L’OFFICINA DEI QUARTIERI
Memorie per la città, 1
Il cancello bianco
Ricordi di Argentina Tini
dal 1928 al 1996
Associazione Culturale Terravecchia Terranuova
L’OFFICINA DEI QUARTIERI
Memorie per la città, 1
Il cancello bianco
Ricordi di Argentina Tini
dal 1928 al 1996
a cura di
Anna Imelde Galletti
Carla Migliorati
Associazione Culturale Terravecchia Terranuova
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Questo volume è stato realizzato
con il patrocinio della III Circoscrizione “Genna” del Comune di Perugia
con il contributo dell’Assessorato al Decentramento del Comune di Perugia
con la collaborazione del Gabinetto di Presidenza, Relazioni Esterne e Editoria
della Provincia di Perugia
che ringraziamo
Finito di stampare nell’agosto 2002 dal Centro Stampa della Provincia di Perugia
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Presentazione
Nel 1276 gli abitanti dei borghi della città di Perugia chiesero concordi al governo comunale che non si chiudessero più al calar della notte
le porte della “terra vecchia”, l’insediamento antichissimo arroccato sui
colli e circondato dalle mura etrusco-romane. Questo chiesero, e ottennero, forti di una certezza imperiosa e dichiarata: anch’essi erano cittadini, e fra la terra vecchia e la nuova non c’erano più differenze.
Perché ci presentiamo con questo polveroso aneddoto di storia
locale? Prima di tutto perché l’episodio, nonostante che sia situato in
un luogo e in una data precisi, non ha affatto mero valore di aneddoto, ché di polvere molta ne rimosse allora e ancora oggi dovrebbe
rimuoverne, solo che ci si meditasse un po’ su. E poi perché, ad usarlo bene, non di storia locale si tratta, ma di un esempio generale, di un
sintomo dello sviluppo che, fra ondate di espansione e lunghe fasi di
assestamento, ha interessato per secoli quella figura singolare della
storia europea, così stretta in unità fisica e mentale con la sua campagna, che è la città italiana.
Ma soprattutto perché quell’antica percezione di uguaglianza,
quella scomparsa della diversità significò non tanto che gli abitanti
della terra nuova si sentissero ormai uguali a quelli della terra vecchia,
quanto piuttosto che gli abitanti dell’una e dell’altra, nel vivo di un’evoluzione economica e politica, urbanistica e culturale che aveva
mutato il volto e l’anima della città, si sentirono ormai, tutti insieme,
diversi.
Di questo insegnamento Terravecchia Terranuova si propone di
far tesoro. L’espansione urbana di questi ultimi decenni, a Perugia
come altrove, ha abbandonato quei primi borghi, chiusi poi a loro
volta in una cinta di mura, che furono un tempo fucina delle potenzialità creative della città. Seguendo in modo più o meno ordinato la
conformazione e l’offerta economica dei luoghi, l’abitato ha invaso il
territorio circostante, generando flussi di migrazione dal centro antico,
altri attirandone dalla campagna, da altre città, da altri paesi. E c’è chi
si è inurbato senza muoversi dalla propria casa. Ma quali uomini abitano fra tutte queste pietre, e come?
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C’è una nuova città, ed è diversa: è l’ora di sentirsi, tutti insieme,
diversi, di versare nel crogiolo della comune identità cittadina le culture, i desideri, i fertili disagi di quanti costruiscono gli spazi e i ritmi
di vita dei nuovi quartieri, replicando, spesso senza saperlo, il ruolo
civico e politico dell’antica cintura pulsante dei borghi. È il momento,
per ciascuno, di partecipare all’esercizio comune di una nuova pedagogia dell’urbanità.
Terravecchia Terranuova, con il patrocinio della terza
Circoscrizione del Comune di Perugia, apre dunque L’Officina dei
quartieri, un laboratorio ideale per la nuova città.
Da qui e da oggi iniziamo una campagna di raccolta e comunicazione di memorie orali e scritte che consenta di ricostruire, attraverso la voce e il sentire di cittadini antichi e nuovi, le esperienze sociali
e storiche che hanno accompagnato la nascita dei quartieri, l’elaborazione culturale di nuovi spazi mentali, tra la partecipazione urbana e il
permanere di gravitazioni verso i luoghi di provenienza, i processi di
aggregazione e di costruzione di identità comuni.
Non abbiamo avuto bisogno di cercare a lungo: per cogliere le
prime voci, già pronte a narrare, è bastato disporsi all’ascolto. Con il
primo racconto, che nasce nel tessuto urbano fitto e popoloso sotto il
quale respira ancora la campagna della Madonna Alta, inauguriamo
una collana il cui titolo – Memorie per la città – esprime appieno, crediamo, i nostri intenti.
Questo volume, infatti, attende non già lettori, bensì interlocutori. Il nostro scopo, la nostra speranza, è che questa voce, come nelle
antiche serate a veglia, altre ne susciti a commentare, a contraddire
forse, certo a narrare ancora. La nostra proposta è per tutta la città, e
per tutte le città.
Anna Imelde Galletti
Associazione Terravecchia Terranuova
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Nota introduttiva
Argentina Tini è nata nel 1928 nel territorio rurale corrispondente all’odierno quartiere urbano della Madonna Alta, nella parte sudorientale di Perugia. Nel 1995 il complesso edilizio nato dalla trasformazione del vecchio villino padronale e della sua casa colonica fu
abbattuto per far posto a un edificio condominiale, segnando la scomparsa dell’ultima traccia dei luoghi antichi che avevano accompagnato la sua infanzia e giovinezza. I ricordi che, a partire dal 1996, ha iniziato ad allineare e a concatenare in un lungo racconto sono la memoria di quei luoghi, e del loro ruolo nel costruire la vita sua e della sua
famiglia e quella delle società attraversate dalla sua storia.
Rivendicando il ruolo di “più antica natia” della sua casa, che la
rende depositaria di una memoria da tramandare alle nuove generazioni, Argentina Tini ha seguito un procedimento ancor più antico, da cronista della comunità, facendo appello non solo ai suoi ricordi, ma anche
a quelli di tutta la sua generazione. Ne nasce, nell’arco di sei anni, una
narrazione mai definitiva, anzi arricchita di continue incursioni su sentieri laterali, aperti dalla pura associazione fra i ricordi, e di nuove testimonianze, sempre rigorosamente evocate e attribuite. Il primo racconto, già corroborato dalle memorie degli anziani della famiglia, non si
limita a nutrirsi del contributo dei membri delle vecchie famiglie rurali, ma si fa strumento di rapporto con la nuova comunità dei compartecipi dell’esperienza urbana. Sono il parroco, il dottore, il farmacista,
figli della scrittura e già referenti colti della società contadina, ad essere chiamati a dare la loro approvazione e sollecitazione. È un ingegnere, intellettuale pratico, ad ancorare la narrazione alla rappresentazione
del territorio, corredandola di una documentazione cartografica che trasforma la percezione dei luoghi in geografia. Sono questi i primi passi
di un discorso personale e familiare, ben presto divenuto discorso corale, verso l’espressione di una memoria storica.
Ma non è l’intervento dei colti a dare ai ricordi di Argentina Tini
il loro significato più compiuto. La scrittura stessa, nel suo procedere,
porta la scrivente a elaborare propositi più avanzati rispetto al piacere
intellettuale della descrizione di un mondo diverso e arcaico, con
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vaghe tinte folcloriche. Per dirlo con le sue parole, “la mia è una storia come tante altre, molte certamente saranno più brutte o più belle,
ma se nessuno, o pochi scrivono, i nostri discendenti non sapranno
mai il nostro passato”. Argentina Tini ha lasciato la terra e la mezzadria all’età di trentaquattro anni: ha trascorso dunque la parte maggiore della sua vita in un confuso sommovimento dei vecchi orizzonti, nel
cuore della crescita vitale e talvolta dissonante di nuovi quartieri, nella
quale a gemmazioni silenziose di piccoli insediamenti semirurali si
affiancavano interventi regolatori avanzati ed esemplari. E la storia
del suo mondo contadino è preistoria del mondo urbano, necessaria
alla comprensione critica della nuova immagine dei luoghi.
“Scempiare l’immagine di un tempo”, intervenendo su di essa in
modo inconsapevole, significa scegliere di vivere in uno spazio e in un
tempo indifferenziati e indifferenti, privi del senso della storia.
I ricordi di Argentina Tini dal 1928 al 1996 sono circolati in
forma di opuscolo dattiloscritto, sotto il titolo Ricordi di vita rurale a
Madonna Alta e Pian della Genna, con la revisione di Elvio Fagiolari
e con un breve corredo di fotografie degli edifici demoliti e di cartografia storica.
Per questa edizione, ci siamo basate sul materiale manoscritto,
consistente in un testo lungo e compiuto e in una serie di unità testuali tematiche contenute in fogli sparsi, talvolta fornite di titoli, che
abbiamo mantenuti, o di segni di richiamo ai luoghi del testo principale che ne richiedevano il naturale inserimento. Nei casi di assenza
di indicazioni, abbiamo seguito criteri di evidente contiguità cronologica o tematica, verificati poi con Argentina. Dei testi manoscritti
abbiamo rispettato le forme grafiche e linguistiche, più vicine nei fogli
sparsi, per fonetica e sintassi, alla messa per iscritto di una lingua
orale. I titoli redazionali fra parentesi quadre hanno la sola funzione di
scandire il racconto.
Alcune parti della narrazione sono replicate e rafforzate nella
forma della prosa ritmica o del verso, secondo la consuetudine contadina del racconto per memoria e della celebrazione d’occasione.
Abbiamo inserito, con gli stessi criteri già descritti, altre unità testua6
li dello stesso genere: Ad Ada mia cognata Calzoni, Al’ora me dice
l’marito, Via del Bell’occhio n° 18.
I ricordi del 1943-44 hanno richiesto ad Argentina e a noi il maggior lavoro redazionale; nella discussione è intervenuto spesso il marito, Secondo Calzoni, sorpreso dall’armistizio a Mantova e rientrato
fortunosamente. Ci è sembrato valesse la pena di inserire a contrappunto del testo il suo racconto, raccolto in forma orale e trascritto
foneticamente.
In fine, abbiamo inserito il testo in versi 50 anni, che riassume la
storia della famiglia dal 1948 al 1998.
Quella in versi non è la sola replica del racconto. A riprova del
ruolo e della funzione dei luoghi nella costruzione della memoria, ci
siamo viste offrire una mappa del territorio disegnata sulla base dei
ricordi. Inconsapevolmente quanto meravigliosamente conforme ai
criteri della cartografia prescientifica, come quella ignorando il ricorso al simbolo e all’astrazione concettuale, essa offre un ritratto dinamico delle terre e, insieme, dei percorsi e del lavoro degli uomini fino
al 1950. L’inseriamo con piacere.
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Della Madonna Alta la più vecchia natia fui io di quella casa
Appunto per questo l’ho scritto e sempre ricordata.
Quando l’hanno scaricata ho provato tristezza e malinconia,
A non veder più i ricordi della mia infanzia, che sono andati via.
[Il Palazzo]
Alle volte vorrei non ripensare al passato, poiché gli anni sono
quasi 68. Però c’è chi di primo mattino mi sveglia, sono i muratori,
poco di sopra a noi, ricostruiscono il palazzo dove attaccata c’era la
casa, nella quale io sono nata nel lontano 1928. Quindi ripenso a
quei tempi, quanta pace, quanto silenzio! Sì come era bello quel
posto! Il palazzo disabitato, con tanti pini e cipressi, un lungo viale
adornato da due file di rose, che arrivava fino alla strada bianca e
polverosa, dove c’era un grande cancello bianco, attaccata una cancellata che scendeva gradualmente fino alla rete di recinzione, ai lati
si ergevano verso il cielo due maestosi immensi pini. Ce ne erano
tanti dei cipressi, pini, un boschetto con le piante vermiglie, il sambuco, i lillà ne sorgevano tanti qua e là, da una parte del viale c’era
un capanno di ferro con roselline gialle arrampicanti, sotto un tavolo di pietra, vicino una siepe di gelsomini, e di fuori sulla rete di
recinzione una siepe di alloro. Nella piazzetta davanti al portone una
palma si ergeva alta e bellissima dentro un’aiuola di rose gialle.
Da quel grosso portone con i battenti di ferro con facce di animali, si entrava in un corridoio dove ai lati c’erano appese alle pareti
sculture bianche di persone, chi sa cosa rappresentavano? da quanto
tempo erano lì? Poi si salivano grandi scale smerigliate che portavano
ai piani superiori, dove si trovavano tante stanze da letto, oppure degli
scaffali pieni di libri. Nel mezzo si trovava un grande salone con volte
dipinte fino all’alto soffitto.
Quando arrivava Pasqua di obbligo si doveva pulire tutti gli anni
noi contadini del podere il palazzo da cima a fondo, anch’io aiutavo.
C’erano tanti libri fra i quali uno che illustrava Roma, mi piaceva così
tanto che lo rubai, non l’avevo mai fatto, lo misi sotto il sinalino a qua9
dretti bianco e rosso e scesi le grandi scale smerigliate. Ma ahimè trovai sulla soglia del portone il padrone che mi disse, che ài lì sotto,
riportalo su, io mi arrossii a testa bassa, e così feci.
In fondo all’entrone, dove c’era un ingresso più piccolo, si scendevano 17 scalini, fino a un grande locale umido e buio con tre fonti
d’acqua che corrispondevano al pozzo esterno, che dava sul cortile di
bambù sul retro del palazzo, da quel pozzo profondo si attingeva con
una corda di ferro e secchio l’acqua per gli animali. Sulle scale c’era
una finestrella che dava nel pozzo. Sempre lì in fondo in una stanza
c’era una vasca grande murata, ci si metteva l’uva, si andava a pestarla con i piedi in più persone, sul davanti usciva da un buco il mosto,
che poi diventava vino, era come una festa, ci volevano parecchie persone, prima si coglieva l’uva, con i bigonci si portava nel canale, si
pranzava e si cenava in allegria, si faceva a metà con il padrone.
Anticamente dicevano che questo vecchio palazzo doveva essere stato un convento. Nell’entrone c’era una botola e si raccontava che
fosse servita in passato per far sparire delle persone. Col tempo invece è stato rifatto il pavimento ed il locale servì per le feste da ballo.
Poi ci venne prima un fruttivendolo, e poi il Circolo ARCI, e ora non
c’è più nulla.
Sì quel vecchio palazzo nel bosco era misterioso, raccontavano
di averci visto gli spiriti e in fondo al cancello bianco degli uomini con
dei lumi in testa vestiti di bianco. Il mio papà una volta era andato alla
festa di S. Marco in Prepo e vide dei lumi, pensò che fossero i padroni e di corsa tornò a casa; saltò la siepe non avendo la chiave del cancello, ma vide tutto buio. Voltandosi indietro vide quei lumi sopra il
cancello, per la paura perdette anche il cappello, tornò a prenderlo solo
il giorno dopo. Raccontava anche di aver visto a S. Pietrino le siepi
ondeggiare senza vento e diceva che era il diavolo; io ascoltavo con le
lacrime agli occhi incuriosita e spaventata.
Anche se il posto era solitario era bellissimo.
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[I luoghi]
Ai lati di questa vecchia villa rosa sbiadito, si pensava fosse del
1600, c’erano 18 ettari di terra, ricoperta di viti e ulivi, si estendeva
fino a dove ora comincia il tunnel della Madonna Alta, quello era chiamato il campo degli Alberetti, quell’altura al disopra del principio del
tunnel si chiamava il Toppone, dove c’era la casa colonica mezza scaricata era il campo del Fontino, più su il campo delle Mele, dove ora
c’è la scuola i Renicci con i filari lunghi, e dove c’erano gli ulivi ora
c’è la piscina e i campi da tennis, e dietro il palazzo un altro campo
con molti filari. Tutto questo, diceva il nonno, era stato pagato
218.000 lire.
Nel Toppone c’erano tanti sassi, in inverno se ne raccoglievano a
carrate, si diceva, che ci sarà qui sotto. Si scoprì gli anni dopo, quando furono scoperte le tombe etrusche, anch’io vidi quei sarcofagi,
dopo furono portati nei musei. Quei sassi raccolti a mucchi in inverno
tutti gli anni, con i buoi li trasportavano nella strada di Pian della
Genna, per non finire infangati ogni volta che si usciva, perché quella
era la strada per andare in centro o alla stazione.
Il più vicino era Spacci, poi Giannantoni, Taragnoloni lì vicino
Centova dove si trovano ancora in quelle curve cinque case. Una è
rimasta lì come allora, mezza scaricata, dove c’era uno spaccio di
alimentari e tabacchi, a me mandavano a prendere qualche etto di
formaggio, il sale col fazzoletto da spesa blu e bianco, era gestito dai
Lucacci prima, poi da Spacci, gli uomini giocavano a carte lì perché
non c’erano altri ritrovi in queste vicinanze. Nella strada polverosa
ci giocavano a ruzzolone lungo la Pievaiola, dalla stazione fin oltre
S. Sisto.
Al tempo dei nonni, Centova era chiamato il vecchio Angelo
Lucacci, aveva i baffi rigirati all’insù e due occhi spiritati, faceva il
carrettiere, aveva un mulo, trasportava ogni sorta di roba, si diceva che
aveva il libro del comando, lo trovò o glielo lasciarono, era un libro
grosso con la copertina tutta nera, quando giocava al lotto piccole
somme vinceva sempre. Era un tipo strano, la moglie Teresa diceva
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che alla notte si arrampicava nei muri, faceva cose strane, qualcuno
diceva che aveva bevuto. Veniva a mietere dai nonni, dicevano che
con una pagliuzza arrotava la falce e portava avanti 3 praci di grano,
gli altri solo una.
Marchetti abitava dove ora c’è la Villa Sarti, al n. 814 S.
Faustino, nel 1942 ci si venne ad abitare noi, i genitori, gli zii e i
nonni, si coltivarono quelle terre per venti anni. Era il Vocabolo
Palla, così leggevamo sull’indirizzo, quando ci scrivevano.
Lì c’è ancora quel vialetto, dove si trovavano una fila di olmi,
io e mio marito ci si arrampicava fino in cima con un sacco per strisciare le foglie, le quali era della buon’erba per le vaccine. Non ci
sono più gli olmi, c’è il vialetto chiuso da un cancello, non ci può
passare più nessuno, a pensarci un pò quella stradicciola era nella
cartina, quando passò il fronte la colonna delle cip passò anche per
lì. Io con questo volevo dire, volendo conservare la loro praisi di chi
ci abita, sì è anche giusto, ma però dovevano fare una piccola stradella al di fuori del recinto della villa, ma no niente, lo avevano
detto allora, così è finita, a costo di scempiare l’immagine di un
tempo.
Vicino a Marchetti, dove c’è ora il Sodalizio S. Martino, dal 1924
ci abitò la grossa famiglia Pottini fino agli anni 1947, i genitori e tre fratelli, con il tempo si sposarono e crebbero ben 8 figli, sei dei quali erano
miei coetanei, Fernanda, Olga, Iolanda, Giancarlo, Umberto, Duilio,
erano le mie amiche. Poi loro se ne andarono ed io mi sposai, così finì la
mia vita senza pensieri.
Su lungo la strada di Pian della Genna c’era Larini.
Vicino la scuola di Pian della Genna, Calzoni, che era dell’Ordine
Supremo dei Cavalieri di Malta, Mommi, Cupertori, Toccacieli tutti
mezzadri di questo o quel proprietario.
La Genna, io ricordo quando ero piccola era scoperta dalla Ferrovia
e non ricordo di preciso, quando ci fecero una colta di quell’acqua per
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fare girare le macine del grano, che fu attivo questo molino Cappellini
per vari anni, adiacente c’era una casetta con il mugnaio e famiglia,
davanti alla via del Bell’occhio, e fu a cielo aperto per tanti anni. Ricordo
quando ero piccola da qui Madonna Alta un inverno piuttosto piovoso
fece versare la Genna, era tutto un lago, arrivava fin al di là sul piano per
vari giorni, si era riempita di sassi di ciottoli di ogni genere, poi verzando aveva invaso tanti ettari di terreno, poi finita la piena, tanti uomini per
tanti giorni ripulirono questa Genna e riprese il suo corzo, però quasi tutti
gli anni guardavano bene di tenerla scombra, d’estate era un rigagnolo
anche perché i campi venivano annaffiati con quell’acqua rendendo il
terreno fertile.
Vicino al Bell’occhio ci abitava Biscarini lì vicino un grande
casolare dove ci macinavamo le olive e alle volte c’erano le feste da
ballo. Poi più vicino alla chiesa di S. Faustino Covalovi, Biagini,
Tomassoni erano i campanari, coloni di Guerrizzi il Colonnello, il
quale aveva la villa dove ora c’è fra i tanti un grandissimo palazzo
di fianco alla Standa. Più a Sud Ferraldeschi, Andreani a S. Pietrino,
Vaselli, Orecchini fin vicino al cimitero di Ponte della Pietra. La
parrocchia era grande, comprendeva fino metà della Costa di Prepo.
Comprendeva pure la vecchia Perugina. Con il suo fischio la vecchia ciminiera annunciava l’ora del lavoro degli operai, ora è rimasta sola lei nel bel mezzo dei grandissimi palazzi, a ricordare un
tempo che fu.
Ora tutto è cambiato, da circa gli anni 50 in poi hanno venduto
a pezzo per pezzo, dove un pò alla volta ci si è costruito la propria
casa, ci sono circa 90 case, però è rimasta libera un pò di terra, ai lati
di un vialetto costeggiato da bei pini che porta alla scuola costruita
nel 1979. Tanta gente passa per lì, poiché non ci sono le macchine a
disturbare, i pini fanno una bell’ombra, specie l’estate si sta bene ci
sono pure le panchine, è un andirivieni di gente che si incontra. Io
mi metto tranquillamente seduta guardando in giù alla mia vecchia
casa e alle spalle quella della mia infanzia, ripensando al bene e al
male del mio passato.
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Sì io sto bene con la gente, ma anche da sola, osservando la natura, gli animali, quindi sto volentieri con i miei gatti, con il cane, almeno loro sì che non mi tradiscono, ci parlo, li porto con me sotto i pini
del vialetto, li tratto bene, mi fanno compagnia, ancora più di prima,
ora che sono in età avanzata, giocano in mezzo al campo sopra gli ulivi,
si rincorrono poi tornano con me, soddisfatti come dicessero, che bella
passeggiata che abbiamo fatto!
[L’infanzia]
Chi sa perché mi misero nome Argentina?
Erano gli anni dell’emigrazione, la gente andava a lavorare in
Francia, in America, fù per questo che mi affibbiarono questo nome,
forze le suonava bene all’orecchio, meno che a me, chi sà quante volte
mi son sentita dire, del tango sei regina, vuole il caso, non sò nemmeno ballare, perché il fidanzato era geloso, perciò non voleva vedere
nessuno vicino a me. Ed a me è rimasto un tale rimpianto! Avrei voluto fare un’altra vita, è andata così, pazienza.
Ricordo quando ero piccola, avevo un seggiolone rivestito di
paglia verde e giallo, nel davanti c’era un piccolo cassettino basso, lì
mettevano fagioli, ceci, le cose che potevo mangiare da sola, ma siccome le mosche erano tante gli escrementi dappertutto, non mi andava di mangiare lì, la mamma e la nonna dicevano, quando avrai più
fame mangerai, mangerai! Ero studiosa, rispettosa, certamente non ero
una santa, ma senzaltro migliore di molti di oggi. Ero nata lì proprio
nel vecchio palazzo, lì si sposarono i genitori, lo zio Nazzareno, nacque la prima cugina Marisa nove anni dopo me, cioè nel 1937. La
nonna mi regalava le bamboline, le faceva i vestitini. Senza tanti complimenti ero contenta di quel pò che la vita ci offriva.
Quanti ricordi sono riaffiorati nella mente quando ho visto con tristezza scaricare quelle mura dove io avevo vissuto la mia umile vita.
Ricordo i giochi con i figli dei proprietari, a nascondino tra le tante piante
di quel bellissimo bosco, l’altalena con una grossa corda che il nonno
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aveva attaccato ai pini, la merenda che non mi dettero mai. Quando arrivavano i padroni dalla città, aprivano il cancello bianco con una grossa
chiave e entravano con la loro O.M., la macchina dell’epoca. I loro figli
avevano quasi la mia età. Ogni tanto venivano per qualche ora o qualche
giorno, poi eravamo soli.
Nella piccola casa, mi sentivo sola, allora andavo in fondo al viale
per vedere passare qualcuno, quel giorno passò Talibo Spacci e uno
fuori e una dentro si parlava chi sa di che cosa non so, allora misi la
testa fra le sbarre della cancellata ma non mi voleva venire fuori, io
piangevo e lui mi aiutò, ancora oggi rincontrandoci ci domandiamo, ma
quel giorno cosa si diceva, ma non sappiamo, son passati quasi 60 anni!
Altre volte andavo da Marcello Marchetti, d’estate però, perché l’inverno c’era tanto fango. Si giocava assieme e poco di sopra,
dai Pottini, con sei figli, tre maschi e tre femmine, giocavamo si
rideva si scherzava, quando ci vediamo si dice, che bei tempi erano
quelli! Poi tornavo, giocavo con i miei gatti, con le bambole, nell’aia con le ochette, con lo zio Nazzareno, fratello del babbo. Aveva
18 anni più di me, scherzava, mi faceva i dispetti e mi voleva tanto
bene.
