarle bisognava scegliere in una gamma cromatica che andava dal vermiglione al bordeaux, con qualche concessione all'arancione e all'ocra. I blu, i gialli e verdi non erano ammessi e c'era un'ordinanza del Comune al proposito. A Maloni quei colori andavano benissimo. Li riconosceva e ci si riconosceva. Le tinte delle facciate erano interrotte da finestre, finestroni, finestrelle a cui corrispondeva la planimetria delle stanze che Maloni ricordava benissimo. Fior fiore di ristrutturazioni, minimo 2.500 euro al metro quadro, appartamenti grandi abitati dai proprietari e arredati con cura, oppure divisi in mono e bilocali affittati magari agli stessi muratori extracomunitari che ci avevano lavorato dentro, ammobiliati molto chic da 800 euro al mese, davanti alla cui soglia spiccavano vasi di ficus e scarpe da lavoro imbiancate di calcina. Arturo Maloni la gente che ci abitava , per sua riservatezza, non provava neppure a immaginarla. Ce n'era già tanta da studiare fra quella che girava per le strade e per la piazza. Quel giorno aveva deciso di farsi una bella camminata sino alle poste per pagare una bolletta. Si sorprese. Nella folla c'erano persone d'ogni colore, sia per la pelle che per i variopinti abiti. Il Comune non aveva ancora emesso ordinanze che ne limitassero l'esibizione, nessuno era tanto pazzo da richiederle, naturalmente, eppure che la città diventasse mondo coglieva tanti impreparati e per tanti era proprio un fastidio, un brutto pensiero rimosso, ma che si ripresentava ogni giorno appena si metteva il naso fuori. Maloni ingannò se stesso e non volendo ammettere il proprio 42 disorientamento di fronte a donne velate e uomini coi turbanti, preferì rifugiarsi nell'abitudine. Alzare la testa e guardare i muri, dritti e precisi, uguali a se stessi per sempre. Passò per la piazza e salutò un capannello di anziani toccandosi la visiera del berretto da baseball. Entrò alla posta e lì il problema della precisione gli si parò davanti pesante ed ostile. Doveva separare la bolletta con l'importo dal foglio con l'intestazione e la lettura del contatore. Piegò, da una parte e dell'altra. Passò l'unghia del pollice sulla linea di divisione. Diede un primo strappo veloce e la lacerazione invece di seguire il tratteggio, si portò via anche un pezzo di conto corrente. Bestemmiò. Provò più lentamente, millimetro dopo millimetro, ma la carta faceva resistenza e alla fine lo strappo andava su e giù, un brandello di matrice e un brandello di bolletta. Concluse che anche quello era un segno dei tempi. Non esistevano più i bei tratteggi di una volta, non ti mettevano più nella condizione di essere preciso. Quando arrivò il suo numero la postelegrafonica allo sportello non commentò il lavoro mal fatto, ma prese le forbici e rese pari il tagliando prima di inserirlo nella macchina. Maloni doveva pagare e quando diede i soldi contati vide la sua mano tremare e se ne vergognò. Quella era la ragione per cui si era pensionato, se no a tirar su palazzi ci sarebbe andato sino ad ottant'anni. Il filo a piombo con la mano che trema non era proprio possibile. E poi Maloni pensava che quando iniziava a tremare la mano, anche la testa prima o poi... La postelegrafonica, che si chiamava Suzi D'Angelo, aspettò con pazienza che Maloni recuperasse dal portamonete i 70 centesimi di tassa suppletiva. Gocce di sudore le imperlavano la fronte sino alle sopracciglia ben modellate da un'amica estetista. Dentro l'ufficio postale c'era il calore sbagliato perché l'impianto di riscaldamento era ancora a pieno regime sebbene quello fosse l'inizio marzo più caldo degli ultimi cent'anni. Sarebbe bastato girare una manopola, ma nessuno era autorizzato a farlo e quindi si lasciava tranquillamente crepare dal caldo gli addetti ed il pubblico. Suzi D'Angelo si tamponò il sudore con un kleenex e sorridendo chiese al 43 signore dalla mano tremante i cinque centesimi che ancora mancavano alla manciata di monetine lasciata cadere sulla plancia. Da cosa nasceva l'infinita pazienza di Suzi D'Angelo? Non c'entravano i corsi d'aggiornamento o le terapie antistress. Suzi D'Angelo, un'esile signora bionda cinquattottenne, doveva prendersi cura della madre, malata di Alzheimer da alcuni anni. Finito il turno correva a casa a dare il cambio alla badante e l'infinita stanchezza era dimenticata in nome dell'amore filiale. La madre non bisognava perderla di vista un attimo. Il giorno prima Suzi D'Angelo si era assentata – se permettete – per cinque minuti in bagno. Tornata nella camera dove l'aveva lasciata, tutti i vestiti e la biancheria intima sparsi sul pavimento, del corpo materno nessuna traccia, come l'avesse evaporato un raggio alieno. Aveva guardato in ogni stanza, persino negli armadi. Sente voci provenire dalla via sottostante, si affaccia, vede la madre nuda e passanti compassionevoli che cercano di coprirla. I malati di Alzheimer credono di vivere in tempi e luoghi diversi rispetto a quelli della comune realtà. Il caldo assurdo fa scambiare marzo per agosto, le ragazze in top e i gelati riportano alla mente la riviera. La figlia di sessant'anni che ti prende e la mano e ti riporta dentro è la figlia che tu prendi per mano ed accompagni fuori. Il mare. La pazienza insegna la pazienza sino a farla diventare inesauribile oppure a forza di accumularla, ecco arriva il momento che si esaurisce all'improvviso? E crolla con un fragore di valanga? Il signore con la mano tremante era andato via ed al suo posto c'era ora una ragazzotta col trucco pesante e le labbra chiuse intorno a un bastoncino bianco. Abbassando gli occhi Suzi D'Angelo vide una canotta nera, gonfiata da un seno prosperoso, su cui era impresso in giallo il marchio: 44 La ragazza si chiamava Meri Grant ed era originaria di una terra vicina al centro nevralgico dell'Impero, ma su cui la ricchezza dell'Impero cadeva soltanto sotto forma di briciole chiamate turismo internazionale. La terra magnifica e povera si chiamava Santo Domingo. Meri Grant che voleva sedersi alla tavola imbandita e non raccattare le briciole dal pavimento, era in città da alcuni anni. Un minuto prima, arrivata bella e fresca alle Poste, sul pavimento si era in effetti abbassata per raccattare un numerino caduto. Era passata davanti ad un'anziana confusa esibendole il pezzetto di carta straccia, si era presentata davanti a Suzi D'Angelo con il chupachups penzoloni ed un'aria sfrontata che era il suo modo di difendersi dalle complicazioni del sistema. Aria sfrontata e scorciatoie erano le sue idee per semplificarsi la vita. Il chupa-chups era una caramella sferica infissa su di un bastoncino che i bambini consumavano per golosità e gli adulti per darsi un tono. Prego? – chiese Suzi D'Angelo, a cui stava per scadere il turno. − Meri si sistemò la pallina del chupa contro una guancia , in modo che la lingua fosse libera e sciolta. Dammi la lettera – disse, buttando verso lo sportello l'avviso per riscuotere la − raccomandata. Suzi D'Angelo stava vivendo il suo momento più critico. Aveva 45 terminata la pazienza spettante agli utenti e da lì a poco si sarebbe dovuta ricaricare della pazienza dovuta alla madre. Vide benissimo chi aveva di fronte – una ragazza maleducata e volle darle una lezione portando alle estreme conseguenze la corretta prassi burocratica. Iniziò apposta a parlare complicato. Innanzitutto questi gesti non sono consentiti dal regolamento, vede, se io apro − questo libro e vado all'articolo tale , comma tale, lei potrà leggere... in che termini siano da concepire i rapporti fra l'utenza e gli addetti postelegrafonici. Quindi riprenda la cartolina con l'avviso e cerchi di adeguarsi per favore, di avere un comportamento rispettoso delle regole e delle persone. Meri Grant si passò il chupa contro l'altra guancia, sbuffò e riprese la cartolina. Ed ora devo informarla che questo sportello non espleta il servizio da lei richiesto. − Non è a questo sportello che lei potrà ritirare la sua raccomandata, qui si effettuano solo versamenti. Per il ritiro delle raccomandate lei dovrebbe rivolgersi a quello in fondo. Lei sa leggere, vero? Meri estrasse il chupa-chups dalla bocca e – Vaffanculo – sibilò, non sapendo neppure lei se si trattasse di un'imprecazione tanto per oppure un insulto rivolto alla stronza che si trovava davanti. Perché tutto era così maledettamente complicato? Invece a quel punto dall'altra parte la semplificazione diventò totale. Un urlo. Un urlo altissimo fine di ogni pazienza. Un urlo che era uno schiaffo, un pugno, un toro infuriato che incorna e fa volare via ogni cosa. A quell'urlo ogni operazione si bloccò, i colleghi rimasero con le banconote e i moduli in mano, gli utenti con il dito bloccato sulla macchina dispensatrice di numerini e tutti si voltarono verso lo sportello da cui l'urlo era salito. Tutte le teste si voltarono insieme provocando una sventagliata d'aria fresca che diede sollievo. Ce ne furono due che si sorpresero proprio un istante prima che la porta col congegno elettronico si chiudesse alle loro spalle, riconsegnandoli allo spazio esterno del piazzale con le biciclette e le auto parcheggiate. Erano le teste infantili di Alex e Kevin Tarantino. La madre che li teneva per mano e che si 46 chiamava Beatrice Appalachi, una bionda minuta ma grintosa, neppure ci fece caso, tutta concentrata nello stringere piccole mani, nello spingere fuori bambini che volevano stare ancora dentro a pigiare bottoni, a nascondersi dietro le poltroncine, a fare disegni sui moduli delle A/R. Allora andiamo a giocare al parco – disse con tono perentorio Kevin, che era il − più grande e avrebbe compiuto nove anni da lì a poco. Ci vai, però stai nei dintorni ed ogni tanto ti fai vedere. Alex invece sta a casa con − la mamma e l'aiuta in cucina. Alex non protestò per il trattamento diverso che gli sarebbe toccato. Stava ben attento che non gli cadesse dalla mano collegata a quella della madre un cavallino di plastica che da qualche giorno era diventato il suo oggetto portafortuna. Lo portò alla mano libera. Trotterellava sulle corte gambe, da una parte ora un morbido caldo contatto e dall'altra una cosa piena di sporgenze, complicata da tenere e che si poteva perdere, ma su cui profondere impegno e sviluppare progetti. Alex aveva due anni e mezzo, stava imparando a conoscere il facile ed il difficile, la comodità e l'avventura, la stabilità ed il progresso. Sentiva spesso il bisogno di farsi abbracciare dalla madre, ma anche quello di divincolarsi, prendere il cavallino ed andarlo a posare sul ripiano sotto la finestra. Alex aveva la testa colma di riccioli biondi e suscitava in chiunque lo incontrasse la voglia di accarezzarlo e di stringerlo al cuore. Questo sentimento era sviluppato in ogni angolo dell'Impero-pianeta in maniera proporzionale al prodotto interno lordo e all'indice di benessere per abitante, quindi molto sviluppato nella città dove viveva Alex e scarsamente sviluppato in luoghi come il Darfur africano o l'Afghanistan in guerra. Questo sentimento in effetti era cosa di poco conto e si consumava in un attimo, perché subito dopo il gridolino di entusiasmo e la profusione di tenerezza, ognuno tornava agli affari suoi, più o meno sporchi, e che non prevedevano quasi mai l'idea di salvaguardare quella specie di cuccioli che a causa delle disfunzioni dell'Impero-pianeta correva il rischio di estinguersi in pochi 47 decenni. Non più gridolini di entusiasmo e piccoli stretti al petto. Troppo lunga la distanza fra cuore e cervello. La madre caricò Kevin e Alex su una scatola di latta che produceva il calore sbagliato e iniziò a guidare verso casa. Come fare altrimenti? Kevin aveva i capelli più scuri e l'aspetto smilzo di un mozzo rapido ad arrampicarsi sulle sartie di un vascello. Osservava dal sedile posteriore lo svolgersi delle strade e delle case, soffiava sul vetro per appannarlo e pensava di essere in un sommergibile. Controllava un po' per gioco un po' per impegno preso che la cintura del seggiolino di Alex fosse ben agganciata. Quando l'auto si fermava ai semafori chiedeva con delicatezza al piccolo: - Alex, quello cos'è? - Stava passando sul marciapiede un cane al guinzaglio. E Alex con la sua vocina rispondeva: - Sembra un cane. - Poi arrivava un bambino che attraversava le strisce. - E quello, Alex? - - Sembra un bambino. Si fermarono ancora di lato ad un albero in fiore. - Alex, cos'è quello? - -Sembra un albero. Di ogni cosa Alex diceva che sembrava essere, non che era, anche se nessuno avrebbe potuto esprimere dubbi in proposito. Era il periodo del 'sembra' – tutti lo confermavano – e poche soddisfazioni eguagliavano quella di formulare la domanda per avere invariabilmente la risposta col 'sembra'. Quando si arrestarono davanti alla casa che sembrava la loro casa, Alex andò dentro con la mamma e Kevin ebbe il permesso di prendere lo skateboard per giocare al parco. Non c'erano pericoli perché la casa era una villetta che si affacciava sul parco ed ogni movimento del ragazzo, se non si allontanava troppo, poteva essere controllato affacciandosi alla finestra. Kevin piazzò la tavola con le rotelle sulla piazzola di cemento e provò qualche facile numero di equilibrismo. Si trattava in effetti di un diversivo, perché l'occupazione maggiore di Kevin era precisamente l'essere in quel posto in quel momento, per farsi trapassare come un soldato pazzo da tutte le sensazioni che il posto poteva offrire. Ad 48 esempio, facendo finta di niente, inarcando la schiena e roteando le braccia in un gioco di copertura, osservare gli adulti sulle panchine, ascoltarne i discorsi, anche se non arrivava a capire proprio tutto. Quello era l'odore che poteva trattenerlo per ore ed inebriarlo. L'odore reale dei due tipi che sedevano sulla panchina era di alcol, sudore e fumo e forse Kevin a sentirlo si sarebbe ritratto o forse no, perché anche quello gli poteva parlare del futuro e delle sue golosità, giuste o sbagliate che fossero. I due seduti sulla panchina erano Zac Danson e Gino Aiello. Il parco non era quello spelacchiato di fronte alla lavanderia industriale, ma uno del centro, accanto all'ospedale e alle strutture dell'Ausl. Zac si grattò i testicoli e Kevin scorse quel gesto in un lampo mentre piroettava su se stesso. Gino si mise a posto gli occhiali a specchio. Ehi, stronzo, ce l'hai una paglia? – chiese Zac. − Gino per tutta risposta iniziò a canticchiare:- Me so' attaccato a'tte perdutamente. So'nnamurate e te eternamente... Se avessero svuotato le tasche il loro capitale sarebbe ammontato a 3 euro e 59 centesimi, una somma veramente irrisoria in quella parte d'Impero. E i telefonini avevano la voce della stronza che suggeriva una pronta ricarica. − Che fiacca! -esclamò Zac. − Me'sso attaccate a'tte comme'na colla... − Calma piatta...- rimarcò Zac. − ...ca nun se stacca per l'eternità! − Bisognerebbe pensare al grande colpo, eh Mergellina? Bisognerebbe veramente pensarci, porco zio! − E pensiamoci... − Bisognerebbe fare il botto, come la notte di Capodanno. Pensa a 'sti fanatici di Bin Laden, con tutto il potenziale che hanno potrebbero assaltare le banche americane e invece si fanno saltare in aria nei bus...ma che cazzo, dico io... 49 Quelli so'ccape toste... − Prendono una pausa di riflessione. Guardano un bimbetto che fa le mosse con lo skate. A Gino verrebbe voglia di fregarglielo, così, per farlo piangere. Lo tieni sempre quell'amico che fa l'import dei petardi? A'bbomba − e'MMaradona...- Zac provò la cadenza partenopea con esiti poco credibili. Come no? A esposizione! − Kevin lanciò il suo skate che attraversò la piazzola e andò a fermarsi sull'erba. L'arrivo del bus della linea rossa lo distolse dalle parole dei due. Ancora non aveva capito chi fossero. Li catalogava come adulti generici. Quella che invece era scesa dal bus era una ragazza e Kevin notò che aveva le tette grosse. − Il colpo. Dove? Un gioielliere...- si espresse Zac. − 'Na pizzeria. − Il tabaccaio – sospirò Zac. − Facciamo il colpo a quegli stronzi della lavanderia. − Qualcosa di grosso grosso. L'Ipercoop. La ragazza era arrivata alla panchina e si era bloccata. Meri è andata via, l'hanno vista piangere... – cantò Gino vedendola. − Lei si era messa a braccia conserte e masticava il chewing-gum a bella posta. - E' arrivato il cammello con le gobbe davanti, la mitica Meri Grant! – la prese in giro Zac – Ce l'hai una paglia? Meri si infilò a sedere fra i due. Kevin, a proprio rischio e pericolo, rimase incantato a fissarli. Sei incazzata, Meri – fece Zac con la voce in falsetto – Vuoi tirarti su con il mio − narghilè? - disse tastandosi il pacco. Meri gli rifilò una gomitata, non tanto forte però. Meri e Zac non stavano insieme, ma ogni tanto facevano sesso. Una volta avevano chiamato anche Gino. Non era venuta molto bene. Gino, nel viluppo dei corpi, aveva 50 smaneggiato Zac e si era preso un pugno come risposta. Sono stata alla posta. Ci è arrivato l'avviso, ci tagliano il gas se non paghiamo- − disse Meri con una smorfia di disprezzo. Non ti preoccupare che mo' facciamo il colpo – fece Gino scandendo bene ogni − singola parola. Zac la strinse a sé e col gomito le fece la mossa del cappio intorno al collo. − Mi fai male, stronzò – si ribellò Meri. − Stronzo a chi? Ora per farti perdonare ci porti a casa tua. Ce l'hai qualcosa in frigo? Meri alzò le spalle. I tre si guardarono negli occhi, si alzarono insieme dalla panchina e si avviarono tutti abbracciati. Kevin li guardò allontanarsi con uno strano senso di nostalgia per quello che immaginava potesse essere il suo futuro. Un rumore però lo fece girare e questa volta la visione del mondo adulto che prima lo aveva incuriosito, arrivò a pietrificarlo. Era pericoloso, c'entrava qualcosa di personale di cui qualcuno stava abusando e lui non sapeva proprio che fare. Kevin vide sul prato un uomo grande e grosso inginocchiarsi sul suo skateboard che sotto quel peso affondava nell'erba. L'uomo in questione aveva un cerotto sul naso ed era sua intensione prostrarsi verso sud e dire una breve preghiera. Il piccolo Alex intanto si era affacciato alla finestra e se qualcuno gli avesse chiesto chi fosse quella strana sagoma inginocchiata sul prato avrebbe risposto:- Sembra un uomo. Se a suo fratello, non fosse stato così sbigottito, o ad altri ragazzini della sua età avessero posto la stessa domanda: – E' un mussulmano – avrebbero detto. L'educazione consisteva allora nell'anteporre giudizi belli e pronti alla semplice capacità di vedere. No, non era un mussulmano, ma un uomo lo era di sicuro. 51 6. accendere e spegnere il computer per tre volte di seguito. Le alunne della II B lanciavano occhiate frettolose verso il naso incerottato del prof, parlottavano fra loro, ridacchiavano. A Meleagro quello stato di subdola agitazione iniziava a dare fastidio. Aveva lavorato tutta la sera precedente alla versione ufficiale e dunque era più che pronto. E le vigliacche non avevano neppure il coraggio di chiederlo, anzi contente di trovare una nuova occasione di pettegolezzo che una chiarificazione avrebbe smontato. Doveva essere lui a fare il primo passo. Era il colmo. Si accettano scommesse per il totonaso – esclamò chiudendo il registro – Lo ha − picchiato un metallaro, ha sbattuto contro un fanale mentre guardava il culo a una signora, la moglie gli ha tirato un piatto che lo ha colpito come un frisbee... dai, un po' di fantasia, provate anche voi... Strano. Non una sfacciata come la Giuseppina, che una volta per fare il numero aveva avuto il coraggio di chiedergli se lui lo usava il preservativo – la Giuseppina stava nascondendo la faccia dietro il libro di Storia – fu una delle più timide invece, la Denise Vaccaro, che non apriva mai bocca per via del vergognoso apparecchio. Ma prof, come se l'è fatto? Lì c'è subito l'osso... – disse, ricordandosi − empaticamente di una botta tremenda al suo, cadendo di bici. Le rimarrà la gobba? - chiese un'altra e poi le teste dell'Idra cominciarono ad − agitarsi tutte insieme e tutte insieme a buttar fuori fiato e fare baccano. Ferme, ferme, che così non capisco niente! L'osso non si è rotto, c'è un taglio − profondo da cui è uscito un fiume di sangue... – si schiacciò teatralmente le mani contro le tempie – Se ci ripenso... no, non ci posso ancora credere! L'Idra ammutolì di colpo: Avete presente quel famoso film di Hitchcock, “Gli uccelli”, no, ma voi quando − mai li vedete 'sti film! 52 Qualcuna lo smentì annuendo col capo. - Stavo passeggiando per una via di campagna quando un enorme corvo ad ali spiegate è piombato giù dal cielo e con quel suo becco tagliente come un rasoio mi ha colpito il naso! Hai voglia a difenderti... troppo rapido, improvviso! Non me ne sono quasi accorto, solo nero davanti agli occhi e poi via! La bestiaccia è risalita da dove si era buttata. Dopo il nero, il rosso, tanto rosso...era il sangue che iniziava a colarmi... Era una versione macabra pensata apposta per colpire le ragazzine, anche farle un po' spaventare magari, in modo che sull'incidente non si proiettasse la benché minima ombra di ridicolo. Anche nella realtà Meleagro aveva avuto a che fare con un volatile e che fosse meno terribile di un diabolico corvo... ma riprendiamo il filo del discorso esattamente da dove l'avevamo interrotto. Meleagro infilato dentro un tubo, un eroico slancio, una decisione presa in un attimo per salvare uno di quei poveri bambini che spesso vi finiscono dentro. Dal condotto arrivavano lamenti sempre più flebili, bisognava fare in fretta. Io, per ricordare ai lettori la differenza che passa fra una diretta televisiva e un romanzo, avevo giurato che ce l'avrei lasciato per un bel po'. Ventitré pagine mi sembrano un tempo ragionevole per passare ora a soddisfare la più irragionevole delle curiosità. Meleagro immerso nell'oscurità sentiva il piccolo avanzare a piccoli passi insicuri, o forse era sui gomiti e sulle ginocchia che si trascinava, facendo appello alle sue estreme forze. Si avvicinava, si fermava. Un movimento, uno stop. Vieni piccino – sussurrava accorato Meleagro Barton – voglio solo aiutarti. − Ancora un piccolo sforzo, allunga la manina, dai che ce l'hai fatta! Ecco, adesso era molto vicino, ne avvertiva la presenza a un metro da sé, probabile fosse talmente scioccato da non riuscire più a parlare. Emetteva soltanto assurdi versi da bestiola. Meleagro protese le braccia sperando di afferrarlo e fu allora che sentì il primo colpo. Per il gran dolore nel buio più totale vide rosso. Pensò che forse si erano dati una zuccata e si preoccupò più delle condizioni del piccolo che delle sue. 53 - Oddio! Ti sei fatto male? Dimmi qualcosa? - La seconda terribile botta gli fece crollare alcune certezze. Il terzo colpo lo gettò in una totale crisi di panico. Ora capiva! Quello che aveva di fronte a sé non era un bambino intrappolato, ma una bestia inferocita. E non si vedeva niente! Cercò di parare i colpi successivi con le mani e con tutto il fiato che aveva in gola iniziò ad urlare: -Aiuto! - e poi – Via! Via! Il pericolo nonostante le urla non si allontanava, anzi tornava all'attacco e Meleagro non riusciva a sfilarsi dal tubo in cui probabilmente si era incastrato. Maledisse la sua tendenza alla pinguedine, nel calvario si rivide davanti Melania che più volte lo aveva rimproverato per la sua dieta dissennata. Quando i contadini lo tirarono fuori aveva il naso sanguinante e gonfio come una patata. C'è un cane inferocito o una volpe o un coyote! Presto, fatemi l'antirabbica! E − attenti a stanarlo, è pazzo furioso! – delirava Meleagro. Invece dal tubo della morte apparve prima il profilo caratteristico e poi tutto il resto di penne e zampe. Era un grosso esemplare di tacchino. Meleagro sgranò gli occhi, sopraffatto da un sentimento di stupore, di vergogna e di risentimento. Portò la mano al naso dolorante. Ma come, proprio a lui che amava i tacchini? Quale cifra simbolica si nascondeva dietro quella subdola e spietata aggressione? Ebbe modo di pensarci a lungo, mentre al Pronto Soccorso lo medicavano e lo incerottavano. Uscito dall'ospedale volle fare un giro al parco dirimpetto per riprendere contatto con la realtà. Si piegò su uno skateboard adagiato sull'erba e si prostrò in direzione di Roma, sussurrando una fervida breve preghiera. Riacquistato l'equilibrio ed insieme il disincanto, pensò di considerare quello come gesto improduttivo della giornata. Ora però si trovava a scuola e si trattava di tutt'altra faccenda. Dopo il resoconto fasullo del corvo, Meleagro chiese alle ragazze di scrivere un componimento dal titolo: “Il pericolo. Quando ci cala addosso inaspettato e quando lo si va a cercare. Quando si presenta con un volto sconosciuto e quando mostra fattezze che si credevano amiche. Rifletti e scrivi”. Alle alunne la traccia piacque e si misero 54 di buona lena col capo chino sul foglio protocollo. Dovette inizialmente aiutare le ragazze straniere che non ne capivano il senso, eppure diverse fra loro provenivano da zone di guerra. Poi anche quelle, bene o male, iniziarono a scrivere e Meleagro in tutta tranquillità si diede a compilare il registro, inserendo a casaccio le A, le C e le E che indicavo il raggiungimento più o meno riuscito degli obbiettivi educativi. Rimase perplesso quando Angela Tilson, originaria di Castellamare di Stabia, gli chiese se si poteva considerare come pericolo uno zio che ogni sabato sera trovava nudo sul letto della propria cameretta. Poi la campanella suonò. Meleagro superava gli innumerevoli sbarramenti che lo separavano da casa e intanto pensava a Melania. Era stata genericamente informata dell'infortunio – una caduta dalla bicicletta, una ferita al naso, nessuna preoccupazione. D'altronde da vari mesi la loro comunicazione era diventata fortuita e generica. Meleagro sentiva ancora di amare Melania, di non vedere in altro modo la propria vita se non con la moglie e la figlia accanto ed anche la faccenda dei gesti inutili era riconducibile ad un sistema superstizioso atto al ripristino dei migliori sentimenti di Melania nei propri confronti. In ascensore pensò pure che se calcava un po' sui lamenti, sui sospiri, sul riassetto del cerotto, forse Melania si sarebbe intenerita e gli si sarebbe avvicinata almeno per una coccola. Invece lo salutò in fretta come pensasse ad altro, gli servì la pasta e iniziò a mangiare con la testa china sul piatto. Lui iniziò a tirare su col naso, a buttare un ohi lì ogni tanto, a far girare i maccheroni nel piatto senza più portare la forchetta alla bocca. − Che c'è, non ti piace? – chiese Melania più risentita che preoccupata. − No, è buono. E' che col naso non riesco a respirare bene... e se ho la bocca piena soffoco... Vuoi farti vedere, ti porto con me all'Ausl... – ma mentre lo diceva si accorse del − passo falso. Sarebbe stato assolutamente normale sino a due giorni prima, ma ora l'Ausl non era più soltanto un anodino luogo di lavoro. Così pensò a TD, si strozzò 55 con l'acqua e si alzò annaspando alla ricerca del fiato che non gli arrivava più ai polmoni. A proposito di soffocamento... – commentò Meleagro, ma siccome vide in − quell'incidente una risposta del tutto inadeguata, anzi un netto rifiuto alle sue richieste di attenzione, non mosse un dito per aiutarla. Melania si riprese dall'apnea con gli occhi lucidi come se avesse pianto. In realtà, in quella mezza crisi isterica, qualche lacrima l'aveva pure versata. Devo andare – disse e lo fissò sperando con tutte le sue forze che non accettasse − l'invito per quella controllata all'ospedale. Era sul naso che infatti stava puntando il suo sguardo colmo di apprensione, non lo stava guardando negli occhi. No, il naso me l'hanno torturato abbastanza. Fermati a bere il caffè, facciamo due − parole... Lei stava già prendendo la cartellina e la borsa. - Ho del lavoro arretrato. Lavoro arretrato...un tossico di ieri, si potrebbe dire nel tuo caso – disse con un − certo sarcasmo Meleagro. Questa volta Melania si strozzò anche senza acqua. Le era apparsa l'immagine di lei e TD sulla scrivania. Reagì aggredendo. Pensa ai tuoi di casi umani, a tutte quelle mongole che hai davanti ogni mattina! E − non permetterti più insinuazioni del genere! Corse alla porta ed uscì sbattendola. Insinuazioni? – chiese Meleagro allargando le braccia e poi – Ma cosa ho fatto? - − alzando il tono caso mai fosse ancora piantata sul pianerottolo in attesa dell'ascensore. Meleagro sbuffò una sola volta, poi rimase pietrificato. Si fissò sul bordo cromato del lavello sentendone l'insostenibile estraneità. Da quel momento il metallo cominciò ad infestare tutta la stanza, coprì le mura,il soffitto, le sedie, il tavolo, i resti di cibo che aveva ancora nel piatto ed il pezzo di pane che aveva afferrato. Non riusciva a distogliersi, anche lui si sentiva di ferro, stava diventando 56 un pezzo del mobilio, una cosa dura e senz'aria. Finalmente riuscì a respirare. Non conveniva aspettare oltre. Andò all'armadietto dei medicinali e si ficcò in bocca una pillola di benzodiazepina. La benzodiazepina, di cui molti in città erano golosi senza esprimere nessun verso eccessivo di ghiottoneria, non funzionava come la cocaina che faceva arrivare stimoli orgasmici al nucleus accumbens. Non so esattamente come funzionasse la benzodiazepina, ma caso mai c'entrasse con i dintorni del nucleus, era come una musichetta d'ambiente molto rilassante o un bagno caldo o una carezza lunga, anche se non troppo convinta. Comunque, Meleagro mandò giù la pillola e decise di anticipare il giro in bicicletta. Una volta al manubrio prese però la direzione opposta rispetto a quella della recente disavventura col tacchino. All'inizio del suo percorso incrociò l'auto di Melania senza che l'uno si accorgesse dell'altra. Melania bloccò la macchina di lato alla strada e prese in mano il telefonino. Non compose il numero di TD, ma anche solo a sfiorare i tasti corrispondenti le pareva un preliminare all'atto sessuale. Chiamò invece la sua amica Vanessa Del Rio, che dopo l'Università aveva deciso di aprire un negozio di intimo maschile e femminile. Se un uomo o una donna avevano bisogno di un comunissimo slip, andavano all'Ipercoop perché spendevano un bel po' meno. Da Vanessa ci si recava per l'occasione speciale, il lussuoso, il bizzarro, l'osè e nel retrobottega c'era anche un reparto nascosto con l'equipaggiamento sadomaso. Vanessa vendeva i suoi capi femminili a uomini che li sceglievano più per le proprie amanti che per le proprie mogli. In certi casi per i propri amanti. Le mogli, diceva Vanessa, erano al terzo posto, anzi no al quarto, perchè diversi mariti compravano mutandine di pizzo per se stessi. Melania non sapeva se crederci o no, ma queste storie la facevano ridere, avevano un salubre effetto antianalisi. Ci si vedeva e si iniziava chiedendo: - Come va col lavoro? Vanessa iniziava seriamente con gli incrementi e i decrementi delle vendita, poi inevitabilmente il discorso passava dai contenitori di tessuto agli ammennicoli che 57 contenevano e le risate si sprecavano. Nell'Impero-pianeta – non si capisce bene ma una ragione ci sarà pur stata – si rideva come pazzi ogniqualvolta si parlava di cazzo e di figa e per lo stesso argomento come pazzi si piangeva. Entrambe le ragioni dipendevano probabilmente dal nucleus accumbens. Che fosse un argomento destabilizzante ora anche Melania se ne stava accorgendo. − Vanessa hai un minuto sono sconvolta... − Che ti succede, cara? Problemi col lavoro...ti ha aggredito un tossico? − In un certo senso... tutte e due le cose – fece una risata isterica. − Ti sento strana. Vuoi che ci vediamo? − No, devo andare da lui, al lavoro cioè... Vanessa era esperta di cose nascoste, ci mise un attimo a capire. Melania, guarda tu dovresti essere quella che i lapsus li studia e non li fa. Chi − sarebbe 'sto lui? Un cocainomane... stavo per fare il suo numero, ma poi...