III CAPITOLO
John Martin
III.1. John Martin
Sebbene fino a pochi decenni fa John Martin fosse un pittore ormai dimenticato, le cui opere
principali venivano battute all’asta per poche sterline, egli fu, indubbiamente, uno dei principali
artisti del suo tempo come si legge nell’Arnold’s Magazine of the Fine Arts del 18331, e fu spesso
valutato come il maggiore rivale del più noto J.M.W. Turner. Qualsiasi tentativo di comprendere
l’arte di Martin deve tenere in considerazione alcuni elementi fondamentali della sua vita, come la
famiglia, il credo religioso e le teorie politiche. Nacque il 19 luglio 1789, l’anno della Rivoluzione
francese, a East Landends, nelle immediate vicinanze del villaggio di Haydon Bridge, nella Tyne
Valley, un posto tristemente noto per numerosi disastri naturali.2 Come afferma William Feaver,
uno dei principali e più recenti biografi dell’artista, «Martin, the artist of flood, apocalypse, and
disordered time-scales, could not have been born at a more appropriate time or in a more formative
place».3 Sua madre, Isabella Ridley, impartì una rigorosa educazione religiosa attraverso saldi
principi, preghiere due volte al giorno, e un continuo raffronto fra la realtà e la Bibbia, crescendo i
suoi figli con la profonda convinzione che discendessero dal martire protestante Nicholas Ridley
(morto nel 1555) e con l’idea che «there was a God to serve and a hell to shun and that all liars
and swearers are burnt in Hell with the devil and his angels».4 Isabella fu, inoltre, una donna
eccezionalmente ambiziosa per la sua famiglia, e dotata, a suo dire, di poteri sovrannaturali, tanto
da udire in punto di morte una musica celestiale e avere la visione che presto il nome della sua
famiglia «would sound from Pole to Pole».5 Secondo Thomas Balson, altro noto studioso
1
M. Arnold, On the Genius of John Martin, in “The Magazine of the Fine Arts”, December 1833, vol. III, passim, citato
in M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p. 14, e riportato parzialmente in Appendice I, pp. 289-298.
2
W. Feaver, The Art of John Martin, Clarendon Press, Oxford, 1975, p. 1.
3
: Ibidem: «Martin, il pittore del diluvio, dell’Apocalisse e dei disordinati tempi d’esecuzione, non sarebbe potuto
nascere in un tempo più appropriato e in un luogo più formativo».
4
J. Martin, The Life of Jonathan Martin, T. Clifton, Barnard Castle, 1826, ripreso poi in T. Balston, The Life of
Jonathan Martin, incendiary of York Minster, with some account of William and Richard Martin, MacMillian & Co.,
London, 1945: in, T. Balston John Martin, 1789-1854: His Life and Works, Gerald Duckworth, London, 1947, p. 16; C.
Johnstone, John Martin, Academy Editions, London, 1974, p. 12; W. Feaver, The Art cit., p. 2 (c’era un Dio da servire
e un Inferno da evitare, e che tutti i bugiardi e i bestemmiatori vengono bruciati all’Inferno con il diavolo e i suoi
angeli).
5
W. Martin, A Short Account of the Philosopher’s Life, Newcastle, 1833, pp. 13-14, citato in M.D. Paley, The
Apocalyptic cit., p. 123: «sarebbe risuonato da Polo a Polo». Si ha nota dello stesso episodio anche in T. Balston, John
Martin, 1789-1854 cit., p. 16 e W. Feaver, The Art cit., p. 2.