Da quel ricordo ormai lontano
ancor ci son gli ulivi a testimoniar della mia piccola mano.
Lo zio un giorno sugli ulivi un sacco aveva attaccato,
con me dentro aveva burlato
dicendo ecco il lupo ti viene a mangiare
e io a perdifiato mi misi a urlare.
Quello zio che la vita le fu avversa,
giocava con me come una sorella terza.
Della mia casa dei ricordi
ce n’è sempre qualcun altro che non scordi
siccome io volevo sempre giocare,
un giorno per poco mi fece ammazzare.
Accomodando un cardin di una porta, lui stando accovacciato,
l’ascia aveva alzato,
io correndo ad abbracciarlo finì sul mio naso.
Allora mi raccolse con la faccia insanguinata
gridando poverino, correte presto io l’ho ammazzata.
Poi quel brutto taglio si venne a medicare,
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e rimase lì per sempre a ricordare
lo zio che con tanto affetto ho ricordato,
che quel brutal destino a solo 33 anni aveva spezzato.
Da quel vialetto dei pini, dove ormai vecchia vado,
con i miei gatti e cani, quei lontan ricordi sento riaffiorare.
Ancor ci son quegli ulivi, i nuovi pini
rallegrati da ragazzi, dal cinguettio di tanti uccellini,
C’è pure un merlo, io fischio camminando e lui risponde,
inseguendomi tra le alte chiome, e le brulle fronde.
Ahi un dolore qui uno là, e vado dal dottore, medicine pomate,
massaggi ma purtroppo, poco fanno, e ci sono gli anni, come ogni cosa
invecchio, anche l’albero della vita lenisce piano piano. Ricordo la mia
nonna Letizia aveva un gran mal d’ossa, non andava mai dal dottore
perché i soldi non c’erano, allora poverina, scaldava forte la paletta di
ferro nel fuoco, poi ci metteva dell’olio, e con quello quando era tiepido si massaggiava, vecchie usanze, semplici e di poco costo.
Ricordo quando io ero piccina, con l’accetta che ancora oggi è
giù nel garage mi ferii il naso, dove c’è rimasto un bel segno, nessuno
mi portò dal dottore, e nemmeno quando avevo la tosse convulza,
ancora non andavo a scuola, a distanza di tanti anni, per la precisione
70, mi rivedo, la mamma che mi prendeva per mano e mi portava a
respirare il fumo del treno a vapore sopra il ponte della ferrovia, dove
ora c’è vicino il Percorso verde, mi portò per parecchie mattine, piano
piano la tosse passò.
I miei genitori andarono a scuola dalla maestra Gemma
Marchesi, ancora non era costruita la scuola di Pian della Genna, così
facevano scuola a S. Pietrino, nei pressi di Centova, in una di quelle
case vecchie ancora abitate, quella maestra fu anche la mia, visse fino
all’ultimo nei pressi della scuola.
A me la scuola piaceva tanto, i primi tre anni andavo dalla
Gemma Marchesi al Pian della Genna, era severa, dava le bacchettate
sulle mani con il righello, una volta mi mise in penitenza con la ghiaia
sotto le ginocchia per un bel pezzo, poi rialzandomi il finestrone era
aperto, ci detti una grossa testata, così feci doppia penitenza. Ancora
passando per lì ripenso quanto erano severi allora!
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Le altre due classi le feci a Fontivegge nel 38-39, la scuola elementare era vicino ai Carabinieri, di sopra alla stazione. Quel giorno
dell’esame della quinta mi domandarono quanto era alto il monte
Everest, io risposi tranquillamente 8840 metri, e poi a cosa corrisponde? non lo sapevo che era uguale alla profondità del mare che sta
Papà Luigi e mamma Adalgisa, 1924 ca. Foto Natalini
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davanti, io mi misi a piangere, la mia maestra disse all’altra, questo
non gliel’ho spiegato, vai tranquilla.
Qualche volta ci portavano a fare le passeggiate, quel giorno ci portò
la maestra Mazzerioli a S. Lucia dove c’è la fabbrica di Spagnoli a piedi,
ci portarono a visitare dentro, sapete che cosa c’era allora, le galline, ogni
una andava a fare l’uovo, nel suo piccolo nido.
Poi c’erano i conigli d’angora, e piano piano con il loro pelo, incominciarono a filare per fare delle bellissime maglie, qua alla stazione
dove ora c’è la Cop e l’Upim, davanti alla rimessa dei tram avevano
messi esposti dietro a un finestrone i conigli d’angora, con il pelo rosa
e celeste, come erano belli povere bestie, loro certo non sapevano che
gli veniva strappato il pelo due volte l’anno, lì dietro poi c’era la gente
che filava il pelo, chi lo tingeva, e ovviamente chi faceva le maglie. Poi
in molti anche in campagna fiorì questa piccola industria, noi tenevamo
8-9 conigli, in quelli il padrone non entrava in parte. Io ricordo, avevo
14-15 anni, con i nostri conigli ci feci fare un bel golfino rosso papavero molto carino, che portai per qualche anno, con la zia Vienna ci facemmo una camicetta bianca a puà rossi e una gonna scozzese plissata di
molti colori, però io odiavo strappare il pelo a quelle povere bestiole, e
ogni volta facevo una gran fatica, poi con il passare del tempo anche
questo piccolo lavoro svanì, e fiorirono grandi industrie.
Vestita miseramente, senza merenda e le scarpe sì ho un buffo
ricordo, il mio papà tagliò i tacchi ad un paio da donna, la punta stava
all’insù, mi vergognavo, però non potevo protestare perché il papà era
severo, di poche parole e di niente complimenti, quando diceva una
cosa, con uno sguardo doveva essere quella, non ricordo né un bacio
né una carezza né dal papà né dalla mamma.
Sì un paio di scarpe le avevamo per la domenica, quando si andava con la mamma alla messa o dalla nonna Maria che abitava con la
famiglia al Bell’occhio, faceva la fornaia, mi dava qualche soldo per
comprare cioccolata o caramelle. Il pane lo faceva con le proprie
mani, scaldava il forno con la legna, poi aveva un garzone che con un
carrettino a mano portava il pane alle botteghe. Abitava lì con i suoi
figli, poi arrivarono le nuore, più tardi i cugini, e io quando andavo da
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loro mi sentivo felice, volevo a tutti molto bene, la consideravo una
seconda famiglia. I fratelli della mamma si chiamavano Gettulio,
Raffaele e Bruno.
Coincidenze o verità questo è un fatto che mi è rimasto sempre
in mente. Lo zio Gettulio era fidanzato per 7 anni con una ragazza di
S. Lucia, la lasciò, si era innamorato di una che si chiamava Agnese,
era una bella donna, assieme alle sorelle venivano a lavorare alla
Perugina alla stazione, erano in quattro Marzilia, Giuseppa, Agnese, e
Paola. A quei tempi abitavano a S. Fortunato e tutte le mattine a piedi
venivano e tornavano là. Tutte erano in salute, ma quando si sposarono con lo zio, alla mattina seguente, a piedi del portone trovarono una
ghirlanda di fiori, ne rimasero sbalorditi, il fatto fu che dopo otto giorni mia zia incominciò ad ammalarzi, prima l’influenza, non passava
mai poi andò a finire in tubercolosi e visse sempre curandosi, andava
a fare il plema cioè a mettere aria nei polmoni, questo quando stava
meglio e abitava con la nonna, se nò al sanatorio anche tre anni senza
tornare, si curò per tutta la vita poverina io gli volevo un gran bene,
quando era a a casa si stava assieme con la nonna l’altra zia lo zio
Bruno e i cugini per parecchi anni, il marito morì nel 46 e lei nel 79 e
ricordo con piacere perché le volevo molto bene e anche perché mi
aveva insegnato tanti lavori. Sarà stato una maledizione un destino o
una coincidenza.
Ero contenta quando veniva l’inverno, alla sera arrivavano
parenti o amici a giocare a carte, noi con la mamma Adalgisa, la zia
Candida, si stava vicino al fuoco, meno la nonna Letizia, lei giocava,
ci faceva tanto fumo quel camino, ci si affumicava tutti, eppure chi
rideva, chi cuciva, chi raccontava alle volte cose che mi facevano
paura, raccontavano storie di spiriti, di streghe. Non si puliva la casa
con la scopa di notte, non si lasciava il bucato fuori perché se no sarebbero entrate le streghe, la mamma dietro la porta della camera metteva dei tralci di asparagi selvatici, si diceva che le streghe dovevano
contare le spine una ad una, così si faceva giorno e non potevano
entrare. Ma io e la mamma avevamo spesso dei morsi bluastri nelle
cosce, li ricordo benissimo, è la verità, se non è vero io non racconto.
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Quando raccontavano di queste cose io avevo sempre le lacrime
agli occhi, di certo di notte non scendevo un gradino, un giorno mi
mandarono a prendere il vino nel canale del cortile dei bambù, il vino
frizzante della botte mi fece cadere la bottiglia dalle mani, io corsi via
gridando, ci sono gli spiriti, intanto il vino usciva dalla botte, i miei
corsero in fretta, poi non mi mandarono più a prenderlo.
Da piccola sentivo la mancanza di un fratellino e dicevo alla
mamma, perché non me ne fai uno? Lei diceva, sì, di posticcio, più
tardi capii perché, lei era stata tanto malata e non ne poteva avere.
Arrivava Natale, staccavano un ramo dal pino che ancora è lì, ci
mettevano cioccolate, arance, mandarini, una buccia che costava lire
2,50, una di quelle volte trovai una carretta piccola, come quella del
nonno che ci trasportava lo stabbio. Allora io mi alzavo alla mattina
presto con il nonno ad aiutarlo, per me era un gioco, mi scaldavo nella
stalla delle vacche, l’ho ripensato molto spesso, poiché quella porta
era ancora lì, fino quando non hanno scaricato tutto.
Mi torna in mente quando si andava alla messa che diceva Don
Olinto Valiani, quel prete burbero e sordo che a me aveva battezzato,
mi aveva fatto la comunione e più tardi sposata, mentre predicava, c’erano i chierichetti, quel Giuliano Spacci era birichino, accovacciato ai
piedi del prete, con un gessetto bianco scriveva sopra le scarpe nere
del prete, e poi raccontava che nell’ampolla invece del vino ci metteva l’aceto, ma io non so come se la cavava. A me mi successe buffa
quando si facevano le prove della confessione, mi diceva, vai, dopo
l’atto di dolore, ma siccome era sordo poveretto, vai non me lo disse,
ed io ben tre volte ricominciai da capo, alla fine me ne andai, lui non
si accorse di niente, se ne aveva confessate una o tre di persone.
Queste piccole cose rimangono nella mente, ed ora, al termine della
vita, tanti episodi riaffiorano.
Il ricordo della prima cumunione circa gli otto anni fu un pò tragico, per il ritiro Don Olinto ci portò nella chiesa di S. Susanna, su per
la Piaggia Colombata a piedi a pregare per un giorno, solo io feci inoltre la preghiera, anche il digiuno perché la mamma non avendo altro
da mangiare, mi mandò il lardo in due fette di pane, che io buttai, tornai piangendo dal male di stomaco, poi facemmo la Cumunione nella
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chiesa di S. Faustino. Sì ricordo quel bel vestito di tafetà bianco lungo,
che fu poi tinto di rosso bordò e portai per lungo tempo, era bello nel
davanti c’erano ricamati nidi d’ape, me lo confezionò la zia Vienna,
ancora era fidanzata con lo zio Bruno, il fratello di mia madre, la quale
io ho cucito quando ero più grande dei giorni interi vicino a lei, ora ha
86 anni, ha una buona memoria, la salute un pò precaria, è efficiente
e mi telefona spesso, mi vuole bene e quando se ne andrà, per me sarà
un grosso dispiacere perché per me è la seconda mamma, la mia
mamma morì tanti anni fa. Ogni cosa di bello o di brutto io cerco sempre questa zia, che mi è stata sempre tanto vicina. La parrocchia di S.
Susanna si estendeva fino ai Tabacchi e Case Bruciate, ricordo Don
Vincenzo quando andava a Benedire con i suoi chierichetti.
In quella casa dei miei ricordi mi rivedo con i miei genitori, gli
zii, il nonno e la nonna, la zia e la mamma che andavano nei campi
con gli uomini, quando lavavano il bucato vicino alla grande fonte. Ah
sì, dimenticavo! davanti a casa c’era una grande fonte murata, d’inverno si riempiva con l’acqua piovana, l’estate era secca, un giorno lo
zio, che era tanto buffo e scherzoso, al contrario del babbo, ci volle
andare con la moto ma ahimè che delusione, voleva fare come il pozzo
della morte, l’aveva visto ai baracconi, ma la motocicletta non salì le
pareti della fonte e finì con tante risate.
Era una Frera, l’avevano comprata nel 1935, il papà e lo zio volevano andare avanti, gli piaceva il progresso. Lo zio metteva due broccoli di rame uno per parte sul manubrio, ci andava a prendere l’acqua
al pozzo. Il papà comprò anche una bicicletta da donna, mise la
mamma sulla sella, disse vai, la mamma finì nella carciofaia, e non ha
mai imparato.
Quando io ero piccola usava fare le scampanate quando l’uomo
di notte si portava la donna in casa sua o viceverza, i buon temponi si
radunavano con coperchi tegami trattoii, sbattevano tanto che si sentivano da un toppo e l’altro. Una sera una certa perzona, vedovo era
andato ad abitare in casa di lei. Battevano tanto forte che dal toppo di
Centova sentivano a Gualtarella, oltre al fracasso delle latte dei tegami si chiamavano e cantavano, o avete sentito il Tomassone è migno
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toccio è gito a letto con la Teresina ma lù somiglia a una pignatta dai
manici de coccio, e suonavano e strillavano per diverze sere affinché
gli amanti non gli portano da bere. Un’altra volta un certo Gatti abitava davanti alle suore del Bell’occhio, dicevano che portava a letto la
moglie e l’amante assieme, e lui stava fra le donne, da qui vicino al
vecchio palazzo, facevano un gran fracasso e chiamavano cantando gli
altri più lontani, il Gattino è scappato con il Topolino, la macchina dell’epoca, stanco di sentire le scampanate se ne era andato, allora i
rumori nella notte si sentivano bene, non c’erano le macchine e i
palazzi, non sò ma quella volta i buon temponi rimasero a bocca
asciutta, erano gli anni 1934-1935. Se si dovessero fare le scampanate come nei tempi passati, ora con le cose che succedono oggi ci sarebbero tutti i giorni.
Lulù
A distanza di qualche mese ho ripenzato il perché. Quel bel gattone bianco con il pelo lungo, mi colpì in quel negozio, lo comperai e
lo misi lì nell’ingresso, sembra vero à gli occhi celesti e un bel codone, sembra che mi aspetti su in quel scabello. Penza e ripenza perché
mi è piaciuto così tanto? Finalmente mi è tornato in mente.
Quando ero piccola ancora non avevo l’età della scuola. I proprietari del podere che i miei coltivavano, venivano giù dal centro,
questi signori si recavano spesso specie l’estate per godere la pace e la
bellezza del bosco adiacente. Con loro si portavano spesso un grosso
gatto d’angora tutto bianco bellissimo, aveva un occhio celeste e uno
giallo ed a me piaceva tanto. Un giorno arrivarono padre madre e
figlia, disperati con il gatto morto, lo vollero seppellire in un’aiuola
davanti al palazzo ed a me avevano detto di portargli i fiori tutti i giorni, cosa che facevo con piacere. Si chiamava Lulù, ecco perché vedendo questo gattone finto, mi attrasse, ricordava la mia prima infanzia,
solo questo à gli occhi uguali. Siccome io sono innamorata molto
degli animali, mi piacciono anche quelli finti, questo è un ricordo di
70 anni fa, quando ripenzo questo mi sembra di rivedermi piccola
immezzo al bosco, a giocare a nascondino, in altalena con i figli dei
padroni.
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Però erano molto altezzosi, ad una di loro le dissi se mi aiutava
a scrivere questo libro, si poteva fare una cosa migliore, lei mi rispose, io non ricordo nulla, solo i salotti con mia madre. Io gli dissi, grazie farò da sola, così feci, e scrissi tante cose, non ho disprezzato coloro che erano ricchi, ma però non tanto lodati.
La casa era piccola, piena di pulci e bucaioni e il bagno dove era?
Sì, dietro la siepe di alloro oppure sul letame delle vacche, era normale così per tutti, meno che per i padroni, loro avevano tutto, ed io in
cuor mio non gli ho voluto mai tanto bene, perché li dovevi servire,
riverire, e se potevano fregarti lo facevano volentieri nel libro dei
conti, specie a chi come il nonno non sapeva né leggere, né scrivere,
lui li riveriva, gli andava incontro, si inchinava, si cavava il cappello
e diceva, buongiorno o buona sera signor padrone.
Sì il nonno Cintio, che in realtà si chiamava Vincenzo Tini, era
buono, onesto lavoratore e allegro. Visse ottantuno anni, era del 1869,
della classe del re Vittorio Emanuele III e ci teneva a dirlo, suo figlio,
il mio papà Luigi del 1904, aveva l’età del figlio del re, Umberto II
che fu re per pochi giorni.
Ricordi del nonno Vincenzo detto Cintio
Il nonno diceva che aveva fatto il militare 3 anni a Vigevano, raccontava che a molti mettevano una fascia al braccio destro altrimenti
non riconoscevano il destro dal sinistro. Diceva che il padrone bisognava rispettarlo, perché lui era stato peggio del contadino, il padre
era povero, era invalido di guerra del 1918, gli mancava un braccio e
fu uno dei primi che vendevano la frutta al mercato coperto di Perugia,
gli dicevano Braccino, avevano acquistato 12 poderi a M. Acuto a M.
La Guardia a Mantignana, che poi a poco a poco o hanno venduto o
sono rimasti incolti. Quando il nonno Vincenzo si sposò nonna
Letizia, lui abitava a Fontana là dove era nato, nella fratente del prete,
vicino a quella chiesetta in quella bella altura, alle pendici di M.
Malbe, guadagnava qualche lira, andando a spicconare, dalla mattina
alla sera, per piantare ulivi o viti o altro. E raccontava, io quando ero
giovane, diceva, vedete quelle olive sotto il cimitero di Fontana, l’ho
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piantate tutte io, partivo all’alba per tornare a buio con 2 parti di torta
di granturco, una cipolla e un fiasco d’acqua, così ogni giorno a spicconare.
Poi dopo avere tanto spicconato sposò la nonna Letizia, andò a
vivere con lei e il fratello e la sua famiglia, facevano il contadino, nei
pressi di Gualtarella, vicino a Ferro di Cavallo. E ci diceva, cosa volete di più, il contadino mangia un piatto di pasta, pane bianco, qualche
volta la carne si mangia, un buon bicchiere di vino c’è, e a lui piaceva tanto, da casaiolo no, c’era solo torta di granoturco e acqua con un
pò di aceto, detto acetello. Si trovava bene, certamente era meglio
lavorare con i buoi che con il piccone. Sposò a 28 anni, raccontava,
fino allora non avevo conosciuto una donna.
Ricordava quando costruivano il palazzo Cesaroni dei primi
1900 in Piazza Italia, portarono i marmi dalla stazione, su ai giardinetti, con i buoi, per via 20 settembre, sapete perché vicino alle finestre, ci sono sculture, teste di animali o di perzone, alcune con la lingua di fuori? perché Cesaroni lo volle fare più bello e così canzonava
quel palazzo Calderini, lì a fianco. Era ricchissimo Cesaroni, aveva
365 poderi, dai penzieri non poteva dormire né giorno né notte. Si
diceva che uno dei figli giocò al casinò fino all’ultima tenuta di Monte
Buono. Raccontava il nonno che si diceva, se l’asse di denaro non mi
fa buono, ti vedo e non ti vedo M. Buono, l’asse di denaro non arrivò,
così finì l’immenza fortuna di quel casato.
Il nonno Cintio raccontava quando videro passare la prima automobile. Loro abitavano ai piedi di Gualtarella. Qualcuno gridò da lontano, correte correte, venite a vedere, passa una carrozza senza cavalli, tutti andarono a vedere incantati, era attorno al 1900.
La vecchia villa fu venduta dai signori Fagioli intorno al 1923. La
casa colonica attaccata fu costruita nel 1924, nella quale ci vennero ad
abitare i miei nonni con i tre figli, che poi sposarono. La zia Virginia si
sposò ed emigrò con il marito in Francia, lui faceva il calzolaio, suo
figlio nacque là nel 1921. In quella casa ci abitammo fino al 1939.
Papà Luigi del 1904 morì a 84 anni, zia Virginia del 1901 morì a
24 anni, lo zio Nazzareno del 1910 morì a 33 anni. Le disgrazie ci
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Nonno Cintio e nonna Letizia, 1938.
Foto scattata da zia Maria in visita da
Nizza
sono sempre state, quando la zia Virginia morì, suo marito le fece un
telegramma, da Nizza dove loro abitavano, partirono i nonni con il
treno per seppellire la loro figlia, non avevano i soldi per tornare, il
nonno allora andò a lavorare nelle ferrovie per 40 giorni, poi prese il
nepote Mario, se lo portò qui alla Madonna Alta, dopo 3 anni il padre
se lo riportò a Nizza con lui, era l’ora della scuola. Io ancora ho un
ricordo di quei magici anni, ci ò una sveglia che è un’autentica
Parigina, gli anni passarono e Mario tornò pochi mesi prima della
morte del nonno con la moglie Jaqueline. Ancora vive là con la sua
famiglia, tutti gli anni ci vengono a trovare, ma è passato tanto tempo,
siamo tutti diventati vecchi, ma i ricordi non si dimenticano.
Ritornando ai racconti del nonno, nella fine dell’800, c’era una
famiglia che aveva un figlio di 7 anni e ancora non camminava, si
diceva che era stregato da una vicina di casa nei pressi di M. Malbe,
per togliere questa fattura, dovevano mettere a bollire i suoi panni, nel
caldaio senza acqua, levando da casa sale e santi. Facendo il fuoco,
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erano tutti uomini, le donne non ci stavano, avevano paura, al nonno
da dietro gli tirarono un cappello, e lui ebbe tanta paura, nel camino
sentivano delle urla umane, dicevano, era la strega, il giorno dopo a
quella donna le domandavano cosa avesse fatto, avendo il viso bruciacchiato, lei rispondeva, è una resipola. Ho sempre sentito il nonno
raccontare questa storia, lo ha sempre confermato fino alla fine dei
suoi 81. Benché ci credeva poco, a questa sì perché l’aveva vissuta. E
il ragazzetto da quel giorno crebbe normale, come gli altri.
Nonno Cintio raccontava, sapeva di certi padroni senza
cuore, che quando il contadino raccoglieva il granoturco, il padrone se lo prendeva tutto lui, glielo ridava un pò alla volta, molto
spesso ammuffito, quelli poveriní dovevano mangiare la torta, o il
pane, con la muffa. Parecchia gente diventava gialla, dicevano che
era la pellagra, soffrivano la fame, le scarpe le mettevano a turno
come pure i miseri vestiti.
Il grano nei tempi più remoti, ne raccoglievano poco, perché non
c’erano i mezzi per sollevare la terra, c’era solo la perdicaia in legno,
solo la punta detta gumaia era di ferro, quindi non andava in profondità, ed il grano non veniva bene, solo quel pò granturco. Poi arrivarono i carrettini in ferro per sollevare le zolle, il voltarecchio, il quale
rovesciava contemporaneamente due zolle, per affinare la terra lo stirpatoio, il rastello, tutti tirati da buoi o vacche. Il carrettino, essendo
molto pesante ci volevano quattro buoi, mandare i buoi alla strappa
consisteva di guidare i buoi davanti agli altri due, che tiravano il carrettino, invece con il rastrellone ce ne volevano solo due, perché quello è un attrezzo che affina la terra e è più leggero. Più tardi i trattori,
finalmente le terre ben lavorate e concimate, si resero fertili, le fatiche
furono molte di meno, per gli animali e perzone.
Oh, il mio nonno era buono, alto, con dei baffoni e un buontempone, ricordo quando giocava alla morra, assieme all’altro buttavano
le dita e cantavano, 7 la rimpimpina, 6 la romanina, romano e romanina, 7 e 6 la rimpimpina. Giocavano spesso con lo zio Gettulio. Io gli
volli tanto bene e lo ricorderò sempre con tanto affetto, si spense nel
1950.
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[La nonna Letizia]
Le mosche sì quante ce ne erano sotto quella piccola casa attaccata alla villa, un giorno ebbi la stupida idea di acchiappare una manciata di mosche e le gettai nella bocca aperta della nonna che dormiva, poverina, pareva che si affogava, un pò ne mandò giù, un pò svolazzarono via, io scappai di corsa spaventata, e lei appena se ne rese
conto, povera vecchina esile e gobba, mi corse dietro con la scopa, se
mi avesse arrivata certamente me le avrebbe suonate di santa ragione.
Gliela combinai bella, allora avrò avuto 5-6 anni. Ma sì le avevo fatto
un brutto scherzo, però le volevo bene, mi faceva i vestiti alle bambole, assieme a lei dovevo recitare tante preghiere, mi insegnava del
bene, però mi dispiaceva quando bisticciava con il nonno, lui si arrabbiava, ma non bestemmiava mai, diceva, porca puttana mi butto sotto
il treno, e s’incamminava verso la ferrovia, io gli correvo dietro urlando, no non lo fare! e lei, non lo farà stai tranquilla!