è normale sfiorare i tasti − con le sue cifre e sembrarti che sia un preliminare all'atto sessuale? Cosa? Fra te e il cocainomane... non capisco, ti piace il tipo? Hai dei pensieri li-bi- − di-no-si su di lui? Mi ha scopata selvaggiamente sulla scrivania del mio ufficio! – doppia risata − isterica. − Non ci credo! Ti sei fatta di cocaina anche tu? − Non scherzare. Ora non posso più vederlo, capisci? Mi cancellano dall'albo professionale. Le analiste non fanno sesso con i loro pazienti, la conosci la storia no? Sto di merda... − Senti cocca, a parte che sei una gran troia, lui com'è? − Un bel ragazzo, Vane, e ha vent'anni meno di me... Dio mio, mi sento male! − Cazzo, un ventenne! E... là sulla scrivania... insomma, ti è piaciuto? − Credo di sì. 58 Credi, eh? Allora senti, vuoi un consiglio? Basta con la scrivania...o comunque − basta con quella del tuo ufficio... lì non lo devi più vedere, capisci? − Certo, a questo punto non posso più tenerlo... − Lo tieni come stallone. − Sì, lo devo passare ad una mia collega − Vi dovete vedere fuori, dimentica il caso professionale e goditi la storia... a proposito, tuo marito? − Oggi a momenti mi tradivo. − Stronza! − L'ho anche trattato male. − Non lo devi trattare né male né bene, se no si insospettisce. Trattalo come al solito. − Il solito è squallido, Vane. − Appunto, fatti una pausa pranzo col coca e stai muta. A proposito, il coca c'ha i soldi? − Ah no, non posso dirti nulla! E' un segreto professionale. − Hai appena detto che lo passeresti a Dr House! Dai che muori dalla voglia, dimmi chi è! − Mi giuri? − Sulle mie mutandine. − E'... sì insomma, uno in vista. − In vista come? − In vista dappertutto. − Dappertutto? − E' il figlio... l'erede del marchio. − Quel marchio!? − Sì. − Vieni subito da me che provvedo a rifarti il look. Cazzo, il figlio del marchio! Che 59 grandissima troia! Il narratore che qui scrive è un grandissimo intercettatore telefonico. Quella che segue è la seconda telefonata che fece Melania, subito dopo aver chiuso con la convincente Vanessa. − Pronto? Sono la dottoressa Melania Carson. − Oh, cazzo! Sono in ritardo? Arrivo subito. Non farmi rapporto dal vecchio! − No... volevo dirle... dirti... che c'è stato un cambiamento di programma per il suo… tuo recupero. Non puoi più venire in ufficio da me. Non posso più venire al Sert? Calma e sangue freddo. Io lì ci devo venire eccome, − se no il vecchio mi taglia i viveri. Lo stronzo l'ha promesso ed è capacissimo di farlo. Sì, ci vieni lo stesso, ma non con me. Ti seguirà un'altra dottoressa. − C'è una pausa. Io oltre ad intercettare le telefonate, so interpretare i silenzi. Lei si aspetta che lui esprima il suo dispiacere, che alla sua affermazione vada fuori di matto perché ha bisogno di lei, che le sussurri che ha una voglia pazzesca di rivederla. Lui invece tira semplicemente un sospiro di sollievo. Ah beh, allora! Ma gli orari cambiano? Perché a me andavano bene quelli che − avevo con te. Melania crede di percepire in queste parole un incoraggiamento e si fa ardita. Beh, gli orari... io e te potremmo vederci fuori. − Lui non capisce. Un incontro della terapia fuori? − Melania sta morendo. Voglia e vergogna se ne contendono il cadavere. − Forse un incontro... ma non per la terapia... tu cosa ne pensi? − Ah no, senti. Io sono sorvegliato speciale. Non posso girare a vuoto. Se ci vediamo devi dire al vecchio che è per la rieducazione, capisci? Per Melania l'equivoco di una frase non va chiarito se serve ad alimentare la 60 speranza. Deve vederlo ad ogni costo. − Va bene. Possiamo dire che è per la... rieducazione. − Senti, lui è qui. Te lo passo un attimo che glielo spieghi? Digli che è una terapia esterna, va bene? Cazzo ne so, l'essudorazione. L'essudorazione? − Sente una voce diversa, più profonda ed arrochita, più simbolica. Il marchio in persona. Prova la strana sensazione di dover chiedere la mano di suo figlio. Un imbarazzo totale. Senta, sono la dottoressa Melania Carson, c'è un cambiamento di programma nel − programma di recupero di suo figlio. Ci vediamo fuori dal Sert. Sente di nuovo la voce del rampollo, un po' più lontana. Dai babbo, ma cosa te ne frega di dove ci vediamo? Tra un'ora alla palestra − Tenax... perché alla palestra, babbo? E' per il programma di essudorazione, no? Ora è vicina come prima. − Dottoressa Carson, glielo confermi lei al babbo. − Sì, è per il programma di essudorazione. Lo confermo. Anche Meleagro aveva iniziato e portato a termine il suo personale programma di essudorazione. Aveva pedalato infatti per chilometri e chilometri, con la ferma intenzione di non fermarsi mai. A volte pericolosamente con gli occhi chiusi, per via dell'intorpidimento da benzodiazepina. Le strade che aveva scelto si addentravano in una campagna che un tempo era stata palude. Era frequentata da aironi che da alcuni anni erano tornati alla grande. Ogni tanto ne vedeva uno là in mezzo all'erba rasa, che non sapeva che fare. Girava al largo perché un po' di apprensione per i volatili di grossa taglia gli era rimasta. E poi gli aironi immobili gli suscitavano una certa antipatia. Li assimilava a certi bulli tutti ingobbiti e con le mani in saccoccia che pasturavano nelle aree cortilive della scuola. Forse gli aironi erano gli spacciatori del 61 mondo aereo, se Aristofane fosse rinato ai tempi dell'Impero Americano – pensava – avrebbe riscritto “Gli uccelli” e gli aironi avrebbero portato bustine sotto le ali. Ma sì, pusher sfaccendati! Le strade di quella parte finivano però per ricondurlo in fretta alla provinciale dove correvano Suv e grossi camion. Meleagro sul ciglio della strada, a pochi millimetri dal declivio del fosso, rifletteva sull'evoluzione degli ultimi discendenti della macchina a vapore che stava spiegando all'Idra. In quanto a puzza e rumore sicuramente in peggio. Lo spostamento d'aria ed il gas di scarico dei Tir gli asciugavano il sudore addosso ed in un percorso salute questo non era per nulla salutare. Rientrato a casa Meleagro fece la doccia e poi decise di chattare un po' con la figlia. La figlia Maddalena – Maddy in famiglia e per gli amici – aveva 16 anni ed era trasvolata nel centro dell'Impero per un programma scolastico della durata di un intero quadrimestre. Per imparare alla grande la lingua dominante e chissà cos'altro. La sua bambina nel centro dell'Impero, a mangiare tacchino arrosto con salsa di ossicocco. Gli mancava. La maniera più economica per comunicare con Maddy era mettersi al computer e chattare con lei. Chattare significava scambiarsi messaggi in tempo reale utilizzando la rete. Era una chiacchierata scritta in cui la prontezza andava ovviamente a scapito della riflessione. Si poteva sapere dall'altro se era triste o allegro, ma comprenderne a pieno i motivi diventava complicato. Quella era giusto l'ora in cui Maddy chattava con il resto del mondo. Meleagro aveva la sensazione un po' frastornante di cadere dentro un cartone animato. La figlia e tutta la tribù della chat line a volte invece di parole usavano immagini chiamate emoticon. Così dopo un bollino giallo sorridente che gli esprimeva la contentezza di Maddy perché il papi era in linea e dopo varie labbrone turgide che comunicavano l'affetto più profondo, comparve la faccina della Sirenetta che si soffiava via dalla fronte il ciuffo fluente. Cosa voleva dire? Meleagro cliccò sulla parte destra del mouse e al posto del disegno comparve la scritta “uffa!” - Perché sei stufa? - chiese. - Booooh! - rispose la figlia. 62 Vuoi tornare a casa? – digitò Meleagro. Apparve il volto di un famoso − personaggio televisivo in abiti settecenteschi che scuoteva la testa come un forsennato. Che soddisfazione! Poi Maddy gli comunicò che c'era una sua amica che voleva intervenire, ma lui poteva rimanere per una comunicazione a tre. Meleagro non volle ridursi a rimandare l'emoticon precedente e scrisse. - Nooo! L'ultima cosa che ricevette da Maddy fu un pinguino che alzava la pinna in segno di saluto. Meleagro uscì dalla chat line e rimase a fissare il desktop con un paesaggio marino. Gesti inutili, gesti inutili – pensò. Già non ci credeva quasi più. Qualcosa a portata di mano. Chiuse il computer e poi lo riaccese. Compì l'operazione per altre due volte, poi sentì che Melania stava entrando in casa. Melania? – disse. − Non ricevette risposta. Si alzò e andò in bagno dove lei stava facendo pipì. Melania, io e te dobbiamo parlare. − Melania si asciugò con la carta igienica e si tirò su i pantaloni. − Ora sono stanca. − Non sai nemmeno come mi sono ferito il naso. Com'è andata veramente, cioè. − Oh, 'sto naso! − Se mi vergogno di dire una cosa a te, figuriamoci il resto del mondo. − Ti prego, la fase vittimistica no – disse Melania passando fra il corpo del marito e il battente della porta. − Melania sei sfuggente. − E tu aggressivo. Avrebbero potuto andare avanti così per ore. L'uno a rincorrere, l'altra a fuggire per le stanze e a nascondersi dietro occupazioni vere o fittizie. Quello era il solito, fra Meleagro e Melania. 63 7. scrivere rivoluzione sulla lavagna Melania Carson aveva aspettato il buio della notte per ripensare al nuovo incontro con TD. Tutta raccolta nella sua parte di letto, rivedeva il luogo, rivalutava parole e azioni. Era così impegnata e partecipe che neppure si rendeva conto se Meleagro giacesse al suo fianco o fosse rimasto là dove lo aveva lasciato, sul divano di fronte alla Tv. La palestra si chiamava Tenax e Melania aveva aspettato TD davanti ai tornelli per buoni dieci minuti. Intanto passavano ed uscivano uomini e donne in tuta, più sorridenti che no, facendo ciondolare con estrema disinvoltura i borsoni ginnici che parevano lucidati. Lei per mostrarsi a proprio agio ed inserita nel contesto aveva accennato a un sorriso e aveva provato a far oscillare leggermente la valigetta da ufficio. Ma trasformare agli occhi altrui un tailleur primaverile in una tuta Nike era al di sopra delle sue possibilità. Decise di entrare e di chiedere. TD era già dentro, glielo indicarono. Prima di farla passare le dissero che il regolamento prevedeva per la verità scarpette da ginnastica. - Oh no, non sono iscritta, è solo per una comunicazione urgente- rispose accorata. Seduto ad una macchina lucente di metalli sollevava ed abbassava una barra senza fatica apparente. I bicipiti però si tendevano e a Melania caddero gli occhi sui pantaloni aderenti alla ricerca di altri gonfiori. TD non si fermò. Ho pensato di entrare e di avvantaggiarmi un po' col lavoro. Era da un casino che − non ci venivo... va bene così? Sto sudando abbastanza? Melania era arrossita e si era guardata intorno preoccupata che altri avessero sentito, ma sembrava che ognuno badasse principalmente ai propri esercizi ed alle proprie essudorazioni. Da psicologa a personal trainer. Come sono caduta in basso! – pensò Melania − 64 rigirandosi nel letto. Sul momento: - Ma sì – era riuscita soltanto a mormorare, completamente spiazzata dalla domanda di TD e l'imbarazzo era raddoppiato quando lui si era fermato e con un movimento della mano le aveva chiesto di abbassarsi. - E così mi sono accucciata di fianco a lui, accucciata! – pensò Melania raccogliendo involontariamente le gambe al petto. Hai visto se per caso nel parcheggio c'è una Tipo metallizzata? Gli stronzi per − mimetizzarsi meglio girano in utilitaria. Quelli che mio padre manda a sorvegliarmi, capito? – le aveva sussurrato. Non so, non ci ho fatto caso... – aveva risposto Melania. − Allora TD si era alzato e aveva sbirciato dalla vetrata come un agente segreto. Sì, ci sono... Tu sei dalla mia parte, vero? – le aveva detto guardandola dritto negli − occhi e sfiorandole la mano. Melania sotto le lenzuola si accarezzò il viso per rivivere i brividi che aveva provato. Certo – aveva risposto con un filo di voce. − Lui allora aveva ripreso l'aria disinvolta di figlio del marchio e mettendo da parte gli esercizi di essudorazione – Bene – aveva detto – Vado a cambiarmi e torno. Dovevi parlarmi, no? Melania lo aveva aspettato nell'angolo relax rifiutando beveroni energetici e tisane rilassanti. TD si era presentato bello come il sole, camicia di seta, pantaloni a vita bassa con cinturone, i capelli ravvivati dal gel. Pareva però irrequieto e la psicologa del Sert conosceva bene le ragioni di quel nervosismo. Non riusciva a star fermo sulla poltroncina, si rosicchiava le unghie. Il rigurgito di professionalità ebbe su di lei l'effetto di una doccia fredda. Era solo un ragazzo che aveva bisogno urgente di aiuto, cosa si era messa in testa? Ma se le fosse stata più vicina – aveva ipocritamente pensato subito dopo e ancora stava pensando mettendosi a posto il cuscino – l'aiuto non sarebbe stato più spontaneo e premuroso? Restava il fatto che come caso clinico dovesse passare ad un'altra dottoressa. Ogni frase pronunciata alla palestra – si 65 rendeva ora conto – era risultata paradossale e si era prestata ad equivoci. − Non possiamo più vederci al Sert. Un'altra psicologa farà il mio lavoro. − Questo lo hai già detto per telefono. − Io però vorrei continuare a vederti. − Altre volte qui in palestra? Le sembrava continuasse a fare finta di niente, non accennava minimamente a quello che era successo fra loro. Era contato così poco? La sua mente annebbiata già non lo rammentava più? Oppure era imbarazzato quanto lei, che da parte sua non trovava il coraggio per parlare apertamente del loro unico incontro? Lo trovò il coraggio, invece, per formulare un'audace proposta. − No, no, non in palestra! Possiamo vederci una volta... da te? − La visita a domicilio del dottore? Risparmiami, per piacere! A casa poi sono supercontrollato. Secondo me il vecchio ha fatto mettere le cimici dappertutto. TD aveva scostato leggermente la testa e in quel gesto aveva rivelato tutto il suo splendore giovanile. A Melania era tornato caldo, il desiderio di intimità era diventato impellente, avrebbe rischiato l'impensabile per averlo. La velocità dei suoi pensieri era aumentata vertiginosamente, stava procedendo come i delinquenti che in un attimo per i loro piani criminosi scartano mille ipotesi ed altrettante ne considerano. Infine scelgono. Consultò mentalmente l'orario scolastico di Meleagro e poi la buttò lì come una cosa cosa naturale, anche se stava scivolando su di un fondo di ghiaccio. − Ti va bene se ci vediamo da me... giovedì alle dieci e trenta? − A casa tua? Vabbe', può sembrare una visita privata...Però me ne togli una al Sert, con l'altra psicologa? Melania non capiva cosa stesse girando nella testa di TD, forse stavano parlando due lingue diverse, ma la voglia di stare con lui senza nessuno intorno era troppo forte per non prestarsi ad ogni sua condizione. E forse a lui qualcosa del messaggio era 66 arrivato. Quando le aveva stretto la mano per salutarla, non aveva indugiato, non aveva premuto, non aveva stabilito già un contatto più profondo? E così fra tre giorni...magari proprio qui – pensava Melania non riuscendo a − dormire. No, non nel letto dove era stata centinaia di volte con Meleagro. Era un riguardo per il marito o per TD? Magari sul divano...Sul divano Meleagro stava facendo zapping con i canali più insulsi non decidendosi di andare a dormire anche se il giorno dopo avrebbe avuto la prima ora. Nel letto avrebbe allungato una mano e avrebbe incontrato una massa inerte a lui completamente estranea, che fosse addormentata o no era la stessa cosa. Dal lucernario nessuna stella, nessuna luce. Che il cielo era nuvoloso lo si sentiva anche di notte. A qualche chilometro di distanza già pioveva, ad esempio sulla casa colonica dove abitava Salman con la sua famiglia. Il ragazzo pakistano sentiva il respiro tranquillo delle sorelle e dei fratelli già addormentati. Lui nella sua brandina non dormiva né si rigirava. Stava disteso, le braccia incrociate sotto la nuca, attento a non perdersi una sola immagine: contro il soffitto buio veniva proiettato il film della sua futura vita sentimentale. Il film iniziava con la fotografia di Tahira, la ragazza che avrebbe sposato fra un anno. Gli occhi scuri, le labbra grandi, il volto quasi triangolare avvolto da un velo turchese che non impediva di scorgere la scriminatura centrale dei capelli. Ma ciò che gli dava i brividi era accanto al collo una porzione di treccia che per un gioco prospettico sembrava distaccarsi dalla capigliatura e diventare un manto scuro e vellutato che immaginava rivestisse altre e più intime parti del corpo. A quel punto il nero si diffondeva intorno, come una nuvola di temporale occupava l'intera inquadratura. L'immagine fissa della sua casta promessa sposa si perdeva, altri volti e corpi, come lampi o fuochi d'artificio, le si sovrapponevano. Erano tutte le ragazze che gli capitava di vedere ogni giorno per strada. Ragazze italiane, non soggette alla legge della religione e delle tradizioni. I capelli li portavano lunghi e sciolti e se erano 67 anche biondi il contrasto con quelli corvini e raccolti delle sue sorelle gli toglieva il respiro. Vedeva su in alto ragazze che si dicevano parole proibite e poi ridevano come pazze, ragazze incupite che muovevano svelte le dita smaltate di rosso sulla tastiera dei cellulari, ragazze che portavano alle labbra la sigaretta e soffiavano via infastidite una nuvola di fumo, ragazze che portavano magliette cortissime e lasciavano scoperta la pelle del ventre dove a volte spiccava una lucente pallina di metallo, ragazze che si accorgevano che le stava fissando e scappavano via spaventate, ragazze che si mettevano il casco e partivano sicure sullo scooter, ragazze che portavano pantaloni a vita bassa e chinandosi mostravano senza vergogna la linea diritta che divide le natiche, ragazze che sulle panchine forzavano le labbra di ragazzi distratti e li baciavano con la lingua in modo tanto violento che anche le guance ne erano scosse, gonfiate, incavate. Quel modo di baciarsi lo chiamavano 'limonare' e quell'espressione era stata per lui a lungo un mistero. Aveva pensato ad una promessa di fedeltà che due ragazzi si scambiano davanti ad una bibita. Poteva essere così stupido? Ma ora le ragazze nel buio si staccavano dalle labbra, dalle sigarette, dai telefonini, dalle panchine. I jeans e le t-shirt si trasformavano in sari variopinti e iniziavano a muoversi in una danza bhangra. Il medio che troppe avevano alzato di fronte a lui mandandolo al suo paese, si univa alle altre dita in gesti raffinati che significavano un invito all'amore. La camera si illuminava dei colori abbaglianti di Bollywood, Salman assumeva le sembianze di Hrithik Roshan, l'affascinante attore indiano, tutte le ragazze italiane si prostravano ai suoi piedi implorando i suoi favori. Salman si scusava con loro, affari urgenti lo chiamavano. Le ragazze sospiravano, deluse e adoranti. Con mosse di kung fu sgominava bande di delinquenti, gli ultimi che rimanevano ad affrontarlo avevano le sembianze di Zac Danson e Gino Aiello. Botte anche a loro, anzi più che agli altri. A terra tramortiti cercavano di trascinarsi lontano dal suo raggio d'azione. E lui neppure una goccia di sudore ad imperlargli l'alta fronte, gli occhiali a specchio ancora perfettamente al loro posto. Quando 68 tornava trionfante al suo harem, solo allora li toglieva ed iniziava a ballare con le sue belle, meglio di Michael Jackson. Chi non conosce Michael Jackson? Ballava, con tutte le mosse giuste, ballava e cantava. Cantava del suo amore, bello come una stella, profumato come un gelsomino. Salman nella stanza afferrava la torcia elettrica che teneva sotto il cuscino e creava un cerchio di luce contro il soffitto buio. La luce da lassù si scaricava ora al suo fianco con un potente effetto speciale. Dal nulla si materializzavano il corpo ed il volto stupendi di Aishwarya Ray, la Miss Universo famosa anche al centro dell'Impero. Gli occhi verdi di Aishwarya! Aishwarya iniziava a duettare con lui, faceva il controcanto, ritmava i suoi stessi passi. Le ragazze non sono invidiose, ma un metro dietro di loro ondeggiano le braccia e si librano sulle punte. Il Giardino del Profeta e le uri pronte all'abbraccio d'amore! Ma il cielo improvvisamente si oscura ovvero dall'alto degli studios dove stanno girando la scena, si stacca una lastra gigantesca e piomba su di loro. Scompaiono i divi e le comparse, le mille ragazze ne sono annientate. E' la gigantesca fotografia di Tahira, che ora domina su tutto. - Esci, esci Tahira, vieni da me! – la implora Salman, gonfio di desiderio. Lei si libera dell'involucro di carta, è una ragazza in carne ossa ed una ragazza a sedici anni è già una donna. - Togliti il velo, Tahira! Sono il tuo sposo, ormai. Sciogli i capelli, Thaira, sono tuo marito, i capelli, Thaira, fammi vedere! Sono i lunghi capelli che desidera vedere, toccare, vi affonderà le mani, ne sentirà il profumo. Tahira sorride, con un gesto deciso si scopre. E Salman muore. Il cranio è rasato, qua e là spuntano ciuffi viola e arancione. E lui deve rinunciare, ancora rinunciare, rinunciare come fa con le ragazze che vede per strada ogni giorno. L'ultima parte della visione non si è impressa contro il soffitto buio, ma è tutta racchiusa nella mente di Salman, sotto i suoi occhi chiusi. Si sveglia dall'incubo perché la mano della sorella lo scuote. Sono le quattro ed è ora di alzarsi. Aisha ora dovrà preparare la colazione per i fratelli che vanno al lavoro, la madre è in Pakistan e chissà quando torna. Torna quando avrà i soldi per l'aereo, mica una cosa facile. 69 Aisha dopo la colazione preparerà il riso e le verdure per il pranzo, poi chiamerà le sorelle più piccole ed anche a loro darà la colazione. Correrà per prendere il bus delle sei e quarantacinque che la porterà a scuola. Alla prima ora avrà il prof di Italiano e Storia e quando inizierà a spiegare, lei di quello che dirà ci capirà pochissimo. Meleagro scrisse sulla lavagna: UN CORSO D'ACQUA DI POCO CONTO. E sotto: LA META' DELLA LUNA. E ancora più giù: UN PARENTE STRETTO E GROSSO. Si rivolse all'Idra che la novità del gioco aveva reso mansueta:- Ora, se voi trovate la soluzione alla prima definizione e poi la incastrate alla seconda e alla fine aggiungete la terza, ecco che troverete la parola intera che corrisponde alla definizione finale. E dunque la definizione finale è – scrisse – LA TERRA OGNI ANNO E SULLA TERRA AD OGNI SECOLO. Capito? Cucire insieme i pezzi, va bene per voi... E' un giochetto che si chiama sciarada. Sguardi vuoti, espressioni perplesse. Meleagro sospirò e riprovò un'altra volta. Con l'Idra ci voleva pazienza e costanza, lo sapeva. Col gesso tirò delle linee sotto ogni parola. Questo 1 + questo 2 + questo 3 uguale questo 4, la soluzione finale! − Una alzò la mano:- Ma prof 1+2+3 fa 6... Basta! Ci vuole un po' di concentrazione... − No, pensò che ci voleva l'incentivo:- Allora, diciamo che chi risolve la sciarada avrà un 9 in Storia! Fate quello che ho detto, in silenzio, io intanto devo interrogare... Zhang Xi Xi e Samantha Ford, non avete ancora il voto, venite! La strategia messa in atto da Meleagro riguardava la possibilità di interrogare in santa pace senza essere disturbato dal casino prodotto dall'Idra. Se pure voi non avete voglia di seguire l'interrogazione che verterà ancora una volta sulla rivoluzione industriale, beh, provate a risolvere la sciarada! E non lamentatevi, come le alunne 70 della II B, che le definizioni sono troppo difficili. Non è affatto vero. La soluzione non è in fondo al libro. Però, a pensarci bene, se andate avanti con le pagine qui sotto, un qualche indizio potreste trovarlo. Va bene – iniziò Meleagro dopo che le due si erano poste a destra e a sinistra della − cattedra – Xi Xi quale invenzione è alla base della prima rivoluzione industriale? Samantha Ford alzò immediatamente la mano per rispondere qualora la cinese non la sapesse. Meleagro conosceva bene quel tic da prima della classe. − La macchina a vapore... – rispose Xi Xi. − La macchina a vapore – continuò la Ford senza che le fosse richiesto – fu inventata dallo scozzese James Watt nel 1765. La macchina poteva trasformare il moto verticale in moto rotatorio, il moto si propagava ai telai e li metteva in azione... Giusto Ford, ma non ti ho chiesto di intervenire... dimmi Xi Xi, da quale materiale − è alimentata la macchina a vapore? La Ford ebbe un sussulto, serrò le labbra, alzò il braccio ed ondeggiò freneticamente la mano ad indicare che sapeva benissimo anche quello. Meleagro la ignorò ancora e prese un gessetto in mano. Guarda Xi Xi, questo è gesso, lo sai. Una cosa bianca che si può produrre in − quantità, ad esempio per ingessare il braccio alla Ford così lo tiene in alto senza fatica...ma il materiale di cui parliamo noi è molto vecchio, è l'opposto del bianco e per trovarlo bisogna scavare, in profondità.... Samantha Ford non riusciva più a contenersi, come quei cagnolini che fermi sulle zampe per ordine del padrone, non possono impedirsi però di scuotere la testa, implorare con gli occhi, guaire da far pietà. Xi Xi invece gli occhi li alzava alla ricerca di una risposta plausibile. Ce n'era soltanto una, in verità. − Carbone? – disse Xi Xi e per l'insicurezza la parola diventò una domanda. − Certo, carbone, Xi Xi. Qualcosa che viene trafugato al ventre della Terra che lo ha 71 custodito per milioni di anni e... Il carbone viene introdotto nella caldaia, sprigiona calore, porta ad ebollizione − l'acqua e di conseguenza si forma il vapore che... Ford, per favore, sto parlando io. E per sottrarlo alla terra – stavo dicendo – furono − costruite le miniere, dove migliaia di uomini, donne e bambini si spaccavano la schiena e sprizzavano sangue per riempire i vagoni del prezioso materiale. La Ford alzò ancora il braccio e ripartì. Per lei ogni occasione era buona. Lavoravano sino a 12,13 ore nelle miniere, uscivano di casa quando ancora era − buio, quando risalivano era notte, praticamente non vedevano mai la luce del sole, i bambini, essendo piccoli, potevano entrare nei cunicoli più stretti... Non era affatto sbagliato. Ma la Ford diceva queste cose senza nessuna partecipazione. Era così che andava ripetuta la lezione. Chi mai avrebbe loro insegnato a distinguere quali nozioni richiedessero un coinvolgimento emozionale e quali no? La Ford, come sempre, la lezione la sapeva e la diceva bene. Eppure Meleagro si girò verso di lei con una lentezza agghiacciante, la fissò negli occhi sino a confonderla, a bloccarne la sequela di parole. Dimmi, Ford, - sibilò Meleagro Jackson – quali sono i colori della rivoluzione − industriale? Samantha Ford arrossì e fissò il quaderno pensando a quale pagina fosse stato scritto quell'appunto che ora incredibilmente non riusciva a ricordare. − Ma io... – balbettò. − Non c'è sul quaderno né sul libro, Ford...sono il rosso e il nero, Samantha, il carbone e il sangue. Tante altre cose potrebbero rappresentare 'sti due colori, ma soprattutto carbone e sangue, qualcosa con cui ci si sporca le mani... Dai banchi cominciavano a sbuffare: - Prof, ci dia un aiuto! Prof, per luna s'intende quella che si vede dalla Terra? Perché pensavamo potesse − essere un nome. 72 − Un nome? − Sì, il moroso della Luna – così si chiamava una loro compagna – cioè LA META' DELLA LUNA. − Ragionamento valido, ma sbagliato. − Prof, come fa un parente ad essere nello stesso tempo STRETTO E GROSSO? Meleagro non rispose e tornò alla Ford del tutto frastornata. Che soddisfazione costringerla all'angolo. E Xi Xi sembrava prendere coraggio: - Nel mio paese è rossa la bandiera – disse. Certo Xi Xi, anche allora si usavano bandiere rosse e nere, erano il segnale della − rivolta – si alzò in piedi e picchiettò sulla cornice della lavagna. Prese in mano un gessetto e si schiarì la voce. Nero e rosso! E voi ragazze, a quando la vostra... rivoluzione? − E scrisse sulla lavagna RIVOLUZIONE, bello grande lo scrisse. Aisha, anche lei copiò la parola, su una pagina intera del suo quaderno, perchè così l'aveva scritta il prof , riempendo l'intero spazio della lavagna. Non era tanto sicura di averne compreso il significato, ma non si preoccupò più di tanto. In quella scuola molte erano le parole che le erano estranee e molte le persone. Era una scuola dove si insegnava a diventare operatrici per la moda, ad iniziare dalle basi, disegno, taglio, cucito, confezione. Poteva succedere che figlie di famosi marchi locali e figlie di tessitori pakistani immigrati si trovassero fianco a fianco nei laboratori. Questo non significava che entrassero in confidenza e diventassero amiche o che semplicemente si salutassero. Le due interrogate ad esempio, quando suonò la campana non scambiarono una parola né si degnarono di uno sguardo. Eppure ciò che segue dimostra che fossero due rotelline inconsapevoli di uno stesso grande ingranaggio. Samantha Ford fu prelevata all'uscita da una Mercedes guidata dall'autista della fabbrica parentale. Zhang Xi Xi venne accolta da un furgoncino dove già si trovavano altre ragazze e donne cinesi. Il veicolo era guidato da un suo cugino che gestiva gli 73 affari della piccola comunità, un factotum abile e risoluto. Samantha fu portata alla villa dove la cuoca le aveva preparato le lasagne al forno che la domestica le avrebbe servito. Samantha pranzava da sola perché i genitori lavoravano sodo anche all'ora dei pasti. Mentre mangiava ascoltava musica dall'I-pod. Xi Xi venne scaricata davanti al fabbricato con i capannoni e mangiò degli involtini primavera direttamente dalla vaschetta di alluminio. Ce n'erano tante di vaschette sulla tavola dove poi avrebbero lavorato, ma Xi Xi era una delle poche a mangiare con gli auricolari inseriti. In quei capannoni si lavorava giorno e notte per consegnare ai proprietari del marchio un numero sterminato di magliette e pantaloni. I ritmi erano elevatissimi ed i salari molto bassi, se no che convenienza c'era? Gli operai e le operaie lavoravano, dormivano qualche ora su brandine disposte nei locali attigui, si alzavano, riprendevano a lavorare. I giacigli corrispondevano ad un quarto degli addetti perché quando uno si levava un altro si coricava al suo posto e così via. Xi Xi dava una mano, anche di notte, nei momenti in cui la consegna si avvicinava ed il ritmo saliva. A scuola poi le crollava la testa sul banco. I pezzi che i cinesi, compresa Xi Xi, producevano sottocosto erano ordinati dal marchio di cui era figlia Samantha. Et voilà. Ah, dimenticavo: la musica che ascoltavano le due ragazze mentre mangiavano era la stessa. Era l'hit del momento, una canzone di una cantante imperiale che diceva:No one, no one is getting away for a feeling, ovvero nessuno, proprio nessuno sta piantando tutto per un sentimento, più o meno. Meleagro invece non andò subito a casa, ma si fermò davanti alla lavagna provando a riflettere sulla grossa parola che aveva scritto. Decise che l'avere scritto quella grossa parola sarebbe stato il gesto inutile della sua giornata. 74 8. sorprendere una donna con un abbraccio del tutto inopportuno Ma se ci pensava prima, se li progettava a tavolino, se decideva in anticipo quando e dove realizzarli, i gesti potevano ancora essere considerati inutili? L'ideale sarebbe stato trovarli in un momento fortuito della giornata, l'occasione li avrebbe offerti, l'estro li avrebbe raccolti e rielaborati. Uno schiocco di dita! Semplice! Perfetto! Ma Meleagro non era sempre così pronto e lucido e si rassegnava alla fine a battezzare come inutili azioni su cui esercitava la sua terribile noia o la sua amara riflessione. Era un presente rallentato o un passato rivisto e corretto. Spegnere e accendere tre volte di seguito il computer, più tedio che effettiva inutilità. Scrivere rivoluzione sulla lavagna di fronte ad adolescenti problematiche, più scacco ideologico che effettivo non-sense. Ci credeva ancora? O il gioco, come tanti altri precedenti, stava per esaurirsi? Inizialmente era stato un rigurgito di ribellione contro tutte le cose piene zeppe di significato che la vita gli propinava ogni giorno. Siccome bisognava assumersi le vecchie responsabilità e magari aggiungerne di nuove, si sarebbe disimpegnato così, un piccolo strappo nella tela troppo tesa. C'era un casino di maschi che per sfiatare andava sui siti porno, lui no, si intristiva, non si eccitava. Era insegnante d'Italiano e ricordava vagamente l'esempio de “La carriola” di Pirandello. Com'era il protagonista, un impiegato, un serio professionista, padre e marito modello? Quando non ce la faceva più il tipo pigliava il suo cane per le zampe posteriori e lo portava avanti e indietro per la stanza chiusa a doppia mandata. Meleagro sorrideva pensando all'ingenuità della trovata e a quanto il racconto fosse obsoleto. Fare la carriola con Fido... embe', chi non ci giocava ormai, con i propri animali domestici? Con i cagnolini se ne erano viste di tutti i colori, imbarazzanti scene domestiche riprese a bella posta e poi diffuse da Internet e dalla TV, per non parlare di pratiche sessuali 75 ancora non rese pubbliche, per fortuna. No, per Pirandello il significato della cosa stava nel nasconderla agli occhi di tutti e nel ripeterla ossessivamente ogni giorno. Ma allora anche quella diventava una pratica coatta, una dichiarazione di schiavitù, come il sesso virtuale, dunque! Meleagro invece voleva trovare ogni giorno la freschezza di un gesto nuovo ed il suo splendore sarebbe risultato più vivo se l'azione fosse stata pubblica, di fronte a persone del tutto inconsapevoli. Che lo prendessero per matto non ci sperava, visto che lo spazio fra normalità e follia era stato colmato da tempo con l'acqua torbida della finzione. Avrebbero pensato ad una telecamera nascosta, ad un programma di scherzi televisivi etc. etc. Ma chi se ne importava. Quello che faceva valeva esclusivamente per sé. La sua preghiera nel nome dell'Assurdo. Il rosario completo ne prevedeva 46 di recite, di formulazioni. Un peccato originale si era però insinuato da subito nell'elaborazione del coraggioso sistema. Lo aveva appena deciso e già era andato contro la libertà del progetto, immediatamente ci era finita dentro la dannata superstizione. Il pensiero selvaggio era diventato un pensiero da selvaggi. Si era convinto di quanto segue. Se avesse portato perfettamente a termine il ciclo gliene sarebbe derivato un vantaggio enorme. I primitivi hanno una paura enorme di perdere ciò che hanno di più prezioso e dunque si premuniscono salvaguardando ad ogni costo la perfezione dei loro gesti rituali. Così si era espresso più o meno inconsciamente Meleagro e non aveva il viso segnato da tinte o il capo adorno di piume o al collo ghirlande di oscuri amuleti. Era un uomo del suo tempo con addosso una paura enorme, come ognuno di noi, del resto. Se io li completo questi gesti perfettamente inutili, se io li completo veramente, − senza dimenticare e senza arrendermi, Melania ricomincerà a volermi bene come una volta e tutto come una volta tornerà a splendere. Ne sono convinto, è sicuro. A parte il bizzarro e irrazionale interesse per i tacchini, Meleagro era un tipo che sulle cose ci ragionava anche troppo e dunque comprendeva benissimo come tutto quanto nascesse dalla disperazione. I credenti, in mancanza di una valida alternativa si 76 rivolgono ad un dio balzano, i bambini infelici atrofizzano la fantasia e si puniscono giocando per ore e ore un gioco che li annoia. Così andava avanti Meleagro e considerava ormai i suoi gesti inutili più con autocommiserazione che con divertimento. Godeva a vedersi rincoglionito, persisteva nell'ubriacatura anche se il vino se ne era andato in aceto. Povero deficiente – diceva a se stesso mentre pedalava – mia figlia è lontana e mia − moglie è un Ufo – e pedalava più forte nell'illusione di poterle raggiungere. Un giorno – ne mancavano alcuni all'agognato appuntamento di Melania con TD – l'ispirazione lo colse. - Sì – disse sorridendo a se stesso – proprio questo ora. Eseguì una mezza piroetta che lo introdusse in bagno e invece di trattenersi come faceva da mesi, abbrancò da dietro la moglie che si stava truccando, la strinse forte, affondò il naso nei suoi capelli. Meleagro era alto 181 cm. Melania 165. Meleagro pesava 90 chili. Melania 60. Melania in tempi migliori avrebbe apprezzato in un simile abbraccio un senso di forte protezione, ora ne avvertiva solamente la minaccia di stritolamento. La differenza in centimetri e chili non erano più motivo di conforto, ma di totale estraneità. Unità di misura di allontanamento. Davanti allo specchio percepì in quell'abbraccio non richiesto tutto il calore sbagliato. Tirò il fiato, posò il tubetto di fondotinta e disse:- Lasciami. Meleagro non poteva costringere nessuno a fare capriole con lui, in casa stava vedendo prati e fiori, ma era un'allucinazione che la moglie non condivideva, un fumo d'allegria che non aspirava. Si tirò indietro e si scusò. − Mi è venuto così d'impulso – disse – ma perché dovrei trattenermi, se mi prende? − Non è il momento adatto. Mi sto preparando. − Ti stai preparando per quando verrà il momento adatto? − Mi sto preparando per uscire. − Uscire. Uscire dal guscio, uscire dalla crisi... − Devo uscire con Vanessa. 