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Repubblica di San Marino
2° SIMPOSIO MONDIALE SU SCIENZA, TRADIZIONE
E DIMENSIONI DEL SACRO
IL MISTERO DELLA GRANDE PIRAMIDE
Gian Carlo Duranti
ORIGINI EGIZIANE DELLA MATEMATICA GRECA
E
CONNESSIONI CON LA GRANDE PIRAMIDE
Per l’edificazione di città in armonia con la Natura,
Egizi, Pentateuco e Platone-Aristotele-Euclide
porgono una matematica rivelatrice dei Principî
dell’ordine cosmico
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PREMESSA
FOREWORD
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Sulla copertina del presente opuscolo figurano le parole: Per l’edificazione di città
in armonia con la Natura, la sapienza antica porge una matematica rivelatrice dei
Principî dell’ordine cosmico.
Noi oggi chiamiamo “Principî” ciò che Platone chiamava “il divino” e che
l’Antico Testamento chiama “il sacro”. I Simposi promossi dalla Repubblica di San
Marino s’intitolano “Scienza e dimensioni del sacro”; sono perciò in linea con l’unità di scienza-e-sacro predicata dalla sapienza antica.
In Occidente, quell’unità fu scissa dapprima dalla Chiesa, a danno della scienza,
poi dall’Illuminismo a scapito del “sacro”. Risultato delle scissioni è che il filosofo più
rappresentativo del secolo XX, Martin Heidegger, conclude la sua ricerca scrivendo che:
Nei nascondenti custodimenti della propria essenza da parte dell’essere s’intravede forse l’essenza del mistero in cui la verità dell’essere ‘è’.
Risolvere in mistero l’essenza dell’essere è esaurire la filosofia al livello descritto
da Platone nel Protagora, dove dice che l’uomo riuscì a rubare il fuoco e il sapere
tecnico a Efesto e ad Atena, non però la sapienza “politica”, che permane “misteriosa”, allo Zeus “contemperatore dei contrari in amicizia”; la custodivano, infatti,
“guardie terribili”. Correlativamente l’Antico Testamento pone a guardia dell’Eden
“cherubini dalla spada fiammeggiante”; poi, però, Dio promette ad Abramo “una
Terra dove scorreranno latte e miele” – dunque un ritorno, per altra via, all’Eden –;
nell’Epinomide, Platone conclude che “tutto è pieno di Dei e mai fummo trascurati, per dimenticanza o incuria, dagli Esseri più possenti di noi”.
Appunto verso il cammino di Platone e dell’Antico Testamento anche Heidegger
muove un primo passo, quando commenta: “ormai solo un Dio ci potrà salvare”.
Come Nietzsche, dunque, ha cantato nel secolo XIX il requiem del sacro basato
sulla fede, così Heidegger, nel XX, canta il requiem dell’Illuminismo. Dopo questi
requiem, a salvarci potrà essere, pertanto, solo un rapporto con il divino basato
non più sulla fede, ma sulla conoscenza; potrà essere, dunque, solo la scienza cui
l’Antico Testamento allude quando implora:
Dammi intelletto, Signore, affinché impari i Tuoi statuti e li riconosca giusti.
A salvarci, potrà essere solo la scienza che perseguirà quello che l’evangelista Matteo
chiama “il senso che le cose hanno per Dio”: la scienza che consentirà di rispondere
alla domanda con la quale Matteo chiude il suo Vangelo:
Perché Tu, Dio onnipotente, sapiente e buono, ci hai abbandonato?
(La frase conclusiva del Vangelo di Matteo è ritenuta essere, dall’esegesi, un
lamento. A pronunciarla è però il Cristo che a Pietro – il quale si scandalizza perché
“il Figlio di Dio deve andare a Gerusalemme per molto soffrirvi ed essere assassinato” –
rimprovera: “sei tu, Pietro a essermi di scandalo, perché rimani abbarbicato al senso che
le cose hanno per gli uomini, invece di ascendere a quello che esse hanno per Dio”).
Per rispondere alla domanda del Cristo sto scrivendo un saggio – mi è caro
darne annuncio in un Simposio in cui, dopo millenni, si riaccosta la scienza al
sacro e il sacro alla scienza –, dal quale risulterà che l’Antico Testamento e la
Bibbia costituiscono opera filosofica che, lo dico con parole di Platone, fonda sulla
scienza il “rispetto per il divino (theosebeia)” e lo fa consistere nel porgere la
“ragione di essere” di ogni presenza nel mondo. È impresa che, a mia conoscenza,
è stata affrontata e portata a compimento soltanto dalla Bibbia.
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The cover of this work bears the words: For the building of cities in harmony with
Nature, ancient wisdom offers a mathematics that reveals the Principles of the cosmic order.
We today call “Principles” what Plato called “the divine” and the Old Testament calls
“the sacred”. The Symposia promoted by the Republic of San Marino are entitled
“Science and Dimensions of the Sacred”; accordingly, they are in line with the unity of
science-and-the-sacred preached by ancient wisdom.
In the West, that unity was split first by the Church, at the expense of science, and
then by the Enlightenment, to the detriment of the “sacred”. The outcome of the splits
is that the twentieth century’s most representative philosopher, Martin Heidegger, concludes his research by writing that:
In the concealing guardianship of its own essence by being, we may perhaps glimpse the essence of the mystery wherein the truth of being ‘is’.
Resolving in a mystery the essence of being amounts to reducing philosophy to the
level described by Plato in Protagoras, where he says that man managed to steal fire and
technical knowledge from Hephaestus and Athena, but not “political” wisdom, which
remains “mysterious”, from the Zeus who “reconciles contraries in friendship”; for it was
guarded by “terrible guardians”. Correspondingly, the Old Testament sets “cherubim with
flaming swords” to guard Eden; later, however, God promises Abraham “a land flowing
with milk and honey” – and hence a return, along another path, to Eden. And in
Epinomis Plato concludes that “everything is full of Gods, and we were never neglected,
through forgetfulness or carelessness, by the Beings more powerful than we”.
Heidegger too takes a first step along the path of Plato and the Old Testament,
when he comments: “now only a God can save us”. Thus, just as in the nineteenth
century Nietzsche sang the requiem of the sacred based on faith, so in the twentieth Heidegger sings the requiem of the Enlightenment. After these requiems, all that
can save us, therefore, is a relationship with the divine based no longer on faith,
but on knowledge; it can, then, be only the science to which the Old Testament
alludes when it implores:
Lord, give me understanding, that I may learn Thy statutes and acknowledge them as right.
What can save us can be only the science that pursues what the evangelist Matthew
calls the savour of “the things that be of God”: the science that will permit an answer to
the question with which Matthew ends his life of Christ:
Why hast Thou, almighty, wise and good God, forsaken us?
(The culminating phrase of Matthew’s Gospel is held by the exegesis to be a lament.
Yet the one who pronounces it is the Christ who rebukes Peter – shocked because the
Son of God “must go unto Jerusalem, and suffer many things … and be killed” – by saying to him: “thou art an offence unto me: for thou savourest not the things that be of God,
but those that be of men”).
To answer Christ’s question, I am writing an essay – as I am pleased to announce
at a Symposium where after millennia science is reapproaching the sacred and the
sacred is reapproaching science – which will show that the Old Testament and the Bible
are a work of philosophy which, and I say this using Plato’s words, founds upon science “respect for the divine (theosebeia)”, and makes it consist in “giving the reason” for
being of every thing that is in the world. That is an undertaking which to my knowledge has been tackled and brought to fulfilment only by the Bible.
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I numeri “delle forme” (tw` n eijdw` n)
nella Grande Piramide di Giza e in altri monumenti egizi
Premetto che a interessarmi degli Egizi mi hanno portato i Greci: sono stati i
loro rimandi – riassunti nell’APPENDICE I – ad avermi dato modo di affrontare,
dall’alto della matematica che Platone e Aristotele dicono scoperta dai sacerdoti
di Ammon, l’imponente ma caotica massa di notizie, raccolta da egittologi e
astronomi in due secoli d’indagini sulla civiltà del Nilo.
Preciso subito che la matematica egizio-platonica è tutt’altra cosa della
matematica usuale, cioè della matematica che tratta numeri composti da unità
indifferenziate e indiscriminatamente associabili. I numeri che l’Occidente
assume “naturali – ma che Platone, nel Filebo 56e7,8, riserva a “costruttori
e mercanti”, e che Aristotele chiama “matematici” (cfr. p. es. Metafisica
987b14-18) – si attagliano unicamente a materie amorfe o a enti spogliati
delle qualità; nulla possono pertanto dire al filosofo. Infatti il mondo, del
quale la filosofia si occupa, è composto da “forme” che sono agli antipodi
dei numeri di unità indifferenziate e indiscriminatamente associabili. Ogni
forma invero – sottolinea Aristotele nel suddetto 987b14-18 – è un “uno di
ciascuno”, del quale esiste un unico esemplare, non duplicabile né associabile per somma con altre forme (cfr. Metafisica 1083a27-35); a potersi duplicare e sommare sono soltanto quantità amorfe (grandezze, pesi) o enti spogliati delle qualità,1 dunque enti che, dice Aristotele, esistono “non nelle
cose, ma solo nella nostra mente” (cfr. Metafisica 1027b29-31).
1 Quarant’anni or sono Konrad Gaiser, della Scuola di Tubinga, conquistò il mondo dell’esegesi
facendo invece ‘idealizzare’, a Platone, lo uno, il due, il tre, etc. “matematici”; Tubinghesi e sodali hanno
impiegato vent’anni per convincersi che, se si elevano a “numeri ideali” idealizzazioni di numeri “matematici”, la matematica non può ritenersi “filosofica” e si deve predicare “la deficienza istituzionale di
ogni forma di filosofia che prenda a modello il metodo matematico” [cfr. HANS J. KRÄMER, La nuova
immagine di Platone, Napoli, Bibliopolis, 1986, p. 64; VITTORIO HÖSLE, Zu Platons Philosophie der
Zahlen, in «Theologic and Philosophic» (Heft 3, 1984, pp. 324,325), Herder, Fraiburg-Basel-Wien].
Ventidue secoli or sono Aristotele scriveva, nel 1083a27-35 del Metafisica: “Se esistesse soltanto il
numero ‘matematico’, lo Uno non potrebbe predicarsi ‘principio’. Affinché lo sia, occorre parlare come
Platone: dire primarie una diade (duav") e una triade (triav") e assumere inaddizionabili questi numeri”, che pertanto sono alcunché di radicalmente diverso dal due (duvo) e dal tre (trei`") ‘matematici’.
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Il Metafisica 1092b16-23 sottolinea che 3/2, p. es., indica quantità se è rapporto fra numeri “matematici” e nulla può dire al filosofo, che si occupa di
essenze; diventa rappresentativa di un’essenza se esprime proporzione fra due
entità qualitativamente diverse, p. es. “fra tre parti di fuoco e due di terra” [oggi diremmo fra tre di ossigeno e due di ferro; indica allora l’essenza Fe2O3].
Un essenza può allora essere indicata, per analogia, anche da un numero composto p. es. da unità 1 e da unità 2 , diverse al punto da risultare incommensurabili
fra loro; espressioni quali 2 – 1 o 3 – 2 2 , chiamate “apotomi” da Euclide, si
prestano perciò a rappresentare essenze e potranno dirsi “numeri delle forme (tw` n
eijdw` n) se costituiranno un “uno di ciascuno”, non duplicabile né sommabile con
altri “uno”, come secondo il Metafisica 987b14-18 risultano questi apotomi.2
Se poi fosse costruibile, con apotomi di questo Genere, quell’insieme
matematico compiutamente razionale che è impossibile ottenere con i monomi
considerati “naturali” dall’aritmetica occidentale – ma che di certo presiede a
quello che Platone definisce “il rincontrarsi del nostro Cielo senza necessità
d’interventi esterni” (cfr. Timeo 34a8-b9) –, sarebbe lecito dedurre che, come
Aristotele generalizza nel De Mundo 396b, “la Natura realizza le armonie con
i contrari, non con i simili”. Chi studia la Natura, infatti, non può non tenere conto delle risultanze della matematica; sarebbe assurdo invero indagarla servendosi di uno strumento governato da principî opposti ai naturali. Anche le
forme naturali, d’altronde, risultano mistioni di essenze ‘contrarie’, sicché l’apotome, che è mescolanza di unità razionali e unità irrazionali, è analogicamente affine alle mistioni maschio-femmina, luce-tenebra, ..., onda-corpuscolo.
Allora, se la matematica “delle Forme” si allineerà alla Natura anche nel realizzare le armonie – la compiuta razionalità, nel caso specifico – rendendo
amici i contrari, diventerà assurdo e si farà causa di nostre sofferenze continuare,
quando l’uomo disporrà di mezzi tecnologici che della Natura possono renderlo ‘signore’, a impostare, come finora, statuti delle città e norme etiche sull’eliminazione dei contrari ostili o sgraditi, anziché sulla ricerca delle giuste misure
in cui farli convivere in amicizia, oltre che nella Natura, nelle città dell’uomo.
Gli Egizi scoprirono appunto la compiuta razionalità dell’insieme matematico costituito dai numeri “delle Forme ideali”, della cui natura primaria il
2 Metafisica 987b14-18: “I numeri ‘matematici’ risultano intermedi fra i sensibili e le Forme (ei[dh);
si differenziano dai sensibili perché sono immobili e atemporali, ma [dai numeri] delle Forme perché
[di ciascun numero ‘matematico’] ve ne sono molti di eguali, mentre quel numero-forma è un uno di
ciascuno (to;Ÿ de; ei\do" aujto; e}n e{kaston movnon)”.
Nella matematica egizio-platonica l’esistenza di un numero infinito di unità 1 è conseguenza del fatto
che ciascun apotome Ck delle Forme ideali (cfr. la sequenza esposta nell’APPENDICE II) genera, per intervento di un agente che Platone e Aristotele chiamano “Diade aorista del ±”, un monomio 1. Si ha p. es.:
(
2 –1)(
2 +1)= 1 ; (3–2 2 )(3+2 2 )=1
; (17–12 2 )(17+12 2 )=1 ; etc.
E poichè gli apotomi ideali Ck sono in numero infinito, infiniti di numero risultano anche i monomi 1.
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Libro X degli Elementi di Euclide ci ha tramandato la dimostrazione, e affidarono gli indizi, sufficienti a evocarlo, a monumenti che sfidassero i millenni.
Viene spontaneo però chiedersi perché non abbiano utilizzato loro la scoperta.
Non la potevano utilizzare perché la concezione testimoniata dalla matematica
“delle Forme” implica innanzitutto amichevole equilibrio delle essenze necessarie
a formare un mondo (cfr. Parmenide 142a6-8): essenze che Platone, nel 35a1-8 del
Timeo, chiama “Medesimezza (taujtovn)” e “Alterità (qavteron)”. Sicché Dio – o
l’ordine cosmico, se si preferisce dire così – non sarebbe stato giusto se non avesse
equilibrato, dando all’Alterità predominio sulla Terra, quello, di Medesimezza
nell’Anima cosmica e nel nostro Cielo, necessario a consentire, quaggiù, la vita.
Per compiere, anche sulla Terra, l’ordine divino senza ledere la Natura
dell’Alterità, il compimento doveva pertanto affidarsi a un agente – l’uomo –,
libero di farsi vettore sia di Medesimezza sia di Alterità. A questo fine l’uomo
ebbe mente ‘monometrica’, che preclude l’accesso ai numeri bimetrici divini e
lo inclina, anzi, a farsi lui stesso alfiere di Alterità.
Creato “nudo, scalzo, privo di giaciglio e d’armi” (cfr. Protagora 321c5,6) e
gettato in un mondo dove “impulso dei viventi è mangiarsi l’un l’altro” (cfr.
Epinomide 975a5-7) – sicché le creature sono portate a muoversi in senso opposto
all’amicizia di contrari che conferisce stabilità al nostro Cielo –, l’uomo ha dovuto,
per sopravvivere, adoperarsi finora a eliminare presenze ostili. Proprio il trovarsi
“gettata in luoghi di sciacalli dove per Te, Signore [=per consentire giustizia all’ordine divino], veniamo uccisi ogni giorno” (cfr. Salmo 44:20,23), ha portato l’umanità a
costruirsi il patrimonio di mezzi tecnologici che le consentiranno infine ciò che agli
Egizi era precluso: poter governare la Natura fino a estendere alla Terra gli equilibri
che assicurano armonia e stabilità al nostro Cielo. E saranno proprio i patimenti,
sempre crescenti, che l’uomo subisce in conseguenza del dover procedere in senso
opposto all’amicizia di contrari su cui si fondano gli equilibri cosmici, a convincerne
infine la libertà a farsi vettrice di Medesimezza. Il disegno cosmico è sapiente e
conforme a giustizia, dunque, perché fa sì che sia l’Alterità stessa, con eccessi non di
rado causati proprio dall’uomo, a convincerlo a capovolgersi, da creatura succube
d’impulsi che la rendono vettrice di Alterità, in avveduto alfiere di Medesimezza, che
conduce a compimento in bellezza, sulla Terra, l’ordine divino (cfr. Eutifrone 13e).3
3 Ecco perché nella profezia egizia “di Neferty”, ripetuta sostanzialmente nel 97a del Sanhedrin
ebraico, si legge che “prima dell’avvento del Re unificatore delle Corone dell’Alto e del Basso Egitto, il
sole verrà coperto e gli uomini diventeranno ciechi e sordi per la sua assenza. Il letto del fiume diventerà
riva, la riva acqua e l’acqua riva. Il vento del nord sarà opposto a quello del sud e il Cielo non avrà vento. [...]. Uccelli stranieri deporranno le uova nelle paludi del Delta e nidificheranno vicino all’uomo; la
gente li accoglierà e amerà [...]. La parola nasconderà alla vista e all’udito le funeste conseguenze che si
staranno avvicinando: si vivrà nella confusione, costruendo frecce di bronzo e chiedendo pane al sangue
[...]. Si vivrà in un cimitero [...]. Ma ecco che un figlio di uomo [il Re unificatore delle due Corone fin’allora avversarie] avrà nome immortale, per sempre: l’ureo che porta sulla fronte renderà amici i nemici”.
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Solo oggi, dunque, si profila attuabile un disegno “politico” consonante
con la matematica egizio-platonica. Nella nuova, e antica, concezione di
mondo, attendono l’uomo non miraggi di felicità – rivelatisi prodighi solo di
lutti –,4 ma attenuazioni che riducano i nostri patimenti alla misura in cui,
essendo necessari all’equilibrio del Tutto, potranno accogliersi ‘in letizia’, così
come la donna accoglie le doglie del parto.
Questa pacata prospettiva, che nella Grande Piramide di Giza vede qualcosa di un po’ più edificante che non un monumento eretto per contenere il
sarcofago del Faraone Cheope, è però stroncata all’origine dagli egittologi e
dagli storici della scienza, il cui punto di vista è autorevolmente espresso da
chi era considerato, nel XX secolo, il massimo cultore della scienza antica: Otto
Neugebauer. Il quale scrive:5
Si crede che nelle dimensioni e nell’orientamento delle Piramidi siano espresse
importanti costanti matematiche, p. es. un valore esatto di p, e profonde conoscenze
astronomiche. Queste teorie sono in aperta contraddizione con ogni fondata conoscenza fornitaci dall’archeologia e dagli studi egittologici circa la storia e gli scopi
delle Piramidi [...]. Gli Egizi non ebbero mai alcuna idea originale o astratta: gli
allineamenti accurati delle Piramidi e dei Templi, e l’uso di p, sono spiegabili tutti
come risultato di un qualche talento pratico, piuttosto che di pensiero profondo.
Giustamente Neugebauer ritiene che Cheope, vissuto intorno al 2500, sia
stato sepolto nella Piramide: la notizia è confermata anche da Erodoto. Non
meno fondate sono però le ragioni degli astronomi che si sono occupati della
Grande Piramide: da Piazzi-Smith e Proctor (seconda metà del secolo XIX)
ad Antoniadi, De Santillana, Stecchini, etc. (seconda metà del secolo XX),
tutti concordano nel calcolare che il ‘cunicolo discendente’ traguardava, negli
anni intorno al 3440 e poi in quelli intorno al 2160, la a della costellazione
del Drago, e nell’escludere che nell’intervallo fra le due date e per centinaia
di anni prima e dopo le date suddette, nessuna altra stella visibile era traguardabile dal cunicolo. A loro volta il ‘cunicolo ascendente’ e la ‘Grande
Galleria’ traguardavano, negli anni intorno al 3440, la “culminazione” della
a Centauri, e nel 3440 mirava, verso la “culminazione” di z Orionis, anche
4 La collimanza fra le concezioni di mondo egizia e biblica, che nell’APPENDICE III mostrerò sussistere, autorizza ad addurre qui il 30:10-14 di Isaia: “A coloro che chiedono ai profeti: non vaticinate il vero, parlateci di cose piacevoli, vaticinateci illusioni!, [...] a costoro così parla il Signore:
«Poiché rifiutate la Mia parola [l’ordine cosmico dato da Dio agli enti] e confidate in ciò che è tortuoso e perverso, questo errore sarà per voi come una paurosa crepa, che compare sul rigonfiamento di un alto muraglione, il cui crollo arriverà improvviso, di colpo, come la rottura di un vaso di
argilla, frantumato così che fra i detriti non si trovi neppure un coccio con cui prendere un tizzone
dal fuoco, o attingere acqua dalla cisterna»”.
5 OTTO NEUGEBAUER, The Exact Sciences in Antiquity, Princeton U.P., 1951; tr. it. Le scienze esatte nell’antichità, Milano, Feltrinelli, 1974.
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il ‘pozzo meridionale’ del ‘Direttorio’, se gli si dà l’inclinazione di 40°
(Rudolf Gantenbrink la calcolava in 39,6°). Il pozzo prosegue però al di
sopra del Piazzale osservatorio; coerente è perciò pensare che traguardasse
una culminazione successiva al 2400. Intorno al 2500 il pozzo meridionale
della ‘Camera del Re’ puntava verso la z di Orione; intorno al 2500 il
pozzo settentrionale della “Camera del Re” puntava verso la a del Drago.
Per mettere d’accordo astronomi ed egittologi basta allora una notizia riferita da Proclo nel Commentario al Timeo, dove dice che il tronco della Grande
Piramide, al di sotto del piazzale indicato con O-O nel disegno e sul quale
verrà poi edificata la ‘Camera del Re’, era destinato a osservatorio astronomico.6 Non è quindi scoperta di cui si possa menar vanto il dedurre che, intorno al 3440, fu costruito il tronco della Grande Piramide destinato a osservatorio, e che dopo nove secoli di rilievi astronomici, destinati soprattutto a studiare la precessione degli equinozi,7 fu costruita, negli anni intorno al 2500, la
“Camera del Re” e venne completata l’edificazione della Piramide.
6 Già l’astronomo RICHARD A. PROCTOR aveva rilevato, in The Great Pyramid Observatory, Tomb,
and Temple (London, Longmans, 1888), che la ‘Grande Galleria’ – lunga m. 48, alta m. 8,50, larga
m. 1,60 alla base e m. 1,0 in sommità – “costituiva, prima dell’invenzione del telescopio, la struttura
più idonea a consentire indagini astronomiche e concettualmente simile agli osservatori costruiti a
Dehli e a Benares”. A confermare che la ‘Grande Galleria’ non poteva avere scopi diversi dall’astronomico sta, oltre che la sua conformazione, il fatto che il cunicolo per accedervi è alto soli cm. 119
e largo cm. 106 (cfr. R. BAUVAL e G. HANCOCK, Keeper of Genesis; tr. it. Custode della Genesi, Milano,
Corbaccio, 1997).
7 La precessione sposta gli equinozi di 50,3 secondi d’arco all’anno: 3 gradi ogni 216=33 ·23 anni.
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Più suggestiva reputo la conferma che, alla costruzione della Grande
Piramide in due diverse epoche, viene dal raffronto del valore del cubito chiamato a caratterizzare ognuna delle due fasi.
Isaac Newton s’interessava della Grande Piramide perché un’accurata valutazione del suo perimetro di 1760 cubiti – che Agatarchide, geografo di Corte
dei Tolomei,8 concretava in 1/2 minuto del grado di latitudine all’equatore –
era decisiva agli effetti della teoria della gravitazione. Newton intuì che il cubito della ‘Camera del Re’ doveva risultare tale da attribuirle le misure di 10 x 20
cubiti. Calcolò il cubito, pertanto, in 20,63 pollici britannici, dunque in:
metri 20,63x 0,0025399978...=0,5240...
Secondo notizie tramandate da Erodoto – ma ignorate, credo, da Newton –
il perimetro di base della Grande Piramide era stato progettato in modo da
equivalere alla misura della circonferenza di un cerchio di raggio eguale all’altezza della Piramide stessa, che è di 280 cubiti. Pertanto il rapporto
1760:280=6,285714... dà un valore approssimato di 2p =6,283185....
Flavius Josephus (I sec. d.C.) collegava a sua volta al rapporto fra il perimetro della Grande Piramide e la sua altezza la circonferenza delle colonne bronzee del Tempio di Salomone, che il 7:15 di I Re indica in 12 cubiti; Newton
conosceva questa relazione (cfr. nota 8). Allora, se ai 12 cubiti di circonferenza
delle colonne di Salomone si applica il valore del cubito individuato da
Newton per la ‘Camera del Re’ nella Grande Piramide, si ottiene:
cubiti 12x 0,5240...=6,2880...≅2p .
Perciò le colonne del Tempio di Salomone avevano raggio di circa 1 metro e
circonferenza di circa 2p metri; appare lecito quindi dedurre che il cubito egizioebraico costituisse la dodicesima parte di 2p ossia la sesta parte di p e la quinta
parte del quadrato f 2 = 2,61803... della sezione aurea f (infatti anche f 2 : 5, ossia
2,61803...:5=0,5236... rappresenta un congruo valore del cubito).
Consegue allora che, congiungendo le notizie tramandate da Erodoto,
Agatarchide e Flavius Josephus, il cubito che misura il perimetro di base della
Grande Piramide, equivalente alla circonferenza 1760 di un cerchio di raggio
280, risulta la dodicesima parte del rapporto 1760:280=6,285714..., cioè:
6,285714...:12=0,523810... metri,
ed è tale che 1760 cubiti formano circa 1/2 minuto d’arco della circonferenza
equatoriale della Terra.
Coerente con il misurare in 20x 10 cubiti le dimensioni della ‘Camera del Re’
è dunque il cubito di 0,5240... metri; coerente con il misurare in 1760 cubiti il
8 Su Agatarchide di Cnido cfr. C. MÜLLER, Fragmenta Historicorum Graecorum, Paris, 1849;
Geographi Graeci minores, Paris, 1855. Newton pubblicò le ricerche sul cubito in A Dissertation upon
the Sacred Cubit of the Jews and the cubit of several Nations. Le sue indagini furono però ostacolate
dal fatto che rapporti ‘parlanti’ se espressi in metri, nulla dicono se espressi in pollici britannici.
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perimetro, e in 280 cubiti l’altezza della Grande Piramide è invece il cubito di
0,52381... metri ; la divergenza fra queste misure – che avrebbe sconcertato
Newton: implica infatti una differenza di 14446 metri nella circonferenza equatoriale della Terra – conferma invece, a mio giudizio, la costruzione della Piramide
in due diverse epoche. Traggo la convinzione da due antichi documenti.
1° - È risaputo che non di rado i Faraoni usurpavano monumenti dei predecessori sostituendo il proprio cartiglio all’altrui. Ecco allora l’artificio cui ricorse
Akhenaton: delimitò il territorio consacrato ad Aton con “Stele di frontiera”, dove
si annunciava che “distano fra loro 6 itrw, khet 1+3/4, cubiti 4 PRECISI [sic!]”.
Pretendere di misurare con l’esattezza di 8 millimetri [il cubito di Akhenaton
risulterà infatti di 0,522... metri] una distanza di più di 31 chilometri è proposito
ostentatamente assurdo; scopo di tanta ostentazione può perciò essere soltanto
quello di fissare la consistenza del “cubito regale di Aton”, diverso ovviamente da
quelli, “di Ammon”, dei potenziali usurpatori dei monumenti di Akhenaton.
Lo itrw misura 10000 cubiti, il khet 100 cubiti; pertanto la distanza fra le stele
di Akhenaton risulta di 6,0179 miria-cubiti. Si è detto che il cubito di Ammon, se
lo si misura in metri, è la sesta parte di p ; quello di Aton se ne differenzia perché
è la 6,0179 ma parte del valore reale di p . Perciò il cubito di Akhenaton risulta:
p :6,0179=3,141593...:6,0179...=0,522... metri.
2° - Addirittura ‘commovente’ mi sembra l’artificio adottato dagli estensori
dell’Antico Testamento, e religiosamente rispettato per tre millenni, allo scopo
di fissare il valore del cubito sacro ebraico.
Nel 7:23 del primo Libro dei Re si legge che “la vasca per le abluzioni del
Tempio di Salomone misurava dieci cubiti da una sponda all’opposta; era rotonda, alta cinque cubiti, e una linea di trenta cubiti ne misurava la circonferenza”.
Moshe Katz commenta:9
Se si controlla la scrittura della parola «
», che significa «e una linea», si
osserva che è scritta in modo erroneo: la compitazione corretta, da millenni annotata a
margine del testo, la vorrebbe « », ossia con la lettera « » in meno. L’addizione dei
valori numerici delle lettere componenti le due parole [cioè la loro gematria] dà 111
per la compitazione erronea, 106 per la corretta. Se si moltiplica il valore 3, attribuito
in I Re al rapporto circonferenza: diametro della vasca, per il rapporto fra la gematria
della parola errata e quella dell’esatta, si ottiene, per p , il valore 3· 111: 106= 3,141509....
Nel 40:5 di Ezechiele si dice che la “canna” con cui l’Angelo, apparso in
sogno al profeta, misura le dimensioni del futuro (e mai costruito) Tempio di
9 MOSHE KATZ, Bè Otioteah Nitnah Torah (La Torah fu data nelle sue lettere), edito dall’autore, Neve Orot 609/1, Jerusalem, 1922. L’opera di Katz è interamente dedicata alle parole e ai canoni numerici nascosti nel Pentateuco, di cui do un esempio nelle pp. 23, 24.
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YHVH, era lunga “6 cubiti di 7 palmi ciascuno”, dunque p metri. Legittima era,
quindi, la preoccupazione dei sacerdoti ebrei di fissare in 3,141509...:6=0,523585...
metri la misura del cubito sacro ebraico, distinguendolo dalla ridda di cubiti
adottati nei monumenti egizi e che, altrimenti, avrebbe di fatto lasciate indeterminate le misure dei manufatti sacri dell’Antico Testamento.
Del “cubito regale egizio di 7 palmi ” si è interessato Livio C. Stecchini,
conclusioni che illustro nell’APPENDICE III, perché evocano – anche se non intenzionalmente, e ciò rende interessante la sua ricerca – i “numeri delle forme”.
