GIANCARLO BUONOFIGLIO GIOACCHINO BRUNO PERCORSI ONTOSTORICI *** 2012 *** Ma in che cosa consiste l'umanità dell'uomo? M. Heidegger ARCHEONTOLOGIA PREMESSA Una prefazione non è mai semplice. A volte può essere più complessa del libro stesso; a volte il libro stesso può anche lasciarle il posto. Cercare di giustificare in poche righe il senso della propria fatica è un'impresa che non rende giustizia e il più delle volte è destinata al fallimento. Prima che interessare il lettore e annunciare oscure verità, una nota introduttiva deve perciò soddisfare due sole condizioni: sintetizzare i contenuti e giustificarne l'uso. Per quanto riguarda la prima questione è presto detto. E' mia intenzione focalizzare l'interesse degli studiosi nell'opera di Gioacchino Bruno, non solo per le inappuntabili competenze sviluppate in ambito etnoantropologico (confermate dai numerosi incarichi anche istituzionali e della gestione del museo storico etnoantropologico di Floridia, nella provincia di Siracusa) ma anche e soprattutto per la poliedricità del suo lavoro creativo, che spazia dalla fotografia alla scultura, dal disegno alla scrittura all'incisione della materia, tutto teso come vedremo alla ricerca dell'assoluto e dell'essere, che è poi il sacro di ogni civiltà. E' questa infatti la ragione del titolo data alla presente monografia percorsi ontostorici, e del neologismo pensato per delucidarne l'opera e il lavoro di ricercatore a tutto tondo, archeontologia. Avuto in mano i suoi documenti di camminatore/raccoglitore instancabile di memorie antiche, il problema ontologico mi si è infatti presentato assolutamente dominante in tutte le discipline che ha maneggiato. Ancora una volta presente in questo straordinario ritaglio geografico, l'essere non ha mancato di fare sentire la propria voce nei percosi epocali di una parola, di un gesto, di un segno: come desiderio di verità, apertura, dis/corso che spinge al di là delle limitazioni del tempo e dell'esistenza, nello spazio del nulla dove avviene la rivelazione delle cose, la conversione dello sguardo. Attraverso un onto/scavo nel sacro della cultura, libero finalmente dalle variabili indipendenti col quale di volta in volta viene nominato (dio, materialismo, libertà, sostanza, Logos). La giustificazione dei contenuti è invece per natura più complessa e articolata; si tratta non solo di dare un senso al proprio lavoro ma di motivarne la divulgazione. Nello specifico di questo studio sull'opera di Gioacchino Bruno, l'intenzione nient'affatto secondaria e a partire proprio dalla significazione delle cose propria dell'archeologia, è quella di avvertire il lettore di una possibile risemantizzazione del mondo, un decentramento antropologico -già in parte avvenuto, grazie anche alle nuove teconologie di massa e ai mercati globali- da compiersi nella sintassi di una rinascita storica, attraverso lo scavo archeontologico nella sedimentazione dei significati ancestrali. Niente di diverso dalle profezie nietzscheane, con la differenza che l'alito della nuova epoca già si sente. E sembra davvero non esserci scampo o possibilità di salvezza. II-2012, G. Buonofiglio NOTA INTRODUTTIVA La prima volta che ho incontrato Giocchino Bruno mi ha chiesto di camminare assieme per i sentieri di Pantalica. Declinai cordialmente l'invito, spiegando che tra i miei orizzonti culturali non mi vedevo a sfacchinare tra rovine, steppaglie e sassi pur meravigliosi come quelli del territorio Ibleo; i paesaggi e la storia di quesi luoghi me li portavo dentro nei miei anni di studi e interminabili letture. Credo di avere perduto un'opportunità unica, vittima dell'arroganza della cultura e del pensiero. Solo più tardi compresi il valore di quell'invito, ed oggi quasi arrossisco alla mia protervia di scrittore sedentario tronfio di ricerche cieche vissute nelle ombre dei libri e muffe da biblioteche. Ci sono uomini che camminano e che nel loro cammino incontrano molto piu' del pensiero, il mondo e la vita stessa. Grazie anche all'amicizia di Gioacchino ho infatti imparato ad amare e a rispettare questa strordinaria terra ed ho compreso la vera natura del pensiero e della filosofia, che non per niente è nata nella scenografia di questi sentieri, tra i profumi degli aranceti, la luce del sole, la storia che trasuda dalle rovine, i chiaroscuri del paesaggio, la bonarietà della gente. Con imperdonabile ritardo mi sono venute in mente le parole di Nietzsche sulle orme tracciate dal viandante, al seguito non tanto di un astratto pensiero teoretico ma della verità stessa, nell'aperto assolato in cui ogni cosa assume un senso e un significato. E a proposito dell'andare incontro, ancora di più forse la lezione di Heidegger che concepiva il pensiero, la ricerca dei fondamenti e del vero come un cammino, nient'affatto ideale ma concreto, vissuto, tonale. Il pensiero e una visione del mondo nascono proprio da questo avvicinarsi alle cose, dal muoversi tra radure spesse volte impervie, alla ricerca in fondo dell'essere che è poi il nulla nella sua ultima trasmutazione. Io, e lo scrivo con infinita malinconia, mi sono fermato a metà strada, guardando dal mio comodo empireo di idee lo scorrere delle cose, senza avere assaporato la freschezza del pensiero mattutino, sentito la brina delle idee depositarsi sul volto, o sfiorare come Nietzsche-Zarathustra i venti della verità. Gioacchino è invece uno di quegli uomini -ancora e nonostante tutto- in perenne movimento. E' possibile vederlo nelle ore più impensate a scarpinare per i monti, o scalare gli altopiani della Val di Noto, lo potete trovare in posti quasi inumani e invivibili teso a raccogliere con la macchina fotografica e più spesso con le mani lo scorrere del tempo, a eternare in qualche modo la poesia, l'arte e la bellezza di un panorama che solo un occhio attento e vigile può assorbire. Ci sono uomini che camminano e camminando fanno il pensiero, incontrano la vita e la storia, che ragionano con le mani e con le mani ap/prendono (Gettando il progetto-gettato crea l'apertura storica in cui l'uomo entra in rapporto con gli enti, li ordina e li fa apparire nella presenza. Heidegger) in fondo la vita stessa. I sentieri nei quali si muove e vive Gioacchino Bruno prima che fisici e limitatamente locali e geografici sono come delle linee tese tra finito e infinito; e questo desiderio inappagato di assoluto -più o meno dominante in ogni uomo- si sente in tutta la sua opera, perennemente alla ricerca di un equilibrio tra presente e passato, il niente e il tutto, deietto in un mondo (a dire il vero felicemente imprigionato) che è poi il destino dell'esserci. Gioacchino mi ha raccontato di quando i contadini che lo incontravano nel suo girovagare nella campagne lo rimproveravano ironizzando: c'è la semina, il raccolto, le olive (u travagghiu), e lui rispondeva che il reperto accanto al tramezzino che aveva appena rac/colto era effettivamente oro, il nulla certo ma pure il tutto (Il nulla non è un oggetto... né un ente... il nulla è la condizione di possibilità di rivelare l'ente come tale... il nulla non è solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all'essenza dell'essere stesso. Heidegger). Il tesoro è la roccia, cercava di spiegare, una casa rupestre è un patrimonio, e che sotto quei buchi c'era una città dimenticata (la Sortino Medievale, o Sortino Diruta come la chiama). E così credo sia sempre stata sempre la sua vita, dall'alba fino all'oscurità, quando nella profondità della parola e del silenzio si finisce nell'ultima trascendenza del linguaggio e della visione (La parola nomina la regione aperta dove abita l'uomo. L'apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all'essenza dell'uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell'uomo contiene e custodisce l'avvento... e secondo la parola di Eraclito questo è δαιμον, il dio... l'uomo in quanto parla abita nella vicinanaza del dio. Heidegger). Perché pure l'ombra ha un suo fascino e una dignità estetica (L'ombra è la luce, mi ha detto sbalordendomi con un ossimoro paradossale degno di Heidegger). Altro non fa un archeontologo, se non lasciare che come il vento che sibila sulla pelle, sia l'essere stesso a venirgli incontro nella luce ombreggiata, portandolo verso le cose stesse (zu den sachen selbst!). Gioacchino Bruno custo/disce nella casa-museo di Floridia reperti unici e di sicuro interesse (ne ha catalogati assieme e per merito del padre Nunzio, oltre 9000), e il suo lavoro di custode/bibliotecario consiste non solo nella memoria dei resti ma nel dare voce al passato di questa terra. Non è padrone di ni/ente, Gioacchino, incurante degli idola del possesso e soddisfatto da una vecchia casa padronale (La Casa dell'Artigianato in Sortino) che ha trasformato in un non/luogo abitando però il quale (fuori di sé, tra gli enti, nelle cose) una volta tanto anche l'uomo più umile ha una possibilità di ricerca, di verità; dove si e-siste in un'atmosfera magica e ricca di cultura che è poi il raccogliere ascoltando che rende cosa la cosa. Un sasso delle rovine di Pantalica è solo un sasso, ma se te lo racconta Gioacchino, in quel sasso senti millenni di storia, la vita, quasi echeggiare le urla di dolore che ha assorbito nei secoli. E questo muoversi atavico del com/prendere, il camminare tra le cose, ha il nome antico di libertà; e la libertà in quanto tale espone strutturalmente al destino come l'essenza stessa della verità. Non è una dimensione culturale questa dello stare fuori, ma uno spazio vivo, un'atmosfera, una caverna infinita che rovescia in maniera radicale il rapporto tra l'ente e l'essere, l'uomo e la sua storia. In essa ci si trova, si respira, si vive e qualche volta pure si muore. Annulla in una parola la differenza ontologica tra l'Io e il mondo, l'uomo e il dio. E questo è un atto nascostamente politico: Chi ha scorto l'universo non può pensare ad un uomo... Anche se quell'uomo è lui. Quell'uomo è stato lui. E ora non gli importa la sorte di quell'altro... Perché egli ora è nessuno; come scrive Borges a proposito di quell'altro raccoglitore di tracce che è il bibliotecario, ricettacolo di passato, custode di una mitologia. Gioacchino ha vissuto e vive da uomo libero (come il padre, stimatissimo esponente della cultura siciliana e il nonno rimpianto artista locale), nel sacro dei contenuti e dei simboli della sua gente, appagato dalla storia e dalla memoria che conserva. Camminando all'aperto tra l'essere e l'ente -come fa Gioacchino Bruno con un metodo quasi monacale che è etica nella sostanza- alla fine ci si abitua alla luce, a vedere con occhio attento (La luce è tutto per me, si deve modellare, è l'inchiostro di china, la macchina fotografica è la penna) significando e a sua volta significandosi, perché l'aperto è qualcosa che dà senso ma che non ha senso; è un accecamento, un limite strutturale che però espone nella vita e nelle cose (analitica trascendentale: scioglie il conoscere negli elementi sostanziali cercando in esso i concetti puri a priori, in una dimensione della coscienza che non è lineare ma circolare). Oltre non si può andare nella chiarìta di questo crepuscolo ontologico (L'essere, aprendosi nella radura, viene al linguaggio. Esso è sempre in cammino verso il linguaggio.... Il linguaggio si eleva a sua volta nella radura dell'essere. Solo il linguaggio è in quel mondo misterioso che pur sempre ci domina. Heidegger) e l'unica lilbertà concessa è di accettare l'essere come destino, superando anzi pure forse questa fragilità al punto che Gioacchino ha cercato di vincere le naturali limitazioni del corpo imparando, grazie alla lezione del nonno paterno, ad usare la mano babba, sforzandosi di non perdere le potenzialità della mano sinistra. Tra un bicchiere di rosso e un altro (altra meraviglia di questa terra, che Bachelard avrebbe apprezzato) una sera mi ha sbalordito dicendo che il materiale, la vita la calpestiamo, la viviamo ma non la capiamo, che in fondo siamo ciechi che vivono in un mondo che non conoscono. Mi spiegava, ed era in fondo una metafora del suo lavoro e dell'esistenza che quando scavi e trovi una moneta sembra un sasso; sta alla cultura e alla passione dell'uomo di averne cura, com/prenderlo, ripulirlo e liberare la moneta come a scavare in significati misteriosi e sconosciuti. E solo allora ti accorgi che quella pietra era oro. Maneggiandola da tutti i lati, rivivendola proprio come un fenomenologo alle prese con la variazione eidetica, cercando di darle un senso. Ma è venuto il momento di lasciare la parola all'opera di Gioacchino Bruno. In questa onto/monografia a lui dedicata proverò non solo a metterne in luce il lavoro di archeologo diplomato sul campo, ma quello di artista/ricercatore completo, dedicando una sezione del libro alla fotografia, una alla scultura della pietra, una al modellamento dell'argilla e del disegno, sulla base di seminari tematici tenuti proprio da Bruno presso associazioni culturali. Con la speranza di portare in luce aspetti ancora sconosciuti della sua scienza e di interessare gli studiosi più attenti. Ho coniato un neologismo per raccontare la figura di questo straordinario personaggio poliedrico, attribuendogli il mestiere paradossale di archeontologo, e credo che sia davvero appropriato. Il lavoro di Gioacchino non è solo da archeologo e appassionato di museografia e museologia, è davvero più complesso e articolato. Si tratta di un ricercatore eclettico, fotografo, scultore, modellatore, grafico, disegnatore, pittore, scrittore e chissà che altro, la cui opera è giusto che abbia a suscitare interesse presso anche le più austere accademie. Credo sinceramente che ne valga la pena. E' però ora di andare. Il sole si alza e il cielo si colora dei toni del giorno. Come sempre Gioacchino sarà da qualche parte a camminare -è l'unica regola che credo abbia mai seguito- di mattina presto (alle cinque e mezza!) a fare un passo in piu' tra passato e futuro, nelle cose e nel tempo, nel non senso di una giornata il cui segreto fondamentale (come ha spiegato raccontandomi dei mali della sua epoca) sembra essere di non dormire mai, nel bisogno inarrestabile di calarsi nel mondo come parte di una storia che trascende la stessa individualità. Non esiste altra via per testimoniare l'essere e annunciare la verità. Carta storico/topografica della Sicilia secondo le "ultime" osservazioni, come è scritto nella mappa datata 1754. Sono delineate le tre valli (Val di Noto, Val Demone, Val di Mazzara) ANTROPONTOLOGIA Techne e po/etica in Gioacchino Bruno Gli antropologi lavorano nel tempo, cercando di salvare dalle macerie della storia significati profondi delle civiltà; gli antropontologi i significanti, inserendosi nella catena semiotica alla ricerca del segno che crea e cristallizza nelle epoche il mito. L'antropontologia non è metafisica, l'essere è sì un universale ma concreto/immanente nel suo costante ripresentarsi in ogni segno rilevante delle attività umane; anch'essa può essere una scienza di studio empirico, ma a condizione di riconoscere nell'essere non un'entità sovraumana, ma nelle diverse civiltà i caratteri eterni e immutabili che definiscono il sacro. (E con la parola sacro dobbiamo intendere quanto c'è di immutabile nelle cose rendendole quello che sono, e in quanto tale oggetto di rispetto e venerazione.) L'essere è ciò che con/segna i significanti in una significatività globale che dà loro un senso e un significato, e l'apporto dell'uomo non è comunque marginale. Proprio come il contadino che decide di vangare il suo campo, e confida nell'aiuto di dio. Ma non per questo lascia a dio il compito di lavorargli la terra... Sa che il suo lavoro non basta, che tante e tante altre cose occorrono perché esso vada a buon fine; ma sa anche che il suo lavoro è insostituibile (E. Severino). Qualcosa di simile all'antropologia culturale (mutuata da Durkheim e Mauss) di Lévi-Strauss, che cercava le costanti universali nelle diverse società umane (strutture dello spirito), ma individuandole non in quello che le molteplici forme di vita hanno in comune, quanto nel carattere sistematico delle relazioni. Le costanti non sono insomma per gli antropontologi generiche somiglianze, ma consistono nell'invarianza nascosta delle relazioni che intercorrono tra le variabili. Come si è detto il segno nella suo significare però l'essere nelle cose. L'antropontologia concentra la sua attenzione proprio in queste costanti, cercando nelle strutture mitologiche dello spirito umano il fondamento di una comunità che ha il nome del sacro. E nella sacralità l'essere immutabile che è nei frammenti della memoria a significarli, rinvenibile negli esercizi essenziali dei manufatti culturali al di là delle geografie e del tempo. ******* Naturalmente in questo processo di ricognizione grammaticale non secondari sono gli strumenti e l'apparato scientifico culturale del ricercatore. Prima tra tutte l'abilità di com/prendere con un colpo d'occhio non tanto la storia di un sito archeologico ma l'unità d'insieme del paesaggio. Gioacchino Bruno nel suo approccio anche estetico, che è nella sostanza sintesi (così scrive nei diari: Volgendo lo sguardo verso il bacino idrografico dell'Anapo noto che il territorio di Sortino ne è al centro... fornendo acqua perenne alle varie industrie umane), non per niente è stato uno dei maggiori promotori (nonché scopritore di siti sconosciuti) della rivalutazione del suo territorio, che nel tempo avrebbe portato la necropoli di Pantalica ad essere inserita dall'UNESCO tra i patrimoni dell'umanità. Lo strumento principe col quale lavora Bruno è l'occhio, naturalmente addestrato dalla cultura e coadiuvato dalle strumentazioni. Disegna, fotografa, prende appunti e sintetizza con lo sguardo il progetto di lavoro che metterà nero su bianco nella carta archeologica, che ritiene essere lo strumento essenziale per ritrovare i segni della memoria storica e per tutelare l'equilibrio e l'armonia del paesaggio. Nello specifico della carta geografica, il suo metodo di studio si avvale (quando è possibile) di foto aeree, utili per trarre indicazioni importanti sull'assetto dell'ambiente del passato e delle infrastrutture (strade, necropoli, villaggi rupestri, sistemi di drenaggio) più antiche che hanno lasciato tracce significative sulle superfici del terreno. Non secondaria è la ricognizione degli archivi alla ricerca di vecchi documenti e di cartografie che documentino il passato, come pure la ricognizione sul campo. Quest'ultima in particolare risulta essere assolutamente determinante, per la ricchezza di frammenti -i cocci- reperibili che sono poi i segni tangibili delle civiltà: ho esaminato cave, cozzi, ruderi, grotte alla ricerca di prove e indizi che consentissero di ipotizzare la presenza di insediamenti e attività umane scomparse. Quasi un calarsi nel passato per poter meglio cercare, vivendo a volte come un primitivo anche per mesi (come gli è capitato di fare nel corso degli scavi della Diruta Medievale, dormendo nelle grotte, all'interno di una bottega artigiana delle concerie e riscaldandosi col fuoco), ma con l'eccitazione e il conforto di dare un contributo di rilievo alla sua terra. E tale contributo è stato essenziale tanto dall'avere ridisegnato con maggiore precisione la carta geograficostorica di Sortino (rieleborando più matrici topografiche I.G.M. che riunivano le quattro vecchie carte indipendenti e adiacenti, comprensive di un censimento dei crolli geologici -la Sortino Diruta- e urbanistici -l'ubicazione della chiesa Madre, della chiesa Sant'Agata e del Castello e la sua torre-, degli immobili privati, delle discariche abusive), allargando e stimolando il turismo che si muove verso la Sicilia sudorientale, impegnandosi (su richiesta dei dirigenti della Provincia) nell'elaborazione di un testo unico dei beni artistici, monumentali, storici e etnoantropologici di tutto il comprensorio della Val d'Anapo, nonché l'idea progettuale del museo dell'Antiquarium sortinese presso l'ex convento dei frati Carmelitani in Sortino e la bonifica della zona Cugno del Muro. Plastico antica rete viaria del sud est della Sicilia ******* Si diceva dell'antropontologia, è bene puntualizzare ancora. Il tempo non è un accessorio tra gli altri ma il significante ultimo e fondamentale dell'essere umano (Sein und Zeit). Gettato nell'attualità come semplice presenza, cosa tra le cose e preso nel ciclo delle nascite l'uomo, l'esserci (l'essere nell' umano) si muove nello iato tra vita e morte, dove tutto corre inarrestabile. Ma l'esserci (l'uomo) non è semplicemente nel tempo ma è tempo, il suo essere è temporale; la dimensione storica è strutturalmente umana e non delle cose che non hanno una dignità propriamente ontologica (perché il mondo ha la finalità nell'essere umano, pur decentrato, esiste come insieme di enti utilizzabili per la progettualità dell'esserci), nel senso dell'avere in sé la causa della propria esistenza. L'esserci è una causa prima (in quanto progetto/aprente nella parola/segno lo spazio di significatività in cui sedimenta il senso delle cose), ma anche un causato (come fondamento senza fondamento), un paradosso ontologico che muove dalla dinamica della parola a quella della morte, dalla possibilità alla necessità. Il linguaggio (il segno) apre al mondo i significati e organizza il senso di quella rimandatività simbolica che è il tessuto culturale di una comunità, mentre il tempo (il verbo) esprime propriamente l'azione (il fare, la poiesis) che ordina strutturandolo il dinamismo interno della mondanità. Nella nostra struttura linguistica la totalità delle predicazioni presenta gli oggetti come il prodotto ontico del tempo (dell'essere inteso alla maniera tomista come l'atto che fa di un ente non solo un ente logico ma reale), operando il passaggio dal piano dal linguaggio a quello delle cose che le determina per quelle che sono. Facciamo un esempio: in ebraico verbo si scrive po'-al' e significa azione, agire, operare; la radice pe + 'ayin + làmed si trova anche in pòel che vuol dire operaio. Come dire: prodotto e produttore, opera e operaio non sono solo uniti da un legame causa/effetto, ma essendo riconducibili ad uno stesso principio poietico (il tempo, il verbo essere che li preserva nell'esistenza) sembrano confluire in un unico significato (una cosa e/siste, significa, solo in rapporto ad un ente capace di utilizzarla, di aprire la significatività in cui si colloca il senso dei significati). E se questa è la natura del fenomeno (chiamato in questo contesto antropontologico segno, sedimentazione noumenica dell'assoluto) nella sua rimandatività temporale, dobbiamo allora dedurre che nulla esista oltre la manifestazione fenomenica della cosa? Il fenomeno (il segno/frammento) non ha il significato squalificato di antitesi alla cosa in sé; significa piuttosto manifestazione, fulgore, ri/velazione; non è opposto all'essere ma è l'esistenza nella sua mitogia concettuale, il ci dell'essere (una forma). ******* Naturalmente il fenomeno come segno/frammento dell'essere riesce in qualche modo a confluire nella materia utilizzando i linguaggi propri della tradizione locale, con/segnando alla modernità non il passato della storia ma attualizzando nel presente il senso sempre attuale delle cose, l'ottica assolutizzante di un vissuto mitologico che proietta nel contesto moderno la verità dell'essere. Come uno spazio in cui si apre lo scenario del mondo all'interno di un gioco simbolico di segni/parole/colori che sono una panoramica perspicua della realtà. Proprio questa deve essere stata la ragione che ha portato non solo Gioacchino Bruno (all'epoca segretario della Pro-Loco Pantalica di Sortino), ma artisti e conoscitori del territorio come Sebastiano Pane e Alessandro Rapisarda, alla realizzazione di un monumentale murale nel giardino pubblico della zona Piano del Castello nel territorio sortinese, raffigurante scorci di vita quotidiana ambientati nella Sortino Diruta. Oltreché naturalmente il sostegno dell'amministrazione nella persona del sindaco, Orazio Mezzio e dell'assessore prof. Franco Giuliano, come pure il contributo di artisti (di talento, ad esempio Mario Matera) e concittadini. Il lavoro fu davvero incredibile per l'estensione, si presentava in una lunghezza di 41m, 3m in altezza, per una superficie complessiva di 123mq. Villa delle Rose è un Scena che raffigura il Castello sito importante per la posizione geografica che ricopre; era l'antico Piano del Castello nella Sortino Diruta, posto nel cocuzzolo di uno sperone roccioso delimitato a sud e a nord da profondi dirupi. Il luogo fortificato con un fossato e mura alte aveva un portale d'ingresso e la sua piazza d'armi. Il nome moderno (bellissimo e suggestivo), prima denominato Cimitero Vecchio (in quanto fu trasformato in cimitero dopo il terremoto e sulla base della legge che imponeva ai comuni di costruire i camposanti ad una certa distanza dai centri abitati) fu dato da una scolaresca d'asilo che aveva le aule presso il monastero di Montevergine, e piantò sul terreno un campo di rose. Anticamente era la pozza/piazzale, ed il murale fu anche perciò denominato Piazzale del Castello, per secoli di proprietà della famiglia feudataria dei Gaetani. Negli anni i resti funebri furono trasportati nel cimitero nuovo e il portale (che sembra avesse la forma ad arco e dotato di un cancello in ferro; ma tale informazione arriva dai racconti degli anziani di Sortino e non è stata documentata) fu abbattuto. Quando il sindaco di allora (con delibera della giunta n. 138 del I Marzo 1999) ha bonificato l'area (che l'incuria aveva trasformato in una discarica abusiva) intonacando il vecchio muro a nord con un grande pannello bianco, fu naturale pensare di dipingerlo. Il primo progetto che Gioacchino Bruno presentò venne rifiutato dall'amministrazione per mancanza di fondi e solo dopo anni rinacque l'interesse. I sei paesaggi (Concerie, Castello del feudo, quartiere Curditta, abitazioni del ceto medio-alto del S.Sofia Fuori le Mura Curditta situato all'epoca nella parte superiore del centro abitato, chiesa di Santa Maria del Soccorso, uscita indenne dal terremoto e successivamente adibita a deposito agricolo) Scena che raffigura le botteghe artigiane delle concerie vennero dipinti a base di idropittura al plastico e inseriti in una cornice litica e si dispiegava in sei sezioni raffiguranti la vita dell'epoca. L'opera, che cominciò nel Maggio del 1999, durò sei mesi e fu pure imbrattata col ducotone con un atto vandalico. Ma ancora oggi il piazzale viene visitato da turisti, considerando anche la bellezza del panorama, e utilizzato nel corso delle cerimonie pubbliche. E così nonostante tutto oggi l'antica Sortino rivive grazie anche a Giocchino Bruno in un eterno presente, davvero al di là delle scelleratezze dell'epoca moderna, come un monumento all'attualità di una storia da non dimenticare. Sembra insomma che Salvo Sequenzia abbia affondato la penna nella maniera più giusta e acuta quando scrive di Gioacchino che Abitazioni rupestri esplorate nel 1998 Chiesa rupestre di S. Maria del Riposo all'ansia descrittiva dell'occhio analitico sostituisce lo sguardo sbigottito dell'artista, che sottomette la rigidità della visione alla spumeggiante ventata di una fantasia che sfuma i contorni dell'immagine originaria per coglierne il senso riposto; armando un impulso di curiosità, di conoscenza totale, e quasi spreme volontà di colloquio con l'oscurità dei millenni, in un disperato bisogno di fermare il transito dell'effimero nel riverbero della visione, dove la forma si sfrangia, e il muto silenzio della Grande Madre, minaccioso e terribile, si trasforma in smagante richiamo di Eros, energia rigenatrice del mondo, invito sensuoso dell'Amante Universale, richiamo di una Grazia fatua e ineffabile che, dal fondo di ere remote, chiede la comunione di senso, di sensi, nella stupefazione dell'uomo che si arrende all'irrazionale panico, a un'inattesa aura che salva. Quartiere Curditta ******* Una tensione analogico/ontologica della materia (dall'essere all'esserci, all'essere-qui-ora) che significa solo nell'orizzonte umano come chiamata nella deiezione, un richiamo oltre il getto della coscienza pro-gettuale della temporalità scaduta. Il tempo che per l'uomo è linerare nelle cose dell'arte (ovvero quei di/segni, prodotti estetici che segnano l'indefinito nelle specifiche manifestazioni dell'essere) è invece ciclico. Sottratti alla dimensione strettamente esistenziale nascita, putrefazione e morte sono nel segno poetico condensati in un unico pres/ente (presso l'ente, la cosa), senza spazio né tempo. Ancora una volta è il tempo a intervenire annullandosi nel processo poetico: il segno (incisione nel divenire, graffio e memoria nella storia) è appetito, desiderio di esistenza, di fermare il proprio essere nell'immobile e sempre uguale, nell'attimo impossibile dell'eternità. Superando la storicità degli eventi ma anche il linguaggio scaduto nella chiacchera, la lingua poetica dura e si conserva; è la qualità che ha il prodotto di superare la natura limitata del produttore, di usarlo, annullarlo e