dell’artista, fu dunque in parte sotto l’influenza della madre che i figli svilupparono tendenze così
eccentriche e legate alla religione: «Jonathan became a religious maniac, William an eccentric
prophet, Richard a poet on Biblical themes, and John all his life preoccupied with the Bible story».6
Effettivamente, il fratello maggiore, William, pubblicò oltre 200 opuscoli contenenti le sue
invenzioni, la sua vita e la sua filosofia anti–newtoniana, dichiarandosi «conqueror of all nations»7
mentre si aggirava per le strade di Newcastle con un gong appeso al collo ed un elmetto di
tartaruga. Del secondo fratello, Richard, si sa poco, a parte che servì l’esercito per 29 anni e che
pubblicò nel 1830 un libro di poesie intitolato The Last Days of the Antidiluvian World, A Forlorn
Hope, and Ishmael’s Address. Il terzo fratello, Jonathan, fu invece tristemente noto per aver
appiccato l’incendio al York Ministry (1829), ispirato da un sogno, nel quale Dio stesso gli
chiedeva «to destroy the cathedral, on account of the clergy going to plays, and balls, playing at
cards, and drinking wine».8 Fu arrestato nel giro di pochi giorni, condannato e dichiarato colpevole,
e trascorse il resto della vita nel Bethlem Royal Hospital di Londra.9 Martin stesso visse
continuamente sul baratro della follia, tanto da essere ricordato da molti col nomignolo “Mad
Martin”.10
Nonostante fosse cresciuto nel rigore religioso, il pittore sviluppò un’ideologia del tutto
personale, basata certamente sull’educazione ortodossa inculcatagli dalla madre in giovane età, ma
accompagnata da svariati interessi, sviluppati nel corso degli anni, per la geologia, l’astronomia, gli
studi sull’evoluzione e le speculazioni scientifiche sul Diluvio Universale. Altrettanto indipendenti
furono le sue teorie politiche, tanto da portare l’amico Ralph Thomas a dichiararlo «a radical
6
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 16: «Jonathan divenne un maniaco religioso, William un profeta
eccentrico, Richard un poeta di temi biblici, e John si occupò della storia della Bibbia per tutta la vita».
7
R. Todd, Tracks cit., p. 98: «conquistatore di tutte le nazioni». Il titolo intero dell’opera era WILLIAM MARTIN,
PHILOSOPHICAL CONQUEROR OF ALL NATIONS. Also A Challenge for all College Professors, To prove this
wrong and themselves right, and that Air is not the first great Cause of all things, animate and inanimate. I say boldly
that it is the Spirit of God, and God himself, as the Scripture says God is a Spirit, and the Spirit was never created or
made, or how could there be any Creation? This is clear to anyone that has common Sense, printed by M. Ross, 48
Pilgrim Street, Newcastle, February 1846.
8
W. Feaver, The Art cit., p. 59: «di distruggere la cattedrale, visto il clero che giocava, e si divertiva giocando a carte
e bevendo vino».
9
Sulla famiglia di John Martin si vedano: M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., passim; T. Balston, John Martin,
1789-1854 cit., passim; R. Todd, Tracks cit., pp. 97-100; C. Johnstone, John Martin cit., p. 12; W. Feaver, The Art cit.,
passim.
10
R. Todd, Tracks cit., pp. 97,101: «Matto Martin». In realtà nell’opera di Cristopher Johnstone (John Martin cit., p.
12), si afferma che il soprannome gli venne dato per errore, confondendolo appunto con suo fratello Jonathan.
reformer in politics»11, probabilmente vista anche la stretta amicizia legata con William Godwin,
uno dei principali anticipatori del pensiero anarchico.12
Fondamentale per la sua formazione fu indubbiamente anche il luogo nel quale crebbe.