77 − Esco anch'io − Allora prendi un po' d'affettato per stasera. − No, esco con te. − Non hai capito... − Voglio seguirti e vedere dove vai. − Cosa? − Mi dimentichi. Mi metti sempre più di rado. Vengo sino al negozio dove fai shopping. Mi metto vicino agli abiti e così tu mi ricompri. Meleagro aveva abbassato la tavoletta e si era seduto sul water. Melania continuava davanti allo specchio. − Ho voglia di cose nuove – disse – perché dovrei riprenderti? − Perché sono una cosa che va bene per sempre. Devi solo vedermi esposto accanto alla nuova moda per capirlo. Per riportarmi a casa. − Ma io ti ho sempre a casa. Sempre intorno, anche nel cesso. − Ti annoio, eh? Mi hai sempre detto che dovrei cambiare. In cosa dovrei cambiare? − No, Meleagro, ancora 'sta storia! No! − Ti prego, ridimmelo. Oggi potrei impararlo. − Diventare meno ossessivo. Vaffanculo, avere meno paura del mondo! Ti ricordi? Prendevi il Tavor per accompagnare tua figlia sull'ottovolante. Non dico l'aereo, no. L'ottovolante! Faccio fatica a staccarmi da terra. Solo voletti, ogni tanto. Tu non è che mi hai − aiutato molto. A volte penso che hai sposato una psicologa perché così puoi risolvere i tuoi − problemi senza psicoterapia. Non ho mai voluto deludere mia figlia. Mi sono superato, con o senza Tavor. Mia − figlia è in America, non l'ho limitata. Melania si voltò di scatto e strinse fra le mani la tenda della doccia. 78 − E il fatto di limitare me? Ci hai mai pensato, a questo? − Io ho limitato te? Hai sempre potuto fare ciò che hai voluto e nello stesso tempo sono sempre stato al tuo fianco. Ti ho portato equilibrio... Che palle, l'equilibrio! Hai sempre pensato che io abbia una vita avventurosa solo − perché affronto ogni giorno gente con problemi, con casini nella testa... beh, la casistica è abbastanza limitata ed alla fine è un lavoro di scrivania, come qualsiasi altra impiegata. Ticchete ticchete tac. Ticchete ticchete tac? E' questo che ti dà fastidio? La noia, la routine. Partiamo − subito, ora. Non decidiamo neppure dove andare. − Povero Meleagro. Ti ci vedo proprio a partire alla cieca. − Mettimi alla prova, dai. Portami con te nel negozio, per ora. Se vuoi mi metto nudo e ritorno vergine. No, guarda. Ho bisogno di robe primaverili, non di pellicce per l'inverno. − Meleagro si era seduto sul divano ed aveva cominciato a sbottonarsi la camicia. Dai, mi metto nudo anche qui. Magari non mi riconosci e ti viene voglia di fare − l'amore con me. Melania afferrò la borsetta e se la mise davanti agli occhi. Melania, seriamente, da quanto tempo non stiamo insieme? − Melania non rispose e s'infilò la giacca. Meleagro si era sfilato i pantaloni. − Melania, guarda porca puttana, ho un'erezione! − Beh, prova con un call-center – disse Melania ridacchiando ed aprendo la porta per uscire. Melania, ho il cazzo duro per te, la mia carne ha bisogno della tua, soltanto della − tua! - urlò Meleagro. Sentì la porta richiudersi. Della tua! Della tua! Della tua! − Aveva preso un cuscino e lo stava sfondando contro la sponda del divano. Quando le 79 piume iniziarono a svolazzare si fermò sentendosi esausto. Diede un'occhiata agli slip da cui era scomparsa ogni tensione. Ed ora che faccio? – si chiese a voce alta. Si guardò intorno. Tra poco i mobili e i − muri gli avrebbero comunicato un altro tipo di rigidità che si sarebbe propagata ad ogni muscolo del suo corpo e avrebbe resa fissa la sua mente. Sentì il silenzio ed il ticchettio dell'orologio a muro. Doveva riscuotersi. Vide davanti a sé il mobile che bisognava adattare inserendo una vetrinetta. Era da mesi che Melania glielo chiedeva. Non lo fece comunque per farsi bello ai suoi occhi, ma per reagire alla sua imminente trasformazione in pietra. Decise di uscire il più in fretta possibile, si alzò di scatto ed inciampò nei pantaloni che aveva ancora calati. Fuori per il caldo se non mezzi nudi, almeno in calzoncini si poteva girare. In cortile c'era puzza di fogna e vide Maloni sotto il berretto da baseball che stava armeggiando con la grata di un tombino. Non prese la bici perché la vetreria era ad un isolato di distanza. Chiese di Giulio Bellami, il proprietario. Bellami era dello stesso materiale che trattava. Non fragile, perché sbagliava chi diceva che il vetro si rompe facilmente. Il vetro è resistente e flessibile, il vetro è trasparente e lascia passare la luce. Che meraviglia! – pensava Meleagro ogni volta che capitava lì – un corpo che non − ostacola la luce, non inerte, non ottuso, che invece di impadronirsene si inebria dei suoi raggi, ma poi li li lascia andare oltre. Bellami era della stessa pasta. Chiarissimo di pelo, di occhi e di pelle, non si contrapponeva mai alle altrui parole. Anche le più banali e malevole, le tratteneva quel tanto che bastava per colorarsene e poi le rifrangeva pulite e cordiali. Ci si parlava benissimo dunque, sia del tempo che dei gatti randagi di cui si circondava che dell'ultimo libro di poesie. Per Meleagro era un conforto anche se non lo vedeva spesso. Un maestro Zen vicino a Sozzigalli, mica male però. Era da un po' che non lo andava a trovare e quando arrivò stringendogli la mano, notò che anche il suo volto 80 stava assumendo la levigatezza del vetro e ne sorrise. Gli disse delle esigenze di Melania riguardo alla vetrinetta, cioè, e ai ripiani di cristallo. Non c'è problema – rispose Bellami – Vieni. − E mentre salivano le scale polverose che portavano al piano dei campionari, il padrone gli mise per un attimo la mano sulla spalla e gli chiese come se la passava. Come un tacchino pronto per essere farcito – rispose Meleagro. − Quella era una specie di parola d'ordine. Bellami a quel punto poteva anche procedere senza dire più nulla, circa ogni mese Meleagro arrivava con la scusa della vetrinetta e dava quella caustica risposta di fronte al suo sincero interessamento. Bellami per cortesia offrì comunque il proprio punto di vista: - Beh, vuol dire che non sei ancora cotto né tanto meno mangiato. Intanto erano arrivati. Al centro dello stanzone c'erano box per le docce e porte di cristallo sistemate su un piedistallo per ammirarne la trasparenza dei colori e la finezza dei disegni. C'erano pavoni dalle code policrome e disegni geometrici, c'erano paesaggi toscani e fantasie alla Kandinskij. In un angolo, sopra un'enorme lastra, era riprodotto preciso preciso il dipinto con l'abbraccio di Klimt. L'uomo e la donna avvinti. L'esposizione non aveva pretese di eleganza, c'erano trucioli sul pavimento e polvere di vetro un po' ovunque, anche nell'aria. Su di una vecchia scrivania erano gettati alla rinfusa progetti, preventivi e tessere colorate che sarebbero andate bene per un mosaico bizantino. Bellami si avvicinò ad una specie di schedario, tirò un cassetto ed agganciate ad un sostegno di ferro c'erano le lastre di vetro che si mostravano come campioni. Ecco l'ultima volta avevi scelto questo per i ripiani della vetrinetta – disse − Bellami, mostrandogli nella sua armatura un vetro azzurrino – ma se vuoi, guardati ancora un po' intorno. Anche di là, non c'è problema. Io ti aspetto giù. Gli aveva indicato un altro ambiente a cui si accedeva attraverso una porticina scassata. Là dentro c'era quella che Meleagro chiamava “la cattedrale”. Tutti e due 81 sapevano che quello era lo scopo essenziale della visita, altro che vetrinetta! Meleagro sarebbe rimasto dentro una mezz'ora e poi appagato sarebbe sceso per tornare a casa, non c'era nemmeno più bisogno di salutare. Contò i passi di Bellami giù per le scale sino al silenzio, ma la mano era già pronta sulla maniglia. Entrò e si sentì mancare l'aria. Sapeva come fare. C'era una scaletta di legno che portava ad un lucernaio coperto da uno scuro, lui l'aprì ed insieme ad un soffio di vento penetrò nello stanzone la magnificenza della luce. Il raggio rimbalzò sulle grandi lastre di vetro messe in fila ai lati della camera e accatastate al centro e fu tutto un bagliore di luci rosse, azzurre e gialle. Ed ogni rosso azzurro giallo si espandeva nel canto sinfonico di cento tonalità. Eccola, la cattedrale, altro che lavori finiti, altro che eleganza ed utilità per le case. Lì era il materiale grezzo che dominava e trionfava. I pezzi Bellami li andava a scegliere direttamente in Germania e Meleagro immaginava che crescessero come diaspri al centro di un'altissima foresta, che c'entrassero poco gli uomini, magari era faccenda di draghi, elfi, coboldi che conoscevano i segreti del fuoco e della pietra. Meleagro abbacinato iniziò a camminare ed anche il pavimento era di un etereo e durissimo vetro. Sotto di quello, senza avvertirne alcun rumore, poteva vedere i lavori della falegnameria. Anche quella era una bella magia, ma Meleagro se ne distolse subito, arrivò sino in fondo e guardò in alto. Da quel punto si poteva scorgere la finestra della sua camera da letto. Fuoco e pietra. Meleagro non aveva mai messo in relazione la felicità di lassù con quella che provava nella cattedrale. Fuoco e pietra – pensò ancora. E là, dietro la finestra, i corpi abbracciati − riuscivano a trasmettere luce, a farla passare, a illuminare come in quel momento ogni cosa d'azzurro, di rosso e di giallo? Gli pareva che qualche volta fosse veramente successo. Quando Meleagro scese, non uscì furtivamente, ma si fece richiamare Bellami. Li prendo, sai, li prendo adesso i cristalli per Melania. − 82 − Ah, ti sei deciso! - esclamò Melania entrando in casa e vedendo i vetri accatastati − Adesso passerà un altro anno, prima che tu li metta su? − Ma no, è facile. Domani, domani, lo giuro! – rispose Meleagro. − Mmmm – fece Melania. Era proprio confusa. Si era alquanto preoccupata quando Meleagro aveva dichiarato di volerla seguire. Lo aveva detto a Vanessa e le aveva anche raccontato, per farsi due risate, della stravagante dichiarazione del marito, con la conseguente solida prova del suo amore, ma l'amica non l'aveva assecondata. Le pareva di averle già detto che la maniera migliore per nascondere un tradimento era far procedere le cose esattamente come prima. Normale come sempre, non più cattiva, non più strafottente, semmai più dolce, dimostrando l'intenzione di elargire qualcosa di bello e dimenticato. − E va bene, gli preparerò una torta – aveva sospirato Melania. − Una ciambella – l'aveva bruscamente corretta Vanessa – con il buco in mezzo. L'una aveva protestato che nella cosa non ci sarebbe stata nessuna poesia, l'altra aveva ribadito che la poesia non c'entrava e che si trattava di un semplice compito di ripasso. L'una insisteva che non poteva farlo perché aveva in mente TD, piantato come un chiodo, l'altra eccepiva che al chiodo si poteva benissimo appendere il ritratto decoroso di moglie arrendevole, mica quello di una donna invasata dalla fregola. Rassicurare e calmare il marito, innanzitutto. Che pensasse, per trovare coraggio, al disgraziato fatto che Meleagro avrebbe potuta seguirla davvero. Melania se n'era andata perplessa. Lo era ancora mentre stavano cenando, senza una parola, davanti a un piatto freddo di salumi, mozzarella e insalata. Meleagro era imbarazzato per via del suo urlo carnale e speranzoso per una risposta anche tardiva. Melania era imbarazzata perché vedeva l'imbarazzo di Meleagro, ne capiva il motivo e sperava di ritardare la risposta a data indefinita. Un silenzio imbarazzato e carico di opposte speranze aleggiava sulla tavola e sulla bottiglia di acqua minerale. In quella 83 parte dell'Impero l'acqua si consumava confezionata in contenitori di plastica che avevano soppiantato quelli precedenti di vetro. In alcune zone del pianeta Impero si sarebbe benedetta l'arrivo dell'acqua potabile, visto che occorreva rifornirsene da pozzi e fiumi che si trovavano a chilometri di distanza dalle abitazioni. In quella parte vicino a Sozzigalli l'acqua del rubinetto scorreva allegramente, ma se mancava la confezione della minerale si facevano ugualmente i chilometri per comprarla all'Ipercoop. Cosa c'entra l'acqua minerale col silenzio imbarazzato di Meleagro e Melania? C'entra perché Meleagro aveva preso in mano la bottiglia e stava leggendo a mente con finto interesse le percentuali degli elementi chimici disciolti, mentre Melania beveva a piccoli sorsi dal bicchiere. C'entra perché la faccenda di non bere, sebbene assetati, l'acqua potabile del rubinetto per andarla ad acquistare lontano tenendo a bada la sete, è piuttosto simile alla faccenda del differimento del desiderio. Le coppie che vivevano a Sozzigalli e in un raggio di 3000 chilometri intorno, invece di saltarsi addosso infoiati come cani al minimo sentore di prurito sessuale, rimandavano di ore, cercando di non incrociare lo sguardo dell'altro, trovando i più assurdi pretesti biologici e psicologici pur di non arrivare al dunque. Tra le cena e il dunque di Meleagro e Melania passò ancora parecchio tempo. Poi a notte fonda, dopo che il silenzio di un'intera serata era stato riempito dalle scempiaggini di un programma televisivo e i due, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altra, avevano provato per ore la paura folle di toccarsi, mascherata da un finto interesse per quella che nient'altro era se non puzzolente merda catodica, Meleagro ebbe il coraggio di allungare un braccio e di cingere delicatamente le spalle di Melania. Melania sospirò – guarda caso il programma era la storia di una santa che si era fatta ammazzare pur di non cedere alla violenza di un bruto – sospirò una seconda volta e senza guardare in faccia Meleagro, fece una domanda retorica dalla quale si attendeva una sola risposta. Vuoi che facciamo l'amore? – disse. − 84 Sì, lo voglio – rispose Meleagro come in un'altra famosa occasione. − Si spogliarono, uno di spalle all'altra, senza guardarsi. A Meleagro il cuore batteva fortissimo. Per una donna con cui stava da vent'anni. Melania tornò ancora più indietro nel tempo perché provava lo stesso stato d'animo di quando aveva perso la verginità. Pensava che arrivati a quel punto andava fatto comunque. Sotto le lenzuola Meleagro voleva baciarle la bocca ed ogni parte del corpo. Melania scostò il capo e il corpo e disse che lo voleva subito dentro di sé. Meleagro pur di non mollare era disposto ad ubbidire a qualunque ordine e a prendere ogni gesto ed ogni parola che esprimessero la minima collaborazione, come una meravigliosa testimonianza d'affetto ed una fulminante dichiarazione di desiderio. Sapeva di mentire a se stesso ignorando la sua freddezza, ma dopo tanto tempo, gli era già d'avanzo che lei fosse lì solo per lui. Mentre iniziavano a Melania si formò davanti agli occhi l'immagine assurda di TD alle prese con gli attrezzi ginnici. Fu presa dal panico. - No – disse, si bloccò e cercò di respingere il corpo che aveva addosso. Meleagro a quel segnale si strinse più forte, come se scivolando da quella vetta di roccia precipitasse in un baratro. Ma sentiva anche la terra fertile e se ne ubriacava, aumentò vertiginosamente il ritmo e le esplose dentro rabbia e nostalgia insieme, in un solo gemito. Si scostò subito dopo e respirò forte. Melania mentre piangeva piano, allungò il braccio e accarezzò i capelli al marito. Ritirò subito la mano, si voltò dalla propria parte ed esausta si addormentò. Meleagro rimase immobile, adesso sì con la paura che tutta la freddezza gli sarebbe caduta indietro sino a congelarlo. Ad addormentarsi aveva la paura di risvegliarsi come un oggetto della stanza, il comodino, la pantofola, il crocefisso. Si fece forza e si alzò. Andò in cucina e si versò un bicchiere d'acqua. L'orologio segnava mezzanotte e cinquanta minuti. Si era già in un nuovo giorno. Stupefatto, pensò che a quel punto poteva proprio escogitare un ennesimo gesto inutile. 85 9. umanità Salman durante la pausa pranzo aveva preso l'abitudine di arrivare sino alla stazione delle corriere per dare una controllata alla sorella Aisha. Aisha, insieme all'amica Sanim, correva in fretta fuori da scuola per salire prima che arrivasse il fratello. Una volta seduta era al sicuro perché Salman non aveva il coraggio di andarla a scovare fra i sedili, con le italiane che lo guardavano male. Se lui dal marciapiede gli faceva dei cenni di richiamo, la ragazza, fingendo di non vederlo, si voltava a parlare o addirittura,ci fosse o no il sole, tirava la tenda sul finestrino. Aisha si vergognava a farsi vedere con il fratello, Salman ci andava per non far sentire la sorella troppo libera e per riempirsi gli occhi della libertà delle ragazze italiane, sdegnato ed eccitato nello stesso tempo. Era una gara a chi arrivava prima, per eludere o bloccare. Quel giorno aveva vinto Salman che aveva dovuto aspettare minuti prima che si profilassero all'orizzonte le shalwar kameez coloratissime di Aisha e Sanim. Mentre aspettava aveva visto molte ragazze mezze nude e truccate e per riflesso, quando gli giunse davanti, la prima cosa che fece, visto che tutto il corpo era coperto, fu controllarle il viso, senza riscontrare nulla d'insolito. Aisha quando lo scorgeva lì in mezzo, iniziava a sorridere, non per manifestare gioia, ma per nascondere l'enorme imbarazzo. Sorridendo iniziò mezzo a litigare perché Salman voleva vedere i quaderni di scuola e lei invece non aveva nessuna intenzione di riaprire lo zaino. Ad ognuno dei due non piaceva attirare l'attenzione della gente intorno e quindi la discussione procedeva sommessa e nervosa, con le voci che invece di elevarsi, si abbassavano verso toni striduli e gravi. Quando più in basso non si poteva scendere, Salman alzava un dito minaccioso e Aisha era costretta a capitolare. Gli diede il primo quaderno che era quello di Italiano e Storia. Salman lo aprì e lesse la parola più grande, del tutto solitaria in mezzo ad un intero foglio bianco. La parola era 86 RIVOLUZIONE. Chiese alla sorella se sapeva cosa significasse e lei per risposta alzò le spalle. Chiese perché l'avesse scritta così grande, sprecando un intero foglio, e la sorella rispose che così l'aveva fatta il suo insegnante sulla lavagna. Salman richiuse il quaderno e lo riconsegnò. Sanim aveva assistito alla scena in silenzio, ma a quel punto tirò l'amica per una manica che era il segnale per salire sul pullman. Salman , quando la sorella aveva già il piede sul primo scalino, prese dallo scomparto esterno dello zaino il vocabolario tascabile italiano-urdu. RIVOLUZIONE. Gli sembrava di conoscerla quella parola, ma voleva controllare la traduzione. Si allontanò sfogliando le pagine sottili. P,Q,R. Eccola la parola. Sotto il porticato della sua madrassa in Pakistan, dopo aver imparato a memoria le sure del Corano, sentiva pronunciare spesso quel vocabolo da ragazzi più grandi di lui che erano già diventati hafiz, custodi del messaggio di Dio. La parola era spesso associata al panarabismo, alla necessità che tutti i fratelli islamici unissero le loro forze contro l'Impero Capitalista del Male. Tutti insieme per una rivoluzione planetaria. Quegli stessi studenti nelle città più grandi organizzavano spedizioni punitive contro i bordelli ed i negozi che vendevano cd e dvd diffusori della cultura occidentale. Dietro c'era il partito Jama'iyyat Ulama-Al-Islam ed i simpatizzanti di Al Quaeda. Al Quaeda era l'organizzazione clandestina che aveva progettato e messo in atto l'attentato contro le Twin Towers a New York, l'11 settembre 2001. I Talebani, Osama Bin Laden. Ma rivoluzione era stata anche quella 'storica' guidata da Bhutto che nel 1968 aveva portato in piazza milioni di pakistani che si battevano per i diritti dello stato sociale e la lotta alla povertà. Il generale Zia aveva allora organizzato una brutale repressione, ucciso Bhutto e proceduto alla reislamizzazione del paese. Negli ultimi mesi tante cose erano successe lontano da Salman. Mancanza di cibo. Gas, acqua, elettricità sempre più scarsi e costosi. La figlia di Bhutto, Benazir, capo del Pakistan People's Party, assassinata a quarant'anni di distanza dal padre. A capo del governo era stato chiamato Musharraf, probabilmente un fantoccio nelle mani dell'Impero Americano. I 87 kamikaze integralisti che si erano fatti saltare in aria massacrando centinaia di persone. Le bottigliette di Coca-Cola con la scritta in urdu, i McDonald's aperti ad Islamabad. Chi pronunciava adesso la parola rivoluzione? Salman era confuso. Andava a pregare in moschea e non beveva alcol, gli piaceva la musica house, controllava la moralità della sorella e sognava le ragazze italiane con le loro porzioni di pelle nuda. Portava la shalwar khameez, ma sotto metteva i jeans. Però RIVOLUZIONE scritta così grande era una gran bella parola, sapeva di gente in festa, di eroi che sconfiggevano i cattivi, di mosse di lotta e di fiori rossi lanciati in aria. E forse il rosso del sangue che si versava era solo una tinta vivace del tutto artificiale, come quella che scorreva sui set di Bollywood. Così ridacchiando fra sé e mostrando al mondo i suoi splendidi denti bianchi che nessun dentista occidentale aveva dovuto rimettere a posto, Salman marciava veloce al ritmo di quel vocabolo che gli era rimasto in testa. RIVOLUZIONE. RIVOLUZIONE. Arrivato al Parco dell'Ospedale incrociò due anziani col berrettino da baseball e ne fu così turbato che la parola che aveva in mente fu cancellata in un attimo per lasciare spazio a pensieri di altro genere. Le ragioni del turbamento saranno sufficientemente spiegate più avanti. Uno dei due maturi signori era Arturo Maloni. Arturo Maloni non era tipo da andare a zonzo per le zone verdi, per precisione stava passando di lì per recarsi alla Usl dove avrebbe prenotato una visita fisiatrica per la moglie Loretta. L'altro maturo che amava invece bighellonare in bicicletta, era un suo vecchio conoscente ed ex collega di lavoro e di nome faceva Sergio Dildo. C'è chi segue una riga diritta per il proprio percorso quotidiano e chi invece una serie vorticosa di giri e il destino è il geometra pagato male che fa incontrare le linee in un punto. Dildo e Maloni si erano salutati come vecchi compagni ed ora di nient'altro potevano parlare se non di come tirasse il vento per la cooperativa con cui avevano lavorato per quarant'anni, la Cooperativa dei Muratori. Sbaglia chi pensa possa trattarsi di quattro amici che vanno in giro a far lavoretti con calce e cazzuola. La Cooperativa dei 88 Muratori aveva in effetti un sito internet fichissimo, l'azienda – vi si leggeva – traeva ricavi annui che superavano i 400 milioni di euro. Ai tempi in cui l'Impero non era arrivato ancora ad inglobare questa parte di mondo, le cooperative – compresa quella dei muratori, fondata nel 1908 – predicavano il mutuo soccorso, l'opposizione al capitale e – dove abbiamo già sentito 'sta parola? – la RIVOLUZIONE. In quel momento il grande affare della Cooperativa, dopo aver costruito i palazzi e le fabbriche della città ed aver allargato la sua opera alla provincia ed alla regione, il grande affare della Cooperativa dei Muratori era costruire una grande base militare al di là del grande fiume inquinato e la base militare avrebbe dato ospitalità ai soldati di vario grado che mangiavano tacchino il giorno del Ringraziamento e si facevano fotografare col loro amato presidente. Soldati del centro dell'Impero, soldati americani. Di questo appunto stavano parlando in quel momento Arturo Maloni e Sergio Dildo. Maloni non si preoccupava più di tanto del fatto che si fosse tradito lo spirito originario: se si continuava a tirar su mattoni e la Cooperativa incrementava i guadagni, anche i soldi degli americani andavano bene. Ma proprio una base militare, cazzo, proprio americana! Te lo ricordi ancora il − Vietnam, per la miseria? – si lamentava Dildo – Prima del crollo del muro, non sarebbe mica successo, va là! Non si riferiva ad una qualche catastrofe civile in cui fosse implicata la Cooperativa, ma al famoso crollo del Muro di Berlino, 1989, evento simbolo della caduta dei regimi comunisti europei. Se il muro è crollato, vuol dire che non era fatto bene ed era tenuto insieme con lo − sputo – ribatteva colla sua logica pragmatica Maloni. Su questo posso anche darti ragione, ma è mica obbligatorio far affari con gli − americani e ad essere troppo avidi si diventa come loro. Che si obbedisce anche noi alla legge del profitto! – concludeva duro e incazzato Dildo. Anche quello lo abbiamo tirato su noi e serve a fare del bene – diceva Maloni − 89 indicando il vicino ospedale, ma era solo un modo per troncare il discorso e infatti un attimo dopo Dildo venne salutato con la veridica scusa di un esame che Maloni doveva prenotare proprio lì. Dildo ricambiò ed augurò salute di ferro ed ogni bene. Anche lui non aveva troppa voglia di continuare quella discussione di principio. Mentre stava discorrendo aveva adocchiato dall'alto della sua bici un gruppetto di ragazzi che conosceva. I ragazzi erano pakistani. Si tolse il berretto da baseball, si passò bene la mano fra i capelli grigi e si avviò verso di loro con lo scopo preciso di portare qualcuno dalla sua parte. Quando Salman lo vide avvicinarsi smise di parlare e si bloccò come se fiutasse un pericolo. Un brivido gli suggerì che il rischio francamente dipendeva più da una loro scelta morale che da quello che il vecchio italiano poteva offrire. Gli altri due si davano di gomito e impostavano sorrisi di circostanza. Uno di loro aveva i capelli con un taglio alla moda e vestiva all'occidentale con pantaloni stretti, cinturone borchiato e giubbotto nero. L'altro portava una Shalwar Kameez color sabbia e sulle labbra carnose spiccavano baffi nerissimi e ben curati. Salman sapeva cosa sarebbe successo. Il vecchio italiano avrebbe scherzato un po' con loro a proposito delle ragazze, un po' si sarebbe dimostrato preoccupato delle loro condizioni economiche. Avrebbe finito dicendo che era solo a casa e che avrebbe offerto volentieri un caffè. Uno dei due avrebbe accettato e lo avrebbe seguito a distanza. Saliti nell'appartamento, senza dire una parola, si sarebbero spogliati. Il vecchio italiano in conclusione avrebbe dato un po' di euro al ragazzo pakistano. Non faceva per lui – pensò Salman – no, davvero, e poi c'era da riprendere il lavoro. Salutò in fretta gli amici e riprese il suo cammino. - Cos'ha l'amico? – chiese Dildo – Non gli sto simpatico? Salman mentre si allontanava sentì le scuse divertite di quelli della sua generazione. Generati dopo il vecchio e in un altro posto. Dildo a voce spiegata gli lanciò un Ciao,eh! – che gli rimase appiccicato dietro, una specie di coda cavallina che iniziò 90 ad oscillare. Su e giù. Ciao al posto di rivoluzione, ora aveva in testa Salman. Ciao al posto di rivoluzione, poteva essere uno scambio proficuo, si tormentava il ragazzo mentre la coda saliva e scendeva. Strade e cassonetti, ville, schiere di empori. Incrociava molte auto perché quello era il giorno disinquinante del blocco del traffico ed i bravi cittadini si facevano il giro della tangenziale. Le persone che camminavano o erano anziane signore o extracomunitari senza un euro perché tutti gli altri non potevano fare a meno delle quattro ruote. In diversi se ne fregavano del divieto, acceleravano e puntavano dritti verso la piazza. Su e giù la coda, ciò che si può fare e ciò che non si può. Seduto sul ciglio della strada, con la schiena appoggiata ad un pioppo con la corteccia smangiata dai solfati, vide un tipo che si stava scolando una bottiglia di birra. Gli fece pena perché era ubriaco e la testa gli ciondolava sul petto, ma a vedere la birra gli venne sete. Su e giù la coda. Beh, anche Salman avrebbe potuto attingere tranquillamente perchè di alcolico nella bevanda non c'era proprio nulla. Acqua pura. Il tipo brillo, che si faceva passare per l'infelice marocchino Sabri Abdallah, col permesso di soggiorno in scadenza, era un italiano del tutto astemio ovvero il giornalista Orso La Guardia. Il fatto di essere incazzato contro la sorte avversa gli riusciva comunque bene, anche se neppure lontanamente si sarebbero potute paragonare le sventure del vero italiano con quelle del marocchino interpretato, che in realtà esisteva e sul quale ci si era documentati per creare una copia del tutto somigliante. Orso La Guardia imprecava come un vero ubriaco perché gli avevano chiesto di iniziare la sua inchiesta vicino ad un parcheggio fuori mano, così poteva dare una mano anche per il rilevamento statistico dei cittadini che obbedivano alle misure anti-smog lasciando lì la macchina per farsi un chilometro a piedi. Complimenti. Nessuno che passasse. Iniziava a pentirsi di aver accettato l'incarico, di essersi tinto i capelli, di aver scurito la faccia con una seduta intensiva di lampade. L'Assessorato alle Politiche Sociali gli aveva promesso più gloria che retribuzione, ma era un affare che andava di moda e che si portava avanti con 91 successo in molte città di quella parte dell'Impero. Aveva detto sì, ma che cazzo! Se solo l'avessero lasciato rantolare contro un muro delle vie del centro, avrebbe potuto misurare con precisione indifferenza ed umiliazione, sguardi indignati e commenti razzisti. Lì la giornata gli sembrava del tutto sprecata. Era rientrato subito nella parte quando aveva visto avvicinarsi qualcuno, ma l'eccitazione si era del tutto raffreddata allorché aveva visto che era soltanto un ragazzo pakistano. Fuori da qualunque tipo di parametro stabilito con l'assessore. Non aveva potuto trattenere un vaffanculo all'indirizzo. Poi iniziò a grattarsi furiosamente la schiena perché per meglio interpretare Abdullah era da una settimana che non si faceva una doccia. I marocchini erano persone che amavano la pulizia, ma quello scelto da loro era agli sgoccioli e dunque lo immaginavano sporchissimo. Per il casino del traffico Salman non colse l'insulto, ma pure lui si grattò all'altezza del coccige e si mise a posto la tunica che gli si era un tantino appiccicata alle natiche. Dovette fare una deviazione perché un grosso operaio si stava lavorando un pezzo d'asfalto col martello pneumatico che sussultava fra le sue gambe divaricate. Aveva un grosso paio di cuffie in testa per ripararsi dal rumore assordante, ma Salman pensò diffondessero musica per alleggerire un noioso lavoro di ore. Quando passò proprio vicino vide due grossi seni sussultare dentro la tuta arancione e questo lo fece vibrare più delle scosse della perforazione. Capì che nonostante i capelli cortissimi si trattava di una donna. E i seni andavano su e giù come fossero azionati da un frullatore impazzito. Su e giù la coda di Salman. Ciò che è lecito e ciò che non lo è. La gigantesca svellatrice si chiamava Nora Jones ed al riparo delle cuffie si era completamente isolata dal luogo insalubre e dall'infame lavoro. Stava pensando a quale tipo di bomboniera acquistare per Nancy che la domenica successiva avrebbe fatto la prima comunione. Nora aveva come compagno di vita un commerciante egiziano ex campione di lotta greco-romana ed era stata una dura lotta fargli accettare il rito cattolico per la loro unica figlia. Il nome Nancy lo aveva scelto perché era quello della fidanzata di Syd Vicious, un famoso 92 personaggio punk. Il punk era stato un filone rivoluzionario della musica rock fine anni Settanta, ma dopo 30 anni non era ancora morto. Le bomboniere erano dei contenitori di confetti che si distribuivano in occasioni speciali, insieme a fiocchi colorati e bigliettini con scritte dorate che avrebbero ricordato negli anni a venire l'avvenimento. Tutti dopo qualche giorno si disfacevano in fretta di quegli oggetti inutili o li lasciavano ammuffire negli angoli più reconditi degli scaffali, tuttavia per la prima comunione o per i matrimoni tutti si facevano prendere dalla frenesia di scegliere le bomboniere. Mentre le macchine le sfrecciavano intorno ed il suo corpo era scosso dall'onda energetica del martello pneumatico, Nora Jones doveva prendere una decisione su un sacchetto di tulle chiuso da una catenella con un cuoricino o su un minuscolo cesto di maiolica da cui spuntava il muso di un gattino. Economici, ma d'effetto. E a un'altra cosa pensava. Se dovendo accompagnare Nancy per le prove in chiesa insieme alle altre bambine, sarebbe poi riuscita ad arrivare in tempo alle sue di prove, quelle con il gruppo punk “Le Skazzate”, in cui lei suonava il basso. Una possente base ritmica, in diversi le avevano fatto i complimenti. A Nancy avrebbe potuto pensarci il papà che ormai conosceva tutti in parrocchia, ma quella era la serata della moschea e poi del cazzeggio con gli altri uomini. La solita vita incasinata. Guardò davanti a sé e vide la kameez di Salman allontanarsi in una specie di nebbiolina che neppure ad agosto. Si terse il sudore con il braccio e vide più lontano il tendone colorato di un circo. Anche Salman lo vide, sul piazzale bitumato oltre la rotonda spartitraffico. Ora le ville ed i negozi erano sostituiti dalle aziende con le insegne giganti, sigle misteriose che non comprendeva, e dai profili anonimi dei capannoni industriali. Salman attraversò correndo le strisce pedonali e si avviò verso la zona della lavanderia. Vide un omino con la giacca viola chiusa da tanti bottoni dorati sino al colletto tondo. Salman si accorse che apparteneva alla sua gente. Era più basso di un bel po' e più anziano di una decina d'anni, ma i capelli erano neri, gli occhi molto scuri ed aveva il suo stesso colore di pelle. Il ragazzo sorrise, ma quello 93 passandogli accanto gli ficcò nella mano senza alzare lo sguardo tre o quattro tagliandi colorati. L'uomo si chiamava Kabir Singh e arrivava da Amritsar, a pochi chilometri dal confine, ma questo bastava ad indicarlo come indiano e non come pakistano. Salman vide sui biglietti il volto colorato di un clown ed una tigre con le fauci spalancate. Non aveva mai assistito ad uno spettacolo circense, ma alla Tv qualcosa aveva visto ed un'idea se l'era pur fatta. Si voltò a guardare l'uomo del circo che procedeva per la sua strada. Viaggiò con l'immaginazione ed immaginò itinerari avventurosi, poi pensò che nel circo esisteva sicuramente una lingua comune per lui misteriosa, attraverso cui tutti gli artisti internazionali riuscivano a parlarsi facilmente. Non avrebbe fatto né il domatore né il trapezista, ma il giocoliere con le clave ed i piatti. Avrebbe avuto una roulotte molto accessoriata. Avrebbe alla fine dimenticata la sua famiglia e gli obblighi legati alla parentela. Tappa dopo tappa, spettacolo dopo spettacolo forse sarebbe arrivato in Pakistan. Quanti paesi aveva visto il piccolo uomo con i bottoni dorati? Due.Amritsar e quella città italiana dove la famiglia che dirigeva il circo teneva il suo deposito, sopra a un terreno in periferia. Anche gli stabbi con tristi animali troppo anziani o malandati per esibirsi ancora. Kabir Singh era stanziale, non seguiva il circo nei suoi spostamenti, faceva il guardiano e l'inserviente, portava da mangiare alle bestie dismesse, puliva la loro merda. Il circo partiva sempre dal luogo d'origine per i suoi lunghi giri e gli avevano dato i biglietti con gli sconti da distribuire. Le roulotte e i camion sarebbero partiti e lui sarebbe rimasto lì, a fissare negli occhi il leone sdentato, a lanciare una manciata di noccioline alla scimmia depressa. Ma questo Salman non lo poteva sapere e la coda là dietro si muoveva, tra quello che nel futuro si poteva ancora decidere e quello che sarebbe rimasto soltanto un sogno. E intanto era tornato al suo destino quotidiano. Vide l'edificio della lavanderia. Nel parchetto aumentò il passo perché sulla panchina c'erano Zac, Gino e la ragazza. Nessuno di loro richiamò la sua attenzione, eppure sino a quel momento era stato proprio lui l'argomento principale di 94 una vivace discussione. Così Salman apparve al gruppo come l'omino di un videogioco che prima o poi sarebbe stato riportato al punto di partenza, a completa disposizione. Per ora potevano lasciargli passare il cancello. Una vita salvata, una vita sprecata, dipendeva dai punti di vista. − Il tuo uomo – disse Zac puntando il mento verso la sagoma ormai lontana. − Non voglio. Puzzano.