nell'ultima delle alienazioni trascenderlo. E questo è il valore del segno nel rapportarsi all'uomo (Solo l'opera fa dell'artista un maestro d'arte. L'artista è l'origine dell'opera. L'opera è l'origine dell'artista. Heidegger) e nel mondo, in cui apre e fonda l'orizzonte mitologico in cui ogni ente appare. Il suo senso non può allora trovarsi nel contenuto (che è ciò che una comunità/forma di vita, sulla base di una rete di credenze e convinzioni condivise e concordate, riconosce come valori, una forma), né tanto meno nel significato inteso quale rappresentazione contingente di un fenomeno storicamente determinato, ma deve piuttosto consistere nel significante, nella parola/segno vuota dei riferimenti ontici (ripulita dalla colonizzazione culturale operata dall'idea sul linguaggio) e libera da ogni sedimentazione semantica. Dalle interessate connotazioni mondane. Nella tecnica (τέχνη, uno dei modi della άλητεύειν, di rendere manifesto l'ente) propriamente, che è ciò che permette alle cose di assumere un significato. Contenuto del segno poetico è l'abilità di dominare una tecnica che nello scorrere delle epoche e delle idee si afferma oltre le contigenze storiche configurandosi come verità dell'essere. Il produrre, il fare, la poiesis non sono tanto un bisogno e-sistenziale di comprendere e costruire un mondo, ma la pulsione erotico/biologica di dilatarsi oltre il finito e la temporalità (annullando la differenza welt-erde, mondo-terra) dando voce all'essere che s-vela i significanti in una diversa semantizzazione. La techne, il fare, la manualità produttiva è attività che unisce l'uomo e l'essere (la parola e la cosa, in quanto è il nome/segno a rendere cosa la cosa) in un unico destino, annullando e appropriandosi in una storia di reciproca appartenenza. Travolto dal segno dell'essere (Che il ci, l'illuminazione come verità dell'essere, accada questo è decreto dell'essere stesso. Heidegger), il poeta (nel senso del fare con una connotazione ontologica) è costituito dalla poesia (nella catena significante dei significati che aprono al senso) in quanto è la poesia a porlo nella propria apertura storica. Il segno poetico è un risalire rischiarante/occultante, un custo/dire e ri/velare ciò che viene alla luce dal fondo dell'essere, dalla cristallizzazione della materia; un cammino a ritroso (Zeit und Sein) nel quale l'uomo è appropriato all'essere e l'essere consegnato all'uomo, una condivisa appropriazione/espropriazione in cui è l'uomo a scomparire, a mortificarsi e annullarsi. Il produttore di segni è nessuno, uno strumento (nel senso che l'essere si serve dell'uomo per l'accadere che è l'essere stesso) dell'essere che vuole e non vuole annunciarsi. La testimonianza di una verità che annulla i significati e s/fonda in nessi logico/temporali; in cui segno e significato si separano per ricostruire una nuova unità lessicale. Combinando e ricombinando, distruggendo e ricostruendo il linguaggio fino a sedimentare la consistenza di una pietra. ******* Salvare le cose dalla degradazione temporale e dall'usura della memoria. Non solo però; per un antropontologo si tratta non di portare alla luce patrimoni sommersi delle civiltà ma di far rivivere quei luoghi risignificandoli nel tempo presente. Come sarebbe dovuto accadere nel desiderio di Gioacchino Bruno per la Sortino Medievale, attualizzando la storia e storicizzando il presente. La storia della scoperta di questa città sotterranea ha qualcosa di magico, e una parte del merito va riconosciuta al nonno paterno (pittore dotatissimo) che veniva incaricato dai sacerdoti di realizzare opere da esporre nelle parrocchie e del restauro dei beni. Gli capitò infatti un giorno di imbattersi (così leggo nei diari di Gioacchino Bruno) in un quadro tutto nero rappresentante un paese dipinto con in alto la dicitura "Sortino antica destrutta nell'anno 1693 per vementissimi terremoti. A 9 e 11 Gennaro". Capì subito che si trattava di qualcosa di Tela che rappresenta l'antico sito di Sortino precedente il terremoto. L'opera è conservata presso la chiesa di S.Sofia eccezionale. Chiese e ottenne al parroco don Campagna di poterlo pulire, e con stupore comparve oltre i fumi che lo ricoprivano l'antico abitato con chiese e monumenti. Con l'intervento del vescovo di Siracusa, al quale avevo comunicato l'importanza del quadro, e con il contributo di una ditta di Priolo cominciò il restauro vero e proprio. Il quadro è stato un compaggio di viaggio, uno stimolo straordinario che mi muoveva, aiutato dal manoscritto del Gurciullo (studiando con minuzia tale i caratteri calligrafici da arrivare a riprodurne in un manoscritto la grafia come gli amanuensi dell'epoca), alla ricerca dei resti rappresentati (il dipinto come si usava a quel tempo è dotato di un dettagliato glossario della mappa). Cominciai a perlustrare il territorio alla ricerca della vecchia Sortino. Ogni giorno aggiungevo Legenda del quadro storico con l'indicazione di strade, chiese, ponti e piazze nuovi tasselli, leggevo e disegnavo mappe sempre più dettagliate. La prima fu quasi ricalcata dal quadro e venne inserita nel volume "Chiese, conventi e palazzi di Sortino" ad opera del parroco Giuseppe Salonia, e inserita dalla dott.ssa Beatrice Basile, funzionario e ricercatrice della Sovrintendenza di Siracusa, nei documenti ufficiali. E in un altro passo dei suoi taccuini si può anche leggere: Avevo scoperto Sortino antica attraverso un quadro... fui folgorato! C'era la legenda indicante i nomi di chiese e strade, i ponti, le sorgenti, i quartieri. Mi misi subito alla ricerca dei resti; accumulai foto, disegni, mi misi a leggere il manoscritto del parroco Gurciullo (edito nel 1749). Accrescevo le mie conoscenze dei luoghi. Nel 1993, nella ricorrenza dei trecento anni della distruzione ad opera del terremoto, assieme a Luigi Ingaliso cominciai la stesura di un libro "Ricognizione topografica, tra storia e leggenda". Lo stampai a mie spese e con l'aiuto di alcuni negozianti e di liberi cittadini. Il libro, che è anche un diario dei lavori, è stato investito di riconscimenti autorevoli, ed è giunto in più occasioni all'attenzione della stampa non solo locale (Giornale di Sicilia, Diario, Agorà, Zomerkavantiespecial). Quando si scava nel tempo capita a volte di trovare tesori, e così raccogli i cocci, cataloghi i reperti, di/segni le mappe, segni gli oggetti. Metti ogni cosa insieme e cerchi di ricostruire la storia, le vite di quell'antico abitato. Vorresti sentire le voci delle persone che le hanno adoperate, vedere le mani che le hanno afferrate e gli occhi per le quali hanno pianto o sorriso; e così ripercorri la storia di una, cento, mille vite. E faresti di tutto per dare loro una voce, un'altra opportunità; perché la morte e la fine delle cose non riesce ad accettarla un antropontologo, il suo compito è di dare nuova vita, nominando e risignificando gli oggetti trovati. Estrarre il pres/ente che è in ogni cosa, con/segnarlo alla luce affinché racconti non il passato ma il futuro, come una Prima mappa topografica eleborata sulla base del quadro e delle cartine altimetriche IGM, pubblicata nell'opuscolo Sortino Diruta traccia poetica da seguire nei sentieri sempre impervi dell'esistenza. Il lavoro di Gioacchino Bruno, e in particolare proprio negli scavi della Sortino Medievale ha proprio questa caratteristica. Nei disegni ci senti i cadaveri insanguinati, schiacciati dalle mura crollate (come scrive lo storico Sebastiano Pisano Baudo) nel terremoto del 9-11 Gennaio 1693, ci vedi i corpi affondati nella melma, seminudi terrorizzati e assiderati. E allora Gioacchino scava con le mani e col piccone senza fermarsi perché c'è sempre una possibilità di salvezza, anche dopo centinaia d'anni. Si è detto del tempo e della tecnica nella ricognizione antropontologica; è impressionante davvero vedere non solo la passione del raccoglitore metodico, ma la quantità della mole del lavoro prodotto (dai diari ai progetti di recupero, dalle conferenze ai disegni della città, dallo scavo sul campo al plastico minuzioso della Diruta, in scala 1:250). Gioacchino ha ricostruito Sortino Vecchia in ogni modo, vincendo le naturali erosioni della memoria e sfidando non il tempo aulico della storia, ma il suo; prima con lo scavo, poi con disegni e fotografie, poi con un plastico e con la compilazione dettagliata di diari, infine con la parola. Facendo in qualche modo rivere gli antichi quartieri Curditta, Mandrazzu, Carcarone, Cunserie e Cava. Ed è interessante notare la povertà dei mezzi con cui ha lavorato Gioacchino (per lo più solo, ma a volte con amici e volontari dell'associazione SiciliaAntica da lui fondata) nell'estrarre la vita dalle macerie, proprio come se si trovasse nel mezzo del sisma, tra i rantoli di disperazione della sua gente, scavando con le mani e con oggetti di fortuna presi sul luogo: piccozze, triangoli, secchi, zappe, cariole, manicole, picconi, rastrelli, pale, livellatori, scope in ferro, rotoli di lenza. Ma nulla è improvvisato, perché il metodo (la tecnica) scientifico di ricerca -come quando in un cataclisma si organizzano i soccorsi non facendosi prendere dal panico ma seguendo regole consolidate- è sempre presente. Come si vede nei documenti autografi che riguardano ad esempio l'insediamento Bassomedievale, in contrada Costa Sortino a 150 metri dalla cappella di S. Francesco di Paola. Anticamente era denominato Quartiere Curditta (il quartiere più ricco e nobile, situato sotto il Piano del Castello, e così chiamato in quanto era la prima fonte d'acqua che Plastico di Pantalica s'incontrava nella parte alta e che in estate diventava un rigagnolo defluendo come una fontanella, una cordicella, la curditta), nei pressi del monastero di S. Benedetto, nel ciglio del precipizio denominato anticamente Barriera. Individuabile sulla Carta d'Italia I:25.000, foglio 274, quadrante IV, orientamento: S.O. Monte Pancali. Particella 120, foglio 39. Dietro permesso dei proprietari e con l'autorizzazione della Sovrintendenza di Siracusa, nella primavera del 1998 ho iniziato una complessa opera di pulizia di due abitazioni rupestri. Il sito s'inquadra in un paesaggio a gradoni, in declivio verso sud; si può raggiungere mediante una trazzera privata imboccando la strada per S. Francesco di Paola; dove termina la trazzera, sulla sinistra si sviluppa l'insediamento indagato. Sembra insomma che per quanto il cuore ci metta il suo, la testa debba comunque fare la sua parte, e nulla sia lasciato al caso. Ma il cuore si sente nella ricognizione dello sguardo -assolutamente dominante- che abbraccia il tutto, e tale visione è marginalmente attuale perché sfonda le macerie del tempo e rac/coglie come in una fotografia antica la vita dell'epoca. Non è un occhio che storicizza o surcodifica, è un vedere libero dal presente, immerso e realmente partecipe del passato. Il cuore lo senti nella luce delle fotografie, nel segno che incide la carta, nella caparbietà della riproduzione minuziosa dei reperti; lo senti nelle mani che afferrano gli oggetti, quando li porta alla luce e li pulisce. Mentre con le dita toglie non detriti di terra ma significati e incrostazioni semantiche e culturali. Mappa turistica dell'area archeologica di Pantalica elaborata sulle cartine topografiche dell'IGM, in previsione dell'apertura del punto informazione ******* Se il fenomeno poetico consiste pertanto nella concentrazione (l'apertura in cui si annuncia l'essere) dell'essere nel tempo, il produttore di segni/manufatti agendo con la sua tecnica nel ricettacolo fenomenico (segno) non solo imita l'inimitabile processo della creazione, ma opera nella natura del sacro. E non c'è differenza alcuna tra un nome e l'altro perché nello spazio dell'essere che annulla le differenze e sopprime la molteplicità, il fare poetico è il prodotto di un'unica grande opera. I poeti hanno composto una sola parola, i musici il medesimo suono, gli scrittori lo stesso libro (I pensatori essenziali dicono sempre la stessa cosa... questo non vuol dire che dicano cose eguali... essi dicono questo solo a chi è disposto a seguirli nel pensare... Rifugiarsi nell'eguale non è pericoloso. Heidegger). Dando voce nella sintesi storica al libro/museo infinito e universale Plastico della Sicilia antica con i nomi di tutte le località maggiori che più dall'individualità dell'ente, viene alla luce dal nulla dell'essere fondando i mondi storici (mitologici e simbolici) entro cui gli enti si rapportano. E gli uomini che nulla sono paragonati all'eternità, incapaci di conservare il proprio essere nel tempo e di continuarsi oltre i limiti dell'individualità spaziale, nelle mani di una natura che non manca di fare sentire il suo peso, appaiono davvero come l'ombra grottesca di una predicazione poetica che li trascende infinitamente. Le origini del mito ontopoiesi della verità o teatro ideologico? A questo punto della nostra discussione sull'antropontologia è bene dilungarsi su una questione di primaria importanza nel lavoro di un archeologo, il mito e le mitologie delle civiltà. L'argomento è essenziale in quanto il mito è l'orizzonte di senso in cui il materiale raccolto non solo viene catalogato e inserito in un contesto culturale, ma senza il quale i reperti è impossibile che vengano alla luce. Il mito va oltre lo scavo perché è già nello scavo stesso, nelle mani e nella testa dello storico, nella cultura e negli occhi del cercatore a muoverne il piccone. E in ogni colpo lo senti echeggiare, come un urlo e un grido quasi di liberazione. Macerie presso l'ingrottato basso del nucleo Grotte Cannata Si è detto che la poetica fonde e custodisce un mondo, e la costruzione di un mondo (una forma) è un atto politico e mitologico (una metafisica colonizzatore/colonizzato dei dei modi costumi). Il dell'essere mito è la correlazione totale che unisce i termini della relazione dell'essere-nel-mondo (significante-segno-significato; come un trionfo bacchico... in cui non c'è membro che non sia ebbro. Hegel), una percezione globale fondante le istituzioni di un popolo, un sistema particolare che edifica sulla base di una catena semiotica preesistente (R. Barthes). Fornisce cioè un'immagine naturale del reale, costituendosi attraverso la dissoluzione dei caratteri storici delle cose, dove le cose perdono il ricordo della loro fabbricazione a significare l'insignificanza umana, l'assenza. La mitologia partecipa attivamente al fare del mondo, è un accordo col mondo non quale esso è ma quale vuol diventare. E' portatrice di verità: capace nel suo metalinguaggio di ripensare l'alienzazione dai contenuti fondamentali a cui la cultura globale surrettiziamente espone, e la sua rivelazione è un atto etico e di libertà. Il mito è lo spazio del sacro, ombra delle espressioni culturali e quadratura del pensiero significante. Non però un agire sui simulacri di una forma di vita, alla maniera di Schopenhauer -in quanto principio di causa che ordina le rappresentazioni condizionate dalle forme apriori della coscienza (tempo, spazio, causalità) secondo la necessità fisica, logica, matematica e morale- ma lo sfondo tramandato nel quale si può distinguere il vero dal falso e il giudizio costruire una visione ordinata delle cose. E' con Vico che nasce la scienza moderna del mito, inteso non come rivelazione di verità ancestrali, ma espressione della genuina visione del mondo dei primitivi. Il diffondersi dello studio scientifico e su base antropologica comincia però coi viaggiatori e studiosi del XVIII (Ch. De Brosses, A. F. Lafitau) e J.J. Rousseau, per arrivare a Creuzer (Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, 1810-12) il quale Aratura primordiale; inchiostro su cartoncino vedeva nel mito l'immagine raffigurata dei simboli originari che racchiudono le immutate verità delle cose. Per J.J. Bachofen incarnava la lingua primordiale, mentre U. Von Wilamowitz-Moellendorf e M.P. Nilsson (autori criticati dalle allucinazioni mistiche filologiche di R. Guénon) cercavano nei miti i segni storici del materiale mitologico. Cassirer (Filosofia delle forme simboliche, 1923-29; Simbolo, mito e cultura, postumo 1979) arrivò a concepire l'autonomia semantica del simbolismo, portatore di una verità mitopoietica (il linguaggio dimenticato), rinvenibile nelle somiglianze e analogie che si trovano nei racconti sacri di popolazioni diverse in tempo e spazio (A. Bastian, Th. Achelis, F. Boas). Secondo Malinowski il mito come sviluppo drammatico del dogma (in Sesso, cultura e mito, 1962) era una fantasia narrata per indurre condotte e comportamenti morali e religiosi, mentre per R. Otto e la Scuola Fenomenologica una categoria del sacro nella sua rivelazione storica. Van der Leeuw lo assimilò alla parola stessa, come la forma che crea la realtà in un proprio tempo che è un non tempo (Fenomenologia della religione, 1933), ravvisando in esso dei riti messi in atto, un modello archetipico del profondo o mandala vissuti sul piano razionale (Eliade). Frobenius propendeva per concezione autonoma, forma compiuta analoga a quella musicale (Introduzione all'essenza della mitologia, 1940-41) nella quale i mitologemi espongono il materiale originario che la fantasia mitopoietica elabora con regole affatto evolutive, perché svolge una funzione simbolica che consiste nel fondare collocando l'uomo nel suo contesto, dandogli un senso e assumendone a sua volta uno. Studio della pavimentazione lastricata a mosaico antistante la chiesa Madre, vista dall'alto; china su carta Più moderna e interessante per comprendere il lavoro di Gioacchino Bruno è l'Antropologia Culturale di LéviStrauss, che dava al pensiero mitico il compito di procedere alla presa di coscienza dei paradossi della lingua, fornendo una sintesi e un modello logico per risolvere le contraddizioni semantiche; cercava destrutturandole nelle unità costitutive del mito gli elementi essenziali di un linguaggio (Il crudo e il cotto, 1964). I mitemi, China su carta; suino propriamente, gli elementi di un discorso nella loro apparizione storica, dal sottosuolo originario archetipico che danno loro una regolarità logica capace di evitare la dispersione dei segni nella formazione sistematica degli oggetti che vanno a costituire. Archiviando informazioni e contenuti (Ma l'archivio è anche ciò che fa si che tutte queste cose non si ammucchino all'infinito in una moltitudine amorfa... e non scompaiano per casuali accidentalita' eterne; ma che si raggruppino in figure distinte, si compongano le une con le altre secondo molteplici rapporti... -che- come stelle vicine ci vengano in realtà da molto lontano. M. Foucault) sono nella sostanza una riscrittura nella forma più comprensibile di cose Stemmi per la lapide UNESCO in occasione della nomina a Patrimonio dell'Umanità di Siracusa e Pantalica. La scultura si trova nella facciata del Municipio Vecchio di Sortino. Eseguita in pietra di Comiso, 2x1,70m circa inenunciabili. Guénon, su questo punto, era già stato molto chiaro: Mutea era la dea del silenzio, sposa di Ermes (l'apritore di porte/significati da cui la parola ermeneutica: theorein -τεωρός vuol dire custo-dire- divide la radice -εορέιν- con ermeneus -έρμηνεύς interprete, da Ερμής messaggero-. Parola che assorbe la dicotomia: ειρη vuol dire assemblea e allude al parlare in pubblico; 'ερημια significa solitario, deserto da cui έρημίας solitudine che rinvia al rientro circolare in sé, mentre ειών rimanda al parlare dissimulato, chiaroscurato, alla finzione dell'ironia) e padre di Sileno; allundendo ad un'assonanza tra mito e muto portatrice di un ontologico divieto della parola all'accesso della verità (mito significa silenzio, muthos viene da mu, muto e indica la bocca chiusa; il verbo muein rinvia alla chiusura della bocca, al tacersi. Se da muô è poi derivato il verbo muêo -che significa iniziare ai misteri, istruire senza parole-, allora mustêrion -mistero- è ciò che si deve cogliere in silenzio, non nel linguaggio ma nel suo rovescio). Vengono davvero in mente le parole di Heidegger: La chiamata non racconta storie e chiama tacitamente. Essa chiama nel modo spaesato del tacere; e ciò perché la voce della chiamata non giunge al richiamo assieme alle chiacchere pubbliche del sì, ma lo trae fuori da esse richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente. La radice della parola mito rimanda insomma alla sospensione Pulizia concerie con l'aiuto di volontari, inizio anni '90 della parola e richiama all'idea dell'annullamento del linguaggio codificato; sembra invitare il raccoglitore di segni/parole a scavare oltre la sedimentazione culturale operata sugli enti/manufatti del mondo, di strato in strato nella materia fino all'originario e silenzioso dire (die sage) inaccessibile al linguaggio quotidiano. Ora più che mai, nell'epoca globale della colonizzazione semantica, operata attraverso l'imposizione di significanti dispotici che ha portato alla spiritualizzazione dei fatti umani in un campo sovraumano surcodificante formando sistemi metafisici alienanti -teatri ideologici (Deleuze)-, è forse necessario dissolvere non solo l'Io e la catena dei significanti che lo ha costruito (dall'essere del ci a ci dell'essere) ma le parole/segni assordanti della comunicazione di massa nel paradosso del silenzio poetico. In uno spazio di pre/senso che rovescia la storia dell'uomo (L'uomo storico viene preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come fondamento di una nuova posizione storica, ma si esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere. Heidegger), per dare una nuova possibilità all'essere e in definitiva alla verità. Il mito è esattamente ciò che regola questi processi di semantizzazione del mondo, come la grammatica che delimita i confini del linguaggio. Fissa l'orizzonte possibile degli enti denominandoli (Il denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il cartellino con il nome. Wittngenstein), attraverso l'uso di regole/giochi linguistici e abitudini arbitrarie (Seguire una regola è analogo ad ubbidire a un comando. Wittngenstein) ma consolidate nella forma di vita di appartenenza. Ed è proprio contro le grammatiche del quotidiano che Wittngenstein invitava a scavare, nella vita vissuta e maneggiata che sola insegna a giudicare, ad imporsi come fondamento dei giudizi. E il giudizio può darsi solo collocandosi in queste credenze, che sono lo sfondo nel quale si collocano il vero e il falso; nel mito tali credenze calcificano e diventano senso comune, di/segni assoluti, l'aperto in cui è possibile una wetltanschauung, una visione del mondo. Scultura preistorica risalente al periodio che precede l'insediamento dei siculi ******* Il valore del mito è naturalmente presente anche nell'attualizzazione dell'antico operata da Gioacchino Bruno, servendosi delle mitologie del suo tempo per indurre il proseguimento degli scavi e ottenere quel minimo di collaborazioni senza le quali il passato rimane tale e il presente inesorabilmente povero. Organizzò allora proprio in una delle grotte che erano oggetto di scavo, in occasione della ricorrenza natalizia, un presepe vivente (mito moderno contestualizzante), che gli consentì di perseverare nella ripulitura della grotta (Ero stato pochi giorni prima a fotografarne il degrado, non potevo guardare quello schifo, dovevo fare qualcosa... Con Andrea Murè iniziai a tagliare Pulizia Grotta Fezza, ingresso di Sortino Antica sotto il piano del Castello le piante dei fichi d'india; il proprietario del terreno ci prestò una gossa ascia per frantumare la vecchia auto bruciata che vi era stata abbandonata. Cominciai a pulire vicino a un tramezzo, mi misi a togliere pietre, trovai qualche reperto con l'ausilio di una piccozza; nel giro di un mese comparve il pavimento... il proprietario mi disse che era meglio coprire il buco con le pietre che avevo raccolto. Aiutato da Salvatore Marchese e Sergio Terranovo continuai a togliere terra nella parte alta, e anche là venne alla luce un pavimento in calce. Oggi la grotta ha il nome "Fezza", è pulita e visitabile) e di concentrare l'interesse della Grotta Fezza, allestimento tipico in occasione del presepe vivente cittadinanza partecipandola nella storia di Sortino. Con tutta probabilità, senza l'artficio (che poi artificio non è) del mito della natalità il lavoro non sarebbe continuato. Così racconta Gioacchino gli eventi: L'idea nacque per portare le persone a vedere la grotta che avevo ripulito. In quel tempo ero segretario della Pro-loco sortinese... nel giro di poche settimane realizzai scritti e disegni. Andai a pulire e il 5 Gennaio portai dentro il materiale d'arredo nella grotta più alta, la mattina del 6 mi accorsi che avevano rubato tutto. Non mi arresi e il presepe si fece ugualmente. La manifestazione fu un successo ma la grotta risultò piccola per contenere l'affluenza, così l'anno dopo per l'allestimento scelsi la "Fezza". Durante i lavori di preparazione della grotta andavo a perlustrare le zone vicine, portavo con me i ragazzi e indicavo loro le testimonianze storico- archeologiche. Lavoravo alacremente. Un giorno mi misi a scavare accanto al muro della grotta superiore e comparvero reperti; li esposi in loco il giorno del presepe attaccando sulle pareti disegni e fotografie inerenti lo scavo. Il presepe era una scusa, avevo infatti raggiunto il mio scopo che era di mostrare l'opera di rivalutazione dell'area. Se avessi organizzato una mostra senza la Madonna e San Giuseppe non sarebbe venuto nessuno... La manifestazione si tenne, non sempre organizzata da me, fino al 2003. Fu l'ultimo anno, i soldi erano finiti. Ecco un esempio di come il mito raccoglie inter/esse anche nelle persone culturalmente meno preparate, predisponendo un teatro di significati in cui l'eterogeneità dei singoli confluisce e in qualche modo concorda parole/segni/cose in uno spazio estetico condiviso di valori/simboli che dà un senso raccogliendo in una medesima forma di vita. E' una specie di magia in cui davvero si viene avvolti in un'atmosfera sacra che com/muove e libera il sentimento. E il sacro non è nella pantomima ideologica della rappresentazione, ma nel condividere in maniera viscerale un linguaggio simbolico che trascende il tempo e la stessa individualità. Grotta Fezza, ingresso, pulizia e studio durante i lavori di allestimento ******* I miti sono qualcosa di simile all'imperativo di Kant e al formalismo etico dietro il quale non rimane che l'abisso (Come criterio di giudizio impieghiamo altri giudizi. Wittgenstein), lo spazio in cui si apre lo scenario del mondo, il senso e la possibilità di una comprensione. Una tonalità, un museo dello spirito nel quale si dispiegano le questioni essenziali. Il senso di vero/falso può darsi solo all'interno di questo gioco di lingua/segni, piuttosto che in un codice astrattamente normativo, in un contesto di regole stabilite che sono una panoramica perspicua della realtà, nel quale si annulla il confine tra la grammatica e l'esperienza, Io e mondo ed è impossibile accedere al significante primo (E' così difficile trovare l'inizio, l'arché, e non tentare di andare più indietro. Wittgenstein). ******* Nello specifico del mito che riguarda il territorio sortinese, viene alla luce nel suo significato di raccogliere le credenze calcificate in un contesto che le sintetizza in un senso comune, dando una dignità etnica e dunque una storia aggregante alla popolazione. Un immaginario fondante -un Totem- nel quale il senso di appartenza ad una comunità Figura fittile, San Sebastiano, trovata nella bonifica di Cugno del Muro confluisce in un gioco linguistico fantastico piuttosto che in un codice astrattamente normativo. Si è visto infatti, che proprio sulla base del mito, all'alba del disastro del 1693, gli abitanti di Sortino sopravvissuti al sisma non ricostruirono la cittadina nel vecchio sito ma sul monte Aita (più in alto) e non solo per le maggiori garanzie di reggere a un nuovo terremoto che la terra di quel posto assicurava. Sembra piuttosto che le credenze sulla maledizione di Xuto -che la leggenda vuole come fondatore di Xutinum- figlio di Eolo siano state determinanti. Racconta la storia che Xuto alla guida di una popolazione sicula, arrivò ad Erbesso ai marigini del torrente Ciccio (oggi Guccione) stabilendosi stanzialmente in quel posto. La tradizione vuole che Xuto nel visitare il tempio di Proserpina vi trovò un tesoro e pensando che la dea, moglie di Plutone, non ne avesse bisogno, depredò il luogo di culto. A causa del sacrilegio, Xuto non fu punito subito ma scese sulla città la maledizione della dea, la quale predisse un'enorme catastrofe su Xutinum tale da inghiottirla nella terra. L'immaginario popolare ci ha poi messo il suo nei secoli, tanto che le cronache raccontano (Samuele Cultrera ad esempio) di un certo padre Michelangelo che si era presentato prima del cataclisma al convento dei Cappuccini, avvertendo dell'imminenza del terremoto; fu imprigionato nelle mura e a nulla valsero gli strali di avvertimento che lanciava dalle grate. Padre Andrea Gurciullo (nelle Notizie della chiesa di Sortino) invece di suor Cesaria Celona del scrive monastero