All’inizio dell’Ottocento, le colline attorno al fiume Tyne erano certamente di magica bellezza, con
boschi, rovine e ampie vedute, tutti elementi riscontrabili nei suoi capolavori. Ma la valle forniva
anche il materiale per le immagini più selvagge, in quanto, soprattutto nel mese di luglio, era
soggetta a violente tempeste, dalle quali apprese il modo così fine di rappresentare fulmini e bufere,
costantemente presenti nelle sue opere principali.13
Martin cominciò la sua carriera artistica a Newcastle, dapprima presso la bottega del
capomastro Leonard Wilson, per apprendere le basi della fiorente herald painting14, e
successivamente come apprendista presso l’italiano Bonifacio Musso. Qui ebbe l’opportunità di
imparare l’arte della pittura a olio, della ritrattistica, della topografia e della pittura su vetro e
porcellana, ma, soprattutto, di studiare la vasta collezione di incisioni di Musso, tratte da opere di
Salvator Rosa, Claude Lorrain, della Bella e da altri numerosi artisti seicenteschi particolarmente
apprezzati in quell’epoca, elementi che, insieme alla Bibbia e alle sue origini familiari, furono
fondamentali per tutto il corso della sua produzione artistica: «Toutes ces techniques se retrouvent
dans les oeuvres ultérieures de Martin, dans ses maniérismes, son goût pour certains effets de
transparence et des couleurs particulières par exemple».15
Trasferitosi a Londra insieme alla famiglia Musso per proseguire la sua carriera, approfittò
della fervente vita artistica di quei primi anni del XIX secolo, in seguito all’apertura della British
Institution (1806), come alternativa alla più rigorosa Royal Academy. Come afferma Thomas
Balston nel suo accurato studio su Martin: «In 1812 […] the aristocrats and the wealthy were
enthusiasts for modern painting, and there was a marked dearth of accepted masters […]. From the
nature of Martin’s paintings, there could be no rivalry». 16 E in effetti, nonostante la sua prima
opera fosse esposta in un anticamera della Royal Academy nel 1812, fu accolta con entusiasmo dai
giornali e dagli artisti. Sadak in Search of the Water of Oblivion, era la prima grande
11
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p. 176: «un riformista radicale in politica». Del diario di Ralph Thomas, il
più intimo resoconto sulla vita dell’artista, restano purtroppo soltanto alcune citazioni nella pionieristica biografia di
Martin, scritta da Mary L. Pendered. Successivamente il diario andò perduto: in T. Balston, John Martin, 1789-1854
cit., p. 293.
12
Sulle idee religiose e politiche di Martin si veda l’intero capitolo 1825-35. PRIVATE LIFE in T. Balston, John
Martin, 1789-1854 cit., pp. 157-175, R. Todd, Tracks cit., pp. 103-106, e M.D. Paley, The Apocalyptic cit., pp. 123-128.
13
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 18.
14
Ivi, p. 20: «la pittura araldica».
15
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 90: «Tutte queste tecniche si ritrovano nelle opere ulteriori di
Martin, nei suoi manierismi, ad esempio nel suo gusto per certi effetti di trasparenza e dei colori particolari».
16
Ivi, p. 32: «Nel 1812 […] gli aristocratici e i benestanti erano entusiasti della pittura moderna, e c’era una spiccata
mancanza di maestri riconosciuti […]. Per la natura dei dipinti di Martin, non ci poteva essere rivalità».
rappresentazione di ciò che aveva appreso, nonché prima espressione del cosiddetto “martinesque”,
aggettivo con il quale presto venne definito il suo stile e quello dei suoi imitatori.17 L’opera
rappresenta fedelmente il momento cruciale di un racconto delle Tales of the Genii18, scritte attorno
al 1762 da James Ridley (dietro lo pseudonimo di Sir Charles Morell), e più esattamente la storia
del persiano Sadak, la cui avventura alla ricerca del mare dell’oblio, implicava soggetti
particolarmente cari all’artista: la morale e la natura. Il dipinto è una magnifica rappresentazione di
aspre montagne, con lampi di luce che sembrano rincorrersi fra le cime, nel mezzo delle quali
spicca uno stagno denso come lava. Subito sotto, la piccola figura di Sadak, semi accasciato, che
lotta disperatamente per arrampicarsi su una sporgenza rocciosa. L’opera colpisce lo spettatore per
la sproporzione schiacciante tra l’uomo e il vasto e minaccioso paesaggio: «disproportion que l’on
remarque dans un grand nombre de toiles aux sujets véritabliment apocalyptiques». 19 Il
protagonista è raffigurato quasi come «a midget»20, sfinito e totalmente circondato da infernali tinte
rosseggianti, «occupying not more than a hundreadth part of the picture».21 A tal proposito, fu lo
stesso Martin, in un successivo opuscolo, a descrivere questa sensazione di terrore e annichilimento,
utilizzando parole che, da Burke in poi, avevano acquistato particolare importanza: «the great
becomes gigantic, the wonderful swells into the sublime».22
I significati morali impliciti in questa tela, furono una costante dell’arte di Martin, sempre
presenti nelle opere dal carattere apocalittico e catastrofico. Presto egli si dedicò alla
rappresentazione della fragilità umana attraverso i dipinti di città distrutte, nei quali poteva dare
libero sfogo alla sua immaginazione e alla sua passione per la ricostruzione architettonica.