- commentò Meri, buttandosi i capelli davanti agli occhi. − Quanto sei delicata! Meri che considera o' pesce 'na fetenzia...questa me la devo proprio segnare – disse Gino fingendo di scrivere su di un taccuino immaginario. Con o' pesce, per chi non l'avesse intuito, si indicava nel dialetto di Gino l'organo sessuale maschile. Zac intanto le aveva preso il braccio con il tribale e aveva iniziato a torcerle la pelle facendole gli spilli. Meri urlò e cercò di liberarsi. Non hai capito una cosa, bella! Quando si vota e si decide insieme, mica ci si può − tirare indietro – precisò Zac. Meri si massaggiava e piagnucolava. E poi sei anche una grandissima ignorante. Perché gli islamici si lavano alla − grande. Ogni volta che pisciano si lavano, vero Zac? − Sì, intanto a chi tocca? A me! – si lamentò ancora Meri. − E stai a vedere che toccava a me! Cosa credi che so' diventato nu poco ricchione? – disse Gino dandole una spinta che la rimandò dalla parte di Zac. Zac non perse l'occasione e la strinse al petto con la mossa del gorilla. Ascolta, amore. Quello non l'ha mai vista neppure da lontano. Appena sente − l'odore, sai come lo teleguidiamo? Playstation pura. Quello che vogliamo, lui lo fa. Ma prima deve assaggiarla. L'hai capito il concetto? – e finì dandole dei pugnetti sulla fronte perché l'idea le restasse ben impressa. E poi anche tu c'hai bisogno degli euro, no? – chiese Gino, separandole − delicatamente la frangetta da una parte e dall'altra della fronte – Altrimenti ti tagliano il gas e l'elettricità...statte accuorta. 95 Meri si divincolò, sembrò che stesse vomitando, ma poi le uscì fuori solo un colpo di tosse. Si accese una paglia. Fece una lunga tirata. − Voglio tremila euro. Se no col cazzo che mi muovo! − Macchè tremila! Di più, di più. Hai presente il venerdì sera, come sono imbottite le casse dell'Ipercoop? – rispose Zac tutto entusiasta. − E se c'è la polizia? Le guardie? − E a questo punto che serve il pakistano, no? E' il diversivo ideologico, tutti gli occhi saranno puntati su di lui – spiegò Zac stimandosi molto per il grande progetto e per le parole di presentazione che sapeva trovare. E noi intanto arraffiamo il malloppo – chiosò Gino, strappando il mozzicone dalle − mani di Meri. − E per quando sarebbe la cosa? – chiese Meri riprendendo la paglia e sbuffando. − Qualche giorno. Ho ancora i miei informatori là dentro – disse indicando la lavanderia – Ancora qualche giorno. Ahò, un giorno o due e poi ti diverti alla grande. Nero e circonciso, Meri! – la − sfotté Gino. Vaffanculo – rispose secca Meri, ma si vedeva che sotto sotto le veniva un po' da − ridere. 96 10. rubare la palla in un gioco straniero La radiosveglia sul comodino, il quadrante sul muro del soggiorno, il display del telefonino lo confermavano. Ciò che stava succedendo alle lancette del suo orologio da polso era vero. Un inesorabile avanzamento. Accese lo schermo del Pc e vi lesse gli odiosi implacabili numerini, aprì un tiretto della scrivania e trovò un plastificato al quarzo made in China con la pubblicità della Cooperativa Muratori impressa sul cinturino. Era funzionante e l'ora che vi si leggeva era quella temuta. Troppo, troppo avanti. Le 11 e 4 minuti. TD aveva già più di mezzora di ritardo. Melania cercò di calmarsi e di effettuare un rapido calcolo. Meleagro sarebbe arrivato da scuola alle 13e 20, dunque le restavano ancora due ore e quindici minuti, se il campanello avesse suonato in quell'istante. Non suonò. Controllo ancora il cellulare, per vedere se fosse segnalato un nuovo messaggio. Nulla. Forse poteva provare lei. Non lo stava facendo da amante impaziente – cercò di ingannarsi – ma da seria analista preoccupata per quella sconcertante mancanza di puntualità. Ma sì. Mentre componeva il numero la mano però le tremava. Maledì la segreteria telefonica e le venne voglia di scagliare sul pavimento il malefico aggeggio che conteneva la voce mancante di TD. Stirò con una mano il grande foulard rosso che aveva steso sopra il divano dove si sarebbero abbracciati. Corse in bagno e si diede una nuova mano di rossetto. Le parve di essere orrenda. Davanti alla stazione una ragazza, molto più giovane e slanciata di Melania, stava compiendo lo stesso gesto, protendeva la testa e sbirciava la strada assai trafficata. Per quanto riguardava la bellezza delle due donne messa a confronto, la bellezza, si dice, è una questione soggettiva, però...la ragazza della stazione si chiamava Malgorzata Okazek, in arte Malgor Z. La sua bellezza era stata patinata da viaggi transoceanici e party ai bordi di piscine tropicali, ma i suoi lineamenti originari erano 97 quelli di una figlia di Boemia, una parte dell'Impero un po' al di sopra nella cartina geografica rispetto a quella di cui stiamo raccontando. Malgor Z era alta un metro e ottantadue centimetri senza tacchi e pesava 49 chili, aveva la pelle bianca, gli occhi verdi smeraldo ed i capelli neri tagliati cortissimi. Melania non era sicura. Aveva mille pensieri sulla differenza di età, sulla possibilità di essere presa in giro, di non essere sessualmente all'altezza, di rimanere incinta e da ultimo sul fastidioso fatto di tradire Meleagro e di sentirsi in colpa per questo. Se Meleagro si aggirava nei dintorni la classifica veniva ribaltata e allora Melania sentiva una rabbia sorda contro quell'uomo inutile da cui non riusciva a staccarsi. Ma le attitudini delle ultime ore smentivano clamorosamente ogni suo dubbio, anche se lei preferiva rivestirle di un'aura ipotetica. Perché aveva comprato un nuovo accappatoio maschile e l'aveva appeso accanto alla doccia? Casomai. Perché aveva disinfestato dalla canfora e spruzzato leggermente di Chanel il perizoma che Vanessa le aveva regalato dieci anni prima? Casomai. Perché poi se l'era applicato? Casomai. E la ceretta del mattino che oltretutto le aveva lasciato tutto l'interno coscia arrossato? Casomai. Si bloccò di colpo. E se casomai TD fosse stato attratto dalla sua intelligenza e cultura? Forse poteva spiegarsi così che la faccenda si fosse brutalmente consumata nel suo studio, sotto la laurea e i master incorniciati, il ritratto di Freud, la riproduzione in plastica del Mosè di Michelangelo...Prese il tomo di “Psicopatologia della vita quotidiana” e quello di “Totem e tabù” e li dispose sul tavolino basso di fronte al divano del coito. Non seppe resistere ed aggiunse alla pila i “Tre saggi sulla sessualità”. Passò ancora la mano sul foulard rosso su cui lui o lei avrebbero posato le natiche nude. Ricontrollò il cellulare. Rifece il numero. Nulla. Malgor Z da lì a una settimana avrebbe salutato tutti e sarebbe tornata in Cekia. Casa. Sognava ad occhi aperti i cetriolini della nonna e le corse a piedi nudi per i prati dei monti Doupovské, la ricerca dei porcini nei boschi, il successivo essiccamento. Avrebbe fatto un pellegrinaggio alla Madonna di Pribram. Un voto. Ma per il 98 momento era ancora lavoro. L'agente l'aveva convinta ad aggiungere al carnet degli impegni un servizio fotografico per il famoso marchio ed era molto stanca. Sbuffò e sporse ancora la testa, tenendo ferma la mano sul manico del trolley. Vide arrivare il Suv nero chiamato Black Death, lo vide fermarsi di fronte a lei. TD aprì lo sportello, la salutò e la invitò a salire. Malgor si tirò dietro il bagaglio e TD le suggerì di ficcarlo dietro. Lo fece e TD poté valutarle il culo fasciato dai jeans. Intanto le stava dicendo: Sorry. I'm late. And now I just meet my fucked doctor! Se non vado, quella mi spara! Malgor Z non capì cosa c'entrasse il dottore con le pistole, ma mentre TD avviava l'auto fece un sorriso di circostanza. Oltretutto un'esigenza corporale la stava tormentando. − Ho bisogno di un bagno – disse in Italiano. − Not in station? – chiese TD, alzando per un attimo il piede dall'acceleratore. − No...Io..pipì – rispose Malgor coprendosi gli occhi e scuotendo forte la testa. TD non riusciva a comprendere se la ragazza non avesse trovato i cessi o se piuttosto le facesse schifo poggiare le sue chiappe da top model su di una pubblica ciambella. In ogni caso non gliene fregava niente. Indietro non sarebbe tornato. Don't worry – disse, spostando la mano dal volante e toccando in modo − cameratesco la spalla di Malgor – You'll piss by my doctor. In her bathroom. Tienila sin là – aggiunse nel suo idioma, spingendo a manetta per darle prova che ci teneva realmente alla sua salute. Malgor ci pensò su e all'inchiodata successiva davanti ad un rosso, espresse i suoi dubbi. − Why the doctor, please? Are you sick? − No, no, Not sick – rispose TD facendosi una risata – Just a little problem for my nose. La guardò malizioso e tirò su come avesse il raffreddore. 99 Malgor diede a se stessa dell'ingenua, arrossì e finì con una pacca sulla fronte. Esclamò:- Ah, your doctor! I understand now! Aveva inteso che con 'doctor' indicasse il suo pusher, il suo fornitore primario di cocaina. Per le speranze di TD non era poi andata così lontana dal vero. 11 e 24. Melania andava avanti e indietro come una pazza. Alzò il citofono sperando di sentire quello che immaginava come il caratteristico rumore di un Suv che sta parcheggiando. Silenzio. Aprì una o due volte la porta d'ingresso sperando che ci fosse lui con un mazzo di rose rosse. Infine il campanello squillò e sul visore apparve l'immagine un po' nebulosa di TD. Melania spinse il pulsante d'apertura ingoiando la saliva e non fece caso alla figura femminile che si era materializzata dietro il suo amante. Aspettò un minuto, due, interminabili. Soffocando pensò di aver immaginato tutto. No. Ecco di nuovo il viso puntinato di TD. − Ehm, l'ascensore... – gli sentì dire e il suo cuore fece un balzo. Cretina che era! Il codice! − 614526! – urlò come fosse una formula per sciogliere un incantesimo. Aprì la porta, sicura finalmente. Eccolo lì l' uomo... ma perché c'era una donna con lui? E poi, così alta! Probabilmente aveva sbagliato piano. Ora avrebbe dovuto perdere minuti preziosi per spiegare a quale porta del condominio dovesse bussare. Malgor Z intanto recalcitrava perché si era ricordata che il dottore possedeva una pistola con cui sparava ed aveva una fifa blu. TD la prese per mano e un po' rudemente la tirò dentro. TD sapeva che doveva scusarsi, ma non ricordava bene di che cosa. Passò alle presentazioni ed ancora fece fatica a mettere a fuoco. − Dottoressa – disse – questa è... – e non venendogli il difficile nome, fece schioccare le dita. Malgor Z fece un passo avanti, si guardò intorno allarmata e si presentò. A Melania quella parola parve un ruggito e si ritrasse come avesse davanti una letale felina, una lince delle nevi giraffiforme. TD si affrettò a spiegare: - E' una modella boema. 100 Bella,eh? La devo portare in ditta per un servizio e allora ho pensato di portarla qui con me, prima... Perché non riusciva a terminare mai le frasi? L'impellenza intanto spingeva Malgor Z a farsi coraggio: - Sorry, I need a bathroom, please. − Oh, scusa. E' che deve... – cercò di spiegarsi TD. Melania allibita alzò un braccio indicando il percorso per arrivare al bagno. TD , come se conoscesse l'appartamento, aprì la strada, passò per la zona notte e scorgendo un lettone gli venne un'idea: - Darling, you can lie down in bed for a moment if you're tired. Me and the doctor... Malgor Z credette di capire e lo bloccò: - Ok, ok, no problem! I will stay here, don't worry! La paura le era passata, ma non voleva infastidire con la sua presenza, visto che si trattava di compravendita di cocaina, mica di cosmetici. Mentre si sedeva sul water, pensò che il doctor in effetti se l'era immaginato molto diverso e invece ecco una signora con la messa in piega ed un tailleurino verde. C'era persino una certa somiglianza con una sua zia di Praga. Beh, in quell'ambiente ne aveva viste di tutti i colori... Melania e TD si sedettero sul divano. − Scusa, ho detto alla ragazza di stendersi sul letto – fu il pessimo esordio di TD. Melania sgranò gli occhi. TD invece aveva fretta di iniziare gli esercizi essudatori. Per cos'altro era stato invitato, se no? Psicologa, fisioterapista, che differenza c'era? − Vuoi che lo facciamo qui o hai una camera attrezzata? – chiese. Melania non capiva quale razza di equivoco si fosse creato. La ragazza straniera, quella richiesta brutale...perché invece non le si avvicinava per abbracciarla? − O preferisci andare di là e farlo lì con la ragazza? Se a te non dà... Il colpo fu tremendo. Ecco cosa voleva da lei! Un incontro a tre! Sesso con due donne. La ragazzina e la matura, l'intellettuale e la modella! Melania non riuscì più a 101 controllarsi. − Sei un porco, un bastardo! Ti sei portato la carne giovane perché io non ti bastavo,eh? TD stava cadendo dalle nuvole...cosa c'entrava la carne giovane con la ginnastica, l'essudorazione, il passaporto di cui aveva bisogno per dimostrare che era uscito dal tunnel? − Ma cos'è stato per te l'altro giorno? – lo incalzava Melania – la scena di un film porno? Senza saperlo aveva fatto centro. Era stato proprio così. − Io uso la mente, ma ho dei sen-ti-men-ti, cosa credi? TD finalmente si era ricordato. Si stava riferendo alla botta e via consumata nel suo studio, vero? − Beh, un bel flash, no? – disse strofinandosi la punta del naso. Melania diede un pugno sui cuscini e scoppiò a piangere. Si sentiva nuda, sporca e senza difese. − Tu mi hai preso tutto. Tutto mi hai preso! – stava urlando tra i singhiozzi. Malgor era scattata su dal letto sentendo il pianto della donna e si era affacciata sulla porta proprio mentre stava strillando quelle precise parole. Vaffanculo. Il tipo col Suv gli era stato sulle palle sin dal primo momento. Non aveva i soldi per la droga e aveva sottratto con la violenza la roba alla povera donna. Per questo lei piangeva e si lamentava che le aveva preso tutto. − Stronzo! Ridagli quello che hai preso – urlò a sua volta Malgor, avvicinandosi come una belva a TD – Fuck off, bastard! Gimme the stuff! Son of a bitch! Buio nella mente di TD, solo fra due donne imbestialite, paura, caos, il sudore stava arrivando, ecco come avevano pensato di cavarglielo quella mattina! Anche in mezzo al casino che facevano, Melania sentì girare la chiave nella serratura, passò con un balzo fra Malgor e TD, si precipitò alla porta d'ingresso, mise il fermo 102 che la bloccava. Azioni tanto veloci da precedere il pensiero. Dall'altra parte si sentiva il tipico gloglottio di Meleagro di ritorno da scuola. − Vattene! Vattene! Vattene! – urlò Melania. − Eh? Cosa? Stai bene? – disse Meleagro attraverso l'uscio. − Vattene! Vattene! Vattene! – ripeteva Melania e poi – Non restare qui! Vai giù! Vai giù! Vai giù! Meleagro girò sui tacchi come un automa, rientrò in ascensore e schiacciò lo zero. Era tornato un'ora prima perché l'Idra aveva un incontro sulla prevenzione delle tossicodipendenze e questa era la reazione che riceveva da Melania. Uscì dal portone e si appoggiò al muro. Respirò profondo. Perché Melania era isterica? Perché non l'aveva fatto entrare nella sua legittima casa? Cosa gli stava nascondendo? Pensò di ritornare, ma vide che l'ascensore era stato richiamato proprio al suo piano. Si nascose. Dopo un minuto vide uscire una ragazza altissima ed un giovanotto in tuta. Sembravano ignorarsi. Chi erano? Arrivavano realmente da casa sua? Bestemmiò perché l'ascensore era stato richiamato un'altra volta. Col batticuore si fece tutte le scale a piedi e arrivò davanti alla sua porta col fiatone. Provò a girare la chiave, ma c'era ancora il blocco. Nessun rumore. Suonò. Chiamò forte e piano il nome di sua moglie. Provò col cellulare. Nulla. E se l'avevano ferita? Se l'avevano... Rabbrividì. Ma il fermo alla porta si poteva inserire solo da dentro e ciò significava che lo aveva rimesso Melania quando i due erano usciti di lì. Se erano usciti di lì. Basta. Decise di chiamare i vigili del fuoco per forzare la porta, buttarla giù se fosse stato necessario. Stava per farlo, quando sentì all'interno dei passi leggeri. Avvicinò il viso allo spioncino, come se avesse potuto vedere nella sua casa. Per Melania, che stava guardando dall'altra parte, assunse l'aspetto di un marziano. − Melania- sussurrò dolcemente Meleagro – Sei tu? Rispondimi. − Ti prego – rispose lei – Ho bisogno di stare un po' da sola... perché sei tornato prima? 103 − Dimmi che stai bene – implorò Meleagro- E' successo qualcosa a Maddy? − Ma no... cosa vai a pensare. Ed io sto benissimo. Va', va'. Torna tra un po'. − Ma ho visto uscire dei tipi. Erano da noi? − No... sì... poi ti spiego. La sua voce era scossa, ma decisa. − E... quando devo tornare? Per pranzo? − No. Torna oggi pomeriggio. Devo riflettere. − Riflettere su di noi? − Ti prego, va' via! Meleagro rimase ancora un minuto sperando che riprendesse a parlare. Soltanto quando si rese conto che non c'era più, fece una carezza alla porta e se ne andò. Cosa avrebbe fatto sino al pomeriggio? La fame gli era completamente passata e dubitava che sarebbe riapparsa, anche se mangiare qualcosa era comunque un modo per far passare un po' di tempo. Si ritrovò la bici fra le mani e iniziò a pedalare, ma quando si trattò di superare il circuito cittadino e puntare verso Sozzigalli o Gargallo o Campogalliano la volontà non lo sostenne oppure un muro misterioso lo respinse. Doveva tornare verso il centro e consumare le ore in giri concentrici, cosicché i meandri urbani potessero riflettere il suo lambiccamento mentale, il suo groviglio di viscere. Avrebbe pedalato per piste ciclabili pitturate di fresco, per parchi delle rimembranze dove nessun ricordo l'avrebbe confortato, per la strade fiancheggiate dai portici che coronavano di raggi drittissimi la regale e spaziosa fronte dalla piazza. Lì avrebbe fatto avanti e indietro come un pidocchio, in lungo e in largo dal corso al duomo, dal portico all'entrata del castello. Come un pidocchio avrebbe aspettato che una mano gigantesca, unendo il pollice e l'indice, schizzasse via quell'unico essere addolorato ed improduttivo. Il parassita Meleagro Barton. O ci avrebbe pensato il sole e lui si sarebbe liquefatto, il sole che batteva e batteva. L'ombra faceva il filo alle mura del castello e giusto ad un pidocchio avrebbe potuto dare riparo, ma anche 104 quando la sua macchia si fosse allargata a coprire zone via via più vaste, Meleagro si sarebbe vietato il refrigerio e ancora si sarebbe consegnato alla trafittura dei raggi. Era coperto a sufficienza dal suo malumore, dalla sua accidia, non si aspettava vantaggi, non cercava trasformazioni. − Io sono una piattola – pensava Meleagro mentre pedalava piano e di malavoglia – e questo è un gigantesco buco di culo. Io sono una piattola e vado avanti e indietro per 'sto buco di culo sfondato. Così e così. E' il mio destino, la mia natura. E immaginava che sotto il foro ufficiale, sotto la pavimentazione pulita e la perfetta squadratura, qualche metro più in giù del rispettabile, brulicasse l'infestazione più micidiale. La tradizione e l' assolutamente nuovo. Cunicoli di nutrie immersi nel liquame, covi di sorci spellati dalla diossina, seni macerati dal cancro, cloni sfatti di cloni di cloni sfatti, aborti rinsecchiti, carcasse di automobili, fanghi industriali, mostarde di liposuzioni, carrozzine con vecchie vive e badanti inscheletrite. Dietro le vetrine luccicanti c'erano botole speciali che liberavano i negozianti dagli abiti fuori moda, dai cascami imputriditi, dai conti sporchi, dai registri falsificati, dalle foto pedopornografiche, dai pompini a serrande abbassate. Altro che raccolta differenziata, altro che scopa della camorra. Tutto, attraverso passaggi interrati, veniva scaricato sotto la piazza liscia e composta, rinascimentale, comunista, consumista. Ma un giorno o l'altro, all'improvviso, il putrido sarebbe esploso fuori e tutti i cittadini ne sarebbero rimasti invischiati. Scuole, chiese, case, banche...Meleagro, a cui la visione aveva fatto girare la testa, sentì che le ruote iniziavano a sobbalzare sopra piccole gobbe. Quando la merda generale sarebbe saltata al cielo, qualcuno già mezzo imbrattato dal lerciume avrebbe chiesto:- Perché? E gli altri, aprendo gli ombrelli, avrebbero risposto che così andava il mondo, che ognuno ormai si era adeguato e non si poteva fare altrimenti. Sembrava ci fosse veramente un maleficio perché Meleagro andò avanti e indietro attraverso la piazza per più di un'ora, ma nessuno notò il suo assurdo andirivieni 105 perché tutti transitavano e nessuno riposava e se si fermavano all'edicola era soltanto per una manciata di secondi. Faceva eccezione il giornalista Orso La Guardia, a ridosso del muro del portico nella sua parte di finto mendicante marocchino. Vedeva passare fra le due colonne che inquadravano il suo spicchio di piazza, una bicicletta con un omone sopra, un movimento ripetuto che lo stava facendo abbandonare al sonno. C'erano pochi passanti che non gli sganciavano un euro e poi quella figura che passava e ripassava in una nebbiolina di calore. Ogni volta sbadigliava e gli occhi gli si chiudevano e la figura era un miraggio che invece di incuriosirlo, lo stava narcotizzando. Poi Meleagro finalmente si fermò. Un attacchino stava attaccando alle grandi bacheche metalliche i manifesti elettorali. Meleagro si terse il sudore e fu colpito dalla straordinaria somiglianza fra il leader massimo del centro-sinistra ed il pennuto che a lui stava simpatico più di ogni altro e che adesso pure un po' temeva. Il tacchino. Meleagro aveva visto centinaia di volte quella faccia sui giornali o alla Tv, ma solo in quel momento, forse dopato dal suo estenuante giro, la somiglianza gli parve lampante. Sulla foto era scritto in caratteri colorati lo slogan “Si può fare” che il leader aveva bellamente copiato da un politico americano vicino alle sue posizioni ideologiche. Il politico americano era in ballottaggio per le elezioni americane nel partito di opposizione a quello che deteneva il potere, ma la dipendenza dall'Impero americano si notava in quel quadrante di territorio anche quando ci si schierava contro, anche nel cosiddetto pensiero antagonista. Ah, l'America! Il leader che voleva fare l'americano aveva appena fondato un partito che prendeva il nome da quello americano e quella città che voleva fare l'americana amava moltissimo il fantastico spirito innovatore del leader che, guarda caso, pareva somigliare tanto all'emblematico pennuto americano. Meleagro provò a deglutire e sentì nella gola come carta vetrata. Aveva sete, molta sete. Anche se gli costava fatica, decise di andare a bere qualcosa in un circolo culturale affiliato al vecchio partito che si stava trasformando in nuovo. Capirete fra poco se si trattò di un'encomiabile reazione allo 106 stato di prostrazione che lo aveva colpito o un ennesimo colpo di coltello nella piaga del suo malessere cosmico. Diede un colpo di pedale e si liberò in un attimo della piazza e dei suoi sortilegi. Il circolo ricreativo occupava uno stabile, ex casa del popolo, sul viale appena usciti dalla cinta muraria. Spinse la porta a vetri e provò un senso di spaesamento. C'era aria di pulizie primaverili, ma il riassetto degli stanzoni sembrava forzato, come se si obbedisse a degli ordini. Si spostavano mobili e quadri, ma senza nessuna allegria, anche se fra donne e uomini, in genere anziani, erano parecchi a darsi da fare. Sembrava fosse arrivata un'ingiunzione del tribunale e gli sguardi erano bassi e sfuggenti. Nessuno che esprimesse allegria perché ci si liberava della polvere e finalmente sarebbe entrata aria nuova. Qualcuno che fischiettasse o accennasse a una canzone non lo si trovava. Meleagro si avvicinò all'angolo del bar e ordinò una birra. Quando alzò la testa vide che l'anziano di turno dietro il bancone era il vicino Arturo Maloni. Meleagro diede il buongiorno e chiese timidamente la ragione delle grandi manovre. Arturo Maloni rispose laconico:- E' il Partito Democratico - . Meleagro domandò se poteva dare un'occhiata intorno e Maloni non disse né sì né no, ma chinò leggermente la testa. Con il boccale in mano, come fosse stato invitato ad una festa, Meleagro iniziò ad aggirarsi fra le sale sino ad arrivare a quella più grande, dove si svolgevano le riunioni plenarie. Era già stato fissato il nuovo stemmino metallico con la sigla del nuovo partito del leader tacchino, ma a far trasalire Meleagro fu la nuova denominazione del circolo che sino ad un giorno prima, scolpita nel metallo, faceva “Enrico Berlinguer”. Ebbene, inamovibili sulla targhetta, come se ci fossero stati da sempre, un altro nome e cognome ora si leggevano e questi erano “Aldo Moro”. Il partito nel corso degli anni aveva subito una lenta ed articolata trasformazione, uno spostamento perfettamente lubrificato. Da Partito Comunista era diventato Partito della Sinistra Democratica e poi Democratici di Sinistra e infine, tolta la sinistra che sapeva ancora di sinistro, Partito Democratico. Al tempo del Partito Comunista il 107 leader carismatico era un ometto serio e dallo sguardo triste che si chiamava Enrico Berlinguer. Dall'altra parte dello schieramento esisteva un'enorme formazione di maggioranza di matrice cattoliche che si chiamava Democrazia Cristiana ed il leader era un tipo un po' più alto, ma egualmente serio e triste che rispondeva al nome di Aldo Moro. Enrico Berlinguer ed Aldo Moro, anche se fra loro il confronto era civilmente aperto, sedevano seri e tristi dalle parti opposte degli schieramenti. Enrico Berlinguer si spense in modo commovente durante un comizio, Aldo Moro fu barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse, comunisti che avevano scelto la lotta armata e la violenza. Sì, d'accordo, poteva essere considerato un martire, ma cosa c'entrava con questo Partito Democratico? Il valore simbolico del suo nome era così forte da diventare l'emblema di un movimento che aveva radici così lontane da quello che lui aveva rappresentato vita natural durante? Il leader tacchino candidato alle elezioni voleva aggiudicarsi i voti del popolo cattolico e centrista, ma a Meleagro la lubrificazione sembrava forzata e poco riuscita ed anzi iniziò a sentire un attrito che faceva presagire un acuto dolore. E le tradizioni, le battaglie, i colori, dove erano andati a finire? Il male profondo arrivò quando vide due anziani che portavano fuori in mestizia la grande foto incorniciata di Enrico Berlinguer. Dentro la sala era già stato fissato al muro il ritratto di Aldo Moro. Non si vedeva nemmeno il segno lasciato sulla parete. Stessa misura, perfettamente coincidente. Meleagro restituì il boccale vuoto con meno delicatezza di quando lo aveva preso e si accodò a Maloni che aveva finito il turno. − Ma lei cosa ne pensa? – chiese Meleagro mentre uscivano in strada. Maloni assunse un'espressione perplessa. Non era per nulla scontato in quel momento che le loro preoccupazioni fossero le stesse. Magari Maloni aveva già ammortizzato il colpo. Cercò di essere più preciso. − Intendo dire il grande cambiamento, il nome del circolo, il ritratto sostituito... – disse indicando con un cenno della testa tutto quello che avevano lasciato dietro. 