di Montevergine, la quale predisse che la tragedia si sarebbe verificata un anno esatto dopo la sua morte; la suora morì il 9 Gennaio 1693 e la coincidenza rimane indelebile nelle pagine del Gurciullo. Un evento che viene forzatamente fatto coincidere a posteriori con lo scorrere delle cose, e che dunque si radica nella simbologia mitologica dell'epoca, significando e inserendo anche lo straordinario in un codice di comprensione da parte della comunità. ******* E' per questo che Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche ripete che la metafisica non è vera ma ha comunque un senso e il suo senso consiste nell'uso dei termini che le sono propri; come pure che com/prendere significa padroneggiare una tecnica, seguire una regola. Il processo epistemologico/cognitivo è il frutto di comportamento e addestramento, un'abitudine che dipende dalla natura dell'uomo che applica quelle regole, e tali regole devono comunque essere conforme alla sua natura. Tenendo a mente che una comunità abbia concordato nell'assumere una regola non è un compromesso a tavolino, ma una prassi che si colloca in quella specifica forma di vita che è l'essere nell'umano, nelle diverse geografie e culture in cui si dispiega. Col linguaggio, anche e soprattutto con quello proprio dell'antropologia, non solo conosciamo il mito ma lo costruiamo attivamentre con giochi linguistici che sono relazioni pre/linguistiche soggette a loro volta a regole. Tali regole sono per Wittgenstein somiglianze e famiglia (in un museo schedature tematiche), estensioni di un concetto a una classe di oggetti. Comp/prendere è allora padroneggiare una tecnica, e si esplica come un'abilità manifesta ottenuta nel darsi e nel seguire una regola, ponendola a principio normativo del tutto, come paradigma di correttezza per le ulteriori applicazioni della regola stessa. Seguire una regola non significa interpretare, perché ogni interpretazione rimanda ad un'altra all'infinito, ma si pone come problema di Fase di lavorazione tecnica del plastico in gesso natura ontologica (Interpretare significa solo sostituire un segno con un altro segno. Wittgenstein). Questa applicazione è frutto di un'abitudine, di un addestramento (e l'influenza dell'abitudine non basta da sola a spiegare l'applicazione di una regola, perché essa ci deve sembrare naturale, inserita nella forma di vita di appartenenza, nel fondo mitologico aggregante di una comunità). Se l'applicazione paradigmatica è soggetta a regole grammaticali, allora è possibile intendere e prevedere il senso di una parola prima che venga enunciata (ovvero se si trova in un orizzonte mitologico di senso) semplicemente seguendo le regole grammaticali (e dunque ontologiche) a cui tale termine è soggetto (metodo essenzialmente antropontologico). L'accordo nell'applicazione paradigmatica di regole deve essere concepito come una coincidenza nelle relazioni simboliche prodotte spontaneamente da un popolo, che concepisce al di là dei tempi e dei luoghi somiglianze (vedere qualcosa come qualcos'altro è percepire somiglianze interne all'oggetto con altri oggetti). Dove ogni cosa può assumere un senso. Sempre per Wittgenstein il senso consiste (nelle Ricerche Filosofiche) nell'uso di quel termine e la verità è un luogo linguistico di segni in cui gli uomini concordano, sulla base della forma di vita che condividono, ciò che è vero e ciò che è falso. Seguire una regola è pertanto un vero e proprio salto nel buio (posizione osteggiata da Russel, Frege e il platonismo matematico), un'originaria interpretazione indimostrabile (come gli anapodittici di Aristotele e l'imperativo in Kant) dotata però di senso; laddove il senso è qualcosa che è dato dall'esterno, un porre la regola come paradigma di correttezza e universalità. Seguire una regola in termini antropologici è un agire che caratterizza il modo dell'essere nell'umano; una regola si segue ciecamente, è un addestramento avvenuto nel linguaggio ad opera di un'abitudine che deve sembrare naturale (si deve radicare nei comportamenti simbolici di una comunità). Una regola deve essere seguita più volte in più circostanze e da un insieme di persone per essere considerata valida, e così dare forma ai costumi etico/estetici di un popolo. La concor/danza nell'applicazione paradigmatica di regole è concepita come un convenire degli individui nelle relazioni simboliche; questo convenire è una concordanza da cui solo può generarsi ciò che è vero o falso; è il riconoscersi in un Totem comune, è un'induzione normativa (argomento rilevante nell'epistemologia popperiana) che fa sì che una regola o una parola/segno assuma un valore paradigmatico, quando cioè viene accettata pubblicamente e condivisa da una pluralità di regole così divenendo paradigmatica. E' una decisione (puro formalismo simile a quello kantiano), un'abitudine, un addestramento a reagire in un certo modo a certi segni; l'addestramento non può calare dall'alto, ma si deve innestare naturalmente nel nostro sistema di vita: ci deve sembrare naturale (deve inserirsi nella nostra mitologia, nel nostro essere simbolico prelinguistico), deve essere concepita come una coincidenza nelle relazioni simboliche spontaneamentre prodotte dai membri di un gruppo sociale. E' il luogo in cui gli uomini concordano ciò che è vero o falso sulla base di quella specifica forma che condividono. L'antropontologo scava e estrae dalle pietre del tempo i reperti. Mette i cocci del passato in una situazione storica e li raccoglie otticamente/semanticamente in uno spazio di senso costituito dalle relazioni simboliche che si muovono in una comunità. A tale contenitore normativo e significante (archivio mitologico: nel senso di un ambiente in cui si concorda il vero e il falso di una narrazione) diamo il nome di museo. Il museo, nel raccogliere ontologie, è un lasciar Selezione di collari ovini per l'esposizione permanente del museo essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la verità l'esserci (in quanto già sempre gettato nell'apertura storica) che entra in questo modo in rapporto con gli altri enti (Heidegger, dell'Essenza della verità, V cap.); ciò che originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la totalità dell'ente degli enti. E' uno spazio che non ha ma che dà senso (agli enti allamano-sottomano/oggetti uso-per), come in un raccogliere cielo/terra/mortali/divini teleologico che pragmatico procede alla distruzione/costruzione semantica di una cultura e di una civiltà, in cui si aprono i significati secondo un'opportunità (bewandtnis), che è la generale corrispondenza tra le cose in un fine che tutte le raccoglie, secondo una cospirazione pragmatica. Nel mito propriamente in cui ogni oggetto può essere codificato e significato, abitando il quale l'uomo eksiste proteggendo la verità. Salvo Sequenzia, a proposito di Gioacchino Bruno, così scrive in una pagina illuminata: L'occhio indagatore di G. B., spirito inquieto di ricercatore archeologo e di artista tentato dalla fascinazione di linguaggi diversi e di plurime cifrature espressive, percorre ignoti orizzonti temporali, indugia su residui di epoche e di miti, si nabissa per lente spirali nel segreto del creato, sino a riportare alla luce, fissandoli con abile capacità illustrativa ed evocativa, idoli di civiltà scomparse che si rivelano in reperti di immemorabile tempo, in sinistre, enigmatiche figurazioni che schiudono una percepibilità mitica e fantastica del mondo. Sono queste le parole da cui partire per comprendere le pulsioni culturali (e l'iter burocratico) che avrebbero condotto il 7 Maggio del 2001 all'istituzione del museo etnoantropologico di Floridia, dedicato al padre di Gioacchino, Nunzio Bruno artista, fotografo, conoscitore raffinato della storia del territorio e ricercatore di spessore (nonché raccoglitore instancabile ed esteta che ha trasformato la villa di Floridia in una vera e propria casa/museo archeologica che ancora -grazie anche alla madre di Gioacchino, signora 'Nzina- protegge dall'incuria valorizzandole le migliaia di reperti della collezione di famiglia) scomparso nel 2009. Il museo di Floridia è situato nell'ex caserma/carcere dei carabinieri adiacente la chiesa Madre riadattata secondo -e nel rispetto della pianta originale- i disegni di Giocacchino Bruno, che prevedevano l'unificazione dei vani al fine di realizzare un ampio locale in cui ospitare la carretteria (il locale più Selezione di punte di trapano importante); tali vani saranno poi messi in comunicazione con l'ex carcere per mezzo di un'apertura. Niente è lasciato al caso; Bruno nella ricognizione dell'ambiente e con l'occhio teso a sviluppare il percorso visivo così ha disposto gli spazi sulla base di un'idea evolutiva del lavoro: 1) sala accoglienza; 2) ambiente scienze rurali e ambiente della civiltà contadina (oggetti che riguardano il lavoro in campagna: aratro a chiodo ibleo, falci, zappe, forche, pale...; materiale che riguarda l'agricoltura e la caseifazione: caldaia, fiscelle, collari incampanati...; uno spazio è poi dedicato all'apicultura: arnia, marchiatori, smielatori...); 3) galleria degli studiosi; 4) ambiente delle materie prime (maestro d'ascia, fabbro, cavapietre... mestieri che hanno portato alla realizzazione di manufatti indispensabili al sostentamento); 5) cortile; 6) ambiente domestico (destinato ad accogliere il Prima esposizione riguardante il ciclo del grano, 2005 telaio e il silos cannizzu); 7) stanza del carretto siciliano (impreziosita da un tornio per la lavorazione del legno del XIX sec., appartenuto al mastru fa carretta don Salvatore Rizza); 8) angolo delle collezioni. Guardando i progetti e gli schizzi di Gioacchino colpisce non tanto il rigore sitematico dell'impianto, quanto la disposizione concettuale e l'itinerario culturale degli oggetti esposti. Leggo tra i suoi appunti: Un museo è innegabilmente sede della vicenda storica degli oggetti che esibisce, ma anche della storia di sé stesso, delle ragioni culturali e artistiche che lo fecero nascere, dalle decisioni che vi riunirono le cose, del modo col quale vennero raccolte, assommate, esposte e spiegate. Nel termine stesso di raccogliere è implicita la volontà di scegliere qualcosa da un tutto e classificarlo ordinatamente accanto ad altre cose selezionate con analogo criterio, sia esso estetico, scientifico, etnografico o quant'altro. Proprio questo è il punto: il museo è anche la storia di sé stesso. E' Pannello con punteruoli, scalpelli e contenitori vari, 2005 uno spazio in cui si apre lo scenario di un mondo, il senso, la possibilità di una comprensione e dunque dove si dispiegano le questioni fondamentali. Nell'apertura mitologica in cui è possibile il giudizio e dove le credenze diventano senso comune, una visione del mondo; raccogliendo secondo un'ottica prospettica il materiale repertato ed organizzato semanticamente seguendo quelli che sono giochi di lingua, denominando gli oggetti ed inserendoli nello specifico di una forma di vita (Il denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il cartellino con il nome; Wittegentein). Ed è proprio in questo raccogliere denominante che si rivela l'attività dell'antropontologo, con un agire nient'affatto arbitrario Tornio XIX sec., esposizione 2005 perché si fonda nella natura stessa degli uomini che concordano in un medesimo gioco di regole il vero e il falso sulla base della cultura di appartenenza. Il museo è allora propriamente uno spazio artificiale e mitologico, la spiritualizzazione in un campo sovraumano dei surcodificanti primari che fondano simbolicamente i sistemi metafisici (i concetti, i valori, i costumi), un raccogliere teleologico di significanti e quasi un addestrare l'occhio: A tal riguardo emerge con tutto il peso della sua responsabilità, il ruolo fondamentale di colui che deve organizzare gli oggetti in un sistema espositivo significante di tutto ciò. Selezionare e ordinare un'esposizione per decodificare i significati e per recuperare nella loro definizione storica i tratti salienti di un percorso, cioè l'itinerario di visita che induce a incontrare gli oggetti nell'ordine stabilito dal curatore (G. Bruno). L'antropontologo istituisce allora nel suo percorso museale Ricostruzione camera da letto del massaro, 2005 le regole paradigmatiche, quali risultato di un accordo nelle relazioni simboliche di una comunità e come concor/danza nella verità storica. Concepito come una grammatica dell'essere che è nelle cose/reperti, il museo fissa l'orizzonte possibile di un termine/segno (la verità, lo spazio ontologico) delineando i limiti di sensatezza della denominazione degli oggetti nel relazionarli (passaggio dalle parole alle cose) alla realtà. Quando Gioacchino appunta che emerge con tutto il peso della sua responsabilità il ruolo fondamentale di colui che deve organizzare gli oggetti in un sistema operativo, allude proprio al ruolo ontologico della grammatica del vedere, nel fatto che essa non si fonda più nella struttura della realtà (ma è semmai tale grammatica a fissarne la struttura), non però come qualcosa di arbitrario perché si attiene alla natura di chi se ne serve, ai comportamenti di chi nello specifico di un linguaggio (nel nostro caso etnoantropologico) si conforma alle regole grammaticali. E difatti sottolinea sempre Gioacchino che la prima difficoltà da risolvere consiste nell'individuazione del percorso, in base al racconto che evince dalla collezione. Gli obiettivi che bisogna focalizzare sono le linearità del racconto e le singolarità di alcuni oggetti. Da una collezione generica e eterogenea bisogna far emergere un tema o un racconto che crei armonia e faciliti la comprensione degli oggetti, dove il fattore umano costituisce il motivo della loro preziosità. Alludendo al fatto che posti gli oggetti un uno spazio comune, saranno poi quegli stessi reperti (sulla base di un significante condiviso) a riorganizzarsi secondo regole autonome, che vanno al di là di una semantica brutalmente sedimentata in significati che regolano in maniera essenziale il rapporto nome/cosa (e dunque surrettiziamente il passaggio dalla parola alla cosa), come una relazione deterministica e induttiva, che è poi l'ottica e la cultura con cui ordiniamo le cose, una credenza. E allora definito il filo narratore, che unifica la quantità degli oggetti, fra essi emergeranno alcuni (di solito i più ricchi di qualità estetiche e storiche), che svolgeranno un ruolo cardine nell'articolazione del percorso (G. Bruno). Carretteria, esposizione 2005 Come infatti l'occhio che percepisce ha regole proprie che prescindono dal fatto cognitivo (è esperienza di tutti che, nonostante la coscienza dell'integrità del legno, posto un bastone in acqua questo è comunque percepito dall'occhio come spezzato), così i reperti (l'essere nell'ente/reperto) pur contestualizzati in un'ottica culturale (inventario) atta a costruire un codice di lettura (e in esso un'assiomatica sociale, una metafisica dei costumi che imprigiona l'essere nell'umano in identificazioni immaginarie asservite in ultima analisi alla produzione capitalistica) apre a flussi decodificanti distruttivi che superano gli sbarramenti dei codici linguistici (Deleuze). Certamente il museo è un teatro ideologico/mitologico, ma gli oggetti predispongono aperture che rompono il monolite significante/significato e offrono nuove possibilità di lettura all'interpretazione. Oltre la dispotica mitologia surcodificante, liberando come in uno scavo ontologico il segno per mostrarlo in ogni angolo, quelli finora inaccessibili alla lettura metafisica delle cose a cui l'irrigidimento semantico ci ha abituati. E allora il problema rilevante messo in luce da Gioacchino Bruno, come si devono esporre gli oggetti?, ripercorre in qualche modo i sentieri della domanda fondamentale perché l'ente e non piuttosto il nulla? Libera l'essere dalle catene e conduce su sentieri inesplorati al seguito delle tracce della storia. Angolo dedicato al mestiere del calzolaio ******* Compito dell'antropontologia è la distruzione di tali miti e credenze, di smascherare le confusioni concettuali operate col linguaggio nel suo reperimento fazioso di termini che intendono spiegare la causalità dei fenomeni, il passaggio dalle parole alla realtà (Hume). E allora Wittgenstein parla legittimamente di ruolo ontologico della grammatica, quello che fissa l'orizzonte possibile di un termine (la verità, lo spazio ontologico), i confini della sensatezza dei segni/parole. Se dunque la grammatica non si fonda più nella struttura della realtà, non è comunque qualcosa di arbitrario: la grammatica (la lingua museale delle cose) si attiene alla natura di chi se ne serve, ai comportamenti di chi nel linguaggio segue le regole grammaticali. Non si possono insegnare i giochi linguistici se il referente non condivide la nostra mitologia, che è l'abisso pre/linguistico e simbolico di un gruppo sociale (un Totem), come pure non c'è una relazione magico/causale tra segno e l'oggetto significato (e tra la parola e la cosa denotata). Questo si verifica solo nello spazio (archivio) pre/culturale del mito (inventario), dove significante e significato si uniscono a fondare le istituzioni (schedatura), il sacro di una civiltà (L'uomo storico viene preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui abbandonata... e viene ricercata la veità dell'essere come fondamento di una nuova posizione storica, ma si esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere. Heidegger). Il circolo ermeneutico antropontologia come ermeneutica dell'essere nell'uomo Il mondo è un tessuto di enti (um-welt), un contesto di rimandi che trova nel chi dell'esserci la propria giustificazione e il proprio senso (Heidegger). E' nell'uomo che il mondo ha il principio di ragione e fondamento (grund), inteso come causa finale dei rimandi, quello che non trova più opportunità in qualcos'altro; l'a-che-fare primario privo di fondamenti (ab-grund). E' vero che il mondo si regge sull'esserci, ma l'esserci non si regge su niente (è sospeso nel nulla), nemmeno su se stesso. Il principio di ragione è certamente sufficiente, ma la ragione non è mai sufficiente a se stessa: dietro ogni morale e alle forme di vita che la presuppongono (anche solo come giudizio sintetico a priori) si muove il vuoto dell'assenza, un salto nel buio legittimato però dalla forma di vita di appartenenza. La mondanità (che è la contestualizzazione del mondo) rinvia dunque, attraverso la struttura generale dell'opportunità, all'esserci come causa finale, nel senso che i rimandi è là che si orientano come principio (in-grazia-di -cui) e fine (invista-di-cui) rivelando l'uomo nella dinamica ambigua di apertura/chiusura, luce/ombra, avanti/indietro, senso/non senso. Se qua ci fermassimo da Protagora non ci saremmo però mossi gran che. Secondo Heidegger tuttavia l'uomo non è solo la misura di tutte le cose perché il rapporto col mondo prima che ontologico è ermeneutico, ed ha una natura semantica. Tradotto in termini generali questo significa che tra interprete e cosa interpretata si apre uno spazio di accordo mitologico che è un orizonte di senso. L'apertura ha Plastico in costruzione un'esistenza propria e là si giunge ad opera del linguaggio e della visione per mezzo dei quali è possibile incontrare il mondo; considerando che la visione (sicht) non è altro che un allargamento ontologico della parola. Perciò linguaggio e interpretazione, ascolto (Chi vuol comprendere deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa. Heidegger). L'interprete parla all'ascolto dell'essere e l'essere si appropria dell'interprete in uno spazio di gioco che mortifica l'uomo nel suo desiderio trascendente di verità. L'essere non è infatti una conquista positiva, ma si presenta come avere da essere, fallimento pro-gettuale; toglie il respiro e la parola. Perché nell'ascolto del silenzio nulla v'è più da dire e niente si può enunciare, come nella verità di quella voce che è detto/non detto, il vero/non vero, il senso/non senso. Il mondo va vissuto piuttosto che pensato o contemplato; nel mondo ci si trova (befindlichkeit) storicamente a vivere, da sempre Plastico su committenza, 50x70cm gettati in un ci affettivo e tonale. L'uomo non è affatto dentro un contenitore ma fuori, in una relazione esistenziale (erotica come in-essere) nell'aperto tra gli enti (Questa familiarità col mondo non pretende necessariamente una perspicuità teoretica delle relazioni che costituiscono il mondo stesso. Heidegger), nel trovarsi concreto che non è più l'apriori kantiano ma un esistenziale, una struttura dell'esserci; nell'essere gettati nella situazione di un pro- (pre, vor) getto che condiziona anticipandole comprensione e interpretazione. Anche la comprensione (e quindi la visione) si rivela quindi fortemente tonalizzata, come un trovarsi a comprendere in una pre-comprensione da sempre familiare, un versthen che è in una stimmung, in un'atmosfera. ******* Tra gli scritti di Gioacchino Bruno a proposito dell'idea della realizzazione del plastico che raffigura la Sciuttinu vecchia, trovo appuntato: L'idea nasce dal bisogno. Mi serviva vedere a tre dimensioni la Costa Sortino (così si chiama attualmente la contrada dove si trovano i resti del sito archeologico); in questa costa a grandi gradoni prospicienti il fiume Guccione si scorgono qua e là innumerevoli testimonianze architettoniche intagliate nella roccia: grotte grandi e piccole, grotte naturali e artificiali, anfratti perfezionati, nicchie ed archi portanti, tramezzi e pavimenti, tanti modelli di canalette per l'acqua, scale costruite e intagliate, gradoni e gradini, testimonianze dell'antico villaggio rupestre (diventato Borgo e poi Comune). Dopo averla perlustrata diverse volte nella totalità, mi sono dedicato a porzioni di essa, per studiarla fino in fondo. Successiva alla ricognizione dei testi e documenti e quella sul campo, viene insomma il momento della ricostruzione, attraverso un'archeoermeneutica dei linguaggi del passato che si sono assorbiti attraverso una consuetudine che ha reso familiari quei codici estetici. Sopra si è sottolineato come Gioacchino abbia talvolta vissuto nello scavo e nelle grotte, quasi a calarsi anche con le emozioni nella vita dell'epoca. Da questa che Heidegger chiama familiarità (essere-in) col mondo è potuta svilupparsi agevolmente la ricostruzione del sito, con una naturalezza che va al di là della comprensione intellettuale delle cose. Una visione globale che è derivata a Bruno nell'essere-già nel mondo antico, in quella relazione di familiarità che è un trovarsi (befindlichkeit) in una situazione. Condizione necessaria per ogni possibile Primo plastico in argilla, 40x30cm successiva comprensione delle cose, essendo il comprendere sempre prederminato da una precomprensione, da una relazione precedente familiare con l'oggetto affatto intellettuale. Se allora partiamo dalle parole di Heidegger: Ciò in cui l'esserci in questo modo si è già sempre compreso, o di volta in volta si comprende, è ciò con cui esso è originariamente familiare, viene facile pensare alla naturalezza con la quale G. Bruno abbia potuto sviluppare il plastico Come un puzzle -nella memoria- che si deve comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie... traformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione pianta, cartina, plastico, sculture per vedere quello che non cìè più nella sua totale integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa che non c'era -questo fu lo stimolo, io volevo vederlo-. Condizione necessaria all'antropontologo nella sua archeoricostruzione è insomma il trovarsi in una situazione immerso in una dimensione globale preintellettuale, come una lingua o un vestito che si porta addosso dalla nascita, da cui sola può nascere un'interpretazione. Simile ad un circolo (ontologico prima che ermeneutico) che avvita la conoscenza intellettuale in quella prefamiliare. Proprio questo è il senso con cui accostarsi alla più corretta lettura di questo illuminante passo di Gioacchino: L'archeologo vuole scendere verso scale sempre più dettagliate per capire l'aspetto locale, individuale e concreto del singolo contesto, che spesso conferma ma più spesso ancora smentisce le certezze delle grandi sintesi... esse appaiono agli occhi degli esperti (dall'archeologo al topografo allo stratigrafico) in modo assai più netto, vivace e drammatico che non nelle fonti letterarie. Intuizione che delinea non solo una precondizione intellettuale di una ricognizione archeostorica, ma una precisa intenzionalità tonale/estetica pure nella successiva ricostruzione globale. Lavorando al plastico concepito come un puzzle da assemblare, sembra insomma essere stata assolutamente determinante la condizione ontologica dell'essere-nel-mondo da parte del progettista/scultore. Riordinando in una relazione di senso gli enti che vengono ambientati non in un contesto fisico o spaziale, ma primariamente familiare/affettivo, in un'atmosfera semantica che si organizza attorno all'uomo e alla sua storia. Una vita scandita ogni giorno dal lavoro e dalla fatica, fatta di case finalizzate al recupero delle energie e di attrezzi che -tutti nessuno escluso, pure quelli ludici nel significato di indurre uno svago rigenerante- avvolgevano l'essere nell'umano negli esercizi di sostentamento del quotidiano. L'in-grazia-di-cui di cui parla Heidegger, in quanto senso di tutti gli enti che gravitano intorno all'uomo con un'intenzionalità pratica (come enti/attrezzi/utensili allamano/sottomano), entrano perciò in relazione non tanto con l'uomo inteso come essenza biologica o metafisica, ma nell'essere nell'umano che nello specifico del mondo rurale, era il lavoro. Significante primo sostantivante l'essenza stessa dell'uomo in ogni epoca (ed oggi nell'era globale di una surcodificazione strumentale agli interessi capitalistici di una ristretta elité che controlla i sistemi primari della lingua attraverso l'informazione di massa, scomparso tale significante dal senso comune delle cose, si sono amplificati malesseri sociali a detrimento dei diritti fondamentali). Come in puzzle Gioacchino ha proceduto nella costruzione del plastico, ed ogni tessera è portatrice di uno specifico lavoro, di una singola attività: Così facendo blocco dopo blocco fino alla fine. Mentre intagliavo i gradini facevo pure le case, i muretti a secco delle strade; intagliavo e coloravo, tracciavo e scavo. Man mano che realizzavo mi davo tante spiegazioni di tutto quello che avevo letto in merito al paese distrutto. Assemblando, riunendo, unificando in un senso comune gli oggetti che è l'utilizzabilità delle cose. Una sedia è in una stanza in modo molto particolare; non sta in qualsiasi punto ma in un posto preciso, e dunque è stata programmata per stare vicino al tavolo, secondo un orientamento di senso. Le cose, tutte e nessuna esclusa, sono sistemate seguendo un ordine e se qualcosa è fuori posto nella stanza l'abitante/proprietario si accorge subito che questo qualcosa è stato spostato, in quanto l'ha collocato in quel posto perché là deve stare, è stato concepita per stare là Primo plastico completato e non altrove. Come le cose non sono dentro la stanza come semplice-presenza, così nella ricostruzione a posteriori di uno spazio non geometrico ma ontologico e esistenziale i reperti vengono sistemati l'uno presso l'altro secondo una profonda familiarità. L'in essere delle cose definisce propriamente le forme e le strutture del ci, cioè le forme della presenza dell'esserci, che sono indirizzate alla prassi del quotidiano negli esercizi del lavoro. Il plastico si configura allora non come un restringimento dell'originaria conformazione storica, ma in quanto bisogno (l'idea nasce dal bisogno) di allargare la prassi come a dilatare la familiarità con le cose: Le carte sono importanti, ma non tutti hanno la competenza per trasformare linee, punti, stelle, cerchi e forme di una carta topografica in cose. Facendo il plastico per me l'ho fatto per tutti (G. Bruno). ******* Nel mondo, aperto come maglia di enti (enti che hanno nell'esserci il referente), la totalità dei rimandi si organizza in quell'opportunità (bewandtnis) che è il cospirare delle cose, il loro organizzarsi per un fine comune. Il comprendere, nascendo da questa opportunità (presente come un'incognita) genera la significatività (bedeutsamkeit) come condizione di possibilità dell'interpretare (e del comprendere). Questa significatività è non altro che la totalità di opportunità come viene concepita dalla comprensione, l'in-vista-di-cui, ciò per cui si apre un mondo, il luogo ontologico che dischiude i significati (Nella comprensione dell'in grazia di cui è contenuta anche la significatività che in essa si fonda... La significatività è ciò in vista di cui viene schiudendosi il mondo in quanto tale. In grazia di cui e significatività sono dischiusi nell'esserci. Heidegger). Ogni senso possibile ricade sull'uomo perché il suo senso è un non senso, il suo fondamento (grund) una mancanza di fondamento (ab-grund), il suo essere il nulla (Lo sfondo è accessibile solo