Quest’ultima si appoggiava su varie e precise documentazioni archeologiche, facendo da cornice
all’intento morale dei dipinti, ossia quello di rappresentare, da un lato, la grandiosità e la
magnificenza degli imperi terresti, dall’altro la loro fragilità e caducità.
Le villes antiques de Martin possédaient une signification multiple pour le peintre comme
aux yeux du public: leur histoire servait d’avertissement moral à l’empire britannique,
mais en même temps, grâce aux catalogues descriptifs très détaillés et remplis de
références précises […] le public pouvait s’informer et se documenter sur l’aspect
17
Si è deciso di tradurre “martinesque” in italiano con “martinesco” (e non martiniano) per mantenere la forma e quindi
il senso dell’aggettivo in inglese.
18
J. Ridley, The Tales of the Genii: Or, the Delightful Lessons of Horam, the Son of Asmar, J. Wilkie, London, 1764, 2°
ed, vol. II, pp. 93-256
19
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 90: «sproporzione che si ritrova in un gran numero di tele dai
soggetti veramente apocalittici».
20
W. Feaver, The Art cit., p. 16: «un nano».
21
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 33: «occupando non più di una centesima parte del dipinto».
22
J. Martin, Descriptive Catalogue of the Picture of the Fall of Nineveh, London, 1828, citato in W. Feaver, The Art
cit., p. 16: «il grande diventa gigante, il meraviglioso si accresce nel sublime».
probable de ces cités fabuleuses dont les ruines commençaient seulement d’être explorées
par les archéologues.23
In realtà, l’interesse per le città aveva ancora un altro significato più attuale e personale:
Martin, infatti, si occupò molto di urbanistica, progettando e pubblicando piani di ristrutturazione e
risanamento di Londra.24 Sul piano pittorico, questo interesse apparve per la prima volta nel 1816,
con l’esposizione di Joshua Commanding the Sun to Stand Still upon Gibeon, nel quale, la
ricostruzione degli stili architettonici delle città di Gabaon e Bet-horon, sullo sfondo, derivava dalle
opere di Lorrain e Piranesi. 25 Con questo dipinto, Martin presentò al pubblico un nuovo modo di
intendere la history painting, basata sulla subordinazione del protagonista nei confronti
dell’architettura e della natura. Riprendendo la descrizione di Thomas Balston:
It was not concerned with the moral majesty of man, it did not keep architecture and
scenery in due subordination, it admitted an element as lawless as the weather, it was not
static, but dynamic.[…] It broke all the rules, and it was a masterpiece.26
L’artista, traendo il tema dal Libro di Giosuè, riprodusse esattamente il momento in cui Dio
interviene facendo fermare il tempo: «“O sole, férmati a Gabaon, e tu, o luna, sulla valle di
Aialon”. E il sole si fermò, e la luna ristette finché la nazione ebbe vendetta dei suoi nemici».27 I
protagonisti, rappresentati quasi come uno sciame di minuscoli insetti, sono in prima linea e
l’azione sembra svilupparsi a debita distanza: persino Joshua, in primo piano, sembra schiacciato
dal paesaggio apocalittico davanti a lui. Martin abbandonò dunque l’interesse per l’umanità per
dedicarsi maggiormente alla sublime raffigurazione del temporale e del terremoto, quasi a deridere
il classico stile della history painting, che fino ad allora era il genere pittorico più accreditato. E
indubbiamente, molti critici d’arte che basavano il loro giudizio sulle tradizionali rappresentazioni
del medesimo soggetto (come le più recenti, prodotte per la Macklin’s Bible), dove Joshua era unico
e fondamentale protagonista dell’evento miracoloso, non apprezzarono l’opera e la nuova tendenza
che poneva l’essere umano in secondo piano, tanto che Martin venne considerato incapace di
23
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 91: «Le città antiche di Martin possedevano un significato multiplo
sia per il pittore, sia agli occhi del pubblico: la loro storia serviva come avvertimento morale all’impero britannico, ma
allo stesso tempo, grazie ai cataloghi descrittivi molto dettagliati e carichi di riferimenti precisi […] informavano e
documentavano il pubblico sull’aspetto possibile di queste città favolose, le cui rovine cominciavano ad essere
esplorate dagli archeologi».