Salvo che per questa felice evocazione di Stecchini, l’astronomia indagata
tramite la Grande Piramide e le disquisizioni sul cubito sacro o regale non interessano la matematica “delle Forme”; la loro trattazione ha avuto lo scopo di
arginare lo scetticismo dei Neugebauer e di mostrare quale ‘elasticità’ di mente
richieda l’accostarsi al metodo espositivo degli Antichi.10 Saranno le dimensioni
di progetto della Grande Piramide a guidarci ora verso la matematica dei numeri
chiamati poi “delle forme (tw` n eijdw` n)” da Aristotele.
La figura sotto schematizzata rappresenta la sezione mediana della Piramide:
}
C
c = 220 cubiti
Misure effettive
h = 280 cubiti
a = 356 cubiti
a=
h = f
Piazzale osservatorio
O
P
O
O
A
c=1
B
a : c = 356 : 220 = 1,6181... ≅ f
a : h = 356 : 280 = 1,2714... ≅ f
h : c = 280 : 220 = 1,2727... ≅ f
h 2 = 280 2 = 78400 ≅ 78320 = 356 • 220 = a • c
A decifrarne il dimensionamento basta la lapidaria notizia tramandata da
Erodoto nel 124,5 del secondo Libro delle Storie, dove scrive: “th` " [puramivdo"]
ejsti pantach`/ mevtwpon e{kaston ojktw; plevqra ejouvsh" tetragwvnon kai; u{yo" i[son 10 In Altägyptische Religion (Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges., 1989) HELLMUT BRUNNER,
cattedratico di Egittologia a Tubinga, scrive: “l’uomo d’oggi non deve collegare le credenze egizie alle
proprie; deve capire come quelle concezioni dessero agli Egizi di che vivere [...]. Certo fra gli egittologi si fa ancora sentire il positivismo degli ultimi secoli e difficilmente e poco si passa, dalla esposizione di fatti, a interrogarsi sulla direzione verso cui gli Egizi li coordinavano; chi critica queste lacune deve però tener presente che l’egittologia è disciplina relativamente giovane [...] e che una traduzione delle rappresentazioni egizie in schemi del nostro tempo è possibile solo in misura assai limitata [...]. Noi non possiamo trasporre nella prospettiva usuale il loro modo di esporre e di rappresentare figurativamente, senza che alcunché di essenziale vada perduto: possiamo capire solo briciole
dell’antico Egitto, e lo possiamo unicamente se ci trasferiamo in quel mondo, attraverso cammini assai
faticosi. Tuttavia il risultato, poi, paga: ne seguono vedute d’insieme di valore tale da risultare gratificanti [...], perché la vera importanza della religione dei Faraoni consiste nel fatto che gli Egizi crearono un sistema in sé concluso e di per sé vitale: dunque un sistema d’interpretazione del mondo,
che si è confermato sistema del quale e con il quale una cultura e una civiltà poterono vivere per tre
millenni. Ciò null’altro significa se non che la religione egizia partecipava della verità.”
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ogni faccia [della piramide] è esattamente equivalente a un quadrato di otto
plettri, e l’altezza egualmente [è lato di un quadrato di otto plettri]”.11
Se a è l’apotema della Piramide, h l’altezza e c la semi-base, che è lecito assumere misurata da 1, la relazione erodotea implica che 1·a=h 2 , sicché h= a.
Applicando il teorema così detto ‘di Pitagora’ al triangolo ABC, si ottiene che:12
a2 =1+h 2 , sicché, essendo h 2 =a, consegue a2 =1+a, da cui a2 –a–1=0.
Risolvendo questa equazione di secondo grado in a, si ha:
1+4 5 +1
1 a = — + ——— = ——— = f = 1,61803...,
2
2
2
quindi
h = a = f = 1,272020....
L’espressione ( 5 + 1 ) : 2 = f individua il rapporto di “sezione aurea”, che
suddivide un intero in modo che questo stia alla parte maggiore come la parte
maggiore sta alla minore. Poiché la parte minore è sezione aurea della maggiore,
anche la loro differenza è sezione aurea della parte minore, e così di seguito.
La vasta gamma dei fenomeni naturali spiraliformi – comprendente fra l’altro
la fillotassi, la compattazione delle inflorescenze, il coordinarsi delle squame di
una pigna – forma un ‘universo’ totalmente ritmato dalla sezione aurea, che perciò
rappresenta la suprema imposizione di ordine-e-permanenza nel corporeo: il
Timeo 55c5,6 dice che “Dio si servì del dodecaedro – [i cui spigoli risultano
sezione aurea 2 : [( 5 + 1 ) : 2 ]= 5 – 1 dello spigolo del cubo iscritto nella medesima sfera] – per ben disegnare il corpo del mondo”.
Parte minore della suddivisione secondo sezione aurea dello spigolo 2 del cubo è
l’apotome 2–( 5 –1)=3– 5 ; a sua volta 3– 5 è la parte maggiore in cui il rapporto
aureo divide 5 – 1, residuando la parte minore ( 5 – 1) – ( 3 – 5 ) = 2 5 – 4, che è
sezione aurea di 3 – 5 , e così di seguito, all’infinito. Si genera così la seguente
successione di rapporti fra coppie di apotomi, scanditi ognuno dalla sezione aurea f :
(•)
2
5 –1
3– 5
2 5 –4
f ( 5 +1 ):2
——— = ———– = ———— = ———— = ... = 1,618... = — = ————— .
5 – 1 3 – 5 2 5 – 4 7 – 3 5
1
1
Questa successione non è detta concernere, da Aristotele, “numeri delle forme
(tw` n eijdw` n)”, perché gli apotomi che vi compaiono sono ‘inquinati’ dal divisore
monomiale 2 , latente nei termini di ciascun rapporto; le Forme ideali, invece, sono
11 In Mathematics in the Time of the Pharaohs (Dover Publ., New York, 1981), saggio che dedica a Neugebauer, RICHARD J. GILLINGS contesta la liceità di chiamare “un passo di Erodoto che non
è stato possibile localizzare” a legittimare la misurazione della Grande Piramide. Il passo di Erodoto
sopra trascritto è di piana reperibilità.
12 Appoggiandosi a B. L. van der Waerden e T. L. Heath, Gillings contesta anche la liceità di
attribuire agli Egizi la conoscenza del triangolo rettangolo di lati 3, 4, 5: “Nothing – scrive – in
Egyptian mathematics suggest that the Egyptians knew that a (3, 4, 5) - triangle is right-angled”.
Sorvola, evidentemente, sul fatto che la sezione mediana della SECONDA Piramide di Giza ha quale
semitriangolo ABC proprio quello che, se misurato in terzi di cubito, ha base 615 (=3a), altezza 820
(=4a), apotema 1025 (=5a); cfr. L. C. STECCHINI, Notes on the relation of ancient measures to the Great
Pyramid, in P. TOMPKINS, Secrets of the Great Pyramid, Harper & Row, New York, 1983.
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tutte non divisibili. Perciò anche Platone, nell’Epinomide 981b3-c4, oppone al dodecaedro e agli altri solidi regolari, “che nel discorso concernente apparenze sono le
composizioni più belle”, le “mutazioni colleganti assieme dispari e pari: le sole
capaci di farci riprendere memoria di logismov"”: del numero compiutamente e realmente razionale, del quale Dio si servì per dare stabilità d’ordine al mondo. È chiaro,
pertanto, che l’Epinomide addita nella sezione aurea la “partenza sensibile”,13 che
istradò i sacerdoti egizi verso la scoperta della matematica delle Forme ideali.
Nel linguaggio pitagorico, infatti le “mutazioni colleganti assieme dispari e pari”
sono formate dal coordinarsi di unità 1 (così dette ‘razionali’) e di unità 2 (così
dette ‘irrazionali’);14 se l’applicazione di notazioni pitagoriche alle “mutazioni” cui
allude l’Epinomide 981b3-c4 è corretta, la successione di apotomi “delle forme”,
verso la quale indirizza la successione (•) di rapporti ‘aurei’, sarà la seguente:
(••)
2 –1 3–2 2
5 2 –7
17–12 2
2 +1
———– = ———— = ————— = ————— = . . . = ——— .
2 5 2 – 7 17 – 12 2 29 2 – 41
1
3 – 2 L’insieme così formato è costituito dagli apotomi Ck della “successione degli
apotomi ‘delle forme’ del Repubblica”, così chiamata nell’APPENDICE II; all’illazione
che l’Epinomide 981b3-c4 alluda proprio a questa successione porge conferma la
Grande Piramide. Infatti il piazzale OO dell’osservatorio astronomico – riproduco
qui, per comodità del lettore, lo schema della sezione mediana della Grande Piramide – risulta essere un quadrato di area equivalente alla metà dell’area del quadrato di base della Piramide stessa. Pertanto i lati BB e OO dei due quadrati stanno
fra loro nella proporzione BB:OO= 2 :1, sicché si ha anche AB:PO= 2 :1.
A chi conosce la matematica “delle forme” queste relazioni dicono che, se si
C
a=
h = f
Piazzale osservatorio
O
B
P
O
O
A
B
c=1
13 La funzione della fillotassi, nell’istradare i sacerdoti egizi verso la scoperta della matematica
“delle Forme ideali”, è confermata da un’iscrizione della “Sala botanica” del Tempio di Ammon in
Karnak, dove si legge che “lo spirito del Re” salì “nella Terra degli Dei” per cogliervi “l’anima [la
sezione aurea, appunto] di sorprendenti piante” che il Padre suo Ammon – [il “Dio nascosto”, armonizzatore dei contrari] – “nutrì” per farci scoprire i Principî che convinceranno l’umanità “a porsi
sotto i Suoi sandali”: a uniformare statuti delle città e norme etiche alle forme naturali.
14 Il fr. 6 di Filolao recita: “Il numero ha due Specie singole: la pari e la dispari. Terza Specie è la
parimpari, composta dalla mescolanza di entrambe”. Che le “mutazioni colleganti assieme dispari e pari”,
cui allude l’Epinomide 981b3-c4, concernano apotomi in 2 è suggerito dal fatto che lo 1 è la unità ‘di
base’ degli gnomoni dispari di Pitagora, che danno sempre luogo a numeri quadrati 1+3+5+7+...+2n+1,
la cui radice è ‘razionale’; la 2 invece è, correlativamente, radice quadrata dell’unità di base 2 degli gnomoni pari, che formano rettangoli 2+4+6+...+2n, la cui radice è sempre irrazionale.
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numera AB con 2 , PO risulta numerato da 1, sicché la differenza AB – PO = OB
è l’apotome C 1 = 2 – 1 . Allora, se con 2 – 1 si passa a numerare PO , la base AB sarà numerata da D 1 = 2 – 2 e la differenza AB – PO = O B lo sarà da C 2 = D 1 – C 1 = (2 – 2 ) – ( 2 – 1) = 3 – 2 2 . Se a sua volta si numera PO
con C 2 = 3 – 2 2 , sicché AB sarà numerato da D 2 = 3 2 – 4 , la differenza
D 2 – C 2 = (3 2 – 4 ) – (3 – 2 2 ) = 5 2 – 7 darà C 3 . Numerando poi PO con C 3, AB
risulterà D3 = 10 – 7 2 e D3 – C3 = (10 – 7 2 ) – (5 2 – 7) = 17 – 12 2 costituirà C4 .
Proseguendo, si ottiene la successione (••), che Aristotele chiama “delle forme”,
perché non è ‘inquinata’ da divisori monomiali e per ragioni che si chiariranno poi.
Dalle dimensioni della Grande Piramide è inoltre desumibile anche la derivazione, dagli apotomi “delle forme”, dei monomi ritenuti “naturali” (quindi primari) in
Occidente. Si consideri infatti il trapezio BBOO; se si pone AB= 2 , l’altezza PA è
OB · f = ( 2 – 1) f e l’area del trapezio risulta ( 2 + 1) ( 2 – 1) f = 1 · f,
sicché la (2 + 1) (2 – 1) = 1 è una delle relazioni con le quali, nella nota 2, si è
detto che la “Diade aorista del ±” genera le unità 1 dell’aritmetica dianoetica.
Numerando poi AB rispettivamente con 2 o con 2 2 , si ottengono i monomi 2 o 4.
Più ancora che queste relazioni, però, a istradare i sacerdoti egizi verso la possibilità di considerare ‘secondi’, rispetto agli apotomi, i numeri monomiali, fu verosimilmente il fatto che la sezione aurea suddivide 1 in 1 : f + 1 : f 2 e che 2 risulta
f + 1 : f 2 ; facile è allora approdare alle relazioni seguenti, che mostrano come i
monomi così detti “del Fibonacci” possano considerarsi “secondi e inferiori”,
perché “più mescolati”, rispetto ai numeri bimetrici ‘aurei’. Si ha infatti:
(◆)
1=1:f+1:f2
8 = f 4+ 3 : f 2 = f 4+ 1 : f + 1 : f 2+ 1 : f 4
2=f+1:f2
13 = f 5 + 5 : f 2 = f 5 + f + 1 : f 3 + 1 : f 6
3 = f 2+ 1 : f 2
21 = f 6 + 8 : f 2 = f 6 + f 2 + 1 : f 2 + 1 : f 6
5 = f 3+ 2 : f 2= f 3+ 1 : f + 1 : f 4
34 = f 7 + 13 : f 2 = f 7 + f 3 + 1 : f + 1 : f 5 + 1 : f 8
I monomi detti “naturali” dall’Occidente aderiscono alle realtà dei mercati e della tettonica; sono cioè atti a numerare entità amorfe o spogliate delle
qualità. La sezione aurea f , invece, aderisce a realtà naturali;15 logico dunque
15 Facendosi portavoce, credo, di notizie antiche, Anselmo d’Aosta diceva che in una pigna si riflettono tutte le armonie dell’Universo. Basti qui addurre che l’angolo di 360 : f 2 = 137,50...° ne coordina le
squame secondo una spirale generatrice per cui quelle che si susseguono p. es. a intervalli 8 (cioè quelle numerate con 1, 9, 17, 25, 33, 41, 49 nella spirale generatrice) formano spirali che suddividono la
pigna in 8 spicchi; quelle numerate con intervalli 13 (p. es. le squame 1, 14, 27, 40) formano spirali che
suddividono la pigna in 13 spicchi; quelle numerate p. es. con intervalli 21 (p. es. le squame 1, 22, 43
della spirale generatrice) formano spirali che suddividono la pigna in 21 spicchi; e così di seguito.
Gli intervalli secondo cui si formano le spirali risultano sempre numeri ‘del Fibonacci’, ossia
somme di potenze di f e di 1/f ; l’intervallo 8, p. es., è scandito da f 4 +1: f +1: f 2 +1: f 4.
Verosimilmente i matematici occidentali non hanno dedicato molto tempo a studiare armonie che
entusiasmarono gli Antichi e Anselmo d’Aosta, se EDRED JOHN CORNER scrive che “we must study
phyllotaxis which is the bugbear of botany, so simple, yet so profound as to be incomprehensible”.
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è, per il filosofo, anteporla ai numeri che il Filebo, nel 56e7,8, riserva, ripeto,
ai soli “costruttori o mercanti” e nel 62b5-7 dice “yeudou` ß kanovno" – regoli
ingannevoli” (ingannevoli per i filosofi, ovviamente, non per i costruttori). Si
chiarisce così la ragione per cui i monumenti sacri egizi ed ebraici adottarono sistematicamente, quale unità di misura, non il metro – che Agatarchide
(cfr. nota 8) testimonia già conosciuto nella sua essenza di decimilionesima parte
dell’arco di meridiano fra equatore e polo –, bensì la quinta parte di f 2 metri
(o l’equivalente sesta parte di p metri, perché p = 6 f 2 : 5 ) . Nella sezione aurea,
infatti, i sacerdoti di Ammon e di YHVH vedevano manifestarsi il “divino”.
Nella nota 14 si è chiarito che i Pitagorici consideravano i monomi “meno
mescolati” dei numeri bimetrici detti – da Filolao e nell’àmbito dell’aritmetica
usuale – “terzi” perché ritenuti risultanti da mescolanze di pre-esistenti unità
‘razionali’ 1 e unità ‘irrazionali’ 2 ; dire che le relazioni (◆) di p. 11 possono
aver istradato i sacerdoti egizi a sovvertire le vedute usuali, non implica però che
questa possa essere l’effettiva genesi dei numeri monomiali da numeri bimetrici;
infatti i numeri della sezione aurea già implicano in sé il divisore 1/2.
Nemmeno si può pensare che i monomi, considerati “naturali” dall’aritmetica occidentale, nascano dagli apotomi della successione (••) di p. 10; questi
apotomi invero, essendo collegati da operazioni di somma e sottrazione [C2 ,
p. es., è D1 – C1 ], sono numeri “geometrici”, all’origine della cui successione sta
la sottrazione del monomio 1 dal monomio 2 . Apotomi siffatti non possono
dunque anteporsi ai monomi; nemmeno potranno predicarsi “primari” numeri
la cui sintassi non comprenda quella dei numeri della musica, che sono inaddizionabili. Infine nell’Epinomide 990c5-8 Platone sottolinea che “primari”
possono predicarsi soltanto apotomi i quali, come i numeri che ritmano le note
musicali, risultino “incorporei (ouj swvmata ejcovntwn)”: non sommabili né contenibili gli uni in altri; primario può infatti essere solo ciò che risulti “superiore”
dal punto di vista ontologico, perché presenta superiori commensurabilità.16 E
la “esattezza matematica”, dunque l’assenza d’irrazionalità, “sussiste solo in ciò
che è privo di materia”, sottolinea Aristotele nel Metafisica 995a15-17.
Dagli apotomi “incorporei” e “primari” dell’Epinomide 990c5-8 Euclide fa appunto nascere gli apotomi della successione (••). E li fa nascere tramite una
espressione – implicata nel lemma II al teorema X-29 degli Elementi – che qui interessa in modo particolare perché, grazie a questa, i monumenti egizi e l’Antico Testamento attestano che le risultanze della matematica delle Forme, esposta nell’AP16 Cfr. Filebo 59c2-6: “Il fermo e puro e vero e ciò che diciamo ‘schietto’, si trova o presso gli enti
sempre identici a sé perché sono i meno mescolati [sono i Logismoi; dell’Anima cosmica del Timeo],
oppure presso gli enti a quelli più congeneri [e sono gli apotomi delle Forme ideali]. Tutti gli altri enti
debbono dirsi secondi e inferiori (deuvterav te kai; u{stera)”: inferiori perché nel loro àmbito – spiega
l’Epinomide 990d1-4 – compaiono entità non commensurabili.
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PENDICE
II sotto la dizione “Sequenza degli apotomi primari epinomidei”, sono
sottese alla concezione di mondo di cui intendono farsi vettrici. L’espressione è:
( *)
z=x+ 2x(x+1).
Da questa espressione si generano tutte e soltanto le coppie di numeri
“epimori”, ognuno dei quali supera di un’unità il numero con cui fa coppia,
che costituiscono i quadrati dei “nomi” degli apotomi della successione (••)
di p. 10.17 Infatti, se nella z = x + 2 x ( x + 1 ) s’immette una qualsiasi coppia
epimoria costituita dai quadrati dei “nomi” degli apotomi della successione
(••), dalla formula stessa si ottengono le coppie epimorie immediatamente
antecedente e successiva alla coppia introdotta, cosicché dalla (*) può
dedursi l’intera successione (••) degli apotomi “delle forme”.
Caso affatto speciale, e che qui particolarmente interessa, è quello in cui nella * si
introducono i quadrati 50 e 49 dei “nomi” 5 2 e 7 dell’apotome C3 =5 2 –7. Si ha:
( ** )
z4 =49+ 2·50·49=119,
e, se si divide z2 =1192 =14161 per 49, si ottiene il numero quadrato 289=17 2, che è il
primo numero quadrato x4 +1, successivo a x3 =49, che con 2x4 =288=2·144=2 ·122
costituisce la coppia epimoria successiva alla x3 =49 e alla x3 +1=50=2 ·25=2·52 .
Dalla (**) stessa si risale alla coppia epimoria x2 =8 e x2 +1=9=32 , costituente i
quadrati dei “nomi” 2 2 e 3 dell’apotome C2 =3–2 2.
17 L’esegesi occidentale – [cfr. p. es. ATTILIO F RAJESE nel commento al teorema II -9 de Gli
Elementi di Euclide (Torino, UTET, 1970)] – ritiene che la successione delle coppie “epimorie” sia stata
scoperta “per tentativi” dai geometri greci. La si deduce invece, in virtù dell’espressione *, direttamente dalla sequenza degli apotomi delle Forme ideali; anche la successione (••) nasce perciò dalla
sequenza suddetta ed è il solo insieme matematico generabile senza implicare interventi della Diade
aorista del ±, madre dei numeri che il Filebo destina a “costruttori e mercanti”. Il Repubblica la dice
perciò idonea, nel 587a-588a, a dare conto della stabilità dei movimenti del nostro Cielo.
Ritmata da numeri generati dalla Diade aorista del ± [un cui portato è il divisore 1/2 presente
in f =( 5 +1 ):2] è dunque anche la successione ‘aurea’; perciò Aristotele non la chiama “delle forme”.
La sequenza primaria e la successione (••) costituiscono insiemi compiutamente scevri d’irrazionalità; tali, beninteso, nell’àmbito della matematica filosofica e non, ovviamente, della dianoetica. Il filosofo, infatti, non istituisce rapporti fra grandezze incommensurabili – p. es. fra A = 2 e B = 1 –
costringendo una di queste a esprimersi in decimi, centesimi, millesimi, etc. dell’altra, ma le confronta
tramite la “ratio antiferetica” (teorema X-2 degli Elementi di Euclide), ossia individuando la successione n0 , n1 , n2 , etc. dei numeri interi di volte n0 in cui B sta in A, poi n1 in cui il resto R1 =A–n0 B sta in
B, poi n2 in cui il resto R2 =B–n1 R1 sta in R1 , poi n3 in cui il resto R3 =R1 –n2 R2 sta in R2 , etc.
Rapporti eterogenei quali 2 : 1 e (
2 – 1) : 1 hanno ratio antiferetica periodica [quella di 1 : (
2 – 1) è
compresa, quale B : (A – n0 B), in quella di 2 : 1 ], sicché sono intelligibili e descrivibili con esattezza, così
come nell’ambito dell’aritmetica dianoetica lo è p. es. il rapporto 4:3=1,3. La ratio antiferetica spiega dunque perché Euclide, nella Definizione III del Libro X degli Elementi, riunisca in un medesimo Genere,
chiamato “dicibile (r{htovn)”, sia le grandezze commensurabili in lunghezza (p. es. 2 e 1) sia quelle commensurabili solo in potenza (p. es. 2 e 1). Il che, per il matematico dianoetico, è motivo di scandalo.
Il ribaltamento di vedute, operato dal pensiero filosofico, si estende dunque – né poteva essere altrimenti –
anche al concetto di “razionalità”. Notizie più approfondite sulla ratio antiferetica nella nota* in p. 31 dell’APPENDICE I e in D. H. FOWLER, The Mathematics of Plato’s Academy. A new Reconstruction, Oxford U.P., 1987.
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Emerge allora la relazione (C2)2 =C4 [Euclide scrive (C2)2 =1·C4 ], nella quale C4
è numero “incorporeo”: oltre a essere quarta potenza di C1 = 2 – 1, è anche tale
da non risultare somma di apotomi della sequenza. E appunto di questo insieme,
addotto nell’Epinomide 990c5-991b4 e riportato nell’APPENDICE II sotto la dizione
“Sequenza degli apotomi primari ‘epinomidei’ delle Forme ideali”, il Libro X degli
Elementi di Euclide attesta la natura “primaria”; mostra infatti che la sequenza di
apotomi costituita dalle terne con indici 1, 2, 4, 8, 16, etc. della successione (••) di
p. 10 nasce ‘in circolo’ da sé medesima, senza implicare preesistenza di numeri
estranei, né dei singoli monomi comparenti nei numeri bimetrici da cui è costituita.
È ancòra Richard A. Proctor ad aver rilevato le notizie che consentono di mostrare come la Grande Piramide evochi anche la sequenza primaria delle Forme ideali.
Proctor fece notare, infatti, che a formare il livello del piazzale-osservatorio,
“rising by just fifty layers to a height of above 142 feet” (cfr. p. 154 op. cit.), sono
esattamente 50 corsi di conci di rivestimento del manufatto. E ripete poi: “It will
be noticed that the successive layers are not of equal thickness. There are just
fifty between the base and plane of the floor of the King’s Chamber”.18
Cinquanta corsi sono separati da 49 commessure; la coppia epimoria 50 e 49
compare dunque nella Grande Piramide a evocare la sequenza delle Forme ideali,
cui fa capo l’intera sistematica egizio-platonico-euclidea del numero: il “pa` n diavgramma ajriqmou` te suvsthma” – dice l’Epinomide 991e1-4 – capace di dare conto
della stabilità del nostro Cielo e “dell’omologia, una per tutti gli enti, che da
quelle Forme s’irradia nell’intero cosmo” (cfr. Epinomide 991b5-d1).
Gli indizi rilevati da Proctor possono apparire esili, agli effetti di sorreggere
l’impalcato matematico che su di essi ho impostato; traggono vigore, però, dal
ritrovarsi, la sequenza “delle Forme ideali” e la successione “delle forme”,
esposte in altri monumenti e bassorilievi egizi e anche nell’Antico Testamento.
Giustificheranno l’assunto i bassorilievi raffiguranti il Portale del Terzo Pilone
del Tempio di Ammon a Karnak e, nell’Antico Testamento, l’intarsio di parolenascoste che, alla coppia epimoria 50 e 49, sottesa ai primi versi del Genesi, Esodo,
Numeri, Deuteronomio, collega la successione dei numeri “del Fibonacci”, quindi
la sezione aurea, con cui sono scandite le parole-nascoste nei primi cinque versi
del Levitico. Il Pentateuco, dunque, ripete l’esposizione che, della matematica delle
forme e del cammino che condusse a scoprirla, dà la Grande Piramide.
18 Accanto ai rilievi di Proctor è doveroso ricordare qui le intuizioni di due studiosi sprezzantemente chiamati “piramidioti” da chi si contenta di pensare che la Grande Piramide sia stata costruita per dare sepoltura a
Cheope. JOHN TAYLOR (The Great Pyramid: Why was it built? & Who built it?, London, Longmans, Green,
1864) scrive che “gli ideatori della Grande Piramide mirarono a eternare, nelle sue proporzioni e caratteristiche interne, alcune verità religiose e scientifiche importanti non per le genti di quel tempo, ma per uomini di
là da venire dopo millenni”. E l’astronomo CHARLES PIAZZI SMITH incalza: “The Pyramid was charged to
keep a certain message secret and inviolable for 4000 years, and it has done so; and in the next thousand years
it was to enunciate that message to all men [...]. That part of the Pyramid’s usefulness is now beginning”.
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Numeri “geometrici delle forme” e numeri “delle Forme ideali”
nei bassorilievi del Terzo Pilone del Tempio di Ammon a Karnak
Nei due bassorilievi raffiguranti il Portale (in oggi distrutto) del Terzo
Pilone, tutte le linee orizzontali – anche quelle che individuano modanature
dello spessore di soli 4 millimetri – sono scolpite in modo da scandire i primi
diciotto apotomi della successione chiamata, nel Repubblica 546a7-d3, “geometrica dei sapienti”. Le sue terne con indici 1, 2, 4, 8, 16, etc. formano il
mathema cui l’Epinomide attribuisce il potere di “rendere sapienti”.
I bassorilievi rappresentano la festa di Apet, divinità che, dicono gli egittologi, presiedeva al perpetuarsi del mondo corporeo, possibile solo se regolato da numeri compiutamente razionali, che le modanature del Portale
potrebbero appunto voler rivelare.
Nella parete occidentale del Tempio è raffigurato il corteo di sacerdoti che,
col favore del vento, che ne gonfia le tuniche (dunque quando – dice Platone –
“i Cieli saranno propizi alla celebrazione di feste degli Dei di cui abbiamo manifestazioni reali”), esce dal Portale per portare nel mondo la “barca di Ammon”.
Nella parete orientale (lo stato del cui bassorilievo è descritto nella figura 1, in
calce al presente opuscolo) il corteo fa ritorno a Karnak, preceduto dal popolo
in festa per aver recepito il messaggio di Ammon.
I bassorilievi, assai danneggiati (cfr. figure 1 e 4, in calce al presente opuscolo),
sono stati ricomposti mediante assemblaggio delle parti in cui erano frantumati;
ciò sembra vanificare la speranza di determinarne le proporzioni. Nella fig. 1,
inoltre, non vi è traccia dell’intradosso dell’architrave del Portale, che è elemento
basilare per procedere al dimensionamento delle modanature.
Da rilievi effettuati tramite l’Istituto Italiano di Cultura del Cairo, il Portale
raffigurato nei bassorilievi ha altezza di 1760 millimetri e larghezza di 880 millimetri;19 le sue dimensioni stanno perciò nel rapporto di 2:1. Questo rapporto induce
chi abbia dimestichezza con la matematica egizio-platonica a situare l’intradosso
dell’architrave a livello 2 ; allora l’altezza UZ dell’architrave, riferita alla lar19 La misurazione del bassorilievo ha rilevato un sottosquadro di mm. 10 nella larghezza (che
perciò varia da mm. 880 a mm. 890) e di mm. 20 nell’altezza (che varia da 1760 a 1780 mm.), dovuto alla ricomposizione del manufatto. La finale determinazione del cubito del bassorilievo risulterebbe in D1 +E6 =(2– 2 )+(198–140 2 )=200–141 2 =524,4 millimetri se il Portale fosse largo 880 mm.,
o di 530,3 mm. se il Portale fosse largo 890 mm. Il valore 524,4 mm. è quello che più si confà al
cubito di altri monumenti egizi o ebraici; i calcoli che seguono sono perciò effettuati assumendo in
880 millimetri la larghezza del Portale.
Nei due casi suddetti, comunque, la quantificazione in millimetri è ininfluente, praticamente, agli
effetti della determinazione mediante apotomi delle partizioni del bassorilievo; p. es. l’apotome
D1 =2– 2 =0,585786... si traduce in mm. 515,5 se il Portale è largo 880 mm., e in mm. 521,3 se la larghezza
è 890 mm.; l’apotome E1 =198–140 2 =0,01010... si traduce rispettivamente in mm. 8,8 e in 8,9 nell’un caso
o nell’altro. Queste differenze sono irrilevabili in apotomi concernenti bassorilievi scolpiti manualmente.
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ghezza 1 del Portale, è individuata dall’apotome 2 – 2 = 0,585786..., che nella
scala 1 : 42,8 mm. della figura 2 (allegata in calce al presente opuscolo) si
traduce in millimetri 25 e implica, nel bassorilievo, un’altezza di millimetri
0,585786x 880=515,5. Per passare da una misura t rilevata nella figura 2 alla realtà
del bassorilievo occorre dunque moltiplicare t per 880:42,8.