come senso, anche se fosse l'abisso stesso della mancanza di senso. Heidegger). In quanto l'essere non è una sostanza trascendente ma la presenza immanente di un'assenza surcodificante nelle cose. Quando Heidegger annuncia l'esserci come pro-getto, rivelandolo nella dinamica chiaroscurale dell'avanti/indietro, del detto/non detto, visto/non visto (di un pro- che ricade su di sé, di un comprendere che ritorna circolare al suo trovarsi: L'esserci significa se stesso... il proprio essere e il proprio poter essere. Heidegger) allude al circolo (ontologico prima che ermeneutico) ineliminabile che configura l'uomo come desiderio di realizzare e realizzarsi, attuare e attuarsi (progettualità). L'ente che nel richiamo avverte il peso dell'essere, si delinea allora come una possibilità gettata e deietta, l'esserci prigioniero del suo ci. Centro del paese della Sortino Medievale, dal libro di Gioacchino Bruno ******* Tra le carte di Gioacchino Bruno è venuto alla luce un passo che chiarisce bene, nel suo ricostruire plasticamente un mondo, come l'organizzazione dello spazio fisico abbia disposto una causa finale attorno a cui gli enti oggetti/attrezzi/utensili cospirano a significarsi; e l'uomo -come una calamita che li attrae ordinandoli in un significato- in quanto ciò in vista di cui si apre il senso delle cose: Lo sviluppo degli oggetti esposti deve seguire, per quanto possibile, l'evoluzione dell'uomo... gli utensili/attrezzi/macchine che deteniamo alloscopo di tutelarli e renderli fruibili, sono stati concepiti e prodotti dall'uomo, dopo una serie di esperienze di vita vissuta a contatto con la natura, conoscenze delle materie prime che risalgono a milioni di anni. Il legno, la terracotta, il ferro hanno permesso all'uomo di agevolare l'approvvigionamento alimentare. La pietra, il vetro, il rame, lo stagno... hanno contribuito a facilitare la "vita". La vita appunto; dura come a volte sa essere, sempre faticosa, scandita dai cicli sfiancanti dell'aratura o del raccolto, tra le puzze delle stalle e con la schiena rotta. Facilitata dall'ingegno dei maestri artigiani, dall'intagliatore di pietra al maestro d'ascia, al fabbro, dal ceramista al carrettiere e addolcita dai sapori che la terra sa dare. Il miele degli apicoltori (diffussimo e di qualità nel territorio sortinese), i dolci (sanfurricchi ottenuti dalla lavorazione del miele, e la 'nfigghiulata a base di fichi secchi o più raramente all'epoca di salsicce), i formaggi (ovini, di mucca o d'asino), il pane, il vino. Abbellita dai canti e dalla musica agropastorale (ad esempio col friscalettu, flauto artigianale che accompagnava i pastori nelle trasumanze), meravigliosa, profonda, vera. E in tutto questo ci sentivi la vita, le mani che ogni giorno aravano e impastavano sapori e odori, e gustavi ogni cosa, te Particolare del plastico, parte centrale del paese la tenevi stretta, perché la miseria, la fame erano in agguato e la morte la respiravi ineffabile ogni gorno. L'essere-allamorte avvolgeva il paesaggio come una nube di placida rassegnazione, e il tempo era un'attesa che liberava dalla malattia e dal peso dell'esistenza. Nel plastico di Gioacchino, ricercatissimo e minuzioso in ogni parte ci senti davvero l'assoluto dei valori estetici e esistenziali del mondo antico, la desolazione dell'uomo di fronte alla ineluttabilità della fine, ma pure una calma inumana, non certo di rassegnazione, quanto di tacita consapevolezza di essere parte del ciclo vitale, come quando all'imbrunire si torna a casa a riposare e capita di non svegliarsi. Nella scultura ci vedi l'angoscia chiaroscurata di certi quadri di Hopper, ma pure la calma serenità di un paesaggio desolato di Carrà in cui è l'essere nell'umano che incombe a renderlo quasi inumano nei silenzi, o le città senz'anima con urla che non si sentono ma che avverti come in un brivido di Sironi. ******* Il comprendere è ciò per cui l'esserci progetta il proprio essere su delle possibilità che ricadono su se stesse, prigioniero di una pre-comprensione che lo tiene legato nella sua situazione, nei pre-giudizi e nei pre-concetti. La mente non è una tabula rasa ma plena; il comprendere un movimento che si rigetta su di sé, in un pro- che limita il bisogno di infinito. E questa non è in fondo la dinamica hegeliana dell'idea? Secondo Hegel è infatti il movimento è il cuore della dialettica e il motore della realtà: l'essere non è una sostanza più o meno irrigidita, ma uno streben, il dover essere nel richiamo imperativo alla coscienza, autoprocesso e automovimento; lo spirito un'autogenerazione che crea la propria determinazione per superarla chiaramente in una circolarità che fonde il finito e l'infinito, il principio e la fine, il particolare e l'universale. Il reale ha per Hegel una venatura malinconica, è un processo che si autocrea distruggendosi (da operari sequitur esse, a esse sequitur operari) nel riflettersi in se stesso. Come nel percorso che porta dal seme all'uomo, anche nello spirito è sempre la stessa realtà (idea) che va attuandosi (come essere in sé, fuori di sé, in sé e per sé); e questo significa che si passa dialetticamente dai limiti dell'intelletto (tesi) alla ragione, la quale smuovendone la rigidità rovescia (antitesi) quanto era là venuto in luce, fino all'infinito dove s'incontra lo speculativo (aufheben) che è il momento dell'incesto Reperto trovato durante la bonifica di Cugno del Muro, 2009 filosofale e dell'unità dei contrari (sintesi), la riaffermazione del positivo mediante la negazione del negativo propria delle antitesi dialettiche (Il mistico che toglie e conserva, che è come un trionfo bacchico in cui non c'è membro che non sia ebbro. Hegel). Di questa struttura risentono ovviamente anche le proposizioni filosofiche, per le quali è l'essere stesso (l'è, la copula) ad esprimere assumendolo il movimento dialettico in cui il soggetto passa nel predicato a costruire un'identità dinamica (togliendo e superando la differenza di entrambi). Più che altrove è forse in questo delirio che viene alla luce la circolarità di senso che unisce l'uomo al mondo (come senso e finalità), all'essere e alla verità. Il senso è un cerchio chiuso/aperto sostanziale all'uomo, non ha senso ma dà senso proprio come l'interpretazione che si muove nel pre- e deve avere già Reperti provenienti dalla pulizia dello smontaggio macerie all'interno del nucleo Cannata compreso quello che desidera interpretare. In questa meccanica Io/mondo/Io nell'identificazione autocomprensione dell'avanti/indietro, circolare (e che di muove evidente comprensione dal e comprendere all'opportunità e dall'opportunità al comprendere), emerge la significatività che gravita attorno al senso dell'uomo, e che fa dell'esserci la condizione della possibilità ontica della svelabilità dell'ente, quasi il motore immobile (mobile) dell'universo aristotelico/tolemaico. Gettato nella tonalità emotiva (stimmung) ognuno avverte l'essere come un peso (come aver da essere), una possibilità da attuare, trovandosi in una comprensione articolata come visione (sicht, spectio) e che risente inevitabilmente di quella familiarità col mondo che oscilla tra l'in-grazia-di-cui (pre, pro, vor) e in-vista-dicui (in quanto, als) tra il dentro e il fuori, il chiuso e l'aperto. Per essere chiari: il comprendere si articola in una sicht che è il comprendere nella forma progettuale, mentre la significatività si rivela come pro-spettiva, visione del mondo. Sfondo mitologico-culturale. ******* E' forse proprio questa la chiave di lettura per spiegare l'enorme quantità del lavoro di Gioacchino Bruno e la mole Miscellanea reperti della Sortino Antica degli scritti (appunti, diari, note, taccuini, schizzi, fotografie, sculture) che fanno parte dell'archivio di famiglia. Il peso dell'essere, la vita nella sua insostenibile pesantezza: Io sono un creativo, devo fare qualcosa, di comuntinuo, che riempia il tempo, che produca curiosità, che aiuti a comprendere le attività dell'uomo. Devo fare qualcosa che sia utile, che serva, che abbia uno scopo concreto. Si parte dall'uomo e si torna all'uomo, non esiste un'archeolettura senza questo fondamentale presupposto, non può darsi alcuna interpretazione: Selezionare e ordinare... per decodificare i significati e per recuperare la loro definizione storica... l'itinerario che induce a incontrare gli oggetti nell'ordine stabilito dal curatore/archeologo. All'interno di un circolo di apprendi/mento che muove dall'Io alle cose in un'unità di senso che unisce l'uomo e il mondo. L'interpretazione di un'epoca deve avere in qualche modo già compreso ciò che va a interpretare, e l'occhio per quanto dilatato dall'obiettivo della ricerca e dalla sensibilità estetica a fatica riesce ad aprire spiragli, come a calarsi in una storia a cui da sempre appartiene e a cui è possibile la confidenza delle domande (E' ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della storia economica e sociale antica si giochi sul significato da attribuire a questi piccoli siti. G. Bruno). E lo fa con le mani intagliando e incidendo la materia, perché per Gioacchino Bruno ragionare è scavare (Non si tratta di fare una scommessa, quanto di fissare sul terreno l'esito di un ragionamento. G. Bruno), interrogare la pietra, impastare l'argilla, incidere il gesso cercando di estrarne una lingua profonda sedimentata nei terricci, quella che nei secoli ha raccolto i segni fondamentali dell'esistenza. E solo allora è possibile lo studio di un sito archeologico, la sua scoperta, fino all'ultima elaborazione concettuale del plastico. Per prima cosa feci un miniplastico in argilla della montagna con su scolpite delle piccolissime case. Preparai pio le carte per fare i modelli. Come materiale scelsi dei pannelli di gesso (50x70x8), quelli che si utilizzavano per le tramezzature di ambienti. Partendo dalla base, cioè la parte alta del fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie di scalinata, calcolai che successivamente dovevo intagliare le case... La posizione del Castello, dominante su tutto, con al suo fianco la torre, adesso si poteva ammirare in 3D... Per la parte manuale ho impiegato 12 mesi, mentre il progetto nella sua totalità è stato sviluppato nel corso di cinque anni. E' stato acquistato dal Gal Val d'Anapo per esporlo nell'Antiquarium sortinese, presso il convento del Carmine di Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso dell'aiuto dell'artista Vincenzo Pane. Attualmente è posteggiato accanto all'ufficio tecnico del comune di Sortino (G. Bruno). ******* E dunque: la conoscenza nasce dalla sicht, ma la visione è solo un particolare modo di vedere e il vedere a sua volta del comprendere. La più importante forma della sicht è la umsicht (vista, sguardo orientato, visione pragmatica) del besorgen (circospezione del pro-curare), che corrisponde alla pratica col mondo ed è in termini ottici l'esplorazione dell'ambiente per fini pratici, la visione globale panoramica di una situazione, l'uso della visione globale e panoramica per prendersene cura. Questo per dire che anche una scienza come quella filosofica, che privilegia il primato della visione (come contemplazione e teoria, la speculazione), può avere origine nel vissuto concreto e situazionale, storico (con ciò intendendo che è solo dalla visione pragmatica che può emergere una visione particolare come quella teoretica). Perché così è la natura dell'uomo: se vuole il cielo deve cercare in terra, se desidera l'essere nel nulla, se cerca la teoria deve sprofondare nella prassi. Allora: l'esserci è un progetto gettato, una possibilità mai attuata; la visione ha una vocazione al ritaglio e il linguaggio la pulsione a Grotte Cannata con rilievo del terreno all'ingresso autocensurarsi. Alcuni derivati della sicht (hinsicht, ansicht, aussicht) manifestano questa inedeguatezza della prassi visiva a cogliere l'insieme e la totalità dell'ente; l'aspetto è propriamente la percezione del particolare, quella che lascia venire incontro lo specifico del mondo che già ci appartiene e conosciamo. Esiste naturalmente anche un vedere libero dalla rimandatività (l'ispezione, hinsicht o inspectio), ma è comunque un comprendere privo di finalità pratica (procurante) e di intenzionalità. Come dire: cerchi l'essere? E' nella forma di vita umana che devi guardare, nella sua mitologia e istituzioni; vuoi comprendere il senso di qualche cosa? Ebbene il senso è un esistenziale ed è perciò nell'esserci che devi sprofondare; guardi il cielo alla ricerca della verità e non ti accorgi che è nella terra che devi scavare. Ma questo già Kant (e ancora prima Socrate) lo aveva anticipato quando rinveniva nell'essere umano (e quindi nella sfera pratica) la causa noumenica inaccessibile teoreticamente. Torniamo però all'aspetto; questa struttura ha due fondamentali articolazioni, l'in quanto (als, per il quale qualche cosa è percepita per un uso particolare e pragmatico, ed appartiene quindi alla umsicht) e il pre- (vor-). Da parte sua il comprendere è il modo (come in quanto) con cui l'esserci progetta il proprio essere su delle possibilità (Il comprendere nel suo carattere progettuale costituisce quella che chiamano spectio dell'esserci. Heidegger), ma l'in quanto risolto nell'ottica del comprendere (nella sicht) diventa pro-spectio (vorsicht), prospettiva, getta cioè la sua ombra sul futuro guardando al passato e così determinandolo. La vosicht è il modo di estrarre da un contesto un ente allamano assumendolo come in quanto, per un uso pragmatico (qualcosa in quanto qualcos'altro, che è la struttura della rimandatività). L'interpretazione si muove nell'in quanto come la comprensione nel pre- (Nell'interpretazione il comprendere si appropria del compreso; l'in quanto è la struttura del compreso. Heidegger), ed è un modo di vedere secondo un'ottica, un interesse e una passione. Ma è proprio in questa polarità tra Pulizia Grotta Fezza, 6 Gennaio 1994: "Allora mi misi a togliere la terra nella parte più alta, anche qui trovai il pavimento in calce" attività e passività (pre- e in quanto) che viene alla luce il pro-getto, il procedere statico all'interno di una sicht (pro-) che ha nell'esserci concreto e fattuale (-getto) il suo senso e il suo non senso; perché il senso (lo spazio ontologico inteso come condizione di possibilità) gravita attorno all'uomo (l'essere, la verità, la libertà) come l'in vista di cui che rende possibile la comprensione di qualche cosa (Senso è l'in vista di cui che si struttura in pre-possesso, pro-spezione, preconcetto di quel progetto a partire dal quale qualcosa diventa comprensibile in quanto qualcos'altro. Heidegger). E questo qualcosa in quanto qualcosa, che è il perimetro entro cui si muove l'interpretazione pragmatica, trova nell'esserci il senso e la finalità e nella umsicht il fondamento (l'in quanto ermeneutico che si articola in vorhabe pre-possesso o trovarsi, vorsicht pro-spezione o comprensione, vor-griff pre-concetto o parlare). Tradotto in termini più generali ciò significa che quello che cerchiamo dobbiamo in qualche modo averlo già compreso, bisogna sapere quello che si cerca per poterlo trovare, nel senso dell'apriori in base al quale delle cose conosciamo unicamente ciò che in esse vi mettiamo. ******* Nello specifico del plastico di Sortino Diruta si sente davvero tutta la storia di questa terra nel suo ciclo naturale e dello scorrere archeovisivo del panorama nelle diverse epoche, dagli albori dei primi insediamenti, fino quasi ai gorni nostri. E il circolo uomo/mondo lo vedi negli intagli e nei colpi di pennello, nella cura dei manufatti in cui la mano dell'autore si percepisce come un segno che incide i significati, e nella minuziosità di un paesaggio in cui avverti quasi i mutamenti geologici, l'acqua che scorre, le crepe aperte nella terra. Così Gioacchino Bruno descrive la mutazione socioantropologica avvenuta: Il processo evolutivo dell'uomo abitante l'isola di Sicilia ha seguito il processo di conoscenza che è progredito nell'intero bacino mediterraneo. Basandoci sulle ricerche scientifico- archeologiche si può affermare che più di 20.000 anni fa l'uomo abitava le grotte, era un raccoglitore ed un allevatore; nonché cacciatore, ossia si nutriva di frutti e bacche, frequentava i litorali costieri per raccogliere frutti del mare e crostacei. Conosceva la trasformazione del latte (caseificazione) e aveva negli ovini una bastevole riserva di proteine e vitamine derivante dal consumo delle carni. Sfruttava le pelli per ripararsi dal freddo, ed utilizzava le ossa per produrre utensili vari. Diversi autori antichi riferiscono che durante le prime colonizzazioni fatte dai Fenici e dai Micenei, un certo Jolao portò in Sicilia la cultura della coltivazione della terra, che i Sicani ed i Siculi fecero propria. Con l'agricoltura arrivò in Sicilia pure la tecnica di come costruire le capanne. Queste quattro esperienze hanno innescato un processo che permetteva agli abitanti di una certa area di stabilirsi stanzialmente in un luogo.Premettendo che il posto scelto doveva avere almeno due caratteristiche fondamentali: 1) l'acqua potabile nelle strette vicinanze; 2) una modesta area vegetativa che permetteva la sussistenza. Il fuoco, l'argilla e la scoperta di metalli sempre più duri permisero all'uomo di progredire nelle tecniche descritte. I vari popoli che hanno colonizzato la nostra isola hanno portato usanze che i siciliani nel tempo hanno poi assorbito. Il Medioevo è stato l'anticamera della cultura materiale siceliota. Il feudalesimo, i Baroni, la religione ed il popolo siciliano hanno radicato determinate usanze, praticandole fino alla II guerra mondiale. Da quel periodo è iniziato, in Sicilia come nel resto d'Europa, un processo nuovo, "l'industrializzazione", che ha comportato la modifica delle pratiche di vita quotidiana consolidate da secoli. -Il mio scopo è proprio quello di far conoscere tale iter socio-etno-antropologico (documentato con cartine geografico/storiche i diversi passaggi delle civiltà).L'allevamento del bestiame è stato il primo passo che l'uomo ha fatto per usufruire del mondo animale e vegetale che lo circondava, e conservare riserve alimentari per i momenti di carestia. Di conseguenza il formaggio e la ricotta possono dirsi alimenti primordiali. A seguire, partendo dal Medio Oriente (Mezzaluna Fertile), la coltivazione della terra fece in modo da rendere stanziali gli insediamenti umani; a cominciare dai primi stazionamenti preistorici, i Villaggi. Il progresso delle attività collaterali a questi stanziamenti ha portato a intrecci di varie tecniche e l'uso di svariati materiali reperiti sul posto. L'intreccio è ad esempio un'arte antichissima, come pure i primi vasi di terracotta che sono stati eseguiti facendo il calco su canestri di materiale vegetale aggrovigliato; la corda che veniva usata dai siculi per calarsi nelle ripide pareti a strapiombo e scavare le celle funeraie. L'intreccio di verghe per formare un contenitore ad olio e vino, che sono pure essi prodotti di una tradizione antichissima. E a seguire il telaio, il bottaio, lo stagnino. Per favorire lo scambio di merci e prod9otti tra le varie comunità, fu fondamentale la realizzazione di un mezzo di trasporto, il carretto, coi tre maggiori artigiani che concorrevano alla sua realizzazione: il carradore, il fabbro e il maestro d'ascia. ******* L'esserci non è però un soggetto trascendentale e statico, ma circolare, dinamico e vivo; nella sua parte si trova il tutto, nel presente il passato e nel passato il futuro. Tale continuo rincorrersi e fuggirsi è in definitiva la meccanica Piattino in latta di epoca Medievale, rinvenuto nella pulizia di Grotta Fezza dell'ermeneutica: l'interprete oscillando nel cerchio tra chiuso e aperto, tra finito e infinito, si muove ambiguo di qua e di là verso il polo dell'in vista di cui (ritrovandosi ad ogni momento come finalità) e quello dell'in grazia di cui (per amore di), con un movimento proiettato nel mondo come apertura. Nell'intreccio di questi due anelli che apre lo spazio di senso, nulla è affidato al caso ma ogni cosa trova una giustificazione e una ragione, compreso lo spazio di gioco in cui si colloca l'uomo scavando in sé alla ricerca dell'essere; in quanto l'essere è presente da sempre nell'esserci come enigma e problema, mentre l'interpretare è un ricordare e il ricordare un ricordarsi (Bisogna farsi coraggio e cercare ciò che attualmente non sappiamo, il che vuol dire che ciò di cui abbiamo perso il ricordo dobbiamo sforzarci di ridestare nella memoria. Platone). Perché la domanda è prima di ogni altra cosa desiderio, anelito, bisogno, e il peso dell'essere si manifesta come necessità di superarsi e vincersi. L'interpretazione portando sempre nuove aperture conduce l'uomo tra gli enti, nel mondo come pure nel nulla, in un processo di rinascita che ekstaticamente ritorna in-sistente in sé, annulla l'essere e a volte pure uccide. ******* Come in un circolo l'antropontologo nella ricostruzione di un ambiente, di una storia, di un popolo interpreta i reperti il paesaggio, le carte, li interroga, fa domande, pone questioni. Apre un varco all'essere lasciando venire incontro le cose per quello che sono. Costruisce uno spazio mitologico in cui mette in relazione pensieri e oggetti, e la relazione è la mano o il pensiero del repertante che afferra i cocci e li sistema contestualizzandoli in un ambiente (um-welt, in un mondo), che è poi la sua casa, il chi dell'esserci. Dove per una volta non si sente la mano dell'uomo se non come allocazione delle cose; e allora l'essere lo senti come differenza, problema, nulla, mancanza, silenzio, angoscia. Ma forse ancora di più avverti la desolazione dell'assenza (e guardando il lavoro di Gioacchino è impressionante davvero trovarsi davanti ad una ricognizione di paesaggi in cui manca quasi sempre la figura umana), tutto gli ruota attorno ma solo in quanto significante e il peso della domanda fondamentale sembra non riuscire a portarlo. Così costruisce chiese (e anche nella Diruta se ne contano dodici più due monasteri), progetta altari, innalza crocifissi, rincorre U Nummu Ru Gesu (processione sortinese nella quale nella notte del venerdì santo si porta in spalle per la cittadina il crocifisso scampato al terremoto del 1693). La processione, appunto. Al seguito di un dio sfuggente e impalbabile, che non si sente e non c'è; lo disegni, lo scolpisci, lo intagli ed hai la sensazione che sia là con te. Poi però torni a casa e la vita ha di nuovo il sopravvento. Senti che tutto ti si attorciglia addosso, e sai che il peso non puoi reggerlo, cerchi un senso alle cose e ti accorgi che quel senso sei tu; e vorresti urlare la tua disperazione, liberarti dalle catene di questo maledetto circolo, dal tuo destino. Ma sai che non puoi; ti metti a lavorare con maggior fatica, costruisci, scavi, intagli, progetti, zappi, raccogli, semini, mungi, studi, cerchi, ami. Sulle tracce di un'assenza, il cui fascino si dispiega tutto nella presenza di qualcosa che manca, un significante vuoto che pur essendo nulla muove ogni cosa dandole un senso. Là dove in fondo senti di poter trovare pure il tuo. E' attaccatu, ca corda, a 'na culonna, commu 'nna casa ri Ponziu Pilatu, e 'ntantu, tutta a genti s'inculonna rarreri a statua ri Gesù attaccatu (G. Briganti). Non diversamente Gioacchino Bruno fa la sua processione di progetti che si susseguono, e il mistico e il religioso lo vedi però non nella devozione da cui si sente libero ma nella cura meticolosa dell'artigiano, nell'ostinazione di salvare la sua storia e la sua gente, di dare una voce a chi non ne ha mai avuta, una possibilità non di redenzione da spirito libero qual è ma di semplice sopravvivenza. E così, non contento del plastico ricostruisce ancora: Adesso vorrei farne uno in legno, rappresentando la realtà di oggi, ruderi e sentieri attuali. Utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello precedente in gesso, che mostra come era il paese nel XVI sec., con le case e le chiese. Sarebbe un'ottima base per avviare campagne di ricerche, per rintracciare le spoglie nascoste da terra e pietre. Proiettando nuovamente l'ombra del passato sul futuro, liberando per una volta dai catenacci una visione imbrigliata nei limiti imposti dalla cultura della relazione tra segno e significato, il suo occhio di scopritore/apritore archeoermeneuta di piccole verità (Ed è ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della storia economica e sociale antica si giochi sul significato da attribuire ai piccoli siti. G. Bruno). Perché la verità, che è poi l'essere nella sua fenomenologia, è fatta di inezie, spesso di cose o oggetti trascurabili, nel niente in fondo che significano. Ma è là, nel nulla appunto senza tempo del sacro, che bisogna scavare; dove è la vita a segnare i confini degli oggetti, non più la cultura o una lingua incapace di sprofondare al di là delle abitudini semantiche. Solo allora l'interpretazione è autentica, e tutto assume finalmente una ragione e un senso. ******* La dinamica dell'esserci muove allora dal dentro al fuori e dal fuori al dentro; dall'esserci bisogna uscire perché è un circolo chiuso (legato alla struttura del pre-: come vorsicht che è un vedere libero da in quanto e che avendo già visto proietta l'ombra sul futuro de-terminandolo, come vorgriff nel senso che essendo gettati nella totalità di opportunità possediamo da sempre una serie di possibilità da concettualizzare, e come vorhabe che è l'avere già in potenza), ma anche rientrare perché è un circolo aperto (come articolazione dell'in quanto e possibilità di aprire il mondo ai suoi significati, l'ipostasi del singolo nell'unità circospettiva e pratica del tutto). Il rapporto con l'essere non è mai chiaro e lineare, ha piuttosto una zona d'ombra mediata dall'ermeneutica; il senso si dà e non si dà, dice e non dice con parole che non sono parole. Il circolo non è quindi assolutamente vizioso, dal cerchio si può anche uscire Grotte Cannata, Bassomedioevo, quartiere Curditta in Sortino Diruta portandosi fuori nel nulla, là dove niente ha più senso (Ciò che è decisivo non è uscire dal circolo, starci dentro alla maniera giusta. Heidegger; con una libera adesione al gioco del destino e della necessità). L'essere umano è un cerchio che non è un cerchio, la possibilità dell'impossibilità, può superare e superarsi, liberare e liberarsi (Tuttavia bisognerà assolutamente evitare di indicare ontologicamente con questo fenomeno qualcosa come l'esserci. Heidegger); e questo è il non senso di una libertà che si sottrae accettandola ad ogni forma di necessità, che schiaccia il destino e umilia in definitiva ogni possibile metafisica. E' tra necessità e libertà che si chiudono allora i confini del senso; l'ermeneutica si è rivelata come una continua tensione di possibilità, la chiave per rompere il circolo: il suo compito non è quello di chiuderlo, ma di aprire all'essere quando e nei modi ad esso piacerà di manifestarsi. Anche per l'antropontologo si ripropone insomma lo stesso problema che a suo tempo Platone evidenziò: se è vero che l'anima è gravida di significati, chi vi ha depositato il seme della verità? Ma questo, com'è noto, è il passaggio storico dalla maieutica all'anamnesi (all'innatismo). Sembra comunque più accettabile il luogo socratico del lasciar aperto il problema. Platone lo chiude (alla domanda fondamentale risponde: perché l'ente è un bene!), non lo risolve. L'apertura garantisce per lo meno la possibilità (all'enigma, all'essere) di s/velarsi (quando vorrà) da sé. Interpretare nel linguaggio di Gioacchino Bruno vuol dire scavare, togliere i corpi dalle macerie, dare una sepoltura e un nome a chi è morto così, schiacciato non dal terremoto ma dall'oblio della memoria. E quella ricostruita nel plastico sembra davvero una città dei morti; come nella necropoli di Pantalica dove il silenzio tombale si avverte in ogni parte come un vuoto che ti assorbe l'anima sepellendo pure quella. La vita la senti solo nello scavo artificiale, unico segno dell'uomo che rimane; l'avverti vibrare nel segno artigiano che ha scolpito, nella mano poetica che ha intagliato, nella tensione dei colore. Oltre l'occhio e il cuore davvero non possono andare. Si potrebbe proseguire oltre, ma è forse ora di lasciare spazio all'opera di Bruno, con le dettagliate ricostruzioni storiche e le fotografie degli esercizi dell'arte. Termina allora qua la prima parte del testo dedicata alla presentazione archeontologica del suo lavoro; e non trovo altro modo per chiuderla se non con le annotazioni dell'illustre Sebastiano Pisano Baudo, storico sensibile e profondo conoscitore della storia siciliana. Quelle che seguono sono infatti parole che echeggiano nei manufatti del nostro ricercatore; le senti ovunque come un sibilo che soffia pungente nella notte. Nel contemplare le rovine delle città vetuste, il pensiero corre per la sua lunga serie dei secoli, che batterono le ali su quelle reliquie e dal sermone dei sassi attinge la visione, che gli fa rivivere davanti la folla degli scavatori delle rocce prima, di tanti popoli poi, che in