108 − Se loro hanno pensato che è utile, lo sarà veramente. Avranno fatto delle ricerche orientate...E poi cosa cambia per noi? Il posto rimane, le persone sono le stesse... − Oh sì, come la televisione – venne da ribattere a Meleagro. Maloni si bloccò di colpo e lo squadrò gelidamente, ma la conversazione non andò avanti perché un forte rumore metallico fece sollevare il capo ad entrambi. Era una gru altissima che stava roteando il suo braccio metallico. Sulla sommità c'era la sigla della Cooperativa Muratori. Meleagro si guardò intorno ed altre ne vide all'orizzonte, altissime, forti, eleganti. − Lavorano... – commentò Maloni che aveva provato l'antico senso di appartenenza e si era inorgoglito. A Meleagro parve di cogliere un'allusione al suo di mestiere, che gli permetteva di fare lo sfaccendato già a quell'ora e: - Sì ... – riuscì a dire soltanto. Aveva capito che le gru ed ogni cosa che aveva visto quel giorno erano come i mulini a vento contro cui ogni battaglia è persa in partenza. Camminarono un po' affiancati senza dire più nulla. Meleagro, che trascinava la bicicletta, si sentiva goffo rispetto a quel piccolo uomo dal baricentro perfettamente bilanciato. Cercava qualche parola per riavviare un discorso, ma poi se la rimangiava. Accanto a Maloni si sentiva timido e cinico nello stesso tempo. Che discorsi si potevano fare? Arrivarono al piazzale della stazione delle corriere. Un gruppo di ragazzi pakistani si era disposto in quadrato, qualcuno lanciava una pallina, qualcun altro cercava di colpirla con un lungo bastone piatto. I bambini autoctoni non si riunivano più per dare quattro calci a un pallone. I genitori li iscrivevano a corsi pomeridiani di ogni tipo per cui servivano iscrizioni e tessere. Se erano interessati al football si provava subito ad inserirli nei settori giovanili delle squadre locali. Le piazze e i giardini erano alla mercé dei bambini extracomunitari che vi sciamavano liberi e disordinati con i loro giochi incomprensibili. Arturo Maloni ne era infastidito, come tanti altri nella città, ma non riusciva a capire perché. Eppure era semplice. Non erano più i figli e i nipoti a replicare le corse e 109 le contese di un tempo e quella mancata conferma era un'impostura per tutti i ricordi. E i luoghi frequentati un tempo in calzoncini erano provati dalle scosse telluriche di quei passi stranieri. Le piazzette, le strade in cui si giocava una volta erano diventate poco riconoscibili e indefinite perché gremite da ragazzini col volto più scuro che urlavano in modo diverso. Possibile che non ci si riuscisse a convincere che erano soltanto giochi e bambini? Le persone stavano diventando di vetro, erano tutte delle finestre impaurite. Ogni pallina lanciata nel cielo le colpiva e le faceva tremolare. Meleagro ne ricevette una al volo, alzando la mano sopra la propria testa e tutta la rabbia repressa nei confronti di quell'impenetrabile compagno si tradusse in un gesto insensato. Infilò la pallina nella giacca di Maloni e: - Scappi ora! – urlò – Gliel'ha presa, finalmente! I ragazzi pakistani guardavano da lontano i due uomini, il grande e il piccolo, senza sapere cosa fare. 110 11. scrivere una frase allusiva nella cabina dell'ascensore Meleagro vide arrivare l'ascensore che l'avrebbe riportato a casa e fu colto da un'improvvisa illuminazione. Per far scendere e salire il cubicolo di metallo di qualche metro erano necessari bracci e braccetti metallici, leve, incastri, catene, argani, ruote dentate, rotelline, cuscinetti a sfera, viti, bulloni. Ad ogni fermata qualcosa si alzava, qualcosa si ritirava, qualcosa s'incastrava perfettamente in qualcos'altro. Solo a quel punto le porte si aprivano e allorché si richiudevano il perfetto meccanismo si svolgeva al contrario, i pezzi fuoriuscivano, le guide si liberavano, gli attriti si scioglievano e il tamburo girava. Meleagro si ritrovò a riflettere non sull'assoluta precisione, sull'incomparabile armonia che si creava tra le parti, dalle più grandi alle minuscole, ma sull'assurda complicazione che ne aveva sostenuto l'idea, sulla fatica e la pazienza folle che aveva richiesto la sua messa in opera. Per salire e scendere di dieci metri. E vedeva il primo esemplare di uomo che lo aveva ideato disegnare per nulla sicuro un primo elemento che così da solo non serviva assolutamente a niente e allora chiedere alla sua mente ed alle sue dita il soccorso di un secondo supporto che reggeva l'iniziale e così via sino alla fine, 20, 30, 40 pezzi totalmente dipendenti l'uno dall'altro. E una volta prodotti ed assemblati nel progetto comune, i pezzi richiedevano assidua manutenzione perché bastava soltanto che uno di loro si logorasse per far ingrippare tutto il resto. Possibile che nessuno vedesse il difetto originario di quel cervellotico sistema di pensiero? Possibile che non si fosse trovato niente di meno contorto e più leggero? Era da alcuni secoli che l'homo meccanicus si era affermato sulla faccia della Terra e nulla di alternativo si era sviluppato per contestarne la supremazia. − Salire e scendere senza meccanica. Così, schioccando le dita – stava immaginando Meleagro mentre i battenti metallici si aprivano di fronte a lui – Zaum! E si sale. 111 Muaz! E si scende. Perché nessuno ha voluto investire sulla forza del pensiero, perché nessuno ha dedicato i migliori anni della sua vita a studiare seriamente i fenomeni della levitazione? Era evidente che le sue considerazioni non nascevano dal nulla, che tutte quelle critiche alla complicazione e all'affanno, derivavano principalmente da una giornata complicata e da una vita affannosa. La porta di casa si stava avvicinando, tra un minuto avrebbe visto Melania e tutto si sarebbe chiarito. Forse. Non avrebbe fatto male l'aiuto di un'azione inutile. In quel caso tra il pensiero e l'azione esisteva un rapporto diretto – altro che complicazioni meccaniche! Cercò nella tasca uno strumento di scrittura, trovò un pennarello nero e sorrise. Scrisse sul foglio con i numeri dell'assistenza, “NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO”. Il pennarello era indelebile. Anche Melania stava scrivendo, ma di cose utilissime. Aveva reagito allo choc emotivo riassettando tutta la casa, con sudore e fatica, come se con lo straccio potesse raccogliere tutta l'acqua sporca che le si era rovesciata addosso. Finito di pulire aveva spolverato tutti i soprammobili e mentre riequilibrava sulla libreria un gattino portafortuna regalo di Maddy, aveva allungato la mano per rimuovere il fermo dalla porta. Le era tornato in mente il pensiero tormentoso di TD e vedendo che intorno nient'altro poteva essere rimesso a posto, aveva preso carta e penna. Ora stava redigendo una lista di beni di prima necessità e di prodotti per la casa da comprare all'Ipercoop. Sentì la chiave girare, ma decise di continuare e completò la parola AMMORBIDENTE. Meleagrò entrò in cucina e la trovò piegata sul foglio, concentrata, totalmente assorbita. Pensò stesse stendendo una relazione per un convegno od uno studio psicologico su qualche suo assurdo paziente. O era invece una lettera di addio? Per questo lo aveva allontanato? Meleagro le si accostò, le sfiorò con le mani i capelli e cercò di sbirciare. − Stai meglio ora? – le chiese. 112 − Ah, sei rientrato... – replicò Melania distrattamente, come se non fosse stata lei a spingere fuori il marito. Meleagro passò dall'altra parte del tavolo e vide che si trattava solo di un elenco. E se erano le condizioni nero su bianco poste da lei per la loro separazione? Mentre decifrava cotone idrofilo, pose la seconda domanda, quella che aveva tenuto a bada per tutto il pomeriggio a colpi di pedale. − Chi erano quei due? Melania rispose ricollegandosi al precedente quesito. − Ti preoccupi se sto bene e poi mi chiedi chi erano quei due? Meleagro tirò leggermente verso di sé il foglio di Melania. − Allora vuoi dire che c'è una relazione tra come stai ed il fatto che quella coppia è venuta qui… – disse Meleagro guardando la carta su cui le righe d'inchiostro parevano confondersi. − Non c'è una relazione. Dico solo che non si chiede a una persona stai bene, per poi cambiare completamente discorso... o si approfondisce dopo lo stai bene, ovvero ci si preoccupa realmente e realmente ci si informa o quello stai bene risulta una cazzuta formula di circostanza con cui ti stai sciacquando la bocca! Melania stava alzando il tono. Succedeva spesso in quel periodo e in quella parte dell'Impero che se una persona aveva bisogno di attenzione e dolcezza diventasse al contrario molto aggressiva. Meleagro non capì. Avrebbe potuto prenderle le mani e dirle che veramente era preoccupato e veramente l'amava e invece quel chiodo fisso piantato in testa aveva bisogno di smentite secche e immediate. Meleagro pensava che si fosse andati troppo oltre. Quando la misura è colma e non si può più tornare indietro. Era una paura folle e generica. − Erano due avvocati? Melania non voleva scoprisse quanto si fosse spinta oltre nello specifico. Il tradimento con TD. La misura era un filo ingarbugliato senza capo né coda. Non 113 capiva realmente se voleva stare ancora con Meleagro. − Tu sei completamente pazzo – disse arrossendo. − Due agenti immobiliari? Non mi sopporti più, vuoi trovare un altro appartamento, viverci da sola... − Sì, una casa dove non essere continuamente tormentata da un paranoico. − Allora è vero... − Che sei paranoico? − No. Che vuoi andare via. − Tu hai le visioni. − Quei due erano in carne ed ossa. Melania aveva ripreso il foglio e lo stava facendo a pezzetti. Doveva trovare un'idea. Perché poi gli aveva detto che erano stati lì? − Allora, me lo vuoi dire? − Cosa? − Chi erano quei due, la ragazza e... l'uomo. − Due di Dianetics. − Tu che ti intrattieni con due di Dianetics, inventane un'altra. Se una bugia pareva tanto grossa e veniva messa in dubbio con tanta forza, occorreva difenderla ad ogni costo e farla apparire come verità. − Prova ad immaginare perché una come tua moglie invita in casa due di Dianetics e poi ci parla. Io sono una psicologa, sai? Devo tenermi informata sulle manie dei miei pazienti, idiota! Meleagro fece uno sforzo per riavere davanti agli occhi le fattezze dei due che aveva incrociato per una manciata di secondi. Lei era alta, bionda, sì, poteva essere americana, lui era un bel ragazzo, sportivo, un po' rozzo e con uno sguardo allucinato, però. In effetti erano abbastanza strampalati per appartenere alla pazza confraternita di Dianetics. Ma che cos'era Dianetics? Dianetics era stata fondata dallo scrittore di 114 fantascienza Ron Hubbard. Il suo scopo era di convincere le persone delle meravigliose potenzialità nascoste che grazie al metodo Dianetics sarebbero uscite fuori, garantendo fascino, affermazioni professionali, soldi a palate per sempre. In quel periodo, in quello ed altri quadranti dell'Impero, proliferavano centinaia di associazioni con la precipua missione di gonfiare l'io della gente comune come un turgido palloncino colorato. Non esiste una sola associazione al mondo che cerca di fare proseliti ricordando agli individui che la loro importanza sul pianeta è paragonabile ad una cacchina di mosca e che la loro esistenza – l'esistenza di ogni individuo, fosse anche l'Imperatore del mondo – non è che un esecrabile sputo tra l'eterno buio dell'inizio e della fine. Beh, se esistesse, io sarei il primo ad aderire. Ma non esiste, non può esistere. Comunque Meleagro, portando dalla sua parte i brandelli di carta di Melania, stava chiedendosi che rapporto ci fosse tra i due eventuali tipi di Dianetics e la crisi di disperazione della moglie dietro la porta sbarrata. Possibile che le loro argomentazioni fossero tanto convincenti da stendere al tappeto un osso duro come lei? Meleagro voleva la verità e il destino gli fece capitare tra le dita un coriandolo con le lettere TD, frammento della scritta DUSTDEFENDER, il mangiapolvere attivo. Come avrebbe potuto cogliere l'allusione? Il disvelamento non si verificò e Meleagro gettò lontano la cartina al pari di un insettino morto. − Ma... la tua crisi nasce dal confronto che hai avuto con 'sti due di Dianetics? − Assolutamente no – rispose Melania. Mentiva e diceva la verità nello stesso momento. − E allora? E' colpa mia? − Senti, Mel, volevo soltanto restare da sola. Mi era preso 'sto schizzo. Difficile da capire, vero? Sarà la menopausa. Melania si alzò ritenendo chiusa la discussione. Meleagro tamburellò le dita sul tavolo, tirò indietro la sedia e la seguì per le stanze. Melania odiava che la tallonasse 115 in quel modo. - Sai, ho pensato... – disse mentre lei si abbassava a tirare un cassetto del comò. − Sì, ho pensato mentre ero fuori... – e lei ignorandolo tirava su un paio di mutande ed una canotta. − Cioè, io credo... – Melania si dirigeva all'armadio e frugava tra gli appendiabiti. − Ecco, le cose tra noi due non vanno tanto bene, come negarlo... – Melania era quasi scomparsa tra vestaglie, camicie e pigiami. − Ci ho pensato bene, sai, e credo che tutto è iniziato... – Melania era venuta fuori con un accappatoio fra le braccia. − ...quando Maddy ha preso quel maledetto aereo ed è andata via. − Lascia fuori Maddy. Maddy sta bene dove sta – rispose secca Melania – Io vado a fare una doccia. Prepari qualcosa tu per cena? − Beh... sì. Cosa ti va? − Quello che vuoi tu. Una cosa semplice. − Anche pasta in bianco? − Sì. Dopo la doccia voglio andare al computer. − Ah. Ci volevo andare anch'io... − Per fare cosa? − Così. Chattavo un po' con Maddy. E' da un po' che non la sentiamo. La piccola. Melania gettò con cattiveria la maglietta nel cesto della biancheria e tirò giù con violenza la zip della gonna. Meleagro vide che aveva addosso il tanga. Per chi l'aveva messo se non per lui? Restava sulla soglia del bagno senza capire se dovesse entrare. − Mentre sono al Pc ci penso io a Maddy – disse Melania sbattendo la porta sul naso del marito. Ancora una volta chiusa dentro. Irraggiungibile. Non parlarono più. Nessuno dei due aveva voglia di ingaggiare una nuova discussione. A tavola, costretti a stare uno di fronte all'altra, Meleagro provava il silenzio di Melania con un sospiro o un verso di sazietà dopo un mezzo bicchiere di 116 vino mandato giù sino all'ultima goccia. Era in attesa che sciogliesse il suo riserbo e diventasse nuovamente disponibile, anche se non sapeva neppure lui per cosa. Aspettava un cenno che lo facesse correre da lei, ma come un cane sospettoso perché troppo bastonato, non si azzardava a strofinare la testa contro la sua mano. Melania, che aveva il fantasma di TD intorno a sé, lo scacciava con gesti più duri del normale, quando afferrava la bottiglia, un pezzo di pane o lasciava ricadere il bicchiere e la forchetta con più violenza. Senza volerlo era un deterrente sonoro che scoraggiava Meleagro dall'iniziare qualsiasi discorso. Anche quando iniziò a sciacquare i piatti e a riporli nella lavastoviglie, i rumori sembravano accentuati, ma Meleagro vi colse , più che l'irritazione della moglie, un nuovo difetto della tecnologia e gli parve di nuovo assurdo che l'ennesima complicazione di meccanismi fosse sprecata per un'operazione tanto semplice. Per millenni non erano bastati due mani e un po' d'acqua? Vide Melania rinchiudersi nuovamente, nello studio. Lui si mise il pigiama e si distese davanti alla TV. Si proibì di sperare che lei arrivasse con impeto e dolcezza accanto a sé. Era depresso in generale per come funzionavano le cose. La vita – come l'ascensore e la lavastoviglie – gli pareva un marchingegno astruso e faticosissimo. Non voleva lasciarsi andare completamente, non voleva arrivare al punto di sentire il gelido richiamo degli oggetti e diventare un pezzo amorfo. Reagì trasformando tutta l'amarezza in una delirante allegria. C'erano perlopiù trasmissioni elettorali in cui i politici di turno si insultavano per finta giocando alla commedia dell'arte. Decise di saltare da un canale all'altro alla ricerca non dei programmi, ma degli inserti pubblicitari. Appena vedeva la faccia di un politico schiacciava sul telecomando alla ricerca di uno spot. In fondo era la stessa cosa. Anche se di schieramenti opposti i politici erano sostenuti dalla stessa logica di mercato, figuriamoci, e dunque era meglio la stupida sfacciata pubblicità con le storielle assurde, i bei panorami, le tette, i culi e i motivetti stupidi. Quando si mise a letto era completamente esausto, 117 inebetito. Aspettò però che arrivasse Melania per chiederle notizie di Maddy. Intanto si vergognava che fosse proprio la figlia l'argomento per poter riprendere a parlarle. Melania aveva impiegato il suo tempo sul Pc, a scrivere una lettera che continuava a cancellare e a reimpostare. Nella lettera chiedeva come risarcimento a TD che potessero veramente vedersi da soli. Infine, quando fu soddisfatta, cercò disperatamente sul sito del famoso marchio se per caso, come figura di rilievo nell'organico della ditta, TD avesse una sua e-mail personale. Non trovò niente, divenne fatalista e fece sparire le parole con un tocco leggero della mano. Passò qualche minuto a chattare con Maddy e venne a sapere che gli studi procedevano e che lei stava bene. Avrebbe partecipato ad un saggio teatrale. Brava. A Meleagro, mentre posava la testa sul cuscino, rispose che la figlia era in salute, senza accennare all'impegno artistico. Nel buio Meleagro non sapeva se allungare un braccio o un piede per stabilire un contatto. Melania tutta raggomitolata pensava a quanto fosse brutta e sformata rispetto alla fantastica ragazza di TD. Prima di addormentarsi entrambi pensarono con nostalgia a quando la piccola Maddy a volte dormiva con loro. Allungarono un braccio verso lo spazio vuoto là al centro, ma le mani non arrivarono a toccarsi. Meleagro ebbe una notte tormentata. Sognò che gli operai spostavano dalla parete un suo grande ritratto e lo sostituivano con quello di un uomo-tacchino verso cui tutti dimostravano una grande venerazione. La sua casa era diventata una specie di chiesa dedita a quel culto. I fedeli si genuflettevano davanti all'enorme ibrido di piume, cascami di pelle ed occhiali. Lui era diventato una specie di custode con tanto di berretto in testa ed ognuno che entrava od usciva gli stringeva compunto la mano. La mattina dopo Meleagro volle interrogare sulla prima rivoluzione industriale. L'Idra alzava guardinga la testa per fiutare che aria tirasse, prima di scatenare i suoi infidi giochi. Meleagro chiamò alla cattedra Pamela Maloni, nipote del suo vicino di casa Arturo Maloni, ragazza attenta e studiosa, anche se quasi del tutto priva di 118 intelligenza. Insieme a lei volle la tunisina Marwa Rihai, la più grande rompiballe della classe, non tanto per verificare la sua preparazione che immaginava nulla, quanto per togliere all'Idra con un colpo a sorpresa il suo elemento più aggressivo. Marwa aveva una situazione confusa in famiglia, era confusa perché indecisa fra due ragazzi, aveva una gran confusione nella testa, dunque non poteva far altro che confusione. Meleagrò osservò le due interrogande. Già sapeva per esperienza cosa sarebbe successo. La tarda Pamela, lo sguardo perso nel vuoto, sarebbe arrivata ad esporre il concetto richiesto tra estenuanti raschiamenti di voce, pause affannose e respiri profondi. Marwa all'opposto avrebbe sparato tutte le sue cartucce ad un ritmo impressionante, mischiando nel suo scriteriato couscous cause, effetti, fenomeni, date e personaggi. Sarebbe stata una lotta fra poche precise minuzie e un caos totale ribollente di inesattezze. Un inferno. Chiese a Pamela di esporgli in maniera piana i principali effetti della prima rivoluzione industriale sulla vita quotidiana degli individui. Dopo sforzi disumani ottenne da lei due cacchine didattiche già belle che fossilizzate che ricaddero sulla cattedra e che lui fece in fretta ad incastonare nel suo registro dei voti. Disse: Trasporti – e poi disse – sfruttamento. - Mentre la prima si spremeva e sudava, l'altra sbuffava, le lanciava occhiate di commiserazione, la incitava a fare in fretta, perché lei da parte sua non riusciva più a trattenersi e voleva dimostrare quante cose sapesse e con quale rapidità riuscisse a dirle. Meleagro le diede il via con un gesto sconfortato della mano. − Allora, Umberto Saba che è nato a Trieste dice a sua moglie che cammina come una gallina cioè fa parte del movimento poetico però più tardi e come lui è di Trieste un altro scrittore che faceva una strada in salita e poi dice a sua moglie che è una gran vacca forse perché lo tradiva... Meleagro, assorto nei suoi pensieri, stava disegnando sghiribizzi su di un foglio, quando fu colpito dalle parole 'moglie', 'gran vacca' e 'tradiva'. Si mise una mano fra i 119 capelli e con l'altra bloccò il delirio verbale della ragazza. − Marwa? − Sì? − Ci sei? − Sì. − Ti sei resa conto che questa è un'interrogazione di Storia e non d'Italiano? − Ah sì? Umberto Saba è Storia? − Marwa non voglio che tu mi racconti di Umberto Saba e sua moglie che in questo momento si staranno rivoltando nella tomba, ma della prima-rivoluzioneindustriale. Storia, Marwa. Prima-rivoluzione-industriale. Sei connessa? − Ah, Storia, perché credevo... vabbe', dico Storia... la prima rivoluzione industriale nasce nel 1800 a Trieste... − Marwa, a Trieste è nato Umberto Saba. − Ah sì. La prima rivoluzione industriale nasce in Francia nel 1800, ah no, in Inghilterra, grazie all'invenzione dei sindacati che arrivano alle fabbriche dalle campagne, sì, ci arrivano coi treni e distruggono la macchina a vapore. Meleagro diede uno sguardo al resto della classe, la desolazione più totale. Ragazze che scribacchiavano sul diario, altre che risolvevano gli esercizi di Matematica per l'ora successiva, una che di nascosto inviava sms col telefonino, un'altra che si stava dando lo smalto alle unghie. Non si schifò per loro, ma per se stesso. Da quante settimane stava interrogando sulla prima rivoluzione industriale? E la sua opinione personale, a qualcuno gliene fregava? E invece l' avrebbe clamorosamente rivelata al mondo. Le sue ultime e definitive parole sulla prima rivoluzione industriale! Ovvero NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO! Si alzò di scatto e batté con violenza il registro di classe sulla cattedra. Marwa rimase a bocca aperta e sgranò gli occhi. La nipote di Maloni si fece pallida ed inghiottì la saliva. Tutte le altre dell'Idra non poterono far altro che ritornare attentissime. 120 − La prima rivoluzione industriale – stava urlando Meleagro tutto congestionato – è la strada più assurda che potesse imboccare l'uomo. Una tappa dell'evoluzione sbagliata e catastrofica! Uno: pensare di far andare avanti il mondo con materiali rubati alla Terra, che li nascondeva gelosamente nelle sue viscere, nella sua pancia. Nella pancia ci sono cose sporche, ragazze, nella pancia ci sono grosse quantità di merda nera e puzzolente che l'uomo ha restituito alla Terra sotto forma di gas neri e puzzolenti che entrano ogni giorno dentro i nostri corpi e le nostre menti! Due: le macchine che ha costruito sono semplicemente assurde, ferraglie complicate, ammassi di fili, leve, rotelle che rendono perfettamente l'idea di quanto sia assurdo e complicato l'uomo e la sua fottutissima civiltà industriale. Tre: la civiltà industriale ha fatto diventare gli uomini dei grandissimi coprofagi contenti di esserlo. Cosa vuol dire, ragazze, coprofagi? Mangiatori di merda, vuol dire! Basta spalmare qualcosa di luccicante sulla merda ed eccoli accorrere tutti al gran banchetto dove viene servita cacca della più eccellente qualità. Brum brum, ma vi rendete conto che ci spostiamo su assurde scatolette di latta che producono tanta tanta merda non smaltibile? Ah no, noi ne andiamo fieri, invidiamo quella più luccicante del vicino, chiediamo prestiti alle banche per avere merda più colorata e potente. Brum brum. Quarto: tutti siamo coinvolti in questa falsa felicità da drogati, per cui ogni giorno bisogna produrre miliardi di tonnellate di merda e tutti ci vogliono arrivare prima o poi a 'sta gran cagata, a cominciare dagli indiani e dai cinesi che essendo miliardi pure loro, anche con una piccolissima parte di merda per ciascuno, manderanno a picco l'intero supermerdoso pianeta! Quinto: non lo so e non me ne frega niente! Ma la prossima volta è su quello che ho detto che interrogo e non capisco perché quando io dico delle cose che non ci dormo la notte, nessuna di voi prende mai appunti! NON E' COSI CHE ANDAVA FATTO. NO, NON E' COSI'. E queste parole le scrisse sulla lavagna e fece stridere paurosamente il pezzo di gesso 121 che aveva in mano, come se le volesse incidere per sempre. 122 12. umanità Il Lincoln Navigator di TD, da lui ribattezzato Black Death, era lungo 5,53 metri. La Fiat Punto di Arturo Maloni 3,76 metri. La vecchia Panda di Meleagro 3,38 metri. Viste già soltanto da un centinaio di metri di altezza apparivano tutte quante – in rapporto all'immensità della terra e del cielo – come povere scatolette di metallo e grosse differenze tra loro non si notavano. Un rivenditore o un appassionato automobilista in un minuto ve le avrebbe potute far notare tutte. Saltavano agli occhi. In particolare quello che impressionava nel Suv di TD era la spettacolarità della calandra e su tale caratteristica insisteva particolarmente la campagna promozionale. Era la più grande del mondo, la si sarebbe potuta usare come spostavacche, anzi, senza correre il rischio di scalfire la lucente cromatura, i bovini si sarebbero messi a posto da soli, intimiditi dall'avanzamento della portentosa calandra... La calandra era la parte frontale del cofano anteriore, dentro vi era custodito il potente e aggressivo motore, che in quel momento, nell'esemplare in uso a TD, non dava forza motrice alle ruote, ma sonnecchiava pronto a mettersi in funzione e a far divorare a Black Death chilometri e chilometri di asfalto o di sterrato. Bastava che la chiavetta girasse, che il quadro elettrico si accendesse, che la cloche del cambio ingranasse la marcia giusta, che il pedale dell'acceleratore venisse spinto etc. etc. Tutti lo facevano, a cosa serve spiegarlo? TD aveva fermato Black Death su uno dei viali cittadini e fermo al volante aspettava che risalisse Malgor Z, da lui prontamente accompagnata per un acquisto urgente in farmacia. La modella boema si faceva spesso accompagnare in giro per la città e molto spesso, chissà perché si domandava TD, sceglieva come meta una farmacia. Non aveva un aspetto malaticcio, né si lamentava per dolori di alcun tipo, eppure più che boutique o profumerie erano gli spacci di medicinali che amava frequentare. Dopo la scenata a casa della dottoressa Melania Carson, TD aveva 123 cercato di chiarire. Malgor Z gli aveva urlato che doveva pagare il richiesto e lui, dopo che erano usciti, aveva provato a spiegare che il servizio era del tutto gratuito. Gratis, for free. - For free? - Sul grazioso volto della ragazza si era disegnato un sorriso che rivelava il più totale scetticismo. TD aveva insistito che nella sua città era così che funzionava e che presto avrebbe potuto anche smettere. - Smettere. I give up. Stop with the doctor-. Il sorriso si era spento, gli occhi erano diventati enormi. TD si era messo una mano sul cuore ed aveva giurato. Malgor Z aveva abbandonato le mani lungo i fianchi e aveva detto soltanto: - Yes. I believe you. - Sì, gli credeva. TD nel successivo cammino aveva cercato di accompagnarla allacciandole un braccio intorno alle spalle. Malgor Z si era scostata senza aggiungere nulla e da quel momento per le giornate successive le parole che si erano scambiati erano state davvero poche. Non è che a TD importasse molto, delle parole cioè, di lei chissà. Quando erano insieme su Black Death cercava di farla ridere ed ogni tanto, ricordandosi che solo in quell'occasione le difese della ragazza si erano abbassate o così gli sembrava, ripeteva senza motivo: - I give up. Stop with the doctor. - Malgor Z si voltava a guardare dal finestrino per non far veder che in effetti era quella la cosa che la divertiva di più. TD si era voltato a guardare cosa cavolo stesse facendo dentro la maledetta farmacia. Erano già venti minuti. Da venti minuti Melania, nascosta dentro la sua auto, stava controllando i minimi movimenti dell'uomo per cui aveva perduto la testa. Vide che premeva la mano sul clacson, sentì il suono ripetuto e ne fu trafitta. Se si permetteva di richiamare la ragazza con segnali di impazienza così forti, voleva dire che tra loro si era stabilito un rapporto di confidenza, sicuramente di intimità. Pensava a ciò che succedeva in tutte le coppie, la femmina che non si accorgeva dello scorrere del tempo, l'impazienza sempre maggiore del maschio. Stava seguendo da vari giorni gli spostamenti di TD e della spilungona. Non c'entrava più niente con la scheda del Sert e l'analisi comportamentale del soggetto. Melania era pazza di gelosia. Aveva provato a ragionarci sopra, ad abituarsi all'amarezza di quella sua storia neppure cominciata, a 124 convincersi che l'unico incontro avuto sarebbe stato comunque un ricordo intenso, un fulmine nel buio. E poi tra poco sarebbe tornata Maddy dall'America e come avrebbe potuto. Si convinceva che fosse tutto un gioco di proiezioni, fare l'amore con un proprio assistito era un preciso sintomo di stress professionale. O familiare? Forse aveva bisogno di una vacanza, un viaggio insieme a Meleagro, per cercare di recuperare il rapporto. Non serviva a niente. Un attimo dopo che si era ridotta alla ragionevolezza, la calma imposta si trasformava in furore. Anche i bambini si comportavano così, quando giuravano obbedienza alle madri e poi correvano spasmodici verso il gioco proibito. Era più bello sudare. Così senza saperlo Melania stava già correndo verso i luoghi dove avrebbe potuto incrociare il Suv nero di TD e scorgere il luccichio della famosa incomparabile calandra. Lui non smontava mai. Dall'abitacolo della sua auto che cercava di fermare in postazioni strategiche, Melania vedeva lo sportello aprirsi e scendere l'allampanata ragazza di cui cercava di valutare obbiettivamente pregi e difetti. Lui non smontava mai e di conseguenza l'attrazione di quel corpo invisibile si propagava all'involucro che lo conteneva e Melania rimaneva sospesa ed estasiata di fronte ai bagliori della vernice nera. L'auto era piena di TD da scoppiare, era una sua formidabile erezione, dal parabrezza al tubo di scappamento. Col cuore in gola e commossa Melania l'ammirava. TD era come racchiuso in un prezioso reliquario che emanava gloria e richiedeva preghiere. I reliquari erano custodie finemente cesellate in oro ed argento, decorate di pietre preziose, a cui in età passate rispetto a quella che si sta raccontando, si affidavano i resti miserrimi – un femore, la scapola, i denti – di un uomo venerato come santo. Articoli di fede. E Melania si rosicchiava le unghie domandandosi perché l'oggetto del suo culto fosse proprio saltato fuori dall'applicazione quotidiana del suo metodo, una scheggia impazzita del suo lavoro che l'aveva colpita alle viscere, altro che mente ed autocontrollo. Un giovane ricchissimo, viziato, malato...cosa c'entrava con lei? Forse c'entrava il fatto che le si era avvicinato pensando solo al suo corpo e a quello che ci 125 si poteva fare. A volte si impauriva contro ogni ragione pensando che lui dentro il Suv non ci fosse. Così, svanito come fanno gli dei. Una volta era scesa ed era passata sul marciapiede opposto per controllare. In quel momento lui aveva abbassato il vetro per buttare fuori un mozzicone. Allora la dottoressa Carson aveva controllato l'orologio ed aveva aumentato i passi come una donna indaffarata. Chissà se lui da dentro l'aveva vista ed aveva seguito i suoi finti passi affrettati. Succedeva due giorni prima. In quel momento invece Malgor Z stava uscendo dalla farmacia con una busta di medicinali e TD aveva allungato un braccio per mettere a posto lo specchietto. Era la pelle e la carne di TD, a quella vista inaspettata Melania fu colta da una vertigine. Nello specchietto di Black Death debitamente regolato, era inquadrata l'auto di Melania. − Sali, presto – disse TD a Malgor Z. Fece uscire il Suv dal parcheggio e partì piano. − Che cazzo vuole, che cazzo vuole! - urlò TD vedendo che lo stava seguendo – E' da tre giorni che mi viene dietro, puttana! − Is the doctor? - chiese Malgor Z resistendo alla tentazione di voltarsi. − Sì, the doctor, quella grandissima troia della dottoressa Carson! − Ma tu vuoi smettere, vero? − Malgor, ne ho le palle piene...ora guarda che faccio. TD frenò di colpo e per poco la Mini di Melania non andò a sbattere contro Black Death. Melania era smascherata, ma non pensò che TD lo avesse fatto apposta. Quando se lo trovò di fianco pensò che fosse sceso per accertarsi che stesse bene, quando iniziò a parlare pensò che le chiedesse se si era ferita. − Scendi! - ordinò TD cercando di aprire lo sportello. Melania obbedì come un automa. − Cosa cazzo continui a seguirmi,eh? Cosa cazzo continui? A seguirmi? Eh? Melania vide che accanto a lui si era materializzata la bella ragazza. Le veniva da 126 piangere, ma non poteva crollare davanti a lei. Cercò di riacquistare il controllo, di giocarsi la carta ancora valida della prassi professionale. − Calmati – disse – E' una procedura normale. La abbiamo decisa io ed i miei colleghi. − Cosa sei? Un poliziotto,eh? Mi spii? Cosa c'entri tu con la mia vita privata? Melania abbassò gli occhi. − Anche se non lo sai, tu hai bisogno di me – sussurrò. TD fece una risata isterica. Malgor Z lo tirò da parte, si avvicinò a Melania e le poso delicatamente una mano sulla spalla. Era molto alta. − Lui vuole smettere con te. Non vuole più la tua roba. Lascialo – disse con dolcezza. Melania pensò che se si metteva a correre sarebbe riuscita a salire sul Suv prima di lei e una volta preso possesso del sedile, nessuno avrebbe potuto strapparle il diritto di stare al fianco di TD. Invece lasciò che i due scivolassero fuori dalla sua portata e qualche secondo dopo sentì il rumore dell'auto che partiva senza di lei. Dall'altra parte della strada correva il tracciato di una pista ciclabile. Vi passarono due bambini ed entrambi si voltarono a guardare la donna immobile quasi al centro della strada, con le macchine che la sorpassavano compiendo una brusca deviazione e facendo deflagrare il clacson contro di lei. Kevin procedeva impettito sulla sua bici nuova con una bandierina piantata all'altezza del manubrio. La bandierina era gialla e vi spiccava questo disegno 127 Kevin per essere protetto da brutte cadute portava un vero caschetto da ciclista, con le cinghie che si allacciavano sotto il mento. Si voltò, vide la donna nella baraonda del traffico e assaporò una piacevole sensazione di pericolo perché stava pedalando da solo in una zona dove ne succedevano di tutti i colori e lui, proprio lui, non si faceva intimidire, ma aveva un perfetto controllo della situazione. Proprio da solo in effetti non era. Cinque metri dietro di lui procedeva sulla seconda bici Beatrice Appalachi che portava su un seggiolino applicabile il piccolo Alex, anch'egli con un piccolo casco fissato al piccolo cranio. Alex si girò, sbilanciando l'assetto sicuro della madre e vide la strana figura immobile al centro della strada. Allungò un braccio per indicarla e – Sembra una statua – disse, ma la madre, immersa in pensieri di cui non ho voglia di rendere conto, non lo ascoltò. I tre andarono avanti così, senza mai affiancare le biciclette, sino ad un parco della periferia con poco verde e qualche gioco che aspettava soltanto la dismissione. Lì però Kevin aveva appuntamento con un suo compagno di scuola. Il parco era quello di fronte alla lavanderia dove TD andava a consegnare e riprendere i tessuti di famiglia ovvero dell'azienda con il famoso marchio. Kevin scorse nel parcheggio il grande Suv nero con l'immensa calandra, la immaginò provvista di canne metalliche bucherellate da cui uscivano a ripetizione miriadi di infuocati proiettili. Alex sorpassò il veicolo e disse: - Sembra 128 una scatola nera. - Smontarono e si sedettero su una panchina all'ombra. Beatrice Appalachi diede da bere al più piccolo ed iniziò ad organizzare con lui un gico di compravendita dove gli articoli di scambio erano pigne secche e le monete foglie palmiformi. Kevin non trovava l'amico, ma i ragazzini della sua età non è che aspettassero i coetanei in ritardo tranquillamente seduti. Vide un gruppo che stava organizzando una partita e si avvicinò a loro. I tipetti avevano tra le mani lunghi bastoni piatti ed una specie di arancia di gomma. C'era concitazione, ma Kevin non capiva le parole che si stavano urlando. In effetti i tipetti stavano conversando in punjabi, lingua che Kevin non conosceva affatto e che forse, chi lo sa, avrebbe potuto conoscere in futuro se la catastrofe imminente non glielo avesse precluso. Uno di loro, di nome Andleeb, si staccò dal cerchio ed andò a beccare Kevin, discosto di un metro. − Sai giocare a cricket? – chiese Andleeb. − Abbastanza – rispose Kevin mentendo spudoratamente. Andleeb intuì la bugia, sorrise e diede una voce al gruppo che si era ammutolito, in attesa di conoscere l'esito della consultazione. Qualcuno si mise le mani fra i capelli, qualcuno fece una piroetta e cadde a terra, qualcuno imitò i passi strascicati di uno zombi, non si capiva se erano dispiaciuti o se facevano finta. Kevin non sapeva se unirsi alle risate o se darsela a gambe. Uno lo indicò e disse: - Tu, Fabio Cannavaro. Fabio Cannavaro era il capitano della nazionale italiana di calcio, campione del mondo 2006, e tutti lo conoscevano. Uno fra i più alti del gruppo fece scendere il silenzio con un gesto perentorio e parlò ad Andleeb nella lingua straniera, indicandogli con la mano un punto distante. Andleeb fece da interprete: - Cannavaro, tu vai là. Se arriva la palla tu la prendi e la tiri a me. Capito, Cannavaro? - Kevin era contento che lo chiamassero così. Andò a prendere posizione. Anche se il gioco non lo conosceva per nulla, ora ne era entrato a far parte. Nessuno ora avrebbe potuto urlargli contro o dargli una spinta, minacciarlo 129 o semplicemente avanzare con passo aggressivo verso di lui, perché questo prevedeva lo spirito del gioco. Il cricket infatti si legge nel preambolo alle vere e proprie regole, “deve la sua unicità al fatto che non dovrebbe essere giocato secondo le relative leggi, ma anche secondo lo Spirito del Gioco. Qualsiasi azione vista come contraria a questo Spirito, causa un danno al gioco stesso”. Anleeb, sistemato Cannavaro, fece una corsetta verso una panchina e chiese al ragazzo in kameesh che vi era seduto se avesse voglia di unirsi alla squadra. Il ragazzo scosse la testa e si capiva dalla sua faccia che non era il caso di insistere. Il ragazzo era Salman e a quell'ora del pomeriggio non avrebbe dovuto essere lì fuori a prendere l'aria. Dentro con i suoi colleghi a lavorare avrebbe dovuto essere. Ma a Salman era stato comunicato che per un problema di esubero del personale le sue prestazioni non erano più necessarie. Salman aveva fatto finta di non capire la parola 'esubero' ed era tornato al suo posto a immergere le mani nella schiuma del detergente. Qualcuno lo aveva fatto smettere, con gentilezza, ci mancherebbe altro e lo aveva accompagnato all'uscita. Gli avevano dato anche un po' di soldi, ma lui non era contento, guardava il capannone della lavanderia e provava vergogna, come se gli avessero impedito per un grave peccato di entrare nella moschea. Era piegato su se stesso, il capo fra le ginocchia e pensava ad una frase che aveva letto sul quaderno della sorella. La frase diceva “NON E' COSI' CHE ANDAVA FATTO”. Perché proprio lui? Si era sempre impegnato al massimo, mai un arrivo in ritardo. Straordinari anche pesanti non retribuiti perché era arrivato un ordine grosso e i clienti bisogna sempre accontentarli. Anche la sera prima. Era riuscito a prendere l'ultima corriera correndo come un pazzo. E ora l'avevano messo alla porta senza un preavviso, niente più corse e niente più stipendi. A parte quella manciata di biglietti che si ritrovava fra le mani. Gli veniva voglia di buttarli via, di farne una palla e colpirli con la mazza, anzi li avrebbe spesi tutti prima di tornare a casa, tanto di tempo ne aveva. Alzò la testa e notò seduti su una panchina Zaccaria e Gino che gli 130 stavano sorridendo. Poteva leggere i loro pensieri: - Hai visto cosa si ottiene a fare il bravo ragazzo – stavano pensando, questo leggeva nei loro occhi che si stringevano e nei loro sorrisi. - Non hai più niente – vi leggeva – Ora sei come noi. - Essere uguale. Se non vi era ancora riuscito nel bene forse poteva provarci nel male. Aveva varie possibilità. Salire a bere un caffè da un vecchio italiano. Diventare amico dei due teppisti, fare la loro vita. - Ora sei come noi – dicevano le mani che lo invitavano ad alzarsi e a raggiungerli. La palla colpita schizzò in alto, sembrò perdersi fra i rami delle querce e le foglie degli ippocastani, invece scese all'improvviso e Kevin se la ritrovò fra le mani. Andleeb stava urlando e agitava le braccia come un pazzo. Kevin gli rilanciò la palla, un bel tiro, e Andleeb la prese al volo. Quello che stava avvenendo poi nel gioco, Kevin non riuscì a capirlo, ma quando l'azione si concluse vide i ragazzi fare festa e qualcuno gli urlò:- Bravo Cannavaro!