Al tentativo porge conferma l’abbassamento (di mm. 30 circa, nel bassorilievo) del piano di calpestìo del vano porta del Portale; questo abbassamento, che
così trova ragione di essere, istituisce un rapporto eguale a p fra l’altezza di
mm. 62,8 (nel disegno) e la larghezza di mm. 20 (nel disegno) del vano-porta.
Ulteriore conferma alla liceità di misurare in D1 = 2 – 2 l’altezza dell’architrave
proviene dal risultare numerato da D1 anche il tratto PT, compreso fra la base del piedritto e la sommità degli “urei solari” sovrastanti ai pilastrini ubicati davanti al vanoporta; il tratto TU, compreso fra la sommità degli “urei” e l’intradosso dell’architrave
risulta allora misurato da 2–2D1 , ossia dall’apotome 2–2(2– 2 )=2 2 –2=E1 .
La scansione dell’altezza del Portale nei tre apotomi D1 =2– 2 ; E1 =2 2 –2 ;
D1 =2– 2 non sarà ascrivibile a casualità se anche le modanature dell’architrave
UZ e dei piedritti PT risulteranno tutte individuate da apotomi della successione
dei “numeri geometrici delle forme”, esposta nell’APPENDICE II.
Nella figura 2, l’altezza PT è suddivisa nei tratti PR = mm. 17,8 e RT = mm. 7,2;
pertanto PR è numerato da C1 = 2 – 1 , che nella scala 1 : 42,8 implica appunto
mm. 0,414214... x 42,8 = 17,7. Il tratto RT è numerato da C2 = 3 – 2 2 = 0,171573, che
in scala dà 0,171573...x 42,8=7,3 mm., eguali ai 7,3 mm. effettivi.
Numerata da E2 = 6 – 4 2 = 0,343146... appare anche la parte UV dell’architrave, cui nella figura 2 corrispondono 0,343146... x 42,8 = 14,6 mm.; la parte VZ
risulta D2 = 3 2 – 4 = 0,242641... x 42,8 = 10,4 mm., in accordo con ciò che, di questa porzione del manufatto, è ancora visibile.
Le partizioni del capitello RT dei pilastrini sono deducibili dalla fotografia
riprodotta in figura 3. La larghezza del pilastrino è stata rilevata in mm. 70
del bassorilievo, dove il Portale occupa la larghezza di mm. 880; nella fotografia il pilastrino risulta di mm. 16 circa. La scala di lettura di una grandezza x comparente nella fotografia è perciò data dalla proporzione
16 : 70 = x : 880, da cui x = 201,1 mm. Nella fotografia D3 = 10 – 7 2 = 0,10050...
dovrebbe risultare di mm. 0,10050... x 201,1 = 20,2; vi occupa in realtà mm.
21,2.20 C3 = 5 2 – 7 occupa a sua volta mm. 0,071068... x 201,1 = 14,3, in tollerabile accordo con le risultanze di fatto; vi occupa infatti mm. 15,2 . La
somma C3 + D3 dà C2 = 3 – 2 2 = 0,171573..., dunque teoricamente, nel bassorilievo, mm. 34,4, contro i mm. 36,5 risultanti dalla fotografia.
20 La fotografia testimonia che lo scultore, dopo aver iniziato a incidere troppo in basso la
parte destra della mensola, abbia cercato di rimediare all’errore nella parte sinistra.
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Il costatare che i pilastrini antistanti il Portale si elevano, sul piano
di spiccato del piedritto, della grandezza D1 che misura anche l’architrave, ha indotto a misurare TU in E1 = 2 2 – 2; il tratto TU concerne però
non una partizione del Portale, ma la relazione fra entità distinte: Portale
e pilastrini. Nei piedritti del Portale, TU = 2 2 – 2 nulla indica.
Nel tratto QU ciascun piedritto ospita quattro formelle, separate da tre modanature; una quarta modanatura, di spessore minore, separa QU dallo zoccolo PQ.
Nella figura 2 ogni formella è alta circa 12 millimetri, corrispondenti a una
partizione di 12 : 42,8 = 0,280374..., cui non si attaglia alcun apotome della successione “delle forme”, riportata nell’APPENDICE II. Le partizioni più prossime a
0,280374... sono la D2 = 3 2 – 4 = 0,242641... e la E2 = 6 – 4 2 = 0,343146..., che implicano, rispetto all’altezza h di ogni formella nel bassorilievo, differenze intollerabili: rispettivamente h – D 2 = (0,28037... – 0,24264...)880 = mm. 33,2... ed
E2 –h= (0,343146...–0,280374...)880= mm. 55,2....
I piedritti del Portale debbono perciò concernere un discorso matematico
diverso dall’individuazione di partizioni della successione di apotomi “delle
forme”. Concernono invece ancora questi apotomi le
D6
tre modanature che, in ciascun piedritto, separano le
C
6
quattro formelle; la figura 3 attesta che ciascuna moC5
danatura è composta da tre bande, la maggiore delle quali appare identica a C 5 , sicché è formata da
C6 = 99 – 70 2 = 0,00505... e D6 = 99 2 – 140 = 0,007143..., i
quali risultano appunto tali che:
C6 +D6 =(99–70 2 )+(99 2 –140)=29 2 –41=C5 .
Dalla figura qui a lato si evince che la sottile modanatura sovrastante lo zoccolo del piedritto potrebbe
risultare costituita da C6 = 99 – 70 2 = 0,005051..., che nel
‘vivo’ del bassorilievo implicherebbe uno spessore di soli
4,4 millimetri, palesemente non valutabili in pietra scolpita manualmente. Una misura troppo sottile per poter
essere valutata singolarmente può però risultare determinabile con precisione tramite suoi multipli. Ed ecco in
quale modo il bassorilievo realizza il marchingegno.
Nella figura 2 lo zoccolo del piedritto risulta
alto circa mm. 9,5, corrispondenti, se rapportati alla
base OO del Portale assunta eguale a 1 , a
una partizione di circa 9,5 : 42,8 = 0,22 , dunque
prossima a D2 = 3 2 – 4 = 0,242641.... Se PQ fosse individuato da D 2 , e tenuto conto del fatto che
D6 C
6
C5
C5
C6
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E1 = 2 2 – 2 = ( 2 – 2 ) + ( 3 2 – 4) = D1 + D2 , l’insieme 2D1 + E1 = 2 , che suddivide
il complesso “pilastrini + Portale”, potrebbe tradursi, nel Portale, nell’insieme 3D1 + D2 . In un multiplo di una delle bande delle modanature che
separano le formelle potrebbe allora trovarsi di che colmare la minore
altezza dello zoccolo del piedritto, rispetto all’altezza implicata da D2 .
Verso la scelta della banda indirizza la modanatura C6 , che separa PQ dall’inferiore delle formelle; quattro C6 implicano 4(99–70 2 )=4x 0,00505...=0,02020...;
allora PQ risulta D 2 – 4 C 6 = 0,24264.. . – 0,02020... = 0,222438... , che nel piedritto
implica millimetri 0,222438...x 880=195,7.
Anche tre partizioni D6 = 99 2 – 140 formerebbero la grandezza 0,021428...;
allora PQ = D2 – 3 D6 risulterebbe 0,24264... – 0,021428... = 0,221213 x 880 = 194,6 mm.;
la differenza fra le due soluzioni è perciò, nel bassorilievo, di 1 solo millimetro. A
far propendere per le quattro partizioni C6 è il risultato che ne consegue. Infatti, se
i piedritti del Portale sono numerati da 2D1 +4C6 +(D2 –4C6 ), il tratto QU è:
QU=2D1 +4C6 =2(2– 2 )+4(99–70 2 )=2(200–141 2 ),
2 =0,595888... si traduce, nel Portale largo 880 millimetri, nella grandezza:
e 200–141 0,595888... x 880 = 524,381... mm.,
che è uno dei valori ammissibili per il cubito sacro egizio.
Il messaggio tramandato dai piedritti si corona dunque nell’esprimere nell’apotome D1 +E6 =(2– 2 )+(198–140 2 ) il cubito di una raffigurazione le cui modanature sono tutte misurate da apotomi della successione “geometrica dei sapienti”.
Il Libro X di Euclide mostra come questa successione sia direttamente implicata dalla sequenza primaria, senza involgere l’intervento dell’entità che Platone
chiama “il ± (ma` llovn te kai; h|tton)” e dalla quale si originano i numeri che il
Filebo 56e7,8 destina a “costruttori” e “mercanti”. Pertanto nell’àmbito della
‘gerarchia’, stabilita dal Filebo 59c2-6 (cfr. nota 16), gli apotomi D1 ed E6 , con cui
il bassorilievo numera il cubito, risultano “meno mescolati” dei monomi dell’aritmetica “mercantile e tettonica”, in cui la nostra mente monometrica obbliga a
tradurli. È perciò un controsenso numerare con monomi l’unità metrica di un
manufatto le cui modanature sono tutte scandite da apotomi “dei sapienti”.
L’impresa diventa aleatoria quando il bassorilievo risulta costituito dal riassemblaggio di frammenti in cui si era frantumato. È il caso, dunque, di chiarire
il criterio al quale mi sono affidato per venire a capo della misurazione di un
bassorilievo ridotto nelle condizioni rappresentate nella figura 1 (in calce al
presente opuscolo) e le cui misure risulterebbero irricostruibili se non fossero
scandite da apotomi “delle forme”.
La fotografia riprodotta nella figura 4 costituisce l’unico dato certo da
cui prendere l’avvio per un coerente dimensionamento del manufatto.
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L’altezza PT, indicata in mm. 68,5 (nella parte sinistra della fotografia) a numerare la partizione D1, concerne una porzione del bassorilievo non risultante da
ricomposizioni di frammenti; ricomposta è invece la larghezza AA del Portale,
indicata in mm. 118 nella fotografia. Il rapporto PT:AA, dove PT è individuato da
D1 =2– 2 =0,585786438..., dovrebbe essere tale che PT: AA=68,5:AA formi il rapporto 0,585786438...; allora però AA = 68,5 : 0,585786438 = 116,93 mm., contro i 118 mm.
implicati dalla fotografia. Dal che deduco che nella ricomposizione delle parti in cui
si spezzò la larghezza AA del bassorilievo, sia stata aumentata di 1 mm. nella fotografia, e di mm. 880:116,9=7 mm. nel bassorilievo, la larghezza originaria del Portale.
Per risalire dai mm. 116,93 della fotografia alla larghezza ‘in vivo’ del
Portale, appare coerente pensare che, anche qui come p. es. nel dimensionamento della Grande Piramide, i progettisti abbiano fissato in numeri non
eccessivamente frazionati le misure principali del manufatto.
Se l’unità di misura fosse il cubito, larghezza del Portale potrebbe essere
quella di 1,7 cubiti, che per un valore del cubito di mm. 524 involgerebbe
AA = m m . 890,8 ; la scala di lettura della fotografia risulterebbe allora
890,8:116,93=7,6182...:1. Poiché D1 =0,585786... occupa, nella fotografia, 68,5 mm.,
il tratto QU , che appare misurato da 2(D 1 +E 1 ) = 2 x 0,595888... , vi occuperà
2 x 68,5 x 0,595888 : 0,585786 = 2 x 69,68 millimetri, cosicché il cubito risulterebbe
69,68 x 7,6182... = 530,7... millimetri. Allora però gli 1,7 cubiti dovrebbero formare
la larghezza di mm. 902,3, sicché si avrebbe 902,3 : 116,93 = 7,7166... quale scala
della fotografia; QU verrebbe numerato da mm. 2 x 69,68 x 7,7166 = 1075,38... e il
cubito risulterebbe 1075,38...:2=537,7 mm. E così di seguito.
Se invece si assume in mm. 880 la larghezza del Portale nel bassorilievo,
la scala di lettura della fotografia è 880 : 116,93 = 7,5258... e QU è misurato da
mm. 2 x 69,68 x 7,5258 = 139,36 x 7,5258... = 1048,8...; il cubito è 1048,8 : 2 = 524,4 mm.
e la larghezza del bassorilievo permane 116,93 x 7,5258... = 879,99... millimetri.
L’altezza QU, così determinata in mm. 139 circa, trova ottima rispondenza
nella figura 4, dove individua, in U, una lieve ma nitida traccia che verosimilmente concerne l’intradosso dell’architrave.
Anche se si misura in 890 millimetri la larghezza AA del Portale, sicché la
scala di lettura della fotografia diventa 890 : 116,93 = 7,6114..., il tratto QU risulta
139,36... x 7,6114... = 1060,72... mm.; la frantumazione del bassorilievo implica
dunque la possibilità di quantificare il cubito 200–141 2 =0,5958877 in:
0,5958877... x 880 = 524,4 mm. oppure in 0,5958877... x 890 = 530,35 mm.,
dove 880 mm. e 890 mm. coincidono con le larghezze del Portale, rilevate dal
tecnico, cui si è accennato nella nota 19. Il valore di 524,4 mm. appare preferibile
perché è il più prossimo al cubito di p : 6 = 523,3... mm., desumibile dal rapporto
628:200=3,14, stabilito per p dalle dimensioni del vano-porta del Portale.
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Il Portale del Terzo Pilone di Karnak e i “numeri delle Forme ideali”
Sulla soglia del Tempio, il corteo che porta nel mondo la “barca salvifica” di
Ammon trova un simbolo che di quel mondo dà un’incisiva immagine; la configurano le due schiere di 7 cobra, asserragliate in vetta a contrapposti pilastri e
rese incomunicanti dall’abisso – la logica del ‘sì o no’ – che, tenuto conto delle
rispettive dimensioni, le separa. L’altezza delle schiere è stabilita dall’apotome
C3 = 5 2 – 7; da C3 è misurata anche quella dei due urei che, sull’architrave del
Portale, affiancano il grande “sole” in cui la composizione si corona.
L’Alterità dominante nel mondo esterno al Tempio fa sì che le schiere dei
cobra non solo si contrappongano l’una all’altra – ritenendosi ciascuna vettrice di verità e bene –, ma si frantumino anche nella pluralità di particolaristici “occhi solari”, di dimensioni ostentatamente diverse (cfr. figura 3),21
che ne caratterizzano l’ergersi ‘regale’ (l’ureo è appunto simbolo regale).
Stipato in un àmbito contesogli da altri, ogni ureo – ogni Re, fazione o
individuo – tende a credersi detentore del vero “occhio solare” e per quel
“simulacro di Elena” (cfr. Repubblica 586c) 22 combatte, sanguina, s’immola.
Sono però proprio il cogliersi ‘stipati’ e la necessità, per sopravvivere, di
difendersi dagli altri a promuovere la sapienza:23 dapprima per utilizzarla
nell’orizzonte di una logica ‘di Kronos’ che, tendendo a eliminare i contrari
sgraditi, si pone in contrasto con l’amicizia di contrari grazie alla quale
Ammon-Zeus conferì stabilità al turbolento mondo che Kronos aveva fondato
sul tentativo di sopprimere ogni potenziale presenza ostile. Mossa dalle sempre maggiori sofferenze causate da soprusi e conseguenti ‘vendette’, innescate
dalla logica del ‘sì o no’, l’umanità sarà infine indotta a riconoscere la convenienza di adeguare statuti e costumi al concerto amichevole di contrari
che la matematica ideale, evocata dall’apotome C3 = 5 2 – 7 (cfr. pp. 13,14),
conferma istitutivo dell’ordine cosmico. La “inversione di rotta” sarà però
fattibile solo quando la sapienza avrà dato all’uomo mezzi tecnologici che lo
rendano ‘signore’ e potenziale ‘ordinatore’ della Terra.
Le due schiere contrapposte di cobra evocano dunque un’umanità che il
rispetto di Ammon per l’Alterità ha lasciato in balìa di Ptah (=delle contingenze
materiali), ma alla quale la ‘bontà’ divina porge, affinché la istradi verso salvezza,
il dono della musica (armonizzatrice di acuto e grave, dunque di contrari). Il 7,
21 L’altezza delle due schiere di cobra, che delimitano superiormente l’apotome D che misura il
1
tratto PT della figura 2, è stata determinata dai più grandi degli “occhi solari” di cui alla figura 3.
22 Repubblica 586c: “Per un simulacro di Elena, dice Stesicoro, i guerrieri si combatterono
sotto le mura di Ilio perché non conoscevano la vera Elena, realmente degna di contesa perché è
figlia non di Tindaro, ma di Zeus”.
23 “L’uomo – si legge nel Protagora 321c5,6 – fu gettato nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi” in
una landa che il Salmo 44:20,23 dice “luogo di sciacalli, dove per Te, Signore, veniamo uccisi ogni giorno”.
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numero sacro a Osiride, che misura le due schiere di cobra, le conferma appunto
chiamate, da Ammon, a conciliare le inimicizie nell’unità del “grande sole”
dell’architrave del Portale; i due cobra che l’affiancano attestano – proprio
perché continuano a guardare in direzioni diverse – che il mondo potrà stabilizzarsi, perché si uniformerà alla Giustizia cosmica, solo se rispetterà l’Alterità che
concorse a formarlo.24 E dalla musica le schiere dei cobra sono anche indotte a
elevarsi, dall’àmbito degli apotomi addizionabili, cui appartiene C3 = 5 2 – 7, a
quello della sequenza incorporea formata dagli apotomi con indici 1, 2, 4, 8, 16,
etc., collegabili solo da operazioni di elevazione a potenza e di estrazione di
radice quadrata, caratterizzanti appunto la sintassi musicale.
Nell’ascesa degli urei dai contrapposti pilastrini al fregio del Portale è simbolizzata dunque quella dell’umanità verso una ‘Terra’ che tutti, pur cercandola in
direzioni diverse, ci sentiamo ‘promessa’. A rendere “festanti” i cortei, che
portano nel mondo la “barca” di Ammon e il mondo al di Lui Tempio, è la
convinzione – avvalorata dalla matematica evocata dall’apotome 5 2 – 7, che
misura i cobra – di stare ascendendo, da un mondo ‘ferino’ di divisioni e inimicizie, verso la serena convivenza di contrari promossa dall’unità, realmente
“solare”, raffigurata in fregio al Portale. Verso questa unità dovrà invero procedere – con il favore del vento, ossia, ripeto, quando i Cieli saranno propizi al
culto di un divino “del quale si hanno manifestazioni reali”, quale è appunto la
matematica “delle forme” – il corteo della figura 1: “l’ureo che il Re, unificatore
delle due corone dell’Alto e del Basso Egitto, porta sulla fronte, renderà amici i
nemici”, conclude la leggenda di Neferty, riassunta nella nota 3.
All’ureo sulla fronte del Re e al sole che, sul frontone del Portale del
Terzo Pilone di Karnak, pacifica i due cobra, porgono fermo conforto matematico i quadrati 50 e 49 dei “nomi” 5 2 e 7 dell’apotome C3 = 5 2 – 7; da
50 e 49, infatti, il Libro X degli Elementi di Euclide deriva (cfr. pp. 12-14)
quelli dell’intera successione degli apotomi “delle forme” del Repubblica e
della sequenza primaria dei numeri delle Forme ideali.
Il Portale dei bassorilievi di Karnak si allinea dunque alla Grande Piramide di Giza nel tramandare i numeri “geometrici delle forme” e quelli delle
“Forme ideali”. Accenna anche, tramite p , alla sezione aurea f , che è 5 p : 6 ,
e sottolinea, attraverso la pluralità di sommatorie di apotomi “delle forme”
con cui possono formarsi i monomi 2, 2 e 1, la possibilità di considerare
“secondi e inferiori” – come li predica il Filebo 59c2-6 (cfr. nota 16) – i
monomi dell’aritmetica tecnicistica.
Nel paragrafo seguente mostrerò come la matematica della Grande Piramide e del Portale di Karnak sia tramandata, identicamente, dal Pentateuco.
24
Cfr. Parmenide 142a6-8.
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La matematica dei numeri “delle forme” e “delle Forme ideali”
nel Pentateuco
A sottendere all’Antico Testamento la sezione aurea, la matematica dei numeri
geometrici “delle forme” e quella “delle Forme ideali” sono due convergenti ordini di indizi: da un lato la minuziosa descrizione – altrimenti strana in un testo sacro – delle dimensioni dell’Arca di Noè, del Tempio di Salomone, del futuro Tempio della Città Promessa (cfr. Ezechiele 40-48); dall’altro gli intervalli di scansione
di un sistematico ordito di parole-nascoste, presenti in tutti i Libri del Pentateuco e
leggibili saltando, di volta in volta, un certo qual numero di lettere del testo.
Degli indizi, esposti nelle pp. 260-296 di Da Giza,25 evoco qui sommariamente quello che reputo il più incisivo: un intreccio di parole-nascoste che
collega il messaggio matematico celato nei primi cinque versi del Libro centrale del Pentateuco, il Levitico, al diverso ma convergente messaggio matematico scandito da parole nascoste negli altri quattro Libri.
Secondo antiche notizie raccolte da Elie Munk,26 il Levitico è Libro centrale del Pentateuco perché gli fu affidata la funzione di “formare Israele alla
missione messianica e alla vocazione ideale” che lo renderanno “regno di sacerdoti e nazione santa” (Esodo 19:6). L’esegesi moderna nega invece al Levitico
funzioni formative: “Il Levitico – scrive p. es. Alfonso M. Di Nola – 27 è
opera che manca di tematiche profondamente religiose e che corrisponde
[solo] alla preoccupazione sacerdotale di definire lo status di privilegio del
gruppo detentore del sacro attraverso una regolamentazione minuta e spesso opprimente del rapporto umano con Dio, avvertito nella Sua distanza e
numinosità, e della intermediazione sacrificale”.
La lettura del Levitico, in effetti, giustifica pienamente il commento del
Di Nola; la frase iniziale del Libro, però (“Il Signore chiamò Mosè nella
Tenda di Convegno e gli parlò in questi termini...”), induceva anticamente il
commentatore Rachi a precisare (riporto ancora parole di Munk): “La voce
dell’Eterno, che all’interno della Tenda di Convegno aveva l’intensità del
tuono, all’esterno non s’intendeva affatto. Il messaggio divino, cioè, è recepito solo da chi gli si è portato vicino [...]; quelli che sono lontani nulla
intendono di ciò che dice a chi è nella Tenda di Convegno”.
Mostro come, a conferire “vicinanza al Signore”, sia un incrocio di
parole nascoste, che collega il Levitico e la sezione aurea – introdotta dagli
25
26
27
Indico così il mio Da Giza-Sion-Atene. Per una città della scienza, Firenze, Olschki, 2000.
ELIE MUNK, La voix de la Thora, Paris, Fondation Samuel et Odette Lévy, 1998.
ALFONSO M. DI NOLA, in Enciclopedia delle Religioni, Firenze, Vallecchi, 1970, voce Bibbia, p. 1484.
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intervalli di scansione delle parole-nascoste “YHVH ” – alla matematica ideale egizio-platonica correlativamente evocata, in ciascuno degli altri Libri del
Pentateuco, dagli intervalli di scansione delle parole-nascoste “Torah”. Ecco
come la parola nascosta “Torah” è sottesa al Genesi:
Se si parte dalla prima lettera tau (= t) che s’incontra nel Genesi e si saltano 49 lettere, si arriva a una waw (= o); se si saltano di nuovo 49 lettere,
si capita su una resh (= r); saltando ancora 49 lettere s’incontra una he (= h).
L’insieme delle lettere così individuate forma la parola-nascosta “Tor(a)h”,28
che si dice scandita con intervalli 50.
La parola-nascosta “Torah” è scandita con intervallo 50 anche nell’Esodo, a
partire dalla prima lettera tau del primo verso. Nel Levitico è invece nascosto,
con intervalli 8, il Tetragramma YHVH, leggibile a partire dalla prima yod (= y)
del primo verso. Nel Numeri è di nuovo nascosta la parola “Torah”, scritta però
a ritroso con intervalli – 50 (il segno ‘–’ indica appunto l’inversione del senso di
scrittura) a partire dalla prima heth che s’incontra nel primo verso. Infine nel
Deuteronomio è scritta, di nuovo a ritroso, la parola-nascosta “Torah”, con intervalli – 49 e con inizio nella prima heth del quinto verso.29
Le parole-nascoste, che collegano i cinque Libri del Pentateuco, formano
perciò lo schema seguente:
50
Genesi
50
Esodo
8
Levitico
–50
Numeri
–49
Deuteronomio
Nella scrittura ebraica, che va da destra a sinistra, lo schema risulta:
–49
Deuteronomio
–50
Numeri
8
Levitico
50
Esodo
50
Genesi
sicché in entrambi gli schemi il Levitico appare fulcro noetico della Torah e
28 Vocali come la ‘a’ di “Tor(a)h” non compaiono nella scrittura ebraica; altre vocali, come p. es.
la ‘o’ di “Tor(a)h”, sono indicate con una consonante (la waw, nella fattispecie).
29 Commentatori israeliani spiegano che nel Deuteronomio la parola-nascosta “haroT ” ha inizio
nella prima lettera heth del quinto verso del primo capitolo perché i primi quattro versi di questo
Libro riepilogano avvenimenti già narrati nei Libri precedenti.
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annuncia che, a fare d’Israele la nazione pronosticata “santa” nell’Esodo,
sarà l’Idea di Giustizia definita dagli intervalli 8 con cui il nome-nascosto
YHVH vi è scandito. Nel Genesi, infatti, lo “YHVH” nascosto è leggibile, con
intervalli 64, a partire dalla prima yod del primo verso, e 64 è la gematria
(cfr. p. 7) di Dyn = Giustizia; pertanto lo 8, radice quadrata di 64, con cui il
Tetragramma “YHVH” è scandito nel Levitico, suggerisce di cercare in questo Libro il radicamento terreno della Giustizia di YHVH : il legame bimetrico stabilito dalla sezione aurea, regolatrice della fillotassi e delle supreme
simmetrie sensibili cui accenna l’Epinomide 981b3-c4 (cfr. p. 10).
La radice quadrata della Giustizia 64 di YHVH indirizza anche a ricavare le
radici 5 2 e 7, “nomi” dell’apotome C3 =5 2 –7, dalla coppia “epimoria” 49 e 50,
che ritma gli intervalli di scansione delle parole-nascoste Torah e haroT; da questa
coppia il Libro X di Euclide mostra derivabile l’intera sequenza bimetrica dei
numeri “delle Forme”, introduttiva appunto della Giustizia di YHVH. Questa è
dunque evocata da apotomi ideali e primari, che confermano come una sapiente
amicizia di contrari sia all’origine, oltre che delle massime armonie naturali delle
forme sensibili, anche delle supreme armonie “incorporee” da noi perseguibili.
Lo “Y HVH ” nascosto con intervalli 8 nel primo verso del Levitico è
accompagnato da altri quattro “YHVH”, nascosti nei primi 7 versi del Libro
medesimo e scanditi, rispettivamente, da intervalli 21; 13; 34; 5.
Ordinati in progressione,30 i cinque numeri 5, 8, 13, 21, 34, ognuno dei
quali è somma dei due che lo precedono, configurano la successione, oggi
chiamata “del Fibonacci”, formata da monomi dell’aritmetica dianoetica che,
in p. 11, si sono mostrati poter nascere “secondi e inferiori” ai numeri
bimetrici istitutivi della sezione aurea f = ( 5 + 1) : 2 = 2 : ( 5 – 1).
Le parole-nascoste “YHVH” e “Torah”, sottese ai primi cinque Libri del
Pentateuco, formano pertanto, con i loro intervalli di scansione, la ‘croce’
30 Poiché, per simmetria con le parole-nascoste “Torah” negli altri Libri del Pentateuco, lo 8 doveva comparire nel primo verso del Levitico, il 5 venne posposto agli altri numeri “del Fibonacci” e il
13 fu inserito fra il 21 e il 34.
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schematizzata qui sotto. Per significare che funzione ‘cosmica’ della Torah è
guidare Israele e l’umanità, tramite la matematica delle Forme ideali, verso
la civiltà di YHVH, le parole-nascoste “Torah” e “haroT ” convergono verso il
Tetragramma nascosto nel Levitico; questo stesso convergere sottolinea
anche che la matematica ideale si radica nella sezione aurea e nei fenomeni
da questa modulati (fillotassi, etc.), che ne sono l’emanazione sensibile: la
“presenza (shekhinah)” cui YHVH affidò la funzione d’istradare la sapienza
umana verso la “Tenda di Convegno con il Signore”.
Nello schema sopra tracciato trova dunque ragione di essere l’ordito di
parole-nascoste sotteso al Pentateuco, che matematici israeliani hanno riportato
alla luce soprattutto nella seconda metà del secolo XX, ma del quale non si era
trovata, finora, giustificazione calzante: “The equal intervals phenomenon”
– scrive p. es. Daniel Michelson – 31 sicuramente “reflects a hidden design, but
we are far from understanding the rules of this design, in particular from understanding what stands behind the numerical values of all the different intervals”.
La “croce” di parole-nascoste centrata sul Levitico: a) - dà corpo agli
antichi rimandi a sostrati esoterici di questo Libro e ne fa il fulcro noetico
della concezione di mondo del quale Y HVH (e non più Elohim) sarà il
“Signore”; b) - conferma la tesi che fonda sulla matematica filosofica egizia
“delle forme” e “delle Forme ideali” la concezione di mondo che il
Pentateuco, l’Antico Testamento e la Bibbia mirano a istaurare; c) - consente di
considerare “secondi e inferiori, perché più mescolati” (cfr. Filebo 59c2-6, in
nota 16), i numeri monomiali dell’aritmetica “dei costruttori e dei mercanti” e
certifica, grazie alle relazioni addotte in p. 11, l’idoneità della mente umana a
costruire un insieme matematico compiutamente razionale e che pertanto,
dando conto della stabilità riscontrata nel nostro Cielo, attesta la legittimità di
fondare sulla matematica la ricerca scientifica;32 d) - testimonia che razionalità
31
32
DANIEL MICHELSON, Codes in the Torah, Jerusalem, «Shamir», 1987, n° 6.
Legittimità messa in dubbio, p. es., da ERWIN SCHRÖDINGER, che ne L’immagine del mondo
(Torino, Boringhieri, 1963) si chiede: “Chi ci garantisce che, di fronte all’insieme costituente l’oggetto della ricerca scientifica – insieme di complessità senza confronti maggiore di quella dei numeri naturali –, abbiamo in mano il giusto punto di partenza e la giusta chiave di ricerca? Se lo si
crede, si tratta solo di un dogma”.