Lei era molto svelta, le dicevano l’uccellino, andava a piedi a
vendere le uova in città, al ritorno passava dalla Sara che aveva una
bottega dove ci giocavano a carte gli uomini, e lei accanita giocatrice
si fermava lì, insomma lei era una sbrinca.
Quando ero piccola ricordo la nonna seduta vicino a un pagliaio
davanti a grandi fasci di rami d’olivo, faceva le brolle per darle a mangiare ai bovini, trinciate assieme alla paglia, era una buona mangiata
per questi animali, che ruminando essendo dure, venivano ben digerite. Le brolle erano le foglie dell’ulivo, che si staccavano dal legno cercando di separarle bene dai rami, questi in quantità avveniva tutti gli
anni, perché era la potatura degli ulivi nel mese di gennaio e febbraio,
l’ulivo, inoltre al prezioso frutto invidiato, da chi ha le terre adatte alle
coltivazioni ci mangiavano i bovini, ci si scaldava con i rami e rametti. In inverno gli uomini facevano attorno alla pianta delle buche in
profondità, con l’accetta tagliavano le grosse radici in più cioè facevano le stecche in quantità, era una buona legna ci si scaldava bene
scoppiettava e aveva una fiamma viva, com’è nei ricordi della mia
infanzia e gioventù.
Rivivo e mi rivedo vicino alla nonna nell’aia, anche se le giornate erano fredde, ben coperta, e con lo scaldino sotto i piedi, quando
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usciva un pò di sole l’aiutavo anch’io a fare le brolle, io ci stavo poco,
lei dalla mattina alla sera, pregava sempre, o mi raccontava le favole,
lei sapeva leggere e scrivere aveva imparato da un’amica, era nata nel
1870, il nonno sapeva fare solo il suo cognome.
La nonna era molto religiosa, nei giorni di digiuno rispettava le
usanze, digiunava fino a sera, Natale e Pasqua, alla sera mi portava a
letto con lei, mi faceva rispondere alle 3 corone di rosario, non voleva che dicessi accidenti, dovevo dire acciderba, mi diceva di non camminare all’indietro perché si pistano i capelli alla Madonna, di non
mettere il pane alla rovescia perché piange la Madonna, quando morì
nel 1942 recitava le preghiere ad alta voce a 72 anni, io ricordo bene
e volentieri i miei nonni, erano buoni rispettosi riservati, rimasero nel
cuore di tutti.
[Le feste e le usanze]
Il nonno era iscritto in una confraternita, con poche lire si radunavano nella fratente, mangiavano e parlavano, quando c’erano le
feste questi fratelli indossavano una tunica chiara allacciata da un
cordone legato in vita, vestiti così in processione portavano i santi a
spalle, le statue anche se erano pesanti, quei tempi lontani ce n’erano parecchie, il Crocifisso, la Madonna, S. Gabriele, S. Antonio,
S. Biagio, il S. Sacramento, che belle feste, i campanari in cima al
campanile suonavano a festa, quando partiva la processione, quando
rientrava, per le messe, per le funzioni. Allora la messa serale non
esisteva, consisteva alla sera rosario, canti, preghiere e tanto incenzo, quella chiesetta di S. Faustino era gremita, ora queste cose sono
passate, non esiste più il suono del campanello quando alzava l’ostia, il quale dava un’armonia molto cara, queste feste erano molto
sentite, la sera avanti alle feste, si accendevano all’imbrunire i falò.
Per le feste di Natale e Pasqua facevano tante messe, don Olinto
veniva aiutato da altri preti che venivano invitati a pranzo, fatto dalla
Rosina sorella del prete, che abitava con la famiglia adiacente la
chiesa. Per le spese dei pranzi, specie per le feste dei Santi, mandava i parrocchiani a coppie a accattare soldi per le case, se ne riportavano pochi gli sgridava, li faceva restare con loro a pranzo.
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L’Ascenzione tre giorni prima della festa, si faceva la benedizione delle campagne assieme a don Olinto, si partiva alle cinque di mattina dalla chiesa, con i stendardi, le immagini dei santi, si pregava si
cantavano le litanie dei Santi si facevano grandi giri ai limiti della parrocchia di S. Faustino, una mattina si andava per la villa Sereni attraverso la strada delle Sette Valli, su per la costa di Prepo, ogni tanto
vicino alle case ci facevano le ghirlande, con la raccolta dei papaveri
rose e altri fiori, il prete si fermava a pregare, si riattraversava la strada, si ritornava in chiesa. Un’altra mattina sempre partendo dalla chiesa si passava per S. Pietrino, si passava più sù del cimitero, un’altra
volta si passava per il Pian della Genna, anche lì si incontravano le
ghirlande, arrivati dove abitavo io il prete disse che ci voleva lo spuntino, a tutti vermoute e biscotti prima della salita che porta alla
Madonna Alta. Il giorno della festa una piccola processione nelle vicinanze della chiesa, con parecchie messe, con qualche bancarella, giocattoli dell’epoca semplici, qualche dolcetto, così finirono sempre le
feste di parrocchia con tanta gente, come ora allo stadio.
Le processioni delle grandi Feste si andava per le Sette Valli e si
ritornava per le suore del Bell’occhio con i stendardi e le statue dei
santi, delle lunghe processioni per il Corpus Domini, S. Faustino,
S. Gabriele, S. Biagio. Dopo Pasqua c’erano le 40 ore per tre giorni,
messe e confessioni e solenni funzioni, in latino, era tutto molto sentito. Almeno una volta l’anno anche i meno credenti ci andavano.
Quando ancora le macchine ce ne erano poche, il carro funebre
veniva trainato dai cavalli, e i fratelli, vestiti con la tunica tenevano i
mappi del carro, i fiori erano di ferri colorati in ghirlanda, veniva prestata da una famiglia e l’altra, non c’erano i chioschi dei fiorai vicino
al cimitero e non c’erano soldi, ci portavamo fiori di casa o dei campi.
Lo zio di Giuliano e Talibo, di nome Tonino, suonava la fisarmonica e per il carnevale assieme agli altri di sera andavano per le
case a segare la vecchia. Era una scena, entrava, si metteva a suonare,
poi la vecchia con l’amico arrivavano, si mettevano a ballare, entrava
il marito tutto arrabbiato, gli dice tante parolacce, gli dà le botte, arrivano due carabinieri, gridano al vecchio e lui dice, l’ho trovata giù
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pen fosso con una anguilla, ecc..., prende una grossa sega e l’ammazza, la vecchia è distesa a terra morta. Arriva il prete cantando, la vuole
mandare in paradiso, però ci vogliono i soldi, intanto accattano, benediceva con una cipolla vestito come Don Olinto, forse gliel’aveva prestato lui, di colpo si riapre la porta, arriva un altro, il diavolo, vestito
di nero con le catene, si prende la vecchia morta, se la porta all’inferno. Poi con le uova che gli davano alla fine del giro delle case ci facevano un’allegra cena.
Facevano le feste da ballo nelle case soltanto il carnevale, si
mascheravano, passavano per le case, si davano le uova, si divertivano, qualche volta portavano anche a me. Finito i balli arrivano le
Ceneri, cioè il primo giorno di quaresima, in tanti andavano dal prete
che metteva la cenere in testa, per purificare i peccati del ballo.
Si andava tutti alla messa, giovani e vecchi, tutte le domeniche,
appunto io avevo le scarpe con la punta in su per la scuola e quelle più
belle per andare in chiesa la mattina, e la sera alla funzione, ed era una
vita semplice e serena.
[Piccola italiana]
Nel 1935 scoppiò la guerra dell’Africa, suonarono le campane,
fischiarono le sirene. Ben presto cominciarono a far partire i nostri
giovani e parecchi non tornarono più, come Tonino Spacci e tanti altri.
Ci insegnavano a risparmiare su tutto, a scuola la maestra ci
aveva insegnato una strofetta che diceva, Autarchia autarchia sai tu
dirmi cosa sia, è una magnifica parola che l’ho imparata a scuola, che
vuol dire non sciupare ogni cosa utilizzare.
Non si sciupava niente, anzi ci presero quello che volevano, la
mamma, le zie, quelle che avevano le fedi al dito le dovettero donare
alla patria, anche le pentole, i caldai, tutto quello che era di rame
requisirono, era un ordine del Duce, se venivano scoperti i trasgressori li arrestavano perché con il rame ci facevano le munizioni.
Il mio papà e lo zio non furono chiamati alle armi, perché conoscevano un certo colonnello, lo zio suonava il mandolino con le can30
zoni inventate per l’occasione, Faccetta nera bell’abissina, aspetta e
spera che giallora si avvicina, sfileremo avanti al Duce e avanti al re.
Ma con i bei discorsi del duce, con le scritte sui muri delle case, lungo
le strade bene in vista inneggiando a lui, arrivò il tesseramento dello
zucchero, del pane, delle scarpe e tante lacrime a chi non rivide più i
suoi cari.
I contadini avevano il grano in mano, se la cavarono, ma
tanta gente specie nelle grosse città soffrirono la fame e i disagi e
le paure che portò la guerra.
Poco dopo, nel 36, sposò lo zio Nazzareno, poiché chi non si
sposava dopo i 25 doveva pagare il celibato. Nel 1937 nacque
Marisa con mia grande gioia, finalmente non ero più sola. Ancora
conservo una foto del 1938 assieme nelle scale della casa colonica, è un piccolo ricordo sbiadito di una rara fotografia fatta da una
zia sorella della nonna venuta da Nizza, io in mano avevo una
bambolina piccola nizzarda portata dalla zia che venne per una
breve visita, poi se ne tornò a Nizza fino alla sua fine.
Argentina con i cugini, 1938.
Foto scattata da zia Maria in visita da
Nizza
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Ricordo della IV elementare a Fontivegge, 1937-38. Argentina è la quarta da sinistra in
prima fila. Foto scattata dalla maestra Mazzerioli
Andavo volentieri a scuola, mi piacevano la storia e la geografia
e anche le lunghe poesie recitate a dovere, ancora dopo sessant’anni
me ne ricordo qualcuna come la Cavallina storna, il Passero solitario
e la Madonnina del Grappa.
Si rispettavano i superiori, si salutava con il saluto romano e
quando andavamo a scuola alle volte eravamo vestiti da piccole italiane con la gonna a pieghe nera e la camicia bianca noi femmine,
mentre i maschi da balilla con calzoni grigioverdi al ginocchio, camicia nera e un fazzoletto blu annodato al collo, tutti inquadrati e silenziosi marcavamo il passo con lo iuppi iuppi del caposquadra. Si arrivava al campo sportivo che era davanti ai portici della stazione, accovacciati ci facevano formare le lettere B e M perché dall’alto in aereo
volava il duce, certamente era fiero di noi! Salutavamo anche il prete
con il saluto romano dicendo, sia lodato Gesù Cristo. Tutto ciò forse
era esagerato, ma oggi l’esagerazione è all’opposto perché non esiste
più il rispetto, i bambini non hanno più soggezione di nessuno, ai
superiori si dice del tu ed è un gran male.
32
Fin da bambina avevo sentito parlare della marcia su Roma, poi
la studiai sui libri assieme alle bonifiche agrarie delle paludi pontine
dove poi sorsero le città di Latina, Sabaudia e Aprilia, la costruzione
di strade, la mutua, queste furono cose buone perché prima le medicine e le cure mediche dovevano essere pagate e i contadini pagavano i
conti della farmacia con il ricavato dei raccolti.
La stazione, seppure l’ànno rinnovata, la struttura esterna è rimasta uguale, vicino c’era il campo sportivo e il Consorzio agrario. Sopra
al Consorzio c’era il Fascio, il figlio della Marchesi Gemma, la mia
severa maestra, era un comandante, faceva l’istruzione ai giovani di
leva, morto vecchio da 8 anni. Ricordo quando si andava a scuola da
sua madre al Pian della Genna, ci raccontava del figlio Enrico che era
in guerra in Africa, ci leggeva le lettere che le spediva e la mamma
piangeva, ma lui tornò, tanti altri morirono.
Il Poligrafico si trovava attaccato alla vecchia Perugina che non c’è
più. Dietro c’era un altro molino di un certo Grispolti, funzionò per
parecchi anni però questi era elettrico. Dove c’è l’Inps c’era la fabbrica
delle ginestre, le maceravano finché diventavano gialle, poi le macinavano e ci facevano i fogli di carta gialla. Io invece avevo un lenzuolo
fatto con l’estratto dei pioppi, quando era bagnato diventava duro, ma
molto resistente, che mi servì per parecchi anni, era una gran fatica a
lavarlo. C’era anche un bar gelateria Poggioni. Poi sotto la vecchia
Perugina c’era un fruttivendolo, Bariletti con le stoffe, la Rosina la giornalaia vendeva pure i quaderni quelli più grossi, con la copertina nera,
costavano L. 1,20 negli anni 1937-39, questa donna morì in tardissima
età. All’angolo di via della Ferrovia c’era un altro molino.
Le Fonti di Vegge ancora sono lì, sgorga l’acqua come allora,
quando ci andavamo a prenderla nelle damigiane, con le vacche e il
carro prima che facessero la conduttura di S. Sabina.
Piazza Colonna
Quel vecchio palazzo ferito dalla guerra fù rimesso al nuovo
qualche anno fà, in cima a Via Cortonese, davanti all’angolo delle due
strade dove ora c’è il sottopassaggio del treno, ci abitavano tante fami33
glie, quando io ero piccola c’era la tabaccheria, sale e un pò di alimentari della famiglia Alunni, erano i genitori e i figli, il babbo un
bestemmiatore, la moglie Esterina che gestiva il negozio, uno dei figli,
Antero, che si fece prete, la figlia Leonilde veniva a scuola a
Fontivegge negli anni 37-39 assieme a me e altri. Questo negozio, tra
vari ma pochi generi, c’era pure la pasta, veniva tenuta nei cassetti di
legno con il vetro davanti, e l’incartavano con della carta gialla detta
paglierina, con la quale io facevo i compiti delle brutte copie. Pochi
affettati, di più la mortadella, caramelle cioccolate, pane che veniva
portato dal forno di Via del Bell’occhio, che faceva la nonna Maria,
per il sale avevamo un fazzoletto grande a quadretti bianchi e blù, non
c’erano sicuro sacchetti di plastica.
La Shel era lì vicino circondata da tanti altissimi pioppi, era un
deposito della benzina, che arrivava dai treni per mezzo dei tubi che
attraversavano il sottostrada, c’era un cancello nero, un gran piazzale dove riempivano le autobotti. Allora dal deposito della Shel veniva trasportata nelle varie e poche stazioni di benzina, una piccola ce
ne era proprio nell’angolo davanti al passaggio a livello della
Cortonese.
Questo gran palazzo era di proprietà del Ciacca e nel dietro c’è
ancora la casa colonica, sotto gli archi c’è ancora una piccola chiesina, S. Quirico. Lì vicino la Genna scorreva da sotto i binari sotto
la ciminiera della Perugina, e scendeva da S. Caligano, dove un
posto sotterraneo buio ci facevano il ghiaccio, con che lo facevano
non sò, ma ricordo, quando la mamma nel 1938 aveva la polmonite
per parecchi giorni si andava a prendere il ghiaccio lassù, ricordo i
tanti lastroni molto spessi in quel profondo sotterraneo, questo serviva per appoggiarlo sulla testa per abbassare la febbre. Ricordo io
avevo dieci anni, a scuola in quei giorni avevo imparato la poesia
della Cavallina storna che portavi colui che non ritorna, che non
ritornerà più mai e tu lo sai, e la madre nel gran silenzio alzò un dito,
alla cavallina disse Dio t’insegni come, le disse un nome nell’orecchio e lei alzò forte un nitrito. Ed io non mi rendevo conto della gravità della mamma, ma poi guarì. Ancora esiste quella casa in discesa, di fronte c’è il nait.
34
[Tra due padroni]
Arrivammo al 1939, mio padre bisticciò con il padrone e poco
tempo dopo ce ne andammo dal quel vecchio palazzo e così se ne andò
la mia semplice infanzia. Andammo ad abitare a S. Barnaba, di sopra
la ferrovia, e anche là c’era la casa attaccata a quella del padrone. Ci
trasferimmo tutta la famiglia, eravamo 9 persone, quel podere era solo
6 ettari di terra. La mia vita cambiò completamente, quando arrivò
ottobre fingevo di andare a scuola poiché non vollero mandarmi. Io
sentivo la mancanza della maestra, dei compagni, di sera rileggevo i
libri, ripassavo le poesie, riguardavo la geografia e mi domandavo, chi
sa se un giorno potrò andare in questa o quella città?
I miei sogni finirono per andare a lavare i piatti ai padroni, anche
3 ore in cucina, avevano spesso gli ospiti, quindi le stoviglie erano
molte, a volte tante. Io avevo 11 anni, alla mattina presto aiutavo la
mamma o la zia a portare il latte a piedi in città, con le latte di alluminio dove erano attaccati il quarto e il mezzo litro, su per la Piaggia
Colombata, in via dei Priori, delle Streghe, la Cupa, fino in cima al
palazzo Cesaroni, quello che il mio nonno aveva visto costruire nel
lontano 1900, per vendere mezzo litro si dovevano fare 120 scalini, e
perfino in Porta S. Pietro.
Avevamo in quel podere ulivi, viti e parecchio orto, tanti frutti,
tanta roba da portare al mercato, il nonno partiva con la somara Checca
e il carretto pieno di casse di verdura e frutta, sopra la groppa della
somara per tutto il tragitto ci stava un cane di nome Fiocchino da lui
ammaestrato, e tutti e tre andavano al mercato in città con la meraviglia della gente, al ritorno la Checca la chiamava la padrona e lei sciolta andava a prendere il pezzo di pane che le dava, poi se ne tornava
nella stalla tranquilla. Poi anche la Checca fu portata via dai tedeschi.
In quel posto c’erano tre grandi fonti, una parte di quell’acqua
era stata venduta allo stato poiché l’avevano incanalata alla stazione
per mandare il treno a vapore, e una parte serviva a annaffiare l’orto,
ed anche lì hanno fabbricato. Ora ci sono tanti palazzi, e si chiama
quella via Gigliarelli e sarebbe in fondo alle Case bruciate fino quasi
al ponte di Santa Lucia, ancora c’è un po’ di terra di loro proprietà.
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Il lavoro c’era tanto, eravamo in 9 persone, era nata nel 40
Giuliana. Io ci stavo bene perché ero molto in casa dei padroni, aiutavo a fare le cose con precisione, mangiavo spesso con loro, imparavo
tante buone maniere, le etichette in tavola, ecc... Erano marito e
moglie con due figlie più grandi di me, mi portarono con loro ad
Anghiari con il treno dai parenti, vidi il cinema per la prima volta con
loro, Rose Scarlatte al Turreno nel 40. Io stavo bene con loro, erano
bionde, belle, andavano molto in città, erano corteggiatissime, facevano le vere signore. Noi si doveva fare il pane, portarlo a cuocere al
Bell’occhio dalla nonna Maria, si riportava la spesa da Porta Susanna,
il bucato si doveva fare ogni 15 giorni, insomma erano serviti senza
spendere nulla, ed a me davano i loro vestiti smessi, che poi portai per
qualche anno.
Argentina a S. Barnaba, 11 agosto 1942. Foto scattata dal fratello del proprietario in visita
al podere. “Sono pensierosa perché in questo momento penso ai giorni tristi che dovremo
trascorrere lontani, ma dopo la tempesta ritorneranno i bei giorni felici e presto raggiungeremo i nostri desideri, tua Argentina”
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Il bucato si faceva così, mettendo i panni già ammollati in una
scina, un grande vaso di terracotta, sopra si metteva una balla di iuta
con della cenere, saponina o soda, poi si versava l’acqua bollente, fatta
bollire su un caldaio con la legna, durava delle ore per passare quei
panni, in fondo c’era un buco dove usciva quell’acqua sporca e si chiamava ranno, con il quale ci si lavava i panni di colore. Ancora ho nelle
orecchie quel lento spiscinarellare di quella piccola cannella, che
uscendo da quel buco faceva noia. Poi si andava a lavare, chi aveva il
pozzo si tirava su con un secchio, o se no c’erano le fonti pubbliche,
era un lavoro lungo e faticoso.
Prima dell’arrivo della lavatrice le signore, specie quelle di città, i
panni li davano a lavare a pagamento. La nonna Letizia, per guadagnare
qualche lira, da Gualtarella, dove abitava con la famiglia, a piedi andava
a prenderli in città e riportarli puliti, li andava a lavare in una piccola
fonte lontano da casa, in ginocchio per delle ore, d’estate e d’inverno,
quando l’acqua era ghiacciata o meno, quante fatiche, povera gente.
Ora che abbiamo tutto, chi ci lava, chi ci trasporta senza cavalli,
tutte le agiatezze possibili immaginabili, io sì e coloro della mia età
siamo contenti, ma questi giovani no, loro non sono soddisfatti, perché? e se questa agiatezza non fosse più possibile, cosa farebbero?
Mio padre non andava d’accordo con il padrone, perché era
pignolo, pestapiedi, non gli stava bene mai niente, così rinunciò al
podere solo 3 anni dopo. A me dispiacque tanto, nonostante il lavoro
non stavo al sole ed era tanto. Il babbo incontrò il vecchio padrone, gli
disse, Marchetti torna su alla villa e tu torna con me alla Genna, poi ci
rimanemmo per 20 anni. Così con mia grande tristezza si venne ad
abitare tutti dove c’è ora la villa Sarti, a quei tempi era mezza scaricata, pioveva sopra il letto, in cucina quando faceva la neve andava a
finire sopra il tavolo, nei primi tempi non c’era la luce, poca acqua nel
fondo del pozzo. Sì eravamo andati a stare peggio!
Io ero esile e magra, i miei genitori non pensarono di mandarmi
in fabbrica a imparare un mestiere, però nei campi, dalla mattina alla
sera, avevo solo 14 anni, non mi piaceva, ma quella era la vita che si
doveva fare, non c’era scampo.
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Avevo 15 anni quando mio padre abbatté una quercia vicino alla
Genna e piano piano la legna fu portata a casa, allora il mio papà mi
fece aiutare con sopra ad una barella il grosso ceppo della quercia, era
pesantissimo ed io non ce la facevo, ma dovetti ubbidire, certamente
non avrebbe immaginato le conseguenze, su per quella strada ripida,
quando fui in cima sentii un grosso colpo allo stomaco e dolore, mangiavo poco, ero magrissima. Allora non mi portarono dal dottore, a
quei tempi usavano delle perzone che facevano del loro meglio, per
far guarire la gente. Da i miei fù chiamata una donna anziana sapiente e disse che mi si era abbassato lo stomaco. Mi fece stendere sopra
il letto, mise due soldi sopra allo stomaco, una piccola candela accesa, coperta da un bicchiere, certo con il caldo della candela la carne
dello stomaco si gonfiava e lei diceva che lo ritirava sù, questo rito
durò qualche minuto, poi prese la chiara dell’uovo sbattuta e c’imbrattò un ciuffo di canapa, mi avvolse lo stomaco così dovetti stare
con quell’impiastro 3 giorni, ma l’uovo asciugandosi mi strideva nella
pelle, e dovetti sopportare. Il risultato fu minimo, in conseguenza lo
stomaco mi fece sempre male, si allungò allora e ci rimase e poi
subentrò l’ulcera, che ho curato per tanti anni.
Questa donna guastava anche il malocchio, con un piatto metà di
acqua ci faceva colare con un dito tre gocce d’olio che al contatto con
l’acqua si spandevano e le ripeteva, con 4 occhi ti ànno creato, con due
occhi t’ànno uggiato, con Giuseppe e con Maria l’uggia andasse via,
o l’illusione o la verità la gente stava meglio e lei andava per le case
e si prendeva o soldi o roba. Lei aveva 9 figli e 9 le avevano dati ad
allattare, lei diceva che aveva il balieccio, la pagavano e di certo non
c’erano i latti artificiali. Si chiamava Ersilia, abitava in fondo al
Bell’occhio, e con questo lei e suo marito ci fecero una casa a tre piani
circa gli anni 20.
Appena arrivati lì morì la nonna Letizia a 72 anni. L’anno dopo
arrivò l’armistizio, l’8 settembre 1943.
Lo zio Nazzareno si ammalò di tifo nero, per bere quella cattiva
acqua, lui stava molto male, povero zio, io lo andavo a trovare in
ospedale a piedi, le sirene fischiavano l’allarme, e sopra passavano
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gli aerei, e gli dicevo, coraggio zio, la guerra finisce presto, e lui, i
Tedeschi non sono mica mosche, per mandarli via arriverà peggio,
così fu, le medicine non c’erano più, quel brutto giorno del 13 settembre lo trovai agonizzante e morì, poverino, a solo 33 anni, con
grande dolore per tutti, lasciando le figlie, 3 e 5 anni, e la zia ammalata come lui, restò parecchio in ospedale senza sapere del marito
morto.
Una volta la zia Candida guarita, rimase ancora 3 anni con noi,
poi se ne andò con le figlie Marisa e Giuliana, io le consideravo come
sorelle, più tardi lei lavorava ai Tabacchi e in seguito fu trasferita a
Roma. Io sono molto felice di andare a trovarle, le mie cugine hanno
5 figli, sono ormai quasi tutti sposati.