-. Kevin era soddisfatto, per la gioia e l'orgoglio fece una piroetta su una gamba sola, senza abbandonare la base però, chi mai gliela avrebbe potuto far mollare la base, in quel momento. Siccome Salman non si decideva ad alzarsi furono Zac e Gino a raggiungerlo alla panchina. Lo strinsero in mezzo e Salman respirò profondamente. Tutti e tre stavano guardando il cielo sopra la fabbrica ed era un comune cielo azzurro che avrebbe potuto fare da sfondo ad una montagna di rifiuti o ad un paradiso tropicale. Anche lì sopra ci stava bene e per un attimo aiutava a dimenticare tutto. − Ehi Pakistan, t'hanno dato il benservito pure a te, non è o vero? - disse Gino. − Non te la prendere – continuò Zac – Così ti sei liberato dell'oppressione e dello sfruttamento dell'Impero del male. - Senza farsi vedere dal ragazzo strizzò l'occhio al compare. − Non tutto il male viene per nuocere – disse Gino mettendogli una mano sulla spalla – Oggi sei libero e bisogna festeggiare, diglielo tu che tenimmo a pazzià! – fece rivolto a Zac, pulendosi intanto la mano sulla stoffa dei pantaloni. 131 − Alla grande bisogna festeggiarla 'sta rivoluzione! Costituiamo un comitato di festeggiamenti per il nostro ragazzo libero e rivoluzionario! – esclamò Zac con tutta l'enfasi di cui era capace. Salman alla parola 'rivoluzione' si sentì la testa tutta effervescente, come se dentro gli fossero esplose bollicine a miliardi. Si sentiva euforico, aveva deciso di compiere un passo decisivo e tutte le preoccupazioni erano alle spalle. Si alzò di scatto e si rivolse ai due. − Venite – disse con decisione indicando il bar – Vi offro da bere. I due si guardarono stupiti perché stava andando meglio di quanto avessero sperato. Era il momento di darci dentro con la commedia per abbattere ogni diffidenza ed ottenere da lui la più completa fiducia. − Eh no – fece Gino alzandosi e mimando un inchino – Ci mancherebbe. Siamo noi che ti abbiamo invitato, eh Pakistan? Zac gli arrivò da dietro con una sberla che lo rigirò. − Ehi Napoli, ti piacerebbe che ti chiamassero Napoli, eh Napoli? Guarda che qui il ragazzo il suo nome ce l'ha che gliel'han dato il suo onoratissimo padre e la sua rispettabilissima madre. Zac bloccò il suo scoppio di finta indignazione e aspettò a bocca aperta che il ragazzo si rivelasse. Salman gonfiò il petto e poi buttò fuori il fiato, con decisione ed allegria: - Aamir Khan! Mi chiamo Aamir Khan! Era l'attore che aveva interpretato decine di film prodotti a Bollywood. Bollywood era il maggior centro di produzione cinematografico del subcontinente indiano. Aamir Khan era forte, bello ed atletico. I personaggi che interpretava erano agenti al servizio del bene e grandi amatori. Ora che stava entrando nella nuova vita, con tutti i rischi che avrebbe comportato, Salman aveva deciso all'istante che quello sarebbe stato il suo nome: Aamir Khan. − 132 Aamir Khan – ripeté Zac massaggiandosi il mento. Gino finse di essere sorpresissimo: - Ahò, chisto due nomi tiene, addirittura! Ma in confidenza come ti dobbiamo chiamare, Amir o Can? − Amir, va bene Amir – rispose Salman mentre si incamminavano. − Amir, hai capito, questo è il suo nome. E' il cognome è Can, perché è fiol d'un can -aggiunse Zac per fare lo spiritoso e ad Amir ( anch'io adotterò questo nuovo nome rispettando la scelta del mio personaggio, ci mancherebbe ) che si era voltato un po' incerto – Mica per mancare di rispetto, eh? Devi sapere Gino, nella tua enorme ignoranza, che i Can sono stati tutti grandi condottieri, a cominciare da Gengis Can, che se incontrava anche uno forte come me, vinceva comunque lui e mi faceva a fette. Entrarono al bar Bone, ordinarono e Amir iniziò a bere la sua prima birra della vita come se l'avesse sempre fatto e fosse la cosa più naturale del mondo. Il barista Lando Erris notò l'incongruenza del trio e pensò che l'incontro tra i due balordi ed il pakistano non presagisse nulla di buono, ma come ogni barista che si rispetti fece il suo lavoro e non si permise nessuna osservazione, anche perché avevano già messo un pezzo da cinquanta sopra il banco. Amir protestò che voleva pagare lui per tutti, Zac lo calmò dicendo che a lui sarebbe toccato il giro successivo. Era dunque così che funzionava, era così che si entrava nel gioco che aveva visto svolgersi tante volte senza potervi partecipare. Amir si estasiava del liquido biondo che aveva nel bicchiere e vi scorgeva materializzate le bollicine che aveva nella testa. Voleva che quell'osmosi continuasse a lungo. E il gusto amaro che sentiva avrebbe sconfitto l'amaro dei pensieri, lo sentiva già. Dopo il primo boccale Amir parve già abbastanza cotto per introdurre l'argomento decisivo che nel giro di un'ora avrebbe condotto il pakistano dalla loro parte e lo avrebbe reso totalmente succube. − Amir, ce l'hai la ragazza? – butto lì Zac, pulendosi via la schiuma dalle labbra con l'avambraccio. Ad Amir le parole sembravano arrivare da un pozzo profondo, sassi che invece di 133 cadere dentro, da lì saltavano fuori e lo colpivano in piena faccia. Alla parola 'ragazza' migliaia di immagini centrifugate, dal volto di sua sorella a quella di un'italiana con la lingua trafitta da una punta metallica...Amir per poco non cadde dallo sgabello, si aggrappò al bordo del bancone e l'immagine che uscì, a cui rimase tenacemente ancorata la sua mente, fu quella infantile della sposa che lo attendeva in Pakistan. Era pura. Diecimila chilometri, diecimila rimorsi gli riempirono gli occhi di lacrime e le lacrime traboccarono. − Oh poverino! – fece Gino passandogli con premura un tovagliolino e rimproverando invece Zac che aveva introdotto l'argomento:- Lo vedi cosa succede a giocare con i sentimenti delle persone? − Ma no, non c'è mica da vergognarsi se non ce l'hai – disse Zac tutto paterno – Anzi, guarda, io conosco una che gli piaci, giuro, me lo ha detto lei e adesso proviamo se c'è... – e iniziò a digitare sul telefonino. Gino intanto si era avvicinato e gli parlava confidenzialmente: - C'ha due poppe così e con quella vai tranquillo, ti fa tutto quello che vuoi... - Amir non capiva bene quello che gli dicevano, ma si era consolato ed era all'assalto della seconda birra. - Rivoluzione! – esclamò alzando il boccale. − Ma sì, facimmo 'sta rivoluzione – disse Gino facendo tintinnare il suo vetro. Zac non stava partecipando al secondo brindisi perché aveva in linea la Meri e si era girato di spalle. Le stava dicendo che era per la storia del pakistano, le stava chiedendo se era pronta, le stava intimando di non fare la stronza, la stava minacciando che l'avrebbe sfregiata, le stava indicando il luogo dell'appuntamento, le suggeriva che era meglio per lei arrivarci in fretta. − Bene. Non vede l'ora. Te l'avevo detto che le piaci – concluse Zac chiudendo il cellulare e rivolgendosi ad Amir – Ora lo facciamo divertire il nostro ragazzo. Amir non stava capendo perfettamente ciò che gli sarebbe toccato, ma si lasciò trascinare fuori perché ora faceva parte della compagnia e quando gli altri due lo 134 sostennero perché le gambe gli cedevano pensò si trattasse del modo comune di uscire da un locale dove si era sancita una nuova forte amicizia. Tutti insieme a braccetto. Gino si lamentava nel suo dialetto che il sudore gli puzzava, Zac gli rispondeva di sopportare che alla fine avrebbe avuto il suo bel vantaggio. Passarono accanto al gruppo di ragazzini con i bastoni lunghi e la palla arancione. Tutti si girarono preoccupati e seguirono con lo sguardo il loro connazionale che non avevano mai visto sorridere in quel modo. Lo fece anche Kevin che aveva appena prestato il suo berretto giallo. Sui capelli neri di Andleeb spiccava alla grande. Il trio salì su un'auto mezzo scassata , messa tutta storta accanto a Black Death che raccolse uno sguardo di rapace ammirazione da parte di Zac e Gino. Amir venne buttato dietro. Vedeva passare dal finestrino capannoni, pilastri, filari di alberi. Là davanti lo tenevano caldo coi discorsi sul lavoro sbagliato e sul sesso giusto, che con lui non dovevano fare così e che con lei era così che andava fatto. Che c'erano tanti modi per procurarsi i soldi e la figa e che per l'una e l'altra cosa con loro poteva stare tranquillo. Si fermarono davanti a un cascinale mezzo diroccato, presero dal cofano un'ascia e spaccarono le assi si legno su cui era scritto NON ENTRARE EDIFICIO PERICOLANTE. Spaccarono le assi e fecero uno squarcio nella porta. Spinsero dentro Amir e gli dissero di aspettare lì la ragazza. Non gli dissero con che nome avrebbe dovuto chiamarla, era semplicemente 'la ragazza'. Meri arrivò in motorino, ma non era più incazzata, anzi rideva come una matta. Fecero entrare anche lei e si smagliò le calze che si era infilate sotto una mini vertiginosa. Dentro c'era penombra e non faceva neppure troppo caldo. - Ciao – disse Meri quando riuscì ad individuare Amir. Amir indietreggiò, ma inciampò fra mattoni e sporcizia e si ritrovò con le spalle al muro. Meri si chinò davanti a lui e :- Non ti preoccupare. Faccio tutto io – disse. Amir allargò le braccia e trovò con le mani due ganci arrugginiti a cui si sostenne. Il cuore gli batteva fortissimo. Fuori Zac si stava fumando tranquillo una paglia. Gino per essere sicuro sbirciò da una breccia quello 135 facevano dentro. Si ritrasse e gli venne proprio da ridere, perché quello che aveva visto ecco cosa gli stava ricordando: 136 13. toccare le ragazzine senza sfiorarle neppure con un dito Meleagro entrò in classe e scorse il disegno sulla lavagna Qualcuna aveva voluto fare la spiritosa, ma non fece commenti e per dimostrare di ignorare la provocazione non scancellò, tanto di quello spazio per una volta avrebbe fatto a meno. Per quella mattina aveva organizzato un lavoro speciale. Avrebbe costretto le ragazze a mettersi in cerchio intorno a lui e avrebbe dato come compito quello di riprogettare completamente la rivoluzione industriale. Materiali, invenzioni, applicazioni tecniche, ostacoli, benefici, piani di sviluppo a breve, medio e lungo termine. Alla sua richiesta l'alunna Giovanna Molinari aveva fissato per un po' le proprie scarpette lucide appena acquistate, poi aveva alzato la mano e aveva chiesto: - Ma ce 137 lo valuta? Meleagro aveva risposto seccamente che non era quello il punto, ma aveva visto innanzi a sé gli occhi smarriti dell'Idra, le sue membra che si stavano rilassando, gli sbadigli, gli sbuffi... si rese conto dunque che quel tipo di prova , per lui diventata importantissima al di là della dimensione scolastica, poteva essere dalla classe del tutto fraintesa e sottovalutata. - Va bene. Sì – allora disse – Da parte mia fra tutte le assurde inutili prove a cui vi ho sottoposto, questa è sicuramente la più importante, anzi direi proprio la fondamentale. Quindi do il voto e fa media, no guardate, fa addirittura più media di tutti gli altri voti. Vi furono brusii di disapprovazione, ma le più parevano contente perché le coordinate scolastiche erano state rispettate ed essere in gara per un voto gratificava il loro ipertrofico spirito di competizione. Ottenere un mezzo punto in più era una carta spendibile contro chi si considerava più bella, più simpatica o con più ricariche telefoniche e messaggini da lanciare. − Forza allora! Si cominci. Mentre vi disponete pensate al materiale. Qualcosa di meno nascosto e sporco del carbone, qualcosa di meno sudicio ed untuoso del petrolio... In un cerchio era difficile isolarsi e chiacchierare, nessuna poteva dire di non aver capito, almeno a livello di informazione il sistema era una garanzia di successo. Come partecipazione c'era qualcosa da perfezionare. Per alcuni minuti lungo l'anello si creò un silenzio passivo che rivelava nessun sforzo di riflessione. − Dai – aveva insistito Meleagro – materiale vuol dire energia, proviamo a pensare a qualche simpatico modo per trasportare milioni di persone da qui al mare senza dover usare stupide macchinette in cui rimanere intrappolati sotto il sole cocente. Il sole, ma certo! Perché non ci avevano pensato prima? Iniziarono con quello e poi 138 snocciolarono tutte le possibili fonti di energia alternativa, l'eolica, l'atomica, il metano e l'idrogeno. Una propose un certo tipo di alcol che si ricavava dalla barbabietola. Dimostrarono un forte spirito ecologico e discrete informazioni di base, ma Meleagro non si accontentava. − Queste cose le sanno tutti – le incitava – Più fantasia, non abbiate paura di fare brutta figura! Avevano alzato la mano e avevano chiesto perché un treno va così veloce utilizzando l'energia elettrica e le macchine no. Si sarebbe potuto pensare a mezzi di locomozione collettivi. L'energia muscolare, ecco! Se fossero state brevettate delle megabiciclette a centinaia di posti, magari copribili con un tettuccio in caso di pioggia, alternando i turni delle pedalate, di chilometri all'ora se ne sarebbero fatti parecchi. Ma poi, quando il ghiaccio fu sciolto e non si correva più il rischio di essere compiacenti verso l'insegnante – nessuna più pensava ai voti e alla media – qualcuna di loro disse che per nulla al mondo avrebbe rinunciato all'auto dei genitori e che la prima cosa che avrebbe fatto una volta compiuti i fatidici diciotto anni era prendere la patente ed una macchina subito dopo! E se avesse avuto i soldi di quelle belle e veloci. In effetti un bel Suv sarebbe stato perfetto. Lo sfigato era il prof che si accontentava di una Panda scassata. Con l'auto, a parte la sua che probabilmente si bloccava ogni due chilometri, si poteva andare dove si voleva senza chiedere niente a nessuno. Voleva mettere l'indipendenza, l'autonomia? Voleva mettere come si era soddisfatti e felici con una Jaguar o una Ferrari sotto il culo? Tutti si giravano, tutti ti ammiravano. A Meleagro al quale piaceva ogni tanto fare la figura dell'ingenuo nella discussione con le alunne e che qualche volta lo era davvero, si stupì con loro che fosse davvero così importante. Non era volgare e vagamente difensivo delegare alla vernice lucente di un veicolo il fascino che un uomo o una donna potevano emanare? Quasi tutte furono concordi che non lo era, a parte alcune straniere per cui la discussione si stava sviluppando troppo velocemente per il loro grado ci comprensione. Meleagro fissò 139 per un attimo gli occhi sgranati di Aisha, la bocca semiaperta e cercò di metterlo sul tappeto quel brandello di riflessione. Non si voleva andare sempre più veloci, non era il caso di rallentare e di aspettare gli altri che sul ciglio della strada ammiravano e basta? No, non si poteva frenare di colpo a 180 km/h. A quella velocità si era soli con se stessi – venne fuori dall'Idra – ma molto più forti, insomma dei supereroi. Almeno una volta al giorno, sulla strada, dimenticate le umiliazioni del lavoro e le sfortune dell'amore, perché voleva togliere loro il piacere di sentirsi così? Meleagro non potè negare il vantaggio di andarsene ovunque a ciascuno piacesse, ma ne contestava l'eccesso di competizione, l'aggressività. Per muovere l'auto non era necessario un motore detto a scoppio? Ecco, vedevano? Tutto iniziava con la violenza, una piccola deflagrazione che era immagine e figura di tutti i mostruosi ordigni che erano esplosi e stavano esplodendo in ogni parte del mondo. Le ragazze dissero che in effetti secondo loro non c'entrava niente. Meleagro provò a riportarle all'origine della discussione, ovvero una fonte di energia del tutto inesplorata e fantasiosa. Siccome ormai nessuna dell'Idra credeva realmente alla possibilità di una prova di valutazione, venne voglia di farlo così per ridere ed i risultati fioccarono. Ci fu chi immaginò nastri trasportatori senza fine che con le loro spire avviluppavano l'intero pianeta, tapis roulant da regolare a varie velocità, col vento fra i capelli un'ora soltanto da Napoli a Milano. Poi gallerie sotterranee in cui venivano applicati i principi della biglia e della cerbottana ovvero soffi giganteschi che spingevano in cunicoli interrati palle gigantesche dotate di ogni comfort. − Ma non ci stiamo ancora staccando dalla tecnica, dalla meccanica – si accalorava Meleagro – Provate a cambiare completamente il panorama, immaginate cose del tutto diverse da ora! Allora l'aria e i meandri a qualche spiritosa fece venire in mente la possibilità di utilizzare i gas corporali che se prodotti da uno soltanto producono imbarazzo e disgusto, ma se debitamente incanalati per miliardi di individui avrebbero potuto 140 spostare le montagne e riscaldare serre planetarie. − Una nuova scienza scoreggistica – sospirò Meleagro facendo ridere l'Idra. Siccome si era arrivati al corpo era facile sbizzarrirsi perché il campo era vastissimo. Meleagro arrossiva e cercava di moderare, ma l'Idra si era gioiosamente sfrenata. Giusi la napoletana citò vari detti popolari, ma fu“ tira più un pelo di fica che un carro di buoi” che prese a modello per svilupparne tutte le altissime potenzialità scientifiche. Propose di rasare obbligatoriamente il pube di ogni femmina dalla prima pubertà alla vecchiaia e di riempirne a palate i motori di appositi veicoli che collegati per via chimica agli ormoni di gruppi di maschi ingorillati, producessero ogni tipo di trazione di cui si avesse la necessità. − Sì, fantasioso – ammise Meleagro – ma passiamo dal corpo alla mente, è lì il vero tesoro, ragazze, ed è a costo zero! E raccontò loro che tutti avevano sbagliato sin dall'inizio, che non era nella vita attiva che bisognava cercare risposte al problema dell'energia, non era scavando, trivellando, estraendo, sudando e faticando, ammazzando di fatica il corpo, di confusione il cervello, di rifiuti il pianeta. Contemplazione. Ecco dove si sarebbe dovuto cercare sin dalle origini. La pulizia, il silenzio. Se tutti avessero seguito la via suprema dei santoni indiani, che invece di prendersi le dita a martellate se ne stavano tutto il santo giorno a meditare, i corpi avrebbero levitato senza fatica e per un discorso di trasmissione genetica i bambini appena usciti dal grembo avrebbero stazionato beati là in alto, collegati alle madri dal cordone ombelicale come gioiosi satelliti. Infine fece avvicinare a sé tutte le ragazze del cerchio come dovesse rivelare il segreto supreno e sussurrò le magiche sillabe: - Zaum. Uomini e donne che con la sola forza del pensiero si spostavano liberamente per l'aria. Fabbriche, scuole, palazzi, leggeri come deltaplani, veleggiare sopra le cime degli alberi, edifici per cui le fondamenta non avevano più fondamento, alzarsi come palloncini colorati sfuggiti dalle mani di un bambino. La materia finalmente liberata 141 dal suo peso e dalla sua tristezza. Innamorati che si accoppiavano sull'arcobaleno! Riuscivano a vederlo un futuro fatto così? Zaum! Meleagro aveva osservato una per una tutte le teste dell'Idra, ne aveva colto via via lo scetticismo, lo stupore, il divertimento. Quasi tutte avevano le labbra socchiuse e Meleagro si era accorto con sconcerto che un bel po' di loro portavano apparecchi per correggere la dentatura. Era una cosa tanto normale in quel periodo e in quel quadrante dell'Impero che nessuno ci faceva più caso ed era occorsa la magia dello zaum per far riaprire gli occhi a Meleagro. Sperimentavano sulla loro carne le assurde complicazioni della tecnica, veniva tolto alle ragazze il sorriso nell'età in cui il suo potenziale era massimo. Cosa c'entravano i denti più o meno storti con il sorriso? Il sorriso era una categoria dello spirito, era zaum. Gli ortodontisti che lucravano su quelle infami trappole, loro avrebbero avuto voglia di sorridere, ma sotto le loro labbra si formavano soltanto degli avidi ghigni di soddisfazione. Non sorrisi. − La rabbia! – disse all'improvviso Brenda Riordan, quella che si era sempre chiusa nel più ostinato silenzio, una ragazza dotata di un apparecchio anche più vistoso delle altre ed una frangia di capelli neri che le arrivavano a nascondere gli occhi. − Sì – disse – La rabbia! Se il genere umano avesse impiegato ogni sua risorsa e avesse studiato su questo e su nient'altro, per secoli e millenni, su come trasformarla in energia tutta la rabbia accumulata per secoli e millenni, per le ingiustizie, per lo sfruttamento o semplicemente per dei litigi senza senso, non ne avremmo abbastanza di energia anche oggi, prof, non ne avremmo in avanzo per anni e anni ancora, per il futuro prossimo e quello più lontano, prof? Tornando da scuola Meleagro zigzagava sulla pista ciclabile e toglieva le mani dal manubrio e le incrociava sul petto. Fischiettava a più non posso e cantava a 142 squarciagola canzoni dei bei tempi passati, tipo: - Verrà, verrà, verrà la fine del mondo... La lezione circolare sulle fonti di energia alternative gli aveva lasciato l'animo euforico. Pensava che in mano aveva poco o nulla, poco in banca e poco di gratifiche, nessuno che ne richiedesse l'opera o l'assistenza, nessuno che lo chiamasse per uno scambio sessuale o semplicemente per bere un bicchiere insieme. Nulla. Ma era libero, libero di crearsi una vita a sua immagine e somiglianza. Libero ad esempio di farsi saltare via dalla testa il tocco accademico e provare a chioma sciolta a toccare le sue ragazze con discorsi sinceri, per cui si appassionava personalmente. Che strano! Sui quotidiani e sui Tg si parlava abbastanza spesso di insegnanti morbosi che toccavano le ragazze, mai che il discorso della molestia e della pedofilia lasciasse spazio a considerazioni su un modo diverso di toccare che riguardava la testa e il cuore fusi insieme, il ragionamento e la passione. Eppure era solo per quello che valeva la pena fare l'insegnante: toccare, conturbare, commuovere, entusiasmare, far riflettere con i sentimenti, far emozionare con la riflessione. Toccare qualcuno era pungerlo tanto a fondo da fargli cambiare la sua percezione del mondo. Era acuire la vista e rendere più ampio l'abbraccio. Scatenare il panico per arrivare ad una quiete superiore. - Era così che andava fatto, era così – si ripeteva Meleagro mentre tornava in bici, convinto di aver trovato la formula segreta per ammansire la scolastica Idra. L'Idra attaccava quando vedeva dinnanzi a sé guerrieri corazzati, con enormi scudi a difesa e spade sguainate. Invece bisognava andare verso di lei completamente denudati e cercando di essere profondamente sinceri. Ricordare alle alunne che lui non era una funzione, ma un uomo in carne ed ossa, con problemi ed emozioni. Solo così si riusciva a toccare e non era detto che in questo modo si parlasse a vanvera e si gestisse gli argomenti ad un livello superficiale. Era convinto anzi che la gran parte del programma lo si potesse affrontare a questo nuovo livello di emozione. Mantenendo l'equilibrio si sfregò le mani tutto soddisfatto. Insomma Meleagro si 143 sentiva eroico e fedele, un cavaliere medievale dal cuore puro e dal cavallo bianco. Non era la prima volta che andava soggetto a questa sorte di trasfigurazione, quando gli pareva di cogliere ogni aspetto del mondo sotto una luce entusiasmante. Magari il giorno dopo svegliandosi male neppure si sarebbe ricordato del metodo assicurato. O ci avrebbe riso sopra o sarebbe stata l'Idra con un colpo di coda imprevisto e tremendo a farglielo accantonare come pura illusione. Ma quel pomeriggio tutto pareva andargli dritto e l'effervescenza della mente gli stava già facendo progettare ore sperimentali che riguardavano la sua vita privata. Quando dunque lesse il messaggino di Melania che si sarebbe fermata da Vanessa e non sarebbe tornata, anche quello lo prese per il verso giusto e diede un ulteriore colpo di pedale verso la libertà dei suoi proponimenti. 144 14. umanità Zaccaria Danson stava in un monolocale alla periferia est della città. Il monolocale era inserito in uno stabile edificato anni prima dalla Cooperativa Muratori ed era uno dei tanti esempi di edilizia popolare architettonicamente all'avanguardia andati alla malora in pochi giorni, quando un elemento irrilevante come la gente in carne ed ossa aveva cominciato ad abitarvi. Da ogni balcone, ovvero un metro quadrato di spazio delimitato da una barra grigia di calcestruzzo, spuntava come un fiore enorme da un vaso l'antenna parabolica con la sua corolla di metallo. E poi panni stesi, stracci, sacchi della spazzatura più o meno pieni in bilico sulle ringhiere, idoli asiatici, calciatori famosi, donne nude sotto forma di poster posti contro il vuoto. E mai nessuno che si affacciasse a chiacchierare o per guardare le montagne lontane, bellissime in certe giornate terse e luminose. Ad una vista d'insieme il residenziale si presentava come una torta di cemento dagli stati degradanti divenuti degradati, essendo stata tirata via ad opera del fattore umano la N di nettezza. Zaccaria Danson alla pulizia invece ci teneva e dunque bestemmiava contro i vicini sozzoni. Anche quando era un punkabbestia nessuno avvicinandosi per dargli le monetine avrebbe potuto dire che puzzava ed il suo appartamentino di venti metri quadri resisteva più per uno sforzo ideologico che igienico all'assedio dell'immondizia intorno. Dall'ascensore alla porta d'ingresso li aveva quasi spinti a correre per non impregnarsi della puzza extracomunitaria del corridoio e prima di farli entrare li aveva obbligati a pulirsi le scarpe sullo stuoino. Dentro erano appesi ovunque degli arbre magique, atti a deodorare di solito gli abitacoli delle auto. Gino iniziò a gingillarsene uno cercando di capire a quale aroma fosse, ma Zac lo richiamò bruscamente all'ordine. Piazzarono Amir sul divanetto con una lattina di birra in mano e loro due più la Meri si sedettero intorno al tavolino con Zac che aveva un notes e una penna per appuntare il piano. Ognuno fino a quel momento aveva avuto un incarico e Zac volle controllare che 145 nessuno avesse sgarrato, visto che l'ora X si stava decisamente avvicinando. − Gino, i petardi ? − Arrivati. Palle di Maradona, bombe Bin Laden, Tsunami, Terminator e ci stanno pure i Razzingher, non so se mi spiego! Neanche a Fuorigrotta c'è un arsenale simile, possiamo fare la seconda eruzione del Vesuvio, un casino che nemmeno te lo immagini... − Hai perso un'altra buona occasione per rimanere zitto. Di botti non se ne devono sentire, uno o due, toh, al massimo, per farti contento. Le bombette devono essere viste e sembrare qualcosa di molto più potente e la loro vetrinetta sarà la cartucciera che verrà applicata ad Amir. E' chiaro il concetto? La cartucciera la doveva comprare la Meri... – concluse Zac fulminando con uno sguardo la ragazza. Meri sbuffò, aprì il borsone e tirò fuori un sacchetto che gettò con malagrazia sul tavolino. Zac sospirò. − Ora la prendi e gliela provi. − Ma perché io? – protestò Meri. − Ma perché è il tuo ragazzo, no? – disse Zac strizzando l'occhio – Vuoi che sia io a maneggiarlo o Gino? Gino si schermì facendo delle mossettine effeminate, Meri riprese brusca la cartucciera e andò da Amir. Amir posò la lattina e le fece spazio sul divano, ma quando lei si abbassò a provare l'aggeggio, il ragazzo fraintese la manovra e frappose le mani per respingerla. − No, no, io non voglio! – quasi urlò Amir. Gino ridacchiò, Zac bestemmiò, ma poi raccolse tutta la pazienza di cui era capace e gli si rivolse come ad un bambino. − No, Amir, Per certe cose vi lasceremmo soli...vuole solo provarti la cartucciera intorno alla vita...per la rivoluzione, ricordi? – e intanto indicava a Meri la 146 birra, ancora un bel sorso da fargli mandar giù. Amir tracannò, sorrise e ripeté la parola: - Rivoluzione... - Allargò le braccia e lasciò che Meri gli prendesse le misure. Sentì il solletico e si mise a sghignazzare dimenandosi come un ossesso. − Oè, è sensibile al tuo tocco, il ragazzo – commentò Gino dando di gomito a Zac. − Vaffanculo – fu la risposta di Meri, che dando delle botte sulla testa di Amir era riuscita a farlo star fermo. La cartucciera si allacciava perfettamente. Zac espresse la sua soddisfazione con un grugnito. − Bene, l'ora prevista le 19 e trenta. La gente è incasinata perché ha fretta di tornare a casa con la spesa e non ci cagherà, le guardie sono stravolte e non vedono l'ora di smontare… comunque ci penserà la Meri a distrarli... - disse tirando a sé la ragazza e palpandole il culo. − Non ho capito! Quando si tratta di fare la troia entro sempre in campo io! − Va là che ti piace! Non ho detto che te li devi spompinare. Vai da loro e gli chiedi se hanno visto una tua amica così e cosà, poi puoi fargli una mini intervista su quello che fanno, se hanno mai usato la pistola etc., insomma li devi distrarre e quando senti un botto che farà scoppiare 'sto terrone, che solo così è contento, tu devi svenire, così i vigilantes devono badare a te e non capiscono più un cazzo. − Ma come faccio a svenire? Devo pigliare qualcosa? Una volta ho fumato mezzo sigaro e sono crollata come un mango marcio... − Porcaccia di quella puttana ladra! Ma devi far finta di svenire, no? E poi ti lamenti quando dico che pesano più le tue ovaie del cervello! − Ssstt – fece Gino intenerito – l'amico pakistano sta dormendo. In effetti Amir aveva gli occhi chiusi e stava placidamente russando. Tutti lo 147 guardarono. − Se dorme per un po' va bene. Ohè, dobbiamo farlo stare con noi fino a domani sera. − E se si sveglia? – chiese Gino. − Allora lo si fa attaccare al biberon – disse Zac indicando la birra – Altrimenti ci pensa qui la Meri che c'ha degli argomenti che sono meglio della carta moschicida. Te lo lavori fino a domani e non voglio sentire storie. O di figa o di bocca o di mano o con la paletta per schiacciare le mosche, fai te. Ma non bisogna lasciarcelo scappare. Meri insorse:- Ahò, avevi detto una sola volta! A me fa schifo! Zac afferrò Meri per la maglietta e l'avvicinò a sé, ringhiandole nell'orecchio le parole più convincenti. − E i bigliettoni che ti diamo alla fine, ti fanno schifo, eh? Meri si liberò e si ricompose come una vera complice, mentre Zac continuava con il piano: - ...perché a quell'ora le trentasei casse sono foderate di bigliettoni meglio del deposito di Paperon de' Paperoni e noi non dovremo far altro che prelevare... − Come la banda Bassotti – interloquì Gino. − Cazzata! Quelli fanno sempre una brutta fine, a noi andrà tutto liscio. Amir è meglio che lo teniamo rincoglionito, lo portiamo dentro io e te, Gino, con una giacca che gli nasconde la cintura esplosiva, poi gliela togliamo quando sarà dentro. − Cioè, facciamo la scena del kamikaze fuori dall'Ipercoop, dove c'è lo spiazzo con i negozi... – aggiunse Gino, per dimostrare di essere un socio attento e preciso. − E tu non hai capito un cazzo! – lo catechizzò Zac – la scena del kamikaze è dentro i reparti dell'Ipercoop, così la gente se la fa sotto, scappa fuori e noi abbiamo libero accesso alle casse, è chiaro? 