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e stabilità non sono realizzate, nell’ordine cosmico, in modo da autorizzarci a
basare statuti e costumi sull’eliminazione dei contrari sgraditi – come Elohim
comanda nello 1:28 del Genesi –, ma si fondano sul contemperarli in amicizia,
previo contenimento in giuste misure sia di ciò che ci appare ‘cattivo’, sia di
ciò che appare ‘buono’. La scienza dell’Era di YHVH dovrà appunto indirizzarsi verso la ricerca di queste “giuste misure”.33
Concludo ribadendo la ragione per cui l’antica sapienza ‘mediterranea’
nascose i messaggi idonei a introdurre nella “Tenda di Convegno con il
Signore”. A YHVH il 45:7 di Isaia fa dire: “Io formo la luce e creo le tenebre;
opero il bene e creo il male”. Per rendere possibile l’avvento del Dio che
invita a rispettare la presenza, sulla Terra, di ciò che a noi appare deprecabile,
occorreva dapprima che l’umanità – simbolizzata nel “più derelitto” popolo:
Israele (cfr. Salmo 119:87) – si desse un Elohim che le comandasse di “soggiogare la Terra e riempirla di noi”:34 impresa incompatibile con il culto di un
Dio che invita a rispettare l’Alterità. Saranno i patimenti, causati dal procedere, nelle Ere degli Elohim, in direzioni divergenti da un ordine naturale
fondato sull’amicizia dei contrari, a promuovere infine l’avvento del “Figlio di
Davide” e l’edificazione della ‘Città di YHVH’. Il quale è “Dio di Giustizia”
proprio perché fa sì che sia l’Alterità stessa, con i suoi eccessi, a spingere
l’uomo, suo strumento, a farsi infine vettore, sulla Terra, di equilibri di contrari congeneri a quelli con cui YHVH conferì stabilità al nostro Cielo.
Il frammento di bassorilievo riportato sulla copertina del presente opuscolo sta appunto a significare che dalla “forza delle cose” – dal “vento”
che fa vela della tunica – sarà sospinto verso il Tempio di Ammon-ZeusYHVH anche il ‘renitente’: il quinto personaggio del corteo raffigurato nella
figura 1, che guarda indietro, verso il mondo di Elohim.
33 “Per mostrare che cosa sia, in sé, l’esattezza – scrive Platone nel Politico 283c3-284d2 – si
deve dividere in due la metretica (284d2-e2): che è scienza concernente lunghezza e brevità, ma
anche supero e difetto [...]. Situeremo perciò in una delle parti ciò che concerne relazioni di reciproca grandezza e piccolezza; nell’altra ciò che risulta essere secondo la necessaria essenza genetica
degli enti [...]. Se ignorassimo il rapporto che gli enti hanno con la giusta misura, vanificheremmo
le scienze che, come l’arte tessile e la politica, si occupano di ciò che eccede o difetta il giusto metro
e che, salvando la misura, pervengono a compiere in perfezione e bellezza tutto ciò cui si applicano [...]. Dell’esigenza di commisurare il ‘più e meno’ in relazione al prodursi della misura giusta ci
si dovrà ricordare quando si vorrà chiarire in che cosa consista, in sé, lo ‘esatto’ (tajkribev")”.
34 Per sottolineare che Elohim e YHVH sono vestizioni, unitariamente concepite, di un medesimo Dio, entrambi questi nomi sono nascosti nel I capitolo (così detto ‘elohista’) del Genesi. Per
significare che sarà Elohim a evolversi in YHVH, il nome “Elohim” è nascosto nei versi 7-10 con
intervalli 26 eguali alla gematria del Tetragramma YHVH; per significare che YHVH è “Dio di
Giustizia” (a differenza di Elohim che, dopo aver chiamato l’Alterità a formare gli animali “ciascuno secondo la propria Specie”, tenta di porre fine a guerre e stragi “dando erba, per cibo, a tutti”),
il Tetragramma è nascosto nei versi 1-6 con intervalli che evocano la gematria 64 di Dyn-Giustizia.
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APPENDICI
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APPENDICE I - RIFERIMENTI GRECI ALLA SAPIENZA EGIZIA
Filebo 16c: “Furono gli Antichi,* più valenti di noi perché vivevano più
vicini a Dei [visibili], a tramandarci la rivelazione che ciò che viene chiamato
‘sempre essente’ risulta un ‘uno e molti’ perché riunisce in sé la natura del
limite e quella dell’illimite”.
Filebo 17c11-e6: “Sarai sapiente quando conoscerai quanti e quali intervalli separino il tono più acuto dal più grave e padroneggerai i numeri che
li scandiscono e le composizioni che ne derivano. Gli Antichi scoprirono quei
numeri e li tramandarono a noi, che li seguiamo, insegnandoci a chiamarli
‘armonie’, così come le consimili evenienze [compiutamente razionali] che si
esplicano nei movimenti del Corpo [celeste].** Di questo Genere di numeri ci si deve servire perciò per indagare ogni ente uno-e-molteplice; sarai
sapiente quando saprai afferrare una qualsiasi unità [= forma unitaria] indagandola in questo stesso modo. L’indeterminatezza e molteplicità, presenti in
ogni ente, ti condannano a restare vago nel pensare, perché inesperto di
numeri compiutamente razionali (logismoiv) e di numeri dianoetici (ajriqmoiv),
finché non sarai capace di scorgere, in ogni ente, un numero [definito]”.
Filebo 26b7-e8: “Vedendo la tracotanza e abiezione delle cose tutte, fu
proprio lei, la Dea,*** a imporre legge e ordine apportatori di limite e
capaci di salvarci [...]. La salvezza ci viene da un ‘terzo uno’ che è Idea
(25b5,6) ed è l’insieme generato da giuste misure dei due Generi del limite
e dell’illimite. È questa giusta misura a farsi genesi verso una essenza stabilita da metri che realmente limitano e salvano”.
Timeo 21e1-23d1: “La Dea che per voi ateniesi è Athena e per noi egizi
Neith, ebbe in sorte e nutrì la vostra città mille anni prima della nostra
– dice a Solone un sacerdote egizio –: novemila anni orsono (23d4-e6).
Senonché le cose accadute presso di noi o altrove, e che sapemmo ascoltare quando avevano alcunché di bello o grande o altro spicco, tutte scolpimmo fin dall’antichità nei templi, e così salvammo. Presso di voi e gli
* Questi “Antichi” non possono essere identificati con i Pitagorici, come l’esegesi sostiene, perché nel Timeo 22b4-8 Platone fa dire a un sacerdote egizio: “Voi Greci siete un popolo ancora giovane: non avete conservato alcuna opinione antica, né avete raccolto insegnamenti resi canuti dall’età”.
** Che si tratti delle “danze” degli astri e non di ballerine, come alcuni sostengono, è convalidato p. es. dall’Epinomide 982e3-6: “Ciò di cui tutti i viventi necessitano è portato a compimento dalla
natura degli astri, in un’evoluzione e in una danza che è la più bella e grandiosa di tutte le danze”.
*** Chi sia questa “Dea”, scambiata per Afrodite dall’esegesi, è detto nel Timeo 21e1-23d1
(vedi sopra, nel testo).
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altri popoli, invece, a scadenze di tempo pressoché regolari irrompe, come
mostro impetuoso, un diluvio, che lascia vivi solo gli ignari di lettere e Muse:
i pastori che vivono sui monti. Ritornate perciò ogni volta giovani, nulla
sapendo di ciò che accadde anticamente”.
Leggi 656d1-657b1: “È mirabile che in Egitto si trovino pitture e sculture antiche di diecimila anni – diecimila, e non così per dire –, eguali a
quelle prodotte ora, con identica arte. Il loro restare identiche è d’immenso
valore per i riflessi che implica sulle leggi e sugli statuti dello Stato. Il che
è vero anche per la musica; deve ascriversi a un Dio o uomo divino il prodigio che rese possibile stabilire colà melodie che riproducono, eternandolo,
ciò che secondo Natura è più giusto”.
Leggi 819a8-820d2: “In Egitto i fanciulli apprendono, già negli anni in
cui studiano la grammatica, ciò che attiene ai logismoí [numeri compiutamente
razionali], inducendoli ad applicare a giochi le relazioni intercorrenti fra i
numeri necessari [al connettersi naturale delle forme]. Poi, fissando l’attenzione sulle metretiche concernenti lunghezze, superficie e volumi, i maestri
liberano gli scolari dall’ignoranza ridicola, ma insita per natura negli uomini
tutti, dei problemi involti dall’irrazionale,* ignoranza confacevole più a suini
che a uomini [...]. Apparentati con gli errori concernenti gli irrazionali sono
infatti altri errori, che rendono del tutto insipiente chi non sappia discernere le diverse nature in cui si originano i rapporti di commensurabilità e quelli d’incommensurabilità;** la metretica di chi ignori i problemi implicati
dall’incommensurabilità non si differenzia, sostanzialmente, da una tombola”.
Fedro 274c5-275b2: “Fu Theuth a scoprire numero e logismós, geometria
e astronomia, quindi tombole, dadi e lettere della scrittura.
Presentatosi con le sue scoperte al Re Thamous, adducendole capaci di
dare alle genti memoria e sapienza, Theuth si sentì rispondere: Padre della
scrittura, le attribuisci il contrario del suo effetto; genererà infatti solo oblio
e oscurità in chi pretenderà d’imparare tramite suo, non dal di dentro di sé,
* Nella tendenza a sorvolare sui problemi aperti dalla comparsa dell’irrazionale matematico
Platone vede manifestarsi il desiderio, comune a tutti gli uomini, di vivere in una plaga nella quale
non predomini l’ajpeiriva-indeterminatezza.
** Nature dove sussistono rapporti di compiuta commensurabilità sono quelle, bimetriche, dei
logismoí che regolano l’Anima cosmica e i movimenti del nostro Cielo. L’incommensurabilità si origina perché la Giustizia divina vuole che il predominio di Medesimezza nell’intelligibile e nel nostro
Cielo sia equilibrato da quello dell’Alterità sulla Terra e in noi; per questa ragione ci è stata data
mente monometrica, che costringe a dissolvere in irrazionale, rendendoci strumenti di Alterità e liberi, una delle due unità istitutive dei numeri bimetrici divini.
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ma dal di fuori, su schemi altrui [...]. Potendo aver nozione di molte cose
senza vero approfondimento, gli scolari si crederanno dotti, mentre nulla
realmente sapranno. Imbottiti di opinioni, anziché sapienti, dialogare con loro
sarà penoso”.
Epinomide 986e9-987a6: “Un’antica tradizione nutrì i primi che, in Egitto
e Siria, si applicarono in giusto modo allo studio dei fenomeni celesti [...].
Da quei Paesi le osservazioni astronomiche, colà facilitate da cieli tersi e verificate in gran numero di anni, si diffusero ovunque, e anche in Grecia”.
Apprendere che a infondere “rispetto per il divino” sia un’astronomia,
“stupirà chi ignori quanta sapienza il vero astronomo debba avere [...] per
indagare le evoluzioni astrali in un modo cui non saprebbe accedere chi
non partecipasse di natura meravigliosa”. “Massimo e primo”, fra gli insegnamenti da apprendersi dall’astronomo – sèguita il 990b8-c5 – è “la matematica ‘incorporea’ che presiede all’intera genesi del ‘dispari e pari’ [cfr.
nota 14] e concerne la potenza che da quel máthema s’irradia sulla natura
degli enti”. E “meraviglia non umana, bensì divina – chiarisce il 990c5-d6 –
è appunto quella che sarà scoperta da chi saprà meditare il fatto che la (compiuta) razionalità si manifesti quando si elevino alla seconda potenza numeri che, come p. es. 2 e 1 , appaiono non congruenti ( ouj k oJ m oiv w n )”.*
Proprio sull’incommensurabilità di numeri i cui quadrati sono commensura-
* Nella nota 17 ho accennato come il concetto di razionalità adottato dalla matematica “delle
forme” si fondi sull’ajnqufaivresi"-ajntanaivresi" che Aristotele, in Topici 158b29-159a2, così espone:
“Stanno nella stessa ratio le coppie di apotomi che hanno la stessa antiferesi; è questa la definizione che rende manifeste talune proprietà [ignorate dal concetto dianoetico di rapporto, che raffronta grandezze incommensurabili, perché bimetriche, costringendone una a esprimersi in decimi,
centesimi, etc. dell’altra]”.
La basilare proprietà messa in luce dall’esprimere il rapporto fra le grandezze A e B attraverso la successione n0 , n1 , n2 , etc., dei numeri interi di volte in cui B sta in A, poi quello in cui A–B
sta in B, e così di sèguito (cfr. nota 17), consiste nel riunire in un medesimo Genere le grandezze
commensurabili in lunghezza, e quelle commensurabili solo in potenza con lo 1. Il rapporto 2 :1,
p. es., ha ratio antiferetica [1, 2], con 2 periodico; ciò significa che 1 sta in 2 una volta, che il
resto 2 –1 sta in 1 due volte e così di seguito, sicché la ratio antiferetica del rapporto ( 2 :1):1
è [ 2], periodica, ed è, dunque, numero “dicibile (rJhtovn)”, così come lo è, nell’aritmetica dianoetica, il rapporto 4:3=1, 3.
Sul fatto che siano periodiche la ratio antiferetica di 2 :1, che è [1, 2 ], quella di ( 2 :1):1, che
è [ 2], quella di (2– 2 ):1, che è [ 2 ], si basa il Socrate che, nel Teeteto 148b3, saluta con le parole “a[ristav g’ajnqrwvpwn, w\ pai`de" - per uomini cose stupende, ragazzi!”, l’annuncio della unificabilità “eij" e{n - in un unico Genere”, chiamato appunto “dicibile (rJhtovn)”, dei numeri commensurabili in lunghezza con la propria radice quadrata (chiamati “mhvkh”: i quadrati 1, 4, 9, 16, etc.), di
quelli commensurabili solo con il quadrato della propria radice (detti “dunavmei"”: i numeri 2, 3, 5,
6, etc.) e, con essi, degli apotomi in APPENDICE II. Il Teeteto 148b3, dunque, anticipa la Definizione
III del Libro X degli Elementi e preannuncia la “divina meraviglia” del 990c5-d6 dell’Epinomide: l’umana conquista della razionalità matematica.
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bili, invero, si basa l’unica compiuta razionalità pervia alla mente umana:
quella, “antiferetica”, della successione degli apotomi “delle forme” e della
sequenza degli apotomi “primari epinomidei” delle Forme ideali, esposte in
p. 35 dell’APPENDICE II.
Il richiamo ai “cieli tersi” dell’Egitto, accompagnato dagli inni del
Filebo e del Fedro al Theuth “inventore di logismós e di numero, di geometria e astronomia”, attesta dunque che Platone ascriveva agli Egizi la
scoperta della matematica rivelatrice dei Principî istitutivi delle regolarità
celesti, che risultano stabili appunto perché sono governate da numeri compiutamente scevri d’irrazionalità. A Platone si allinea Aristotele che scrive:
Metafisica 981a24-b25: “Il tecnico è più sapiente di chi ha solo esperienza, perché conosce le cause di ciò che fa [...]; le sensazioni, invece,
non spiegano il perché delle cose [...]. Perciò i maestri d’arte sono ritenuti più sapienti degli esecutori: dirigono con la mente e conoscono le
cause del loro operare [...]. È dunque naturale che chi scoprì un’arte elevandosi al di sopra delle sensazioni venisse ammirato come uomo di
superiore scienza. E quando le tecniche s’indirizzarono a rendere più
agiato il vivere, furono ritenuti più sapienti coloro le cui conoscenze spaziavano al di là delle mere necessità. Si passò infine a coltivare scienze
dirette non più al soddisfacimento di bisogni o piaceri; ciò avvenne, per
la prima volta, là dove ci si rese liberi da cure materiali. Perciò le matematiche furono coordinate [in scienza], per la prima volta, in Egitto, perché colà la casta sacerdotale poteva vivere negli ozi ”.
“Poiché la tecnica – si legge nell’Etica Nicomachea 1140a –, pur
basandosi su ragionamenti veridici, verte su ciò che potrebb’essere altrimenti, mentre la scienza mira alla verità-in-sé, dunque a ciò che è
necessario e universale, le scienze teoretiche – conclude il 981b25-982a3
del Metafisica – saranno più sapienti delle poietiche. È chiaro, perciò,
che la sapienza è conoscenza di taluni principî e cause”.
“E siccome supreme forme del Bello – incalza il 1078a36-b6 del
Metafisica – sono ordine, commensurabilità e la presenza di limite, le matematiche sono le scienze più idonee a chiarire la causa che è causa come
la è il bello”.
Autore che, come d’altronde Aristotele, non è certo imputabile di
tenerezza per le metafisiche iniziatico-misteriche, è Isocrate, che in Busiris
27-28 conferma: “Se il tempo non mi fosse tiranno, potrei raccontare meraviglie sulla profondità di pensiero dei sacerdoti egizi; non sono il primo
né il solo a scorgerla, ma molti la conoscono, oggi come in passato. Fra
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costoro Pitagora: andato colà e fattosi scolaro di quei sacerdoti, per
primo portò in Grecia l’altra filosofia (th;n t’a[llhn filosofivan)” [‘altra’
rispetto a quella, demologica, coltivata da Isocrate]. Si noti che Isocrate
ascrive a Pitagora di avere introdotto in Grecia non tecniche matematiche, ma la metafisica.
Erodoto, Storie II, 55-57: “Le profetesse del tempio di Zeus in Dodona
raccontano che due nere colombe, volate via dalla Tebe egizia, giunsero
l’una in Libia, l’altra presso di loro. Questa, posatasi su una quercia,
ordinò con voce umana di costruire un tempio ad Ammon-Zeus.
In Egitto si narra invece che due donne, consacrate al Dio Ammon,
furono rapite dai Fenici e vendute l’una in Libia, l’altra in Grecia.
Questa fondò poi, dopo avere imparato il greco, l’oracolo di Dodona
[...]. Credo che le donne siano state chiamate ‘colombe’ dai Dodonei
perché, essendo barbare, emettevano voci simili a quelle degli uccelli. E
aggiungono che la colomba parlò con voce umana, alludendo a quando
si espresse in modo comprensibile”.
Stobeo, Hermetica, 23°, 5-8: “Lo Hermes egizio [= Theuth] riuscì a
penetrare nei misteri celesti e li rivelò in Libri sacri, che scrisse di suo
pugno e nascose poi ‘nella terra’, in modo che le generazioni future li
cercassero, ma che li trovasse solo chi ne fosse pienamente degno e li
sapesse utilizzare a beneficio dell’umanità intera”.
Giamblico, Myst. 1°, 1,3 e 8°, 4.266-6.268: “Pitagora e Platone, nei
loro viaggi in Egitto, pervennero a leggere, con l’aiuto dei sacerdoti, le
stele di Hermes-Theuth [...]. Gli Egizi distinguono, sia nell’àmbito cosmico sia in quello umano, la vita ‘naturale’ da quella dell’anima e della
mente [...]. E ritengono che, per ascendere alle regioni divine, si debba
smettere di affidarsi ad alcunché di materiale o ad altri mezzi, e cercare
solo il kairov" [= ciò che rende questo mondo il migliore fra i possibili;
cfr. Politico 284e6; Fedone 98a6-b1]. Theuth mostrò ai posteri questa via,
che il profeta Bitys interpretò al Re Ammon, dopo averla scoperta, scritta in geroglifici, in un tempio dell’egizia Sais. Theuth fece traversare l’intero mondo dal nome di Dio”.
Termino la rassegna, certo non esaustiva, dei rimandi greci alla
sapienza matematico-filosofica degli Egizi col richiamare un passo di Proclo
che l’esegesi interpretò forzandolo nel senso di limitare alle nozioni necessarie all’agrimensura l’interesse di quei sacerdoti per la geometria. Nel
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Commentario al Libro primo degli Elementi di Euclide, Proclo non dice
invece che la geometria egizia si esaurì in agrimensura, bensì solo che la
geometria si sviluppò, in Egitto, a partire dall’agrimensura.
Proclo, 64-65 Friedlein: “Poiché bisogna indagare i principî sia delle
tecniche sia delle scienze epistematiche, conveniamo anche noi con i
molti storici che riferiscono che la geometria venne scoperta, per primi,
dagli Egizi, in quanto se ne servivano, in origine, per misurare i terreni, i cui confini venivano sconvolti dagli straripamenti del Nilo. Non
sorprende, pertanto, che l’invenzione di questa tecnica e delle altre discipline epistematiche (ejpisthmw` n) abbia avuto origine da necessità [materiali] e, come succede di ogni cosa del mondo della generazione, abbia
proceduto dall’imperfezione verso perfezione. Così [anche in Egitto] l’invenzione della geometria e delle altre discipline sarebbe avvenuta ascendendo dalle [imperfette] percezioni sensibili al logismós [alla perfezione
del compiutamente intelligibile e razionale]: ajpo; aijsqhvsew" ou\n eij" logi smo;n kai; ajpo; touvtou ejpi; nou`n hJ metavbasi" gevnoito a]n eijkovtw" . Come
presso i Fenici furono le necessità dei commerci e degli scambi a dare
avvio a uno studio [poi] accurato (ajkribhv") dei numeri, così presso gli
Egizi l’invenzione della geometria ebbe origine dalle cause menzionate”.
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APPENDICE II
Successione degli apotomi [delle forme] del Repubblica
I
II
III
IV
V
C
D
2C
2 –1
2– 2
2 2 –2
3–2 2
3 2 –4
6–4 2
5 2 –7
10–7 2
10 2 –14
17–12 2
17 2 –24
34–24 2
29 2 –41
58–41 2
58 2 –82
C
D
2C
577– 408 2
577 2 –816
1154–816 2
XIII
XIV
XV
XVI
C
D
2C
33461 2 – 47321
66922– 47321 2
66922 2 –94642
114243–80782 2
114243 2 –161564
228486–161564 2
195025 2 –275807
390050–275807 2
390050 2 –551614
1665857– 470832 2
1665857 2 – 941664
1331714–941664 2
VIII
IX
VI
X
985 2 –1393
1970–1393 2
1970 2 –2786
3363–2378 2
3363 2 – 4756
6726– 4756 2
VII
99–70 2
99 2 –140
198–140 2
1692 –239
338–2392
3382 – 478
XI
XII
5741 2 –8119
11482–8119 2
11482 2 –16238
19601–13860 2
19601 2 –27720
39202–27720 2
Relazioni fra gli apotomi “geometrico-filosofici delle forme”
(secondo Proclo-Teone)
Ck +1 = Dk – Ck
Dk +1 = 2Ck – Dk= Ck – Ck +1
2Ck +1 = 2Dk – 2Ck
Sequenza degli apotomi primari “epinomidei” delle Forme ideali
C1 = 2 – 1
D1= 2 – 2
E1 = 2 2 – 2
C2 = 3 – 2 2
D2 = 3 2 – 4
E2 = 6 – 4 2
C4 = 17 – 12 2
D4 = 17 2 – 24
E4 = 34 – 24 2
C8 = 577 – 408 2
D8 = 577 2 – 816
E8 = 1154 – 816 2
C16 = 665857 – 470832 2
D16 = 665857 2 – 9 41664
E16 = 1331714 – 941664 2
Relazioni fra gli apotomi primari
(secondo il Libro X di Euclide)
C2k = (C k ) 2
E2k = (E k ) 2 : 2 ( p e r k 4 )
Dk = E
2k (per k 4).
Le relazioni in base alle quali il Libro X genera gli apotomi primari con k 4
da D1, e fa nascere D1 in circolo con il suo potenziante, sono riassunte nello
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schema in p. 366 del mio Da Giza (citato nella nota 25). Trattasi di relazioni
assai complesse e, a detta di Euclide, “non compendiabili”.*
Espongo qui, invece, il metodo seguìto nell’Epinomide per chiarire
“dove e come (o{ph/ kai; o{pw" - 990b2-4)” s’impari la matematica “che
rende sapiente l’uomo”. Per mostrarlo, l’Epinomide, anziché descrivere il
concatenarsi degli apotomi “primari e incorporei”, desume le coppie dei
“nomi” di C2k e di D2k da quelle formate dai “nomi” di Ck e di Dk ; questi “nomi” possono allora trattarsi come monomi dell’aritmetica dianoetica “dei costruttori e dei mercanti”.**
I Greci, d’altronde, rappresentavano gli apotomi in forma di pseudofrazioni al cui numeratore ponevano le unità ‘laterali’ 1 e al denominatore le unità ‘diagonali’ 2 ; così p. es.:
C1 = 2–1
D1 = 2 – 2
C2 = 3 – 2 2
D2 = 3 2–4
veniva
veniva
veniva
veniva
rappresentato
rappresentato
rappresentato
rappresentato
nella
nella
nello
nello
“duva" - diade”
“triva" - triade”
“hJmiovlio"”
“ejpivtrito"”
[1/1];
[2/1];
[3/2];
[4/3].***
È immediato allora appurare che lo pseudo-rapporto [3/2] = C2 è semisomma degli pseudo-rapporti [1/1] = C1 e [2/1] = D1. Infatti:
1 1 2
3
— — +— =—,
2 1 1
2
(
)
sicché i nomi di C2 sono costruibili come metà aritmetica (= semisomma) dei “nomi” di C1 e di quelli di D1. E così di seguito; lo pseudorapporto [17/12] = C4 , p. es., è metà aritmetica fra C2 e D2 :
1 3 4
17
— — +— =—,
2 2 3
12
(
)
Più complesso è individuare la regola che consente di dedurre D2 = [4/3] da
C1 = [1/1] e D1 = [2/1]. Emerge però che [4/3] istituisce con [1/1] la differenza
4/3 – 1/1 = 1/3, e che [2/1] istituisce con [4/3] la differenza 2/1 – 4/3 = 2/3; se questo
2/3 viene rapportato a 2/1 così come lo 1/3 di 4/3–1/1 è rapportato a 1/1, si ha che
anche la differenza 2/1–4/3, divisa per 2/1, dà il rapporto 1/3 (infatti 2/3:2/1=1/3).
Il rapporto per cui 4/3 supera 1/1 di una quota parte 1/3 di questo, che
risulti eguale alla quota parte 1/3 del termine superiore 2/1 di cui questo supera
4/3, è chiamato rapporto istitutivo della metà “armonica”.
* Un antico aneddoto racconta che al Re Tolomeo, che gli chiedeva se non esistessero mezzi più spediti per imparare la sua geometria, Euclide avrebbe risposto: “Gli Elementi non ammettono vie regie”.
** Ciò ha portato l’esegesi a confondere i numeri dell’Epinomide con quelli dianoetici e a considerare
spurio quel Dialogo; sarebbe invero imperdonabile Platone se, dopo aver diffidato i filosofi dal far nascere il
2 da somme o divisioni dello 1 (cfr. Fedone 101b9-d5: “Ti guarderai dall’assumere quale causa del diventare
due l’aggiungere un uno all’uno o il dividere lo uno in due”), avesse fatto consistere la matematica filosofica in
idealizzazioni di numeri della geometria che l’Epinomide 990d2 e il Repubblica 527a6 proclamano “ridicola”.
*** ÔHmiovlio" significa “un intero più una metà”; ejpivtrito" è il rapporto “rispetto al tre del
numero immediatamente superiore al tre”.
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Appunto deducibili dai “nomi” di C2 = [3/2] e di D2 = [4/3], tramite la relazione di metà “armonica”, sono i “nomi” y di D4 =17 2 –24=[24/17]. Infatti:
4
4
3
3
( y – —3 ) :—3 = ( —2 – y ) : —2 ,
da cui
24
y= — ,
17
cosicché si conferma la relazione caratterizzante la metà “armonica”:
24 4
4
3
24
3
( —17 – —3 ) : —3 = ( —2 – 17— ) : —2 ,
Ed ecco la generalizzazione che, dei risultati sopra esemplificati, dà
l’Epinomide 991a4-b4:
La proporzione [“incorporea”, secondo cui tutta la Natura modella Genere e
Specie - cfr. 991a1] procede verso la metà fra un numero e il suo doppio [p. es.
fra 1 e 2] ed è modulata da due termini medi: uno individua il numero che supera l’estremo inferiore di una quantità eguale a quella di cui è superato dal superiore [x è perciò la metà aritmetica individuata dalla relazione x – 1 = 2 – x, da cui
x = 3/2]. L’altro termine medio, di natura diversa ( e{teron), supera l’estremo inferiore ed è superato dal superiore di una stessa loro quota parte [è dunque la metà
armonica, determinata da (y – 1) : 1 = (2 – y ) : 2, da cui y = 4/3]. Si formano così lo
hJmiovlio" 3/2 e l’ejpivtrito" 4/3, numerati dagli interi 9 e 8 se l’intervallo fra un
numero e il suo doppio ha per estremi 6 e 12. Con la sequenza modulata da 3/2 e
4/3, e che procede verso la loro metà, fu dato agli uomini di usare accordo e coerenza di metro [concordia di diversi (1 e 2 ) e commensurabilità così conseguita
(cfr. nota 17 e nota * di p. 31)], al servizio di un gioco di ritmo e armonia, concesso [dagli Dei] a un coro di Muse, ispirato dal Bene.
Resta da mostrare che questo passo dell’Epinomide concerne i “nomi”
dei termini C2k e D2k della “Sequenza degli apotomi primari ‘epinomidei’
delle Forme ideali” di p. 35, e non numeri monomiali dell’aritmetica che
il Filebo 56e7,8 destina a “costruttori” e a “mercanti”.
Se concernessero monomi “matematici”, le frazioni 3/2; 4/3; etc. non
risulterebbero “incorporee” – quali le predica invece il 990c6,7 – perché
[3/2], p. es., essendo metà aritmetica [1/1 + 2/1] : 2 fra 1/1 e 2/1, conterrebbe “parti”.
Ancor più incisiva è la conferma che, alla riferibilità delle frazioni
dell’Epinomide 991a4-b4 agli apotomi ideali, proviene dal 990e1-991a1:
Divino e meraviglioso è ciò che [si rivelerà] a coloro che sapranno scorgere e meditare il modo in cui, vertendo sempre sul doppio, [con i rispettivi quadrati, i rapporti istituiti da] la diagonale e la linea che le è opposta,
secondo ciascuna delle relazioni [così stabilite e fra loro] analoghe, tutta la
Natura modelli Specie e Genere.
Questa frase esclude, innanzitutto, che i numeri, di cui l’Epinomide
parlerà nel seguito della trattazione, siano numeri monomiali dell’aritmetica dianoetica; se lo fossero, infatti, i rapporti fra loro multipli individuerebbero un unico rapporto, e non un complesso di rapporti idonei,
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ognuno, a rappresentare una forma. Dalle coppie 2 e 1 , 4 e 2 , 8
e 4 , etc., i quadrati dei cui rapporti vertono tutti sul 2 , si ottiene
infatti sempre la coppia formata dagli apotomi 2 – 1 e 2 – 2 .* Tendono
inoltre a farsi eguali a 1, mentre l’Epinomide 990e1-991a1 li dice eguali
a 2, i rapporti:
(3/2) 2 :(4/3) 2
=
1,26...
;
(17/12) 2 : (24/17) 2
=
1,0069...