Eravamo rimasti in quattro, io, i miei genitori con il nonno
Cintio. La mia mamma andava a vendere le uova in città poiché ce
n’erano tante, con il canestro pieno partiva a piedi, con quei soldi ci
comprava quello che ci voleva, stoffe per i vestiti, lenzuola per il mio
corredo, ed io le cucivo nelle lunghe sere d’inverno, accanto al fuoco,
illuminati da un piccolo lume a petrolio oppure da una acetilena a carburo, quando si andava a letto il naso era pieno di fuliggine nera,
come nere erano tutte le travi e le pareti della cucina. Ma lo facevo
volentieri, qualche sera veniva qualcuno a veglia, se no c’era la
mamma, o sola, non ero disturbata da nessuno, c’era un profondo
silenzio, nemmeno le mosche, anche loro dormivano, io cucivo, facevo le calze per i nepoti e le cognate del fidanzato, un anno ne feci 12
paia. Anche il fidanzato veniva poco, 2 o 3 volte la settimana, aveva
tanto da fare a casa sua, poi se ne andava presto perché alla mattina
si doveva alzare di buon’ora.
Una sola volta andai a vendere le uova al posto della mamma,
ricordo che tante signore si affollarono attorno a me, certo erano furbe,
avevano visto che le mie erano più fresche e in un batter d’occhio il
canestro si vuotò, ma ahimè i soldi ne avevo pochissimi, alzai la testa
e le signore erano partite avendo approfittato della mia ingenuità. Così
una sola volta mi bastò, non ci tornai più. Certamente saranno tornate
a vedere se c’era la contadinella con il canestro, ma lei non si fece più
vedere.
39
Quando avevo tempo andavo dalla zia Vienna, lei faceva la sarta,
io l’aiutavo a fare i vestiti per me e la mamma e più tardi per le mie
figlie, quando potevo andare là ero contenta, c’era la nonna Maria, la
zia Agnese ed i miei cugini e gli zii.
In via del Bell’occhio ci abitava, proprio in quel palazzo antico
dove c’è un’edicola della Madonna, un pazzerello, d’inverno camminava scalzo e diceva, chi non à i guanti stamattina va male, lui aveva i
guanti e non le scarpe. Andava alla stazione per spostare le valigie a
qualche viaggiatore, un giorno un signore le fece portare due valigie su
per il Bucaccio, arrivati in cima, gli dette i soldi, ma a lui gli parzero
pochi, allora disse, le valigie sono pese e Gigi le riporta dove le ha
prese, e di corsa le riportò alla stazione ed il signore se le dovette
riprendere giù dove le aveva consegnate. Era un pò scemo ma non
tanto. Visse per parecchi anni era sempre per strada e parlava ad alta
voce da solo.
Avevo conosciuto un bel giovane con gli occhi celesti, i capelli
neri ondulati, suonava il clarino. Una volta, in cima al toppo di
Taragnoloni assieme a Bruno Lucacci, lui cantava e l’altro suonava,
mi fecero una bella serenata con le belle canzoni dell’epoca, ci fidanzammo ancora giovani, lui mi diceva, impara a cucire, a fare le calze,
le faccende bene, dovrai essere la più brava. Poi partì per il soldato a
Mantova il 15 gennaio 1943.
Quel tal Brunin Lucacci della serenata,
veniva sempre con il papà e le vacche a dare una strappata.
Ma un giorno con le vacche, il rastrellone,
finirono rovesciate nell’irto greppo del Toppone.
Brunin gridava a perdifiato,
Gigi correte con le vacche ho rovesciato.
Certamente ci rimase male,
ed in fretta tornò al suo casale.
Ma il giorno dopo ritornò a rastrellare,
da quel toppo lui riprese a cantare.
Cantava così forte e bene, che dal Toppone
sentivano certamente fino alla stazione.
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[Secondo]
Mio marito il più piccolo di 10 figli, la mamma morì a solo 42
anni lasciando il marito e la sua prole, i due più piccoli erano gemelli, avevano due mesi, li allattò una capretta che andava in casa da sola,
li chiamarono Primo e Secondo, furono custoditi assieme ai nonni
dalle 2 sorelle di 8-10 anni, Primo morì a 9 mesi e la sorella diceva
all’altra, è morto perché le hai dato troppo da mangiare. Secondo mio
marito, della grande famiglia sono rimasti in due, lui e la sorella Ada.
Il babbo li guidò bene, non gli fece mancare nulla, ma lavorarono
tanto tutti, maschi e femmine. I giochi erano pochi o niente, un giorno il fratello di mio marito, di 2 anni più grande, gli disse di mettere
la mano nella trinciaforaggi, e l’ingranaggio le staccò il dito pollice
destro, era piccolo non andava ancora a scuola, il suo papà da vicino
Pila lo portò in bicicletta a S. Biagio dal dottore, lui gli voleva buttare via il dito che penzolava, il babbo disse, provi se si attacca e così
fece e se ne tornarono a casa e guarì, anche se rimase storto.
Il lavoro ce ne era tanto per tutti, ognuno aveva le sue manzioni.
Secondo racconta, come tanti altri a solo 5 anni lo facevano alzare alle
4 di mattina, per mandare i buoi alla strappa, quando era l’ora di andare a scuola prima di partire doveva pulire le stalle dei maiali e governarli, ora erano 4-5 le mamme, quando partorivano le stalle erano
piene. Al ritorno da scuola andava a fare l’erba per queste bestie,
doveva ubbidire ai più grandi, ai nonni. Il babbo e tutti gli volevano
un gran bene essendo il più piccolo, gli regalarono il clarino che fù
pagato 150 lire, lo mandarono a scuola di musica, era un discreto suonatore anche di sassofono. Il dopo guerra facevano qua e là feste familiari, lui e altri con la fisarmonica, andavano a suonare. Non ha voluto più continuare questo obbi, con la morte dei suoi fratelli chi prima
e chi dopo, non se l’è sentita più.
Ad Ada mia cognata Calzoni (13 novembre 1996)
Questa sera siam qui riuniti con gioia e allegria,
per far festa ad Ada tutti quanti in compagnia.
Che è tornata sana fra di noi dopo lunga malattia.
41
Lei che fin dall’infanzia dovette tanto lavorare,
e un grosso peso sopportare.
Ricorda sempre con amore,
che ai suoi fratelli dovette far da genitore.
Eran dieci fra figli e figlie.
Gli ultimi che eran gemelli, Primo e Secondo,
quando avevano due mesi,
la mamma Elvira in cielo il Signore se la prese.
E Ada e Romana sua sorella, dovettero crescere i loro fratelli
ma per bambine di otto e dieci anni eran grossi fardelli.
Con loro a letto li portavano,
con cura e amore li guardavano.
La brava capretta sapeva quando era l’ora di andare
in casa ai gemelli allattare.
Ma dopo nove mesi Primo quel che di nome si chiamava
raggiunse la sua mamma in cielo assieme alla sorella Amelia.
E il papà Biagio con tanta forza e dolori
guidò la famiglia con l’aiuto dei vecchi genitori.
Tutti quanti anche da piccoli dovettero obbedire,
lavorare e filar dritto, senza nulla da ridire.
Eutalia, Dante, Leonello, Giulio e Alessandro
così fu per tanto tempo anno dopo anno.
Era severo il genitore,
ma volle bene a tutti con affetto e tanto amore.
Quel tempo è ormai lontano, ognuno ebbe i suoi figli
con gioia, dolori e travagli.
Lui di ventitre nipoti era felice il nonno,
e quando li aveva tutti accanto a sé
era contento come un re.
Fu da tutti tanto ammirato,
con affetto e stima ricordato.
Poi con gli anni che passarono
quasi tutti in cielo se ne andarono
a veder le gioie e i dolori di questo mondo,
son rimasti solo Ada e Secondo.
Le mogli che ancor son rimaste qui in questo mondo strano a vedere,
ricordan sempre la vita che fu più o meno con piacere.
Un anno è già passato da quella brutta sera che Ada fu investita
ma lei come una roccia forte
sfidò i medici e la morte.
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Ora è svelta, agile e snella,
sta sempre a raccogliere le foglie e fa a loro da sentinella.
A mia cognata che io ho scritto la sua storia
vorrei che i suoi la tenessero in memoria
e a lei e alla sua famiglia
le mando i più cari auguri di cuore e tutto vada a meraviglia.
[La guerra]
Eravamo in piena guerra, gli Americani e gli Inglesi sbarcarono
in Sicilia a scacciare i Tedeschi, che prima erano amici, e poi nemici,
ma li avevamo tra noi e per scacciarli ci furono tanti bombardamenti,
morti e devastazione. Nel periodo dopo l’armistizio, i nostri uomini si
nascondevano chi nelle montagne altri a casa, se li prendevano li facevano prigionieri o chi si opponeva li fucilavano.
Un certo tal dei tali, si sentiva dire, era padrone di tanti poderi,
c’erano quelli che si davano alla macchia, combattevano contro i tedeschi, successe nei pressi di Marsciano, lui andò a casa del contadino,
domandando dove erano i loro uomini, loro risposero, sono alla macchia, e lui, perché non li fate tornare, nessuno gli farà del male, invece fu proprio lui che fece la spia, li fece fucilare tutti tre, si chiamavano fratelli Ceci, a Marsciano c’è un monumento a ricordare quei poveri sventurati. Queste brutte cose succedevano dappertutto.
Anche il mio fidanzato fu fatto prigioniero e lavorò per i tedeschi, poi riuscì a scappare e tornò a casa travestito.
[Secondo racconta]
Io so’ partito ‘l quindici de gennaio del 1943, destinato a Mantova al quarto reggimento artiglieria contraerea, so’ stato di lì sette otto mesi, poi
so’ andat’a Peschiera, eravamo ‘n distaccamento, su ‘na grande palazzina,
c’era ‘l lago de Peschiera, e lì se stava a l’aria bona! com’i signor se
stava, se mangiava anche bene allora, ancora, di front’ai contadin se
mangiava mejo di lì che a casa. E io quando ‘m potev’andà a l’istruzzione,
sonavo ‘n terrazza, era ‘na meravija col lago di sotto, c’ero io col clarino, c’era un de Padova co’ la fisarmonica, ‘l colonnello la sera voleva
sentì sempre ‘na sonata prima d’andà ‘n libera uscita, tutte le sere, ma
tutti, anch’i nostri colleghi, perch’era ‘na cosa bella, no?
43
Secondo in divisa militare a Mantova, 20 febbraio 1943. Foto Premi
Per otto giorni lo tennero in un campo di concentramento, erano
in ventiduemila. Fu così, erano in caserma a Mantova di cui i tedeschi
volevano impadronirsi, allora cominciarono a sparare, quelli che fece44
ro resistenza furono falciati dai mitra, invece il mio fidanzato, quando
vide quei due grossi carri armati, assieme ad altri cinque corsero nei
sotterranei, uscirono quando la battaglia era finita, alzando le mani,
furono fatti prigionieri.
[Secondo racconta]
Poi semo rientrati a Mantova, dunque era verzo lujo, e doppo venne l’armistizzio… Tutti eravamo ‘n caserma, se sapeva che nonn andava tanto ben
perch’i capi sapevano qualche cosa, ma che succedeva quel che stava succedendo ‘n sapeva nissuno. Alora i tedeschi eron’al Po, eron tutti preparati pe’
la guerra, dato quel ch’era successo son tornat’indietro, ciàn preso tutti prigionieri, anch’io, sem restati tutti dentro la caserma, presi tutti. Stavamo ‘n
caserma, son’arrivati ‘sti tedeschi, tutti armati, ciavevono ‘n carrarmato
grande quanto ‘sto mondo che chi l’ha visti mai, io ‘n guerra ‘n c’ero stato.
Ciàn cominciat’a sparà a le finestre prima col moschetto, i soldati tedeschi,
poi venendo fòri c’era quel carrarmato, a la fin’è toccuto d’arrendese perché
ciavevamo ‘l moschetto e nemmen le munizzioni non c’erono, e alora àn
fatto la resa e ciàn preso prigionieri, ciàn portato dentro ‘l campo de concentramento, eravamo ventiduemila perzone.
I capi dicevon resistete, uno sparava su ‘n corridoio, lu’ stava su la porta di lì
e i tedeschi eron di là, lu’ sparava, stava su la porta nascosto, sparava ma
stava addoss’al muro, non era libbero ‘mmezz’a la piazza. Noi, sei o sette
eravamo sotto, quand’ ‘ém visto quel lavoro sem’andati sul fondo de la caserma, semo scappati quand’ànn’alzato le mano, e i nostri colleghi poracci, sul
piazzale, ‘n zò quant’erono, tutti morti, tutti. Son’entrati quattro tedeschi col
fucil mitrajiatore pe’ ‘na seconda porta, co’ ‘na bomba ànno sfondato, c’eron
du’ catorci così grossi, ànno sfondato, aperto tutto. Eh! era guerra… ànno
sparato, tutt’i nostri colleghi sul piazzale ammazzati tutti, era guerra…
Noi, ‘sto gruppo, tutti de Perugia, sem’andati di sotto, perché ‘l babbo m’aveva detto, non ve fate mai avanti, specialment’adesso ‘n tempo de guerra, e
io ciò ripenzato, lu’ ‘l diceva perch’aveva fatto la guerra, aveva fatto la guerra del 15-18, e j’ò dato retta, perché quand’ ‘ém visto che sparaven da tutte le
parte sem’andati su la caserma, quand’ànn’alzato le man ch’ànno smesso de
tirà sem’usciti, e quei disgraziati che non l’avran zaputo, erono per caso sul
piazzale, ammazzati tutti, ade’ ‘m me ricordo quant’erono, dopo l’àn portati
via… ‘l mi’ babbo m’aveva detto questo, i’ addirittura quando facevo l’istruzzione de leva sparavo co’ j’occhi chiusi, perché loro, se uno era bravo
tiratore era segnato per andà dove c’era bisogno, per fà i bravi tiratori, io
‘nvece siccome ripenzavo sempre quel ch’à detto ‘l babbo, chiudev’i occhi,
sparavo ‘nn aria, eh, mica più basso, però chiudevo j’occhi, per non vedé
niente, non fasse segnà perché segnaveno quando che quell’era ‘n tiratore
bravo, che faceva centro su le… che se chiameno, su le sagome, quando c’era
45
bisogno, dicevon, quest’è bravo, come ‘na perzona quand’à studiato bene,
dice, questo cià i voti boni, o un’o l’altro lo prende, ‘nvece chi è somaro ‘n
lo prende nessuno.
E io volevo èsse somaro, perché so’ partito, penzavo a la famija a casa,
morivon dal lavor poracci, e i’ a stà di lì, iuppi iuppi… e non c’ero tajato per
quel verzo, i’ non ero partito volontario, ero costretto a partì, come tutti,
militare, ma non è ch’ero volontario, se un va via volontario è ‘n’antra questione, io me piaceva la famija, c’era la fidanzata, me piaceva de tornà a casa,
ecco. E allora, ripenzando sempr’a quel che m’à detto ‘l babbo… fortunatamente m’è andata bene, grazziaddio… fra ‘l babbo e fra ‘l prete…
Ma ‘l prete dopo l’armistizzio, prima ‘n c’era la guerra, prima facevo solo finta
d’èsse zoppo, ma veramente, ginocchiate su ‘l muro, eh, aposta le gambe pò
darze m’ànno ‘m po’ fregato. Sempre, dal primo l’ò fatto, sotto le armi ‘nn ò
fatto mai l’istruzzione io, mai. Marcavo visita, ‘m me riconoscevono, per fasse
riconosce ‘m po’de ginocchiate sul muro, c’era ‘na macchietta, scappiva ‘m po’
de sangue, per fa vedé che ‘m potevo caminà. Io, ‘l militare ‘m me rappresentava niente, perché io ‘nn ero volontario, io me ‘nteressava la famija, ‘l lavoro,
‘l podere, tutto ‘nzieme, perché de quel’epoca c’eravam tante famije che ‘n ciavevon da mangià, e nojaltre se stava benino, ‘l podere bono, e andava bene, i’
penzav’a la famija, non penzavo de stà sotto le armi a fà quel lavoro.
Finirono in quel campo di concentramento, con pochissimo mangiare, ed ogni tanto davano una mitragliata, quando andavano a prendere un poco di acqua per bere dopo ore di fila, loro sparavano, quando andavano a fare i loro bisogni, giù li facevano cadere dentro, una
volta gli passò sopra i capelli, era un inferno, poi un giorno ne presero una parte, e a lui toccò la migliore sorte, tanti finirono in Germania,
nei famosi campi. Lui come ho detto lavorò con loro per qualche
mese, nella ritirata trasportavano scarpe e altro, dopo due mesi scappò
e tornò a casa.
[Secondo racconta]
Sul campo de concentramento eravam ventiduemila, la sera da le dieci ero
andat’a prende l’acqua, a le quattro de la mattina ‘na gavetta d’acqua! perché
c’era la pompa a mano. Quand’andavono a fà i bisogni, ‘évon fatto ‘n formone co’ le tavole, perché tutta quela gente dov’andava, e poi sparavono,
restavon di lì dentro, poracci, loro eron restati molto male che l’Italia aveva
fatto ‘st’armistizzio, loro cercavon de poté vince, ‘nvece è andata male, j’americani ciàn salvato, ma loro se son trovati male… perché portavono via
le bestie, portavono via la gente, perché? perché anche per dispetto, che
cosa avevam fatto, ma i grossi se mai, nojaltri ch’avem fatto? loro àn preso
‘l totale… Su ‘sto campo lavoro niente, solo sparavono, quand’arivava ‘l
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vitto, quand’arivava l’acqua, sparavon sul mucchio, perché tutti addosso, e
anche se andavon’al gabinetto… per carità! Visto quanta gente ànno amazzat’i ultimi? erono delinguenti…
Dopo, ‘l 17 settembre, ciàn portato via, non voleva andà via nessuno, perché penzavono d’andà ‘n Germania, fra i quali ce l’àn portati, son’entrati
quattro tedeschi, àn tajato ‘n quadro de prigionieri, e noi semo stati fortunati, chi je mancava le scarpe, chi la giacca, ciàn rivestito, fatto ‘l bagno, ciàn
ripulito e ciàn mandat’a Peschiera del Garda a lavorà col comando italiano e
‘l comando tedesco. ‘L primo lavoro ciàn fatto scaricà un palazzo grande de
scarpe militari, mette su le casse e poi portalli a la stazzion del treno, tutto
portavon via, tutto ‘n Germania. Se caricavono e poi s’andava dentr’al
camio a caricà sul treno. Alora, strada facendo, c’eron de le casse, ch’eron
chiuse coi chiodi ‘m po’ a la mejo, ò visto du’ donne che tajavon l’erba, ò
tirato ‘ste scarpe, le donne a corre a prende ‘ste scarpe, eron nove! ‘nvece che
andà ‘n Germania era mejo che le godevon’i italiani!
Dopo eravamo de guardia ai ponti e dov’erono le munizzioni, e tutte le mattine mancava qualcuno a l’appello, e alora ‘na mattina dissi a l’amico mio,
ce vojo provà anch’io. C’era un di qui, che faceva ‘l barbiere a la stazzione,
e lui, com’aveva fatto ‘n lo so, à trovato ‘l modo de avere una cartolina de ‘m
pompiere che rappresentava che rientrava a casa, alora, eravamo amici, dicevo, se torn’a casa scriveme qualche cosa, ché siamo d’accordo e così ce
provo anch’io. Niente, nonn ò saputo niente, e lì m’à fatto male, perch’eravamo amici, non m’à scritto niente, com’andava, come ‘nn andava, per sapé
com’era la situazzione, bastava, sto bene, perché le lettere eron cenzurate.
Anzi, a la moje je dice che stavo a fà i soldi. Ché qualche cosa se vendeva
anche di qui, i tedeschi eron’i capi, s’andava sui ponti de ferro, c’eron le
corde de canapa, c’eron le catene, c’era tutto, e quel che se poteva se vendeva, compravamo i polli da i contadini, se cocevono su i cosi del cannone,
tanto oggi ce semo e domani chissà!
Alora io ciò provato. Avevo trovato ‘na famijia, sapendo che già preparava
‘sti panni, perché ritornà da militare era ‘m po’ pericoloso, e ‘na sera je dissi
a ‘n amico mio, viemm’a accompagnà a la stazzione, ò fatto ‘l bijetto, so’
partito, ce sem salutati, fin a Bologna è ‘ndata bene, a Bologna m’àn domandato ‘m po’, e dice, io guardi ciò ‘n fratel ch’è prigioniero, ‘nvece ero io!, ciò
‘l bijetto del treno, vengo da Peschiera del Garda. Qui, a la stazzione, quando
scendo dal treno, c’eron’i fascisti, c’era un che conosceva i contadini, m’àn
domandato, ma dove stai, e io, guardi ciò ‘n fratel prigioniero, la solita canzone, ò parlato chiaro, se vede che ‘l padreterno m’à ajutato, perché se me
‘ngarbujo ‘m po’, oppuro qualche cosa che non risulta, quel conosceva tutta
la via, tutti i contadini vecchi del Pian de la Genna. E alora, ‘l 22 novembre
ò aperto la porta de casa mia, ‘l babbo m’à sentito subito, ch’era su ‘na cameretta vicin’a la porta, dice, chi è, dico, babbo so’ io, quan’ m’à visto…! perché non se poteva scrive niente, ‘gne se poteva dì niente de ‘ste cose…
47
Si nascose fino al passaggio del fronte.
[Secondo racconta]
E ‘nzomma, è andata bene, ò cominciat’a lavorà coi fratelli ‘l 22 de novembre,
‘l 6 de marzo vengon’i carabinieri a casa, me dice, tu te deve ripresentà ‘n caserma. Eravamo quattro fratelli, tutti a casa, l’invidia, i vicini…è stata sempre
così, se vedeva, perché j’altri morivon de fame, nojaltri ‘n cinque a lavorà, ché
‘l babbo lavorava più de nojaltri, ‘l podere era bono, più mucche, più guadambio su la stalla… Alora, tocca presentasse, pazzienza, ma io siccome ciavevo ‘l
prete, don Olinto, che me dava la robba, la simpamina pe’ ‘l cuore, eravamo
amici, perch’eravamo ‘m po’ anche de la parte de la chiesa, parlando chiaro…
M’àn fatto presentà ‘n caserma, vicin’a la torre de ji Scalzi, ma po’ so’ andato subito a l’ospedale, a Santa Giuliana, e dopo facevo ospedale e casa, ospedale e casa. Me so’ ajutat’anche col zigaro sotto braccio, co’ le sigarette, le
Popolari, pe’ ‘l mal de gola… A l’ospedale la notte stavo ‘n finestra, passava ‘l controllo, dice, ma tu che fai di lì, e io, non posso respirà, e loro scrivevono, questo sta così e così, ‘n va via. Ce disse ‘n tenente, andate su ‘nn
alt’Italia, sul convalescenziario a Sassuolo, se state male ve curate, se state
bene andate ‘n guerra, questo fu de mattina, dice, stasera partit’tutte per andà
lassù. Ciavevo tutte le medicine ‘n tasca, me so’ previsto subito, ‘nvece
ch’andà lassù so’ andato a l’ospedale n’antra volta. Se me mandavon via,
doppo chi me la dà ‘sta roba? me toccav’andà ‘n guerra! Dico, vedendo i
nostri colleghi che a Cassino sei mesi de guerra, quan’venivon zu tutti rovinati, le bombe, gente ch’aveva sotterrato ‘m po’ de lenzuoli, ‘sta robba, àn
buttato ‘nn aria tutto, sei mesi de bombardamenti…
Anche noi avevam nascosto ‘l gran quassù, c’era ‘n quadro de cementarmato co’ la buca sopra, n’ ‘émme mess’anche ‘m po’ di lì perché potevon
portà via anche quello, per dispetto, ‘n ze sapeva mica com’andava, se se
poteva miete ‘l grano, alora quel ch’ ‘ém potuto se poteva nasconde.
Quando i tedeschi in ritirata facevano devastazione, se potevano
portavano via uomini e roba, era tutta una confusione, sfasciavano le
fabbriche, la Perugina i Tabacchi il Consorzio agrario, dove si portava
il grano all’ammasso, c’erano attrezzi zucchero sapone soda. Loro i
tedeschi aprirono le porte e in tanti andammo a saccheggiare, ma le
cose migliori se le erano prese loro, o vendute o trascinate dietro di
loro nella ritirata. anch’io andai assieme ad altra gente, ma sopra a noi
c’erano gli aerei che passavano per andare a bombardare vicino, io
non avevo paura, forse erano i miei 16 anni, così portai a casa riso,
carta, saponina, balle, dei miei non c’era nessuno, nemmeno Santino,
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quel soldato che non poteva tornare a Napoli, poiché il fronte si era
fermato a Cassino, così per un anno abitò con noi, faceva le faccende,
era bravo e educato.
Il fratello del mio fidanzato portò a spalla un quintale di zucchero fino a casa loro, a Pian della Genna, gli stessi che gli fecero prendere lo zucchero dormivano in casa loro, dopo pochi giorni prima di
andare via, vollero essere pagati e gli dovettero dare 3mila lire, tanti
di quei tempi, si rifiutarono e loro dissero, fare venire camerata e raus,
presero i soldi e se ne andarono, ma ci furono tanti morti, vennero
sepolti là fra la stazione e il Bell’occhio e ci rimasero per parecchio
tempo. Venivano gli alleati da Pian della Genna e via Pievaiola e i
tedeschi li aspettavano su verso la ferrovia e ne uccisero molti, quante mamme piansero, quante famiglie devastate che orrori, forze son
tanti a non sapere e a non riflettere.