148 Gino serrò forte le labbra in segno di ammirazione e alzò il pollice per far capire che tutto andava bene. − A questo punto – riprese Zac – il pakistano deve togliersi la giacca, mostrare l'esplosivo e mettersi ad urlare più forte che può:- Rivoluzione, rivoluzione! Amir risvegliandosi dal coma alcolico con perfetto tempismo ripeté:- Rivoluzione! per poi ripiombare in un sonno tranquillo. I tre si guardarono con soddisfazione perché tutto stava funzionando alla grande e per un minuto nel monolocale scese un silenzio profumato di arbre magique, turbato soltanto da una musica ossessiva, sapida di spezie arabe che proveniva dall'appartamento accanto. Gino iniziò a tenere il ritmo tamburellando sul tavolino, ma venne fulminato dallo sguardo di Zac. − Fammi una domanda intelligente, Gino. − Riguardo a che cosa, Zac? − Riguardo alla nostra delicata operazione, Gino. Ancora la musica araba per un bel po' ed il rumore della limetta sulle unghie di Meri. − Mettiamo... – riuscì infine a dire Gino. − Mettiamo? – ribatté con finta pazienza Zac. − Mettiamo che qui l'addormentato non si ricordi di dirla, la parolina? − Vuol dire che la urlerai tu, visto che c'hai una bella voce da cantante melodico. Il cellulare suonò la sua di musichetta e Zac rispose soltanto con tre parole: 'pronto', 'sì', 'veniamo'. − Tirate su il pakistano che togliamo le tende – disse alzandosi di prepotenza e sorridendo beffardo. − E dove dovremmo andare adesso? - chiese Meri con aria scocciata. − Andiamo a ritirare la minaccia di morte n.2, l'arma fine del mondo aggiuntiva o se preferite chiamatela pure la ciliegina sulla torta che va bene lo stesso. Zac era un perfezionista. Pensava che se qualcuno da un lato ti minacciava con un coltello e tu pensavi di essere spaventato a morte, c'era la possibilità di trasformare la 149 paura in panico totale se dall'altra parte qualcuno ti sbarrava la strada con una sega elettrica già in azione. Sì, Zac credeva nella potenza dell'amplificazione, gli piaceva l'heavy metal sparato a manetta, la suoneria che si era sentita prima era “Smoke on the water” dei Deep Purple, la mitica band antesignana nel genere. Anche sull'auto, per celebrare il suo genio, Zac sparò rock a manetta, che così al volante gli sembrava di avere sotto il culo il Suv nero del tipo e non la Uno scassata con 300.000 km nel motore passatogli dal fratello in uno slancio di generosità del cazzo. Gino protestava che era troppo alto e che comunque era una musica di merda. Sul sedile dietro Amir guardava fisso davanti a sé con la voglia di vomitare e si chiedeva se era quella la felicità che aveva invidiato tante volte ai ragazzi di quella parte dell'Impero. Meri, ben scostata da Amir, guardava la campagna dal finestrino e si domandava se Zac lo capiva che quelle cose le stava facendo per amore, altro che soldi. Si fermarono davanti ad una bicocca rurale che pareva abbandonata, con i finestroni serrati ed il tetto con le carie. Zac raccomandò agli altri di rimanere lì buoni, scese dall'auto e attraversò l'aia con fare guardingo. Gli altri videro che la porta della cascina si apriva quel tanto che bastava per far passare Zac e poi subito si richiudeva. Lì dunque era custodito il pericoloso ordigno di cui aveva parlato Zac ed ognuno se lo immaginava a suo modo. Amir si protese verso Gino e gli sussurrò una parolina all'orecchio. Gino si voltò verso Meri e senza troppi giri di parole le comunicò che il suo ragazzo doveva pisciare. Amir si vergognò e Meri senza troppi giri di parole mandò affanculo Gino, dicendo che almeno quell'incombenza non spettava a lei. − Vabbe' – concluse Gino da vero filosofo – con tutta la birra che ha bevuto rischiamo che ce la fa qui. Vieni Amir, andiamo a farci 'sta pisciatina insieme. Lo fece scendere dall'auto e si avviarono verso un vecchio olmo ai margini dell'aia. Gino, tenendo Amir accanto a sé, si sbottonò e se lo tirò fuori, ma il ragazzo non si decideva. 150 − Cos'è? Ti vergogni? − Io vado là – disse Amir, indicando un fosso subito sotto l'albero. Gino non poté opporsi perché aveva già iniziato. − Vedi di non fare scherzi, eh? – lo minacciò, ma calcolando che il pakistano ne aveva da fare molta di più, si mise tranquillo ed aspettò che risalisse. Amir teneva in mano un rosolaccio impolverato. Quando si risistemarono nell'auto volle donarlo a Meri. − Questo fiore nel mio paese vuol dire primo amore – disse inventandosi tutto. − Grazie – rispose Meri ed odorò il papavero con i petali già tutti gualciti come fosse una rosa in boccio, compatta e profumata, di quelle che si prendono col cellofan a 5 euro per San Valentino. La porta della cascina si riaprì ed il capo se ne uscì seguito dal contadino, un vecchietto magro ed ingobbito che arrivava sì e no alla cintola di Zac. Il vecchio contadino si chiamava Aliseo Appalachi, non si era mai praticamente mosso dal suo fazzoletto di terra che un tempo era campagna e adesso era periferia, con le torri del centro commerciale dietro i filari dei pioppi ed una pista ciclabile che passava di fianco alla cascina. Eliseo di campi non ne aveva più e tirava avanti con qualche gallina ovaiola ed un orticello ben riparato, riconvertito nella parte più recondita ad un biologico particolare, che era poi il motivo per cui lui e Zaccaria Danson si erano conosciuti. Pianticelle che venivano su bene in quel terreno e le cui foglie, per cui c'era molta richiesta, andavano in fumo in men che non si dica. Eliseo Appalachi e Zac stavano discutendo animatamente e l'eco del loro bisticcio arrivava sino alla Uno. − Ti ho detto che lo volevo bello grosso, mi vuoi far fare una figura di merda! – sbraitava Zac. − Con la miseria che mi paghi, al massimo ti dovevo dare le pulci dei polli... – ribatteva l'altro. 151 − Con tutti i clienti che ti mando. Ma io prendo la benzina e ti do fuoco alla piantagione! − Sì, così dopo nelle cartine ci metti lattuga. − Ma almeno ce l'ha un bel piumaggio? Deve saltare agli occhi, capito? − Eh, qualche penna qua e là la deve ancora avere... Intanto i due avanzavano verso un recinto chiuso da uno steccato. Vi entrarono e sparirono alla vista. Amir chiese se per caso il contadino era il nonno di Zac e Gino si dovette tenere la pancia dalle risate. − Eliseo il nonno di Zac! – diceva con le lacrime agli occhi – Ah, questa me la devo segnare! Tiene i parenti fra il pollame! Ah, mi stai simpatico, Amir. Zac alla fine rispuntò fuori con un sacco di iuta fra le mani. Eliseo era ben piantato davanti al pollaio, con una mano a ripararsi gli occhi dal sole cocente ne controllava il percorso sino all'auto. Zac si sedette al volante e lanciò il sacco sporco di merda di gallina, contenente la minaccia di morte n.2, sulla kameez della minaccia di morte n.1. L'uno e l'altra dovevano stare insieme e non scappare sino all'indomani. Partì sgommando, alzò il dito medio verso il vecchietto imperturbabile. − E' femmina e non ha molte penne – disse poi a Gino che continuava a fissarlo senza osare chiedere – E' una tacchinella, va bene? Ma se qualche petardo ce lo attacchiamo anche al pennuto, l'effetto sarà dirompente e tutti si cagheranno addosso. Gino non riuscì a trattenersi: - O' pollo del nonnetto! O' pollo Amadori! – commentò ricominciando a ridere. Amadori era una nota e serissima azienda produttrice di polli e suoi derivati. − Idiota! Analfabeta! – gli urlò sulla faccia Zac – Ma non li vedi i telegiornali? I Tg di ogni rete nazionale ed estera in quei giorni avevano dato risalto al caso dei tacchini farciti all'esplosivo che i terroristi islamici avevano fatto esplodere a Baghdad in un bar frequentato dai soldati americani e che – avevano annunciato – 152 avrebbero presto esportato in Occidente. Eliseo Appalachi lasciò che l'auto uscisse dalla sua proprietà, dopodiché rientrò ed accese la Tv. Anche lui ascoltava le notizie che riguardavano lo strano attentato di Baghdad: politologi e specialisti si dividevano sul significato simbolico da assegnare al pennuto. Eliseo ascoltava distrattamente perché intanto si stava ripulendo e indossando abiti migliori e non aveva messo in minima relazione la vendita della tacchinella con la possibilità di un attentato o di qualsiasi altro disegno criminale. Eliseo si stava preparando perché lo aspettavano a cena i nipotini, figli di sua figlia Beatrice Appalachi. Doveva mettersi d'accordo perché il giorno dopo avrebbe dovuto accompagnare Kevin all'Ipercoop per la scelta del suo regalo di compleanno. Solo non gli facesse spendere una cifra, ma contò soddisfatto i biglietti da 10 che Zac gli aveva dato controvoglia per la tacchina male in arnese. Si ricordò che doveva ripassare dal pollaio e prendere le uova fresche per i bambini. Ci andò e scacciò una gallina che stava becchettando la marijuana. Sei belle uova per i piccoli. Avevano bisogno di tanta energia per affrontare la scuola ed il mondo infame che gli si preparava. 153 15. invitare a salire chiunque ne abbia voglia Dunque Meleagro era a casa da solo. Melania aveva ribadito con una serie successiva di laconici sms che non sarebbe tornata a casa, che sarebbe uscita a cena con le amiche, che si sarebbe fermata a dormire da Vanessa che era molto giù. In quei casi di imprevista solitudine Meleagro si preparava qualcosa di appetitoso, leggeva un buon libro, tirava fuori le foto della lontana giovinezza, progettava vacanze o andava alla ricerca di luoghi esotici dove avrebbe trascorso una fortunata senescenza, guardava un film porno del tipo amatoriale dove puoi riconoscere i vicini dietro la mascherina e si masturbava con qualche senso di colpa. In alternativa affondava lentamente, ora dopo ora, nella melma televisiva e si sedava completamente sino all'incoscienza meglio che con il Tavor. Ma quel pomeriggio si sentiva un surfista spericolato, altro che tranquillanti, e voleva continuare a cavalcare l'onda fin che l'entusiasmo e l'inventiva lo sorreggevano, l'onda emozionale sorta dalla nuova esperienza didattica con la sua carissima Idra. Era tutto un fermento di idee strane, di propositi alternativi, di visioni capovolte della realtà che gli avrebbero aperto le porte di una nuova vita piena di calore, dove il dare e il ricevere avrebbero avuto un incremento fantastico. La sua vita sociale era praticamente a livello zero, scambiava quattro parole sul tempo e le malattie con la fruttivendola, ne aggiungeva altre due col macellaio sul calcio e la follia femminile. Si lamentava a più non posso che intorno a sé c'era un deserto di aridità umana, ma in effetti non si era mai mosso in prima persona per farvi spuntare l'ipotesi di una qualsiasi relazione amichevole. Sì, doveva recitare prima il mea culpa , se voleva cambiare realmente le cose. Se voleva che il genere umano comunicasse con lui, era Meleagro Barton, il misantropo, che doveva compiere il primo passo. Quando mai lo aveva fatto? Bene, quello era un buon giorno per incominciare. Sfregandosi le mani come avesse trovato un tesoro – e sinceramente pensava di averlo trovato – si mise al computer e compose una scritta con caratteri 154 molto leggibili, quindi la stampò scegliendo i colori più vivaci. Con il foglio in mano scese al cancello e appese l'avviso sotto i campanelli, indicando quello che andava suonato se qualcuno si fosse deciso di aderire alla sua iniziativa. Sul foglio stava scritto: “PUOI SALIRE DA ME E SCEGLIERE UN LIBRO FRA GLI INNUMEREVOLI DELLA MIA BIBLIOTECA. PUOI SCEGLERE UN ANGOLO CONFORTEVOLE DELLA MIA CASA, METTERTI COMODO E LEGGERE. NON E' DETTO CHE IO ABBIA VOGLIA DI PARLARE CON TE, MA TI POSSO SERVIRE UN CAFFE' O UNA BIBITA. FINITO DI LEGGERE POTREMMO SCAMBIARE ANCHE DUE PAROLE, NEL CASO. MA SE NON NE HAI VOGLIA, PUOI ANCHE SALUTARE ED ANDARTENE SENZA CHE IO NE RIMANGA OFFESO. AH, RICORDATI SOLO CHE ABITO ALL'ULTIMO PIANO NELLA MANSARDA E CON IL CALDO SBAGLIATO DI QUESTO PERIODO, IL CLIMA QUASSU' E' VERAMENTE TORRIDO. SE NONOSTANTE CIO' HAI VOGLIA DI SALIRE, BENEVENUTO!”. Era vero che in mansarda in quei giorni si soffocava, ma era anche vero che i locali erano dotati di un ottimo impianto ad aria condizionata e la temperatura era regolata sui 24-25 gradi, insomma faceva un bel freschino. Meleagro però voleva mettere alla prova gli utenti del suo nuovo servizio e vedere se sarebbero saliti nonostante quella scoraggiante premessa. In alto i più motivati, quelli veramente interessati all'originale pomeriggio di cultura e contatti umani! A quel punto non bisognava far altro che aspettare. Ma già l'impresa in cui si era coraggiosamente messo dava all'attesa una qualità particolare. Attendeva fiducioso che lo straniero salisse e riempiva il tempo che mancava alla realizzazione dell'ospitalità con piccoli gesti che l'avrebbero resa più confortevole. Andò a prendere le bottiglie di birra e le stipò in frigo, in modo che all'occorrenza fossero ben fresche. Riaccomodò i cuscini dei divani e delle poltrone, rimise a posto nella libreria i volumi che giacevano da giorni sulle mensole senza che nessuno si sognasse di consultarli. Prese la scopa e diede una ripulita al pavimento. 155 Sistemò qualche oggettino, controllò che le cornici alle pareti fossero dritte. Tutto questo a cuor leggero, fischiettando la Marcia Turca di Mozart o il Bolero di Ravel. Non aveva pensato all'eventualità che l'ospite fosse un fumatore. Non voleva mettere in bella vista dei posacenere, sarebbe stato ammettere come lecita una pratica che nel chiuso di una stanza gli avrebbe dato assai fastidio. Avrebbe comunicato a tempo debito che non era possibile, l'ospite avrebbe accettato il piccolo sacrificio senza problemi. Sospirò. Scelse un libro, si sedette, provo ad immedesimarsi nell'atmosfera che si sarebbe creata. Alzò la testa verso il lucernario e constatò che faceva passare la luce sufficiente per la lettura senza dover accendere le lampade. Perfetto. Intanto era passata un'ora e nessuno si era fatto vivo. Bisognava essere pazienti. Meleagro si immerse per dieci minuti nella lettura del suo libro. Lo posò e decise di andare a tirar fuori l'album con le foto della sua giovinezza. Le esaminò senza particolare trasporto. Lanciò l'album sul divano senza badare a dove cadesse. Prese degli opuscoli turistici su Belize Guatemala e Honduras, iniziò a sottolineare le località più invitanti e a confortare i prezzi dei resort. Si abbandonò alle fantasie davanti alle procaci mulatte nei vestiti coloratissimi e attillati. Non aveva pensato all'eventualità che potesse essere una donna ad accogliere il suo invito a salire. Magari avrebbe potuto fraintendere, leggere fra le righe dell'innocente avviso il richiamo di un incontro privato, di un appuntamento a scopo sessuale. Forse esistevano donne che non sapevano resistere a quel tipo di appello, il rischio, uno sconosciuto. Magari anche avvenenti. Immaginò di aprire la porta e di ritrovarsi fra le braccia una salita apposta per farsi scopare e basta. Si spogliavano senza nemmeno presentarsi e si buttavano per terra. Si stava eccitando e senza volerlo cominciò a toccarsi, quando realmente il campanello suonò. Non era quello del cancello però, era quello del pianerottolo. Col cuore in gola Meleagro si precipitò senza nemmeno controllare che l'erezione gli fosse scesa. Grande fu la sua sorpresa quando si ritrovò davanti null'altro che Arturo Maloni. Arturo Maloni teneva in mano il cartello con i caratteri 156 colorati. Lì sulla soglia lo stava guardando severamente e con il dito indicava l'avviso. − E' lei che lo ha appeso di sotto? – chiese. Meleagro ora si sentiva in colpa. Probabilmente aveva violato vari punti del regolamento condominiale. Come minimo avrebbe dovuto chiedere al capo condomino, cioè a colui che aveva proprio di fronte. − Sì, sono stato io – confessò Meleagro abbassando il capo – Mi dispiace se non ho rispettato il regolamento, mi è venuto d'impulso, non ci ho pensato... − Beh, non mi fa entrare? Meleagro fece spazio a Maloni, ma una volta entrato lo guardava con aria interrogativa e si tormentava le mani senza sapere più che fare. − Allora, questa storia che è scritta qui – disse Maloni dando un colpetto alla carta – vale o non vale? − Sì, certo, è un'idea che mi è venuta oggi, sì, sì, vale, certo che vale... − E allora dove sono i libri? − Prego, prego, venga da questa parte. Meleagro non riusciva a capacitarsi che fosse stato proprio Arturo Maloni, fra tutti, ad abboccare al suo invito. Il vicino inforcò gli occhiali e iniziò a scorrere i titoli sul dorso dei volumi, da quelli imponenti e ben rilegati a quelli tascabili. All'improvviso si bloccò e compì un mezzo giro verso la zona del termoconvettore. − L'aria condizionata – disse. − Sì, sì, funziona alla perfezione – ribattè Meleagro. Ecco, con la scusa del mio avviso è venuto a controllare se c'è un qualche guasto all'impianto – pensava mentre Maloni era tornato a scorrere i libri. Infine, sotto lo sguardo incredulo di Meleagro, ne scelse uno e chiese dove poteva accomodarsi. − Per fare cosa? – chiese sospettoso il padrone di casa. − Per fare quello che si fa con un libro. Leggerlo – rispose secco il vicino. 157 Meleagro che ancora non capiva bene, lo invitò a sedersi nella comoda poltroncina proprio sotto il lucernario. Maloni non gradiva né caffè né birra né acqua minerale, voleva soltanto leggere. E senza dire nemmeno più una parola si immerse in quella che a Meleagro parve realmente una coinvolgente lettura. Non sapeva se essere deluso per l'occasione persa – non avrebbe allargato il cerchio delle conoscenze ad una nuova misteriosa persona – o se gioire perché il suo sistema aveva attirato addirittura un osso duro come Maloni. Era in effetti una sorpresa straordinaria. Arturo Maloni in quei dieci anni di stretto vicinato mai aveva varcato la soglia della mansarda ed una sola volta Meleagro Barton era stato ricevuto nel suo appartamento, nemmeno in forma privata, ma per un'assemblea straordinaria dei condomini, tutti assiepati intorno al tavolo del soggiorno di casa Maloni. Maloni il duro, Maloni il preciso, Maloni l'uomo del tubo, era salito da lui col cartello ed era stato il primo a partecipare al gioco. Maloni che leggeva. Chissà che libro aveva scelto. Meleagro dovette resistere alla tentazione di avvicinarsi con una scusa qualunque per dare una sbirciata. Avrebbe potuto dedurlo dal vuoto lasciato nello scomparto tra il libro precedente e quello successivo perché la sua catalogazione alfabetica era rigorosa. Ma alla fine decise di aggiungere sorpresa a sorpresa e si ritirò in cucina a spentolare, indeciso se raddoppiare la carne alla pizzaiola nel caso Maloni avesse avuto voglia di fermarsi a cena. Aveva appena spento il fuoco che sentì nell'altra stanza l'ospite schiarirsi rumorosamente la voce. - Arrivo! – disse Meleagro pulendosi in fretta le mani. Arturo Maloni ben dritto e senza alcuna espressione in viso gli stava porgendo il libro. I racconti di Dino Buzzati. - Ah, buona scelta! – commentò Meleagro. Probabilmente lo avrebbe detto davanti ad ogni altro testo selezionato dal vicino. − Ne ho letto solo uno. Quello che ha come titolo “Sette piani”. Meleagro pensò che il vecchio non si smentiva. Nella sua parziale visione del mondo aveva scelto il racconto che già dal titolo richiamava la sua passata attività professionale, l'edilizia, e ciò che aveva fatto per tutta la sua vita, il tirar su palazzi. 158 Non fece però nessun commento, aspettando che fosse l'altro ad aggiungere qualcosa se ne avesse avuto voglia. − La vista è ancora buona, ma ho avuto dei problemi a girare le pagine. Ecco perché ne ho letto solo uno – ed alzò la mano per mostrare che era scossa da un tremito leggero ma costante. Meleagro cadde nel più totale imbarazzo che poi, di fronte alla debolezza così esibita da quell'uomo tutto d'un pezzo, fece in fretta a diventare aperta commozione. − Mi spiace, io non sapevo – disse Meleagro – avrei potuto aiutarla io... a girarle. − Neanche fossi un concertista seduto al pianoforte. Non era una partitura, ma un libriccino. Ce l'ho fatta benissimo da solo e se vuole possiamo anche parlarne – ribatté Maloni con un mezzo sorriso. Meleagro non riusciva a capire se si riferisse al tremito o al contenuto del racconto. In fondo era la stessa cosa, perché di quello raccontava “Sette piani”, della malattia e dell'inevitabile destino. Un racconto cupo e pessimista se ce n'era uno, proprio senza speranza. − Venga, sediamoci – lo invitò Meleagro – E una birra? − Vuole che gliela versi tutta sul tappeto? – rispose Maloni. Tra il girare le pagine e il portare il bicchiere alle labbra di un ospite c'era uno spazio enorme da riempire. Meleagro se ne accorse ed ebbe un'esitazione. − Sto scherzando. Ce la faccio a bere. Solo che non ne ho voglia. Non bevo quasi mai fuori dai pasti – lo soccorse Maloni. − E...da quanto tempo? – chiese Meleagro indicando le sue mani trepidanti. − Da qualche mese. Meleagro non aveva il coraggio di chiedere cosa fosse. Cioè, lo sapeva probabilmente, ma voleva fosse lui a dirlo. Così lo guardò negli occhi, cercando di esprimere la sua richiesta senza usare le parole. L'altro capì. − 159 Quello che mi fa rabbia, proprio le mani che ho sempre usato con precisione. Si chiama Parkinson. E' progressivo – e poi, come se fosse del tutto normale riallacciare quel discorso ai fili dell'altro - “Sette piani”, eh? Ci hanno fatto anche un film, credo con Tognazzi. Tognazzi, di nome Ugo, era una maschera grottesca del cinema italiano, un grande attore scomparso da vari anni. − Comunque non mi è piaciuto per niente. Il racconto, voglio dire. 'Sto Buzzati non descrive la realtà, chissà se c'è mai stato in un ospedale. Proprio questo era l'ambiente della storia, un sanatorio nel quale i malati passavano via via i reparti, dall'ultimo in alto, quando ancora si era sani, sino al primo in basso, dove semplicemente si moriva. Il protagonista, entratovi per una lievissima indisposizione, veniva fatto scendere, senza che fosse mai ammessa la gravità della sua malattia, attraverso tutti i piani sino al letto dove si sarebbero consumate le sue ultime ore. Il cammino risultava inesorabile e le ultime parole terribili:”...voltò il capo dall'altra parte e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti ad un misterioso controllo, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce”. − Ma sì, ci sarà anche stato all'ospedale. Il suo però vuole essere un racconto simbolico – rispose Meleagro – Buzzati vuol far capire come siamo soli e disperati di fronte al nostro comune destino. − Primo, è assurdo un ospedale in cui i piani corrispondono alla gravità della malattia – continuò nel suo ragionamento Maloni senza badare alle parole di Meleagro – I reparti, come tutti sanno, sono divisi per specializzazione... − Ma in quel sanatorio si curava o meglio non si curava che un'unica malattia e credo che l'autore ci voglia far capire che quella malattia nient'altro è che la vita stessa... – cercò di spiegare Meleagro. − Davvero? Non lo avevo capito. Ecco a cosa servono gli insegnanti. Ma se si parla di vita, anche qui mi sembra che Buzzati non ci becchi molto. Questo va in ospedale e non ha nessuno, parla solo con i dottori che sono come dei 160 carcerieri, delle SS. E' impossibile che non abbia proprio nessuno, una madre almeno la deve avere... − Forse vuol far capire che in fondo ognuno di noi, anche se ha delle persone intorno, nel suo intimo, nell'essenza, è solo. Sì, che il midollo è la solitudine... − Non è vero, a questo poi non ci credo. Sin da quando nasciamo abbiamo della compagnia, gente che ci vuole male, ma anche gente che ci vuole bene. − Alla fine però siamo veramente soli con noi stessi. − No, non ci credo. Anzi, le dirò di più, a questa cosa non è morale crederci, proprio non bisogna. Ma perché farsi così del male? Secondo me non è un messaggio giusto quello del Buzzati, proprio non dovevano pubblicarglielo, anzi se aveva un minimo di criterio, non doveva neppure scriverlo. Meleagro aveva notato che le mani di Maloni si erano fermate, anzi seguivano con ampi gesti il fervore del suo discorso. Lui invece aveva abbassato la testa e si sentiva un groppo in gola. − Non è morale crederci... – riecheggiò Meleagro − No, non fa bene. Credere di essere totalmente soli è un veleno che ti intossica lentamente – sentenziò Maloni – Essere soli al mondo, anche se fosse così non bisognerebbe pensarci...Lei ha ancora i genitori? − No, li ho persi qualche anno fa. − E quelli di sua moglie? − Abitano lontano – Meleagro riuscì a dire queste due ultime parole, poi si prese la testa fra le mani e incredibilmente scoppiò a piangere. Arturo Maloni allora si alzò ed andò ad accarezzargli la testa e Meleagro provò una sensazione di calore e fermezza. − Non faccia così. Lei non è comunque solo. Ha Melania e Maddalena. A Meleagro fece piacere che dicesse i nomi, invece di “sua moglie” e “sua figlia”, gli pareva che così la loro prossimità fosse più concreta e da tutti riconosciuta. Sì, furono 161 quei nomi detti dall'ospite che gli asciugarono le lacrime. − Mi scusi – disse Meleagro soffiandosi il naso. − Scusarla di che? E' un destino comune, no? Come dice lei. Comunque un'altra volta me lo chieda, prima di farlo. − Prima di piangere? − Prima di appendere il foglio. C'è un regolamento, sa? – disse sorridendo – Grazie di tutto, ma adesso me ne vado. Io e mia moglie andiamo all'Ipercoop per la spesa del venerdì. − Ma oggi è giovedì. − Davvero? − Lo so perché anch'io e Melania diventiamo dei temibili consumatori il venerdì. Domani, ne sono sicuro – e fu contento di quel particolare, come se testimoniasse che erano amici già da tempo e che finalmente erano venuti a saperlo. Il destino comune. − Vado via lo stesso – disse Maloni alzandosi. Meleagro lo accompagnò alla porta. − La prossima volta un libro comico – aggiunse Maloni prima di andare via. Meleagro aveva voglia di abbracciarlo, invece incerto gli toccò la spalla. Maloni strizzò l'occhio e per l'ultimo saluto gli porse la mano che era tornata a sobbalzare. Quella non doveva essere l'unica sorpresa della giornata. Dopocena Meleagro non si mise davanti al televisore e tenne a bada le pulsioni sessuali ancora in circolo. Decise che era il caso di chattare un po' con Maddy. Maddy non era in linea, ma gli aveva lasciato un messaggio sorprendente accompagnato da un emoticon, ovvero una vignetta animata, che riproduceva le buffe fattezze di un tacchino un po' ebete. “Papi tienti forte” , diceva il messaggio “Qui nel detestabile centro dell'Impero, come dici tu, stiamo procedendo a delle appassionanti lezioni di Storia Naturale ( emoticon 162 di una bocca spalancata a sbadiglio) e scorrendo la prima classificazione del grande scienziato Linnaeus (emoticon di un demente con gli occhi a cucù) risalente al 1758, ho scoperto che il nome scientifico del tacchino è (emoticon di una bomba che esplode) MELEAGRIS MELEAGRIS!!! Il mio adorabile babbo non è altro che uno scriteriato pennuto che fa glo glo! Beh, ti devo confessare che qualche dubbio l'avevo sempre avuto, ma così ho ricevuto una piena conferma. Ti ho dato un buon motivo per riflettere? Tornerò per il Giorno del Ringraziamento, così ti faccio arrosto con le patatine e la salsa di ossicocco ...no, spero prima,dai! (emoticon di un aereo che parte) Bacioni bacioni bacioni (emoticon di smack scoppiettanti)”. Meleagro sorrise. Dunque gli era stato dato il nome scientifico del tacchino, altro che eroe mitologico, sterminatore di idre e cinghiali! E la coincidenza diventava più assurda perché senza saperlo sino a quel giorno, era proprio al Meleagris meleagris, con i suoi patetici tentativi di staccarsi da terra e la del tutto involontaria propensione al sacrificio,a quell'improbabile pennuto fratello dell'essere umano, che era andata più di ogni altro animale la sua incondizionata simpatia. In ogni parte del mondo quel pollo sovradimensionato possedeva un nome diverso e poi c'erano ancora gli appellativi dialettali e popolareschi, ma per il consesso scientifico e forse pure per Dio si chiamava Meleagris meleagris. Dietro tutto ciò c'era forse un messaggio segreto per il signor Barton? In quel momento non ci pensava affatto. Si sentiva tranquillo e pacificato. Gli aveva fatto piacere che con quello scherzo Maddy avesse dimostrato di pensare a lui e per quanto riguardava Melania non era così importante che quella sera non ci fosse. Un foglio appeso gli aveva condotto Arturo Maloni che addirittura gli aveva allungato una carezza, perché non credere allora che anche Melania prima o poi sarebbe ritornata a lui? Gli mancava ancora un gesto inutile per completare la serie e conclusa l'opera Melania lo avrebbe amato di nuovo. Il giorno dopo. 163 16. umanità (di cui certamente anche Meleagro fa parte) Era strano spingere il carrello, perché di solito lo facevano Melania e Maddy e lui vagamente annoiato stava di fianco o procedeva di rincalzo. Ma Maddy era lontana, a studiare elementi buffi e imprevisti di Storia Naturale e Melania doveva fare gli straordinari al Sert. Gli aveva telefonato con una voce un po' provata notificandogli che la spesa del venerdì era da rinviarsi al giorno successivo. - Vado io, se vuoi, ho visto che hai già preparato la lista... – aveva obbiettato Meleagro per dimostrare la propria gentilezza. La cosa strana è che lei si era incazzata e gli aveva quasi urlato di non prendere iniziative assurde, che le erano venute in mente altre robe da aggiungere e che se per una volta la spesa la facevano il sabato non moriva mica nessuno. - Ma stai bene? Hai la voce stanca e ti incazzi per la spesa... – aveva obbiettato Meleagro. - Ho la voce stanca perché sono stanca. Non andare all'Ipercoop per nessun motivo – aveva tagliato corto lei. Meleagro in casa non sapeva che fare, l'ispirazione per l'annuncio gli era passata ed aveva buttato nel cestino il foglio che gli aveva riportato Maloni. Era stato l'ennesimo piccolo balzo da tacchino, insomma. Gli mancava il latte per la colazione, le lamette ed una lampadina si era bruciata. Allora aveva deciso di andarci ugualmente all'Ipercoop, avrebbe preso giusto quelle tre cose e Melania non l'avrebbe scoperto. All'Ipercoop c'era anche Melania con gli occhiali scuri per non farsi riconoscere, non da Meleagro che per quanto ne sapeva lei se ne stava tranquillamente a casa, ma – pensate un po' – da TD. Lo stava ancora pedinando ed era reduce da una nottataccia passata davanti alla discoteca dove si era imboscato con la bella spilungona. Lei si era rosa le unghie sino alla carne, sino a farsi sanguinare. Con l'auto aveva seguito ancora TD che aveva accompagnato la ragazza all'hotel. Non era salito con lei e prima di 164 lasciarsi si erano scambiati un bacio sulla guancia, saluto variamente interpretabile. Alle 4 e 30 si era fatta ospitare da Vanessa che le aveva data della pazza. Tre ore di sonno e poi di corsa al Sert sino al pomeriggio, un panino e via con un nuovo pedinamento di TD che era andato a prendere la tipa e stranamente l'aveva condotta all'Ipercoop. Da lì Melania aveva telefonato al marito facendogli giurare che quello sarebbe stato l'ultimo posto dove avrebbe messo piede, piuttosto l'inferno. Anche Arturo Maloni avanzava sicuro, pure lui senza compagnia. La moglie aveva qualche linea di febbre a causa del caldo sbagliato e così l'incombenza della spesa grossa era tutta sua. Aveva fatto compiere al carrello il piccolo balzo che consentiva di passare dalla pavimentazione del piano inferiore alla scala mobile che conduceva al centro commerciale. Il centro commerciale era stato edificato dalla Cooperativa Muratori e questo per Maloni era motivo di orgoglio. Si emergeva lentamente dando un'occhiata a lato, alla gente in discesa con i cestelli già doviziosamente riempiti, l'espressione più narcotizzata che felice, i piccoli che si strofinavano contro i vestiti delle madri perché erano stati fatti scendere in fretta dal seggiolino portabebè, in modo che anche quello potesse far da base per le borse Ipercoop stracolme di prodotti. Per chi saliva sembrava di salire sulla rampa di lancio per il pianeta della spesa ed Arturo Maloni, una volta arrivato a livello, diede un'occhiata intorno ai consumauti che giravano a destra