epoche diverse vi soggiornarono con determinati interessi, gare, contrasti, costumanze, leggi, istituzioni, e delle generazioni che vi lasciarono i cadaveri e dei profanatori infine che vi passarono fra mezzo, ed aiutarono nella loro febbre devastatrice, l'opera lenta del tempo e dell'oblio (Storia di Sortino e dintorni, ed. S. Scolari). Delucidazione sul significato dell'essere in antropontologia Due parole per chiarire il senso della terminologia applicata nel presente studio in ambito antropologico sono necessarie; rimandiamo in altro luogo una discussione più estesa, che ci porterebbe fuori dai limiti della presente ricerca. E' una scienza paradossale l'antropontologia, ma solo da un punto di vista formale, dall'ottica del principio di ragione. La ragione è però ideologia e la morale una violenza alla natura, un'ostacolo a ciò che ha anche solo il profumo della verità. Figura antropomorfa intagliata nella mensola di un carretto siciliano Non si può scindere il destino dell'uomo da quello dell'essere, l'essere ritorna sempre anche quando gli vuoi mettere le catene, se lo crocifiggi. La sua indagine è assolutamente necessaria e un archeologo ne deve tenere conto. Si è detto infatti che l'antropontologo è alla ricerca del sacro che è nelle cose e abbiamo dato a tale presenza il nome di essere. L'antropontologia non è una scienza metafisica perché in quanto l'essere che da senso e preserva nell'esistenza non coincide con il dio storico della tradizione, ma con un significante immanente nell'esistenza degli enti del mondo che le significa (senza tuttavia avere significato alcuno) nominandole per quelle che sono. Come presenza di un'assenza nel tessuto della mondanità. Essere e ente (esserci in quanto essere nell'umano) sono uniti inscidibilmente in medesimo spazio ontologico che coinvole l'uomo e la storia Figura intagliata nella mensola di un carretto siciliano come necessità per il suo accadere. Aristotele ha così scritto nel Περι ερμενιας: In se stessi... e detti di per sé i verbi sono nomi e significano qualcosa... ma non significano ancora se è o non è. Ché l'essere o il non essere non è un segno della cosa, neppure se si dica ente senza aggiungere altro. Infatti per se stesso non è nulla ma in più significa una certa congiunzione (3-19,25). All'interno della più articolata teoria dell'enunciazione e in virtù di una supposta corrispondenza tra piano delle cose e piano del linguaggio, l'essere prima di prendere altra collocazione è per Aristotele un verbo. Assunta questa fondamentale acquisizione, va però oltre e dice che il verbo: a) significa qualcosa; b) il significato che assume consiste nell'appartenenza a qualcos'altro; c) è collocato nel tempo. Disinteressandoci del punto a) che ci porterebbe lontani dai limiti preposti, dobbiamo invece concentrare l'attenzione sui punti b) e c). Nel primo b) Aristotele precisa che il verbo di per sé non attesta l'esistenza di ciò che significa, ma che solo dall'unione col nome dà luogo ad un'asserzione che rimanda alla realtà delle cose. Ora, poiché ogni verbo acquista significato nel contesto di una proposizione, e se ogni proposizione è formata da soggetto-verbo-predicato (o soggetto-verbo laddove il predicato viene sottinteso), si delinea il secondo punto c) per il quale l'essere non è nulla di per sé (op.cit. 16b-24) ma significa solo in una congiunzione di termini. Il verbo `όν, che la tradizione ha caricato di tensioni teoretiche, stando alle parole di Aristotele, non è nulla di rilevante, assolutamente privo di determinazioni, sotto l'aspetto logico- semantico non ha alcun significato oltre quello di specificare la funzione di copula, sotto quello ontologico non equivale alla proposizione τό `όν `έστιν. Il verbo è certo un nome, ma quel tipo particolare di nome che temporalizza ciò che significa (E' ciò che in più significa il tempo). Dire che l'essere è collocato nel tempo, significa affermare che è il tempo stesso da intervenire (quando si consideri il verbo come segno della predicazione intesa come struttura della cosa) nella semanticità del verbo sostanziandosi. Si è così raggiunta una fondamentale equazione tra essere e tempo. Scheletro di un carretto abbandonato in contrada Mascalucia Per ricondurre il discorso in ambito antropontologico, è bene sottolineare il valore ontico del verbo essere, spostando l'attenzione direttamente nelle cose. Nella proposizione (ad esempio) io sono uomo, io e uomo si identificano, sono convertibili. Questo significa che affinché l'Io/soggetto possa entrare nel mondo (assumendo una specifica collocazione esistenziale) ed esistere, determinandosi storicamente come uomo (predicato), deve parteciparsi dell'essere e delle sue aperture ontologiche (le categorie, e nello specifico il genere). L'è perciò non è solo copula, ma nell'accezione propriamente ontologica specifica l'essere come esistenza (L'essere è l'atto grazie al quale una cosa non è solo logica ma reale. Tommaso d'Aquino), di modo che quando diciamo Socrate è musico dobbiamo pure intendere esiste Socrate musico. L'Io soggetto è infatti sempre qualcosa di determinato e non un universale astratto (è questo uomo, questo musico), ed il modo che ha di rapportarsi con il predicato è del tutto accidentale (non è necessario che sia un uomo o un musico). L'essere allora è nelle cose e le mantiene in un eterno presente, nello spazio aperto del senso e dei significati. E' un non/significante di per sé vuoto ma capace di connotazione ontologica. Quando si scava in antropologia e si trova un reperto in quel reperto la sostanza che lo ha preservato per millenni è ciò che fa in modo che ancora e-sista (ek-sista nel mondo), presente come ai tempi della sua produzione, appunto l'essere nel suo significare preservandola la cosa, nominandola per quella che è. Propriamente la presenza di un'assenza, il ni-ente, il nulla (iato mitologico tra il segno e il signifcato) che precede la struttura culturale (ordinandola nella catena segno- significante-significato) di un oggetto (Non è un oggetto, né un ente... il nulla è la condizione che fa possibile la rivelazione dell'ente come tale per l'essere esistenziale dell'uomo. Il nulla non è soltanto il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all'essenza dell'essere stesso. Heidegger). Che è poi uno dei nomi con cui la tradizione ha identificato il dio (belimah, nulla, è una parola che compare una sola volta nella Bibbia, Gb. 26, 7: Egli distende il settentrione sul vuoto e tiene sospesa la terra sul nulla; la radice beli+mah significa senza alcunché, ciò che non ha qualità, ovvero l'inafferrabile e l'indeterminato proprio di una divinità). Essere e (è) nulla dunque, in quanto limite critico di ogni possibile linguaggio, il luogo poetico nel quale le parole perdono i significati sedimentati per rivivere in una nuova decodificazione lessicale. Il nulla è uno spazio concreto e storico nella sua astoricità, la radura di ogni lingua dove la parola e la cosa Chiodi rinvenuti durante la bonifica di Cugno di Muro, epoca Medievale trovano il modo di conciliarsi. Come un ponte che supera lo iato semantico e ontologico col mondo e apre uno spazio comune di senso, l'aperto mitologico che lascia venire incontro le cose nominandole/di-segnandole. Un terreno di significatività (contestualizzazione pragmatica di una totalità di opportunità) e verità (concor/danza in una forma di vita) in cui è sempre la parola poetica a condurre i giochi (di lingua). Nell'ultima trascendenza del linguaggio che è un Raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è detto, rimane non detto (Heidegger). Al di là della colonizzazione semantica e dell'irrigidimento di un senso (il Logos che tutto raccoglie in un uni-verso che umilia l'originaria ambivalenza delle parole e imprigiona nei significati già codificati dalla tradizione, da una visione/ritaglio ottico del mondo) che estrae dall'orizzonte della verità le originarie paradossali ambivalenze ontologiche in un uni-verso concepito come teatro metafisico per gli esercizi in fondo del potere. Glossario minimo (per una corretta comprensione del testo) Essere: è ciò che è immanente nelle cose e le preserva nel tempo per quello che sono. E' la vita nella sua profondità, quanto di significativo c'è negli enti/oggetti e che li specifica singolarmente come quegli oggetti e non altri. E' ciò che rende qualcosa immortale, che la segna al di là delle stratificazioni culturali, che fa attraversare alla cosa i limiti del tempo in un eterno presente (è il nome della permanenza nella cosa che la rende tale, confermata dalla sua ripetizione). L'essere come differenza, come vuoto, non pienezza e non sostanza che il linguaggio ripercorre seguendo tracce impercorribili e non trovando cose. Esserci: al di là dell'articolata terminologia heideggeriana, è da intendersi nel presente testo come l'uomo privato della significazione operata dalla metafisica, è un modo per nominarlo al di là della sua storia culturale, della catena di significanti che lo ha cristallizzato ideologicamente come è oggi. In quanto essere nell'umano, come sostanza dell'uomo; appunto essere e tempo. Ente: gli enti sono gli oggetti del mondo. Anche l'uomo è un ente, ma significato/sostanziato dal suo ci, dal suo essere qua ora non come semplice presenza, ma in quanto finalità, senso e misura delle cose. Segno: è una traccia dell'essere in tutto ciò che esiste, l'eco lontano delle cose, portatore della memoria di un oggetto e di una cultura, di una visione del mondo. All'origine di ogni linguaggio non c'è la parola parlata ma un'archeoscrittura primaria; e dunque alla metafisica si sostituisce la grammatica (grammatologia), ed essa sola accede all'essere come differenza (Derrida). Significante: se il segno è pieno il significante è vuoto. E' come una voce, un'assenza, una materia informe che apre ai significati senza averne alcuno. E' il significato svuotato del referente ontologico, la parola senza la cosa, pura predisposizione alla significazione di un oggetto. Possibilità, apertura, luce, originaria ambivalenza. Il pensiero occidentale non ha mai sopportato tale vuoto della significazione, in quanto non/luogo, non/valore, cercando un'identità tra il codice e la struttura sintattica. Significato: è un'ideologia, la cosa nominata secondo un'ottica culturale, privazione di altre possibilità di senso, principio di realtà imposto nella catena semantica, decodificazione autoritaria dei segni nel ritaglio del Logos (che risolve gli ossimori dell'essere nell'equivalenza di un uni-verso), significante dispotico nella lingua e nel pensiero, è il risultato di un addestramento/addomesticamento ottenuto attraverso il linguaggio. GIOACCHINO BRUNO RICERCHE ARCHEONTOLOGICHE NEL TERRITORIO SIRACUSANO SORTINO DIRUTA TRA LEGGENDA E REALTA' (stralci dal libro di G. Bruno e L. Ingaliso) Il testo -stampato e oggetto di attenzione da parte della Sovrintendenza- si presenta come un diario di lavoro seguente le analisi del quadro (commissionato dal parroco Gurciullo nel 1749 ad un pastore, per conservare una ricostruzione grafica del paese antecedente il terremoto) ritrovato e ripulito della Sortino Medievale, per divulgare la ricostruzione storico-topografica operata sul campo, nonché con l'ausilio degli antichi autori come Gurciullo (le Memorie), della città vecchia ai tempi del massimo fulgore economico che ebbe tra il XII e il XIV sec. Vengono qui forniti alcuni stralci del libro utili alla comprensione del metodo di lavoro di Gioacchino Bruno inserite nelle pagine seguenti. Il lettore è comunque invitato alla lettura integrale dell'opera. Dalle indagini di Bruno e Ingaliso sono venuti alla luce l'antica divisione dei quartieri (Collina, Curditta, Mandrazza, Carcarone), i quattro ponti (uno dei quali collegava Sortino a Serramezana, il ponte Nuovo; gli altri erano ponte dei Mulini, ponte Guccione, ponte dei Canali), le dodici chiese e le strade principali. Le abitazioni, scavate nella roccia del colle, erano di circa 75 mq; i muri esterni erano in pietra o in calce e i pilastri in tufo; il tetto sostenuto da travi inserite nel muro con fori praticati nella roccia; sopra le travi si mettavano filari di canne con una sovrapposizione in calce, e il tutto veniva ricoperto da tegole collegate alla roccia con uno scavo in cui erano inserite mattonelle di tufo. Nel complesso Sortino viene alla luce come un centro di benessere economico, all'avanguardia anche per quel che concerne la pulizia e l'igiene con largo uso del sapone, e ricercato soprattutto per la produzione del miele, ma anche per l'olio e la vite. Presumibilmente il sito dove sorgeva Sortino "vecchia" era già abitato da molti secoli, cioè prima dell'effetiva nascita del paese. Fra l'Ottocento e il Mille d.C. i Siculi della vicina Erbesso si trasferirono nella valle del fiume Guccione, oggi chiamato fiume Ciccio, ubicata a nord dell'antica cittadina iblea. "Era l'antica Xuthia situata sulle coste d'un monte appiè d'un'alta, ed aspera rupe...", Andrea Gurciullo Col passare del tempo il paese si estese prima verso il centro della valle e poi verso ovest dando così origine ai sei quartieri di Sortino. Intorno al 900 d.C. i Saraceni costruirono nella sommità del paese un castello e una torre alta circa 15 metri, adiacente lo stesso. Scacciati i Saraceni, il castello e il feudo di Sortino furono affidati nel 1282 dal re Pietro al barone Perrello di Modica. Nel 1477 Sortino e il suo feudo furono comprati da Guidone Gaetani. Il nucleo originario del paese era situato ai piedi del Piano del Castello (l'attuale Cimitero Vecchio o Villa delle Rose). La torre e il Castello dei Gaetani - lato est Le difficoltà d'accesso a questo quartiere -Curditta- quando Sortino si estese, obbligarono il marchese Guidone Gaetani a far costruire la "Scala Nova". Importantissima era la "Via del Corso", che iniziando dalla chiesa di S. Antonio conduceva sino alle mura orientali del paese dove vi era la porta del "Mprimmo" che apriva la strada per Siracusa. L'altra via principale del quartiere (Cunsarie) era conosciuta come "Strada del Piano del Guastella" che divideva lo stesso quartiere soprastante della "Collina" e collegava anche il centro del paese con la parte periferica di esso. La devozione nei confronti della Santa (Santa Suffia) era tale, che la prima chiesa costruita a Sortino fu proprio quella dedicata alla Santa Patrona. Quartiere Mandrazza, porta del "Mprimmo". Si vedono a sinistra la Chiesa e l'Ospedale, a destra il Convento di S. Francesco Nella seconda metà del XVI secolo si crearono a Sortino molti ordini religiosi, fra cui i più importanti costruirono conventi e monasteri. L'ordine religioso dei frati Cappuccini costruì al di sopra del quartiere della Collina un convento iniziato nel 1550 e ultimato nel 1556. L'altro convento importante, all'interno del paese, era quello dei Carmelitani, posto nel quartiere delle Concerie. Resti delle fondamenta del Castello e della Torre Nel paese oltre ad essere presenti congregazioni maschili ve ne erano anche di femminili, che erano raggruppate nei due monasteri del paese: quello di S. Benedetto, sito nel quartiere "Curditta", al limite del confine orientale di Sortino, e quello di S. Bernardo, detto di Montevergine, posto più in alto del castello nel quartiere "Cava". Il giorno 9 Gennaio del 1693, prima della mezzanotte, Sortino tremò. Cadde la torre e parte del castello... crollò il campanile della chiesa madre, il ponte dei Canali e il ponte del Guccione, la chiesa di S. Sebastiano fu schiacciata da un enorme masso, i danni più gravi li subirono gli abitanti della parte più alta del paese. Chiesa di Santa Maria del Soccorso La domenica giorno 11, intorno alle 17 replicò la scossa, ma fu breve e leggera; quando non erano trascorse le ore 21, accompagnato da un ruggito spaventevole di vento, e da terribile fragore, una scossa violentissima durata 4 minuti fece traballare la terra, e in poci istanti gran parte della città fu distrutta. Al monastero di S. Benedetto, la comunità numerosa, radunata per i ringraziamenti al Signore per averli salvati, passò in un momento dalla vita alla morte schiacciata da un enorme masso ruzzolato dalla rupe soprastante. Dalla città si sollevò un nuvolone di polvere che ben presto si mischiò alla copiosa pioggia, e tutta Sortino fu avvolta sotto il manto della morte e solo qualche fulmine faceva intravedere con la sua agghiacciante luce, l'orrore e la totale distruzione che stringeva il paese. Successivamente si decise di costruire la nuona Sortino alla sommità del colle Aita "dietro e sopra la selva e luoco dei padri Cappuccini e sotto e sopra collaterale al venerabile monastero di Montevergine...". Concerie Particolare della costruzione del tetto delle case della Sortino Vecchia GIORNALE DI SCAVO Soprintendenza ai BB. CC. e AA. di Siracusa-Siciliantica. Comune di Sortino- Cava del Marchese Adiacenze con le antiche fondamenta della Torre del Castello Si inserisce il giornale completo di scavo tenuto da Gioacchino Bruno per tutta la durata dei lavori. Il taccuino è estremamente interessante in quanto documenta in maniera completa con mappe, disegni, fotografie, appunti, l'allocazione e la struttura del Castello della Sortino Diruta -costruito intorno al X sec. dai Saraceni e munito di una torre adiacente- e dell'area circostante. Importante anch'essa perché per costruire la rocca i Saraceni cacciarono dalla parte alta gli abitanti, che andarono a stanziare sotto il costone del convento dei Cappuccini, fondando il quartiere della "Collina". Proprio sotto il Piano del Castello si estendeva il quartiere più ricco e nobile del paese, il "Curditta" che aveva all'interno la "Piazzitella", un centro di ritrovo per i nobili e notabili. Fondamentale fu anche la scalinata "Nova" (trecento scalini e poiché era stancante percorrerla d'un fiato fu scavata circa a metà del tragitto nella roccia una nicchia/riparo dedicata a S. Maria del Riposo) che Guidone Gaetani, il marchese, fece erigere per collegare agilmente il quartiere con il resto del paese. Ma soprattutto tale documentazione è interessante per comprendere la tecnica archeovisiva in tutte le fasi, dalla scoperta alla fissazione delle idee nel cartaceo. Il terreno che è di un privato cittadino, fu messo a disposizione per gli studi con la massima disponibilità dal proprietario. A questo scavo, com'era nei progetti di Bruno, ne sarebbe seguito un altro nella parte inferiore del sito bonificando la zona in contrada Costa Sortino. COSTA SORTINO PROPRIETA' CANNATA Rilievo abitazioni rupestri Bassomedioevo Sortino Diruta Quartiere Curditta – adiacente Monastero San. Benedetto 1998-1999 I lavori di scavo e di bonifica interessarono l'area territoriale di Sortino Diruta, in C.da Costa Sortino, che si estende a sud dell'odierna città, per un perimetro ancora godibile di circa 3,14 km alle coordinate geografiche Lat.37° 09' 09' N – Long. 15° 01' 51'' E, mirando alla fruizione dell'antico sito della Sortino medievale. Come si legge dalla relazione presentata da Gioacchino Bruno, nelle vesti di presidenteresponsabile archeologico, il sito venne abbandonato dopo i terremoti del 9 e 11 Gennaio del 1693 che rasero al suolo i paesi della Val di Noto. Nei secoli a venire la zona ebbe uno sfruttamento soprattutto agricolo, vista l'abbondanza di acque fornita dal fiume Guccione, affluente dell'Anapo e dalle sue sorgenti. Nonostante la mano dell'uomo abbia inciso nelle modifiche geoarchitettoniche alcune cellule si sono preservate e costituiscono dunque un'occasione di studio rilevante della Sortino Diruta nella sua struttura tipica di borgo medievale rupestre degli Iblei. Una di queste cellule è proprio l'area denominata "Grotte Cannata", registrata al foglio 39, particella 120. L'area costituiva il quartiere più ricco e antico e conserva i ruderi di abitazioni medievali contigue ricavate nella roccia, nonché le vie d'accesso con viottoli e scale scolpite nella roccia. Dagli scavi è venuto fuori che le abitazioni poggiavano infatti direttamemente sulla roccia, mentre le pareti venivano fabbricate con pietre e calce. Alcune si estendevano su due piani e per questo venivano chiamate "Domus Palaciate" (Case a Palazzata). La pianta delle abitazioni e i ruderi sono ancora evidenti e disegnano molto bene il tessuto urbano medievale. Oltre ad una rilevanza archeologica, storica e paesaggistica quest'area presenta un valore naturalistico di primo piano. Bonificare questo sito è stato molto importante per il territorio sortinese in quanto è da considerarsi come l'anello storico e archeologico mancante tra Pantalica e Sortino. Il lavoro, svolto come sempre con professionalità e sotto l'egida della Sovrintendenza nella persona della dott.ssa Basile, si è avvalso dell'apporto di intelligenze come il prof. Mangiameli per quel che riguarda l'inquadramento geologico strutturale, e dell'occhio supervisore della dott.ssa Beatrice Giaccotto, l'avv. Sebastiano Papa, il sindaco dott. Orazio Mezzio, sig. Nuzzo Mosca. Il lavoro su questo ritaglio di terra è stato imponente. La documentazione è molto articolata e dettagliata ma non è stato possibile introdurla in questo studio. Meriterebbe una pubblicazione a parte. Naturalmente l'interesse etnoantropologico di Gioacchino Bruno l'ha spinto sempre più nel territorio. Tra i suoi interventi si ricordano anche: Bonifica Sortino Diruta sotto il Castello; Bonifica della zona Cugno di Muro; Pulizia e ripristino del sentiero sotto il convento dei Cappuccini. SEGNI ONTOPOIETICI Si inseriscono in queste pagine fotografie realizzate da Gioacchino Bruno di rocce, pietre, scorci di panorama, piante, acqua, alberi, fiori. Sono immagini che ha raccolto con una sensibilità attenta e poetica. Non sempre la scultura è stata eseguita dalla sua mano, ma nell'estetica moderna (come ad esempio accade nell'Arte Concettuale, dove l'oggetto è assente) il dato oggettivo, la cosa, l'opera nella sua fisicità è stata sostituita da un'immagine senza corpo riproducibile, e non si sa oramai se in questa immagine artefatta ci sia davvero la perdita dell'aura o semmai un arricchimento dovuto proprio alla risemantizzazione della cosa percepita, possibile proprio perche' inesistente come riferimento cultuale, eterea senza profondità o spessore. La tecnica, e in particolare quella fotografica (come bene appunta Walter Benjamin) ha reso fattibile il superamento dell'oggetto artistico inteso semplice presenza, in quanto l'unicità non è più fondamentale ai fini della godibilità della percezione, ma forse addirittura un ostacolo alla sua diffusione e fruizione (cosa che i fotografi delle modelle delle riviste patinate conoscono bene quando creano un'immagine di donna elaborata ad un punto tale da non avere più nessuna relazione con il corpo originario; o nel cinema digitale in cui gli attori spesse volte non esistono ma sono elaborati dal software). Come quando si riproduce la Gioconda e la si rielabora moltplicandola (Warol), o quando il museo perde le mura e diventa non virtuale, ma fluttuante al di là dello spazio e del tempo. Essenziale è piuttosto l'occhio dell'artista e la sua capacità di incorniciare, di sedimentare materialmente le forme e i colori nello spazio fisico di un riquadro fotografico, dove la cornice è offerta dal rettangolo e dalla carta su cui viene impressa l'immagine. Mentre l'oggetto, l'opera vive nel ritaglio ottico del fotografo, nella rivalutazione estetica di quello spacifico del mondo colto e fermato dall'obiettivo. E allora anche il sasso fotografato è una scultura, scavato dall'occhio, rivalutato dalla cultura, colto dalla sensibilità dello scatto. Si è superato insomma ampiamente il concetto mistico di aura dell'opera, tanto che oggi il senso del prodotto artistico si trova proprio nella riproducibilità e nella massificazione delle immagini che spaziano anche negli strati poveri della popolazione. Nella perdita dell'aura si assiste come alla perdita della metafisica dell'oggetto, la sua idea e solo allora quelle forme poetiche riescono finalmente a vivere nella vita reale ampliandola di contenuti. Meglio che nella fisicità dell'opera è forse proprio nelle istantanee fotografiche che l'essere riesce a fluttuare coi suoi codici linguistici e attraversare lo spazio e il tempo (Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. W. Benjamin). Paradossalmente oggi il valore estetico della Gioconda del Louvre è de/limitato dalla corporeità e co/stretto nelle stanze del museo, potrebbe anche scomparire e conservare comunque una possibilità di significazione. La guardiamo in fotografie e in quelle fotografie c'è molta più verità dell'opera che nell'opera stessa (Privando l'arte del suo fondamento cultuale, l'epoca della sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l'apparenza della sua autonomia. W. Benjamin). E' un paradosso, certo. Ma l'essere ama i paradossi e quando interviene scompagina i codici di lettura, ridefinisce il senso, presenta le cose in un'altra ottica. E può anche accadere talvolta che annulli le cose, rendendo possibile nella vacuità impalbabile dell'oggetto una diversa e più ampia espressione. ________________________________________________ Le tre sezioni che seguono (scultura della pietra, manipolazione dell'argilla, fotografia) derivano da un ciclo di lezioni che Gioacchino Bruno ha tenuto dal 2010 al 2011 in Sortino presso l'associazione culturale PiuSicilia. Le dispense ai corsi si aprivano con una mia presentazione, riproposta nel presente testo. Le fotografie pubblicate a seguire (bellissime ed epressive) andrebbero viste nel colore originale, purtroppo le esigenze di stampa non hanno permesso che il bianco/nero. ASPETTI PSICO-ANTROPOLOGICI NELLA MANIPOLAZIONE DELLA PIETRA PiùSicilia è un'associazione nuova nel nostro territorio, ma già si è distinta per manifestazioni a carattere culturale e sociale di rilievo. I dirigenti mi hanno coinvolto chiedendomi una presentazione a questo corso di scultura, e da subito ho accettato con entusiasmo. In primo luogo perché ritengo che sia un'iniziativa seria e di qualità, ma soprattutto un'opportunità per molti giovani; in secondo luogo perché la preparazione tecnica (e storica), nonché il talento riconosciuto da incarichi di prestigio, di Gioacchino Bruno a cui è affidata la responsabilità delle lezioni, sono una garanzia di successo. Non mi addentro in questioni complesse in merito alla pietra, alla sua lavorazione e ai suoi significati; mi limito invece, e con piacere, a puntualizzare alcuni aspetti strettamente culturali inerenti alla manualità e alla manipolazione di oggetti, cose e attrezzi che hanno una storia millenaria. Siciliana certo, per sua naturale conformazione geologica e per l'antico legame che unisce gli isolani alla loro terra, ma non solo etnica locale; perché la manualità, il fare inteso come istinto arcaico e quasi mitologico (l'a-che-fare primario heideggeriano), attività semantico/ordinativa dell'Io e del mondo è il nucleo costitutivo non solo della vita psichica di un individuo, ma la grammatica stessa di una comunità. Se da una parte la crescita evolutiva di una persona (emotiva ma anche brutalmente neurologica) matura e si forma nel padroneggiare una tecnica già dalle primissime ore di vita, dall'altra sedimenta nelle strutture simboliche e sociali di un popolo, espandendosi amplificata nell'etica e nei costumi. Anche in quelli religiosi. Non per niente etologi di fama hanno rilevato che la maturazione neuronale dei primati (scimmie, gorilla, macachi fermi ad uno stato primordiale) è stata mutilata proprio dai limiti della gestualità che l'assenza del pollice impone loro; mancanza che non ha fatto sviluppare le aree intellettuali dell'encefalo ed ha impedito alla psiche di dilatarsi nelle forme più alte della vita culturale e sociale. Di vincere come l'uomo in qualche modo il braccio di ferro con la morte (angoscia primaria), manipolando -già dalla sua prima comparsa sulla terra- la durata e la solidità della pietra nella sublimazione simbolica che esorcizza la precarietà della vita nell'eterno. Tutti sanno che i bambini imparano giocando con le mani (e nel gioco costruiscono relazioni e metodo, quasi un rito a cui ubbidiscono con una serietà grave e imperativa; proprio come lucidamente sintetizza Wittgenstein laddove chiarisce che seguire una regola è ubbidire ad un comando) come pure gli animali, e che la conoscenza prima che un fatto intellettuale è sempre arcaicamente gestuale. La parola precede infatti condizionandola la visione, così come la manualità precede formandolo il pensiero e le sue strutture. Sfugge spesso tuttavia che la formazione dell'Io non è un processo unicamente cognitivo; perché attraverso il fare -l'apprendere- non solo cresce e si costruisce l'integrità della persona, ma si scava frantumandola nella sedimentazione della sintassi del quotidiano, incidendo davvero come uno scultore o un maestro artigiano nella stratificazione delle cose e nel modo abitudinario di interpretarle (processo invero analogo alla variazione eidetica husserliana). Manipolazione linguistico/semantico/ermeneutica che