;
(577/408) 2 : (816/577) 2 ;
=
1,000006...
Diventano invece tutti eguali a 2 , i rapporti [2/1]2 : [1/1]2 ; [4/3]2 : [3/2]2 ;
[24/17]2 : [17/12]2 ; etc., soltanto se sono addotti a rappresentare i quadrati dei
“nomi” degli apotomi primari D2k e C2k del prospetto di p. 35; allora:
(2– 2 ) 2 :( 2 –1) 2 =(6–4 2 ):(3–2 2 )=2,
ossia (D1 ) 2 : (C1 ) 2 =2C2 : C2 =2
2 –4) 2 :(3–2 2 ) 2 =(34–24 2 ):(17 – 12 2 )=2,
ossia (D2 ) 2 : (C2 ) 2 =2C4 : C4 =2
(3 2 –24) 2 :(17–12 2 ) 2 =(1154–816 2 ):(577 – 408 2 )=2,
ossia (D4 ) 2 : (C4 ) 2 =2C8 : C8 =2
(17 2
2
2 –816) :(577–408 2 ) =(1331714 – 941664 2 ):(665857 – 470832 2 )=2,
(577 ossia (D8 ) 2 : (C8 ) 2 =2C16 : C16 =2
Non è dunque pagina felice dell’esegesi quella scritta da chi, rinunciando a risolvere un ‘indovinello’ per la cui soluzione il 990e1-991a1
porge, limpida e semplice, la ‘chiave’, ha preferito dichiarare “spurio”, perché “indegno della penna di Platone”, l’Epinomide.
E2k , addotte in
Alle notazioni euclidee C2k = (Ck )2 ; E2k = (Ek )2 : 2; Dk = p. 35 perché contemplate dalla dimostrazione della natura ideale e primaria degli apotomi “delle Forme”, l’Epinomide 991a4-b4 conduce pertanto
a sostituire le espressioni (•), addotte nel seguito della presente pagina.
Se si indicano rispettivamente con Ak e Bk il numero delle unità ‘laterali’ 1 e il numero delle unità ‘diagonali’ 2 dell’apotome Ck , la terna
con indici k è formata dagli apotomi:
(•)
Ck =Ak –Bk 2
;
Dk =Ak 2 – 2 Bk
;
Ek =2Ak – 2Bk 2
Il “nome” A2k dell’apotome C2k , poiché dev’essere somma dei quadrati
dei “nomi” di C k , risulterà (A k ) 2 + 2(B k ) 2 = 2 (A k ) 2 – 1 , perché (B k ) 2 = (A k ) 2 – 1
sono numeri epimori. A sua volta B2k sarà doppio prodotto dei “nomi” di Bk ,
dunque 2Bk Ak . Perciò la terna con indice 2k sarà costituita dagli apotomi:
(•) C2 k =[2 (Ak )2 –1]–2Ak Bk 2 ; D2 k =[2 (Ak )2 – 1] 2 –4Ak Bk ; E2 k =[4 (Ak )2 – 2]– 4Ak Bk 2.
* Il Politico 266a1-10 ha stabilito che un Genere si divide in Specie secondo le proporzioni
2 :( 4 + 2 ) e 4 :( 4 + 2 ) ; pertanto si ha 1:( 2 +1)= 2 –1 , così come risulta 2 :( 4 + 2 )= 2 –1 ,
come risulta 4 :( 8 + 4 )= 2 –1 , etc.
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APPENDICE III - LIVIO CATULLO STECCHINI E LA MATEMATICA “DELLE FORME”
Poiché fra gli argomenti del convegno figurano, grazie al professor
Stammer, gli studi di Livio Stecchini sulla numerologia della Grande
Piramide di Giza, credo opportuno segnalare come Stecchini sia pervenuto
– pur senza rendersi conto della reale portata della scoperta, perché sviato dalle vedute esegetiche imperanti – a scoprire le due fondamentali
relazioni epinomidee della matematica “delle Forme”, per tramandare la
quale la Grande Piramide fu costruita (cfr. pp. 10-11).
Il cubito adoperato nell’antichità – scrive Stecchini nell’opera citata – era
composto da sei palmi (hands) di quattro dita (fingers) ciascuno; il cubito regale egizio era invece composto da sette palmi, quindi da 28 dita. La ragione
per cui gli Egizi ricorsero a unità settimali di misura consiste nel loro prestarsi a metodi pratici di calcolo: gli agrimensori le coordinavano alle unità
di superficie di successioni ogni cui termine era doppio del precedente. Nei
calcoli pratici si assumeva infatti che il quadrato di lato 100 fosse doppio di
quello di lato 70 e metà di quello di lato 140 ; ciò implicava assumere
2 = 7/5 = 14/10 = 1,4 e 2 = 10 : 7 = 1,42857.... Per avere una migliore approssimazione si mediavano i due valori in (7/5 + 10/7) : 2 = 99/70 = (1,4 + 1,42857...) : 2 = 1,41428....
Arduo è pensare – non però per i Neugebauer e per i Gillings – che
il problema di duplicare un terreno quadrato in un terreno quadrato e
quello, improponibile, di dividerlo in due quadrati, si siano presentati agli
Egizi con frequenza tale da indurre i geometri a inventare un’unità di
misura ad hoc. Sostenere poi che un cubito, inventato per usi agricoli
– ma non c’era già quello di sei palmi? – sia stato proclamato “regale”
perché composto da sette palmi anziché da sei, equivale a sostenere che
il metro delle sarte, poiché è composto da 15 decimetri, e la canna degli
agrimensori, poiché è composta da 30 decimetri, siano misure più nobili
del metro e qualitativamente diverse.
Solo un’esegesi che si elegga interprete della sapienza antica senza avere
letto l’Antico Testamento può addurre che si avvalesse di un cubito
inventato “per usi rurali” il “messo del Signore che, tenendo in mano
una canna di sei cubiti, ciascuno dei quali era un cubito e un palmo”,
detta a Ezechiele misure di un Tempio “dove i cadaveri dei Re d’Israele
non abbiano soglia e stipiti accanto alla soglia e agli stipiti del Signore,
per non contaminarlo con la loro presenza” (Ezechiele 43:7-9). E si implicano, infine, usciti di senno Platone e Aristotele se li si fa incensare,
negli Egizi, i matematici che avrebbero considerato “scienza di principî e
cause” una disciplina che addurrebbe “regale e sacro” un cubito concernente sensibili: contraddizione imperdonabile a chi, come Platone, repu-
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tava assurdo “cercare conoscenze universali in alcunché di sensibile, che
continuamente muta” (cfr. Metafisica 987b6-9), e a chi, come Aristotele,
predicava che “l’esattezza matematica è reperibile solo in ciò che è privo
di materia” (cfr. Metafisica 995a15-17).
È Stecchini stesso, ancorché sviato dagli assunti dell’esegesi tradizionale, a incamminare verso soluzione il problema della “regalità-sacralità”
del cubito dei Templi egizi e vetero-testamentari, quando lo àncora alla
coppia [7/5] e [10/7] e alla coppia [99/70] e [140/99]. Lo àncora a queste coppie perché legge in Proclo, Teone e Porfirio* che i numeri 72 = 49
e (5 2 )2 = 50, poi i numeri 992 = 9801 e (70 2 )2 = 9800 costituiscono le coppie dei numeri “epimori”,** le cui radici danno i “nomi” degli apotomi:
C3 =5 2 –7=[7/5] ; D3 =10–7 2 =[10/7] ; C6 =99 – 70 2 =[99/70] ; D6 =99 2 – 140=[140/99].
È immediato allora, per chi abbia qualche dimestichezza con la matematica egizio-platonica “delle Forme ideali” e con l’Antico Testamento, inferire che il 7 presente nelle notazioni [7/5] e [10/7] è ‘sacro’ per la ragione stessa per cui sono ‘sacre’ la menorah dalle sette fiamme, la festa delle
sette settimane, le ricorrenze sabbatiche, etc. Menorah, sette settimane, etc.,
sono a loro volta entità ‘sacre’ perché il quadrato 49 di 7, accoppiato
con il suo epimorio 50 (Pentecoste, Giubileo, etc.), costituisce la coppia
dei quadrati dei “nomi” dell’apotome C3 = 5 2 – 7, che porge la chiave di
accesso alla sequenza primaria degli apotomi “delle Forme ideali” (cfr. p.
13). Infatti, inserita nell’espressione x + 2 x ( x + 1 ) di p. 13, implicata dal
lemma II premesso al X-29 di Euclide, la coppia 49 e 50 consente di
approdare all’intera sequenza degli apotomi “delle forme ideali”; originando
inoltre direttamente i quadrati dei “nomi” degli apotomi C2 = 3 – 2 2 e
C4 = 17 – 12 2 , la espressione 49 + 2 · 50 · 49 di p. 13 mette in evidenza la
relazione epinomidea C4 = [17/12] = (3/2 + 4/3) : 2 (cfr. APPENDICE II), istitutiva
della sequenza formata dagli apotomi con indici 1 ; 2 ; 4 ; 8 ; 16 ; etc., ossia
istitutiva della “sequenza primaria delle Forme ideali”, esposta in p. 35.
La sequenza cui appartengono gli apotomi C1 ; C2 ; C4 ; C8 ; C16 ; etc. è
quella che l’Epinomide 991a4-b4 afferma costituita dai numeri “incorpo* Nel fr. 47A17 Diels, Porfirio conclude: “I rapporti complessi ed epimori (oiJ de; pollaplavsioi lovgoi
kai; ejpimovrioi), in cui s’indagano le armonie matematiche, sono afferenti a termini incommensurabili fra
loro [...]. I termini non congruenti delle armonie nascono dunque ‘mescolati’ (givnetai ou\n ta; ajnovmoia tw` n
sumfwniw` n summigevnta); i Pitagorici chiamano appunto ‘mescolare’ il costituire lo ‘uno’ con coppie dei
suddetti termini incommensurabili (summivsgein de; levgousin to; e{na ejx ajmfotevrwn ajriqmw` n labei`n)”.
Nel Filebo 25b5,6 Platone scrive analogamente: “to; de; trivton to; meikto;n ejk touvtoin ajmfoi`n tivna ijdevan
fhvsomen e[cein - diremo ‘Idea’ il terzo risultante dalla mescolanza di queste due progenie, rispettivamente
del limite [=numeri di unità 1] e dell’illimite [=numeri di unità 2 ]”.
** Coppia di “epimori” è quella formata da un numero quadrato (p. es. 9801 = 992 ) che supera o
difetta di un’unità il doppio di un numero quadrato (p. es. 9800=2 x 4900=2·70 2 ).
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rei” che formano “il dono [degli Dei] al coro delle Muse perseguenti il
Bene (eujdaivmoni coreiva/ Mousw` n)”; è, dunque, la sequenza degli apotomi
che, con piena coerenza, possono proclamarsi “regali”, perché primari, e
“sacri”, perché ideali: umane imitazioni, compiutamente razionali, dei
Logismoiv divini “che consentono al [nostro] Cielo di rincontrarsi senza
necessità di interventi estranei” (cfr. Timeo 34a8-b9).
Sulle relazioni istitutive della sequenza epinomidea dei numeri “delle
Forme ideali” Stecchini ‘mette le mani’ quando scrive (7/5 + 10/7) : 2 = 99/70
e quando introduce poi, accanto a questo rapporto, il rapporto 140 : 99,
che implica la relazione “armonica” (cfr. APPENDICE II):
y– 7/5 10/7 – y
———=——— ,
7/5
10/7
da cui
140
y= —— .
99
Perciò da C 3 = [7/5] e da D 3 = [10/7] Stecchini deduce C 6 = [99/70] e
D6 = [140/99], grazie alle operazioni stesse con cui l’Epinomide deduce (cfr.
pp. 36, 37) C4 = [17/12] e D4 = [24/17] da C2 = [3/2] e da D2 = [4/3].
Stecchini testimonia dunque che dei numeri egizio-platonici permangono tracce nelle memorie matematiche a noi pervenute; tracce distorte,
però, in conseguenza della negazione occidentale di valenze filosofiche
alla matematica.
Anello di congiunzione della matematica alla filosofia, i numeri “delle
Forme” mostrano che razionalità e stabilità sono consentite unicamente dalla
amicizia dei contrari: risultanza invisa agli ordinamenti ‘di Kronos’, salutari per lo sviluppo della civiltà.* Da qui il tramandare la matematica ideale nel modo ‘criptico’ di cui il passo di Moshe Katz trascritto in p. 7 dà
eloquente esempio. Il conseguente oblio, in cui la matematica “delle
Forme” cadde, perché nascosta nei Templi e affidata a indizi inaccessibili ai ‘non iniziati’,** giustifica lo scetticismo dei Neugebauer sulla sapienza matematica egizia: tradotte sul piano dianoetico, scadono in ridicoli
espedienti per calcolare valori della 2 le relazioni fra gli apotomi che
la sapienza matematica sacerdotale celebrava “sacri” e che il Libro X di
Euclide mostra meritevoli dell’appellativo, perché formano l’unico insieme
capace di mimare i numeri divini che assicurano stabilità al nostro Cielo.
* Cfr. Leggi 712e9-713e6: “Le Città dell’attuale Era (tw` n nu` n) possono farsi solo imitazioni del
regno di Kronos e non meritano il nome di ‘politei`ai’ [riservato alle città che, allineandosi alla Natura,
fondano gli statuti sull’amicizia dei contrari]”.
** Un papiro demotico del III secolo a.C. celebra l’eccezionale sapienza del principe ereditario
Setne Khaemwēse, quartogenito di Ramses II (secolo XIII) perché “era istruito in tutte le scienze, sicché
sapeva leggere i Libri delle Scritture Sacre, quelli della Duplice Casa della Vita e le iscrizioni che si
trovano nelle stele e sui muri dei Templi”. Pur fra gli eredi al trono dei Faraoni era dunque dote eccezionale, ricordata ancora dopo un millennio, saper leggere le iscrizioni sacerdotali.
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EGYPTIAN ORIGINS OF GREEK MATHEMATICS
AND
CONNECTIONS WITH THE GREAT PYRAMID
by Gian Carlo Duranti
translated by Iain L. Fraser
For the building of cities in harmony with Nature,
the Egyptians, the Pentateuch, Plato, Aristotle and Euclid
offer a mathematics that reveals the Principles
of the cosmic order
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The numbers “of the forms” (tw` n eijdw` n)
in the Great Pyramid of Giza and other Egyptian monuments
Let me start by saying that my interest in the Egyptians was aroused by the
Greeks: it was their references – summarized in APPENDIX I – that gave me a
way of tackling, starting from the mathematics that Plato and Aristotle say was
discovered by the priests of Ammon, the enormous though chaotic mass of information collected by Egyptologists and astronomers in two centuries of research
into the civilization of the Nile.
I must make clear immediately that Egyptian/Platonic mathematics is quite
different from the ordinary mathematics, that is, the mathematics that uses
numbers made up of undifferentiated, indiscriminately associable units. The
numbers the West takes as “natural” – which Plato in Philebus 56e7,8 reserves to
“builders and merchants”, and Aristotle calls “mathematical” (cf. e.g. Metaphysics
987b14-18 – suit only amorphous matter or things without qualities; they can
accordingly tell the philosopher nothing. For the world the philosopher is
concerned with consists of “forms” that are at the opposite pole from the undifferentiated, indiscriminately associable numbers. Every form, indeed – as Aristotle
stresses in 987b14-18 just cited – is a “one of each”, of which there is only one
example, which can neither be duplicated nor associated with other forms (cf.
Metaphysics 1083a27-35); all that can be doubled or added are amorphous quantities (lengths, weights) or things without qualities,1 and therefore entities which, says
Aristotle, exist “not in things, but only in our mind” (cf. Metaphysics 1027b29-31).
1 Forty years ago Konrad Gaiser of the Tübingen School conquered the world by instead making
Plato “idealize” the “mathematical” one, two, three etc.; the Tübingers and their cohorts spent twenty
years convincing themselves that if idealizations of “mathematical” numbers can rise into “ideal numbers”,
then mathematics cannot be considered “philosophical” and one must preach the “institutional deficiency
of any form of philosophy that takes as a model the mathematical method” [cf. HANS KRÄMER, La nuova
immagine di Platone, Napoli, Bibliopolis, 1986, p. 64; VITTORIO HÖSLE, Zu Platons Philosophie der Zahlen,
in “Theologie und Philosophie” (Heft 3, 1984, pp. 324, 325), Herder, Freiburg-Basel-Wien].
Twentytwo centuries ago Aristotle wrote, in Metaphysics 1083a27-35, “If only ‘mathematical’ number
exists, One cannot be called a ‘principle’. In order for it to be so, we have to speak like Plato, calling
primary a dyad (duav") and a triad (triav"), and take these numbers to be unaddable,” so that they are
something radically different from mathematical two (duvo) and three (trei`").
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In Metaphysics 1092b16-23 Aristotle emphasizes that a fraction, e.g. 3/2, indicates quantity if it is a ratio between “mathematical” numbers, so that it has
nothing to say to the philosopher, who is concerned with essences; it becomes
representative of an essence when it expresses the proportion that obtains between
two qualitatively different entities, for instance – Metaphysics tells us – “between
three parts of fire and two of earth” [today we might say between three parts of
oxygen and two of iron; it then indicates the substance Fe2O3].
An essence can thus also be indicated, by analogy, by a number composed of,
say, 1 units and 2 units, which differ to the point of being incommensurable;
expressions like 2 – 1 or 3 – 2 2 , which Euclid calls “apotomes”, are accordingly
suited to representing essences and may be called “numbers of the forms” (tw` n
eijdw` n) if they constitute a “one of each” that can neither be doubled nor added to
other “ones”, as Metaphysics 987b14-18 tells us is true of these apotomes.2
If, then, one could using apotomes of this Kind construct the fully rational
mathematical set that cannot be obtained with the monomes considered “natural”
by Western mathematics – which indubitably presides over what Plato calls “the
conversing of our Heaven with itself without need of outside intervention” (cf.
Timaeus 34a8-b9) – then it would be admissible to deduce, as Aristotle generalizes in
De Mundo 396b, that “Nature brings about harmonies with contraries, not with the
similar.” For anyone studying Nature cannot but take account of the results of mathematics; it would truly be absurd to investigate it using an instrument governed by principles contrary to the natural ones. The natural forms too, moreover, are blends of
‘contrary’ essences, so that the apotome, a mix of rational and irrational units, is
related analogically to the male-female, light-darkness ... wave-particle mixtures.
Thus if the mathematics “of the Forms” is aligned on Nature also in bringing
about harmonies – full rationality, in the specific case – by bringing contraries into
friendship, it becomes absurd and a cause of our sufferings to continue, once man
has the technological means to make himself ‘master’ of Nature, to pattern the
statutes of cities and ethical norms, as hitherto, on the elimination of hostile or
undesired contraries, instead of on proper means to make them coexist in friendship, not just in Nature but in the cities of men.
The Egyptians discovered this full rationality of the mathematical set consisting of
2 Metaphysics 987b14-18: “The ‘mathematical’ numbers are intermediate between things sensible and
the Forms (ei[dh); they differ from things sensible because they are moveless and timeless, but [from the
numbers] of the Forms because [of each ‘mathematical’ number] there are many equals of them, while that
number-form is a one-of-each (to;Ÿ de; ei\do" aujto; e}n e{kaston movnon)”.
In Egyptian/Platonic mathematics the existence of an infinite number of 1 units is a consequence of the fact
that each apotome Ck of the Ideal Forms (cf. the sequence set out in APPENDIX II) generates, through the involvement of an agent that Plato and Aristotle call the “Aorist Dyad of the ±”, a 1 monome. Thus we have, for instance:
(
2 –1)(
2 +1)=1 ; (3–2 2 )(3+2 2 )=1 ; (17–12 2 )(17+12 2 )=1 ; etc.
And since the ideal apotomes Ck are infinite in number, there is also an infinite number of 1 monomes.
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the numbers “of the Ideal Forms”, proof of the primary nature of which Book X of
Euclid’s Elements has handed down to us, and they entrusted indications sufficient to
evoke them to monuments that outlasted the centuries. However, it is natural to ask
why they did not make use of the discovery themselves.
They could not, because the conception attested by the mathematics “of the
Forms” first and foremost implies friendly equilibrium between the essences necessary
to make up a world (cf. Parmenides 142a6-8): Plato calls these essences, in Timaeus
35a1-8, “Sameness (taujtovn) and Otherness (qavteron)”. Thus God – or the cosmic
order, if one prefers to put it that way – would not have been just had He not balanced
the predominance given to Sameness in the World Soul and our Heaven, necessary in
order to permit life here below, by a predominance of Otherness on Earth.
In order on Earth too to fulfil the divine order without injuring the nature of
Otherness, that fulfilment had thus to be entrusted to an agent – man – free to be
the vehicle of both Sameness and Otherness. To this end man had a ‘monometric’
mind, precluding access to the divine bimetric numbers and impelling him instead
himself to become the standard-bearer of Otherness.
Created “naked, barefoot, with neither nest nor weapons” (cf. Protagoras 321c5,6)
and thrown into a world where “the impulse of creatures is to eat each other” (cf.
Epinomis 975a5-7) – so that the creatures tend to move in the opposite direction to the
friendship of opposites that confers stability on our Heaven – man has hitherto, in order
to survive, had to strive to eliminate hostile presences. The fact of being “broken ... in the
place of jackals, and ... for Thy sake [=to permit justice in the divine order] killed all the
day long” (cf. Psalm 44:20,23) has led humanity to build the wealth of technical resources
that will finally allow him what was precluded from the Egyptians: to be able to rule
Nature to the point of extending to Earth the equilibriums that ensure harmony and
stability in our Heaven. And it will be the very sufferings, ever increasing, that man
undergoes in consequence of having to proceed in the opposite direction from the friendship of opposites on which the cosmic equilibriums are founded that will finally convince
his freedom to become a vehicle of Sameness. The cosmic design is wise and in conformity with justice, then, since it causes Otherness itself, through excesses not seldom caused
by man himself, to persuade him to reverse himself from a creature subject to impulses
that make him a vehicle of Otherness into a wary standard-bearer of Sameness, which
leads to the fulfilment in beauty on Earth of the divine order (cf. Euthyphro 13e).3
3 This is why the Egyptian prophecy “of Neferty”, essentially repeated in the Jewish Sanhedrin 97a,
says that “before the advent of the King who shall unify the Crowns of Upper and Lower Egypt, the sun
shall be covered and men turn blind and deaf from its absence. The bed of the river shall become bank, the
bank water and the water bank. The north wind shall be opposed to the south wind, and Heaven shall have
no wind.... Foreign birds shall lay their eggs in the marshes of the Delta and nest close to man; people shall
welcome them and love them.... Speech shall hide from sight and hearing the dread consequences arising:
they shall live in confusion, making arrows of bronze and asking for bread with blood.... They shall live in a
cemetery.... But behold, a son of man [the King who unifies the two Crowns hitherto adversaries] shall have
an immortal name, forever: the uraeus he bears on his forehead shall make enemies into friends”.
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Only today, then, can one see emerging as feasible a “political” design fitting the Egyptian-Platonic mathematics. In the new, and ancient, conception of
the world, what awaits man is not mirages of happiness – which have proved
rich only in sorrows – 4 but alleviations that reduce our sufferings to an extent
that, since they are necessary to the equilibrium of the Whole, they can be
accepted ‘in joy’, as women accept the pains of childbirth.
This calm view, seeing the Great Pyramid of Giza as something rather more
edifying than a monument built to contain the sarcophagus of Pharaoh Cheops,
has however been cut off at the root by the Egyptologists and the historians of
science, whose position is authoritatively expressed by someone considered in the
twentieth century the greatest exponent of ancient science: Otto Neugebauer.
He writes:5
It is believed that the dimensions and orientation of the Pyramids express important mathematical constants, for instance an exact value of p, and profound astronomical knowledge. These theories are in open contradiction to any well-founded
knowledge supplied by archaeology and Egyptological studies regarding the history
and object of the Pyramids.... The Egyptians never had any original or abstract
idea: the accurate alignments of the Pyramids and Temples and the use of p are all
explicable as the outcome of a certain practical talent, rather than of deep thought.
Neugebauer rightly considers that Cheops, who lived around 2500 BCE,
was buried in the pyramid: the information is also confirmed by Herodotus.
Yet the reasoning of the astronomers who have considered the Great
Pyramid is no less well founded: from Piazzi-Smith and Proctor (second half
of the nineteenth century) to Antoniadi, De Santillana, Stecchini etc. (second
half of the twentieth century), all agree in calculating that the ‘descending
channel’ pointed in the years around 3440 and then around 2160 at
a Draconis, whereas in the interval between the two dates and for centuries
before and after them no other star would be visible up the channel. In turn
the ‘ascending channel’ and ‘Great Gallery’ pointed in the years around 3440
to the “culmination” of a Centauri, and in 3440 the ‘southern well’ of the
‘Directorate’ also aimed at the “culmination” of z Orionis, if its inclination
4 The fit between the Egyptian and biblical world-views I shall show existed in APPENDIX III allows
us here to adduce Isaiah 30:10-14: “[To those] who say ... to the prophets, Prophesy not to us true
visions, speak to us smooth words, prophesy illusory visions: thus says the Holy One of Israel. Because
you despise this word [the cosmic order given by God to beings], and trust in devious and dishonest
practices on which you lean for support, therefore this iniquity shall be to you as a breach ready to fall,
bulging out in a high wall, whose breaking comes suddenly in an instant. And it crashes and breaks like
an earthen jar shattered beyond repair, so that among the fragments not a shard is found to take an
ember from the hearth or to scoop water from a pool”.
5 OTTO NEUGEBAUER, The Exact Sciences in Antiquity, Princeton U.P., 1951; tr. it. Le scienze esatte
nell’antichità, Milano, Feltrinelli, 1974.
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is taken as 40° (Rudolf Gantenbrink calculated it at 39.6°). The well, however, stretches for many metres above the observatory platform, so it seems
consistent to think that the well pointed at a culmination subsequent to the
year 2400. Around the year 2500 the southern well of the ‘King’s Chamber’
pointed at z Orionis; around the year 2500 the northern well of the ‘King’s
Chamber’ pointed at the star a Draconis.
To bring the astronomers and the Egyptologists into agreement, information reported by Proclus in his Commentary on Timaeus suffices: he says
that the frustum of the Great Pyramid below the level O-O, on which the
‘King’s Chamber’ was later built, was intended as an astronomical observatory.6 It is hardly a discovery to boast of, then, if one deduces that around
3440 the frustum of the Great Pyramid intended as an observatory was
built, and that after nine centuries of astronomical observations devoted to
studying the precession of the equinoxes 7 the ‘King’s Chamber’ was built,
in the years around 2500, and the construction of the Pyramid completed.
6 The astronomer RICHARD A. PROCTOR had already noted, in The Great Pyramid Observatory,
Tomb, and Temple (London, Longmans, 1888), that the “Great Gallery” - 48m long, 8.50m high,
1.60m wide at the bottom and 1.0m at the top – “was, before the invention of the telescope, the most
suitable structure for astronomical researches, and conceptually similar to the observatories built in Delhi
and Benares”. The fact that the “Great Gallery” could have no other object than an astronomical one
is confirmed, apart from its shape, by the fact that the passage to get there is only 119cm high and
106cm wide (cf. R. BAUVAL and G. HANCOCK, Keeper of Genesis; tr. it. Custode della Genesi, Milano,
Corbaccio, 1997).
7 Precession shifts the equinoxes by 50.3 seconds of arc per year: 3 degrees every 216=33 ·23 years.
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I regard as more indicative by way of confirming that the Great Pyramid was
built at two different epochs the comparison of the value of the cubit used in
each of the two phases.
Isaac Newton took an interest in the Great Pyramid because an accurate evaluation of its perimeter at 1760 cubits – which Agatharchides, Court Geographer to
the Ptolemies,8 specified as 1/2 minute of latitude at the equator – was decisive for
the purposes of the theory of gravitation. Newton intuited that the cubit of the
‘King’s Chamber’ had to be such as to give it a measurement of 10 x 20 cubits. He
accordingly calculated the cubit at 20.63 British inches, amounting to:
20.63x 0.0025399978...=0.5240... metres.
According to information handed down by Herodotus – but unknown, I
believe, to Newton – the perimeter of the base of the Great Pyramid had been
designed to be equal to the measurement of the circumference of a circle with
a radius equal to the height of the Pyramid itself, namely 280 cubits. Accordingly,
the ratio 1760 : 280 = 6.285714... gives an approximate value of 2p = 6.283185....
Flavius Josephus (1 st century AD) in turn linked the ratio between the
perimeter and the height of the Great Pyramid to the circumference of the
bronze pillars of Solomon’s Temple, indicated in I Kings 7:15 as 12 cubits;
Newton knew this relation (cf. note 8). Applying, then, the value of the cubit
identified by Newton for the ‘King’s Chamber’ in the Great Pyramid to the 12
cubits of the circumference of Solomon’s pillars we obtain:
12x 0.5240... cubits =6.2880...≅2p .
Thus the pillars of Solomon’s Temple had a radius of around 1 metre and a
circumference of around 2p metres; it therefore seems permissible to deduce
that the Egyptian-Jewish cubit was one twelfth of 2p, i.e. one sixth of p and
one fifth of the square f 2 = 2.61803... of the golden section f (for f 2 : 5 , i.e.
2.61803... : 5 = 0.5236... is also a fitting value for the cubit).
It follows, then, that combining the information handed down by Herodotus,
Agatharchides and Flavius Josephus, the cubit that measures the perimeter of the
base of the Great Pyramid, equivalent to the circumference 1760 of a circle of
radius 280, is one twelfth of the ratio 1760 : 280 = 6.285714..., namely:
6.285714...:12=0.523810... metres,
and is such that 1760 cubits form approximately 1/2 minute of arc of the equatorial circumference of the Earth.
Accordingly, measuring the dimensions of the ‘King’s Chamber’ as 20x 10 cubits is
consistent with a cubit of 0.5240... metres; measuring the Great Pyramid’s perimeter as
8 On Agatharchides of Cnidus cf. C. M ÜLLER , Fragmenta Historicum Graecorum, Paris, 1849;
Geographi Graeci minores, Paris, 1855. Newton published his research on the cubit in A Dissertation upon
the Sacred Cubit of the Jews and the cubit of several Nations. His enquiries were however hampered by the
fact that relationships that ‘speak’ if expressed in metres mean nothing if expressed in British inches.
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1760 cubits and its height as 280 cubits is instead consistent with a cubit of 0.52381...
metres; the difference between these measurements – which would have dismayed
Newton, since it implies a difference of 14446 metres in the equatorial circumference
of the Earth – instead, in my view, confirms the construction of the Pyramid in two
different epochs. I draw this conviction from two ancient documents.