Santino
Quel Santino di Napoli che si trattenne da noi per un anno non
potendo tornare a casa sua, perché non poteva attraversare il fronte,
giù a Cassino, là ci fu battaglia per sei mesi fu distrutta completamente, perfino il grande monastero, poi fu ricostruito in seguito.
Santino raccontava che a lui la guerra faceva molta paura. Era della
classe del 1913, aveva fatto sette anni in Africa, aveva visto tanti orrori,
un giorno si trovò assieme ad un altro, entrando in una capanna videro
delle cose orribili, sopra delle tavole c’erano spaccati a metà delle persone bianche, con sopra il sale come si fà noi con il maiale, loro spaventatissimi si misero in fuga ed arrivano in un posto dove c’era un piccolo
aereo, l’altro amico lo sapeva guidare, così con la fortuna arrivarono in
Sicilia, poi girò per l’Italia e si fermò da noi per 1 anno non potendo ritornare nella sua Napoli, e si adeguò alla misera vita contadina.
Quando arrivò il fronte da noi era terrorizzato, un giorno come
spesso suonarono le sirene e lui prese una coppia di uova in tasca, si
buttò a carponi dentro un fosso lontano da casa, finito l’allarme,
annunciato sempre dal fischio delle sirene, torna a casa tutto infangato e con le uova ci aveva fatto la frittata in tasca e noi ci ridevamo, lui
diceva, voi non avete visto quel che ò visto io.
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Un altro giorno c’erano dei tedeschi che facendo la ritirata, erano
alcuni cattivi, allora partì con il nonno Cintio per il monte Malbe,
andarono in un casolare e chi trovarono? i tedeschi, fuggirono spaventati, vagarono un paio di giorni nei boschi e tornarono più spaventati di prima. Lui aveva paura io no, era forse i miei sedici anni.
Un altro giorno, scavò una grotta su di un greppo vicino casa,
quando aveva paura ci si andava a nascondersi, ma il giorno il 20 giugno del 44, proprio lì arrivarono le cannonate dei tedeschi contro gli
alleati e lui lasciò il suo piccolo rifugio spaventato e tornò da noi.
Passarono lì proprio le avanguardie dei carrarmati degli
alleati, i tedeschi li avevano visti da lontano e sparavano, la battaglia passò presto, per liberare l’Italia ci volle ancora parecchio
tempo, lui rimase lì con noi, non voleva andarsene, aveva paura di
tornare a casa. Quando si decise di andare prese il treno, quando
fù a Foligno, lo fermarono i Carabinieri, non avendo documenti e
fù portato in carcere a Perugia, si seppe per mezzo di un vicino,
anche lui carcerato perché in casa sua furono trovate delle coperte saponi e scatolette e altro comprate di contrabbando dagli alleati, così io ogni due giorni per un mese andavo a portargli da mangiare a piedi, facendo la fila come tanti altri.
Poi tornò finalmente a Napoli però non trovò più la madre, ci
scrisse suo padre per ringraziarci dell’ospitalità data a suo figlio e
ci vollero ringraziare ancora più tardi quando mi sposai, ospitandoci a casa loro, portandoci nei posti più belli della bella Napoli,
per noi fù una grande meraviglia.
Sì c’era paura tanta dappertutto, i vetri delle finestre ce li avevano fatti colorare di blu, perché non si vedesse la luce, ma il nemico per vedere meglio buttava i bengala facendo tanto chiaro, ogni
tanto si sentivano le bombe scoppiare qua e là. I negozi erano svuotati, per mangiare un pò di carne ogni tanto qualcuno ammazzava un
vitello e si divideva un pò per uno. Una volta questa carne la mettemmo sulle tante pignatte di coccio appoggiate sopra delle tavole
alte più di noi, e noi dove dormivamo, nella stalla, sentimmo un gran
fracasso, corremmo in tanti di sopra a vedere, si pensava che fosse
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stata una bomba, invece erano stati i gatti che avevano fatto i cocci e
portato via la carne.
Sì nella cucina nera c’era una vetrina, una madia, un tavolo, al
posto dei tegami c’erano le pignatte sopra queste tavole e venivano
adornate con della carta colorata smerlettata da noi. Ed a Pasqua ci si
infilava fra le pignatte l’alloro per ricevere la Benedizione.
I Tedeschi sempre più cattivi specie negli ultimi giorni, erano
delle S.S., seguitavano a saccheggiare, a distruggere tutto quello che
potevano, il mio fidanzato scappato dall’esercito abitava con la sua
famiglia poco più su, verso la scuola di Pian della Genna, lui e i suoi
fratelli fecero resistenza al nemico, non gli volevano fare portare via
le bestie, ma loro erano armati fino ai denti, non avevano certo paura
dei forconi, ma poi dopo un pò li lasciarono perdere, il giorno dopo
andarono i fratelli e il padre a nascondere le vacche e i buoi nella
Genna, era d’estate, l’acqua ce n’era poca, si credevano al sicuro,
quando all’improvviso arrivarono ancora i Tedeschi e portarono via i
buoi e i fratelli Nello e Secondo, e al babbo dissero, tu sei troppo vecchio vai a casa, si fermarono nella casa vicino al ponte della ferrovia.
[Secondo racconta]
Quand’è passato ‘l fronte ero a casa, ciavevo ancora quattro giorni de licenza
de convalescenza, ‘n zo’ tornato su. E è successo ‘l fatto de le bestie. Porca
miseria! quell’è stata… ‘l primo giorno i tedeschi son venuti su da Centova,
pe’ la strada che passa vicino a la villa de Sarti, quella era ‘na strada ch’era su
la cartina, e loro co’ la cartina àn preso quela strada e son venuti su, qualche
spia, chissà, volevono le bestie, avevamo ‘m paio de bovi grossi, ‘m par de
vacche e ‘n antra bestia giovane, eron cinque, tutte belle grasse, ch’è successo, loro col fucil mitrajatore e nojaltri col forcone, ‘ém fatto ‘n azzardo bello!
Loro erono due, sapendo ch’erono guasi j’ultimi, anche loro avevon paura,
perché sennò ciavevon ammazzat’a tutti, è andata bene, e son partiti.
‘L giorno dopo ancora, vedend’a venì su più tedeschi, spaurati del giorn’avanti pijamo ‘ste bestie pe’ la strada, le portamo giù ‘mmezz’a la Genna a
nasconde ‘mmezz’a le canne. I tedeschi ch’eron su la casa de Spagnoli,
vicin’al ponte a sinistra andand’a Fer de Cavallo, ce vengon contro, perché
loro, o ‘ntenzione o qualcosa, guardavono sempre, ‘l babbo era anziano, ‘n
calcio sul sedere, con bon rispetto, tu essere anziano, andare a casa, e io e ‘l
mi’fratello, dice, raus, ciàn portato via co’le bestie, giù al contadino al ponte
de Fer de Cavallo. Alora da un da l’altro, àm portato via i Calzoni co’le bestie!
la fidanzata l’à saputo.
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Mentre a casa Calzoni succedeva questo, arrivò a casa mia, trafelata, la sorella della zia Candida strillando, hanno portato via i fratelli Calzoni e i buoi! io ero disperata e piangevo.
Da qualche giorno in casa nostra si erano fermati due
Tedeschi siccome il fronte era vicino e loro stanchi della guerra si
volevano dare prigionieri, con nostro grande rischio. Allora io mi
precipitai a raccontar loro l’accaduto, capivano bene l’italiano, uno
studiava medicina, mi dissero di accompagnarli giù, così corremmo per i campi, fino alla casa dove avevano portato i fratelli e i
buoi. Io quei due non li rividi più, forse i camerati li avevano convinti a tornare indietro con loro, così furono salvati i nostri, al
ritorno raccontarono che poi strada facendo avevano preso altri due
al posto loro.
Forse fu il mio coraggio che salvò la vita ai due fratelli, se io
non avessi portato quei due, chissà che fine avrebbero fatto? era la
guerra! Ancora la zia Vienna ricorda, che matta quel giorno con
quei due a correre per i campi, ancora mi sembra vederti. I buoi li
ritrovarono più tardi qualche tempo dopo, verso Magione, nella
ritirata non avevano fatto in tempo a portarli più lontano.
[Secondo racconta]
C’erono ‘sti du’ tedeschi che volevono restà prigionieri lì da loro, e le’ cià parlato e son venuti giù. Noi ciavevon fatto restà su la stalla dove ch’ ‘ém portato
le bestie, ce n’avevon’anche più, per portalle via. Fra de loro àn parlato, alora
dissero ‘sti du’tedeschi, appena trovamo du’perzone per accompagnà le bestie,
dice, questi li lasciamo. Proprio su la voltata, poraccio, c’era uno ch’accomodava le piante de l’uva, n’antro c’era ‘n guastatore de mine, àn preso ‘sti due e
nojaltri ciàn mandat’a casa, ce l’avevon detto, forze perch’évon parlato con
quelli sinnò ‘n lo so com’andava, ce portavono via e poi pe’strada pò darzi che
sparavono.
Dopo quelli, ‘m me ricordo se fu la sera o la notte, son tornati e alora ‘l mi’ fratel s’è ‘nteressato pe’ le bestie, perch’ era ‘n capitale, eravamo paesani con
quelli, uno era ‘l colono che ciaveva la terra vicin’a nojaltri, ‘ém domandato
dove erono e dice, così e così e così. I tedeschi se son trovati chiusi poco più
avanti de Torricella e le bestie l’òn lassate, perché loro j’è toccuto de scappà
via, perché c’erono j’inglesi vicino. ‘L mi’ fratell’è partito ‘l giorno dopo,
ancora da Monte Malbo sparavono, ‘ncor’era guerra, è tornato ‘ndietro, e
doppo quand’à saputo bene dov’erono è ripartito, e j’à ritrovati. Di lì ce n’eron
tre solo, però quelli di lì sapevono che i bovi j’aveva portati via ‘n antro con-
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tadino col dire ch’era ‘l zuo, nonn era vero, j’àn ritrovati verzo Marsciano. E
così è ‘ndata bene, tocca ringrazzià la fidanzata, perché sinnò pò darzi andava
male, l’idea ‘nn era bella, con loro, arrabbiati com’erono…
È ‘ndata bene, tutte le bestie ‘ém ritrovato, e era ‘n capitale allora! Sennò
toccava ricompralle e pagà la metà col padrone. Dopo quando venne ‘l plusvalore, che coraggi’ànn’avuto, dice, ‘l plusvalore è necessario. Per loro!
ma je dissi a questo ch’era ‘l genero del padrone, ma vojaltri ce séte stati
giù p’i fossi a nasconde le bestie, ce séte stati vojaltri? E dice, quest’è ‘na
legge, sì! dopo ‘nn è andata avanti, fortuna, ma loro, a perde la pelle per
salvà le bestie… dopo loro volevon la parte… che robba, ragazzi, queste
le cose che io non sopporto, purtroppo loro eron’attaccati ch’i lor’interessi, e se potevono rubbavono, ‘n c’è niente da fà. Non tutti, non tutti,
come tutte nojaltri, ma era quella la vita.
Dove abitavo io in quella vecchia casa con i miei, sembrava un
posto sicuro, invece era proprio lì che passò il fronte. Era qualche
giorno che stavamo chiusi in quella stalla senza buoi, eravamo in 44,
c’erano la zia Vienna e i parenti, parecchi vicini e i padroni, il pane
non c’era più, fuori nessuno voleva andare perché sparavano, chi pregava, chi piangeva, chi stava seduto nella paglia. Allora io e la zia
Candida andammo di sopra nella cucina nera, accendemmo il fuoco,
con una grossa pignattona che aveva due manici di coccio, cocemmo
il riso, quel riso che avevo preso io al Consorzio, chi sa quanti kg. ne
furono cotti? poi giù per le scale si portò a tutti condito con un pò d’olio senza formaggio, e lo dovettero mangiare anche i padroni, che non
mi offrivano mai la merenda.
Quel giorno del giugno 44 arrivarono gli alleati, io non avevo
paura. Passò lì un nostro conoscente, Samuele, dicendo, venite
venite, andiamo incontro agli alleati, io dietro di lui correndo dove
ora ci sono le tombe etrusche, perché da lì venivano le avanguardie, ma quando fummo in cima alla strada, vidi quei grossi cannoni, mi sembrava che puntavano me, allora ebbi paura, Samuele
sventolò il fazzoletto bianco ed entrò in uno dei tanti carri armati.
Io scappai di corsa verso casa, mentre le bombe scoppiavano qua e
là, arrivai trafelata con la lingua fuori, quella gente accovacciata
nella paglia vedendomi mi chiesero, cosa hai fatto? l’ho scampata
bella un’altra volta, e raccontai. Da noi non ci fu nessun ferito, l’avevamo passata liscia.
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Nei tempi del passaggio del fronte, si doveva per forza mietere il
grano, le bombe passando fischiavano sopra le nostre teste per andare
a esplodere poco più lontano, a noi andò bene, però caddero nei campi
verzo la chiesa di S. Faustino ed una granata uccise lo zio di Mario
Boccolacci, maresciallo delle guardie comunali in penzione, si chiamava Federico, e fu ferito Renato Spacci, il padre di Giuliano e Talibo,
le schegge gli forarono un polmone. Anche loro mietevano il grano lì
dove abitavano la famiglia Boccolacci, c’era vicino il comando inglese, i tedeschi da monte Tezio li avevano avvistati ed allora una scheggia uccise Federico all’istante, lo adagiarono su dei cavalletti, sopra la
tavola del pane, lo coprirono e lo lasciarono lì e la famiglia si andò a
nascondere, finché non cessò la battaglia. Purtroppo il grano lo dovevamo mietere altrimenti quando è troppo secco cade in terra, il padrone senza quel raccolto mangiava uguale, ma il contadino forze alle
volte aspettava quello per mangiare, o se era più che sufficiente si vendeva per comperare ciò che occorreva, vestiti scarpe o medicine, perciò non si poteva aspettare che passasse il fronte, chi rischiava, sempre il più povero.
Un giorno si mieteva proprio vicino all’accampamento degli
alleati nei campi degli Alberetti, erano lì da diversi giorni, con 3 grossi cannoni, loro bombardavano a Monte Tezio, in un momento di
pausa ci vennero a portare il tè con i biscotti, gli facevamo pena con il
nostro lavoro manuale e faticoso, forse da loro già avevano le macchine, quei giovani buoni e gentili volevano alleviare il nostro lavoro.
Un giorno, io e Santino andammo lì a riportare i panni lavati da
me agli inglesi, li lavavo nelle ore più calde al posto del riposo, quel
giorno ci indicavano dove bombardavano, ci facevano vedere con il
canocchiale dove era il Tezio, ci dettero cioccolate, saponette, scatolette, ma Santino aveva paura e cominciò a dirmi, signurì, signurì,
andiamo è pericoloso, corremmo a casa in 2 minuti, sentimmo le
bombe fischiare sopra le nostre teste, li avevano avvistati, vedemmo
tanto fumo, ci fu una battaglia terribile, e noi poco prima eravamo là,
un’ora dopo nel campo non c’era più nessuno, poverini quanti ne
saranno morti? Quei poveri giovani che poco prima erano con noi,
cosa sarà successo? Fu la paura di Santino che ci salvò, noi da vicino
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vedemmo quella brutta guerra, inerti e tristi ma salvi. Erano rimasti i
grossi proiettili dei cannoni 149 qua e là, qualche tempo dopo i nostri
guastatori li radunarono tutti sotto ad una secolare quercia vicino lì, la
fecero saltare e questa fu sradicata come un fungo, la poca gente nei
dintorni fu avvisata di restare per quell’ora dentro casa, le schegge
arrivarono fin lì vicino la Madonnina della Madonna Alta.
Un altro giorno io e mia zia Candida, si faceva l’erba, un aereo
tedesco, si diceva dal muso rosso, noi due vedendo abbassarsi verso di
noi le facemmo cenno, come di tagliare la testa con la falce, poi però
ci spaventammo e ci gettammo giù nella forma più vicina, ma non
vedevano noi. L’obbiettivo era un autotreno di gomme, a Centova, che
bruciò per vari giorni.
In quel lontan 44 da quella strada polverosa
allora io 16enne per poco finii in una storia spaventosa.
Prima di salir l’irta strada del Toppone
siccome a casa il grosso fascio d’erba dovevo portare
mi fermai lì a riposare.
Stavo guardar la colonna dei camion dei neri
e sicuro nella mia testa non eran balenati certi pensieri.
L’ultimo camion si fermò e giù di corsa lui scese.
Disse qualcosa che non potei capire
e su per il toppo io presi a fuggire.
Quando in cima mi rivoltai, il negro che non poté aver la sua cacciagione,
lo vidi nel suo camion ritornar, nella strada con il polverone.
Io arrivai a casa sfinita e spaventata.
Ma un’altra volta ringraziando Dio l’avevo ancor scampata.
Ricordo spesso quel periodo, a tratti divertente a volte orribile.
Nella vecchia villa gli alleati ci avevano fatto il comando, nel quale
c’erano tanti negri mussulmani, quando sentivano i maiali a grugnare,
scappavano. Per fare i bisogni i gabinetti non ce ne erano, allora loro
andavano nei campi, si portavano con loro le scatolette piene di acqua
per farsi il bide ed erano pieni i campi, avevano tante pecore, le facevano dormire nei fondi del vecchio palazzo.
Un giorno avendo finito il sale appena passato il fronte Santino
andava a cercarlo, e ritornò a casa assieme a un negro con il turbante,
aveva lui il sale, questo lo vendeva di contrabbando. Erano le prime
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volte che si vedevano i negri, noi ragazze avevamo paura, un giorno,
io e la mia amica Fernanda, vicina di casa, vedemmo un negro che si
avvicinava a noi, noi corremmo via spaventate, ci andammo a nasconderci in cantina dietro le botti a casa sua, per un bel pò rimanemmo lì
zitte senza fiatare, e lui se ne andò, ma si stava sempre attenti di non
fare brutti incontri. Si diceva che le piacevano le donne bianche.
Questa mia amica aveva altre due sorelle Iolanda ed Olga, e tre
fratelli, si stava assieme si rideva si scherzava si giocava a carte, specie nelle lunghe sere d’inverno attorno al fuoco in casa mia perché la
mia famiglia eravamo solo 4, il nonno e i miei genitori ed io, e così si
radunavamo a casa mia.
Tanti alleati di nascosto ai superiori vendevano, oltre le saponette, scatolette, perfino coperte, un vicino ne aveva comperate 100 per
poi rivenderle a mercato nero. Poi ci furono le spie, vennero e perquisirono le case, si ripresero la roba, uno dei due fratelli dei vicini finì
in prigione, l’altro nascondeva questa roba, dentro il letto, fingendo di
stare male, ma le andarono a frugare nel comò e gli presero le 44mila
lire che aveva accumulato con tante fatiche. Quando si accorze si
disperò, si diceva chi sà se erano stranieri o italiani, la guerra è così
chi fà soldi, chi diventa più poveri.
Io con una di quelle coperte, dopo averla fatta tingere ci feci un bel
cappotto, aiutata dalla zia Vienna sarta. Lo portai parecchi anni, era blù
con un pò di pelo. Ci si doveva adeguare a tutto, si facevano i calzettoni a mano, a punto inglese, o a dritto e rovescio, a punto pepe e così via.
Sotto il sole che arrostiva, si facevano fatiche massacranti. Oppure l’inverno ci si ghiacciava, io dormivo nella camera dei miei genitori era
freddissima, c’era il lavandino con lo specchio, ai lati gli asciugamano
e sotto il broccolino dell’acqua e la bacina, che diventava tutto ghiaccio,
si doveva sciogliere per lavarsi il viso, ora quel lavandino riposa su in
soffitta a ricordare un tempo che fù. Per fare il bagno ci si lavava a pezzi,
quando era freddo, si andava nella stalla dei buoi, la quale era riscaldata da loro, per vasca c’era la mastella dove bevevano queste bestie.
Gli uomini nelle giornate d’inverno facevano gli zoccoli di
legno, sopra la pianta di legno modellavano una vecchia tomaia, o
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facevano i crini per l’erba o i canestri per raccogliere l’uva o altre
cose. Noi donne si faceva le ciabatte, si cuciva il corredo, i vestiti pantaloni camicie o a maglia, in quel posto tiepido e maleodorante. Poi
quando il tempo era più clemente si usciva con il crino a cercare per
delle ore un pò di erba, e magari se ne fosse trovata molta, le bestie
d’inverno o d’estate dovevano pur mangiare. Nonostante tutto eravamo contenti, c’era più dialogo, più rispetto. Senza quasi mai divertimenti, si penzava a quello che si doveva fare il giorno dopo.
In quei tempi di guerra degli anni 40 anche le stoffe non si trovavano, a casa mia non ricordo come ci capitò un tendone di un paracadute, mia madre mi disse, guarda di farci i pantaloni per gli uomini
di casa, cioè il babbo il nonno, il garzone, e Santino disertore dell’esercito, io non li sò fare e lei mi disse, scuci un paio vecchio, e tagliali sopra, così feci, che fatica, quella stoffa è cerata e dura, ma dovetti
ubbidire e alla fine, ne uscirono i pantaloni per tutti. Quello era il
nostro divertimento, fare pantaloni, camicie, calze vestiti, ma era pur
sempre meglio del lavoro dei campi con il caldo o il freddo e avevo
solo 15 o 16 anni ma nonostante tutto ero serena tranquilla.
Anche il palazzo dei miei ricordi fu ferito con i suoi alberi.
Quel vecchio palazzo era arredato e custodito dai proprietari gelosamente, quando nel 1944 i tedeschi si ritiravano istallarono il comando delle S.S., buttarono i mobili per le scale, al piano terra ci avevano
messo le pecore, rubate chi sà da dove, le portavano a pascolare nei
campi lì vicino. Allora attaccata alla vecchia villa c’era la casetta del
contadino, qualche volta gli rubavano qualche agnello, nascondendolo
nel barellone che serviva per trasportare il letame delle vaccine. Poi
dopo un pò di tempo furono scoperti dal nemico dei tedeschi e nostri
alleati, ed il palazzo fu scheggiato in più parti, il bosco con i suoi pini
e cipressi erano in molti squarciati, il cancello bianco in fondo al viale,
che per tanti anni era chiuso a chiave, nemmeno il contadino poteva
passare, fu scardinato e buttato in terra, i tedeschi scapparono con le
pecore. C’era tanta tristezza e desolazione. Era rimasta, come c’è ancora, la Madonnina, a ricordare un tempo lontano di quella terribile guerra, che non si può dimenticare.
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Appena il passaggio del fronte, le case mancavano, in questo
palazzo mal ridotto poco alla volta ci entrarono parecchie famiglie, fu
un pò restaurato e abitato fino quando l’avidità della gente volle cambiare le sembianze di un tempo secolare e lo distrusse. Questo posto
certamente non è più solitario come allora, ma un via vai di chi ci abita
di chi ci lavora, gremito di macchine di gente, e così è solo un ricordo
sbiadito lontano, e caro di chi come me lo ha avuto nel cuore, specialmente a me fa questo effetto, forze perché lì ci sono nata, ci son cresciuta, ci ho vissuto quell’infanzia che non si dimentica, rimane nella
mente e nel cuore fino alla fine della vita. No non si passava dal cancello bianco, era chiuso da una grossa chiave, che teneva il proprietario, noi se si voleva andare alla messa a S. Faustíno o dal negozietto a
Centova, si saltava nel punto più basso della recinzione, la strada per
noi era quella che oggi si chiama Via Renata e sbocca nella Pievaiola
proprio lì difronte alla Banca.
Prima di ritornare nelle loro case, con la gente sfollata da noi
volemmo fare un bel pranzo, si fece anche il dolce, la zuppa inglese,
avevamo da poco finito di mangiare, sentimmo tanto rumore, si
corse tutti fuori, erano gli alleati, stavano passando proprio sotto le
finestre, erano in tanti con le gip, noi sventolammo il fazzoletto, gli
facevamo festa, qualcuno scese, gli offrimmo il dolce, ci indicarono
di mangiarlo prima noi, poi loro, e ci lasciarono un cagnolino bianco e nero, lo chiamammo Gippino e visse con noi per 17 anni, e fu
un ricordo dell’inferno passato. Per noi l’incubo della guerra finì,
però per liberare l’Italia ci volle ancora un anno. Si sentivano dire
tante cose brutte e ancora oggi mi pare di sentire quelle grida delle
8 persone che furono fucilate vicino al cimitero di Ponte della Pietra.
Quanti sfaceli! da quante parti succedevano questi crimini! quanti
morti!
I tedeschi in ritirata distruggevano tutto ciò che potevano e
minavano i campi, dopo un certo periodo la gente provvedeva a sminare. A S. Marco successe così, un padronale dava una damigiana di
olio a chi avesse lavorato questo campo, allora un amico del mio
allora fidanzato, attaccò i buoi ed andò ad arare, all’ultimo solco,
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saltò in aria lui e i buoi, poverino, avrà avuto 22 o 23 anni. Con il
mio fidanzato aveva fatto il militare a Peschiera del Garda assieme,
ora dopo tanti anni conserviamo questa foto dei quattro amici soldati con i calzoni alla zuava e le fascie alle gambe d’estate e d’inverno. Lui si chiamava Ugo Bellini, Tonti Attilio, Cristofori e Calzoni
Secondo mio marito.