e a sinistra. Tra le rivendite di effimero del centro commerciale e la vera e propria Ipercoop, delimitata dalla barriera lunghissima delle casse, c'era uno spiazzo molto ampio che in poco tempo aveva sostituito la piazza del paese. Arturo Maloni vide che in mezzo al viavai gli anziani giocavano a briscola sulle panchine e ci bestemmiavano pure. Altri pensionati, in modernissime postazioni circolari, al di là dei prodotti in esposizione, fissavano semplicemente il vuoto e chissà se anche quello era in offerta. Al punto opposto della circonferenza sedevano donne velate vestite di scuro ed anche loro scrutavano il nulla. Tra quegli uomini e quelle donne l'incomunicabilità era così forte che solo una tragedia avrebbe potuto 165 avvicinarli. Arturo Maloni notò Sergio Dildo che usciva dai cessi e salutò senza trasporto il vecchio compagno di lavoro. Si fermarono. Sergiò notò che Arturo era sempre indaffarato, veniva all'Ipercoop per fare la spesa – strana idea -, lui vi passava il pomeriggio girando e dando un'occhiata ai tipi. Rincoglionirsi giocando a carte con quattro bacucchi, non ci pensava nemmeno. A lui piaceva la gioventù. Arturo Maloni spinse il carrello dalla parte dei bisogni razionalizzati, verso gli scaffali con le confezioni ben ordinate, Sergio Dildo fischiettando scese al parcheggio per furmarsi in pace una sigaretta. Notò una Uno metallizzata perché il suo stato di deperimento spiccava fra tutte le altre auto tirate a lucido. Se si fosse avvicinato Sergio Dildo avrebbe scorto riverso sul sedile posteriore un ragazzo pakistano, si sarebbe accostato, avrebbe picchiettato sui vetri. Invece non si accorse di nulla, finì la sigaretta, riprese la scala mobile. In quel momento stavano tornando al loro catorcio Zaccaria, Gino e la Meri. Controllarono che tutto fosse a posto e ripresero la discussione che li aveva fatti allontanare, tanto anche in quel casino di bagagliai che si aprivano e si richiudevano potevano star tranquilli che nessuno li sentisse. − Io proprio non capisco cosa cazzo vi sta succedendo a voi due. Se sentite dei sommovimenti alle budella, cercate di trasformarle in scariche di adrenalina perché l'obbiettivo è molto vicino! – Che bisognasse trasformare le energie negative in positive in quel periodo tutti gli psicologi di grido lo sostenevano e Zaccaria da fine psicologo proprio di quello stava gridando. − A bocce ferme, Zac... – cercò di replicare Gino. − Le bocce non sono più ferme da tempo, non so se te ne sei accorto, ma è da qualche giorno che hanno cominciato a muoversi più velocemente e col cazzo che si possono fermare. Le mie poi, di bocce, stanno girando vorticosamente. − A bocce ferme – riprese Gino senza scomporsi – chillo è nu buono guaglione e noi gli facciamo passare un brutto guaio. − 166 L'altro giorno mi ha anche regalato una rosa – aggiunse Meri deformando i ricordi – Qualcuno di mia conoscenza 'sti pensieri per una donna non li ha mai avuti. Zaccaria Danson diede un pugno fortissimo sul tettuccio dell'auto vicina e gli uscì del sangue. Bestemmiò una sola volta, poi fece qualche giro su se stesso tenendosi la mano colpita. − Ditemi se sto sognando – disse a denti stretti. − Hai appena avuto la prova che sei sveglio – commentò Gino ridacchiando. Zac lo afferrò per la gola e lo stese sul cofano. − Ohé, soldatino, vedi stare in riga! – gli ringhiò sulla faccia. − Ma lasciami! – gridò Gino liberandosi dalla stretta. − Vaffanculo Zac! - iniziò a sbraitare Meri – Fai sempre la voce grossa con i più deboli! Nella tua merdosa vita sei sempre andato avanti perché hai incontrato degli ingenui che te l'hanno data vinta. Amir è il più ingenuo di tutti, complimenti. Facile con gli stranieri, eh Zac? Con me, con Amir... − Cos'è? Ti piace il cazzo negro? Ti piace il suo gusto di uccello sporco quando glielo ciucci? – la aggredì Zac. − Smettila! – gli urlò contro Gino e poi ancora:- Smettila! Smettila! Zac capì che gli animi erano esasperati e che doveva riacquistare il controllo della situazione. Si guardò intorno e si mise un dito davanti alla bocca. Sembrava che il sangue gli colasse dalle labbra e fu quello più delle parole successive a frenare Meri e Gino. − Ragazzi, stiamo facendo un casino della madonna! Venite qui, dai, e cerchiamo di darci una calmata, ostrega! I due non si mossero. A braccia conserte, la schiena contro la carrozzeria lussuosa di un Suv nero, si fissavano la punta delle scarpe. − Ragazzi, non scherziamo. Là dentro c'è una montagna di soldi che ci aspetta e tutto il piano è stato preparato nei minimi dettagli. Non c'ho dormito di notte 167 per prepararlo e voi lo sapete. Gino fece un gesto sconsolato con la mano, ad indicare il problema primario, ovvero che l'arma letale n.1 era alla fin dei conti soltanto un ragazzo, solo un po' più giovane di loro. − Va bene. Amir. – riprese Zac cercando di essere conciliante – Non bisogna riunire l'Onu per risolvere il problema. Vuol dire che Amir invece di lasciarlo lì col tacchino, ce lo trasciniamo fuori con noi e poi chi s'è visto s'è visto. − E o' passamontagna? – chiese Gino. − Quale passamontagna? − Sì, c'ha ragione! Mettete pure a lui il passamontagna, così non lo riconosce nessuno – intervenne Meri tutta trepidante. − I kamikaze non hanno il passamontagna – spiegò Zac mantenendo la calma. Sentirono che la portiera della Uno si stava aprendo. Amir era lì davanti a loro. − Io sono pronto – disse e non sembrava neppure ubriaco – e non ho paura di mostrare la faccia. A Meleagro Barton per cena era venuta voglia di insalata, aveva preso una bella busta di misticanza già lavata ed asciugata ed ora si stava spostando faticosamente tra gli scaffali alla ricerca del mais inscatolato. - Il mais all'insalata aggiunge freschezza – pensò. O forse era la sua vera natura scoperta e annunciata ufficialmente da Maddy a spingerlo verso quel genere di consumi. - Becchime per tacchini. Nessuna sostanza nutritiva. Finisce direttamente nella cacca. Però aggiunge freschezza. Mica male l'aggiunta di freschezza – questi erano i profondi pensieri di Meleagro quando gli parve di rivivere un momento preciso della sua vita passata. C'era una donna esageratamente bionda china sulle ceste contenenti le erbe aromatiche che esaminava scrupolosamente con le mani guantate... dragoncello, rosmarino, maggiorana... Meleagro vide proiettata la sua immagine su di uno scenario naturale... ma dove? Poi si ricordò. L'argine della lama, un mese prima, la donna che raccoglieva l'insalata. 168 Possibile che fosse lei? No, non era lei. Quella , che potete reincontrare a pag.9, si chiamava Irena Briezinski, questa Maria Wachlowski. Molte cose accomunavano le due donne oltre al fatto di essere entrambe polacche. Erano molto amiche e facevano le badanti dell'arcigna ultraottantenne Artemide Fonzarelli e a tempo perso, data la loro perizia naturalistica, andavano a raccogliere le erbe su cui si basava la cucina dell'osteria di campagna o di periferia gestita dai figli della Fonzarelli. Tutto già spiegato. Quello che viene ora no, però. Erano così amiche, Irena e Maria, che si vedevano soltanto sei giorni l'anno e mai in patria. Siccome non era in regola dal punto di vista lavorativo, ogni due mesi Irena doveva tornare in Polonia per portare i soldi, rientrare in confidenza con i figli, fare l'amore con il marito. Si fermava esattamente un bimestre ed allora era Maria a rimpiazzarla presso la carrozzella dell'Artemide, dopo che a sua volta aveva portato alla sua famiglia euro e testimonianze d'affetto, giusto per sessanta giorni. Irena e Maria si incrociavano per una mezza giornata in cui si passavano le consegne, si informavano sui parenti e sugli amici, si mostravano le foto dei bimbi che crescevano e dei nipoti che intanto nascevano. Una giostra indispensabile. Maria Wachlovski si trovava quel giorno all'Ipercoop per via del calore sbagliato che aveva seccato le erbette della campagna circostante l'osteria Fonzarelli, costringendo a ripiegare sulle forniture poco ruspanti, ma affidabili dell'Ipercoop. Intanto al cliente potevano essere presentate come primizie dell'orto. Che strano però. La posizione assunta da Maria china sui contenitori di plastica era la stessa del corpo di Irena che si abbassava sull'erba dell'argine. E uguale fu lo sguardo fulmineo che si scambiarono Maria e Meleagro. Quegli occhi azzurri Meleagro li avrebbe riconosciuti fra un'ora e ne avrebbe avuto paura, ma in quel momento se ne distolse per naturale riservatezza e non tornò più ad incrociarli, perché spingendo avanti il carrello andò quasi a scontrarsi con due ragazzine che esagerando l'impatto diedero uno strillo e finsero di abbattersi contro gli scaffali. 169 − Ma prof, ci vuole uccidere? – si lamentò la prima. Era Giuseppina Imbruglia, fra le teste dell'Idra la più difficile da tenere a freno. L'altra era Pamela Maloni: - Prof, che ci fa qui? – chiese sgranando gli occhi. Meleagro riprese il controllo e improvvisò una pantomima: - Sstt! Venite qui, ve lo dico in segreto. Sto tentando una difficilissimo esperimento di zaum! Tra pochi secondi tutti i carrelli ricolmi di prodotti si staccheranno da terra ed inizieranno a librarsi in aria. Sotto la mia direzione improvviseranno un valzer... dove posso trovare un grissino, mi servirebbe da bacchetta... Le due non gli diedero retta. − Io sono venuta per aiutare mio nonno – disse Pamela Maloni. − Lo sa che suo nonno fa lo scratch con le mani ?– chiese Giuseppina Imbruglia iniziando a ridere. Lo scratch era una tecnica elaborata da dj afroamericani per cui si facevano scorrere le dita su dischi di vinile in movimento, in maniera da ottenere strani effetti sonori. Maloni era diventato Dj Parkinson. − Smettila! – protestò Pamela dandole uno strattone e – Ecco mio nonno! esclamò indicando Arturo Maloni ed il suo carrello. Arturo Maloni era a pochi metri. Aveva notato una crepa là in alto sulla volta e la stava fissando preoccupato. Non era regolare per un edificio targato Cooperativa Muratori. Meleagro si voltò gioioso alla ricerca del vicino, ricordandosi del mezzo appuntamento del giorno prima, ma gli sembrò invece di riconoscere, mentre svoltava dietro uno scaffale, la sagoma fra tutte più riconoscibile, quella cioè della moglie Melania. Zaccaria Danson tirò fuori dal bagagliaio il sacco con il tacchino, lo infilò dentro una borsa del centro commerciale ed il gruppo si avviò baldanzoso verse le scale mobili. All'ingresso il giornalista Orso La Guardia nelle vesti del finto marocchino Sabri 170 Abdallah tese la mano aperta verso di loro e ricevette in cambio un: - Togliti dai piedi, pezzente! – detto nel modo brutale in cui solo dei veri pezzenti avrebbero saputo dirlo. E allora basta con la simulazione della povertà, quel giorno ne aveva già le tasche piene. Peccato , ancora qualche minuto di pazienza e lo scoop della catastrofe sarebbe stato suo. Invece marciò deciso verso il parcheggio,dichiarò chiusa per sempre l'inchiesta e ancora tutto sporco e stracciato mise in moto il suo Suv, sgasando via dalla confusione e da un roseo futuro professionale. Individuarono le due guardie della security davanti alle vetrine del centro Tim, le dita infilate nei cinturoni e larghi sbadigli di fronte agli ultimi esemplari di telefonini messi in vetrina. Uno era anziano e tracagnotto, l'altro spilungone e giovane, con le basette a punta e la mosca sotto il labbro. Il primo si chiamava Guglielmo Codi, vent'anni di servizio senza nessun incidente di rilievo, tranne una volta che si era sparato in un piede rincorrendo uno scassinatore di bancomat. Il secondo aveva iniziato sei mesi prima, si chiamava Davide Friman, stava prendendo la maturità elettrotecnica alle serali e non vedeva l'ora di smontare, rientrare a casa per una doccia ed uscire con gli amici a far cazzate. Meri assunse un'aria vagamente sperduta, si tirò ancora più giù il top che conteneva a malapena le grosse tette e si diresse verso la coppia armata pronta a distrarre e, al momento opportuno, a svenire. Volle sembrare più straniera di quanto non fosse. − Me scusa – si rivolse al più giovane ovvero al più alto che poteva scrutare meglio nella sua scollatura – Io cerchio negosio de bikino. Por favor, me puoi tu dire onde estas? − Dove sta il negozio di bikini?- Davide Friman arrossì ed indicò l'entrata. − Tu sei bel figo. Tu puoi venire con me, così me dici se sta bene il bikino? Davide Friman deglutì e disse soltanto: - Magari. Gugliemo Codi si sentì in obbligo di intervenire: - Signorina. Stiamo lavorando. Non può accompagnarla. Si allontani per favore. 171 Zac che stava seguendo la scena tenendo Amir stretto a sé, indicò a gesti che era il vecchio quello che doveva lavorarsi. − Me chiamo Meri, non signorina. Tu sei piccolo, ma muscoloso. Io soy loca, sono pazza, per i capelli grigi! − Meri – si mise a ridacchiare Codi – io c'ho una famiglia... − Tutti abbiamo famiglia, no? – disse passandogli una mano sulla barba ispida. − Mannaggia, guarda questa, Friman. Che gli dobbiamo fare, a 'sta ragazza? – domandò Codi mordendosi una mano. − Non so, magari quando smontiamo... – suggerì timidamente il giovane. − Datemi le vostre pistole. La tua mi sembra più grossa, però – fece Meri, indicando con malizia la zona di Codi dove poggiavano armi reali e metaforiche. − Eh no, la pistola non si tocca! – rispose secco Codi, mettendo la mano sul calcio che sporgeva. Meri capì che quello era il momento. Arretrò di un mezzo metro come se si fosse spaventata a morte, iniziò a tremare, a roteare gli occhi. Si lasciò cadere in avanti fra le braccia del vigilante più anziano. Quando fu sicura che l'avesse presa, iniziò con la storia della bava alla bocca. − Oh cazzo! – esclamò Codi – A questa gli è presa la crisi epilettica. Davide rimaneva immobile e basito perché per il moto convulso Meri era tutta una frenesia di tette in movimento. A Codi il corpo della tipa sgusciava da tutte le parti e non sapeva come fare a metterla tranquilla. − Agua, agua... – si lamentava Meri. − Vai, vai a prenderle l'acqua! – ordinò Codi a Friman. − Ma...dove? – chiese Friman inebetito. − Cazzo, svegliati Friman! Vai al bar, no? – urlò Codi. Friman si mise a correre. Uno con la gelatina di Meri fra le braccia, l'altro che stava 172 entrando al bar. Zac diede di gomito ad Amir e si mossero insieme verso l'entrata dell'Ipercoop. Gino si accodò e siccome sigillavano le borse che venivano da fuori, slacciò il sacco, liberò la tacchinella e la spinse oltre la barriera delle casse, fra le gambe dei consumatori e le ruote dei carrelli. Zac scelse la zona di fronte al bancone della macelleria perché era più ampia e con meno gente, un buon palcoscenico per scatenare il terrore. Fece piazzare lì Amir che con le mani si teneva ben chiusa una giacca mimetica. − Quando senti un botto, conta sino a dieci, togliti la giacca, inizia ad urlare il cazzo che vuoi nella tua lingua e poi, rivoluzione, rivoluzione! Hai capito? Amir fece cenno di sì. Ora era rimasto solo. Solo al centro del mondo. Vedeva passare individui di tutte le razze che spingevano i carrelli carichi di mercanzia. Si illudevano che bastasse così poco per cambiare una vita, un destino. Bastava non fosse polvere e fango o sangue rappreso, bastava fosse una patina luccicante stesa sulle preoccupazioni e sul dolore. Due cinesi stavano portando via una bicicletta cromata. Una famiglia pakistana che non conosceva portava via un televisore. Una nera alta e bella col turbante variopinto portava via un carrello pieno di buste di patatine e di pop corn. Gli involucri brillavano, una bambina con le treccine saltava eccitata e le punzecchiava con un dito. I locali portavano via tante piccole cose, si distinguevano per la varietà e per i cibi che mai Amir avrebbe potuto toccare. Amir pensò alla sera prima, quando avevano mangiato e bevuto ed alla fine fra le risate gli avevano insegnato un gioco con le carte. Meri gli aveva accarezzato i capelli e lui si era sentito bene. Prima di addormentarsi aveva telefonato a casa e gli aveva risposto Aisha. Non gli aveva detto che era stato licenziato, ma che sarebbe stato a dormire da suoi amici. Prima di salutarla le aveva chiesto che parola le avessero insegnato e lei aveva detto zaum. Non gli riusciva a spiegare cosa significasse. Zaum, una parola senza traduzione e senza senso. Come lui in quell'istante, nel centro commerciale al centro del mondo. 173 Meleagro avrebbe voluto che lo zaum funzionasse davvero per sollevarsi al di sopra della marea di carne e di metallo, per raggiungere la donna che gli era sembrata Melania. Sì, era sicuro che fosse lei, probabilmente era arrivata a casa in anticipo, non aveva trovato quel pazzo di suo marito, aveva pensato senza dispiacersene troppo che le aveva disobbedito, aveva preso la lista e lo aveva raggiunto all'Ipercoop. L'unico particolare che lo lasciava dubbioso erano quegli occhiali scuri che non le aveva visto mai neppure d'estate. E poi, perché non l'aveva avvisato col telefonino? Provò a chiamarla, ma risultava spento, inattivo, morto. Comunque doveva raggiungerla. Con il carrello. La cerimonia della spesa che lo aveva sempre irritato ed annoiato sino all'angoscia, gli sembrava ora un atto indispensabile che avrebbe condiviso con serenità e piacere. Anzi, mentre sgomitava e faceva cozzare il carrello cercando di guadagnare posizioni, stava attribuendo un valore superstizioso al fatto di uscire quella sera dall'Ipercoop insieme a Melania e a tutti i prodotti della lista ben stipati nelle borse di plastica. Melania stava seguendo TD e Malgor Z ben attenta a non farsi vedere. Quando i due si fermavano di colpo fingeva di interessarsi alle confezioni, di leggere le etichette, per poi riprendere il pedinamento camminando rasente gli scaffali ed i cestoni con le superofferte. Ma le diversioni di Melania non furono numerose perché i due si dirigevano rapidi verso il reparto dei medicinali. Malgor Z faceva incetta in ogni farmacia della città di un medicinale che non si trovava in Cekia, unico rimedio già efficacemente sperimentato contro le terribili emicranie della madre. Aveva letto che la Coop ne metteva in vendita con il suo marchio ad un prezzo ribassato ed in preda all'eccitazione aveva implorato TD di accompagnarla. Ne chiese al farmacista come se si trattasse di mostrarle dei gioielli e TD accanto a lei sentiva uno strano languore che non capiva se fosse attribuibile a un nuovo sentimento per la ragazza o a tutto quel ben di Dio di farmaci stimolanti ed anfetamine. Di fronte al banco dei farmaci c'era il reparto Sport e Tempo Libero e lì si trovava 174 Eliseo Appalachi insieme al piccolo Kevin. − Ma sei sicuro di voler 'sta roba per il tuo compleanno? – chiedeva il nonno allarmato al nipotino. − Sì, sì – rispondeva il ragazzino stringendosi al petto il bastone da cricket con cui sarebbe potuto entrare a pieno titolo nella squadra dei ragazzini pakistani. A quel punto Eliseo voltò la testa e vide una cosa strana a qualche metro da sé. O meglio la cosa gli sarebbe apparsa del tutto ordinaria tra i confini della sua vecchia cascina, ma in mezzo all'Ipercoop, che cosa ci faceva? − Che mi venga un colpo! – esclamò – ma quella è la tacchinella che ho venduto a quel balordo di Zaccaria! Si strofinò gli occhi, mise meglio a fuoco e si convinse. Altroché se era lei! Poi notò che intorno al collo scarnito e lungo le ali spennate le avevano piazzato delle strane cartucce colorate. Meleagro era dietro a Melania nel corridoio dei prodotti etnici, quasi del tutto sgombro, ma ebbe paura che la moglie facesse uno scarto improvviso e si dirigesse verso i settori più affollati. Si sa , quando si arriva a toccare ciò che si desidera, quello è il momento in cui realmente lo si può vedere svanire. − Melania! – chiamò. La moglie si girò, ma invece di guardare dritto verso di lui, notò che stava fissando qualcosa in basso, spostato rispetto alla sua destra. Anche Meleagro si voltò, vide il tacchino e per il tempo che rimase prima dello scatenarsi dell'inferno, ci credette realmente. Credette di essersi sdoppiato e che a chiamare la moglie , per come si era girata, non fosse stato lui, ma il volatile Meleagris meleagris. Poi ci fu il botto e si sentì qualcuno che urlava: - Il tacchino esplosivo! Amir sentì il rumore e decise che avrebbe fatto quanto gli avevano chiesto. Se volevano i soldi li avrebbero avuti, in fondo non lo avevano trattato male e la sera prima, mentre giocavano a carte, si era sentito per la prima volta di nuovo a casa. Ma 175 lo avrebbe fatto soprattutto per togliersi la vergogna di dosso. Meri gli aveva fatto girare la testa, ma così aveva perso la purezza da offrire a Tahira, si era disonorato di fronte alla sua famiglia, al suo popolo, alla sua religione. Ora si sarebbe tolta la giacca, avrebbe mostrato il finto esplosivo che avrebbe spaventato tutti, avrebbe gridato la parola ' rivoluzione'. Lo avrebbero ucciso, avrebbe avuto quello che si meritava. Chissà se invece meritava il perdono. Così la tolse, la giacca che faceva da copertura, ma non fece in tempo a mostrare e a dire nulla perché fu travolto e trascinato via dalla folla immensa che scappava. Era bastata l’arma letale n.2, era bastata una povera bestia ed un innocuo botto da Carnevale, perché in quei tempi televisivi la paura reclamizzata spaventava assai più della effettiva realtà. Meleagro in un balzo fu sul bancale con i pacchi da sei dell’acqua minerale e la scampò. Vedeva la gente abbandonare i carrelli pieni e mezzi vuoti e fuggire impazzita di qua e di là. Urtavano gli scaffali che oscillavano paurosamente, tutto cadeva sulle teste e sulle braccia levate verso l’alto. Qualcuno rimaneva incastrato, qualcuno scivolava e finiva sotto le ruote, tutti urlavano. E sopra la gente che scappava Meleagro vide il tacchino che aveva spiccato un ben povero volo e si era rifugiato sul ripiano delle pirofile da forno . Il piccolo Kevin ebbe il piede agganciato da un carrello impazzito e trascinato come un vitello da marchiare verso gli scaffali degli elettrodomestici dove cadevano a catinelle ferri da stiro e piastre per i capelli. Si salvò dal male incastrando il bastone ricurvo sotto i supporti metallici dei televisori impilati ed impalati, solidi e saldi, ben ancorati al reality che ogni modello stava trasmettendo. Il nonno Aliseo, strappato via il rampollo, non aveva avuto la forza di reagire. Inebetito la merce gli crollava intorno e lui con le mani sugli occhi continuava a ripetere:- L’erba cattiva, tutta colpa dell’erba cattiva… Nell’erba era letteralmente finita Maria Wachlovski che si era tirata addosso le ceste e gli scomparti con la valeriana, la rucola, la pimpinella e l’alfalfa. Era tornata in un 176 attimo sui prati dei Carpazi dove aveva fatto l’amore la prima volta, non più lento e puzzoso tragitto del pulmino, non più buche sull’asfalto che scuotevano il debole sonno, non più controlli alle frontiere. Per Arturo Maloni fu gioco forza pensare ad un evento tellurico, che solo così si spiegava la crepa che aveva notato sulla volta. Sì, non era un difetto di costruzione della Cooperativa Muratori, ma una prima avvisaglia del terremoto che si stava abbattendo su di loro come era accaduto nel 1996. In una logica sequenza di causa – effetto prima avrebbe dovuto verificarsi la scossa e poi aprirsi la fenditura, ma cosa gliene importava di quei particolari, sul fatto che il centro commerciale avrebbe resistito alla grande senza crolli strutturali, su quello ci metteva la mano sul fuoco. Mentre professava il proprio ennesimo atto di fede e se la rideva in cuor suo di tremiti e tremori, la sua vecchiaia venne schiacciata da una pesante colonna in finto marmo, messa lì a delimitare un siparietto promozionale di prodotti per bellezza ed eterna giovinezza, con ragazzi e ragazze agghindati in tuniche dell’Antica Grecia e coroncine in finto alloro. Le alunne di Meleagro Giusi Imbruglia e Pamela Maloni si ritrovarono così in un viluppo di toghe e chitoni che stavano dandosela a gambe nemmeno si fosse a Pompei nel 79 d.C. Non impararono nulla di Storia, ma iniziarono a credere alla magia, ripensando in un lampo, mentre per proteggersi si abbracciavano, alla faccenda del prof e della parolina che faceva sparire le merci neanche fossero state in un saldo post-natalizio. Malgor Z ebbe l’accortezza di allungarsi sotto il bancone della farmacia, ma TD no. Il figlio del marchio visse per un minuto un sogno beato fatto di flaconi che schizzavano pillole a mitraglia e nuvole di polvere bianca, sui vestiti e sui capelli. Talco, magnesio supremo, bicarbonato di sodio, ma pure quelle innocue sostanze bastarono a procuragli l’epistassi e a farlo svenire. 177 Meri assisteva da fuori, si stringeva forte al petto della guardia più giovane e forte protestava che non era colpa sua e che lei non voleva. Meleagro si erse sulle confezioni col cellofan dell’acqua gassata e riconobbe Melania che fuggiva verso le casse. Le urlò di non voltarsi e di correre forte, non perché temesse una sua trasformazione in statua di sale – quale peccato poteva aver commesso? – ma perché dietro di lei c’era la folla impazzita che stava per inghiottirla. Alle casse il panico dei consumatori travolse tutto. Saltavano sui nastri trasportatori, schiacciavano le borse che ostruivano il passaggio, tentavano lo scavalcamento facendo leva sulle commesse che erano rimaste inchiodate con lo scontrino in mano. Gino rideva come un pazzo e urlava a Zaccaria: - Guarda che casino, guarda che bravi! Ora ne sparo un altro! Un altro ne sparo! Zaccaria era diventato di pietra e nessuno sembrava potesse spostarlo. - Che cosa abbiamo fatto – mormorava tra sé e non pensava più che c’erano i soldi a portata di mano. La fuga arrivò alle scale mobili e lì ci fu il crollo, lo schianto. A bocce ferme, quando ci fu il conteggio, non andò poi così male. Ci furono quasi duecento di contusi e una dozzina di feriti gravi, schiacciati dalla folla, ma solo un morto. Il morto era un bambino di due mesi, ancora senza nome e codice fiscale: la madre lo aveva protetto col suo abbraccio sinché aveva potuto, poi le era scivolato fra le mani e non l'aveva più visto. Il clandestino proveniva da una regione poverissima dell'Africa, settore meridionale ed abbandonato dell'Impero, e se non fosse emigrato più su con la sua famiglia, tanto sarebbe morto lo stesso di fame, di guerra, di Aids o di qualche altra malattia. 178 17. estremo ultimo gesto. Comunque non ci fu nessuno in grado di testimoniare. Un botto. Lo scherzo di un ragazzino o di un adulto demente. La tacchinella foderata di esplosivo che in parecchi giuravano di avere visto, risultò irreperibile. In effetti si era prodotta in un altro dei suoi patetici voli ed era ascesa fino a un finestrone dell’Ipercoop. Quindi era planata su un campo metà campagna e metà periferia dove si era liberata della cartucciera che gli era stata applicata male, figuriamoci. Nel campo sopravvivevano fili d’erba agonizzante e qualche lombrico da becchettare. Subito accanto passava la trafficatissima tangenziale e sull’asfalto rimanevano i poveri resti appiattiti di diversi animaletti a piuma o pelliccia che avevano pensato di farcela ad attraversare. Eppure in questi casi si trova sempre un capro espiatorio. Salman sarebbe stato perfetto: aveva il corpo del reato attaccato al proprio giovane corpo di mussulmano. Ma fu annoverato fra i contusi in stato di shock e caricato alla svelta sull’ambulanza, senza che nessuno gli guardasse sotto la giacca. Su un ponte si formò un ingorgo. Salman chiese di scendere per pisciare e un infermiere gli diede il permesso. Si voltò a guardare le luci blu che giravano e giravano. L’urina gli pesava sulla vescica, la cintura sullo stomaco, le colpe commesse sulla coscienza. Si liberò dell’organico e dell’inorganico nel fiumiciattolo che passava là sotto. Non più prove né impronte digitali: una fortuna per Zaccaria Danson e Gino Aiello che avevano i ritratti dei propri polpastrelli custoditi negli schedari della questura. La giovane guardia Davide Friman si senti in obbligo di chiedere a Meri cosa volesse dire quel suo “io non volevo”, ma la furbetta, passato il panico, gli chiuse la bocca con un bacio e già da quella sera iniziarono a fare l’amore. 179 Nel frattempo intorno all’ospedale sembrava la notte bianca organizzata dal Comune. Erano arrivate le televisioni con gli inviati e tutti saltavano per farsi inquadrare. Si festeggiava lo scampato pericolo e ci si sentiva tutti meno stronzi. Circolava la voce che l’Ipercoop per richiamare i consumatori ed ammortizzare i costi dei prodotti distrutti, avrebbe lanciato una campagna umanitaria paghi due prendi uno per aiutare la famiglia del piccolo calpestato. Qualcuno sosteneva che allora tanto valeva dare in donazione ai migranti africani tutti le confezioni ammaccate, ma ancora utilizzabili . Sarebbe stato un bel gesto simbolico e non ci avrebbero rimesso i clienti. Al Pronto Soccorso invece, nonostante avessero dovuto aggiungere sedie e sgabelli in quantità, c’era una specie di silenzio stupito. Meleagro non si era fatto nemmeno un graffio, ma era lì, che aspettava lo lasciassero entrare da Melania. Si guardava intorno, voleva fissare bene negli occhi gli uomini e le donne per trovare risposte a quello che era successo e invece vi leggeva soltanto un'incredibile pazienza, come si trattasse di mettersi in coda alle casse col carrello pieno di sogni. Fu naturale notare un guaglione agitato che canticchiava usando mani e cosce come batteria e poi lì accanto, a contrasto, un giovane omone con le mani fra i capelli e lo sguardo fisso sul pavimento. Stranamente i due non avevano neanche un graffio. Nell’altra stanza due ragazzi pakistani , potevano essere fratello e sorella. Il maschio piangeva piano, la ragazza, col velo intorno al viso, gli accarezzava i capelli, ma solo sfiorandoli e sussurrava: - Salman… Notò una ragazza bella ed altissima che con un fazzoletto cercava di tamponare il naso sanguinante di un giovanotto dagli abiti imbiancati. Meleagro non li riconobbe. Infine lo chiamarono. Melania aveva un livido sullo zigomo e alzò la mano per salutarlo. Meleagro si sedette di fianco al lettino e le passò la mano fra i capelli. - Eri là per cercare me. Non ti ho obbedito ed ora mi sento in colpa – le sussurrò Meleagro. Melania voltò la testa dall'altra parte. 180 - No, non ero là per te. Seguivo un uomo – disse con una strana calma. - Un tuo paziente. Melania ritornò a guardarlo. - Era l'uomo con cui ti ho tradito. Meleagro spostò la sedia lentamente ed andò alla finestra. Il vento agitava le foglie degli alberi. - Ora non ti preoccupare – disse tornando da lei – quando sarai guarita ne riparleremo. - Ma io ho paura che sia morto. Ti prego, informati, fammi sapere qualcosa – e disse il vero nome di TD perché Meleagro glielo cercasse. Poi Melania si mise a piangere, ma non forte. Quando Meleagro uscì dalla stanza altri erano arrivati. Vide una donna enorme mezza pesta che teneva nella mano, con tutta la delicatezza del mondo, una bomboniera coi confetti. Vide Arturo Maloni con il polso ingessato. Meleagro gli sorrise ripensando alla carezza di qualche giorno prima. - Per un po' la mano non si agiterà – disse Maloni ricambiando il sorriso. L'ultimo che vide fu un bambino che teneva stretto a sé un bastone ricurvo. Qualcuno molto stupido da lì a un'ora avrebbe cercato di farglielo buttare. Arrivato a casa Meleagro bevve un bicchiere d'acqua. Si sedette al computer e mandò un messaggio a Maddalena. “Ciao. La mamma si è fatta poco male. Chiamala. Ti vogliamo bene”. Chiuse il computer, andò a prendere la scala alta dallo sgabuzzino, l'aprì e la pose sotto il lucernario del soggiorno. Salì i gradini, tirò via la cerniera metallica che controllava il meccanismo e passò attraverso la finestra libera sulle tegole del tetto. C'era un vento caldo ed un cielo rosso bellissimo. Meleagro a carponi si avvicinò al bordo, dove c'era la grondaia, e guardò giù. Passarono istanti lunghissimi, ma infine riuscì a distogliersi dal vuoto. 181 − Non ero mai venuto sul tetto. Non avevo mai guardato da qui giù nel cortile. Anche questo può essere considerato come un gesto inutile. L'ultimo. – pensò Meleagro sedendosi sulle tegole caldissime. L'opera poteva dirsi conclusa. Era sereno. Guardò in alto certe piccole nuvole viola. Poi diresse lo sguardo verso i tetti intorno e ci vide. C'era tanta gente sui tetti, uomini donne vecchi bambini, come se un’onda di piena avesse raggiunto la città e si fosse saliti per aspettare i soccorsi. Ma si era allegri, ci si sorrideva, si agitavano le mani per salutare, da un tetto all'altro. Io salutai Meleagro e lui salutò me. Poi vidi che prendeva un frammento di tegola, talmente piccolo da stargli in una mano. Lo lanciò in alto per poi aspettare che ricadesse, restituendo il plònf che fanno i sassi quando bucano l’acqua d’un fiume. 182 INDICE 1. roteare il calzino sinistro davanti al proprio volto p. 3 2. gloglottare sull'argine della lama p. 7 3. lavarsi i denti con il manico dello spazzolino p. 15 4. umanità p. 29 5. inginocchiarsi su uno skateboard e pregare rivolti a Roma p. 41 6. accendere tre volte di seguito il computer p. 53 7. scrivere rivoluzione sulla lavagna p. 64 8. sorprendere una donna con un abbraccio del tutto inopportuno p. 75 9. umanità p. 86 10. rubare la palla in un gioco straniero p. 97 11. scrivere una frase allusiva nella cabina dell'ascensore p. 111 12. umanità p. 123 13. toccare le ragazzine senza sfiorarle neppure con un dito p. 137 14. umanità p. 145 15. invitare a salire chiunque ne abbia voglia p. 154 16. umanità (di cui certamente anche Meleagro fa parte) p. 164 17. estremo ultimo gesto p. 179 PAOLO GERA, Via Trento e Trieste 19, 41012 Carpi (MO) 3398108817 [email protected] 183 184