1. - It is well known that the Pharaohs not seldom usurped monuments of
their predecessors, substituting their own cartouche for the other’s. Here, then, is
the device to which Akhenaton resorted: he delimited the area consecrated to
Aton by “boundary stelae” announcing that “they are EXACTLY [sic!] 6 itrw, 1+3/4
khet, 4 cubits apart”.
Pretending to measure a distance of over 31 kilometres to an accuracy of 8
millimetres [for Akhenaton’s cubit is in fact 0.522... metres] is manifestly absurd;
the object of this ostentation can therefore only be to set the size of the “royal
cubit” of Aton, obviously different from Ammon’s that the potential usurpers of
Akhenaton’s monuments would use.
The itrw measures 10000 cubits, the khet 100 cubits; accordingly, the distance
between Akhenaton’s stelae works out at 6.0179 myria-cubits. We have said that
Ammon’s cubit, if measured in metres, is one sixth of p ; Aton’s is differentiated from it
by being the 6.0179th part of the real value of p . That makes Akhenaton’s cubit become:
p :6.0179=3.141593...:6.0179...=0.522... metres.
2. - I find no less than ‘touching’ the artifice adopted by the writers of the Old
Testament, religiously respected for three millennia, to set the value of the Jewish
sacred cubit.
In I Kings 7:23 we read that the “molten sea” in Solomon’s temple measured “ten
cubits from the one brim to the other: it was round all about, and its height was five
cubits: and a line of thirty cubits did circle it round about”. Moshe Katz comments:9
Checking the spelling of the word «
», which means “and a line”, we note
that it is spelt wrong: the correct version, for millennia noted in the margin, would
be «
», i.e. without the letter « ». Adding the numerical values of the letters
making up the two words [to give their gematria] gives 111 for the wrong spelling
and 106 for the right one. Multiplying the value 3 assigned in I Kings to the ratio
of the circumference of the sea to its diameter by the ratio between the gematria
for the wrong and the right spelling, we obtain for p the value 3 · 111 : 106 = 3.141509....
Ezekiel 40:5 says that the “reed” the Angel appearing in the prophet’s dream
uses to measure the dimensions of the future (but never built) Temple of YHVH was
“six cubits long, of a cubit and a hand breadth each”, i.e. 7 hands or p metres. It was
9 MOSHE KATZ, Bè Otioteah Nitnah Torah (The Torah was given in its letters), published by the
author, Neve Orot 609/1, Jerusalem, 1922. Katz’s work is entirely devoted to the words and numerical
canons hidden in the Pentateuch, of which I give an example on pp. 67, 68.
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thus a legitimate concern for the Hebrew priests to set the measure of the Jewish
sacred cubit at 3.141509... : 6 = 0.523585... metres, distinguishing it from the welter of
cubits used in the Egyptian monuments, since otherwise the measurements of the
sacred structures in the Old Testament would have been left indeterminate.
The “Egyptian royal cubit of 7 hands” has aroused the scholarly interest of
Livio C. Stecchini, who reaches conclusions worth illustrating in APPENDIX III,
since they evoke specifically – even if certainly not intentionally, which makes
his research even more interesting – the “numbers of the forms”.
Except for this happy mention by Stecchini, astronomy investigated through
the Great Pyramid and discussions of the sacred or royal cubit have not
touched on the mathematics “of the Forms”; their treatment has had the object
of warding off Neugebauer’s scepticism and showing how much ‘elasticity’ of
mind is required to approach the Ancients’ expository methods.10 It will now
be the design dimensions of the Great Pyramid that will guide us towards the
mathematics of the numbers Aristotle was to call “of the forms (tw` n eijdw` n)”.
The schematic figure below represents the median section through the Pyramid:
C
}
c = 220 cubits
Actual measurements h = 280 cubits
a=
a = 356 cubits
h = f
Observatory platform
O
P
O
O
A
a : c = 356 : 220 = 1.6181... ≅ f
a : h = 356 : 280 = 1.2714... ≅ f
h : c = 280 : 220 = 1.2727... ≅ f
h 2 = 280 2 = 78400 ≅ 78320 = 356 • 220 = a • c
c=1
To decipher the dimensions, it is enough to use Herodotus’s lapidary information in Histories II, 124, 5, where he writes: “th` " [puramivdo"] ejsti pantach`/
mevtwpon e{kaston ojktw; plevqra ejouvsh" tetragwvnon kai; u{yo" i[son - each face [of
10 In Altägyptische Religion (Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges., 1989) HELLMUT BRUNNER, professor of Egyptology at Tübingen, writes: “Man today should not connect Egyptian beliefs with his own;
he has to understand how those conceptions gave the Egyptians something to live for.... To be sure, among
Egyptologists one still hears the positivism of recent centuries, and it is with difficulty and rarely that one
moves from exposition of facts to asking after the direction in which the Egyptians coordinated them;
those who criticize these gaps must however bear in mind that Egyptology is a relatively young discipline
... and that Egyptian representations can be translated into the patterns of our age only to a very limited
extent.... We cannot transpose into the usual perspective their way of figuratively expounding and representing without something essential getting lost: we can understand only fragments of Ancient Egypt, and
can do so at all only by transferring ourselves into that world, by very difficult paths. Yet the outcome
can pay off: overall views of such value as to be gratifying can result..., because the real importance of the
religion of the Pharaohs lies in the fact that the Egyptians created a system complete in itself and vital to
itself: a system, then, for interpreting the world, proven to be a system through and by which a culture
and a civilization were able to live for three millennia. Which means nothing if not that the Egyptian religion had a share of truth.”
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the pyramid] is exactly equivalent to a square of eight plethra, and the height
equally [is the side of a square of eight plethra]”.11
Indicating by a the apothem of the Pyramid, by h the height and by c the
semi-base, which it is permissible to take as measuring 1, the relation given by
Herodotus implies that 1 · a = h 2 , from which it is clear that h = a .
Applying the so-called ‘Pythagoras’s’ theorem to triangle ABC, we obtain:12
a2 =1+h 2 , so that, since h 2 =a, it follows that a2 =1+a, whence a2 –a–1=0.
Solving this equation of the second degree in a, we have:
1+4 5 +1
1 a = — + ——— = ——— = f = 1.61803...,
2
2
2
so that
h = a = f = 1.272020....
The expression ( 5 + 1 ) : 2 = f identifies the ratio of the “golden section”,
which subdivides a whole in such a way that it is to the larger part as the larger part is to the smaller. Since the smaller part is the golden section of the larger, their difference is again the golden section of the smaller part, and so on.
The vast range of natural spiral forms – including phyllotaxis, the compact
packing of an inflorescence or the coordination of the scales of a pine cone –
forms a ‘universe’ totally rhythmed by the golden section, which thus represents
the supreme imposition of order-and-permanence in things corporeal: Timaeus
55c5,6 says: “God used the dodecahedron – [the edges of which are the golden section 2 : [( 5 + 1 ) : 2 ]= 5 – 1 of the edge of the cube inscribed in the same
sphere] – in order properly to design the body of the world”.
The smaller part of the subdivision by the golden section of the edge 2 of the cube
is the apotome 2 – ( 5 – 1) = 3 – 5 ; in turn 3 – 5 is the larger part into which the
golden ratio divides 5 –1, leaving the smaller part ( 5 –1)–(3– 5 )=2 5 –4, which
is the golden section of 3– 5, and so forth ad infinitum. This generates the following
sequence of ratios between pairs of apotomes, each patterned by the golden section f :
(•)
2
5 –1
3– 5
2 5 –4
f ( 5 +1 ):2
——— = ———– = ———— = ———— = ... = 1.618... = — = ————— .
5 – 1 3 – 5 2 5 – 4 7 – 3 5
1
1
This sequence is said by Aristotle not to concern “numbers of the forms (tw` n
eijdw` n)”, since the apotomes appearing in it are “polluted” by the monomial divisor 2,
latent in the terms of each ratio; the ideal Forms are, instead, all non-divisible. This
11 In Mathematics in the Time of the Pharaohs (Dover Publ., New York, 1981), RICHARD J. GILLINGS
challenges the admissibility of using “a passage of Herodotus it has not been possible to locate” to legitimize
the measurements of the great Pyramid. The passage from Herodotus transcribed above is perfectly locatable.
12 Basing himself on B. L. van der Waerden and T. L. Heath, Gillings even disputes the admissibility of attributing to the Egyptians a knowledge of the right-angled triangle of sides 3, 4, 5: “Nothing,” he
writes, “in Egyptian mathematics suggests that the Egyptians knew that a (3, 4, 5)-triangle is right-angled”.
Evidently he passes over the fact that the median section of the SECOND Pyramid at Giza has as semi-triangle ABC none other than one with, measured in thirds of a cubit, base 615 (=3a), height 820 (=4a), apothem
1025 (= 5a); cf. L. C. STECCHINI, Notes on the relation of ancient measures to the Great Pyramid, in P.
TOMPKINS, Secrets of the Great Pyramid, Harper & Row, New York, 1983.
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is why Plato too, in Epinomis 981b3-c4, opposes the dodecahedron and the other
regular solids, “the fairest compositions in discourse concerning appearances”, with
“the changes linking together odd and even: the only one capable of letting us regain
memory of logismov"”: of the fully and truly rational number God used to give stability to the order of the world. It is therefore clear that Epinomis is pointing to the
golden section as the “starting point in things sensible” 13 that guided the Egyptian
priests to the discovery of the mathematics of the ideal Forms.
In Pythagorean language, in fact, the “changes linking together odd and even”
are formed by coordinating 1 units (called ‘rational’) and 2 units (called ‘irrational’);14 if the application of Pythagorean notations to the “changes” to which
Epinomis 981b3-c4 alludes is correct, the sequence of apotomes “of the forms”
towards which the sequence (•) of ‘golden’ ratios points will be the following:
(••)
2 –1 3–2 2
5 2 –7
17–12 2
2 +1
———– = ———— = ————— = ————— = . . . = ——— .
2 5 2 – 7 17 – 12 2 29 2 – 41
1
3 – 2 The set thus formed consists of the apotomes Ck “of the forms of the Republic”,
as it is called in APPENDIX II; the deduction that this is the sequence to which Epinomis
981b3-c4 alludes is offered confirmation by the Great Pyramid. For the platform OO
of the astronomical observatory – I here repeat the diagram of the median section
through the Great Pyramid – proves to be a square of area equivalent to half the area
of the base square. Thus the sides BB and OO of the two squares stand to each other
in the proportion BB:OO= 2 :1, so that we also have AB:PO= 2 :1.
To those who know the mathematics “of the forms” these relations say that
if AB is numbered by 2, PO will be numbered by 1, so that the difference
C
a=
h = f
Observatory platform
O
B
P
O
O
A
B
c=1
13 The role of phyllotaxis in guiding the Egyptian priests towards the discovery of the mathematics
“of the ideal Forms” is confirmed by an inscription in the “botanical hall” of the Temple of Ammon in
Karnak, which say that “the King’s spirit” ascended “to the Land of the Gods” to grasp “the soul [the
golden section, namely] of surprising plants” that his father Ammon – [the “hidden God”, harmonizer of
opposites] – “nourished” to make us discover the Principles that will convince mankind “to place themselves under His sandals”: to reconcile statutes of cities and ethical norms with the natural forms.
14 Philolaus fr. 6 says: “Number has two individual Species: odd and even. A third Species is even-odd,
composed of the mixture of both”. That the “changes linking together odd and even” to which Epinomis
981b3-c4 alludes concern apotomes in 2 is suggested by the fact that 1 is the ‘base’ unit of Pythagoras’s
odd gnomons, which always give rise to square numbers 1+3+5+7+...+2n+1, the root of which is ‘rational’;
2 , instead, is correspondingly the square root of the base 2 units of the even gnomons, which form
2+4+6+...+2n rectangles the root of which is always irrational.
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AB – PO = OB is the apotome C1 = 2 – 1. If, then, one goes on to number PO by
2 – 1 , the base AB will be numbered by D 1 = 2 – 2 and the difference
AB – PO = OB by C2 = D1 – C1 = (2 – 2 ) – (
2 – 1) = 3 – 2 2 . If in turn PO is numbered
by C2 = 3 – 2 2 , so that AB will be numbered by D2 = 3 2 – 4, then the difference
D2 – C2 = (3 2 – 4 ) – (3 – 2 2 ) = 5 2 – 7 will give C3 . Going on to number PO by C3,
AB will be D3 = 10 – 7 2 and D3 – C3 = (10 – 7 2 ) – (5 2 – 7) = 17 – 12 2 will give C4 .
Continuing in the same way, we obtain the whole sequence (••) of apotomes
which Aristotle can legitimately call “of the forms”, since they are not polluted
by monomial divisors, and for other reasons that will be clarified below.
From the dimensions of the Great Pyramid one can further infer the
derivation, from the apotomes “of the forms”, of the monomes regarded as
“natural” (and hence primary) in the West. Consider the trapezium BBOO;
setting AB = 2 , the height PA is OB · f = (2 – 1) f , and the area of the
trapezium works out at (2 + 1) (2 – 1) f = 1 · f , so that (2 + 1) (2 – 1) = 1 ,
is one of the relations with which, in note 2, we said that the “Aorist Dyad
of ±” generates the 1 units of the dianoetic arithmetic. Going on to number
AB by 2 or 2 2 , we obtain the monomes 2 or 4 respectively.
What likely led the Egyptian priests to the possibility of regarding the monomial numbers as ‘second’ to the apotomes, even more than these relations, was the
fact that the golden section subdivides 1 into 1 : f + 1 : f 2 , and that 2 proves to be
f + 1 : f 2 ; it is then easy to arrive at the following relations, which show how the
monomes called “Fibonacci’s” can be regarded as “second and inferior” to the
‘golden’ bimetric numbers, as being “more mixed”. For we have:
(◆)
1=1:f+1:f2
8 = f 4+ 3 : f 2 = f 4+ 1 : f + 1 : f 2+ 1 : f 4
2=f+1:f2
13 = f 5 + 5 : f 2 = f 5 + f + 1 : f 3 + 1 : f 6
3 = f 2+ 1 : f 2
21 = f 6 + 8 : f 2 = f 6 + f 2 + 1 : f 2 + 1 : f 6
5 = f 3+ 2 : f 2= f 3+ 1 : f + 1 : f 4
34 = f 7 + 13 : f 2 = f 7 + f 3 + 1 : f + 1 : f 5 + 1 : f 8
The monomes called “natural” by the West stick to the reality of merchants
and builders, i.e. are suitable for numbering entities that are amorphous or devoid
of qualities. The golden section f , by contrast, fits natural realities;15 it is therefore
15 Reporting, I believe, ancient information, Anselm of Aosta said that in a pine cone all the harmonies of the Universe were reflected. Suffice it here to adduce that the angle 360: f 2 =137.50...° coordinates its squamae according to a generating spiral such that, for instance, those that succeed each other at
intervals of 8 (i.e. those numbered 1, 9, 17, 25, 33, 41, 49) form spirals that subdivide the cone into 8 segments; those numbered at intervals of 13 (e.g. squamae 1, 14, 27, 40) form spirals that subdivide the cone
into 13 segments; those numbered at intervals of, say, 21 (e.g. squamae 1, 22, 43) form spirals that subdivide the cone into 21 segments, and so on.
The intervals according to which the spirals are formed are always ‘Fibonacci’ numbers, i.e. sums of
powers of f and 1/f ; the interval 8, for instance, is patterned by f 4 +1: f +1: f 2 +1: f 4.
Probably Western mathematicians have not devoted much time to studying harmonies that enthused
the Ancients and Anselm of Aosta, if as EDRED JOHN CORNER writes “We must study phyllotaxis which is
the bugbear of botany, so simple, yet so profound as to be incomprehensible”.
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logical for the philosopher to set it before numbers that Philebus 56e7,8, I repeat,
reserves only for “builders and merchants”, going on in 62b5-7 to call them
“yeudou` ß kanovno" - deceitful rules” (deceitful for philosophers, obviously, not for
builders). This clarifies why the Egyptian and Jewish sacred monuments systematically adopted as units of measurement not the metre – which Agatharchides (cf.
note 8) testifies was already known in its essence as one ten-millionth of the meridian arc from equator to pole – but one fifth of f 2 metres (or the equivalent one
sixth of p metres, since p =6 f 2 :5 ). For the priests of Ammon and of YHVH saw in
the golden section a manifestation of the “divine”.
Footnote 14 clarified that the Pythagoreans considered the monomes “less mixed”
than the bimetric numbers called – by Philolaus and in the context of the usual arithmetic – “third”, being considered the outcome of mixtures of pre-existing ‘rational’ 1
units and ‘irrational’ 2 units; saying that relations (◆) on p. 55 may have guided
the Egyptian priests to overthrow the usual views does not, however, imply that this
can be the actual genesis of the monomial numbers from bimetric numbers; for the
numbers of the golden section already in themselves imply the divisor 1/2.
Nor is it possible to conceive of the monomial numbers, considered “natural” by
Western arithmetic, as being born from the apotomes of the sequence (••) on p. 54;
these apotomes are indeed, being linked by operations of addition and subtraction
[C2 , for instance, is D1 –C1 ], “geometric” numbers, so that the origin of their sequence
is subtraction of the monome 1 from the monome 2 . Such apotomes cannot therefore be set before the monomial numbers; nor can one call “primary” numbers
whose syntax does not include that of the numbers of music, which are unaddable.
Finally, in Epinomis 990c5-8 Plato stresses that the only apotomes that can be called
“primary” are those which, like the numbers that pattern the musical notes, are
“incorporeal (ouj swvmata ejcovntwn )”: neither addable nor containable one in the
other; all that can be primary is in fact only what is “superior” from the ontological
viewpoint too, because it has superior commensurabilities.16 And “mathematical
exactitude”, and hence the absence of irrationality, “can be found only in that which
is without matter”, as Aristotle stresses in Metaphysics 995a15-17.
It is from the “incorporeal” and “primary” apotomes of Epinomis 990c5-8
that Euclid has the apotomes of the sequence (••) derive. And he has them
arise through an expression – implied in lemma II to theorem 29 in Book X of
the Elements – that is of particular interest here, because it is thanks to it that
the Egyptian monuments and the Old Testament attest that the results of the
16 Cf. Philebus 59c2-6: “The firm and pure and true and what we call ‘simple’ are to be found either
with beings ever identical to themselves because they are the least mixed (the Logismoi; of the World Soul of
Timaeus) or among the beings most kin with those [namely the apotomes of the ideal Forms]. All other
beings must be regarded as secondary and inferior (deuvterav te kai; u{stera)”: inferior because in their context – as Epinomis 990d1-4 explains – non-commensurable entities appear.
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mathematics of the ideal Forms – set out in APPENDIX II under the heading
“Sequence of primary apotomes ‘of Epinomis’” – underlay the world-view they
are intended to testify to. The expression is:
(*)
z=x+ 2x(x+1).
From this expression all and only the pairs of “epimoric” numbers, each of
which exceeds by one the number it is paired with, can be generated. They constitute the squares of the “names” of the apotomes of the sequence (••) on p. 54.17
For if in z = x + 2 x ( x + 1) we insert any epimoric pair consisting of squares
of the “names” of the apotomes in sequence (••), then the formula itself gives the
epimoric pairs immediately preceding and following the pair introduced, so that
from (*) we can deduce the whole sequence (••) of apotomes “of the forms”.
A quite special case, of particular interest here, is the one where the squares 50 and
49 of the “names” 5 2 and 7 of the apotome C3 =5 2 –7 are introduced into *. We have:
(**)
z4 =49+ 2·50·49=119,
and, if we divide z2 = 1192 =14161 by 49, we obtain the square number 289 = 17 2,
which is the first square number x4 +1, after x3 =49, that with 2x4 =288=2·144=2·122
constitutes the epimoric pair subsequent to x3 =49 and to x3 +1=50=2·25=2·52 .
From (**) itself we can get to the epimoric pair x2 = 8 and x2 + 1 = 9 = 32 , constituting the squares of the “names” 2 2 and 3 of the apotome C2 = 3 – 2 2 .
17 ATTILIO FRAJESE in his comment on theorem II-9 in Gli Elementi di Euclide (Torino, UTET, 1970) holds
that the sequence of “epimoric” pairs was discovered “by trial and error”. It is instead deduced, in virtue of
expression *, directly from the sequence of apotomes of the ‘ideal Forms’; the sequence (••) too thus also
derives from the aforesaid sequence, and is the sole mathematical set that can be generated without implied
involvement of the Dyad of ±, mother of the numbers that Philebus leaves to “builders and merchants”.
Republic 587a-588a therefore calls them suitable for giving an account of the stability of our Heaven.
Accordingly, the ‘golden’ sequence too is rhythmed by numbers that arise following the involvement
of the Aorist Dyad of ± [one outcome of which is the divisor 1/2 present in f =( 5 +1):2)]; this is why
Aristotle does not call it “of the forms”.
The primary sequence and the succession (••) are sets completely exempt from irrationality; in the context, of
course, of the philosophical, obviously not the dianoetic, mathematics. For the philosopher does not set up relationships between incommensurable quantities – for instance, between A= 2 and B=1 – compelling one of these to be
expressed in tenths, hundredths, thousandths etc. of the other, but compares them through the “anthyphaeretic
ratio” (theorem X-2 in Euclid’s Elements), that is, by identifying the sequence n0, n1, n2, etc. of the whole numbers of
times n0 in which B is contained in A, then n1 in which the remainder R1 =A–n0 B is contained in B, then n2 in which
the remainder R2 =B–n1 R1 is contained in R1, then n3 in which the remainder R3 =R1 –n2 R2 is contained in R2, etc.
Heterogeneous ratios like 2 :1 and (2 –1):1 have a periodic anthyphaeretic ratio [that of 1:(2 –1) is
contained, as B:(A–n0 B), in that of 2 :1 ], so that they are intelligible and describable with exactitude, just
as, for instance, in the context of the dianoetic arithmetic the ratio 4:3=1.3 is. The anthyphaeretic ratio thus
explains why Euclid, in Definition III of Book X of the Elements, brings together in the same Kind, called
“sayable (r{htovn)”, both quantities commensurable in length (e.g. 2 and 1) and those commensurable only in
power (e.g. 2 and 1). For the dianoetic mathematics, this is a stumbling-block.
The overthrow of views brought about by philosophical thought thus extends also to the concept of
“rationality”. More thorough information about the anthyphaeretic ratio can be found on note* of p. 75 of APPENDIX I and in D. H. FOWLER, The Mathematics of Plato’s Academy. A new Reconstruction, Oxford U.P., 1987.
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There thus emerges the relation (C2)2 = C4 [Euclid writes (C2)2 = 1 · C4 ] , in which
C4 is an “incorporeal” number: as well as being the fourth power of C1 = 2 – 1, it
is also not the sum of apotomes of the sequence. And it is of this very set,
adduced in Epinomis 990c5-991b4 and given in APPENDIX II under the heading
“Sequence of the primary apotomes of the ideal Forms”, that Book X of the
Elements attests the “primary” nature; for it shows that the sequence constituted
by the triples with indices 1, 2, 4, 8, 16, etc. of the sequence (••) on p. 54 arises ‘in
a circle’ from itself, without implying the pre-existence of extraneous numbers, still
less of the single monomes appearing in the bimetric numbers making it up.
It is again Richard A. Proctor who furnished the information that allows us to
show how the Great Pyramid also evokes the primary sequence of the ideal Forms.
For Proctor pointed out that the level of the observatory platform, “rising by
just fifty layers to a height of above 142 feet” (cf. p. 154 op. cit.), is formed by
exactly 50 courses of the cladding blocks of the structure. And he repeats: “It
will be noticed that the successive layers are not of equal thickness. There are
just fifty between the base and plane of the floor of the King’s Chamber”.18
Fifty courses of cladding blocks are separated by 49 commissures; here, then,
the epimoric pair 50 and 49 appears in the Great Pyramid to evoke the primary
sequence of the ideal Forms that heads the “pa` n diavgramma ajriqmou` te suvsthma”
– says Epinomis 991e1-4 – capable of giving an account of the stability of the
translations of our Heaven and “of the homology, one for all beings, irradiated
from these Forms to the entire cosmos” (cf. Epinomis 991b5-d1).
The indications noted by Proctor may seem slight for the purposes of supporting the mathematical scaffolding I have erected on them; however, they draw
vigour from the fact that the sequence “of the ideal Forms” and the one “of
the forms” can be found set out identically also in the Old Testament.
In order in the next two chapters to justify this statement, I select, in the Egyptian
context, the bas-reliefs portraying the Portal of the Third Pylon of the Temple of
Ammon at Karnak; and in the Old Testament, the web of hidden words connecting
the epimoric pair 50 and 49 that underlies the first verses of Genesis, Exodus, Numbers
and Deuteronomy with the “Fibonacci” sequence of numbers, and therefore the
golden section, that patterns the words hidden in the first five verses of Leviticus. The
Pentateuch thus identically repeats the exposition given for the mathematics of the
forms, and the path leading to their discovery, by the Great Pyramid of Giza.
18 It is only fair to recall beside Proctor’s findings the intuitions of two scholars disdainfully called
“pyramidiots” by those content to think that the Great Pyramid was built to make a tomb for Cheops. JOHN
TAYLOR (The Great Pyramid: Why was it built? & Who built it?, London, Longmans, Green, 1864) writes that
“the designers of the Great Pyramid aimed at eternalizing, in its proportions and internal features, certain
religious and scientific truths important not for the people of those times but for men to come millennia
thereafter”. And the astronomer CHARLES PIAZZI SMITH insists: “The Pyramid was charged to keep a certain
message secret and inviolable for 4000 years, and it has done so; and in the next thousand years it was to
enunciate that message to all men [...]. That part of the Pyramid’s usefulness is now beginning”.
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Geometric numbers “of the forms” and numbers “of the ideal Forms”
in the bas-reliefs of the Third Pylon of the Temple of Ammon at Karnak
In the two bas-reliefs portraying the Portal (today destroyed), all the horizontal lines – including those identified by mouldings only 4 millimetres thick –
are carved so as to pattern the first eighteen apotomes of the sequence Republic
546a7-d3 calls “of the geometry of the wise”. The sequence instituted by its
triples with indices 1, 2, 4, 8, 16, etc. form the mathema to which Epinomis
attributes the power to “make us wise”.
The bas-reliefs represent the feast of Apet, a divinity the Egyptologists tell
us presided over the perpetuation of the corporeal world, possible only if regulated by fully rational numbers, which the Portal mouldings were able to reveal.
The west wall of the Temple shows the parade of priests – favoured by the
wind swelling their tunics (and thus when, as Plato says, “the heavens will be
favourable to the celebration of festivals of the Gods of which we have real manifestations”) – going out of the Portal to carry the “boat of Ammon” into the
world. On the east wall (the current state of the bas-relief on which is shown
in figure 1, at the end of this work), the procession returns to Karnak, preceded by the people rejoicing at having received Ammon’s message.
The bas-reliefs, very damaged (cf. figures 1 and 4, at the end of this work)
have been recomposed by reassembling the parts they were broken into; that
would seem to vanify the hope of determining their proportions. Nor is there (in
figure 1) any trace of the intrados of the architrave of the Portal, a basic element for finding the dimensions of the mouldings.
From measurements done through the Italian Institute of Culture in Cairo,
the Portal portrayed on the bas-reliefs has a height of 1760 millimetres and a
width of 880 millimetres;19 its dimensions are thus in a ratio 2 : 1. This ratio
leads those familiar with Egypto-Platonic mathematics to locate the intrados of
the architrave at the level of 2 ; then the height UZ of the architrave, referred
to the width 1 of the Portal, is identified as the apotome 2 – 2 = 0.585786...,
which on the scale of 1 : 42.8mm in figure 2 (at the end of this work) translates
19 Measuring the bas-relief found an undershoot of 10 mm in width (which thus changes
from 880mm to 890mm) and of 20mm in height (which changes from 1760 to 1780mm ), because
of the reconstruction of the object. The final determination of the cubit on the bas-relief is
D 1 + E 6 = (2 – 2 ) + (198 – 140 2 ) = 200 – 141 2 = 524.4 millimetres if the Portal is 880 mm wide, or
530.3mm if the Portal is 890mm wide. The value 524.4mm best fits the cubit of other Egyptian or Jewish
monuments; the calculations below accordingly take 880 millimetres as the width of the Portal.
In the two cases mentioned, however, quantification in millimetres in practice has no influence on
determining the partitions of the bas-relief using apotomes; for instance, the apotome D1 =2– 2 =0.585786...
is reflected as 515.5mm if the Portal is 880mm wide, and as 521.3mm if the width is 890mm ; the apotome
E1 =198–140 2 =0.01010... is reflected as 8.8mm or 8.9mm respectively. These differences cannot be traced in
apotomes concerning bas-reliefs carved by hand.
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into 25 millimetres, implying, on the bas-relief, a height of 0.585786 x 880 = 515.5
millimetres. To get from a measurement t on figure 2 to the reality of the basrelief one thus has to multiply t by 880 : 42.8.
This attempt is confirmed by the lowering (by approx. 30mm on the bas-relief)
of the floor plane of the door opening of the Portal; this lowering, the reason for
which is thus revealed, sets up a ratio equal to p between the height of 62.8mm (in
the drawing) and the width of 20mm (in the drawing) of the door opening.
Further confirmation of the admissibility of measuring as D1 = 2 – 2 the
height of the architrave comes from the fact that the distance PT between the
base of the piedroit and the top of the “solar uraei” above the pilasters located
before the door opening is also numbered by D1 ; the distance TU between the
top of the “uraei” and the intrados of the architrave is then measured by
2 – 2 D1 , i.e. by the apotome 2 – 2 ( 2 – 2 ) = 2 2 – 2 = E1 .
The patterning of the height of the portal by the three apotomes D1 = 2 – 2 ;
E1 = 2 2 – 2 ; D1 = 2 – 2 cannot be ascribed to chance, since the mouldings of
the architrave UZ and the piedroits PT are all also picked out by apotomes of
the sequence of “geometric numbers of the forms” set out in APPENDIX II.
In figure 2, the height PT is subdivided into the distances PR = 17.8mm and
RT = 7.2mm ; PR is accordingly numbered by C1 = 2 – 1 , which on a scale of 1 : 42.8
implies 0.414214... x 42.8 = 17.7 mm. The distance RT is numbered by
C2 = 3 – 2 2 = 0.171573, which on the scale gives 0.171573... x 42.8 = 7.3mm, equal to
the actual 7.3mm.
The part UV of the architrave also appears to be numbered by
E2 = 6 – 4 2 = 0.343146..., corresponding in figure 2 to 0.343146... x 42.8 = 14.6mm;
the part VZ is D2 = 3 2 – 4 = 0.242641... x 42.8 = 10.4mm, according to what can still
be seen of this portion of the object.