I quattro amici soldati, Peschiera del Garda 1943
[Secondo racconta]
Questo, poraccio, era ‘n amico mio, avevam fatto ‘l militare ‘nzieme, quand’era contadino quaggiù ce veniv’a trovà co’la fidanzata, de Sammarco era, poraccio, eravam quasi del paese. Alora poco dopo la guerra, c’eron le mine da pertutto, ‘l padronal de la terra dice, se tu vòi lavorà ‘sto campo, guarda però ch’è
minato, se tu ce vòi provà c’è ‘na damigiana d’olio per te, e sennò… e lu’, ‘n
tempo de guerra, prende ‘na damigiana d’olio… poraccio disgraziato, l’ultimo
solco è saltato ‘nn aria, l’ultimo solco ch’à finito è saltato ‘nn aria! lui e i bovi,
tutto. Poraccio, se ‘l zapeva, ‘st’affare ‘n lo faceva…
Per ricostruire e dimenticare ci volle molto tempo, e furono in
tanti che non rividero più i loro cari. Arrivò l’acqua, la luce, la radio,
il gas nelle bombole in casa nostra. Poi piano piano i negozi si rifornirono, con gli alleati arrivarono gli insetticidi e le mosche e i bucaioni scomparirono, con il tempo arrivò anche il benessere con la volontà
di tutti. E colui che scatenò l’inferno, cioè il Duce, venne ucciso, con
immensa soddisfazione di molti.
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Io scrivo tutto questo perché lo leggessero i miei figli e i miei
nipoti, loro hanno tutto, non apprezzano niente, e non sono contenti,
non vogliono imparare le cose buone, sono quasi tutti uguali. Io mi
domando, perché io come tanti con la misera vita, laboriosa ubbidiente, senza avere un gesto d’affetto, con pochi vestiti, con le buffe scarpe dalla punta in su, un misero mangiare, e con la guerra, ero contenta? Questa è una domanda che non avrà mai una risposta. Io vorrei un
favore, ma non so a chi chiederlo perché è un’utopia, di poter ritornare dopo 20-30 anni dalla mia morte, per vedere come sarà questo
mondo che fa paura, più del mio passato, perché i valori sono caduti,
non c’è più rispetto nemmeno per se stessi, forse sarà il troppo, il tutto
avere che porta alla rovina!
[Argentina e Secondo, mezzadri]
Il dopo guerra cioè nei anni 44-45-46 la vita ricominciava alla normalità, chi si sentiva di buon umore andavamo nelle feste da ballo che
erano frequenti nelle case in qualunque posto, ballavano festosi al suono
della fisarmonica, sassofono o clarino. Anche se non c’era nessuno quando cominciavano a suonare, dopo pochi minuti le case erano piene. Una
volta mio marito Secondo Calzoni suonava a Badiola, a casa di sua sorella, la tramontana portò la musica fino a Villanova, per la scorciatoia era
vicino, venne tanta gente, il cognato disse, smettete di ballare, viene giù
il solaio, andiamo tutti giù dalle vacche. Più volte fecero queste feste al
molino da olio dei Guerrizzi, via Pievaiola, al piano superiore dove prima
era pieno di olive, venivano fatte scorrere per mezzo dei grossi tubi al
piano di sotto dove c’erano macchinari per estrarre l’olio con tanti contenitori di coccio detti ziri, poi ognuno tornava a prendere la sua parte.
Sgombero quel grosso locale forze circa 250 metri, tanta gente ci andava ai balli, c’era pure un tale che suonava la chitarra, mio marito suonava il clarino o il sassofono, Biscarini Ernesto suonava la fisarmonica, ci
si divertiva da matti.
Poco più in giù c’era la casa del colono Biscarini con le terre da
loro coltivate. Queste due vecchie case ci furono fatti dei appartamenti,
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abitati per un certo periodo, dopo furono abbattuti, per costruire nuove
case grossi palazzi, questo molino e la casa colonica era situata vicino
alle suore del Bell’occhio, di fronte ora c’è una stazione di benzina.
Negli anni del dopo guerra, quando molta gente diventarono
ferventi comunisti, un gruppo di amici burloni e amanti del vino, un
giorno vanno a prendere il prete allora Don Olinto Valiani della parrocchia di S. Faustino, un certo Pausini, Marcaccioli, Biscarini,
Toccaceli, Larini, Pottini, gente della parrocchia amici del parroco,
passarono casa per casa dei contadini, per fare una ennesima bevuta. Anche il prete era ubriaco, lo caricarono in piedi su di una carretta portata a mano, e lo facevano cantare Bandiera rossa assieme a
loro, che scena, dopo tanti anni ancora mi par di riviverla, la gente
si divertiva con poco, anche se le cose andavano oltre i limiti.
Passò qualche anno, cioè siamo nel 1948, io e Secondo, sempre
il primo fidanzato, decidemmo di sposarci, io non volli andare in casa
sua, poiché erano già 14 persone e noi eravamo solo in quattro. Anche
il suocero e i fratelli capirono che era giusto, così ci sposammo il
4-10-1948. Fu una bella cerimonia, nella messa cantò l’Avemaria e
suonò il violino Peppino Lucacci, con i taxi si andò e tornò tutti dalla
chiesa, ci fu un bel pranzo nell’aia, coperta con i tendoni, c’erano
anche i padroni, amici e parenti, poi alla sera si partì per andare da
Santino a Napoli, nel frattempo c’eravamo scritti, e suo padre insistette per averci con loro, voleva ringraziarci dell’ospitalità fatta a
suo figlio, così fu la prima volta che vidi il mare, la città di Napoli
con i posti più belli, Via Caracciolo, Sorrento, S. Lucia, Pompei, ecc.,
dopo una settimana si tornò al lavoro nei campi. Così fu fino al 1962.
Usanze delle nozze
Negli anni 40-50 le macchine erano poche, ricordo come tanti
altri quando si sposavano tutti a piedi. Il fratello di mio marito aveva
la fidanzata in Prepo, perciò si doveva sposare nella parrocchia di lei,
dopo la cerimonia in chiesa, tutti a piedi si andò a pranzo a casa di lei,
in tanti, eravamo una lunga processione e lei abitava di là a Prepo
davanti a dove ora c’è la Fiat. Dopo un bel pranzo, ci incamminammo,
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quando si passava davanti alle poche case, per strada ci fermavano la
gente che abitava lì, portavano da bere il vino a tutti e gli sposi davano loro i confetti, si chiamava la parata. Ci incamminammo ancora
fino lì vicino al Pian della Genna a casa di lui, ed ancora un altro pranzo succulento, per la tanta strada fatta avevamo ben digerito il primo,
Foto di matrimonio, ottobre 1948. Foto Raffaello, Fontivegge (Perugia). Foto in abito da matrimonio prese in studio al ritorno dal viaggio di nozze
e finì con suono della fisarmonica. Senza viaggio, il giorno dopo gli
sposi al lavoro nei campi.
L’anno dopo quando arrivò l’ora delle nostre nozze, io non volli
andare a piedi, noleggiando le macchine dalla stazione, ma ci vollero
tutte le 22mila lire delle mancie. Poi io volevo fare il viaggio di nozze,
ma lo sposo non voleva, allora il giovedì prima delle nozze si doveva
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andare dal prete e assieme alla mamma, io bisticciai con lo sposo, io
gli dissi, se tu non mi prometti di portarmi a Napoli, io domenica non
vengo in chiesa, magari partimmo con le valigie legate con lo spago,
valigie vecchie molto usate dello zio Carabiniere, ma in compenzo
vidi tante cose, il bel mare, la nave Saturnia, e molte cose che ricordo
con piacere. Mio marito ancora dice, hai voluto comandare sempre tu,
ma non è vero, abbiamo deciso le cose sempre assieme a parte questo
viaggio, a lui non piaceva e piace poco, ma a me non ha negato di
viaggiare, una cosa che non ho potuto fare una crociera tanto sognata,
ma ora è troppo tardi, e poi ci sono i brutti eventi della vita, che mi
impediscono anche di sognare.
Foto di matrimonio, ottobre 1948. Foto Raffaello, Fontivegge (Perugia)
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A mio padre non piaceva fare il contadino, appena arrivò mio
marito affidò tutto a lui, e andò a fare il muratore, così io dovetti stare
sempre nei campi e in casa, con i lavori pesanti o meno. Io magra,
esile, mangiavo poco, lui robusto e di buon appetito, con fretta correva da una faccenda all’altra, mio marito era un grande lavoratore ed io
dovevo stargli dietro. Non c’erano più gli operai che teneva papà, si
faceva tutto da noi, avevamo comperato la falciatrice, con i soldi di
mio marito che aveva portato da casa sua.
Nel 1950 in gennaio nacque Annamaria, 3,800 kg., fino alla sera
stavo a fare l’erba, alle 4 di mattino già era nata, vispa, senza tanti
complimenti cresceva bene, intanto seguitavano gli stessi lavori, a
casa ci stava la mamma, io ero quasi sempre nei campi.
Arrivò la mietitura, quell’anno il grano era tanto, era l’ultimo
anno che avevamo il podere grande, poi il padrone divise i campi, ne
rimasero la metà. Finito di riportare il grano nell’aia, s’erano fatti 2
grossi barconi, aiutati dai fratelli Calzoni, avevamo finito a tarda sera.
La mattina dopo, io andai da mio marito che era dalla famiglia di
sopra, avevo la bimba in braccio, mi voltai e vidi le fiamme alte in
cima al barcone del grano. Che spavento! S’incendiò tutto, il pagliaio
del fieno, la legna, la casa, arrivò tanta gente, i pompieri, tutti aiutarono a portare nei campi la roba, si salvò quello che si poté, fu una terribile esperienza, poiché tutte le speranze che si concentravano su quel
raccolto se ne andarono in fumo. Molta gente venne a portarci un po’
di grano, fu così che si recuperò quello perduto. Anche il mio papà
riportava il grano, lui era macchinista per 40 anni ed era conosciuto da
molti. Alla fine di questo strano raccolto si fece a tutti un pranzo di ringraziamento.
Ma si dice che le disgrazie non vengono mai da sole, è vero. Con
lo spavento detti quel latte alla figlia che aveva 8 mesi e prese un
disturbo intestinale, non bastarono le cure del medico nostro, la dovetti portare dal Prof. Luciani, specialista dei bambini, così partii da sola
con la piccola in braccio, passai dalla zia Vienna, mi disse, devo venire anch’io con te? risposi, no, non importa, certamente non potevo
immaginare ciò che accadeva. Il professore appena la visitò disse,
questa bambina ha una gamba più corta, mi spiegò cosa dovevo fare,
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dovevo andare dal Prof. che veniva da Roma, ritornai a casa disperata. Aspettai il mese di dicembre, le ingessarono tutte e due le gambe
fino allo stomaco, ogni 15 giorni si portava al controllo, tutti e tre con
la bicicletta, poiché il tragitto era lungo, lei con il gesso era pesante, si
posava sopra la sella. Ci volevano tante attenzioni per tre mesi, furono lunghi poi andò tutto bene. Fu il Prof. Tancredi, che poi fondò la
clinica Stringa, che accorciò i tempi, certamente lui veniva da Roma,
ne sapeva più dei perugini, loro ce la tenevano nove mesi, per me quel
Tancredi fu un santo.
Nello stesso mese di dicembre si spense il buon nonno Cintio, lo
piansi tanto.
Gli anni passavano con tanti pensieri e fatiche, la vita era dura,
un anno veniva la grandine, un anno pioveva poco, il raccolto era scarso, i guadagni erano pochi, alle volte un po’ meglio, alle volte andava
bene. A me il sole mi scottava troppo, si pensò di mettere qualche lira
da parte un po’ per volta, il vino se ne raccoglieva tanto, alle volte i
vicini cattivi dicevano al padrone, Calzoni vi ruba l’uva, e lui rispondeva, da quando c’è lui non so dove mettere il vino, così ci rimanevano male. Quanta gente veniva a vendemmiare, era una festa, alla sera
ognuno riportava un grosso canestro d’uva a casa, si pranzava, si cenava tutti quanti allegramente.
Nei tempi lontani quando si vendemmiava, dopo aver pestata
l’uva con i piedi, in quella piccola fonte murata, detta canale, nel
davanti c’era un buco da dove fuoriusciva il mosto, dopo la fermentazione diventava vino, questa uva di già schiacciata veniva messa nello
strettoio, un grosso cilindro a doghe, dove gli uomini spingevano un
palo di ferro dove premevano lastre di legno che pigiavano questa uva
e ancora usciva più vino. E quindi la buccia abbastanza secca, poiché
il vino non era tanto queste bucce venivano poste in una tina dove ci
si metteva l’acqua per qualche giorno, si filtrava, ne usciva quell’acqua un pò rossiccia che sapeva di vino, lo chiamavano maniere. Per
farlo insaporire si andavano a raccogliere i lelleroni, bacche un pò
dolci gialle e rossicce, si mettevano nella botte del maniere per renderlo più buono. Si beveva l’inverno pochi mesi, poi diventava catti65
vo. Alle volte mettevo dei tozzetti di torta di granturco in un piatto con
il maniere, si chiamava minzocca, a me piaceva. Siccome l’inverno si
lavorava di meno e si mangiava alla meglio. L’estate si beveva vino,
si mangiava un pò di carne, si doveva essere in forza, per affrontare le
grandi fatiche dei campi.
Noi ne raccoglievamo alle volte tanto e buono, il bianco era il
trebbiano, pecorina, greghetto, molto S. giovese nero, anche 100 q. Si
metteva nella botte caldai di uva bollente, lasciata apposta da parte,
questo per fare prolungare la fermentazione che durava qualche giorno e così veniva un vino squisito. Il proprietario assaggiava il nostro e
diceva, il vostro è più buono del mio, perché? e il marito gli rispondeva, Sor Umberto ne dipende dalla botte. Invece no, era quel vino bollente che gli dava più forza. Se il padrone si credeva più furbo in un
certo modo anche il contadino non era da meno. Mio marito gli diceva, Sor Umberto non mi fregate, perché se nò frego anch’io. Si dice
non certo ai tempi antichi, ma più tardi, il contadino ha le scarpe grosse ed il cervello fino.
Il 3 maggio è la festa della Croce, i contadini prendevano delle
canne, quasi in cima le spaccavano, ci si metteva un pezzo di canna di
traverso con una piccola fronda d’ulivo benedetto il giorno delle
Palme e queste croci si mettevano immezzo ai tanti campi di grano,
per proteggerli dall’intemperie, poi quando il grano era mietuto, si
mettevano infilate nei barchetti nei campi, quando si riportava nell’aia
le croci si mettevano sopra il gran mucchio di grano messo accuratamente, detto barcone, aspettando la trebbiatrice, quello era un gran
giorno di festa, anche se c’era polvere e tante fatiche.
Sì anche la trebbiatura del grano era una fatica e insieme una
festa, nell’aia c’erano tanti uomini, chi faceva il pagliaio, chi accostava le gregne nella trebbiatrice, chi portava i sacchi pieni in casa e noi
donne a preparare il pranzo e la cena buona e abbondante. Il padrone
se ne stava seduto all’ombra davanti alla bascola e controllava, un
sacco a me, uno a te, però sul suo ce ne metteva sempre un po’ di più.
Non era cattivo ma un po’ tirchio.
Ancora poco tempo fà incontrandomi con un vecchio amico d’in66
fanzia, mi diceva, quanto era tirchio il tuo proprietario, un anno nel
50-55 che anch’io venni da voi a trebbiare alla fine lui prese la scopa,
puliva l’aia, allora mi fece tanta rabbia, io gli buttai da sopra la trebbia un canestro di terra e grano, quella che lui aveva radunato, tutto
impolverato, si squagliò di fretta, qualche accidenti di sicuro avrà
detto. Un mio cugino mi racconta ancora, ricordi quando si vendemmiava laggiù vicino alla Pievaiola, al Sor Giuseppe che stava sempre dietro alla gente che coglieva l’uva, siccome le viti erano alte
cioè un voltabotte così si chiamava, io gli tirai sulla testa pelata due
grossi grappoli d’uva, dicendogli scusi, mi è scappata dalle mano, e
lui se ne andò di corsa farfugliando qualcosa. Il giorno dopo se ne
stava più lontano.
Ad aiutare a trebbiare c’era tanta gente come 30 o 35 perzone,
che venivano pagate o fra contadini contraccambiate, allora si faceva
con la paglia il pagliaio, il paiolo che era la piccola corteccia dell’acino di grano si trascinava nelle capanne costruite con il tetto di
paglia. Per il pranzo l’opera dell’aia mangiavano sì bene, ma in terra
dietro all’ombra della casa, con delle lunghe tovaglie, piatti e posate
per tutti, qualche ragno che camminava comodamente sopra le tovaglie e qualche bicchiere. Il padrone e i macchinisti a tavola, seduti
sotto l’ombra dell’olmo che ancora c’è.
Con il sole piccante, il freddo e l’intemperie si dovevano portare
avanti i lavori lunghi e faticosi, zappare il granturco, i filari, nei campi
eravamo sempre in due, meno le faccende più grosse. Ma era quotidiano il fare l’erba per le bestie, e ce ne fosse stata, io e mio marito si
andava spesso a farla dai suoi fratelli, si portavano i fasci e i crini sulle
spalle da quei campi, erano abbastanza lontani, là vicino alla via
Cortonese. Si aiutava anche i Calzoni, un anno mietemmo 18 giorni,
dopo avere finito il nostro, ero esausta, e il sole scottava.
Il mio pensiero correva sempre più spesso a chi aveva la fortuna
di stare all’ombra, in casa o in fabbrica, mi domandavo perché, forse
per me non c’era posto? Ammiravo tutte quelle che non facevano lo
stesso mio lavoro, per me erano fortunate, io stavo lì aspettando che
qualcosa cambiasse.
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Si doveva tirare avanti. Un giorno di marzo andavo a cercare l’erba, era freddo, se ne trovava pochissima, eppure le bestie dovevano
mangiare, il fieno era alla fine, passarono due zingare, lo volevano per
forza per i loro cavalli, io le trattai male e se ne andarono, però 2 grossi buoi non mangiarono più per 5 giorni. Si sapeva che in fondo a via
Eugubina c’era uno stregone chiamato Guastarazzi, ancora più avanti
in una piccola casetta isolata, io andai da sola, a piedi. Gli raccontai che
i buoi non mangiavano, allora lui prese da dentro una piccola scatola
un bucaione morto, lo mise sopra un tavolino, leggeva leggeva, io non
vedevo nessuno scritto. Disse, i tuoi buoi l’hanno stregati le zingare e
presto moriranno. Questo piccolo uomo baffuto con gli occhiali si mise
a grattare degli ossicini, disse, vai, metti questa polvere con un dito
sopra la groppa dei buoi, vedrai che mangeranno. Pagai la piccola parcella e uscii, sulla soglia della porta mi disse, se hai fretta ti rimando in
un attimo, io gli risposi, no grazie, vado con le mie gambe, e corsi via
in fretta. Circa dopo un’ora e mezzo ero a casa, misi la polverina sopra
la groppa dei buoi, e di colpo, con un balzo in avanti, si misero a mangiare voracemente. Io personalmente sono un po’ scettica nel credere,
ma questo è capitato a me, ed ancora oggi, dopo circa 50 anni, ho la
scena davanti agli occhi esattamente come l’ho descritta.
Quanti passavano dal contadino, il campanaro, il fabbro, le zingare, i poveri, uno dei quali quando trebbiavano passava a raccogliere il grano, ricorda mio marito, un tale senza bracci, guidava il somaro con la bocca, gliene davano tutti un pò. Quante persone venivano,
ad aiutare a mietere, a fare il fieno, a vendemmiare, a raccogliere
l’uva, a zappare per mangiare un pezzo di pane bianco e un piatto di
pasta con un buon bicchiere di vino, da noi venivano sempre compenzati con farina, o vino, o grano. Il contadino da tanti schernito. Ma
però era lui che dava un pezzo di pane, anche se in tante cose ignorante, ma le sue cose gli altri non le sapevano. Allora si dice, il contadino à le scarpe grosse e il cervello fino.
Il prete il grano se lo faceva portare a casa in bicicletta o a piedi,
e si chiamava la decima, la decima era di 20-30-40 kg. di grano. Un
anno mio marito quella domenica prescritta a casa del prete non poté
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andare, c’erano tutti meno che lui, la Rosina le faceva un bel pranzo
ed era una festa. Il prete sordo parlava molto forte, qualche giorno
dopo io l’incontrai in via del Bell’occhio, e mi gridò, tuo marito non
è venuto a portare la decima. Io gli risposi, verrà verrà.
Di fronte alle Fonti di Vegge nella piccola discesa ancora esiste
quel grande palazzo a angolo. Lì c’era il fabbro, ci lavorò per tanti anni,
ribatteva le gumaie del carrettino, le infuocava con una forgia a carbone o carbon coch, poi con un grosso martello le affinava rendendole
taglienti, oltre a tutti i lavori in ferro, faceva il maniscalco, ferrava i
cavalli, buoi e vacche, era un lavoro duro, passando lì si sentiva sempre un gran rumore, perciò come tutti i lavori duri, richiedeva spesso
un buon bicchiere di buon vino. Quando arrivava Pasqua, questo signor
Nazzareno, come di usanza, passava per le case a raccogliere le uova
dei contadini che serviva. Un giorno aveva colmato un bel canestro,
fatto parecchie case, bevuto qualche buon bicchiere di vino di troppo,
lì vicino alla nostra casa c’era una stradella sopra il greppo, scivolò giù
facendo una bella frittata, si pensò, la moglie quante gliene avrà dette!
Quella uova le servivano per fare le torte Pasquali, si davano anche al
campanaro che suonava per la malacqua l’estate.
Gli attrezzi erano a metà con il padrone, quando il contadino
cambiava podere, li stimavano, come pure le bestie, poi facevano i
conti, il padrone le dava la sua parte, se c’era, il contadino che subentrava pagava. Nei tempi remoti la gente non sapeva leggere né scrivere, perciò avevano spesso i debiti, tanto i conti non li sapevano fare,
ed erano sempre più poveri. Ai padroni oltre il bucato, il pane, si dovevano dare d’obbligo secondo la grandezza del podere 6-8-10 coppie di
polli all’anno per Natale, a Pasqua 50-60 o di più coppie di uova, i
polli castrati cioè capponi, dovevano essere di peso stabilito, portati a
casa, a piedi, questi si chiamavano obblighi, era scritto nel libretto
contratto tra il padrone e contadino, doveva essere severamente rispettato. Il proprietario, più intelligente, spesso rubacchiava, e se la ridevano. Ma quando la gente andò di più a scuola, per i proprietari
diventò più difficile, poi arrivarono i sindacati, i conti li controllavano
a loro, si portava il libretto una volta all’anno, così andava bene.
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Si vedevano troppe ingiustizie nel 1950, volevano fare una legge
chiamata plusvalore, consisteva quando il colono si trasferiva in un
altro podere doveva lasciare al padrone il 30% di ciò che gli spettava,
poi non andò avanti, e svanì nel nulla. Ma a qualcuno nel frattempo fu
attuata. In quel periodo a casa nostra avevo sentito dire dal genero del
nostro proprietario che questa legge era giusta, non ho più salutato
questa perzona, e molte del suo rango li vedevo ancora di più altezzosi prepotenti e ingannatori. Questo colono del proprio padrone, si trasferiva dal M. Acuto alla Genna. Il padrone gli inventò, se questa
legge passava alla Camera, avrebbero pagato molto di più, loro spaventati accettarono, e non gli dettero una lira delle 150 mila che gli
spettavano, di quei tempi erano parecchi! Non gli facevano pena la
loro miseria, le toppe nei calzoni e nelle camicie, ce ne avevano tante
che non si capiva quale era la camicia da nuova, mezzi scalzi e nudi,
io gli aiutai nel cucire vestiti, a me facevano pena, benché anch’io ne
avevo pochi, gli aiutai come sapevo fare, ma per loro era già tanto di
quei tempi.
Non di certo mio marito aveva paura del padrone. Con il mio
papà era abituato, quando si portavano i vitelli o vacche, maiali al
mercato, lasciava fare tutto al padrone, li vendeva lui, così fu per tanti
anni. Ma quando venne ad abitare con noi mio marito, questa cosa non
le andava bene. Ricordo che una volta un macellaio venne nella nostra
stalla a comperare un vitello, a lui gli sembrava che pesava di più. Di
già contrattato, si doveva portarlo al mattatoio il giorno dopo, prima
di portarlo su passò a pesarlo alla Lippa al Bell’occhio, era 20 kg di
più, si scoprì che vendeva sempre a questo perché lui ci tornava a
prendere la carne per sé. Ci fu una grossa discussione, da quel giorno
mio marito disse al proprietario, quando vado al mercato lei deve
venire vicino a me quando le bestie io l’ho vendute. Così fu. Aveva
trovato l’osso duro, comunque quando ce ne andammo davanti ai sindacati le mise una mano sopra la spalla dicendogli, sei bravo, sai fare
i tuoi interessi. Quando chiedeva i soldi al padrone quello la mandava
per le lunghe e diceva, finché li ho io non li spendi.