24
Sull’interesse per l’urbanistica si veda il capitolo interamente dedicato Plans and Inventions, in W. Feaver, The Art
cit., pp. 114-129.
25
W. Feaver, The Art cit., p. 27.
26
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 41: «non riguardava la maestà morale dell’uomo, non teneva
l’architettura e lo scenario nella dovuta subordinazione, ammetteva un elemento sfrenato come il tempo, non era
statico, ma dinamico. […] Rompeva tutte le regole ed era un capolavoro».
27
Giosuè X:12-13, in La Sacra Bibbia cit., p. 320.
rappresentare una figura umana di adeguate proporzioni. 28
Come osserva William Feaver, pochi anni prima era apparsa una delle principali tele di
Turner, Snowstorm: Hannibal and His Army Crossing the Alps, e Martin, come molti altri, fu
indubbiamente impressionato dall’opera e, particolarmente, dalla struttura vorticosa, tanto da
riproporla nel Joshua, attraverso il formicolante andamento della massa e nei turbini nebulosi. Con
quest’opera, Martin annunciò un tema ricorrente nei dipinti successivi, la caduta di diverse città
antiche famose, distrutte al loro apice: dopo il ricordo di Gerico e Ai, fu il tempo di Babilonia
(1819), e poi fu Ninive (1829) che crollò sotto il pennello di Martin, travolgendo a loro volta
Pompei ed Ercolano (1822) e tante altre città, come Sodoma e Gomorra (1832) e Tiro (1840). La
maggior parte delle tele sulla disfatta delle città storiche era particolarmente legata alla tecnica del
panorama e del diorama29 che in quell’epoca avevano un grande successo: tutte, infatti, si
riproponevano «d’étonner le public par le réalisme saisissant des détails et de l’atmosphère ainsi
que par la dimension des toiles destinée à évoquer une énormité que l’esprit avait de la difficulté à
appréhender».30 Tanto che Joëlle Durbin Rudney conferma, poco più avanti nel suo studio sui
principali pittori della School of Catastrophe, che: «On n’appréhende pas ses peintures d’un seul
coup d’oeil, mais bien détail après détail, rue après rue en déplaçant son regard sur un plan
horizontal ou vertical».31
In quest’ottica deve essere analizzata un’opera fondamentale, non solo nel percorso lungo la
pittura apocalittica dell’artista, ma anche per la sua stessa carriera: The Fall of Babylon32, presentata
nel 1819 direttamente alla British Institution, in seguito all’ormai dichiarata antipatia reciproca tra
gli accademici e Martin. Qui divenne immediatamente centro d’attrazione e, a differenza del
precedente dipinto, incontrò pareri favorevoli sia fra gli spettatori che tra i critici. L’Examiner, una
pubblicazione settimanale fondata da Leigh e John Hunt, scrisse a riguardo:
The spectators crowd around it, some with silence, some with exclamatory admiration;
sometimes very near to look at the numerous small objects that cannot be distinguished at
28
Particolarmente aspra a tal proposito fu la critica di Charles Lamb nel suo The Barrenness of the Immaginative
Faculty in the Production of Modern Art (1833), citata in: T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., pp. 41-42; W.