colpo dopo colpo, incisione dopo incisione affonda nel taglio luce/ombra fino alla verità delle cose. Proprio come scrive Platone nel Fedro: Allorché un uomo, vedendo la bellezza di quaggiù e rammentandosi la vera bellezza, metta le ali e desideri, così alato di levarsi in volo... allora si ristora e riscalda e, cessando di soffrire, si sente lieto e felice. Perché anche in una pietra è racchiusa e conservata una storia, ma soprattutto un'opportunità: come possibilità gestuale di uscire dai limiti antropocentrici dell'Io e dal suo gravame metafisico, per la produzione di un mondo. Costruendo nei riti apotropaici del travaglio quotidiano (tessuti di gesti intesi come processi di autoregolazione sprituale che portano nell'arte -e meglio ancora nella tecnica- significati epocali) un Totem comune in cui si concentra l'ethos e si attuano le relazioni simboliche di una comunità. Nell'elaborazione artistica o artigianale (e nella sua lingua archetipica quale distruzione fenomenologica di incrostazioni culturali millenarie) si trova perciò sempre il linguaggio primitivo di una civiltà, in cui risuona colpo dopo colpo l'eco di epoche lontane; segni/graffi/erosioni (naturali o artefatti) che stratificano la storia mitologica e simbolica di un popolo, cristallizzata -proprio come in una pietra- in un inconscio collettivo (Jung). Scavando e scalpellando, graffio dopo graffio, incisione dopo incisione per Portare alla luce... il sistema degli assiomi e dei postulati che definiscono il miglior codice possibile, capace di dare una significazione comune a elaborazioni inconsce che ineriscono a spiriti, società e culture scelti tra quelli maggiormente lontani luno dall'altro (LéviStrauss). Perché anche nel chiaroscuro di un comune sasso da sempre è in fondo la vita stessa che si presenta all'uomo come problema e peso, qualcosa che deve essere realizzato, progettato/manipolato. E si può scolpirlo liberando l'Io verso l'autocoscienza dai pregiudizi della sua storia e della sua cultura. Proprio come il nostro essere-nel-mondo. Analogamente ad una pietra immune alla lacerazione del tempo, sgranata tuttavia dai venti, corrosa dall'acqua, maneggiata dall'uomo; sempre (tutto sommato) uguale a se stessa, al di là delle epoche, davvero oltre l'ineluttabilità della morte. Con l'illusione ma anche la certezza di estrarre dalla terra e dai suoi frutti -lavorandola e travagghiandolail senso delle cose; sfiancati da una fatica che però in qualche modo eterna l'Io. Balconata intagliata da G. Bruno Insegna scolpita a mano da G. Bruno, posta nella facciata del Municipio di Sortino Angolo di Sortino Posa della pietra monumentale davanti al Municipio Nuovo Pietra rocciosa DALLA CRETA ALLA PIETRA TRA MITO E CREAZIONE ARTISTICA Altrove e sempre in relazione alle ottime lezioni d'arte di Gioacchino Bruno, si è sottolineato (a dire il vero con qualche enfasi) che l'artista è l'arteficie di una nuova mitologia, il demiurgo di una rigenerata epoca storica. Nel presente ciclo didattico sulla lavorazione della creta, il binomio arte/creazione non potrà scindersi dall'identità che sussiste tra la materia e la coscienza, la filosofia e l'arte. Non esiste altra disciplina creativa, antica e davvero primitiva come la lavorazione della terra, in cui l'unione di reale e ideale confluiscano nell'anima del mondo (Schelling) in assoluta sinergia e per la messa in opera della verità. Un pensiero manuale di una materia e una forma che sono dentro come fuori di noi, in un impasto che perde fisicità e scioglie dissolvendosi nella fattualità del tempo; un tempo che nell'arte è ciclico, come l'anello che muove dalla nascita alla putrefazione e dalla putrefazione alla ri/nascita attraverso il solve et coagula (processo fisico e mentale che porta la materia ad assumere finalmente una forma) della produzione creativa. L'artista operando nella creta, non tanto per in/formarla quanto per coinvolgerla nella propria amalgama vitale, interviene nell'elementarità della sua chimica fino a farle raggiungere quasi la perfezione della pietra e del cerchio filosofale. Perché le forme che la terra assume sono comunque il prodotto di uno scavo archetipico (mentale e fisico) di riconduzione all'unico simbolico che ribolle in fondo nella profondità dell'essere. Lavorando l'argilla per dominarla nella sua brutalità accade che l'infinita energia e l'infinito movimento in essa contenuti possano trovare il momento della immobilità, che permette di cristallizzare l'attimo impossibile, irripetibile e paradossale dell'eterno. La forma propriamente, che sedimenta dalla distruzione delle forme e irrigidisce nella instabilità di una materia che soffoca nell'equilibrio e nella stasi. Si può -è vero- anche imporre culturalmente una forma nei processi creativi, ma solo per fare della rigidità una disarmonia caotica, e in essa una radicale trasformazione interiore. Anche le severe costruzioni geometriche non sono solo la sintesi di una spazialità che ritorna all'originario eidetico, ma una stabilità molecolare, il convergere sincronico di segni che hanno come i mandala primariamente una connotazione temporale/rituale. Sono tempo e non spazio, il tentativo o la tentazione di sottrarre il tempo alla gretta esistenzialità: fuori accelerando al parossismo, dentro (nella condensazione sferica delle trasformazioni interiori) rallentando fino alla fissità della forma. Una danza interiore che induce all'annullamento del tempo, in quella condizione mitologica preintellettuale che genera l'eterno ritorno. Realizzare la pietra dal fango significa allora nell'opera d'arte raggiungere l'equilibrio delle tensioni primigenie (La nostra Opera è la conversione e il cangiamento di un essere in un altro essere, come di una cosa in un'altra cosa, della debolezza in forza... della corporeità in spiritualità. N. Flamel), lo stato nel quale il mutamento del Sé opera per il mutamento del mondo; dove la coscienza perde il carattere del particolare egocentrico e assume quello universale (l'unum ego sum et multi in me di B. Valentino). Isomorficamente nelle asperità proprie della terra e nell'interiorità dell'operatore alla realizzazione di una trasformazione alchemica demiurgica della materia prima. L'oro, la pietra filosofale, è allora anche il simbolo della ricchezza spi/rituale, un estrarre dall'ombra alla luce e dal piombo all'oro che coinvolge nell'unico destino l'opera e la vita, l'uomo e la sua storia. Ripetendo nell'arte i processi della creazione, per trasformare poieticamente il mondo. Travagliata riduzione fisica della materia, dall'informe alla forma e dalla forma all'informe in un circolo presemantico che porta alla liberazione poetica, alla triangolatura del circolo. In una conflittualità perenne tra apertura e occultamento, visto e non visto, detto non detto, tra vero e falso (come nel frammento 53 di Eraclito: Conflitto/di tutte cose padre/di tutte cose re/alcuni foggiò dèi/uomini altri/servi alcuni/altri liberi/fece). Propriamente l'opera d'arte è un portare alla luce scavando dal pozzo dell'essere, nei manufatti di quella téchne (la cui funzione secondo Heidegger è di ri-velare e custo-dire) che estrae dalla terra i significati pre/formati nel fondo chiaroscurato dell'esistenza. Un pensiero manuale che incide archeologicamente la materia per liberarne l'infinità dei significati; separando, solvendo e sublimando la coscienza fino alla sua dissoluzione nella primordiale pietra filosofale. Operazione prima dell'amalgama terra/acqua è la separazione. La separazione è il momento della morte, dell'odio e della distruzione, del travaglio che conduce al bianco della rinascita, alla ricomposizione (del nero e del bianco, del bene e del male), del molteplice nell'uno. Separare significa estrarre il mercurio dal corpo, rompere le barriere, passare dallo stato non individuato alla forma prima. Con una circolare eccitazione dei sensi che muove la pulsione creativa nello spazio fondamentale della libertà. Il nero è il momento nel quale il seme deve morire nella terra per fruttificare, l'oscurità dei sensi, la cecità dell'intelletto; tossico aceto filosofale che percuote, tramortisce e in qualche modo uccide. Si comincia allora modellando dalla nigredo, il colore più nero del nero, dalla putrefazione o mortificazione ermetica, dalla putrefactio del Sé (o melanosi) e dal mondo (o materia al nero). Dalla terra, all'acqua, all'aria, al fuoco la materia si smaterializza fino a raggiungere la consistenza filosofale. Quattro sono le fasi dell'opera (nigredo, albedo, rubedo, citrinitas), come quattro sono le stagioni e le età dell'uomo; in una ciclicità continua e perpetua che porta ogni istante a redimersi nel suo opposto: dalla morte alla nuova rinascita, dal nero al bianco. Si determina un nuovo solve e s'impone un nuovo coagula dell'Io, passando per la distruzione, il caos, il nulla, fino all'essere nella sua essenza. L'artista modella l'impasto cercando di trasformare e fermare il tempo, per superarlo e tuttavia al culmine del processo annulla lo spazio e scopre che ogni cosa è tempo. Passando dalla dissoluzione alla resurrezione ogni cosa si redime dalla materialità, e la creta modellata perde e recupera l'ombra rigenerandosi finalmente nell'arte e nella poesia. Mentre dalla maturazione psichica che nella trasformazione mitologica assume il nome di libertà, la materia si scopre con un instabile e quasi violento equilibrio: concentrazione del tempo nel non tempo, dove l'umanità si annulla nella spazialità individuale e si fonde col tutto. Cambiare se stessi per ricreare il mondo, per ek-sistere (e l'essere coincide -ereignet- con il suo accadere storico) pietrificati nel tempo e nella storia, scultori/scopritori della verità (La verità, come illuminazione e nascondimento del'ente, accade in quanto poetata. Heidegger). Perché il linguaggio artistico/poetico è autonomo e indipendente dagli uomini e dalla loro storia e l'artista è arteficie e artefatto, solo l'ente che appropriandosi/espropriandosi della parola poetata si trova a parlare e a creare come una necessità epocale per l'accadere storico dell'essere. Accade così che l'amalgama della terra attraverso i manufatti della cultura manipolati nella fanghiglia mitologica pre/formale e preintellettuale porti alla luce l'essere, e nell'essere l'origine archetipica e trascendentale della vita stessa. Sortino, Chiesa Madre Autoritratto LUCE SPAZIO VERITA' Ancora una volta Gioacchino Bruno ha colto nel segno. Da artista sensibile e interessato alle problematiche in primo luogo tecniche della fotografia, legate alla visione e alla percezione, mi ha chiesto un intervento teoretico in merito alla luce e al suo significato, focalizzando il suo obiettivo pratico su una questione di primaria importanza nella nostra cultura e civiltà. Perché -e non si può davvero dargli tortoanche la visione e la percezione hanno una storia e una cultura, e la comprensione dei fenomeni che portano alla formazione di un'immagine aiuta comunque alla maturazione del linguaggio estetico. Certamente accresce la consapevolezza tecnica e forgia in qualche modo il gusto. E allora, come Gioacchino insegnerà con la consolidata passione agli allievi a dare dignità estetica ad un oggetto attraverso l'uso consapevole e ragionato della luce, così proverò a chiarire agli iscritti di questo corso il senso dei fenomeni visivi che andranno a interessarli. In relazione naturalmente alla luce che dà loro un senso e un significato, la ragione stessa di esistere. Una statura ontologica. La nostra ottica, il nostro mondo percepito è, nondimeno delle altre esperienze sensoriali, vittima dei pregiudizi di una cultura secolare che da Platone in poi ha svalutato e svilito il fenomeno e nel fenomeno la vita stessa. La comprensione di tale primario ritaglio semantico della visione credo aiuti ad una maggiore consapevolezza anche del mezzo strettamente tecnico fotografico. Il percepito (l'oggetto colto con lo sguardo) non è kantianamente un'allucinazione mera ombra della cosa in sé, apparenza condizionata da parte delle intuizioni intellettuali che sole aprono al misterioso mondo noumenico, ma è uno spazio di vita concreto vissuto e tonale (stimmung) che nei chiaroscuri della visione apre alla nonascostità, all'essere e alla verità nella sua essenza. L'occhio non inganna, è piuttosto il ponte verso l'essenza vera delle cose, il reale nella sua manifestazione empirica. Una verità non più concepita intellettualmente come un'idea, pallido contenuto di pensiero, ma controllata dalla saggezza della percezione. Propriamente la luce è ciò che rende possibile la presenza di ogni cosa (la forma, i volumi, le espressioni, i caratteri), la condizione di possibilità di tutto ciò che anela all'essere; alle volte anche drammaticamente, perché quella del portare alla luce può anche essere un'esperienza terrificante come la folgorazione avvenuta sulla via di Damasco, sempre comunque ambigua nella sua impalpabile sfuggente contraddittorietà. Non è un ente o un'idea, la luce, ma piuttosto una necessità cooriginaria all'essere (di un oggetto) nel suo apparire, nell'apparenza capace di velarsi e nascondersi, di essere e in qualche modo non essere. Come la verità, che Heidegger non per niente traduce nelle sue allucinazioni filologiche come s-velamento, chiaroscuro, paradossale gioco di luce-ombra. Perché (ed è questa un'esperienza banale comune a tutti) la luce è un abbaglio che pur permettendo la visione non è a sua volta fruibile dalla vista; lascia vedere ma a sua volta acceca e quasi disturba l'occhio. Proprio quel che accade per l'errore che è parte della verità, e la deformità nondimeno costitutiva dell'ordine e dell'armonia. E' (anche) in questo che consiste il mestiere della fotografia: nel fermare l'inafferrabile, cogliere nelle vibrazioni dei chiaroscuri della vita l'eterno stesso nella sua impossibile assurda attualità. Sub specie aeternitates (in quel in-der-welt-sein che nello scoperto illumina il ci dell'esser-ci, direbbe Heidegger). Come la luce è ciò che lascia essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la verità l'esserci (l'uomo in quanto già da sempre gettato nella sua dimensione storica), così l'esistenza stessa è di per sé uno stare-fuori nella verità dell'essere, come ciò che originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la totalità delle cose (L'essenza della verità, vista alla luce di quella della verità, si mostra come un ek-sporsi all'ente nel suo dis-velarsi. Heidegger). Naturalmente l'esistenza non è luce o ombra; è piuttosto una specie di chiaroscuro (in cui oscilla la primaria tensione libertà/verità) nel quale l'apertura -la luce appunto- si configura come ciò che lascia-essere l'ente, lo spazio ontologico nel quale ogni valore ed ogni significato assumono un senso (una forma, un volume, un carattere). Uno spazio però privo di fondamento e che dà tuttavia uno scopo alle cose, una possibilità di esistenza, ai significati di significarsi secondo quella comune dimensione estetica e simbolica che è il contenuto della nostra storia e della nostra cultura. Mentre l'uomo (l'esserci), il soggetto percettivo, non è tanto l'ente privilegiato che entra in uno strutturale rapporto con la totalità, ma là gettato nel mondo dall'essere in modo che possa ek-sistendo proteggere la verità. In una dimensione appunto luminosa. Nella chiarìta come possibilità di esistenza delle cose, condizione della svelabilità del vero; custodendo la verità dell'essere a cui da sempre appartiene. Con la possibilità reale, negli esercizi della visione (primo tra tutti la tecnica fotografica) di risignificare l'esistenza del mondo, risemantizzando gli oggetti culturalizzati e incrostati nella sedimentazione dei significati, per sottrarli alla dittatura del segno, alla nevrosi semantica dell'Io. Ma anche col pericolo reale di esporsi alla sua vendetta. In quanto già-sempre-presenti interessati al mondo, immersi nel trovarsi pre/teoretica tonalizzato, abbiamo una in un'atmosfera precisa familiare percezione della significatività globale prima ancora di comprendere i singoli significati, mentre i singoli significati è solo collocandosi nella dimensione preintellettuale di un ente capace di significarli interpretandoli, che assumono una dignità ontologica, un senso; nel trovarsi immerso in una dimensione che trascende la storia individuale. E dunque la visione, intesa come luogo della comprensione, è sempre condizionata e predeterminata dalla familiarità di una pre/comprensione che la precede orientandola, facendo venire incontro quegli enti che sono propri dello specifico di un interesse; condizionata da un ottica angolare, da un ritaglio semantico. La visione vede unicamente degli aspetti della realtà e ordina il veduto secondo una pro-spettiva che è la costruzione teoretica di un mondo. La prassi visiva non vede il tutto, ha una vocazione alla selezione percettiva, e la visione non è mai assoluta, ma sempre inserita in un contesto vissuto e tonale. In un circolo vizioso nel quale il problema non è uscire fuori dal circolo, ma starci dentro alla maniera giusta: orientati, e-sposti pro-gettualmente, liberamente collocati (l'essenza della verità come libertà intesa come lasciar essere) nell'aperto di un non/senso o di un pre/senso, che chiama all'evocazione e all'ascolto di una luce mitologica che precede anticipandola, per poi finalmente chiuderla, la storia dell'uomo. Dimensione estetica dell'apparire che salva l'uomo dalla tentazione apostatica del dissolvimento nel nulla: dove la vita è sottratta all'immobilità della morte e la verità recupera la sua ombra, l'errore. Per concludere: la luce è uno spazio che lascia venire incontro (begegnen lassen) dalla radura (lichtung, chiarìta) dell'essere gli enti; seppure chiaroscurata (lichtenden bergens) in una circolarità scaduta la percezione fenomenica tende però nella sua dilatazione preintellettuale a conciliare soggetto e predicato, ad annullare la differenza ontologica tra l'uomo e il dio (Hegel). La libertà si delinea come il momento estetico più alto, nel quale si aprono le origini teogoniche dell'umanità. Noi in quanto enti che avvertono il peso dell'essere (pro-getto deietto) come possibilità di un problema da progettare (Il nulla, innanzi a cui l'angoscia porta, svela la nullità che definisce l'esserci, in quel fondamento che esso è in quanto essere gettato nella morte. Heidegger) sfidiamo da sempre il destino, per ritornare alla dimora preegoica del linguaggio, alla ricerca di quella terra che custodisce il senso del mondo. Perennemente in attesa della sua storica e materialistica aurora (L'uomo storico viene preparato alla prossimità della verità dell'essere... ogni specie di antropologia e di soggettività si trova qui abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come fondamento di una nuova posizione storica. Heidegger). Anche in un'istantanea fotografica echeggia allora la possibilità di risignificare un'antropologia paralizzata dalla sua storia metafisica; attraverso un uso sapiente della luce che proietta la visione verso le cose stesse ed espone nel chiarore di quella libertà che è in fondo l'essenza stessa dell'assoluto. Operando creativamente per la messa in opera della verità (La verità, come illuminazione e nascondimento dell'ente, accade in quanto poetata. Heidegger) e comunque memori sempre del fatto che l'artista è l'origine dell'opera, l'opera è l'origine dell'artista. IL CORPO IN ANTROPONTOLOGIA SEMIOTICA ARCHEOANATOMICA Ascoltate, fratelli, la voce del corpo. Esso parla del senso della terra. F. Nietzsche Se gli antropologi hanno guardato con interesse ai modi del sostentamento umano nei risvolti sociali ed economici all'interno di una comunità, con un occhio pure attento alle strumentazioni, per l'antropontologia il corpo segnato dal significante del lavoro, piegato e trasformato dagli oggetti culturizzati dalla funzione, modificato dagli utensili risulta essere di primaria importanza nella ricognizione ontologica. Nello specifico di questo studio che si articola nella vita del siracusano, si cercherà di mettere in luce proprio le corrispondenze tra i segni anatomici e quelli prodotti dall'uso quotidiano degli oggetti. La Sicilia sud-orientale è emersa dal Terziario; a sud dell'Etna, in particolare nei Monti Iblei che culminano nel monte Lauro (m.955) sono affiorati terreni di natura calcarea, com'è chiaro dalle numerose caverne, grotte cave presenti nell'area. Appunta Gioacchino Bruno che i primi uomini utilizzavano pietre, preferibilmente dure come ossidiane e selci, scheggiate a forma di raschiatoi, accette, coltelli, lancie e punte per le frecce. Accanto a questa prima rudimentale attrezzatura, si delineò anche la necessità di effettuare scambi di merci con le tribù vicine, dato che non in tutte le località della Sicilia orientale abbondavano quelle pietre. Nacquero allora i primi commerci facilitati dalla scoperta della ruota; regolati dagli albori, cosa fondamentale, non dalla mediazione di un valore simbolico come la moneta o l'oro, ma dallo scambio delle materie prime in particolare. L'uomo preistorico, abitatore inizialmente di caverne e grotte, tenderà successivamente a scendere a valle verso la costa, seguendo il corso dei fiumi e così disporre in ogni momento dell'acqua. Lungo le piane costiere costruì capanne e frasche rinforzate poi con palizzate; inalzò quindi in paludi e laghi palafitte. Il fuoco, scoperto forse anche in seguito alle frequenti eruzioni vulcaniche, facilitò la vita e riscaldò gli inverni. La vita di relazione fu quindi arricchita dal linguaggio verbale e non più gestuale, sempre più articolato e utile alle funzioni diversificate dei bisogni della comunità. E' chiaro da questa prima analisi la precarietà dell'uomo e gli sforzi compiuti per vincere le asperità del quotidiano e in sostanza esorcizzare la morte. Essendo ogni oggetto e lo spazio circostante un luogo marchiato da una disperazione ontologica nella precarietà del vivere, da manipolare per la sopravvivenza, si eleborarono tecniche prima che per il sostentamento per la coservazione del corpo in ogni circostanza. La vanga, la zappa, la falce messoria (utile a mietere i cereali falciandoli dalla terra), il falciolo, la falce fienaia, il rastrello, la forca o tridente (che serviva a spandere, rivoltare e ammucchiare l'erba falciata), il falciolo, la scure, la roncola, la sega. Il corpo veniva svuotato dai significati imposti dai bisogni primari, e prima ancora dagli attrezzi/utensili e dalla loro specificazione produttiva. Ed era un corpo quindi strumentalizzato, surcodificato, ridotto all'essenza nel lavoro come capitale sociale, portatore di un significato che trascende la carne e appesantito dalla metafisica. Corpo come macchina ri/poduttiva, sfiancato dalle maternità, sformato, intossicato dall'idea, sepolto dall'ideologia; un corpo irrigidito nei significati, corpo organico votato alla riproduzione o alla fatica, carico dei segni della specie, e dunque dell'essere nell'umano nella sua pensantezza, con l'insostenibile presenza del dio assente. Ascia; porta quagghiu, contenitore ligneo per la confezione della ricotta Scaldino in rame; bilanciere Il corpo senza organi, sver/gognato dalla carne, è quello che nelle mani produce comunque l'essere, come un teatro ideologico, di/segnato dal significato di una colpa che non ha, piegato dalla malattia, alienato, sconfitto dalla divinità, schiacciato dal peccato, ricettacolo di un'anima che non c'è, di uno spirito che lo umilia e abbrutisce, che lo rende schiavo. Un corpo con le catene, immolato sul legno di una virtù che trascende e paralizza la vita, che la disprezza, che è anatomizzato e svilito ad organo dalla scienza, ridotto a simulacro da una croce che intossica nel sangue come un veleno che scorre nelle vene; il corpo come merce, accumulo di sudore, fatto da mani che impastano la vita come una richiesta di salvezza, lingua che gusta, occhi che godono, orecchie che ascoltano. Il corpo come ricettacolo, anestetizzato, imprigionato, il corpo decentrato e mortificato, sfiancato, decodificato, semantizzato, il corpo/funzione, avulso dal piacere, ospedalizzato, patologizzato come organismo da sanare, forza/lavoro da sfruttare, carne da redimere, inconscio da liberare. Il corpo piegato da una sacralità simbolica, santuario ideologico da ricodificare. Abitando il mondo il corpo assorbe abitudini e forme, attrae oggetti che si significano nelle mani, trascendendosi nell'oggettività di pure cose per ricomporsi semanticamente in oggetti uso-per, dove ogni gesto ha una precisa funzione e assume un senso, e dunque il corpo come funzione nelle dis/funzioni. Marchiato dalle malattie, che lo segnano come una traccia indelebile nella carne, scolpito nell'infermità dalla memoria e dal passato. Le società arcaiche iniziavano alla vita sociale con la tortura, des/signando il corpo come portatore dei segni della comunità, e dunque nelle deformazioni con/segnavano l'uomo al gruppo. E questo fluttuare del simbolo nei corpi produceva comunque una circolazione di senso, divenendo il mondo e non più il corpo atomizzato in un altare ideologico il significante determinante dell'essere nell'umano. Quando Gioacchino Bruno ad esempio a proposito delle suppellettili, scrive che erano modeste, che mancavano armadi e rare erano le sedie, dilungandosi poi in un dettagliato inventario degli oggetti del passato (il letto era posto su due cavalletti e alcune tavole; la pentola più comune era in terracotta e poggiava sul fuoco, alzata da una catena; piatti, scodelle, caraffe, contenitori per l'acqua e il vino, bicchieri, bottiglie e cucchiai erano in legno o terracotta, raramente in vetro; per l'illuminazione si adoperavano lumini ad olio, mentre le candele in cera erano un lusso; rari erano gli attrezzi in ferro), mette in evidenza il corpo, in quanto essere in un mondo che lo circonda significandosi negli esercizi della sua anatomia animale, come trascendenza di significati, sblocco e uso delle cose. E dunque il corpo primitivo pre/industriale si manifestava come fuori di sé, nell'apertura o relazione tra l'Io e il mondo, ottenuta non da una comunanza intellettuale ma con l'uso delle mani, nella presa che rende l'oggetto accessibile all'ispezione, significandolo e significandosi, e dunque la cosa, l'oggetto/utensile come già carica di significati antropologici. Nell'afferrare un oggetto l'uomo cercava e cerca ancora una possibilità di salvezza o redenzione, la vittoria sulla morte, manipolandolo per riempire lo iato angoscioso che separa l'Io e il mondo. Le mani afferrano, analizzano, compongono e scompongono con una sequenza di gesti che abituano non solo alla cosa/oggetto ma al mondo stesso; e così nascono abitudini che fanno riconoscere le cose come enti per l'esserci e creano autocoscienza, indicando al corpo i limiti ma anche le possibilità dell'Io. Perché il senso delle mani non sta nello scheletro o nei muscoli, nei tendini o nei neuroni, ma negli oggetti che può afferrare, e le cose prima che nello spazio e nel tempo si dispongono secondo l'orientamento dato dal corpo nei suoi esercizi produttivi. L'abitudine è un sapere che nasce ed è già nelle mani nel prendersi cura delle cose, come uno spazio culturale orientato e caricato di sedimentazioni simboliche. Secondo un'apertura mitologica, ordinatrice delle cose e custude di un senso, dato da un campo in cui il corpo può muoversi pre/sente con una progettualità finalizzata in ultima analisi alla conservazione della vita, pur nelle aberrazioni ipercodificanti dell'ideologia (Gli strumenti, già all'epoca paleolitica, possono essere considerati come concetti di pietra, essi collegavano i bisogni e i pensieri degli uomini a livello di realtà delle cose. A. Gehlen, Le origini dell'uomo e la tarda cultura, 1975). Pentola in rame, XIX sec. Rubinetto in rame; quarara, caldaia per la lavorazione della ricotta Botte; chiave di carro intagliata E questo essere parte di un sistema simbolico che coinvolge l'anatomia umana modificandola, si vede bene dalle analisi di Gioacchino Bruno che dedica all'aratro e all'aratura, nella più estrema forse delle esperienze del corpo sfiancato dal lavoro, che è il peso del giogo (diviso a seconda dellla specie animale in giogo da corna, fissato dietro le corna con una cinghia in cuoio lunga 3-4 metri e larga 1,5-2 centimetri, o da nuca). Dopo una circospezione del terreno/campo che divideva la terra in lèggia (non troppo fertile), pisanti (dura da lavorare), ranni, il lavoro di aratura iniziava con la rumpitina (si rompevano i timpuna di terra), e generalmente si arava a ventaglio da destra verso sinistra trasversalmente, mentre si seminava in senso inverso. Si arava con l'aratro a du', che era fatto in legno con vomere in ferro, trainato da due bestie. Gli animali erano tenuti insieme dallo iochu, giogo, asta in legno lunga 1,5 metri. L'attrezzo veniva appoggiato ai panneddi (cuscinetti allungati in cuoio o olona), riempiti di paglia e cuciti intorno ai maniuna, pezzi di legno piegati ad arco. Per legare direttamente il giogo all'animale si usavano i paiari (cinghie che partivano dalle estremità dei paneddi, passavano sotto il collo) che si collegavano al centro del giogo, dove c'era un anello in ferro o legno duro (cuddaru) che serviva per trattenere la pèrcia, l'asta dell'aratro lunga 4 metri circa. Nella parte superiore della pèrcia c'erano dei buchi in cui andava infilato chiodo che, insieme alla tavuletta e al cugnu, serviva a regolare l'angolatura dell'aratro. A seconda dell'angolatura, un aratro poteva essere puntìu o chianu, appuntito o piano. La punta inferiore della pèrcia era intagliata in modo da incastrarsi in una fessura a metà circa dell'aratro, costituita dalla vòmmaria, il vomere, la parte metallica appuntita destinata a smuovere le zolle. Questa era la parte più importante dell'attrezzo. Per guidare i muli, e più raramente i buoi, il contadino si serviva di due corde che terminavano al capistru dell'animale da tiro, ed erano collegate alla manuzza (manico o impugnatura dell'aratro). Per la pulizia dell'aratro si utilizzava il varbùscia, un bastone in legno con paletta in ferro ad un'estremità e un pezzo di corda all'altra, che serviva anche per spronare gli animali. Un tipo di aratro più recente è quello a sulu, più leggero e maneggevole, costruito quasi esclusivamente in ferro e tenuto insieme da saldature e bulloni. Per condurlo bastava un solo animale collegato a un bilanciere, tramite un gancio al centro incastrato in un anello posto nella parte anteriore dell'aratro. Già da questa ricognizione fenomenologica si vede come l'essere nell'umano si dilati in un campo che circonda il corpo e che il corpo può utilizzare come una sua funzione, come un organo sog/giogato. In tale spazio esistenziale le cose non sono più semplici cose, ma cose/utensili, oggetti d'uso per i bisogni del corpo, senso dei rimandi che collegano culturalmente gli oggetti. Avvicinandoli come ciò che è allamano (zu hand), e trascendendosi come ordine di senso delle cose, la coscienza si forma proprio maneggiando gli oggetti che si offrono alla manualità, a cui si applica l'intenzionalità del bisogno. La mano esplora il mondo, nutre il corpo, lo accarezza e nella possibilità dell'afferrare le cose dà modo di svilupparsi alle attività cerebrali superiori. Il gesto mosso dalla mano è un segno significante, progetto, etica; è il veicolo delle intenzioni che tendono a ordinare le cose, a creare una relazione col mondo. Il mondo/ambiente è allora proprio una rete di significati già costituiti, retaggio di altri che prima di noi lo hanno abitato lasciando tracce del loro essere vissuti. Venire al mondo significa venire in un certo mondo già popolato di significati; e noi siamo liberi in quanto donatori di senso, da cui deriva che l'attribuizione di un significato non è un'operazione puramente intellettuale ma dipende prima di tutto dal corpo nel suo essere nel mondo intenzionalmente, progettualmente, con una finalità pratica. Coltello/forchetta; trapano a mano, XIX sec. Il mondo è il luogo in cui afferriamo gli oggetti per la nostra salvezza, è uno spazio vivo ma sovrastrutturato da una metafisica delle idee, marchiato da una disperazione antica che cerca nell'elaborazione di tecniche sempre più raffinate di sfuggire alla morte (magari pure alzando al cielo il Totem del capitale come segno della benevolenza divina). Uno spazio allora dominato prima che dalle idee dal desiderio, dalla sessualità che è in fondo una visione e un modo di stare nel mondo; dalla carne che ha il potere di trasformare le idee in cose. Il corpo portatore di una memoria, come superficie di scrittura che assorbe le leggi della comunità tatuandolo (cicatrici, deformità, vaccinazioni, battesimi). Incarnando un significato dispotico che annulla l'ambivalenza, la sua disponibilità ad altre aperture di senso, il corpo non dice più nulla di sé, ma del significante che l'ha di/segnato (e infatti il potere si mantiene fino a quando si fanno funzionare i corpi secondo un regime di segni, come nel segno della croce). Compito del significante Rasula, raschiatoio per la zappa; cucchiaio in legno tiranno è quello di svuotare di senso tutti gli altri segni del corpo (se il corpo è una scena di questo significante, o/sceno è ciò che scopre le tracce rimosse dalla nostra storia simbolica). E così nel segno che annulla l'ambivalenza simbolica la riproduzione sessuale diventa riproduzione sociale, il corpo femminile valore di scambio, in quanto corpo/merce dispensatore di piacere garantisce la circolazione dei beni e le relazioni sociali, mentre la differenza sessuale trascende il significato biologico e diventa esercizio per il potere. Il corpo soddisfa i suoi bisogni nell'uso delle cose, e negli oggetti non c'è alcuna metafisica ma una trascendenza di significati che sedimentano in quello principale preminente del lavoro (A prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrigliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici. Marx). Il feticismo della merce nasce proprio col valore di scambio, ossia con l'ingresso della merce nel mercato, dove i rapporti sociali si mascherano sotto forma di qualità e si deteriorano nell'egoismo del possesso. Coltellino per l'incisione del legno Arcolaio, scorcio; macchina per affilare i coltelli Aratro semiotica fenomenologica di un significante Il corpo porta i segni della rappresentazione sociale, come un marchio nel quale si contraggono abitudini e la grammatica del lavoro quale timbro da codificare in tutti gli esercizi della vita umana. Esiste una mistica del quotidiano, soprattutto nell'essere il corpo una funzione per la produzione (Il corpo è un carniere di segni, il segno è un corpo disincarnato. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1976), che vuol dire mani che hanno cura della terra e dei suoi frutti, che hanno assorbito a livello cultuale il significante Collare bovino intagliato con scene rituali antropomorfe determinante della fatica. Mani che pregano, che si detergono la fronte, mani che nutrono e a/mano, che proteggono, ma sempre comunque dolenti e stanche. Le mani afferrano le cose e in esse la vita come a fare una domanda, immerse nel mondo, in un mondo che non solo circonda l'uomo ma si partecipa della vita stessa; raccolgono la terra, il chi (dell'esserci, senza volto o risposta), dove la vita si dissolve come in granelli che scivolano dalle dita e la domanda rimane sospesa nel nulla, nel silenzio. E allora le mani afferrano oggetti e nell'afferrare vanno al di là del segno surcodificato nelle cose allamano/sottomano, interpretano come un richiamo e un'esortazione a uscire dalle catene dei significati già codificati. Perché è la vita a chiamare, ad ordinare il vissuto, a orientare, a dare una Disegno in sezione di un collare incampanato ovino speranza di salvezza e redenzione. E la salvezza non la trovi nelle idee o nella fede, ma nelle mani che cercano scavando nella terra, nella prassi e nella totalità dell'esistenza, come un occhio che raccoglie il tessuto di relazione tra gli oggetti, il contesto dei rimandi in cui vive il senso autentico delle cose e dunque dell'uomo. E questo senso del sacro lo avverti nella domanda, nel chi, nel nulla (il problema dell'essere posto nell'esserci come interrogativo), nelle dita che afferrano gli oggetti ipercodificandoli a loro volta, com/prendono il mistero che è nelle cose, uccidono il significante e gli mettono un nome sulla tomba. Gesti quotidiani ripetitivi, dovuti più alla natura dell'attrezzo che all'anatomia del corpo, gesti simbolici che delimitano il confine dei significanti, che tolgono l'ambivalenza e delimitano un confine, stabiliscono un dominio di trascendenza dell'oggetto, facendone valore e visione del mondo. Mani che parlano della vita, che magari si alzano disperate al cielo, ma che ogni giorno portano le cicatrici della fatica, che implorano il dio assente della salvezza mentre sepelliscono gli affetti. Mani che conoscono la morte, ma che in qualche modo vincono sull'ineluttabilità della fine; così che quando la fatica ti spezza la schiena e il sudore scorre copioso sulla fronte capisci che il tuo posto è la terra, e allora la rispetti perché è là che riposa la tua verità Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze (F. Nietzsche). L'aratro è stato lo strumento principale per ridurre la fatica nei campi e dunque la condanna nell'esistenza, come un insieme di tecniche e un raccoglitore di significati che si muove nel mondo, afferrato dalle mani, segnate dai calli che le ripercorrono come una grammatica dell'esserci, il ci dell'uomo, quello in cui sedimenta una coscienza e dove una coscienza prima che tecnica diventa linguaggio ed espressione (Cassirer). Come una finalità sulle cose inserita nel bisogno della conservazione, costituendo relazioni culturali (mani, terra, erba, frutti, animali, cielo/terra/mortali/divini), dove si toglie il di più dal suolo, si scava, si semina la comprensione e si raccoglie l'essere come un progetto in cui l'esserci trasforma il corpo, lo nutre, lo mantiene in vita e delle volte lo ammala e lo uccide. L'aratro lo si controlla stando dietro (scrive Gioacchino Bruno nella sua analisi fenomenologica dell'attrezzo). Ve ne sono di due tipi; il più antico, che si può considerare come un'evoluzione della zappa, era l'aratro a chiodo (derivato dall'Oriente del IV millennio). Quello più tardo, più pesante, fornito di un vomere modellato per rivoltare il solco, compare dal I sec. ed era più adatto per i suoli di alto spessore. Interessante era l'uso dello strumento in relazione al corpo, nelle modificazione che la struttura anatomica veniva ad assumere. Nel processo di produzione del frumento le prime fasi della lavorazione della terra restavano affidate alla forza degli animali da tiro, buoi o muli, aggiocati all'aratro di legno. I bovini erano preferibilmente impiegati sui terreni pesanti o incolti (gerbi), in quanto col loro passo lento e poderoso e la loro struttura robusta permettevano di vangare e sollevare (ammassari) una maggiore quantità di zolle. Gli animali si legavano al giogo (iocu) per mezzo di due strisce intessute di cordicella ricavata dall'intreccio della foglia di palma nana. Queste giunture che si facevano passare sotto il collo dei buoi erano dettere paiuli. L'aratro ibleo, era a chiodo (aratru a chiovu), trainato da una coppia di buoi (paricchia), ed aveva una struttura interamente in legno composta dal giogo, la bure e il ceppo a cui era attaccato il vomere di ferro. Al centro dell'asta del giogo (che assolveva la duplice funzione di congiungere gli animali da tiro tra loro con il timone; e dunque il giogo era il punto di integrazione con l'animale ed era posto alla base delle due naturali gibbosità delle bestie), in un'apposita scanalatura, si applicava una correggia in cuoio (cunseri) che tratteneva un anello in ferro di forma ellittica (maniuni o mariuni), all'interno della quale si introduceva un'estremità della pertica fermata da una chiavarda (chiavigghia o chiavi). La bure (pertica) era una stanga sottile e lunga più di tre metri che collegava il ceppo al giogo. La base dell'aratro era composta dalla stegola (manuzza) che fungeva da impugnatura e permetteva la manovra da parte del contadino, e dal dentale (puntale o dintali) alla cui estremità si inseriva il vomere (ommara) in ferro con la punta in acciaio, a forma semiconica. Il giogo (nei suoi sistemi alternativi di fissaggio del giogo sul collo degli animali), prevedeva il ricorso al varruneddu e al sidduni. Ai fini di un'aratura ottimale era determinante l'esatta misurazione dell'angolo che si veniva a formare tra la pertica e il dentale. Bisognava tenere sempre l'aratru aggarbatu e mai a puntuni, per evitare che gli animali facessero troppa fatica nella trazione. La tinnigghia, un'asse di ferro ricurva talvolta appiattita, traforata o filettata introdotta nel ceppo fungeva da profime, ovvero da regolatore della profondità del vomere. Alla tinnigghia si assicurava la bure tramite un cardiddu. L'estremità inferiore curidda della pertica si incastrava nella cavità aperta del gomito del dentale, saldata da un cuneo in legno, il cugnu. Questo piccolo artificio si rivelava un fondamentale elemento mobile a garanzia della stabilità e dell'equilibrio di tutta la struttura. Nei casi in cui ad esempio il vomere non solcasse sufficientemente la terra, l'aratore poteva sistemare u cugnu (posto sotto la cudidda della pertica) ristabilendo la corretta distribuzione dei pesi e della forza. Due redini erano collegate alla manuzza e servivano a orientare la direzione attraverso la cavezza (capistru) o la nasiera (naseri), che erano una sorta di freno. L'uso di questo tipo di aratro a due animali venne meno con l'avvento dell'aratro a forbice a scocca, per il quale bastava un solo mulo. Intorno agli anni trenta fecero la prima comparsa gli aratri in ferro, disegnati secondo la forma del vecchio strumento, saldati per lo più in un unico pezzo. Evoluzione dell'aratro Da questa grammatica dell'aratro è evidente come le mani, il corpo, l'anatomia del contadino partecipino dell'attrezzo modificandolo e a sua volta modificandosi antropologicamente. Il corpo umano è centrale in tutto il contesto strumento/terra/sostentamento, e pone all'evidenza il mondo come un contesto di rimandi costituito dagli oggetti/enti come uso-per, come aver-da-essere, un'esistenza articolata nella polarità in-grazia-di (umwillen: il corpo e il suo sostentamento come finalità, causa efficiente) e in-vistadi (woraufhin: in quanto orizzonte, finalità del produrre, l'orizzonte/raccolto in cui riorganizzare l'insieme dei rimandi, il tessuto culturale). E dunque l'esserci, l'uomo, come ingrazia-di-cui, intenzionalità che di causa in causa, utensile dopo utensile rimanda come in un circolo alla vita umana, alla conservazione e alla salvezza. Le cose, gli utensili tutti, sono inseriti in un'opportunità (bewandtnis), che è la generale corrispondenza di tutte le cose, un organizzarsi degli oggetti in un fine che tutti li raccoglie. L'in-essere appunto, nel trovarsi familiare (vertrauen) non circondati ma significati dalle cose, abitati, abituati fino a prendere abitudini, ritmi e sistemi di vita, a innalzare Totem e farsi portatori di codici simbolici. E/sistere vuol dire esserci (Dasein) in una relazione di senso, nella vita nei suoi esercizi quotidiani; nel corpo segnato dalla stanchezza dell'essere in un mondo, dove in indica il fatto che il soggetto non esiste se non in relazione ad un altro, ed è tale relazione a generare gli oggetti e l'oggetto è l'effetto della relazione. Finimenti in cuoio e ferro per il giogo equino Anima della cavagna (contenitore per la ricotta); ferro a carbone Il mondo è un contesto di rimandi, l'opportunità quale tessuto della relazione chiarisce che tali rimandi sono orientati sulla base della struttura dell'esserci, dell'esserci in quanto chi, in-grazia-di-cui. La relazione col mondo si delinea allora propriamente come una grammatica degli utensili, una rete allamano, che vuol dire l'utilizzabilità, la maneggiabilità delle cose (una cosa è in relazione ad un'altra in quanto -als- rinvia ad altro per segno, morfologia o significato); perché l'esserci è nel mondo per fare qual/cosa, vivere, produrre, sostentarsi, amare. Questo qualcosa di antropoietico è ed era il lavoro che forma e redime, dà un orizzonte di senso e una possibilità, un orientamento totale che va dalla luce del mattino al tramonto del sole, appunto nei chiaroscuri (lichtenden bergens) di un giornata fatta di rimandi e sensi/non sensi e in cui cresciamo e com/prendiamo, ci troviamo (befindlichkeit) a vivere. E il lavoro, in quanto significante surcodificante e il corpo stremato dalla fatica come santuario ideologico raccolgono il di-verso nell'uni-verso (U. Galimberti), assorbono i corpi e li modificano nell'anatomia e nella fisiologia, fagocitano i simboli e li decodificano come una loro funzione, ingoiano parole e le trasformano in un linguaggio tecnico. Attraverso la mano (hand) che afferra la vita quasi con sacralità e con la cieca speranza non di una redenzione, ma di raccogliere nella terra seminandoli i frutti dell'assoluto, dell'essere. La salvezza è data certamente dal lavoro, ma non in quanto accumulo di capitale finalizzato a confermare l'uomo come parte di un processo divino (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. M. Weber), piuttosto come fluttuazione del corpo quale produttore di valori e degli accumuli di eccedenze nella comunità; quasi una mistica economica che portava -ad esempio nella Sortino Medievale- a vivere per lo più di scambi e nei tempi più antichi addirittura nella distruzione della parte maledetta della merce prodotta. L'eccedenza (il potlàc di cui parla Mauss e la dépense di Bataille), l'accumulo di beni non più scambiabili e utili solo ad arricchire il singolo, creando squilibri all'interno della comunità e la formazione del potere. Il potlàc era infatti la distruzione artificiosa della ricchezza e in essa dell'autorità, un sacri/ficio, un fare il sacro e la sacralità consisteva nella distribuzione (dell'essere nelle cose) in eguale misura, dando modo al simbolo e all'essere di vivere l'ambivalenza e di fluttuare liberamente nel gruppo sociale, senza la ipercodificazione del corpo come funzione per la produzione e la trascendenza simbolica delle cose nel loro valore di scambio (ad esempio l'oro). Mauss nel Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, racconta che per i primitivi le merci non erano cose, ma fatti sociali, e dunque tendevano a far passare il simbolo della prosperità nella comunità. Affumicatore per l'allevamento delle api L'epoca moderna, attribuendo un valore ideologico alla merce prodotta, una trascendenza, ha fatto in modo che i beni della terra e della fatica fossero invece scambiati per il loro valore cultuale (significato dal simbolo sovrastrutturante e religioso del denaro o dell'oro), interdicendo lo spreco e la distruzione della parte maledetta; ha risolto cioè l'ambi/valenza primitiva nell'equi/valenza che annulla le differenze (U. Galimberti), in quanto portatore di un significante autoritatrio e dispotico che annulla i flussi dei significanti trascendendo le cose. Marx sarebbe stato molto chiaro su questo punto: Una merce si trova in forma generale di equivalente in quanto viene esclusa da tutte le altre merci. E' solo nel momento in cui questa esclusione si limita ad un genere specifico di merci, la forma unitaria relativa di valore del mondo delle merci ha raggiunto la sua consistenza oggettiva e validità generalmente sociale. Carretto siciliano e particolare di un laterale Platone, e tutta la mistica economica da lui derivata, col tò agathòn (ciò che rende buona una cosa e la fa essere o non essere) ha mosso ad una metafisica della merce cercando nella trascendenza il valore e il senso delle cose. E' proprio nell'oro che Marx ha rinvenuto tale trascendenza, che chiama equivalente generale, il totem di un'identificazione sociale, appunto una pre/valenza. Nel grano (significante/sinonimo di denaro che allude ad una scambiabilità in moneta del cereale, e in essa ad una condivisione di un simbolo comune) e dunque nella cerealicoltura estensiva (già dall'età spagnola e borbonica), che la Sicilia ha fornito a buona parte della Penisola, dalla semplice produzione finalizzata allo scambio al mercato la degenerazione nel simbolo dispotico è evidente in tutta la storia della comunità isolana, con la de/formazione dei borghi rurali concentrati in mulini e macine, in cittadine/città di commercio. Mensole, casci ri fusu e chiavi di carro Queste dinamiche sociali tese ad un'equità nel gruppo di appartenenza sono ben visibili anche nella storia sortinese, ripercorrendo la quale come ha fatto Gioacchino Bruno, è venuto alla luce che il quartiere nobile della Diruta (Curditta) era praticamente isolato come una fortezza dal resto della cittadina, e che il simbolo di comunione tra ricco e povero era il senso del religioso (si incontravano solo in occasione delle ricorrenze cristiane), a cui però il povero non si sentiva vincolato, nonostante la legislazione tendente a conservare la subordinazione sociale, ad immolarsi fino all'estremo. E infatti sottolinea Gioacchino Bruno che In tali ricorrenze il nobile concedeva l'elemosina e il povero la riceveva. La religione (possiamo affermare) poneva il ricco e il povero sullo stesso piano, ma nel contempo li diversificava rafforzando quel divario sociale esistente tra le due classi. Il contadino non aveva col signore altri rapporti diretti; infatti chi amminastrava il suo patrimonio erano i notai, che registravano i donativi dovuti dal contadino al proprietario. Tale attività veniva esplicata all'interno del paese nella cosiddetta "Casa comunale", una costruzione fatta edificare dal Gaetani nel 1749 dove erano custoditi i registi notarili. Nel 1646 la Sicilia fu investita da una inesorabile carestia... A tale castigo divino Sortino non poté sottrarsi e i cittadini dopo un anno di stenti, spinti dalla fame, si ribellarono al marchese, e nel 1647 incendiarono la Casa comunale con ciò che conteneva. L'economia del paese era basata sull'arboricoltura (vite e ulivo), la pastorizia per la produzione di latticini, il miele, e l'artigianato con una compenetrazione straordinaria tra arti e mestieri in particolare in occasione della costruzione delle chiese. Nel museo di Nunzio Bruno sono conservati e valorizzati gli strumenti di lavoro dell'epoca. Per lo più oggetti manuali, in cui si avverte ancora la fatica della presa, la stanchezza della manipolazione. Molletta per carbone; piatta per la raccolta dell'olio (la forma dell'oggetto deriva più che dall'anatomia umana dalla funzione di travaso a cui era preposto) Frammenti dell'essere, questi attrezzi d'uso, che sono come segni di una scrittura primitiva, scambiati per fare circolare un senso che li trascende, strumenti di un equivalente generale che di volta in volta assegna ai loro nomi un valore. E il valore consisteva nel sedimetare nel significato sociale del lavoro e della ricchezza prodotta, la relazione dello scambio. L'oggetto prima di essere un mezzo di sussistenza aveva un significato dinamico sociale che garantiva nell'uso la sopravvivenza della comunità (La struttura del villaggio non fa che confermare il gioco raffinato delle istituzioni, esso rappresenta e assicura il mantenimento dei rapporti tra gli uomini e l'universo, tra la società e il mondo soprannaturale, tra i vivi e i morti. Lévi-Strauss). Proprio l'opposto di quanto è avvenuto nella modernità in cui il surcodificante è diventato autoritario/preminente all'interno del codice: i bisogni primari sono risolti in un'etica alta che umilia però la vita, in una trama di simboli e parole che hanno alienato l'uomo da se stesso, espropriato della terra, ridotto ai margini della produzione economica, umiliato da un dio che si fa sentire con una voce crudele I missionari impararono che il mezzo più sicuro per ottenere le conversioni consisteva nel fare abbandonare ai Bororo il proprio villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in linee parallele. Disorientati, senza potersi più riferire ai punti cardinali, privati del piano che costituisce una prova del loro sapere, gli idigeni persero rapidamente il senso delle loro tradizioni, come se il loro sistema sociale e religioso fosse troppo complesso per potere fare a meno dello schema reso manifesto dalla disposizione del villaggio e continuamente evocato attraverso i loro gesti quotidiani (Lévi-Strauss). Macchinetta per tappare le bottiglie, epoca XX sec.; tosa equini meccanica del XX sec., ultima esposizione del museo Il passaggio dall'essere al dio ha comportato proprio questa degradazione dei simboli e in essi delle elementari strutture delle società, dall'ambivalenza fluttuante del simbolo (symbàllein), nel dia-bàllein di un significato supremo che impone come reali i segni del suo codice, sopprime ogni forma di reversibilità simbolica e trasforma in Diavolo l'alterità (e la felicità, l'eudaimonia, nel daimonion, il demoniaco), ogni tensione che il Logos non riesce a comprendere e redimere. Una deformità conforme alla metafisica dei costumi (e poi del diritto e delle leggi), che fa della carne e della sessualità il veicolo di un sistema di segni prepotente che trascende la verità biologica del corpo e lo trasforma in un gioco di potere. Servendosi del corpo sfiancato dalla fatica, umiliato come santuario ideologico e fonte dell'alienazione e funzione dell'autorità; passaggio storico/culturale e antropologico che Marx conosceva bene La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con la carne cotta o mangiata col coltello e forchetta è una fame diversa da quella che divora carne cruda aiutandosi con le mani, unghie, denti. La produzione non produce perciò solo l'oggetto del consumo, ma anche il modo del consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore, perché non fornisce solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Dima, sagoma per intagliare la chiave di carro Braciere completo Contenitore di sostanze chimiche per la disinfestazione di alberi da frutto Ruota di un carretto Dall'essere al dio degenerazione antropontologica nel diritto e nelle leggi Il passaggio dall'essere a dio ha naturalmente prodotto una degradazione dei simboli originari nelle forme di culto popolare, e questo è visibile anche nella storia del territorio della Diruta e della sua devotissima gente e nelle leggi e norme che ne regolavano la vita. Gli stralci di banni et ordinationi, estratti dal Libro rosso di Sortino di Lidia Messina riproposti in queste pagine rendono bene l'idea di come il passaggio ontologico dell'essere in un significante dispotico surcodificante abbia certamente dato un collante e una identità alla vita comunitaria, nello specificare il diritto come derivato essenzialmente e giustificato in quello biblico/canonico, ma anche contribuito allo svilimento dell'uomo comune e dei suoi diritti basilari nei confronti del baronato feudatario, come è ad esempio avvenuto nel periodo di governo della famiglia Gaetani (1477-1796). Per quelli che biastemano il nome di Dio Primo perché appartiene al buon governo primariamente osservare a far osservare lo culto divino e la religione cristiana per lo presente banno si provede, ordina e comanda da detto signore di detta terra di Sortino che non sia persona alcuna di qualsivoglia stato, sesso, grado e condizione... che presuma biastimare il nome di Dio, della Beata Vergine Maria e i suoi Santi, ne fare lo diavolo Santo nello cospetto d'uno o più officiali o in chiesa o nella piazza e nei luoghi pubblici sotto pena nelle Prammatiche sopra ciò fatte, oltre di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta terra. Che non si venda vino a minuto senza licenza del gabellotto Item che non sia persona alcuna cittadina ne forastiera... che presuma in detta terra vendere vino a minuto senza licenza del gabellotto del vino o da detto signore. Che non si passeggi di notte Item che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado e condizione così citatina come forastiera tanto privilegiata quanto non privilegiata presuma né vogli andare a tempo di notte passiando per detta terra né stari a cantonera né ad altri parti di detta terra con lo sappularo miso con la facci immarrata o stravestito, come sole andare lo iorno sotto la pena di remigare due anni sopra le regie galere e questo s'intende dalle due ore di notte fino che sono lo pater nostro. Dopo l'Ave Maria non stiano nelli molini donne Sotto la pena di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta terra per ogni controventore. Per l'ingarzati Banno... con lo quale si ordina, provede e comanda che nessuna persona... ne deggia stare ingarzato con donne in qualsivoglia maniera, pretesto e colore sotto la pena di onze 10 per ogni controventore... e le donne sotto la pena della frusta e non ostante che non siano presi infraganti, ma basta che si provi detta controvenzione con testimoni. Quelli che sono prosecuti de' furto non possono andare di notte Sotto la pena di onze 4 per ogni controventore. Che non si possono assettare ne stare all'infrascritti lochi prohibiti Nessuna persona... si possa trattenere et assettare nelle vie e lochi infrascritti taliando e tentando donne... sotto la pena di onze 4. Che non si possa vendere carne ne bestiame senza licenza del gabellotto Di non potere chiudere terreno Banno per li luoghi chiusi Perché la temerarietà delle persone è arrivata a segno tale che nessuno può custodirsi quello che è suo per causa che molti indiscrizionati poco timorosi di Dio della giustizia entrano e vanno discorrendo nelli luoghi chiusi e patronati con rubbare di più. Banno per li bestimatori Banno che non si possa portare cortelli meno di un palmo Che non si possa sparare ai porci Perché... la poca descrizione delli genti che tengono porci in questa terra è arrivata a segno tale che le genti non sono padroni del suo, in maniera che s'ha ormai perduto l'orticelli ed altri che tengono innanzi le loro case per loro