I padroni ce n’erano dei migliori e quelli disumani. Intorno gli
anni 1920 uno dei migliori avvocati della città aveva una villa nei din70
torni, vicino aveva la casa del contadino, questi erano poveri, 8 orfani
di madre, qualcuno di loro in tenera età, allora la donna di servizio di
questa famiglia facoltosa, quanto le avvanzava, qualche coscia di
pollo o altro, di nascosto le dava a questi figli, un giorno l’avvocato se
ne accorse, le proibì di darle a loro, le doveva buttare, questi avvanzi,
nel secchio della lavatura dei piatti per i maiali, a quei tempi i detersivi non c’erano, per queste bestie era come una biada. Penzate un pò
che concetto si facevano del padrone questi figli, come non si potevano odiare? Era gente spietata, questo avvocato quando stendevano i
panni del bucato che andavano a prendere le ragazze in città a piedi
con il carrettino a mano o con il fagotto in testa per guadagnare qualche soldo, lui li sporcava con la terra, che disgraziato. Sì era spietato,
un giorno, racconta la cugina del mio marito, fu chiamato da un carcerato, che stava scontando una pena per aver ucciso una persona,
dicendogli, se lo faceva uscire di prigione gli avrebbe regalato tanti
soldi, l’avvocato studiò il da fare, e gli disse, tu troverai le porte del
carcere aperte, esci, con questa pistola vai in un bar il più vicino, uccidi una perzona qualunque e rientra di corza. Così fece, quando venne
processato fu assolto dai due omicidi perché lui risultava che era carcerato, quindi non era lui che aveva ucciso né la prima né la seconda
perzona, e l’avvocato si prese il prezioso malloppo. Accumulò tante
ricchezze derubando in tutte le maniere, facendo assalire anche le carrozze. Il figlio fece il contrario con quelle immenze ricchezze, fondò
parecchi istituti, la villa nelle vicinanze la donò per opere di bene. Lui
non avendo figli, volle riscattare il male che aveva fatto il vecchio
padre.
C’erano anche dei proprietari discreti o buoni come quelli di mio
marito quando era ragazzo, avevano molte tenute da molte parti
d’Italia, delle quali vicino alla Genna parecchi ettari erano di loro proprietà, dell’Ordine Supremo dei Cavalieri di Malta. In tanti anni una
sola volta fece visita uno dei Cavalieri a casa dell’allora fidanzato, era
l’ora di pranzo, in tavola c’erano due grossi piatti di pasta dette tonde,
il Cavaliere distinto signore con il pizzetto, disse all’amministratore,
quanto mangia questa gente! lui rispose, Cavaliere, loro hanno solo la
pasta. Poverini, disse lui, e quanto lavorano, le terre da quando sono
coltivate da loro sono molto più fertili, è brava gente e vanno rispetta71
ti. E così fu. Quindi è giusto dire, non si può fare di ogni erba un
fascio, la gente buona o cattiva c’è nel ricco e nel povero.
Ma non si dimenticano i sovrusi, le umiliazioni di chi le ha vissute quando si aveva la necessità, cioè specie quando partorivano i
suini o le vacche, il padrone dava poco tritello, farinello, o semola, per
fare il beverone a questi animali si doveva andare spesso a prendere la
farina nel sacco, forse pensava che la davamo alle galline o ai conigli
perché in questi non entrava in parte, se si voleva regalarli a qualcuno
bene se nò all’infuori degli obblighi dovuti, erano nostri. Sì le galline
ne avevamo tante, anche 70-80, un giorno ricordo raccolsi nel canestro del pollaio 44 uova, poi si portavano a vendere in piazza, al mercato coperto, per comperarci il necessario.
Ripenzando al passato com’è cambiato il mondo! Quando si volevano far nascere i pulcini, si aspettava in genere i primi mesi dell’anno,
perché le galline prima, durante specie l’estate, facevano tutti i giorni le
uova, poi qualchuna si ammalavano, gli veniva la febbre, allora in una
cesta impagliata si mettevano 21-23 uova fecondate dal gallo in precedenza, la gallina avendo la febbre, riscaldava costantemente queste uova,
scendeva solo per mangiare. Dopo 21 giorni nascevano i pulcini, quando più o meno secondo la fecondazione, alle volte ne nascevano una ventina altre volte un pò di meno, che meraviglia, quelle nidiate di pulcini
tutti gialli, e la mamma cioè la chioccia, così si chiamava, li proteggieva
sotto le ali, li sorvegliava quando si allontanavano, li chiamava con il suo
chior chior. Da grandi, stavano con le galline, e la chioccia, riprendeva a
fare le uova assieme alle figlie. Si doveva fare attenzione, non si potevano piantare queste uova nel giorno della converzione di S. Paolo se nò
venivano storpi, che accade verzo la fine quando prima e quando dopo
nel mese di gennaio, se un anno accade il giorno 25, per quell’anno il 25
di ogni mese, non si iniziava la covatura delle uova.
Ora ci sono grandi incubatrici, e queste cose primitive sono rimaste nel ricordo di noi vecchi, ed i giovani che verranno dopo rileggeranno questi scritti e ne trarranno le conclusioni, sembrano strane ma
è la verità, ognuno dei miei scritti è verità, se nò non ci sciuperei la
penna, se così non fosse.
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I sindacati fecero una legge, al colono dovettero dare il 53% cioè
non più la metà, in tanti proprietari si opponevano ma era legge, e
dovettero adeguarsi. Era un compenzo in parte delle paure, delle siccità, delle grandinate, delle malattie degli animali alle volte mortali.
Quando nel 1962 si lasciava la terra si ammalarono le 4 vacche e i
quattro vitelli di afta epizootica, una malattia infettiva che colpiva il
cuore, la bocca l’avevano piena di bolle, povere bestie, non potevano
mangiare, quando era il culmine della malattia, si doveva dare la biada
con una bottiglia, di forza, le gocce per il cuore, l’infezione ai piedi
veniva curata con il solfato di rame. Ero io che le stavo a curare, durò
40 giorni. Che pena, il veterinario veniva a fargli delle grosse punture, e diceva, se prende ai figli sarebbe mortale, allora si fanno delle
punture più costose, ma io scoprii che erano uguali a quelle delle vacche, anche lui voleva bleffare e quando glielo dissi ci rimase male. Un
giorno andai nella stalla a controllare, trovai il vitello più piccolo
accasciato in terra, io mi spaventai, di corza presi le gocce di coramina, le stesse che somministravo in piccole dosi, verzai quasi tutta la
bottiglietta in gola, la bestiolina balzò in piedi e guarì come tutte le
altre, nessuno mi ringraziò e con questo volevo dire, è sempre il mezzadro che subiva le disavventure, tanto al proprietario poco gli importava, ne aveva tante altre. Per noi era la nostra misera ricchezza. Ora
dopo tanti anni quando si ricordano queste cose mi sembra di riviverle e non si dimenticano mai.
Come non si dimentica la miseria, la povertà, ricordo quando ero
ragazza, i figli dei Pottini le lunghe sere d’inverno si radunavano a
casa mia, alle volte eravamo in tanti, con il lumino a petrolio e con l’acetilene a carburo, in quel cucinone tutto nero dal fumo si giocava a
carte, si stava in allegria, vicino a quel grosso focolare ci si scaldava
a turno, i miei amici non avevano nemmeno la legna per scaldarsi, di
giorno ognuno aveva il suo lavoro e chi quel pò di scuola. Una cosa
che ho sempre ricordato, la mamma di questi miei amici faceva il pane
come tutti, quando non c’era legna per scaldare il forno, allora lei
andava a cuocerlo in Via del Bellocchio N° 18 al forno dei miei zii
dove c’è ora il sindacato dei pensionati, portava una grossa tavola
sopra un carrettino con 12 o 14 file di pane, che doveva servire per una
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settimana, sapete prima di partire come puliva le sue uniche scarpe
nere, strofinava la spazzola contro il caldaio pieno di fuliggine che
stava sotto l’acquaio, quella era la vernicetta.
In questa grande casa colonica, con la scritta a grandi caratteri
VACCARECCIA, fin dai primi anni c’erano dalle 13-15 mucche da
latte, Svizzere marroni e Olandesi con il mantello bianco a chiazze
nere, producevano molto latte, veniva portato con il calesse e la cavalla dagli uomini di casa in città, vicino al distretto militare a S.
Agostino dove c’era una casa di accoglienza di ragazze madri. In
secondo tempo fu riciclato questo latte, ai piedi della Piaggia
Colombata, dove ora ancora c’è questa vecchia casa c’era scritto LATTERIA, ci facevano burro formaggi e ricotta, poi con il tempo tutto
svanì. Questo podere era fertile, si allevavano oltre il grano molti
foraggi, così potevano allevare mucchini, avere tanto latte, le terre
venivano arate con i buoi, almeno due paia ne tenevano finché molto
più tardi arrivarono i trattori. Io andavo spesso a fare l’erba per i miei
animali da questa famiglia, perché noi ne avevamo poco essendo le
terre più secche, invece loro le avevano fertili e annaffiate con l’acqua
di quella famosa Genna.
Dai primi anni il Sodalizio S. Martino aveva incanalato l’acqua
potabile dalle Suore del Bell’occhio, perché dove c’erano le mucche ci
doveva essere l’igiene, oltre per abbeverare questi animali, con il tempo
da questa conduttura ci fecero attaccare molte altre prese lungo la strada
di Pian della Genna, dove ci abitavano qualche famiglia, e l’acqua infine a noi ultimi ne arrivava pochissima, succedevano delle discussioni, fra
vicini. Un bel giorno si videro scavare dei profondi canali venendo giù
da Gualtarella lungo la strada di Pian della Genna, ci misero dentro dei
grossi tubi, forse negli anni 56-57, questa sorgente era a S. Sabina e così
questa acqua fu incanalata fino ai conservoni del Bucaccio, e fu una
grande risorsa per tutti e finirono le discussioni.
Questa associazione del S. Martino, avevano molte terre alla
Pietraia, Mugnano, Ponte Valleceppi, su lungo la Piaggia Colombata
c’erano gli ortolani, la chiesa con la casa padronale, ci abitava l’amministratore Giombini, un altro amministratore era Carpanoni, forze
quello abitava a Mugnano. Questa associazione aiutava molto la gente
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povera, quando ero piccola sentivo sempre dire, quelli hanno il libretto del S. Martino. In via Marzia c’era un ambulatorio dove ci facevano il vaiolo, negli anni 52 o 53 ci portai pure mia figlia Annamaria,
ricordo che ebbe paura, la dovetti rincorrere, giù per la discesa.
Questa sorgente dice la leggenda, S. Sabina un anno di siccità
con la spada trafisse una roccia, dalla quale sgorgò tanta acqua, fu un
miracolo di tanti e tanti anni fà. La zia racconta, ricorda negli anni
1940, inaugurarono su per il Bucaccio un nuovo conservone, un noto
giornalista di quell’epoca, per essersi spinto troppo avanti, osservando la struttura, cadde dentro, morì tragicamente, sua moglie era insegnante della prima elementare, si chiamava Guazzeroni.
Gli anni passavano, da sempre avevo desiderato un’altra figlia,
avendo sofferto di essere figlia unica, così dopo 5 anni e mezzo arrivò
Argentina con le figlie e una cugina sotto l’olmo, estate 1955. Foto scattata in occasione
del battesimo di Fabiana
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la seconda, nessuno mi aveva risparmiato le fatiche, quando arrivò il
momento, mio marito era andato a trebbiare da Marchetti, mi disse,
quando è l’ora metti un lenzuolo alla finestra, io tornerò. Con me c’era
la mamma, e mia cognata Lina, suo figlio Franco che avrà avuto circa
13 anni, a lui era affidato il compito di andare a chiamare l’ostetrica
correndo in bicicletta, andò a dire che doveva arrivare presto, non fece
in tempo a mettere le ginocchia sopra il letto che la figlia era già uscita, bella grassa, 4,200 kg., era il 10 luglio 1955, 8 giorni prima della
trebbiatura.
In un giornale, Grandhotel, leggevo in quel periodo la storia di
una principessa che si chiamava Fabiana, mi piacque e decidemmo di
chiamarla così. Quando mio marito, pochi giorni dopo, andò a
segnarla in comune si dimenticò della seconda parte del nome, disse
Fabia. Il giorno della trebbiatura, il vento del lago portava la polvere
dentro casa, ci si asfissiava dal caldo e dalla polvere, e in cucina c’era
tanto fuoco per cucinare le carni d’oca, quella per il sugo, il brodo,
l’arrosto quello si portava a cuocere al forno della nonna Maria. La
trebbiatura era lunga e ci voleva pranzo e cena, e quella volta io ebbi
la febbre alta perché si diceva che era la scesa del latte, fu un giorno
terribile che non scorderò mai. Ritornando indietro, quando all’ottavo mese di gravidanza, cioè giugno, si mieteva, io stavo a casa, a fare
mille faccende, dare da mangiare e pulire a tutti, agli animali da cortile, alle vacche, dovevo fare la colazione, il pranzo, la cena, a tutti
coloro che stavano nei campi, mio marito mi chiamò e da lontano
disse, siamo in 15, loro stavano a mietere dietro il palazzo che non
c’è più, ed io dovevo fare tutta la salita con la canestra in testa, piena
di piatti, con il mangiare, un grosso piatto di insalata, un altro con il
coniglio all’arrabbiata e in mano una sporta con dei bottiglioni di
vino, il pane, le stoviglie.
Arrivai, apparecchiai per terra come si usava, ma ahimè, non
erano 15, ma 25, con quella grossa pancia tornai a casa, a prendere il
prosciutto, più pane e vino, tornai su di fretta, mi misi in ginocchio
sopra una gregna e lì fettai e fettai quanto ne vollero. Ed io fui contenta che tutti si saziarono.
Ora quando vedo o sento dire di una donna incinta, mi viene da
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ridere, loro fanno ginnastica, si preparano bene, hanno mille accorgimenti ma spesso hanno difficoltà. Penso, per me sarà stato il lavoro a
fare presto e bene, o forse qualche santo mi aiutò? Fabiana cresceva
bene, i mesi passavano, ne avrà avuti 8-9 quando si ammalò, la
mamma e una vicina dicevano, avrà mangiato troppo, ma lei respirava male, io insistetti finché mio marito andò a chiamare un medico, il
telefono c’era però nell’atrio della stazione, cercò diversi dottori, ma
quando sentivano dove si abitava, poiché c’era tanto fango, allora
prendevano delle scuse. Poi alla fine fece pena ad un certo dott. Rossi
e venne verso mezzanotte. Lei poverina aveva una brutta polmonite, e
non sarebbe arrivata alla mattina, mio padre partì subito con la lambretta a prendere la penicellina alla farmacia S. Martino, lui stesso le
fece la puntura e la salvammo.
I giorni scorrevano uno dopo l’altro ed io dovevo sempre fare
tante cose, la figlia più grande doveva guardare alla sorellina, alle
volte succedeva che la lasciava sola, in compagnia delle oche, per
scappare dalla famiglia vicina. Io correvo a fare il bucato, a fare il
pane, portarlo a cuocere al forno, ecc..., e in cuore mio benedivo quando pioveva così potevo stare in casa con le bambine, cucire i vestiti, le
camicie, si faceva tutto da noi. Mi dava pensiero quando arrivava l’estate, quell’anno non stavo bene, avevo male allo stomaco, il dottore
disse, non era niente di grave, però per tutta l’estate ero debole, mangiavo pochissimo e sempre nei campi a lavorare, a settembre tornai
dal medico, questa volta mi visitò le spalle e disse che avevo avuto la
pleurite. Mi ero guarita senza medicine.
Un giorno mia figlia Annamaria 7 anni era dovuta andare con il
padre a aiutare a guidare le vacche alla strappa proprio qui vicino, scovarono un fago di vespe, andarono a pizzicare mio marito che stava
guidando il carrettino, lo punsero così tanto, per la vita, essendo a
dorso nudo, la testa gli era diventata come un pallone, per fortuna non
punsero le bestie. Loro si spaventarono, staccarono le vacche e tornarono a casa e nostra figlia non andò più a lavorare la terra con il padre.
Pensavo sempre come si poteva fare per lavorare di meno,
senza il sole che mi scottava sempre più. Così verso il 1958 si com77
prò la terra al Bell’occhio per fare la casa, in quel periodo la zia
Vienna e la zia Agnese lasciavano il forno e il negozio, e si prendeva noi. Avevamo fatto le fondamenta, quando il mio babbo,
messo su da vicini cattivi, volle vendere tutto. Così andò in fumo
il nostro progetto con tanta delusione. Mio padre e mio marito divisero i soldi del ricavato.
Quando penzavano in comune di fare la zona industriale nei
primi tempi non si sapeva, se la facevano qui o alle Settevalli, poi per
fortuna andò così. Allora mio marito comperò un piccolo appezzamento dal Signor Umberto, che pagò 500.000 lire circa 1000 lire il
metro, ma ancora le voci erano vaghe, riguardo alla zona industriale,
ed il padrone diceva a mio marito, se non la lottizza il comune, ci pianterai i cavoli. Passa un pò di tempo non ricordo bene un paio d’anni,
torna il Sig. Umberto di buon’ora e disse a mio marito, senti stanotte
ho penzato di ridarti i soldi, forze tu avevi solo quelli è giusto che ti li
restituisca, invece lui sapeva già, mio marito ci arrivò subito, gli rispose, no no non li rivoglio, non vi preoccupate, di già lui si era bene
informato che la zona industriale la avrebbero fatta alle Sette Valli. Poi
quella la rivendemmo, ci guadagnammo 800.000 lire, di quei tempi
erano tanti. Il mio papà aveva prestato mezzo milione al fratello del
Sig. Umberto, quello decise di dargli invece dei soldi questo appezzamento, dove nel 1960 ci costruimmo la casa dove abitiamo, i guadagni dell’altra terra ci servirono per il muratore, i soldi ce ne erano
pochi, dovemmo prendere un mutuo di 2.500.000 lire che durò dieci
anni agli interessi del 9,50 %. Puntualmente fu restituito. Come penzo
che buona parte della gente fece come noi. Queste perzone venivano
da Mugnano Bagnaia Mantignana, da Pila, da vicino alla stazione, da
Piscille e dai dintorni. Fu fatto in piccoli lotti e piano piano venne lottizzato tutto quello che ci sono le abitazioni, il resto venne espropriato dal comune.
Il papà non si decideva mai di iniziare a costruire, lui stava bene
laggiù nella vecchia casa. Io guardavo, osservavo e sapevo, una sera
gli domandai il perché ancora? lui disse di stare zitta, quando sarebbe
stato tutto pronto avrebbe aiutato a fare la casa, così fu. Finalmente si
stavano realizzando i miei sogni.
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Al’ora me dice l’marito è fin de scrive?
l’è arcontete tutte ste storie?
n’accidente a me quanto tò sbrontleto!
Ma sì in fin di conti è fatto bene
Acussì quilli che vengon dietro l’capiranno,
Che non erme tanto tonti,
ma era l’padrone che voleva fà freghè chi conti.
Poretti a qui contadin più vecchi,
li avrian voluti vedé a murì de feme.
Nu gli facevno alzè ‘n deto
evan da cavè l’cappello
e dì signor padrone bene arriveto.
Anche con me cian proveto
ma sicuro che col mio n’paradiso nun c’è riveto.
Eh! la fritteta sè arvolteta
e la ghigna a certi padroni, gliè passeta!
È m’peccheto che m’sò n’vecchieto tanto
arpensaccie n’pò,
avria da esse steto più maligno de quel che sò.
Così lasciammo la terra.
[Dal podere alla città]
Certamente se la gente che lavorava la terra avesse avuto le
attrezzature di oggi saremmo rimasti in molti a fare quel lavoro, infine era sano all’aperto immezzo alla natura ed era una vita sana, forze
meglio a tante fabbriche, ma i soldi erano pochi ed i lavori tanti e
pesanti e rischiosi o grandinate, siccità.
Noi lasciammo la terra nel 1962, pochi anni prima non facevano i libretti di lavoro, e che si andava a fare? Poi ci penzarono
i sindacati ad aiutare i lavoratori, e in tanti ce ne andammo magari a fare il muratore, la golf, in parecchi chi ebbe più fortuna nelle
fabbriche.
Nel 1962 si venne ad abitare dove siamo ora, gli uomini facevano
da muratore, siccome la mamma era malata di cuore e faceva poche cose,
quindi io non potevo lavorare tutto il giorno fuori, c’era da fare in casa,
mi sarebbe piaciuto andare in fabbrica o a fare l’infermiera, ma poiché
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avevo ancora le figlie adolescenti, mi dovetti accontentare di fare mezza
giornata e andai qui vicino a casa dai Landi. Avevano due gemelle, la
casa grande, il lavoro era tanto, però ero soddisfatta, perché il sole non
mi picchiava più sulle spalle, tutto mi sembrava bello, mi volevano bene,
le bambine, che in principio avevano 4 mesi, mi chiamavano mamma, ci
stetti 3 anni, poi in quel periodo morì mia madre lasciandomi il peso sulle
spalle e io non potei restare fino sera come loro volevano e venni via.
Ancora oggi, dopo tanti anni, ogni tanto mi telefonano, abbiamo voglia
di vederti, io dico, venite pure, siamo felici, la casa è grande, se ne sono
andati tutti! e pure noi vi aspettiamo con tanto piacere.
Otto mesi prima della mamma morì anche la nonna Maria e mi
dispiacque immensamente. Lo zio Bruno e la zia Vienna, con il figlio
Lando, la nuora Mafalda e i nipoti, rimasero lì qualche anno, poi andarono ad abitare in Prepo.
Via del Bell’occhio n° 1 8
dedicato a Mafalda (2 settembre 1996)
Quella casa che negli anni 20 edificata fù pure quella
dalla quale, nel lontano 1926, mia madre se ne andò sposa.
Per tanti anni ci fù pure il forno
e era l’unico del dintorno.
Allo zio Bruno che faceva il falegname,
oltre gli anni 50 gli affari gli andarono male.
Al posto della falegnameria che nell’orto aveva fatto costruire
ci dovette fare e vendere
degli appartamenti, e lì parecchie famiglie andarono a finire.
Lui si ritirò a lavorare lì vicino, in quei capanni,
e lì fece tanti lavori per parecchi anni.
In quell’orto dove nonna Maria e nonno Amedeo e i loro quattro figli,
avevano fatto quella casa con tanti travagli.
Per non farsi vedere dal padrone,
di notte trasportarono i sassi con i buoi dal Toppone,
per fare la casa al Bell’occhio, fino alla stazione.
Poi il figlio del zio Bruno e di Vienna, Lando si sposò
arrivò Mafalda assieme a suo marito, piano piano, tutto sistemò.
Lei svelta intelligente, dal notaio aveva bene imparato
ed il grosso pasticcio con il tempo aveva disgregato.
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Quella casa fù rimessa un pò al nuovo e lì per anni crebbero i loro figli,
ancor più tardi fù venduta agli imprenditori, che gli dettero buoni consigli.
Per me la casetta di nonna Maria
fu la seconda della vita mia.
Ci passavo giorni interi con le zie cugini e nonna
a imparare i lavori che doveva fare la donna.
Quando un giorno passavo per il sottopassaggio della stazione la trovai scaricata,
fu per me come una mazzata.
Certamente sapevo ma ugualmente ci rimasi male,
perché c’erano anche lì i ricordi belli e brutti in quel casale.
Ora Mafalda e Lando colla zia e loro figli,
abitano su nella villetta di via Saturnia in quell’altura.
Io gli auguro vita più serena e duratura.
Del Bell’occhio con i giorni più belli e più brutti ormai passati,
Con il tempo saranno dimenticati.
Dove dei Lena c’era la famiglia
è sorto un gran palazzo che è una meraviglia.
I miei cugini sono bravi e schietti e di gran talento
Avrebbero meritato certamente un monumento.
Sono buoni e di grande devozione
io gli auguro di cuore, che colla fede risolvino qualunque situazione.
La nonna Censini Maria morì nel 1964 e i suoi quattro figli
Gettulio morì a 42 anni la mamma Adalgisa a 59 anni. Lo zio Bruno a
81 anni lo zio Raffaele ne aveva 92. Lui fu per tanti anni maresciallo
dei carabinieri a Castelgiorgio.
Ah! dimenticavo, nel 1950 si ricordò di noi mio cugino Mario, il
figlio della zia Virginia morta a Nizza, arrivò con la moglie, da allora vengono tutti gli anni. La prima volta che tornarono fecero appena in tempo
per vedere il nonno. Da ragazzo, per via delle matrigne, era andato via di
casa a fare il garzone nelle campagne intorno a Nizza, più tardi il garzone di fornaio, pian piano aveva aperto un forno, poi 3 sempre nei dintorni di Nizza. Ci sentiamo una famiglia, stiamo tutti insieme con tanto piacere e poi con le lacrime agli occhi ripartono. Spesso ci telefoniamo, ci
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domandiamo della nostra salute poiché il tempo corre veloce, arriveranno
i cinquanta anni di matrimonio, sperando di arrivarci in discreta salute
tutti quattro, e fra due anni si farà una bella festa. Io sono stata quattro
volte da loro, mi hanno portato in tanti bei posti, nella Costa Azzurra, per
le città di Nizza, S. Tropez e Vallauris, nella Valle del Boreon, ecc... Poi
sono andati ad abitare in Provenza vicino Avignone, dove anche lì abbiamo visto cose bellissime, il palazzo dei Papi, il Rodano, che si distende
lungo e maestoso, osservando da una altura è immenso, si vede snodandosi per tanti chilometri, fino Marsiglia, la città tutta bianca.