Feaver, The Art cit., p. 25.
29
Forma di spettacolo sorta in Francia nel 1822, dal primo allestimento di Bouton e Daguerre. Consisteva in un
apparecchio con grandi teloni dipinti e tesi a varie distanze con parti trasparenti, sui quali un’adeguata illuminazione
creava negli spettatori l’illusione di una veduta prospettica di paesaggi, edifici, ecc.: Salvatore Battaglia, voce Diorama,
in Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino, 1966, vol. IV.
30
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., pp. 91-92: «di stupire il pubblico per il realismo sorprendente dei
dettagli e dell’atmosfera, così come per le dimensioni delle tele, destinate a evocare un’enormità che la mente aveva
difficoltà a comprendere».
31
Ivi, p. 92: «Non si comprendono le sue pitture con un solo colpo d’occhio, ma piuttosto dettaglio dopo dettaglio,
strada dopo strada, spostando il proprio sguardo su un piano orizzontale o verticale».
32
La cui tela originale venne venduta all’asta di Christie’s nel 1937 e attualmente non rintracciata: W. Feaver, The Art
cit., p. 219.
a distance, sometimes further off to feast upon the grandeur of the whole».33
Mentre il Joshua resta la prima opera architettonica, qui, l’interesse per la ricostruzione della
città andò oltre, non più relegata ad un piano secondario, ma protagonista del quadro. Il paesaggio,
infatti, venne quasi completamente cancellato, ridotto ad un piccolo giardino sovrastante l’Eufrate,
per lasciare spazio alla rappresentazione urbana basata su solide e ordinate colonne, e
concatenazioni di archi. Martin fu il primo, in epoca moderna, che interpretò visivamente la scena
biblica della distruzione di Babilonia, per la quale non si basò su dipinti precedenti, in quanto per
secoli quella zona mesopotamica era stata trascurata dagli studi artistici e storici. 34 Dunque, egli
ricreò la città sumera, prevalentemente, sulla prosa biblica e gli scritti di storici antichi, quali
Erodoto, Strabone, e Diodoro Siculo, ma anche sugli studi moderni35, in seguito ai ritrovamenti
archeologici o alle scoperte fatte in quegli anni, durante i lunghi viaggi compiuti dagli eruditi in
genere, dai quali fu attento a derivare dettagli su archi, colonne e piante di templi orientali.
Lavorando su questo materiale, Martin creò una sorta di architettura ibrida che, secondo la sua
immaginazione, potesse rappresentare una città nata fra il territorio egizio e quello indiano.
Sebbene minuziosamente descritta, la raffigurazione di questa città, come di molte altre, è
trattata in maniera ampia, senza la preoccupazione di come esse dovessero apparire realmente,
perchè l’insegnamento morale fosse applicabile ad ogni grande capitale di qualsiasi tempo, in modo
da nascondere, dietro la rievocazione della distruzione delle varie civiltà antiche, la crisi che in
quegli anni investiva l’Inghilterra in seguito alle guerre napoleoniche. 36 L’opera, di cui si ha traccia
solo attraverso una fotografia in bianco e nero37, rappresentava non più una città in procinto di
essere distrutta, ma nel bel mezzo del processo di annientamento. Cittadini allarmati si riversano
nelle passeggiate accanto ai giardini pensili, incorniciati tra le ombre sulla destra e le massicce
colonne a sinistra, mentre, in basso, le navi nemiche attaccano la città lungo un fiume di luce che fa
risaltare la battaglia. Nonostante il passaggio dall’aspro deserto alla pura eleganza della civiltà, in
questa tela ritroviamo i temi già esposti nel Joshua, le figure umane sono ancora una volta delle
33
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 48: «Gli spettatori si affollano attorno, alcuni in silenzio, altri con
ammirazione esultante, a volte molto vicino per guardare i numerosi piccoli oggetti indistinguibili a distanza, altre
volte più lontano per godere della grandezza dell’insieme».