deporto... s'ordina... che nessuna persona... presuma sparare a porci nelli loro orti. INTERVISTA dis/correndo con Gioacchino Bruno Allora Giacchino è venuto il momento di farti delle domande. Ho portato con me uno di quei vinelli di casa che avvicinano all'essere e rendono piacevole il mio soggiorno in Sicilia; mentre lo sorseggiamo voglio chiederti alcune cose. Che cos'è l'antropologia? L'antropologia è la scienza che studia le tracce dell'uomo; tali tracce sono le materie prime essenziali e di facile reperibilità, come il legno e la pietra che sono quelle più comuni, mentre il ferro e la terracotta risultano più recenti e eleborate. Sono questi gli elementi basilari che fusi a volte insieme fanno l'essenziale per il quotidiano; proprio nei manufatti elaborati come utensili c'è l'uomo e la sua storia, ed è possibile estrarre la vita vera. Una volta la casa con tutte le supellettili te la costruivi in proprio e negli attrezzi si assorbiva non solo la tecnica e gli usi di quella specifica comunità, ma la storia stessa di una persona e della sua famiglia. Tali oggetti venivano ereditati per generazioni, perché non si conosceva il consumo e c'era solo l'essenziale. Non si può descrivere a parole cosa significhi maneggiare quei manufatti, ripercorrere con le mani le emozioni suscitate da quell'artigianato. Trovi appropriata la definizione di antropontologia che ho dato del tuo lavoro? Bhe sì, anche se lo sai che non amo speculazioni eccessivamente intellettuali. Se però intendi con questo neologismo nella ricognizione dell'oggetto la ricerca della verità sono d'accordo. Una volta gli attrezzi te li costruivi con le mani, e ciò che rimane sono tracce/frammenti che nel piccolo concentrano e raccontano l'ambiente più ampio. Quando scopro un reperto nuovo, avulso da un contesto e che non ho mai maneggiato, mi trovo davanti al mistero e cerco di coglierne afferrandolo e adoperandolo certamente la funzione pratica, ma in essa il senso globale delle cose. Se questa traccia del passato è l'essere immanente e assente di cui parli, mi sembra la definizione più corretta. C'è differenza tra artigianato e arte? L'artigiano esegue lavori su commissione, per danaro. Il committente è stato importante per l'affinamento delle tecniche perché piu' facoltoso era piu' l'artigiano si trasformava in artista. L'artista segue invece il suo istinto, è libero; può essere considerato un'evoluzione culturale dell'artigiano. Cos'è per te questa terra? È la mia vita, qua c'è tutto da scoprire. Più di tre giorni lontano non riesco a stare; mi riempe di felicità e appaga ogni mio interesse. Come quando ho scoperto palmenti arcaici (vasche intagliate nella roccia in cui avveniva la pigiatura dell'uva). Già da molti anni avevo fatto una ricerca, e quando mi sono trovato davanti alla roccia impermeabile ho avuto un'emozione fortissima. Si trattava di vere opere d'arte: una vasca intagliata in una tomba paleocristiana, un'altra in contrada Favara all'interno di una tomba Castellucciana (così sono chiamati oramai i reperti simili a quelli trovati in quei luoghi e da cui hanno assunto il nome) nelle vicinanaze di Noto. Che cos'è il sacro? Il sacro è rispetto della tradizione, della vita. Il sapere e la conoscenza scavano sempre nella terra, dove riposa la nostra storia e in cui è depositata la memoria dei nostri cari. Il sacro è ciò che è permanente, che rimane, di significativo. Dunque l'essenziale, l'essere. Ho visto la tua documentazione, soprattutto le cartografie mi hanno stupito per la meticolosità; qual è il metodo con cui lavori? L'interesse prima di tutto e il piacere della scoperta. Quando ho prodotto le carte del territorio l'intenzione era quella di rilassarmi dal mestiere di fotografo, esercitando la mia passione di ricercatore. Diciamo che è stato molto naturale per me. In questo ambiente mi ci trovo da sempre, già da quando abitavamo a Floridia, avevo 6-7 anni e mio papà permetteva solo a me di toccare i vasi in ceramica che trovava nelle sue ricerche. Da piccolo sono stato educato all'amore nel toccare un vaso; e quanto mi piaceva sentire la storia di un corpo in quel coccio, vederci le mani che lo avevano maneggiato o immaginarci le labbra che lo avevano dissetato. Quando mi trovo davanti ad un territorio nuovo, osservo prima di tutto i segni dell'uomo, come può essere un masso geologicamente fuori posto. Questa cosa stimola la mia curiosità, perché qualcuno deve avercelo portato; cerco allora informazioni nei documenti su insediamenti umani e comincio a produrmi materiale visivo con disegni, fotografie e plastici perché voglio ricostruire quel sito come era all'origine. E' così in ultimo disegno carte senza i segni dell'attuale urbanizzazione; e sono carte che non esistono nei documenti perché nessuno aveva mai pensato a farle. Com'è nata l'idea della casa/museo di Floridia? Non è stata un'idea ma un percorso lineare. Mio padre Nunzio comprò appositamente una villetta già nel 1972 che successivamente ampliò in modo da contenere le migliaia di oggetti che aveva raccolto. Da che ho memoria la mia casa è sempre stata un museo ed è da sempre che respiro la storia che trasuda da tutto quello che mi circonda. La casa in cui vivo non può essere che una casa/museo. Mi racconti di tuo padre Nunzio e di tuo nonno Gioacchino? Nunzio, mio padre è stato un'ossessione e un'ombra, severo e a volte rude, quasi un orso come spesso capita alle persone di talento ma un esempio con la consapevolezza e il rispetto che portava al lavoro, tanto da farmi travagghiare come un mulo. Mi ha aperto non solo allo studio dell'entonoantropologia, ma è stato anche il mio maestro di bottega e da lui ho imparato i rudimenti del disegno e le tecniche della fotografia. Ad esempio mi ha insegnato a spuntinare, a fare dell'unghia una tavolozza, prendere i grigi col pennellino e riempire i bianchi lasciati dal pulviscolo sull'immagine stampata. Il corpo ha una possibilità infinita di partecipare al fatto creativo, credo di averlo compreso allora. Mio nonno Gioacchino mi ha insegnato a ad ampliare proprio le possibilità del corpo, ad usare ogni parte stimolando la mia curiosità ed educando la mia fisicità per la realizzazione di un prodotto estetico (mi ricordo mentre dipingeva le scenografie con una scopa, con una vitalità creativa di getto e senza ripensamenti); è stato il mio maestro di pittura ma soprattutto mi ha dato una visione estetica del mondo. Grazie a lui ho imparato a costruirmi gli strumenti di lavoro da solo, come gli artifici per ottenere degli ellissi perfetti con due chiodi e una cordicella, e lavoravamo in sinergia intellettuale, tanto da avere impiantato nella sua casa una camera oscura. Tieni seminari e lezioni soprattutto in associazioni culturali o come guida per scolaresche e studiosi nel museo di Floridia; è importante tramandare il tuo sapere? Certo, tutti leggiamo il libretto d'istruzioni di una macchina fotografica, di un qualsiasi utensile o di un elettrodomestico; poi però bisogna ampliare le conoscenze con la pratica e il lavoro. Certe cose te li crei tu con l'esperienza acquisita; le novità che si introducono nella tecnica si devono tramandare, e l'espediente è appunto l'insegnamento. Alla luce hai dedicato un intero ciclo di lezioni, cos'è la luce? La luce è la mia vita, non solo per mestiere, trovandomi da sempre in una terra assolata e calda. E' ciò che consente ad una cosa di essere vista e vissuta, è la vita che c'è in quella cosa. La luce è l'ombra e pure l'ombra è prodotto dalla luce; l'artista in generale percepisce i chiaroscuri e modella i toni per ottenere un volume, il corpo dell'oggetto. E' energia la luce, calore, istinto in un fotografo, tanto che io usavo l'hassemblad senza esposimetro, facendomi guidare dall'esperienza. Un'ultima domanda; le mani, è corretto dire che sei un pensatore che trae ispirazione, conosce con le mani? Questo interesse credo sia centrale nel tuo lavoro anche di fotografo, come si vede nella bella mostra fotografica sui contenitori nella storia contadina iblea che hai tenuto nel 2008 nel museo di Floridia Il tatto percepisce quello che sfugge all'occhio, ad esempio un chiodino che spunta da un legno. L'occhio può ingannare come il legno che vede spezzato nell'acqua, il tatto, la presa no. Quando trovo un attrezzo nuovo, sconosciuto (e non sono tanti dopo tutti questi anni di ricerca) capisco cos'è prima di tutto cercando il manico, che in genere è la parte liscia e a misura della mano. Se trovi il manico, quando lo afferri capisci cos'era quell'oggetto e la sua funzione, come una grammatica che è interna alla cosa e la delimita nelle funzioni e nell'uso. Cominci a maneggiarlo, cerchi di usarlo e ne scopri la funzione. Pinza, martello e sega sono stati e sono gli attrezzi minimi elementari eleborati sull'anatomia e sulla base dei movimenti della mano nel contesto produttivo artigianale. La pinza nella forma, nel materiale e nella struttura racconta la mano quando afferra, il martello il movimento verticale, la sega quello orizzontale; analizzare un utensile è ripercorrere un lavoro, gli esercizi della mano che con quel lavoro ha sostentato il corpo. NOTA AUTOBIOGRAFICA di Gioacchino Bruno Nasco a Solarino in una casa all’angolo con il Corso principale; era il 1963, la casa… non me la ricordo. Quando avevo due anni la famiglia si trasferì a Floridia in via IV novembre 22. Era il periodo in cui si giocava per strada, il posto più lontano si trovava ad un isolato di distanza ed era l’antica uscita del paese prima che costruissero il ponte sul Torrente Mulinello. In questo luogo denominato localmente “u vadduni”, cioè il vallone, vi era la bottega del fabbro, che ferrava i cavalli e i muli e ricordo pure il bottaio. Da ragazzi ci andavamo per riempire la giornata, ma c’erano le botteghe artigiane e i gestori non volevano che scorrazzassimo per le vie. Allora ci dirigevamo per la “trazzera” che scendeva al “vadduni”, presso una “gebbia”, una grande vasca piena di acqua melmosa per tirare le pietre alle rane. Non siamo mai scesi più di tanto, rammento che era impraticabile, piena di rovi e cespugli. Una vecchia trazzera abbandonata. Per strada si giocava a palla raramente perché il gruppo era formato da molte ragazze. Frequentavo all'epoca la piazza grande vicino la chiesa Madre e ogni tanto andavo al Carmine. Questo fu un periodo di gioco sfrenato. Tutti i giorni andavo a consumare le scarpe di ginnastica. Un paio durava due tre mesi. Quando avevo otto/nove anni mio padre portò la famiglia in una campagna appena acquistata. C'era una distesa di spine alte due metri, era un roccaro. Il terreno l'aveva ottenuto con pochi soldi. Costruimmo le fondamenta della casa; dopo un anno di lavori ci trasferimmo in campagna, era il 1972 e io avevo nove anni. Questo è il periodo in cui spostammo gli oggetti che si trovavano in una vecchia casa in via IV novembre, vicino dove abitavamo (al numero civico 22 vivevamo, al 26 c’erano gli oggetti, al 32 lo studio fotografico). Mio fratello iniziò a correre con la bicicletta. Io lavoravo in campagna, piccoli lavoretti pomeridiani, c’era sempre la ricompensa. Mia sorella studiava. Mio papà, fotografo, mi portava a fare i matrimoni. Verso i dodici anni facevo già le prime fotografie; il mio momento veniva dopo il taglio della torta quando gli sposi si fanno ritrarre con parenti e amici. Io avevo la macchina fotografica, mio papà dirigeva le operazioni e lo ricordo mentre urlava i nomi delle persone che doveva fotografare. Mi diceva “Jack si prontu”. Così ho iniziato ad usare la 6x6, all'epoca c’era la Rolleiflex, una biottica; poi comprò l’Hasselblad e aveva una Nikon F che non mi ha mai fatto toccare. In seguito l’ha cambiata per una Rolleiflex con il motorino per l’avanzamento della pellicola. Dopo pochi anni mi insegnò a caricare la pellicola nella macchina. Fatto questo ero pronto per uscire da solo a fare fotografie. L’occasione fu un compleanno: chiamò mia mamma e mi disse “Gioacchino tuo padre non c’è, torna tardi da Catania, devi andare a fare un compleanno in via Tizio numero tot”. Partii per il mio primo compleanno, avevo 13 anni. Quell'anno mi iscrissi alla Scuola d’Arte di Siracusa. A 16 anni mio papà mi mandò da solo a riprendere un matrimonio. Questo è il periodo nel quale ho conosciuto Cettina, la mia compagna; c’era la radio a Floridia e mio padre era l’organizzatore. Io trasmettevo nel pomeriggio e mi alternavo con un amico, Salvo Romano. Arrivò quindi la chiamata alle armi e dovetti rinuciare agli studi. Fui spedito a Viterbo, poi a Siracusa presso il 34 CRAM dell’aviazione e infine a fare da sponda con il distretto del Villaggio Miano e Testa dell’Acqua dove c’erano i radar. Mi congedai il 27 agosto del 1983, il giorno dopo nasceva mio figlio Nunzio. Iniziò una nuova vita. Avevo finito il militare, ero padre e sapevo fotografare. "Bene eccoti macchina fotografica e flash e vai a sfamare la tua famiglia", così disse mio padre. Mi convinsi ad aprire una succursale dello studio a Belvedere perché c’era un immobile mezzo libero. I muri erano di nonno Felice, il papà della mamma di Cettina. Aprii lo studio ma lavoravo poco. Dopo un anno decisi di aprire a Sortino, che già frequentavo da professionista visto che là c’era una succursale gestita da mia zia Celina. Liberammo la casa del Corso al civico 93 da tutte le cose che vi erano custodite. Comprammo delle scaffalature in metallo rosse e nere e una scrivania. Avevo una Hasselblad CM500 ed un flash Metz 60. Utilizzavo la Pentax K1000, una 35 mm come macchina di riserva, ma quest’ultima non era mia e acquistai una Reflex, la Nikon FA, che fu la mia prima macchina. Il mio archivio fotografico risale al 1984, perché fu allora che iniziai a fotografare per passione. Ad oggi ho collezionato 1000 fogli di acetato, ogni foglio contiene 8 strisce, ogni striscia contiene 6 negative 24x36 non sempre piene. Dopo Mascalucia mi trasferii a Floridia sopra lo studio, quando la radio fu chiusa, in Corso Vittorio Emanuele 326 al secondo piano. Mi spostai definitivamente a Sortino nel 1987. Avevo una famiglia e uno studio fotografico, lavoravo da matti. Per hobby facevo foto del paese. Iniziai a leggere la bibliografia della storia sortinese e di Pantalica, accompagnavo la lettura con passeggiate esplorative. I primi anni li ho dedicati a Pantalica grazie alle conoscenze di un carissimo amico, Enzo Fraello. Poi ho scoperto le trazzera che si intrecciano nelle vallate e con esse le diversità delle contrade. Finché è venuto alla luce il quadro antico che raffigura il vecchio paese di Sortino prima della distruzione del terremoto del 1693. Da quel momento una grande forza interiore mi ha spinto a fare delle domande, erano le risposte che dovevo cercare. Cercare dovunque nei libri, nei disegni e nei dipinti, nei manoscritti, nel terreno, nel sapere degli anziani, discutendo con gli uomini di cultura. A casa disegnavo quello che mi mancava per comprendere meglio l’assetto urbanistico del vecchio sito, realizzando mappe via via sempre più dettagliate. Dopo due/tre anni che avevo fotografato ogni cosa, cominciai a farmi un'idea archeovisiva degli scorci della vecchia città; dove avevo già perlustrato ritornavo per guardare il panorama con un’altra luce. Vedere e cercare, accumulare più informazioni per meglio elaborarle e così trovare risposte alle mie domande. Intramezzavo le escursioni verso le rovine della Sortino Antica con passeggiate, finché una volta mentre mi aggiravo per la Lardia incontrai la dottoressa Beatrice Basile della Soprintendenza di Siracusa (persona meravigliosa); andavo quindi alla Fiumara per incontrare pastori e contadini, da Serramezzana a Gesolino. Belle esperienze quelle di Farina e Favara, non di meno le ricerche della Carrubba, la Costa Giardini, il monte Buongiovanni e la sua cava, Santo Mauro e Vallonazzo. Come pure la passeggiata con Nuzzo Mosca presso la Necropoli di Cava Rovettazzo. Perlustrai i Cugni a visitare neviere e di nuovo a camminare alla scoperta di cave e pirreri, di abbeveratoi e cisterne, di grotte e spelonche, di nicchie e gradini intagliati, abitazioni rupestri intonacate e affrescate, cascate di calcare solidificato, saie e canalette, paratori e mulini, torchi e macine, discariche abusive e colate di cemento, ecc. ecc. Nel 1993 in occasione del 300° anniversario del terremoto del 1693 ho voluto racchiudere in un opuscolo le mie ricerche; mandai le pagine in stampa con l’aiuto economico di amici e conoscenti, “Sortino Diruta”, lo scrissi con Luigi Ingaliso. Alla presentazione del libro tenuta ai Cappuccini feci pure una mostra di fotografie sulla Sortino Vecchia. Per lunghi anni non ho frequentato assiduamente Floridia e con essa la Villa Museo, ci andavo una domenica si e tre no. Mi impegnai invece nel sociale, insieme ad amici costituimmo un’associazione dal nome “Spazio Arte Giovani”, esperienza che mi ha fatto conoscere non solo come fotografo. E' di quel tempo un'opera che avevo nel cuore: la storia di Sortino raffigurata in un grande murale. Nacque così “Sortino nel tempo”, un'opera di 35 metri circa, alta 3 metri, dipinta nel muro perimetrale della palestra adiacente la Chiesa Madre di Sortino. Io ne curai il progetto e i disegni, la parte pittorica fu eseguita da Sebastiano Pane e Alessandro Rapisarda aiutati da Mario Matera e Roberto Sequenzia. Un altro murale importante fu quello che realizzai presso La Villa delle Rose, lungo 42 metri e alto 3,50. Tracciai 6 scene; le due scene centrali ripercorrevano il quadro della Sortino Diruta, mentre le scene laterali, due a destra e due a sinistra, rappresentavano scene della Sortino Diruta attuale, cioè i ruderi archeologici. Questo dipinto intitolato “Sortino Diruta” fu eseguito con Sebastiano e Alessandro, sempre con l’aiuto di Mario Matera. In questo periodo impiantai una camera oscura per la stampa in Bianco & Nero; presi una casa in affitto per centomila lire al mese nella Scalinata dei Cappuccini, all’angolo con via Roma. Due stanze una al primo e una al secondo, con cucina e bagno in miniatura. Oggi questa casa non c’è più, l’hanno demolita. Lo studio del vecchio paese di Sortino, nel 1998 mi portò a pulire diverse case della Sortino Antica e tutto il materiale trovato si trova oggi presso il deposito archeologico comunale (e tale deposito è nato proprio dalla necessità di custodire la quantità crescente dei reperti). Il materiale di ricerca ha permesso all’Amministrazione Comunale di preparare un progetto per rivalutare il Convento del Carmine, convertirlo in deposito archeologico ad esposizione permanente, un Antiquarium. Nacque come Antiquarium medievale. Il progetto per finanziare il restauro fu accettato e si rimodernò il Convento. Negli anni 90 ricoprendo la carica di segretario della Pro-Loco Pantalica Sortino, ideai la celebrazione del presepe vivente presso una grotta della Sortino Diruta. Nel 1994 cominciai a realizzare il plastico in scala della Costa Sortino; scelsi il gesso come materia per intagliare la topografia del vecchio paese e posizionare case chiese e strade nelle tre dimensioni, visto che avevo già prodotto uno studio cartografico. Un anno di lavoro culminato in una esposizione presso il Circolo Rinascita. La presentazione del plastico mi ha permesso di mettere in mostra anche parte dei lavori artistici che avevo prodotto negli anni addietro. Nel 2007 custituii il Circolo SiciliAntica sede di Sortino per agevolare il processo di salvaguardia del nostro patrimonio culturale. Lo stesso anno mi chiamò mio padre dicendo che avrei dovuto fare un progetto per il nuovo museo che sarebbe nato a Floridia nella ex-caserma dei Carabinieri e vecchio Carcere. Naturalmente mio padre aveva una collezione enorme di reperti e io non facevo altro che accrescerla. Da tempo leggevo dei lavori agricoli e pastorali degli iblei e avevo una certa familiarità con gli oggetti. Quando andavo a Floridia a trovare la mia famiglia c’era sempre un lavoro da fare, qualcosa da spostare o da sistemare (sono stato io ad avere pulito le collezioni, centinaia forse di più, con l'aiuto e il sostegno di mia madre, che così mi spronava: “Forza Gecchi puliziamu ca avveniri a scuola”). Iniziammo a sistemare mobili per l’esposizione, restaurammo oggetti in ferro e legno. Venne il giorno della consegna delle chiavi, andammo a vedere i locali; erano in pessime condizioni, specialmente il carcere. Serviva una restaurata. Cosa che si completò nel giro di un anno. Si cominciò a mettere qualche oggetto, i locali ancora erano della Pro-loco che se ne serviva per esposizioni. Tempo addietro mio padre era stato incaricato di esporre qualche oggetto. L’esposizione piacque a tutti, tanto che ci invitarono di arricchirla con altri esemplari che si trovavano a Villa Museo. La politica si rese conto che era necessario ufficializzare le nostre raccolte; fu così che il Comune di Floridia la Provincia di Siracusa e l’Associazione Xiridia firmarono un protocollo d’intesa col quale concedevano i locali dell’ex carcere e del piano terrano della ex stazione dei Carabinieri di Floridia per 30 anni più 30. Mio padre mi spinse a proporre un progetto per il museo. Nella mia idea si sarebbero dovuti restaurare i locali, smantellare l’esposizione primaria per consentire i lavori di manutenzione. Ci misi l'anima, mi procurai cassette in legno, smontai l’esposizione selezionando il materiale per tipologia: martelli con martelli, seghe con seghe. Come i lavori furono completati iniziai a separare gli oggetti per ciclo produttivo, pensai alla dislocazione dei mobili in base agli oggetti che avrebbero contenuto. Si completò il museo e si fece l’inaugurazione. All’Associazione Xiridia che gestiva il museo di Floridia la Provincia stanziò una cifra. Con la burocrazia e le scadenze mio padre non riusciva però a dialogare, fu mia sorella che lavorava presso la Provincia di Siracusa ad aiutarlo nella gestione delle carte dell’Associazione. Mio padre morì nel 2009, il museo continua ad essere aperto con una esposizione permanente rivoluzionata. Oggi sto aprendo un laboratorio a Sortino (Centro Studi Sicilia Antica) per facilitare la raccolta degli oggetti antichi, tutelarne la storia e promuovere la conoscenza della tradizione. La mia idea è di muovere a un progetto di valorizzazione del territorio sulla base delle ricerche fino ad ora sviluppate. Mostre fotografiche: aprile 1989 “Attimi fotografici”, galleria De Santis, Como. Novembre 1990 “I quattro canti di Sortino”, Circolo rinascita Sortino. Agosto 1995 “Sortino Diruta”, Circolo rinascita Sortino. Agosto 1996 “Pantalica”, Villa museo Floridia. ottobre 2005 “Pantalica è Sortino”, Antiquarium sortinese. Ottobre 2007, “Valorizzazione di Sortino diruta”, ex Palazzo comunale Sortino. Fornitura fotografica: 1989 “Sortino nei soprannomi” di Giuseppe Rossitto. 1990 “Chiese conventi e palazzi di Sortino” di Giuseppe Salonia. 1995 “Storia di Sortino e dintorni”, nuova edizione, di Sebastiano Pisano Baudo. 1999 “Ciclopi e ciminiere” di Paolo Mangiafico. 2001 “Sortino”, edito da GAL Val d’Anapo, a cura di Massimo Papa. 2004 “Il libro rosso di Sortino”, a cura della Dottoressa Lidia Messina. 2007 “Sortino ieri e oggi” di Padre Amodeo G. Iaia. 2009 “Antiquarium sortinese”, Comune di Sortino. Mostre tematiche: novembre 2007 “I doni e i giochi nella tradizione di Ognissanti”, museo della civiltà contadina iblea, Floridia. Marzo 2008 “I contenitori nella cultura materiale iblea”, museo Floridia. Novembre 2008 “Vino botti e bottai”, museo Floridia. novembre 2009 “Dall’ulivo all’olio”, museo Floridia. Settembre 2011 “L’amore per il Collezionismo” Sala polifunzionale presso il Museo della Civiltà Contadina di Floridia. Plastico Sortino Antica onto/memorie 21 Gennaio 2012 L’idea nacque dal bisogno. Mi serviva vedere a tre dimensioni la “Costa Sortino”, così si chiama attualmente la contrada dove si trovano i resti del sito archeologico di Sortino Antica. La puoi chiamare “Sortino Medievale”, “Sortino Diruta”, o più comunemente “Sciuttinu Vecchia”. In questa costa a grandi gradoni prospicienti il Fiume Guccione, si scorgono qua e là tantissime testimonianze architettoniche intagliate nella roccia, grotte grandi e piccole; grotte naturali e artificiali; anfratti perfezionati; nicchie ed archi portanti; tramezzi e pavimenti; e poi i tanti modelli di canalette per l’acqua; scale costruite ed intagliate; gradoni e gradini; testimonianze dell’antico Villaggio rupestre diventato borgo e poi comune. Dopo averla perlustrata diverse volte nella sua totalità, mi sono dedicato a porzioni di essa, per studiarla fino in fondo. Grazie alla collaborazione dei miei familiari ho potuto esercitare un hobby così impegnativo. Dopo aver scattato migliaia di foto e realizzato centinaia di disegni e mappe, decisi di vedere il paese come era fatto. Così pensai di fare un plastico. Il parto fu laborioso. Per prima cosa feci un mini plastico della montagna con su scolpite delle piccolissime case, lo feci in argilla. Plastico che ancora conservo. A questo punto preparai le carte per fare i modelli. Come materiale scelsi pannelli di gesso, 50x70x8, quelli che si utilizzano per le tramezzature di ambienti. Partendo dalla base, cioè la parte alta del Fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie di scalinata, calcolai che successivamente dovevo intagliare le case. Mentre intagliavo gradini facevo pure i muretti a secco e le strade; intagliavo e coloravo, tracciavo e intagliavo. Man mano che realizzavo mi spiegavo tutto quello che avevo letto. La posizione delle strade dava finalmente delle chiare risposte alla topografia generale. La posizione del Castello dominante su tutto con al suo fianco la torre adesso si poteva ammirare in 3d. Le carte sono importanti, ma non tutti hanno la competenza per trasformare linee, punti, stelle cerchi e forme di una carta topografica in cose. Facendo il plastico per me l’ho fatto per tutti. Per la parte manuale ho impiegato 12 mesi, mentre il progetto nella sua totalità l’ho sviluppato nell’arco di 5 anni. È stato acquistato dal Gal Val D’Anapo con 5 milioni di lire, per essere esposto nell’Antiquarium sortinese, presso il Convento del Carmine di Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso dall’aiuto di Vincenzo Pane. Attualmente è posteggiato fra l’ascensore e l’entrata dell’Ufficio Tecnico del Comune di Sortino. Adesso che mi ritrovo un laboratorio meraviglioso vorrei farne uno in legno, rappresentando la realtà di oggi, cioè ruderi e sentieri attuali. Possibilmente utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello precedente in gesso che mostra come era il paese nel XVI sec., con le case e le chiese. Sarebbe una bella base per avviare campagne di ricerche, per rintracciare le spoglie nascoste da terra e pietre. La costa com’è ora, con i ruderi conosciuti intagliati ed evidenziati. Come un puzzle che si deve comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie, la conoscenza te la danno i libri; trasformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione, pianta, cartina, plastico, sculture per vedere quello che non c’è più nella sua totale integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa che non c’era, questo fu lo stimolo, io volevo vederlo. Di Gioacchino Bruno BIBLIOGRAFIA MINIMA F. Giuliano, Il castello di Sortino (con interventi, fotografie e disegni di G. Bruno), Comune di Sortino, 2000 Lidia Messina, Libro Rosso di Sortno, Archeoclub, 2003 Lidia Messina-Concetta Corridore, Sortino e la famiglia Gaetani, La Ediprinteditrice, 1988 S. Pisano Baudo, Sortino e dintorni, Lentini 1910 Andrea Gurciullo, Memorie Spettanti a Sortino, Catania, 1794 Gioacchino Bruno-Cristian Isabella, U Nummu Ru Gesu, Xiridia 1995 Gioacchino Bruno-Luigi Ingaliso, Sortino Diruta, 1993 Paolo Mangiafico, Ciclopi e Ciminiere, Prova d'Autore, 1999. Pagg. 46-51 Dionisio Mollica, Sortino: archeologia, storia, arte, tradizioni, Tipografia Invernale Floridia, 2001 (fotografie di G. Bruno) Giuseppe Rositto, Sortino nei soprannomi, Cuecm, 1989 (fotografie G. Bruno) Giuseppe Salonia, Chiese, conventi e palazzi di Sortino, Arti grafiche Marchese, 1990 (fotografie G. Bruno) Luigi Lombardo, La valle dell'Anapo e i Leontinoi, Grafiche Cosentino, 2006 Vincenzo Pane, Sortino Diruta, Tesi di Laurea Accademia di Belle Arti Catania anno 2003/2004, relatore prof. S. Todisco Per quanto riguarda la rassegna giornalistica, diversi quotidiani già dal 1995 si sono occupati in più occasioni del lavoro di Gioacchino Bruno; tra gli altri si ricordano La Sicilia, L'Aperiodico e La Gazzetta del Sud. Gioacchino Bruno Reperibile a Sortino (SR) presso il laboratorio di via Roma 13 [email protected] Giancarlo Buonofiglio; tra le sue pubblicazioni: Il demoniaco nella nevrosi ossessiva; Il linguaggio delle emozioni, manuale storico/critico di psicoanalisi; Kandinskij, dinamiche storiche di una piramide spirituale; Non desiderare la donna d'altri; Decalogo ad uso di chi proprio non può fare a meno di vivere (in stampa). [email protected] Le fotografie e i disegni nel testo sono di Gioacchino Bruno ***** Proprietà letteraria Giancarlo Buonofiglio