The partitions of the capital RT of the pilasters can be deduced from the
photograph reproduced as figure 3. The width of the pilaster has been measured as 70mm on the bas-relief, where the Portal has a width of 880mm ; on
the photograph the pilaster is approximately 16mm. The scale for interpreting a
quantity x appearing on the photograph is accordingly the proportion
16 : 70 = x : 880, so that x = 201.1mm. On the photograph D3 = 10 – 7 2 = 0.10050...
should be 0.10050... x 201.1 = 20.2mm ; in fact it takes up 21.2mm.20 C3 = 5 2 – 7 in
turn takes up 0.071068... x 201.1 = 14.3mm , in tolerable agreement with the actual
findings; for it takes up 15.2mm . The sum C3 + D3 gives C2 = 3 – 2 2 = 0.171573...,
so that theoretically on the bas-relief it would be 34.4mm, as against the 36.5mm
resulting from the photograph.
20 The photograph shows that the sculptor, after having begun to cut the right-hand part of the
shelf too low, tried on the left to remedy the error.
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The finding that the pilasters before the Portal rise above the plane marked
by the piedroit by the quantity D1 that also measures the architrave leads us to
measure TU as E1 = 2 2 – 2; but the distance TU concerns not a partition of the
portal, but the relation between distinct entities, the Portal and the pilasters.
On the piedroits of the Portal, TU = 2 2 – 2 indicates nothing.
In the section QU each piedroit accommodates four panels, separated by
three mouldings; a fourth moulding, less thick, separates QU from the base PQ.
On figure 2 each panel is about 12 millimetres high, corresponding
to a partition of 12 : 42.8 = 0.280374... , which does not fit any apotome
of the sequence “of the forms” given in A PPENDIX II . The partitions
closest to 0.280374... are D2 = 3 2 – 4 = 0.242641... and E2 = 6 – 4 2 = 0.343146...,
which imply, in relation to the height h of each panel on the bas-relief,
intolerable differences: h – D 2 = (0.28037... – 0.24264...)880 = 33.2... mm and
E2 – h = (0.343146... – 0.280374...)880 = 55.2...mm respectively..
The piedroits of the Portal must accordingly involve a different mathematical discourse from the identification of partitions in the sequence of apotomes
“of the forms”. However, the three mouldings still conD6
cern these apotomes: on each piedroit, they separate
C6
the four panels. Figure 3 shows that each moulding
C5
consists of three bands, the biggest of which appears
identical to C 5 , so that it is made up of
C6 = 99 – 70 2 = 0.00505... and D6 = 99 2 – 140 = 0.007143...,
which are such that:
C6 +D6 =(99–70 2 )+(99 2 –140)=29 2 –41=C5 .
From the figure alongside it can be seen that the
thin moulding above the base of the piedroit might
amount to C 6 = 99 – 70 2 = 0.005051... , which in the
actuality of the bas-relief would imply a thickness of
only 4.4 millimetres, plainly not distinguishable in
hand-carved stone. Too thin a measurement to be able
to be assessed individually may however be determinable exactly from its multiples. Here is how the
bas-relief contrives to do so.
On figure 2 the base of the piedroit is some 9.5mm
high, corresponding, if related to the base OO of the
portal taken equal to 1, to a partition of approximately
9.5 : 42.8 = 0.22, making it close to D2 = 3 2 – 4 = 0.242641....
If PQ were identified as D2 , then taking account of the
fact that E1 = 2 2 – 2 = ( 2 – 2 ) + ( 3 2 – 4) = D1 + D2 , the set
D6 C
6
C5
C5
C6
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of partitions 2D1 + E1 = 2, which subdivides the “pilasters+Portal” complex might be
reflected on the Portal in the set of partitions 3D1 +D2 . A multiple of one of the bands of
moulding that separate the panels might then be able to make up for the lower height of
the base of the piedroit by comparison with the height implied by the partition D2 .
The choice of band is suggested by moulding C6 , which separates the base PQ from the
lower of the panels; for four C6 imply the quantity 4(99–70 2 )=4x 0.00505...=0.02020...;
then the distance PQ will be D2 – 4 C6 = 0.24264.. . – 0.02020... = 0.222438..., which on the
piedroit implies 0.222438...x 880=195.7 millimetres.
Three partitions D6 = 99 2 – 140 would also give the quantity 0.021428...; then
PQ = D2 – 3 D6 would be 0.24264... – 0.021428... = 0.221213 x 880 = 194.6mm ; the difference between the two solutions would therefore be only one millimetre on the
bas-relief. What suggests the four partitions C6 is the following result. If the
piedroits of the Portal are numbered by 2 D1 + 4 C6 + (D2 – 4 C6 ), the distance QU is:
QU=2D1 +4C6 =2(2– 2 )+4(99–70 2 )=2(200–141 2 ),
and 200 – 141 2 = 0.595888... translates, on the Portal 880mm wide, into the quantity:
0.595888... x 880 = 524.381...mm,
which is one of the values admissible for the Egyptian sacred cubit.
The message handed down by the piedroits on the bas-relief is thus
crowned by expressing as the apotome D1 + E6 = ( 2 – 2 ) + (198 – 140 2 ) the cubit
of a depiction the mouldings of which are all measured by apotomes of the
sequence of the “geometry of the wise”.
Book X of Euclid’s Elements shows how this sequence is directly implied by
the primary sequence of ideal apotomes, without involving the operation of what
Plato calls “the ± (ma` llovn te kai; h|tton)” from which the numbers that Philebus
56e7,8 leaves to “builders” and “merchants” originate. Thus in the context of the
‘hierarchy’ of numbers established by Philebus 59c2-6 (cf. note 16), the apotomes D1
and E6 , through the sum of which the bas-relief numbers its own cubit, are “less
mixed” than the monomes of the arithmetic of “merchants and builders”, into
which our monometric mind obliges us to translate them. It therefore makes no
sense to number by monomes the metric unit of an object the mouldings of which
are all patterned by apotomes of the geometry “of the wise”.
The undertaking becomes particularly haphazard since the bas-relief consists
largely of a reassembly of the fragments it was broken into. It is accordingly appropriate to clarify the criterion I have trusted to in order to arrive at the measurement
of a bas-relief reduced to the state shown in figure 1, the measurements of which
would not be reconstructable were they not patterned by apotomes “of the forms”.
The photograph reproduced in figure 4 (at the end of this work) is the only
certain datum from which to start in order to set about consistently sizing the object.
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The height PT, indicated as 68.5mm, on the left of the photograph, numbering the
partition D1, concerns a part of the bas-relief not reassembled from fragments; by
contrast the width AA of the Portal, indicated as 118mm on the photograph, is from a
recomposition. The ratio PT:AA, where PT is identified by D1 =2– 2 =0.585786438...,
ought to be such that PT: AA = 68.5 : AA forms the ratio 0.585786438...; then however
AA=68.5:0.585786438=116.93mm, as against the 118 millimetres implied by the photograph. From which I deduce that the recomposition of the parts into which the width
AA of the bas-relief had been broken increased by 1mm on the photograph, and by
880:116.9=7mm on the bas-relief, the original width of the Portal.
To get from the 116.93mm on the photograph to the actual width of the
Portal, it would seem consistent to think that here too, as for instance in the
dimensions of the Great Pyramid, the designers set at not overly fractional
numbers the principal measurements of the object.
If the measuring unit were the cubit, the width of the Portal might be 1.7
cubits, which for a value of the cubit of 524 mm would imply AA = 890.8 mm ; the
scale for interpreting the bas-relief would then be 890.8 : 116.93 = 7.6182... : 1. Since
D1 = 0.585786..., on the photograph, takes up 68.5mm, the distance QU, measured by
2(D1 +E1 )=2x 0.595888..., would take up 2x 68.5x 0.595888:0.585786=2x 69.68 millimetres,
making the cubit 69.68 x 7.6182... = 530.7... millimetres. Then, however, the 1.7 cubits
would have to form a width of 902.3mm, giving 902.3:116.93=7.7166... as the scale for
reading the photograph; QU would be numbered by 2 x 69.68 x 7.7166 = 1075.38...mm,
and the cubit would be 1075.38...:2=537.7mm, and so forth.
Taking the width of the Portal on the bas-relief instead as 880 millimetres,
the scale for interpreting the photograph becomes 880 : 116.93 = 7.5258... and QU
measures 2 x 69.68 x 7.5258... = 1048.8...mm ; the cubit measures 1048.8 : 2 = 524.4mm
and the width of the bas-relief remains 116.93 x 7.5258... = 879.99... millimetres.
The height QU, thus determined as approximately 139mm, finds an excellent
reflection in fig. 4, where it identifies, as U, a faint but definite trace that likely
concerns the intrados of the architrave.
Even measuring the width AA of the Portal as 890 millimetres – so that the
scale for reading the photograph becomes 890 : 116.93 = 7.6114... – the distance
QU is 139.36... x 7.6114... = 1060.72...mm ; the breaking of the bas-relief thus implies
the possibility of quantifying the cubit 200 – 141 2 = 0.5958877 as:
0.5958877... x 880 = 524.4mm or else as 0.5958877... x 890 = 530.35mm,
where 880mm and 890mm coincide with the width of the Portal, as measured
by the technician mentioned in note 19.
The value 524.4mm appears preferable because it is the closest to the cubit
of p : 6 = 523.3...mm, derivable from the ratio 628 : 200 = 3.14, established for p by
the dimensions of the door opening of the Portal.
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The Portal of the Third Pylon of Karnak and the “numbers of the ideal Forms”
On the threshold of the Temple, the procession carrying the “salvific boat” of
Ammon finds a symbol that gives an incisive image of that world; it is formed by
the two ranks of 7 cobras, confined on top of opposite pilasters and made noncommunicating by the abyss – the logic of ‘either-or’ – which, taking account of
their respective dimensions, separates them. The height of the rows is established
by the apotome C3 =5 2 –7; it is also C3 that measures the height of the two uraei
on the architrave of the Portal, flanking the great “sun” crowning the composition.
The Otherness dominating the world outside the Temple makes the ranks of
cobras not only oppose each other – each considering itself the bearer of truth
and goodness – but also break up into the plurality of the particularistic “solar
eyes”, of conspicuously different dimensions (see figure 3),21 that mark their
‘royal’ erectness (for the uraeus is a royal symbol). Crammed into a space it is
challenged for by others, each uraeus – each King, faction or individual – tends
to believe it holds the true “solar eye”, and for that “simulacrum of Helen” (cf.
Republic 586c) 22 it fights, bleeds and sacrifices itself.
It is, however, the very fact of being ‘crammed’ and the need, in order to
survive, to defend themselves from others that promotes their wisdom:23 firstly
to use it within a logic ‘of Kronos’ which, by seeking to eliminate unwelcome
contraries, sets itself in opposition to the friendship of opposites thanks to which
Ammon-Zeus conferred stability on the turbulent world that Kronos had founded on the endeavour to suppress every potential hostile presence. Moved by the
ever-greater suffering caused by abuses and consequent ‘vendettas’ sparked off
by the logic of ‘either-or’, mankind will finally be induced to recognize the propriety of adjusting statutes and customs to the friendly concert of contraries
that the ideal mathematics evoked by the apotome C3 = 5 2 – 7 (cf. pp. 57, 58)
confirms sets up the cosmic order. The “change of tack” will however be feasible only once wisdom will have endowed man with technological means that
make him ‘master’ and potential ‘order-giver’ of the Earth.
The two opposing ranks of cobras thus evoke a mankind that respect for
Ammon has left in the sway of Ptah (= material contingencies), but to whom
the divine ‘goodness’ offers, in order to guide him towards salvation, the gift of
music (harmonizer of acute and grave, and hence of contraries). Seven, the
21 The height of the two ranks of cobras, which delimit on the upper side the apotome D that mea1
sures the distance PT on figure 2, was determined from the larger of the “solar eyes” in figure 3.
22 Republic 586c: “It was for a simulacrum of Helen, says Stesichorus, that the warriors fought
beneath the walls of Ilium, because they did not know the real Helen, truly worthy of fighting for as
being the daughter not of Tyndarus, but of Zeus”.
23 “Man,” we read in Protagoras 321c5,6, “was thrown naked, barefoot, without bed or weapons” into
a land that Psalm 44:20, 23 calls “the place of jackals” where “for Thy sake we are killed all the day long”.
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number sacred to Osiris, which measures the two ranks of cobras, confirms that
they have been called on by Ammon to reconcile enmities in the unity of the
“great sun” of the architrave of the Portal; the two cobras flanking it attest
– precisely because they continue to look in different directions – that the
world can stabilize itself, by falling in line with cosmic Justice, only if it
respects the Otherness that contributed to forming it.24 And music also induces
the ranks of cobras to rise, from the context of the addable apotomes to which
C3 = 5 2 – 7 belongs, to that of the incorporeal sequence formed by the apotomes
with indices 1, 2, 4, 8, 16, etc., which can be linked only by operations of raising to a power or extraction of the square root, and typify the syntax of music.
The rise of the uraei from the opposed pilasters to the frieze of the Portal
thus symbolizes mankind’s rise towards an ‘Earth’ which all, though seeking it
in different directions, feel is ‘promised’ to us. What makes the processions that
bring Ammon’s “boat” into the world and the world into His Temple “festive”
is the conviction – supported by the mathematics evoked by the apotome
5 2 – 7, which measures the cobras – of ascending, from a ‘beastly’ world of
divisions and hostilities, towards the serene coexistence of opposites promoted
by the truly “solar” unity depicted on the frieze of the Portal. It is truly
towards this unity that – with the favour of the wind, i.e., I repeat, once the
Heavens are favourable to the worship of divinity “of which we have real manifestations”, such as the mathematics “of the forms” is – the procession in figure 1 must advance: “the uraeus that the King unifying the two crowns of Upper
and Lower Egypt bears on his forehead will render enemies friendly”, concludes the legend of Neferty, summarized in note 3.
The uraeus on the King’s forehead, and the sun on the front of the Portal of
the Third Pylon of Karnak that pacifies the two cobras, are offered firm mathematical confirmation by the squares 50 and 49 of the “names” 5 2 and 7 of the
apotome C3 = 5 2 – 7; for it is from 50 and 49 that Book X of Euclid’s Elements
derives (cf. pp. 56-58) those of the whole sequence of apotomes “of the forms” in
the Republic and of the primary sequence of numbers of the ideal Forms.
The Portal on the Karnak bas-relief is thus aligned on the Great Pyramid of Giza
in passing down the “geometrical” numbers “of the forms” and those of the “ideal
Forms”. It also alludes, through p , to the golden section f , which is 5 p :6, and emphasizes, through the plurality of sums of apotomes “of the forms” with which the
monomes 2, 2 and 1 can be formed, the possibility of regarding as “second and inferior” – as Philebus 59c2-6 (cf. note 16) calls them – the monomes of craft arithmetic.
In the following section I shall show how the mathematics of the Great
Pyramid and the Karnak Portal is handed down, identically, by the Pentateuch.
24
Cf. Parmenides 142a6-8.
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The mathematics of the numbers “of the forms” and “of the ideal Forms”
in the Pentateuch
There are two convergent lines of indications that the golden section, the
mathematics of the geometric numbers “of the forms” and those “of the
ideal Forms” underlie the Old Testament. On the one hand is the detailed
description – otherwise odd in a sacred text – of the dimensions of Noah’s
Ark, Solomon’s Temple, and the future Temple of the Promised City (cf.
Ezekiel 40-48); on the other, the intervals patterning a systematic web of hidden words present in all the books of the Pentateuch, to be read only by
skipping a certain number of letters in the text each time.
Of those indications, set out on pp. 260-296 of Da Giza, 25 I shall here
briefly mention the one I consider most telling: a weave of hidden words that
links the mathematical message concealed in the first five verses of the central
book of the Pentateuch, Leviticus, to the different, though convergent, mathematical message patterned in hidden words in the other four books.
According to ancient information collected by Elie Munk,26 Leviticus is the
central book of the Pentateuch because it was entrusted the role of “training
Israel to its messianic mission and ideal vocation” which are to make it “a kingdom of priests, and a holy nation” (Exodus 19:6). Modern exegesis instead denies
the formative role of Leviticus: “Leviticus,” writes Alfonso M. Di Nola 27 for
instance, “is a work lacking profoundly religious themes which [solely] meets the
priestly concern to define the privileged status of the group in charge of the
sacred through detailed and often oppressive regulation of the human relationship with God, perceived in His distance and numinosity, and of intermediation
through sacrifice”.
A reading of Leviticus indeed fully justifies Di Nola’s comment; but the first
phrase of the book (“And the Lord called to Moses, and spoke to him out of the
Tent of Meeting, saying ...”) anciently induced the commentator Rashi to state (I
again cite Munk): “The voice of the Eternal, which within the Tent of Meeting had
the intensity of thunder, was not heard at all outside it. That is, the divine message
is received only by those who have come close to it ...; those far off hear nothing
of what the Lord says to whoever is in the Tent of Meeting”.
I shall show how what confers “closeness to the Lord” is a web of hidden
words that links Leviticus and the golden section – introduced by the intervals
25
26
27
I thus indicate my Da Giza-Sion-Atene. Per una città della scienza, Firenze, Olschki, 2000.
ELIE MUNK, La voix de la Thora, Paris, Fondation Samuel et Odette Lévy, 1998.
ALFONSO M. DI NOLA, in Enciclopedia delle Religioni, Firenze, Vallecchi, 1970, entry Bibbia, p. 1484.
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patterning the hidden words “YHVH ” – to the Egypto-Platonic ideal mathematics correspondingly evoked, in each of the other books of the Pentateuch, by
the intervals patterning the hidden words “Torah”. Here is how the hidden
word “Torah” underlies Genesis:
If, starting from the first letter tau (= t) one finds in Genesis, one skips
49 letters, one arrives at a waw (= o); skipping a further 49 letters one comes
to a resh (= r); skipping a further 49, a he (= h). The set of letters thus picked
out forms the hidden word “Tor(a)h”,28 which is said to be patterned at
intervals of 50.
The hidden word “Torah” is again patterned at intervals of 50 in Exodus,
starting from the first letter tau in the first verse. In Leviticus instead, the
Tetragram YHVH is hidden, at intervals of 8, starting with the first yod (= y) in
the first verse. In Numbers it is again the word “Torah” that is hidden, but at
intervals of – 50 (the minus sign indicating that it is written backwards) starting
from the first heth in the first verse. Finally, in Deuteronomy, the hidden word
“Torah” again appears backwards, at intervals of – 49 starting from the first heth
in the fifth verse.29
The hidden words linking the five books of the Pentateuch together thus
make the following pattern:
50
Genesis
50
Exodus
8
Leviticus
–50
Numbers
–49
Deuteronomy
In Hebrew writing, which goes from right to left, the pattern is:
–49
Deuteronomy
–50
Numbers
8
Leviticus
50
Exodus
50
Genesis
so that in both patterns Leviticus appears as the noetic fulcrum of the Torah,
28 Vowels like the ‘a’ of “Tor(a)h” do not appear in Hebrew spelling; other vowels such as the ‘o’
of “Tor(a)h” are indicated by a consonant (waw, in this case).
29 Israeli commentators explain that in Deuteronomy the hidden word “haroT” starts from the first
heth in the fifth verse of the first chapter because the first four verses of this book retell events already
narrated in the previous books.
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announcing that what will make Israel the “holy” nation foretold by Exodus will
be the Idea of Justice defined by the intervals of 8 with which the hidden name
YHVH is patterned there. For in Genesis the hidden “YHVH” can be read, at
intervals of 64, starting from the first yod in the first verse, and 64 is the gematria (see p. 51) of Dyn = Justice; accordingly the 8, the square root of 64, which
patterns the Tetragram “YHVH” in Leviticus, suggests looking in that book for
the earthly rooting of YHVH’s Justice; the bimetric link set up by the golden
section that regulates phyllotaxis and the supreme perceptible symmetries mentioned in Epinomis 981 b3-c4 (cf. p. 54).
The square root of YHVH’s Justice 64 also leads us to derive the roots 5 2
and 7, the “names” of the apotome C3 = 5 2 – 7, from the “epimoric” pair 49
and 50 that patterns the intervals of the hidden words Torah and haroT; Book
X of Euclid shows that from this pair one can derive the whole bimetric
sequence of numbers “of the Forms”, which indeed introduce YHVH’s Justice.
This is, then, evoked by ideal and primary apotomes that confirm how a wise
friendship of contraries is at the origin both of the greatest natural harmonies
of sensible forms and of the supreme “incorporeal” harmonies we can pursue.
The “YHVH” hidden at intervals of 8 in the first verse of Leviticus is accompanied by another four “YHVH”’s hidden in the first 7 verses of the same book,
patterned at intervals of 21; 13; 34 and 5 respectively.
Arranged in a progression 30 the five numbers 5, 8, 13, 21, 34, each of which
is the sum of the two previous ones, form the series today called “Fibonacci’s”,
formed of monomes of the dianoetic arithmetic which we showed on p. 55 can
arise as “second and inferior” to the bimetric numbers that set up the golden
section f = ( 5 + 1) : 2 = 2 : ( 5 – 1).
The hidden words “YHVH” and “Torah” underlying the five books of the
Pentateuch thus form, with the intervals that pattern them, the “cross” sketched
30 Since for the sake of symmetry with the hidden words “Torah” in the other books of the
Pentateuch the 8 has to appear in the first verse of Leviticus, the 5 is set after the other “Fibonacci”
numbers and 13 inserted between 21 and 34.
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below. To indicate that the ‘cosmic’ function of the Torah is to guide Israel and
mankind, through the mathematics of the ideal Forms, towards the civilization
of YHVH, the hidden words “Torah” and “haroT” converge on the Tetragram hidden in Leviticus; this very convergence also stresses that the ideal mathematics
is rooted in the golden section and in the phenomena it modulates (phyllotaxis,
etc.), which are its sensible emanation: the “presence (shekhinah)” to which
YHVH entrusted the function of guiding human wisdom towards the “Tent of
Meeting with the Lord”.
It is, then, in the diagram sketched above that the web of hidden words
underlying the Pentateuch finds its reason for existence. Israeli mathematicians
brought it to light in the second half of the Twentieth Century, though without,
so far, finding a fitting justification: “The equal intervals phenomenon,” writes
Daniel Michelson,31 for instance, assuredly “reflects a hidden design, but we are
far from understanding the rules of this design, in particular from understanding what stands behind the numerical values of all the different intervals”.
The “cross” of hidden words centred on Leviticus: a) - fleshes out the ancient
references to esoteric substrates in this book, and makes it the noetic fulcrum
of the world-view of which YHVH (no longer Elohim) will be the “Lord”; b) confirms the thesis basing upon the Egyptian philosophical mathematics “of the
forms” and “of the ideal Forms” the world-view that the Pentateuch, the Old
Testament and the Bible aim to bring in; c) - allows us to regard as “second
and inferior, as being more mixed” (cf. Philebus 59c2-6, in note 16) the monomial numbers of the arithmetic “of builders and merchants” and certifies,
thanks to the relations indicated on p. 55, the suitability of the human mind for
constructing a fully rational mathematical set which therefore, by giving an
account of the stability met with in our Heaven, attests the legitimacy of founding scientific research upon mathematics;32 d) - testifies that rationality and sta31
32
DANIEL MICHELSON, Codes in the Torah, Jerusalem, “Shamir”, 1987, No. 6.
A legitimacy called in question by, for instance, ERWIN SCHRÖDINGER, who in Nature and the Greeks
(Cambridge, U.P., 1954) asks: “Who is to guarantee that faced with the totality that is the object of scientific research – a totality of incomparably greater complexity than that of the natural numbers – we have in
our hands the right starting point and the right key to research? If one believes that, it is only a dogma”.
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bility are not, in the cosmic order, achieved in such a way as to authorize us to
base statutes and customs on the elimination of unwelcome contraries – as
Elohim commands in Genesis 1:28 – but upon reconciling them in friendship,
by containing within the proper measures both what appears to us ‘evil’ and
what appears to us ‘good’. The science of the Era of YHVH must, indeed, guide
us towards the search for these “proper measures”.33
I conclude by reiterating the reason why the ancient ‘Mediterranean’ wisdom
hid the messages capable of leading us into the “Tent of Meeting with the Lord”.
Isaiah 45:7 makes YHVH say: “I form the light, and create darkness: I make peace,
and create evil”. To make possible the advent of the God who invites us to respect
the presence, on Earth, of what appears to us undesirable, mankind – symbolized
in the “most wretched people, Israel (cf. Psalm 119:87)” – had first to take to
itself an Elohim who commanded him to “subdue the Earth and replenish it”:34 an
undertaking incompatible with the worship of a God who invites to respect for
Otherness. It is to be the sufferings caused by proceeding, in the Eras of the
Elohim, in directions diverging from a natural order founded on the friendship of
opposites that will finally promote the advent of the “Son of David” and the
building of the ‘City of Y HVH ’. He is the “God of Justice” just because He
provides that it be Otherness itself, through its excesses, that will impel man, his
instrument, to finally become the vehicle on Earth of equilibriums of opposites
akin to those with which YHVH conferred stability on our Heaven.
The fragment of bas-relief appearing on the cover of this work is there
specifically to indicate that by the “force of things” – by the “wind” that swells
out the tunics – even the ‘unwilling’ will be thrust towards the Temple of
Ammon-Zeus-YHVH: the fifth figure in the procession depicted in figure 1 is
looking backwards towards the world of Elohim.
33 “To show what, in itself, exactness is,” writes Plato in Statesman 283c3-284d2, “we must divide
metrics into two (284d2-e2): it is a science concerning length and shortness, but also excess and deficit....
We shall accordingly locate in one of the parts what concerns relations of mutual greatness and smallness;
in the other, what proves to be in accordance with the necessary inherited nature of beings.... If we did
not know the relation that beings have with proper measure, we should vanify the sciences which, like the
art of weaving and politics, deal with what exceeds or falls short of the proper measure and which, with
measure saved, can manage to complete in perfection and beauty everything they are applied to.... It is the
need to measure together the ‘more and less’ in relation to the production of the proper measure that must
be recalled when we wish to clarify what, in itself, ‘exactness’ (tajkribev") consists in.”
34 To emphasize that Elohim and YHVH are unitarily conceived dresses of one and the same God,
both these names are hidden in the first (so-called ‘elohist’) chapter of Genesis. To indicate that it will
be Elohim that will evolve into YHVH, the name “Elohim” is hidden in verses 7-10 at intervals of 26,
equal to the gematria of the Tetragram YHVH; to indicate that YHVH is the “God of Justice” (by contrast with Elohim who, after calling on Otherness to form the animals “each according to its own kind”
seeks to put an end to wars and massacres by giving “every green herb for food” to all), the Tetragram
is hidden in verses 1-6 at intervals that evoke the gematria 64 of Dyn-Justice.
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APPENDICES
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APPENDIX I - GREEK REFERENCES TO EGYPTIAN WISDOM
Philebus 16c: “It was the Ancients,* more able than us because they lived
closer to [visible] Gods, that handed down to us the revelation that what is
called ‘ever-existing’ is ‘one and many’ because it combines in itself the nature
of limit and of the unlimited”.
Philebus 17c11-e6: “You will be wise, when you know how many intervals,
and which, separate the highest from the lowest tone, and master the numbers
that pattern them and the compositions that result. The Ancients discovered
those numbers and handed them down to us who follow them, teaching us to
call them “harmonies”, just like the similar [fully rational] occurrences taking
place in the movements of the [heavenly] ** Body. It is this Genus of number
we must use to investigate each one-and-many entity; you will be wise once you
know how to grasp any unit [= unitary form] by enquiring into it in this way.
The indeterminacy and multiplicity present in every entity will condemn you to
remain vague in thought, since you will be inexpert in fully rational numbers
(logismoiv) and dianoetic numbers (ajriqmoiv), until you have made yourself able
to discern in every entity a [definite] number”.
Philebus 26b7-d9: “Seeing the arrogance and abjection of all things, it was none
other than she, the Goddess,*** who imposed law and order that bring limit and
are thus capable of saving us.... Salvation comes to us from a “third one” which is
Idea (25b5, 6) and is the set generated by proper measures of the two Genera of
limit and the unlimited. It is this proper measure that turns into a becoming
towards an essence established by metres that truly limit and give health”.
Timaeus 21e1-23d1: “The Goddess who for you Athenians is Athena and for us
Egyptians Neith... had care of and nourished your city a thousand years before
ours,” says an Egyptian priest to Solon: “nine thousand years ago (23d4-e6). Except
that the things that have happened among us or elsewhere, which we knew how to
listen to when they had something beautiful about them or great or something else
outstanding, we carved them all from antiquity in the temples, and thus saved
* These “Ancients” cannot be identified with the Pythagoreans, as the exegesis maintains, because in
Timaeus 22b4-8 Plato has an Egyptian priest say: “You Greeks are a still young people: you have not conserved any ancient opinion, nor collected teachings made hoary by age”.
** That this has to do with the “dances” of the heavenly bodies and not of dancers, as some hold,
is confirmed by Epinomis 982e3-6: “That which all creatures need is brought to fulfilment by the nature
of the heavenly bodies, in an evolution and in a dance that is the fairest and finest of all dances”.
*** Who this “Goddess”, confused with Aphrodite by the exegesis, is is stated in Timaeus 21e1-23d1
(see above).
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them. Instead, with you and other peoples, at almost regular intervals, there comes
a ‘flood’ like a furious monster that leaves alive only those ignorant of letters and
the Muses: the shepherds that live in the hills. So you come back every time
‘young’, knowing nothing of what happened long ago.”
Laws 656d1-657b1: “It is noteworthy that in Egypt one can find paintings and sculptures ten thousand years old – ten thousand, not just a manner of speaking – equal to those produced today, with identical art. The fact
that they have remained identical is of great value for the effects that implies
for the laws and orders of the State. This is true and worth pondering also
for music; one must ascribe to a God or a divine man the prodigy that
made it possible there to establish melodies that reproduce, by eternalizing
it, that which according to Nature is most just.”
Laws 819a8-820d2: “In Egypt, children already learn, at the age they study
grammar, what pertains to logismoí [fully rational numbers] by bringing them
to apply to games the relations there are between the necessary numbers [in
the natural connection of the forms]. Then, fixing their attention on the metrics regarding lengths, surfaces and volumes, the masters free the pupils from
the ridiculous ignorance, by nature inherent in all men, of the problems involving the irrational,* an ignorance more befitting swine than men.... For related with the errors concerning the irrationals are others; so that those who
do not manage to discover the different natures in which the relationships of
commensurability and incommensurability arise** are destined to remain
totally unwise: the metrics of those who do not know the problems bound
up with incommensurability does not differ, basically, from a lottery.”
Phaedrus 274c5-275b2: “It was Theuth who discovered number and logismós,
geometry and astronomy, and hence also lotteries, dice and the letters of writing.
Presenting himself and his discoveries to King Thamous, Theuth said they
were able to give people memory and wisdom, and was answered: As father
of writing you attribute to it the contrary of its effect: for it will generate
* Plato sees the tendency to pass over the problems opened by the appearance of the mathematical
irrational as displaying the desire common to all men to live in a region not dominated by ajpeiriva-indeterminacy.