I miei cugini abitano a Caumont, a 10 km. da Avignone, in una bella
villetta, assieme al figlio Michele, e ai suoi tre figli. Hanno venduto i
forni e hanno aperto un bel ristorante con le camere. L’ultima volta, 5
anni fa, ci siamo stati io e mio marito, con il treno che non si arrivava
mai, il ritorno ancora peggio, 18 ore, ma si arrivò, contenti e stanchi.
Ritornando al 1965, quando la mia mamma ci lasciò, il papà
disse, pensate tutto voi, io lavoro e vi dò i soldi, oppure devo stare da
solo? fai come vuoi tu, fu la mia risposta, ma lui preferì stare come
sempre assieme a noi, per altri 23 anni sereno e tranquillo fino quel
brutto giorno che dirò più avanti.
Gli anni passavano e noi poco alla volta si pagava la casa, però
pensavo, perché mio marito deve sempre stare con i muratori? Una
nostra parente essendo stata incaricata da mio marito ci avvisò che un
ingegnere della Perugina cercava l’aiuto per sua moglie, andai in portineria, cercai del Sig. Zurcher, mi accompagnarono nel suo ufficio e
aspettai, c’erano pure altri impiegati, si alzò un signore biondo, alto,
gentilmente si scusò per avermi fatto aspettare, mi disse, è lei la signora che vuole aiutare mia moglie? dissi sì, allora è meglio che parlate
fra voi, mi dette l’indirizzo e andai in Via Antinori, era di maggio. Mi
aprì una signora della mia età circa, era gentile, cordiale, con un forte
accento straniero, e mi informò che loro in quel periodo tornavano in
Svizzera, per poi tornare a ottobre per l’apertura delle scuole. Così fu,
andai da loro mezza giornata tutti i giorni, loro avevano tre figli,
Giammarco, Nicoletta, Pierivo, mi trovai subito bene, mi trattavano
come una di famiglia, eravamo come due sorelle, lei tutte le mattine
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per 4 anni mi portava il giornale del giorno avanti e mi diceva, quando fa colazione deve stare seduta mezz’ora e leggere.
I figli andavano a scuola, suo marito viaggiava molto in America,
Inghilterra, in Germania; era molto colto, parlava molte lingue. A casa
c’era pochissimo, allora la signora diceva, i miei parlano bene l’italiano,
io sono la più somara, si parlava del più del meno, quando io sbaglio me
lo dica. Un giorno andò in terrazza dai suoi fiori, mi disse, signora, nei
fiori ci sono i pulcini, no signora, i pulcini fanno pio pio, sono pulcioni,
un’altra volta mi disse, signora, oggi ha i bruciatori nello stomaco? no
signora, i bruciatori mandano i riscaldamenti, sono i bruciori, e lei, sono
una somara, non imparerò mai l’italiano. Invece lo parlava abbastanza
bene, era buona, rispettosa e gentile, io pulivo la casa che era tanto grande e lei faceva la spesa, il pranzo e tutto il resto.
Io volevo cambiare, ero io che avevo quel chiodo fisso, a mio
marito non l’interessava tanto. Un giorno, qualche anno prima, sapendo che una figlia dei vecchi padroni conosceva il vice presidente delle
Ferrovie dello Stato, io e mio marito ci andammo là, dove io avevo
abitato solo 3 anni, parlai con lei, lo disse a lui, quando chiesero gli
anni che aveva, cioè 36, per un anno era troppo tardi, altrimenti ci
avrebbe pensato, fu un fiasco, con grande rammarico. Poi seppi che il
Sig. Zurcher era Direttore Generale dell’Esportazione della Perugina.
Una mattina dissi, signora, ho saputo che suo marito è una persona
importante, potrebbe mettere un giorno il mio a lavorare alla
Perugina? ne sarei felice, e lei il giorno dopo mi disse che quando gli
capitava l’occasione ci avrebbe pensato, certamente non subito, entrò
dopo 2 anni e ci lavorò per 17 anni.
Eravamo diventati molto amici, spesso venivano con i loro figli a
pranzo da noi, gli piaceva mangiare la nostra cucina, e si chiacchierava
per delle ore, si stava bene assieme. Dopo quattro anni una mattina mi
dissero che loro se ne sarebbero tornati nella loro casa a Morges, con
mio grande dispiacere ritornai piangendo. Partirono il mese di luglio
1970, il figlio più grande restò parecchi giorni per gli esami, io gli lavavo i panni, qualche volta veniva a mangiare. Poi suo padre lo venne a
prendere, proprio quei giorni ero all’ospedale. Fui ricoverata d’urgenza
di peritonite, loro mi portarono una sveglia svizzera e poi ripartirono.
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Da circa un anno mi curavano per l’ulcera, ma una sera di luglio
mi presero tanti dolori, fui ricoverata e operata subito, ero agli estremi, pensavo alla famiglia, come faranno senza di me? il babbo aveva
avuto un incidente pochi giorni prima. Io stavo male, Fabiana aveva
15 anni e Anna si doveva sposare in ottobre, stavo male, molto male,
mi portarono in sala operatoria, ma i miei occhi erano fissi sulla porta
perché aspettavo mia cognata Lina, le volevo dire che mio marito si
doveva risposare, ma Lina non la vidi prima, c’era dopo di notte
accanto al letto assieme a mio marito. Ma dopo sei mesi ero nelle stesse condizioni, feci 44 giorni di ospedale, fu una cosa incredibile. Dopo
un anno fui operata un’altra volta di ernia postoperatoria, così in 21
mesi feci 3 operazioni.
Ritorno all’incidente di mio padre, lui tutti gli anni, circa 40, era
sempre andato con un tale, proprietario di una trebbiatrice, quell’anno
io non volevo che ci andasse perché mangiava poco, beveva qualche
buon bicchiere, però quello venne a casa per convincermi, ci bisticciai, lui disse che le donne volevano sempre chiacchierare troppo,
bene, io dissi, se la vedremo, io avevo come un presentimento che
doveva accadere qualche cosa, era di giovedì. Lunedì mattina il papà
si alza presto e se ne va, alle 10 ci vengono a chiamare dicendo che
aveva avuto un incidente, era caduto dalla trebbiatrice, corremmo su
all’ospedale, era in coma, tutto pieno di sangue, non si vedevano gli
occhi, le dita di una mano rotte, gli rimasero rigide e piegate per sempre. In clinica qualcuno disse, vogliono una persona di casa alla polizia, io andai, raccontai l’accaduto, quell’uomo seduto davanti a me
disse, si rende conto con chi sta parlando, non mi importa, questa è la
verità. Quello aveva detto che lo aveva trovato ferito per strada, non
voleva impicci, ma seppi che dovette correre perché non l’aveva assicurato. Ma che bella riconoscenza dopo 40 anni di averlo servito onestamente. È proprio vero come dice il proverbio, il bene del padrone è
come il vino del fiasco, la sera è buono e la mattina è guasto.
Il papà si rimise discretamente, questo era successo in luglio
pochi giorni prima della peritonite, poi tutta la tragedia mia. Anna
dovette pensare a tutto da sola per le nozze, poiché anche d’agosto fui
ricoverata per una polmonite, solo il quinto giorno mi mandarono a
84
prendere con l’autoambulanza per la radiologia, il radiologo mi
domandò, chi ti ha mandato in queste condizioni! Avevo avuto la polmonite non curata ed era già pleurite.
Così arrivò l’11 ottobre, giorno delle nozze, uscii di casa per la
prima volta dopo 3 mesi quando si sposò mia figlia, fu una bella cerimonia, dopo qualche mese nacque Michele, il primo nepote, ero
nonna a 42 anni. Abitarono tutti vicino a me. La sorella Laura nacque
nel 1976, ora è una bella ragazza, birichina e spiritosa come è la gioventù moderna.
[Viaggi e ritorni]
Il tempo passava, tutto era tranquillo. Ed era ora di pensare di
fare qualche viaggio, come sempre aveva voluto il mio pensiero.
Siccome ricorrevano i 25 anni anni di matrimonio, si pensò di telefonare ai Zurcher dicendogli, se avevano piacere di vederci si andava là,
così partimmo. Ci trattenemmo tre giorni nella loro villa di fronte al
lago di Ginevra, fummo accolti con tanta gentilezza, visitammo
Losanna, e il terzo giorno si partiva per Nizza per andare dal cugino,
la sera avanti il dott. Fredric ci disse, vi ho comprato il biglietto per
l’aereo, rimanemmo stupiti. Alla mattina dopo ci accompagnarono
all’aeroporto di Ginevra marito e moglie, ci salutammo e l’aereo si
alzò in volo con mia grande gioia, io ero entusiasta, ed allora dicevo a
mio marito, guarda giù quante casine piccole piccole, guarda, quel bel
fiume che scorre lungo la distesa del Monte Bianco, è una meraviglia
quassù, e lui, no, no, non mi far guardare, ho paura di essere così alto,
mentre l’aereo si avvicinava al mare era nero, calava giù a picco,
essendo l’aeroporto nella riva, io dicevo, se casca laggiù addio
Perugia. Insomma mi divertii un mondo.
La salute era discreta, allora dicevo a mio marito, vieni anche tu,
no, va pure, a me non importa, e io andavo. Con i parenti di qua di là,
le gite di un giorno, di 3 giorni, io andavo con tanta gioia, sono stata
in parecchie città, tante volte a Roma Firenze Napoli Venezia Pompei,
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2 volte in Svizzera, 4 in Francia. Sì i miei viaggi furono, in oltre alle
meraviglie, pur sempre belle, anche nei posti religiosi, a S. Gabriele,
da P. Pio, Cascia, Pescina ci andai tre volte.
La seconda volta, dopo avere ascoltato la messa a S. Giovanni in
Laterano, partimmo per Pescina dove nella chiesa c’è la tomba marmorea di Santina Campana, noi eravamo 45 persone nel pulman, ad un
certo momento si fermò e salì un Prete fratello di Santina, entrò con
noi nel piccolo paesino di montagna, tutto era deserto, non si vide
anima viva, andammo a pregare attorno alla tomba di Santina dei
miracoli. In chiesa si sentivano delle voci sempre più forti, si pensava
fosse qualche maleducato, invece si avvicinarono le donne e gli uomini, presero per il petto Don Bruno coprendolo di insulti, strillando che
doveva andarsene, qualcuno ci disse di uscire e andare vicino al pulman in silenzio. Nel mentre che si stava uscendo, arrivarono i
Carabinieri armati fino ai denti, scacciarono il prete, e quelle che le
avevano fatto scudo con il corpo, una signora di Salerno stava pregando, era talmente assorta e non aveva capito niente, si sentì afferrare un braccio, e lei dette un calcio al Maresciallo, fu arrestata, la poca
gente rimasta dentro fu cacciata e chiusa la chiesa. Noi eravamo silenziosi vicino al pulman, stavamo osservando, la piazza era gremita di
gente, qualche donna ci veniva a gesticolare dicendo, perché avete
portato lui, non deve venire più, e ci dicevano delle storie, noi non si
fiatava, nella gradinata succedeva un finimondo, chi strillava, chi
piangeva, chi era trascinato dai Carabinieri, poi finirono in caserma, la
signora di Salerno la trattennero 3 giorni, nel giro di un’ora si riprese
la strada di casa con tanto spavento, e rimpianto.
Nel pulman raccontava la gente che sapeva, lui il Prete anni
indietro era assieme ad un altro, erano in quella parrocchia, uno doveva con il ricavato delle offerte risanare la chiesa, e l’altro santificare la
sorella, nessuno dei due riuscì a fare niente. Allora il Prefetto di
Avezzano li aveva diferiti con l’ordine di non mettere più piede. Il
giorno dopo su un giornale diceva di quella piazza gremita, loro erano
armati di ascie e di roncole o altro, se prendevamo le difese del prete,
ci avrebbero massacrati, non scherzavano, alle schermaglie delle persone noi si diceva, noi non sappiamo niente, ma c’era qualcuno, sape86
va tutto e aveva fatto rischiare la vita a tutti noi, la resconsabile, al
ritorno era svenuta, sapeva bene e ne aveva il rimorso.
Poi ci tornai gli anni successivi a Pescina, a Alfedena nella casa
natia della neo Santa, ma nessuno disse niente, Don Bruno non
venne più. Ad Alfedena ci voleva costruire la chiesa per poi trasportarci la tomba della sorella, ora non so come è andata a finire.
Si arrivò al 1980, si sposò Fabiana con molti invitati, i parenti dalla
Francia, da Roma, da Orvieto. Vennero gli Zurcher, portarono un orologio d’oro alla sposa, siccome dopo la Perugina era andato con la Tissot a
Parigi, per parecchi anni. Io ero felice benché la giornata era calda e
afosa, avevo attorno amici e parenti, eravamo in 200, fu una grande festa.
Dopo tre anni nacque Tessa, loro abitavano a S. Sisto, la bimba
mia figlia prima del lavoro, la portava da noi. Mio padre voleva molto
bene alle mie figlie, Anna ha abitato sempre vicino a noi, quando si
sposò non sentiva la mancanza, però gli dispiaceva che Fabiana abitava laggiù e tutti i giorni doveva fare questo tragitto. Diceva, non
morirò contento finchè non le ho trovato casa quassù da noi, difatti fu
lui a cercarla, così vennero a abitare dove sono ora, era soddisfatto e
sereno in mezzo a tutti noi, nepoti e pronipoti.
Nel 1987 un brutto giorno di maggio poverino fu colpito da un
ictus, restò immobile senza parlare per 18 mesi, in principio non volevo accettare la situazione, poi quando lo riportarono a casa, dovetti
rimboccare le maniche e fare quello che si doveva, assieme a mio marito e agli altri con tanto amore e sofferenze, quando morì, io non piansi
tanto perché avevamo fatto con cura il nostro dovere, aveva 84 anni, ci
dispiacque tanto a tutti, io mi sentii allora d’un tratto più vecchia.
Un po’ dopo telefonai ai Sig. Zurcher, per informarli della morte
di mio padre, mi rispose la signora dicendo che avevano avuto una
grande disgrazia, avevano perduto il figlio Giammarco e i due nipotini. Immaginiamo la disperazione di quella gente, che certamente non
meritava tutto ciò.
Quattro anni fa vennero come sempre i miei cugini dalla Francia,
e dissero che tornando si sarebbero fermati a Ginevra, allora io pensai
87
di andare con loro, e mi accompagnarono fino alla loro villa, quanto
furono tutti felici di vedermi! Passammo 3 giorni, ricordando il passato, io ricordavo alla signora, si ricorda dei pulcini dei suoi fiori, e quelli sì erano bei tempi, raccontava di suo figlio come se fosse in vita.
Anche loro sono rimasti soli come noi, è la storia che tocca ad una
buona parte della gente. Mentre ero da loro mi domandavano mille
cose, della famiglia, della vita, della città, come è cambiata, e dicendo
che hanno desiderio di venire, ma c’è sempre qualcosa che li trattiene.
Se non ci saranno altri guai pensano di venire a Perugia prima di
invecchiarsi di più. Poiché il tempo passa inesorabile, e la voglia di
viaggiare si fa sempre di meno.
La mia storia è qui finita,
essendo quasi al termine della mia vita.
Viaggiassero pure i miei figli,
certo da me non vogliono più consigli.
Girassero in lungo e in largo tutto il mondo,
io aspetterò con ansia, un ricordo al lor ritorno.
Michele tornando da lontano
mi ha portato un regalo australiano.
Dipinti in un quadretto
c’è l’Australia, lo scoiattolo e un canguro con il figlioletto.
La mia salute è precaria e malandata,
una parola in più è come una bastonata.
Questo diario è semplice ma vero, così l’ho scritto.
Se non volete leggerlo non ne ho alcun diritto.
Stretto stretto tra due case, c’è ancor quell’alto pino
dove il papà tagliava l’albero per Gesù bambino.
A testimoniar di quella vecchia data
c’è ancor qualche cipresso alto, dov’era la mia casa.
E del vocabolo Palla, d’allor non se ne parlò più
ma c’è ancor la Madonnina che fa la guardia da laggiù.
La mia è una storia come tante altre, molte certamente saranno
più brutte o più belle, ma se nessuno, o pochi scrivono, i nostri discen88
denti non sapranno mai il nostro passato. Io vorrei che qualcuno leggesse il mio scritto e dicesse, oh! quanto siamo fortunati noi!
50 anni (4 ottobre 1998)
Eccoci arrivati del nostro matrimonio a 50 anni,
pieni di gioie di dolori e di malanni,
ma tutto sommato quel che è stato è stato
con l’altalena della vita non così male è andato.
50 primavere le abbiamo passate insieme,
50 estati arroventate al solleone,
i nostri 20 anni più belli della vita
li abbiamo passati nei campi con gran fatica.
Mio marito Secondo, ma è stato in tutto sempre il primo,
correva da un lavoro all’altro senza tregua,
lui, bello robusto e grassoncello,
io lo dovevo seguire alla stessa stregua,
ma ero alta, esile e magra come un fuscello.
Falciare, mietere, zappare e accudire,
tutti i giorni gli animali nella stalla e nel cortile.
L’autunno era più bello, il sole non scottava
le grandi fatiche dei campi eran passate
e un po’ meno si lavorava.
Gli inverni meno pesanti, me ne stavo più in casa a cucire
vestiti per me per le figlie e per tutti quanti,
quando pioveva l’acqua veniva giù dal tetto sopra il letto
e se la neve ne faceva tanta
entrava in cucina, sopra il tavolo e la panca.
L’inverno era come riposare,
dalla zia Vienna andavo a cucire per imparare
e c’eran pure l’altra zia, tre cugine e la nonna
per me andare lì era come una manna,
ho dei bei ricordi del numero 18 di quella via del Belocchio
perché per me è stata la seconda casa mia.
Quando l’hanno demolita mi son sentita come smontata.
Del numero 814 S. Faustino ho dei brutti e bei ricordi,
i nonni e lo zio a soli 33 anni, tutti lì son morti,
ma ci nacquero le nostre figlie Annamaria e Fabiana
89
per noi eran la gioia di tutti i giorni della settimana.
Il sole sempre di più scottava,
io facevo di tutto per andare via dai campi,
dicevo in qualche modo si andrà avanti.
Nell’anno 62 con gioia e sacrificio si fece questa casa,
ma perlomeno la fatica dei campi era passata,
quando Secondo lavorava alla Perugina
era felice e contento più di prima,
per me i lavori in casa erano una cuccagna
altro che quando il sole bruciava in campagna,
così lasciammo quella terra con papà Luigi, il muratore,
e mamma Adalgisa che visse qui solo tre anni poverina,
si ammalò il giovedì e morì la domenica mattina.
Il papà visse tranquillo con noi altri 23 anni
fino agli ultimi giorni della sua vita,
io e mio marito con tanto amore l’abbiamo accudito.
Poi le nostre figlie si son sposate,
in questa casa ormai troppo grande
siamo rimasti solo in due, a che fare?
ad aspettare le quattro stagioni che corron veloci
e con tanta nostalgia a ricordare…
Ti ricordi dice lui sei anni fidanzati
il babbo e i fratelli per venir da te ho lasciati
per abitare in quel vecchio casolare.
Io gli anni ne avevo 20 lui 24, era il 4 Ottobre del 48
chi lo sa dei due chi ha vinto un terno al lotto?
lui dice io portai da casa mia un bel gruzzoletto
e tu presto lo volevi spazzar via,
pure in viaggio volesti andare,
se no in chiesa da solo rischiavo di restare.
Entrammo in chiesa di S. Faustino con il dolce suono del violino,
cantava l’Ave Maria di Schubert Lucacci Giuseppino,
con i taxi volemmo andare per non far tutti camminare,
ventimila lire dovemmo pagare,
ma dalle mance non rimase un soldo, solo un vago ricordo.
Il pranzo succulento nell’aia sotto il tendone
con tutti gli invitati eravam 70 persone,
c’era pure l’organetto e tutti fecero un balletto,
ma la sposa non lo sapeva fare e rimase lì a guardare.
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Finita la festa con emozione
partimmo con due valige per la stazione
eravam felici e stanchi da morire
e a Foligno ci fermammo a dormire.
Cosa successe quella notte non lo ricordo
son passati 50 anni è normale che lo scordo!
A Napoli andammo, oh! che bello il mare
la città una meraviglia, via Caracciolo, Sorrento e Castellamare
era la prima volta che tutto ciò potemmo ammirare.
A Pomigliano in casa Auriemma fummo ospitati con piacere
e Santino ci portava tanti posti a farci vedere,
lui dall’esercito aveva disertato
e per un anno in casa mia nel 44 s’era rifugiato
e così il suo papà volle ricambiare l’ospitalità.
Dopo una settimana si tornò nei campi a lavorare
ancora per parecchi anni, quanto c’era da fare!
Ti ricordi, dice lui quando in bicicletta
con il sassofono ed il clarino a suonar or lontano or vicino,
sì qualche volta mi portava ma se qualcuno gli sembrava
che stringeva troppo a suonare si sbagliava,
allora la volta dopo a casa dovevo restare
e con rammarico e rimpianto non ho imparato più a ballare.
Per i 25 anni di matrimonio si fece un bel viaggio per festeggiare
in Svizzera dagli amici, in Francia dai parenti, che bello ricordare!
Da Ginevra a Nizza con l’aereo si andò
ma lui dal finestrino non guardò,
io gli dicevo guarda laggiù che bello,
le Alpi candide innevate, il Rodano azzurro serpeggiante
le case piccoline, le strade bianche a striscioline,
son meraviglie da vedere, a lui non importava
io invece provavo molto piacere.
Ma poi tutto sommato anche lui non l’ha dimenticato,
i viaggi non li vuol più fare, sta molto in casa a ricordare,
a me ha lasciato viaggiare
in Svizzera in Italia in Francia in Marocco con baldanza,
in tutti i posti son stata con grande piacere,
ed io ringrazio lui per tutto quello che ho potuto vedere.
Secondo è un buon marito, un gran lavoratore,
pensa molto al desinare, fa la spesa con piacere,
gratta il formaggio e pela l’aglio,
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guarda sempre se è sgombro l’acquaio,
sta nell’orto a zappettare per lui è il miglior tempo da passare,
è molto premuroso pensa molto alla famiglia,
corre corre sempre piglia, porta a casa questo e quello
ma qualcosa se ne è scordato e non l’ha più pensato.
Io faccio il contrario,
nei mestieri della donna lo stretto necessario,
vado molto a camminare, parlo molto
e ho un gran da fare nello scrivere e nel pensare,
nel mio cuore son contenta e mi tengo la mente sveglia.
Se tardo un quarto d’ora, lui brontola per un’ora
per tener la pace lieta, io sto zitta e lui si cheta.
Ora il clarino ed il sassofono sono in soffitta impolverati
e lui non vuol suonar più,
questi sono i ricordi d’adesso e della nostra gioventù.
Per questi famosi 50 anni
abbiamo fatto in casa nostra una bella festa,
con amici e parenti per ricordare in allegria
la nostra vita semplice e onesta.
Così è stata la nostra storia
per chi ne vuol fare buona memoria;
chiediamo a Dio di finire gli anni
in pace, sereni e con pochi malanni.
92
[2002]
E la vita continuò con i miei ricordi del passato, le vicende del
presente, non avrei voluto questo immenzo dispiacere della scomparsa del mio adorato nepote nella nostra vecchiaia, che ci segnerà per
sempre, ma è la vita, e così si deve accettare per forza non c’è altra via
ma lui lo sento vicino, nei miei penzieri è sempre presente.
Certamente quel giorno che incominciai a scrivere tutto ciò,
non avrei immaginato che fosse interessato a tante perzone questi
semplici ricordi, per primo lo lesse l’ingegnere Elvio Fagiolari, che
lo aggiustò, si occupò delle fotografie della vecchia villa e io ne fui
molto contenta, inoltre il mio dottore, il Farmacista e altre perzone
di cultura che mi hanno sempre incoraggiato a scrivere, e li ringrazio a tutti con piacere.
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94
INDICE
Presentazione ....................................................................................................... pag.
3
Nota introduttiva ..............................................................................................
»
5
[Il Palazzo]............................................................................................................... »
9
[I luoghi]..................................................................................................................... »
11
[L’infanzia]...............................................................................................................
Lulù.....................................................................................................................
Ricordi del nonno Vincenzo detto Cintio................................
[La nonna Letizia] ..................................................................................
[Le feste e le usanze] ............................................................................
»
»
»
»
»
14
22
23
27
28
[Piccola italiana] ................................................................................................. »
Piazza Colonna .......................................................................................... »
30
33
[Tra due padroni] ............................................................................................... »
[Secondo] ...................................................................................................... »
Ad Ada mia cognata Calzoni ........................................................... »
35
41
41
[La guerra] ..............................................................................................................
[Secondo racconta] .................................................................................
Santino ...........................................................................................................
[Secondo racconta] .................................................................................
»
»
»
»
43
43
49
51
[Argentina e Secondo, mezzadri] ............................................................ »
Usanze delle nozze ................................................................................. »
60
61
[Dal podere alla città] ...................................................................................... »
Via del Bell’occhio n° 18 .................................................................. »
79
80
[Viaggi e ritorni] .................................................................................................. »
85
50 anni ........................................................................................................................ »
89
[2002] .......................................................................................................................... »
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96
96
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