** Natures where relationships of complete commensurability exist are the bimetric ones of the
Logismoí that regulate the World Soul and the movements of our Heaven. Incommensurability originates
because divine Justice wants the predominance of Sameness in the intelligible and in our Heaven to be
balanced by that of Otherness on Earth and in us; this is the reason why we have been given a monometric mind, compelling us to dissolve into the irrational, making us instruments of Otherness, and free, one
of the two units that institute the divine bimetric numbers.
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only forgetfulness and darkness in the soul of those who seek to learn through
it, not from within themselves, but from outside on models from others....
Being able to have a notion of many things without true learning, the pupils
will believe they are learned while really knowing nothing. Stuffed with opinions instead of wise, with them it will be a pain to converse.”
Epinomis 986e9-987a6: “An ancient tradition nourished the first ones in
Egypt and Syria who applied themselves properly to the study of the celestial
phenomena.... It was from those countries that the astronomical observations,
facilitated there by clear skies and verified over a large number of years, spread
everywhere, and to Greece too”.
Learning that what instils “respect for the divine” is astronomy “will surprise those who do not know how much wisdom the true astronomer must
have.... to consider the revolutions of the heavenly bodies in a way no-one
could arrive at who did not share in a wondrous nature.” “The greatest and foremost” of the lessons to be learnt by the astronomer – continues 990b8-c5 – is
“the ‘incorporeal’ mathematics that governs the whole origination of odd and
even [cf. note 14] and concerns the power which from that máthema irradiates
into the nature of beings.” It is a “wonder not human, but divine,” clarifies
990c5-d6, “that will be discovered by those who know how to meditate on the
fact that (full) rationality is manifested when numbers which, such as for example 2 and 1 , do not seem congruent (oujk oJmoivwn) are raised to the second
power”.* Indeed, it is on the very incommensurability of numbers whose squares
* In note 17 I mentioned how the concept of rationality adopted by the mathematics “of the forms”
is founded on the ajnqufaivresi"-ajntanaivresi" that Aristotle sets out in Topics 158b29-159a2 as follows:
“Pairs of apotomes that have the same anthyphaeresis are in the same ratio; this is the definition that
makes manifest certain properties [unknown to the dianoetic concept of ratio, which compares quantities that are incommensurable because they are bimetric, compelling one of them to be expressed in
tenths, hundredths, etc. of the other]”.
The basic property highlighted by expressing the ratio between the quantities A and B through the
sequence n0 , n1 , n2 , etc., of whole numbers of times in which B is contained in A, then A–B is contained in
B and so forth (cf. note 17), consists in bringing together into one and the same Kind quantities commensurable in length, and those commensurable only in power, with 1. The ratio 2 :1, for instance, has an anthyphaeretic ratio [1, 2], with periodic 2; this means that 1 is contained in 2 once, that the remainder 2 –1 is
contained in 1 twice, and so on, so that the anthyphaeretic ratio of the ratio ( 2 :1):1 is periodic [ 2] and is
thus a “sayable (rJhtovn)” number, just as, in the dianoetic arithmetic, the ratio 4:3=1, 3.
It is on the fact that the anthyphaeretic ratio of 2 :1, which is [1, 2], of ( 2 :1):1, which is [ 2], and of
(2– 2 ):1, which is [ 2 ], are periodic that Socrates, in Theaetetus 148b3, bases the words “a[ristav g’ajnqrwvpwn,
w\ pai`de" - stupendous things, lads, for men!” with which he hails the announcement of the unification “eij" e{n
- in a single Genus”, namely that called “sayable (rJhtovn)”, of the numbers commensurable in length with
their own square root (called “mhvkh”: the squares 1, 4, 9, 16, etc.) and those commensurable only with the
square of their own root (called “dunavmei"”; e.g. the numbers 2, 3, 5, 6, etc.), and with them, of the apotomes
in APPENDIX II. Theaetetus 148b3 thus anticipates Definition III in Book X of the Elements and gives advance
notice of the “divine wonder” of Epinomis 990c5-d6: the human conquest of mathematical rationality.
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are commensurable that the sole full rationality accessible to the human mind is
based: the “anthyphaeretic” one of the sequence of apotomes “of the forms” and
of the sequence of “primary” apotomes of the Ideal Forms ‘of Epinomis’, set out
in APPENDIX II.
The reference to the “clear skies” of Egypt, accompanied by the hymns
in Philebus and Phaedrus to Theuth, “inventor of number and logismoí,
geometry and astronomy”, shows that Plato ascribed to the Egyptians the
discovery of the mathematics that reveals the Principles that institute the
celestial regularities, stable just because they are governed by numbers fully
exempt from irrationality. And Aristotle aligns himself on Plato when he
writes:
Metaphysics 981a24-b25: “The technician is wiser than those who only
have experience, since he knows the causes of what he does ...; the sensations by contrast do not explain the reason for things.... Accordingly, the
masters of arts are regarded as wiser than the executants: they direct with
the mind and know the causes of what they do.... It is therefore natural
that those who discover an art, elevating themselves above sensations, are
admired as men of superior wisdom. And when techniques were aimed at
making life easier, those whose knowledge went beyond bare necessity were
regarded as the wisest. There was then a move to cultivating sciences aimed
no longer at satisfying needs or pleasures; this came about for the first
time where men freed themselves from material cares. Thus mathematics were
coordinated [as a science] for the first time in Egypt, since there the priestly caste was able to live at leisure.”
Since technique – we read in Nicomachean Ethics 1140a – though based
on truthful reasoning, relates to that which could also be otherwise, while
science is aimed instead at truth in itself, and thus at what is necessary and
universal, the theoretical sciences - concludes Metaphysics 981b25-982a3 – “will
be wiser than the productive ones. It is accordingly clear that wisdom is
knowledge of certain principles and causes.”
“And as the supreme forms of the Beautiful,” adds Metaphysics 1078a36-b6,
“are order, commensurability and the presence of limit, so mathematics is the
science best able to clarify the cause that is a cause as is the beautiful.”
An author who certainly cannot, any more than Aristotle, be accused
of tenderness towards the initiatic mathematics of the mysteries is Isocrates,
who in Busiris 27-28 confirms: “Were time not a tyrant I could recount
wonders on the profundity of thought of the Egyptian priests; I am not
the first nor the only one to notice it, but many know it, today as in the
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past. Among these was Pythagoras: having gone there and become a pupil
of those priests, for the first time he brought to Greece ‘the other philosophy’ [th;n t’a[llhn filosofivan - different from the demological one cultivated by Isocrates]”. Note that Isocrates attributes to Pythagoras the introduction to Greece not of mathematical techniques, but of metaphysics.
Herodotus, II, History, 55-57: “The prophetesses of the Temple of Zeus
in Dodona relate that two black doves flying from Egyptian Thebes came,
one to Lybia, the other to them. This one, landing on an oak, ordered in a
human voice to build a Temple dedicated to Ammon-Zeus.
In Egypt it is instead related that two women consecrated to the God
Ammon were kidnapped by the Phoenicians and sold, one to Libya, the
other to Greece. The latter subsequently founded the oracle of Dodona, but
only after having learnt Greek.... I believe that the women were called “doves”
by the Dodonians because, being barbarians, they made sounds like those of
birds. And they add that the dove then spoke with a human voice to allude
to when it expressed itself comprehensibly.”
Stobaeus, Hermetica 23°, 5-8: “The Egyptian Hermes [= Theuth] managed
to penetrate the heavenly mysteries and revealed them in sacred books he
wrote with his own hand and then hid ‘in the earth’, so that future generations would seek them, but only those fully worthy could find them and
manage to use them to benefit the whole of humanity”.
Iamblichus, Myst 1°, 1,3 and 8°, 4.266-6.268: “Pythagoras and Plato, in
their journeys to Egypt, managed with the help of the priests to read the
stelae of Hermes-Theuth.... The Egyptians distinguish, both in the cosmic and
in the human sphere, the ‘natural’ life from that of the soul and the mind....
And they hold that in order to ascend to the divine regions one must cease
to trust to anything material or to other means and seek only the kairov"
[= that which makes this universe the best of all possible ones; cf. Statesman
284e6, Phaedo 98a6-b1]. Theuth too showed descendants this path, which the
prophet Bitys interpreted to the king Ammon, having discovered it written in
hieroglyphics in a temple of Egyptian Sais. Theuth made the whole world be
crossed by the name of God”.
I close this by no means exhaustive collection of Greek references to the
mathematical and philosophical wisdom of the Egyptians by noting a passage in
Proclus that the exegesis interpreted by forcing it in the direction of limiting
those priests’ interest in geometry to the concepts needed for land surveying. In
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his Commentary on Book I of Euclid’s Elements, Proclus instead says not that
Egyptian geometry is exhausted in land surveying, but only that in Egypt geometry developed from surveying.
Proclus (64, 65 Friedlein): “Since one has to enquire into the Principles
both of techniques and of the epistematic sciences, we too agree with the
many historians who report that geometry was discovered by the Egyptians
first, since originally they used it to measure the land, the boundaries of
which were disrupted by the overflowing of the Nile. It is thus not surprising that the invention of this technique and the other epistematic disciplines (ejpisthmw` n) took origin from [material] needs and, as happens with
all things in the world of generation, passed from imperfection towards perfection. Thus [in Egypt too] the invention of geometry will likely have
come by rising from [imperfect] sensible perceptions to logismós [to the
perfection of the fully intelligible and rational]: ajpo; aijsqhvsew" ou\n eij"
logismo;n kai; ajpo; touvtou ejpi; nou`n hJ metavbasi" gevnoito a]n eijkovtw" . As with
the Phoenicians it was the needs of trade and exchange that gave rise to
a [subsequently] accurate (ajkribhv") study of numbers, so with the Egyptians
the invention of geometry took origin from the causes mentioned”.
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APPENDIX II
Sequence of the apotomes [of the forms] in the Republic
I
II
III
IV
V
C
D
2C
2 –1
2– 2
2 2 –2
3–2 2
3 2 –4
6–4 2
5 2 –7
10–7 2
10 2 –14
17–12 2
17 2 –24
34–24 2
29 2 –41
58–41 2
58 2 –82
C
D
2C
577– 408 2
577 2 –816
1154–816 2
XIII
XIV
XV
XVI
C
D
2C
33461 2 – 47321
66922– 47321 2
66922 2 –94642
114243–80782 2
114243 2 –161564
228486–161564 2
195025 2 –275807
390050–275807 2
390050 2 –551614
1665857– 470832 2
1665857 2 – 941664
1331714–941664 2
VIII
IX
VI
X
985 2 –1393
1970–1393 2
1970 2 –2786
3363–2378 2
3363 2 – 4756
6726– 4756 2
VII
99–70 2
99 2 –140
198–140 2
1692 –239
338–2392
3382 – 478
XI
XII
5741 2 –8119
11482–8119 2
11482 2 –16238
19601–13860 2
19601 2 –27720
39202–27720 2
Relations between the “geometrical-philosophical apotomes of the forms”
(according to Proclus and Theon)
Ck +1 = Dk – Ck
Dk +1 = 2Ck – Dk= Ck – Ck +1
2Ck +1 = 2Dk – 2Ck
Sequence of the primary apotomes ‘of Epinomis’ of the ideal Forms
C1 = 2 – 1
D1= 2 – 2
E1 = 2 2 – 2
C2 = 3 – 2 2
D2 = 3 2 – 4
E2 = 6 – 4 2
C4 = 17 – 12 2
D4 = 17 2 – 24
E4 = 34 – 24 2
C8 = 577 – 408 2
D8 = 577 2 – 816
E8 = 1154 – 816 2
C16 = 665857 – 470832 2
D16 = 665857 2 – 9 41664
E16 = 1331714 – 941664 2
Relations among the primary apotomes
(according to Book X of Euclid)
C2k = (C k ) 2
E2k = (E k ) 2 : 2 ( f o r k 4 )
Dk = E
2k (for k 4).
The relations on the basis of which Book X generates the primary apotomes
with k 4 from D1, and makes D1 arise in a circle with its potentiator, are sum-
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marized on p. 366 of my Da Giza (cited in note 25). These are very complex
relations, which Euclid says are “not briefly summarizable”.*
I shall here set out, instead, the method followed in Epinomis to clarify “where and
how (o{ph/ kai; o{pw" - 990b2-4)” the mathematics “able to make man wise” are to be learnt.
To show this “where and how” Epinomis, instead of describing the concatenation
of “primary and incorporeal” apotomes, derives the pairs of “names” of C2k and of
D2k from those formed of the “names” of Ck and of Dk ; these “names” can then be
treated as monomes in the dianoetic arithmetic “of builders and merchants”.**
The Greeks, moreover, represented the apotomes in the form of pseudofractions, with the ‘side’ 1 units in the numerator and the ‘diagonal’ 2 units
in the denominator; for instance:
C1 = 2 – 1
D1 = 2 – 2
C2 = 3 – 2 2
D2 = 3 2 – 4
was
was
was
was
represented
represented
represented
represented
by
by
by
by
the
the
the
the
“duva" - dyad”
“triva" - triad”
“hJmiovlio"”
“ejpivtrito"”
[1/1];
[2/1];
[3/2];
[4/3].***
Between the apotomes with index 2 and those with index 1, the following relations obtain:
The pseudo-ratio C2 = [3/2] is the half-sum of the pseudo-ratios C1 = [1/1] and
D1 = [2/1]. For:
1 1 2
3
— —+— =—,
2 1 1
2
(
)
so that the names of C2 can be constructed as the arithmetic mean (= half-sum)
of the “names” of C1 and of D1 . Similarly, the pseudo-ratio C4 = [17/12] is the
arithmetic mean between C2 and D2 :
1 3 4 17
— —+— =—,
2 2 3 12
(
)
It is more complex to identify the rule enabling D2 = [4/3] to be deduced from
C1 =[1/1] and D1 =[2/1]. It turns out, however, that [4/3] sets up with [1/1] the difference 4/3–1/1=1/3, and that [2/1] sets up with [4/3] the difference 2/1–4/3=2/3; if this
2/3 is related to 2/1 the way 1/3 of 4/3 – 1/1 is to 1/1, then we have the difference
2/1–4/3, divided by 2/1, also giving the ratio 1/3 (for 2/3:2/1=1/3).
The relation whereby the intermediate term 4/3 exceeds the lesser term 1/1 by a
1/3 part of the latter, which is equal to the 1/3 part of the greater term 2/1 by which the
latter exceeds the middle 4/3, is called the relation that sets up the “harmonic” mean.
* An ancient anecdote tells how when King Ptolemy asked if there were no faster ways of learning his
geometry, Euclid replied: “The Elements do not admit of royal roads”.
** This has led the exegesis to confuse the numbers in Epinomis with the dianoetic ones and to regard this
Dialogue as spurious; Plato would indeed be inexcusable had he, after having warned philosophers against making
2 arise from sums or divisions of 1 (cf. Phaedo 101b9-d5: “You should beware of taking as a cause of becoming two
the addition of one to one or the division of one into two”), made the philosophical mathematics consist of idealizations of numbers of the geometry that Epinomis 990d2 and Republic 527a6 proclaim to be “ridiculous”.
*** ÔHmiovlio" means “a whole plus a half”; ejpivtrito" is the ratio “to three of the number immediately higher than three”.
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Accordingly, one can from the “names” of C2 = [3/2] and of D2 = [4/3] deduce,
through the relation of the harmonic mean, the “names” y of the apotome
D4 = 17 2 – 24 = [24/17]. For we have:
4
4
3
3
— – y :—,
( y – —3 ) :—=
)2
3 (2
24
whence y= —,
17
so that the relation that characterizes the “harmonic” mean is confirmed:
24 4
4
3 24
3
— – — :—,
( —17– —3 ) :—=
3 ( 2 17 ) 2
Here is the generalization that Epinomis 991a4-b4 gives of the results exemplified above:
The proportion [“incorporeal”, according to which all Nature models Kinds
and Species – cf. 991a1] proceeds towards the mean between a number and its
double [e.g. between 1 and 2] and is modulated by two middle terms; one of them
identifies the number x that exceeds the lower extreme by a quantity equal to that
by which it is exceeded by the upper extreme [x is accordingly the arithmetic mean
identified by the relation x – 1 = 2 – x, so that x = 3/2]. The other middle term, of a different nature ( e{teron), exceeds the lower extreme and is exceeded by the upper by
the same proportion [it is therefore the harmonic mean, determined by
(y – 1) : 1 = (2 – y ) : 2, whence y = 4/3]. In this way the hJmiovlio" 3/2 and the ejpivtrito" 4/3
are formed, numbered by the integers 9 and 8 if the interval between a number and
its double has for extremes 6 and 12. With the sequence modulated by 3/2 and 4/3
which proceeds towards their mean, it was given to men to use agreement and coherence of measure [i.e. concord of the different (1 and 2 ) and commensurability so
obtained (cf. note 17 and note * on p.31)] in the service of a play of rhythm and harmony granted [by the Gods] to a chorus of Muses inspired by the Good.
It remains to be shown that this passage of Epinomis concerns the “names”
of the terms C2k and D2k of the “Sequence of the primary apotomes ‘of Epinomis’
of the Ideal Forms” on p. 79, and not monomial numbers of the arithmetic that
Philebus 56e7,8 destines for “builders” and “merchants”.
If they concerned “mathematical” monomes, the fractions 3/2; 4/3; etc. would
not be “incorporeal” – as 990c6,7 instead calls them – because [3/2], for instance,
being the arithmetic mean [1/1+2/1]:2 between 1/1 and 2/1, would contain “parts”.
Still more decisive is the confirmation given to the possibility of referring
the fractions in Epinomis 991a4-b4 to the ideal apotomes by 990e1-990a1:
“Divine and wonderful is the fact that [will be revealed] to those who know how
to discern and meditate upon how, turning ever around the double, [with their
respective squares, the ratios set up by] the diagonal and the opposing line, in accordance with each of the similar relations [thus established and between them], all of
Nature models Species and Kinds.”
This phrase first and foremost rules out the possibility that the numbers
Epinomis goes on to speak of are monomial numbers of the dianoetic arithmetic; for if they were, the ratios between their multiples would identify a sin-
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gle relation, and not a set of relations each suitable for representing a form. For
from the pairs 2 and 1, 4 and 2 , 8 and 4 , etc., the squares of the
ratios of which all turn round two, we always obtain the pair formed of the
apotomes 2 – 1 and 2 – 2 .* Moreover, the following ratios tend to become
equal to 1, whereas Epinomis 990e1-991a1 says they equal 2 :
(3/2) 2 :(4/3) 2
=
1.26...
;
(17/12) 2 :(24/17) 2
=
1.0069...
;
(577/408) 2 :(816/577) 2 ;
=
1.000006...
Instead, the ratios [2/1]2 : [1/1]2 ; [4/3]2 : [3/2]2 ; [24/17]2 : [17/12]2 ; etc. all become
equal to 2 only if they are used to represent the squares of the “names” of the
primary apotomes D2k and C2k in the table on p. 79; then:
(2– 2 ) 2 :( 2 –1) 2 =(6–4 2 ):(3–2 2 )=2,
or (D1 ) 2 :(C1 ) 2 =2C2 :C2 =2
2 –4) 2 :(3–2 2 ) 2 =(34–24 2 ):(17–12 2 )=2,
or (D2 ) 2 :(C2 ) 2 =2C4 :C4 =2
(3 2 –24) 2 :(17–12 2 ) 2 =(1154–816 2 ):(577–408 2 )=2,
or (D4 ) 2 :(C4 ) 2 =2C8 :C8 =2
(17 2 –816) 2 :(577–408 2 ) 2 =(1331714–941664 2 ):(665857–470832 2 )=2,
(577 or (D8 ) 2 :(C8 ) 2 =2C16 :C16 =2
It was, then, hardly a happy piece of exegesis to give up trying to solve a
‘riddle’ to which 990e1-991a1 offers a clear and simple ‘key’ and instead pronounce Epinomis ‘spurious’ as “unworthy of Plato’s pen”.
Epinomis 991a4-b4 thus leads to replacing the Euclidean notations
C2k = (Ck )2 ; E2k = (Ek )2 : 2; Dk = E2k , used on p. 79 as being involved in proving
the ideal and primary nature of the apotomes “of the Forms”, by the expressions (•), adopted for the remainder of this section.
Indicating by Ak and Bk respectively the number of ‘side’ 1 units and ‘diagonal’ 2 units of the apotome Ck , the triple with index k is formed by the
apotomes:
(•)
Ck =Ak –Bk 2
;
Dk =Ak 2 –2Bk
;
Ek =2Ak –2Bk 2
The “name” A 2k of the apotome C 2k , since it must be the sum of the
squares of the “names” of C k , will be (A k ) 2 + 2(B k ) 2 = 2 (A k ) 2 – 1 , because the
(Bk )2 = (Ak )2 – 1 are epimoric numbers. In turn B2k will be twice the product of the
“names” of Bk , and hence 2Bk Ak . Accordingly, the triple with index 2k will be
constructed from the apotomes:
(•)
C2 k =[2(Ak )2 –1]–2Ak Bk 2 ; D2 k =[2(Ak )2 –1] 2 –4Ak Bk ; E2 k =[4(Ak )2 –2]–4Ak Bk 2.
* Statesman 266a1-10 established that a Kind is divided into Species according to the proportions
2 :( 4 + 2 ) and 4 :( 4 + 2 ) ; accordingly, we have 1:( 2 +1)= 2 –1, just as 2 :( 4 + 2 )= 2 –1, and
4 :( 8 + 4 )= 2 –1, etc.
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APPENDIX III - LIVIO CATULLO STECCHINI AND THE MATHEMATICS “OF THE FORMS”
Since, thanks to Professor Stammer, Livio Stecchini’s studies on the
numerology of the Great Pyramid at Giza appear among the topics for the conference, I feel it appropriate to point out how Stecchini managed – though
without realising the true scope of the discovery, being misled by the prevailing
exegetical views – to discover the two fundamental relations in Epinomis of the
mathematics “of the Forms”, to hand down which the Great Pyramid was built
(cf. pp. 54-55).
The cubit used in antiquity – writes Stecchini in the work cited – was made
up of 6 palms (hands) of 4 fingers each; the Egyptian royal cubit instead consisted of 7 palms, hence 28 fingers. The reason why the Egyptians had recourse
to septimal measuring units is because they lend themselves to practical methods
of calculation: the surveyors coordinated them with the units of area of
sequences where each term was double the previous one. For in practical calculations it was assumed that a square of side 100 was twice one of side 70 and
half one of side 140 ; this implied assuming 2 = 7/5 = 14/10 = 1.4 and
2 = 10 : 7 = 1.42857.... For a closer approximation the two values were averaged as
(7/5 + 10/7) : 2 = 99/70 = (1.4 + 1.42857...) : 2 = 1.41428....
It is hard – though not for a Neugebauer or a Gillings – to conceive that
the problem of duplicating a square plot as a square plot, and the still less likely one of dividing it into two squares, presented themselves to the Egyptians with
such frequency as to lead the geometers to invent a measuring unit ad hoc. To
go on to maintain that a cubit invented for agricultural uses – but was there
not already the six-palm kind? – was pronounced “royal” because it consisted
of seven palms instead of six amounts to maintaining that the tailor’s yard,
because it has 15 decimetres, and the surveyor’s rod because it has 30 decimetres, are nobler measures than the metre, and qualitatively different.
Only an exegesis that can elect itself interpreter of ancient wisdom without
having read the Old Testament can suggest that a cubit invented “for rural
uses” could be used by the messenger of the Lord who, holding in his “hand a
measuring reed of six cubits long, of a cubit and a hand breadth each”, dictates
to Ezekiel the measurements of a Temple where “the house of Israel shall no
more profane my holy name ... by the carcasses of their kings ... in their setting
of their threshold by my thresholds, and their doorpost by my posts” (Ezekiel
43: 7-9). And ultimately the implication would be that Plato and Aristotle had
lost their senses in hailing the Egyptians as the mathematicians who had regarded as a “science of principles and causes” a discipline that would take as “royal
and sacred” a cubit concerning things sensible; a contradiction unpardonable
for one who, like Plato, held it absurd to “seek universal knowledge in things
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sensible, continually in change” (cf. Metaphysics 987b6-9), or like Aristotle
preached that “mathematical exactness can be found only in that which is devoid
of matter” (cf. Metaphysics 995a15-17).
It is Stecchini himself, even though misled by the assumptions of the traditional exegesis, who guides us towards solving the problem of the “royal and
sacred” nature of the cubit of the Egyptian and Old-Testament Temples, when
he anchors it to the pair [7/5] and [10/7] and the pair [99/70] and [140/99]. He
anchors it to these pairs because he reads in Proclus, Theon and Porphyry *
that the numbers 7 2 = 49 and (5 2 ) 2 = 50 , then the numbers 99 2 = 9801 and
(70 2 )2 = 9800, constitute the pairs of “epimore” ** numbers the roots of which
give the “names” of the apotomes:
C3 =5 2 –7=[7/5] ; D3 =10–7 2 =[10/7] ; C6 =99–70 2 =[99/70] ; D6 =99 2 –140=[140/99].
It is then immediate for anyone with some familiarity with the EgyptoPlatonic mathematics “of the Ideal Forms” and with the Old Testament to infer
that the 7 present in the notations [7/5] and [10/7] is ‘sacred’ for the same reason as the menorah with its seven flames, the feast of seven weeks, the sabbatical recurrences etc. The menorah, seven weeks etc. are in turn ‘sacred’ things
because the square 49 of 7, paired with its epimore 50 (Pentecost, Jubilee etc.),
constitutes the pair of squares of the “names” of the apotome C 3 = 5 2 – 7 ,
which offers the key for access to the primary sequence of apotomes “of the
Ideal Forms” (cf. p. 57). For if inserted into the expression x + 2 x ( x + 1 ) on
p. 57, implied by Lemma II set before X-29 of Euclid, the pair 49 and 50 allows
us to arrive at the whole sequence of apotomes “of the ideal forms”; moreover,
by directly originating the squares of the “names” of the apotomes C2 = 3 – 2 2
and C4 = 17 – 12 2 , the expression 49 + 2 · 50 · 49 on p. 57 brings out the relation
in Epinomis C4 = [17/12] = (3/2 + 4/3) : 2 (cf. APPENDIX II) that sets up the sequence
formed of the apotomes with indices 1 ; 2 ; 4 ; 8 ; 16 ; etc., namely the one setting
up the “primary sequence of the Ideal Forms”, set out on p. 79. The sequence
to which the apotomes C1 ; C2 ; C4 ; C8 ; C16 ; etc. belong is the one that Epinomis
991a4-b4 asserts is made up of the “incorporeal” numbers that constitute “the
* In fr. 47A17 Diels, Porphyry concludes: “The complex and epimore relations (oiJ de; pollaplavsioi lovgoi kai; ejpimovrioi) in which the mathematical harmonies are investigated are connected with terms incommensurable with each other.... The terms not fitting the harmonies are accordingly born ‘mixed’ (givnetai ou\n
ta; ajnovmoia tw` n sumfwniw` n summigevnta); the Pythagoreans call the formation of ‘one’ with pairs of the aforesaid incommensurable terms ‘mixing’ (summivsgein de; levgousin to; e{na ejx ajmfotevrwn ajriqmw` n labei`n)”.
In Philebus 25b5,6 Plato similarly writes: “ to; de; triv t on to; meikto; n ej k touv t oin aj m foi` n tiv n a ij d ev a n
fhvsomen e[cein - we shall call ‘Idea’ the third entity resulting from the mixtures of these two progenies, of
limit [=numbers of 1 units] and of the unlimited [=numbers of 2 units] respectively”.
** A pair of “epimore” numbers is one formed by a square number (e.g. 9801 = 992 ) that exceeds, or
falls short of, by one unit twice a square number (e.g. 9800=2x 4900=2·70 2 ).
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gift [of the Gods] to the chorus of Muses pursuing the Good ( euj d aiv m oni
coreiva/ Mousw` n)”; and hence the sequence of the apotomes that can with full
consistency be proclaimed “royal” because they are primary and “sacred” because
they are ideal: human imitations, fully rational, of the divine Logismoiv that
“permit [our] Heaven to converse with itself without need of external intervention” (cf. Timaeus 34a8-b9).
Stecchini ‘gets his hands on’ the relations that set up the Epinomis sequence
of numbers “of the Ideal Forms” when he writes (7/5 + 10/7) : 2 = 99/70 and then
goes on to introduce, alongside this ratio, the ratio 140 : 99, which implies the
“harmonic” relation (cf. APPENDIX II):
y–7/5 10/7–y
———=———,
7/5
10/7
whence
140
y= ——.
99
Accordingly, from C3 = [7/5] and from D3 = [10/7] Stecchini deduces C6 = [99/70]
and D6 = [140/99], thanks to the same operations whereby Epinomis deduces (cf.
pp. 80, 81) C4 =[17/12] and D4 =[24/17] from C2 =[3/2] and from D2 =[4/3].
Stecchini thus testifies that traces of the Egypto-Platonic numbers remain in
the mathematical memoirs that have reached us; these traces are, however, distorted in consequence of the Western denial of philosophical value to mathematics.
Being the link joining mathematics to philosophy, the numbers “of the Forms”
show that rationality and stability are permitted solely by the friendship of opposites: a result unwelcome to the orders ‘of Kronos’ that are beneficial for the
development of civilization.* Hence the handing down of the ideal mathematics in
the ‘cryptic’ fashion that the passage from Moshe Katz transcribed on p. 51
eloquently exemplifies. The consequent oblivion into which the mathematics “of
the Forms” fell, because it was hidden in the Temples and entrusted to hints inaccessible to the ‘uninitiated’,** justifies Neugebauer’s scepticism about Egyptian
mathematical wisdom: transferred to the dianoetic level, the relations between the
apotomes that the priestly mathematical wisdom celebrated as “sacred”, and Book
X of Euclid shows deserve the epithet because they form the sole set capable of
imitating the divine numbers that assure our Heaven of stability, decay into ridiculous expedients to calculate values of the square root of two.
* Cf. Laws 712e9-713e6 “The Cities of the present Era (tw` n nu` n) can become only imitations of the
realm of Kronos and do not deserve the name of ‘politei`ai’, reserved for the cities which, aligning themselves upon Nature, found their statutes on the friendship of opposites”.
** A demotic papyrus of the 3rd century BC celebrates the virtues of the heir to the throne Setne
Khaemwēse, fourthborn of Ramses II (13th century), because “he was educated in all the sciences, so that he
knew how to read the Books of the Sacred Scriptures, those of the Twofold House of Life and the inscriptions to be found on the stelae and on the walls of the Temples”. Even among heirs to the throne of the
Pharaohs, then, it was an exceptional fact, still recalled a millennium later, to be able to read the priestly
inscriptions.
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IL MISTERO DELLA GRANDE PIRAMIDE