34
W. Feaver, The Art cit., p. 40.
35
Come l’opera di Louis Cassas, Voyage Pittoresque de la Syrie, de la Phoenicie, de la Palesatine, et de la BaseeEgypte (1798), il commentario di Claude Rich, Memoirs of the Ruins of Babylon (1815), gli scritti del teologo Rev.
Thomas Maurice, History of Hindstan (1795-98) e Observations on the Ruins of Babylon (1816), la raccolta di scoperte
effettuata da Giovanni Belzoni, Narrative of the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples,
Tombs and Excavations in Egypt and Nubia and of a Journey to the Coast of the Red Sea, in search of the ancient
Berenice; and another to the Oasis of Jupiter Ammon (1820), o gli studi archeologici redatti dagli artisti e dagli studiosi
che accompagnarono le campagne napoleoniche, raccolti nella Description de l’Egypte (1809-29): in C. Johnstone,
John Martin cit., p. 15.
36
W. Feaver, The Art cit., p. 40.
37
Scattata all’epoca dell’asta di Cristie’s presso la biblioteca di Sir Robert Witt. Si presume che l’originale sia
attualmente conservato in Islanda: T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 50.
vere e proprie miniature, e la prospettiva è sempre amplissima.
In accordo con l’affermazione di William Feaver, «the Fall of Babylon was conceived as an
instructive entertainment and designed with a scrupulous regard for all ascertainable detail»38,
tanto che egli riuscì perfettamente a tradurre i riferimenti letterari in immagini, fino a superare le
rare precedenti opere che si erano rivolte ad un soggetto simile: le torri di Babele di Pieter Bruegel
il Vecchio non possedevano lo stesso intenso sentimento di declino e rovina; mentre le
rappresentazioni degli orrori apocalittici di Hieronymus Bosch, non si ergevano su un altrettanto
forte supporto storico.39
Lo stile ormai inconfondibile di Martin nella creazione di scene catastrofiche, toccò l’apice
con la presentazione del Belshazzar’s Feast: «Perhaps no picture ever painted has made so great a
sensation as Belshazzar’s Feast, or bought to its creator a more instant fame».40 Esposto alla
British Institution nel 1821, si aggiudicò immediatamente un premio di 200 ghinee come miglior
quadro dell’anno, e fu tale l’entusiasmo suscitato, che le autorità dovettero prolungare la mostra di
ben tre settimane, e furono costrette a erigere delle ringhiere per proteggere la tela dalle masse di
spettatori che si accalcavano per vederla. Tutto dunque fu in accordo con quanto predetto dallo
stesso artista che, accingendosi a dipingere questo soggetto, scrisse all’amico ed artista americano
Charles Robert Leslie: «the picture shall make more noise than any picture ever did before».41 Il
soggetto, tratto dal V capitolo delle profezie bibliche di Daniele, fu suggerito da un altro pittore
americano, Washington Allston42 (1779-1843), il quale frequentava il circolo di artisti attorno a
Leslie. Dai suoi due schizzi ad olio, che non diedero mai vita a un’opera definitiva43, Martin derivò
alcuni motivi, estendendoli, secondo il suo stile, in un panorama in scala gigantesca: le colonne
della struttura architettonica, la folla nello sfondo, la luce che fuoriesce dal muro, tutto diventava
più grande e più numeroso. Durante la creazione del dipinto, si sparse la voce in città che Martin
aveva intrapreso uno straordinario esercizio prospettico, così furono molte le visite che ricevette nel
suo studio, e queste non furono del tutto infruttuose: fu, infatti, grazie ai suggerimenti di Sarah
Siddons e Charles Young, due noti attori del tempo, che l’artista trovò la postura del profeta
Daniele, che, secondo le affermazioni di Thomas Balston, «it is, perhaps, the best figure, both in
38
Ivi, p. 40: «The Fall of Babylon venne concepita come un intrattenimento istruttivo e disegnato con un riguardo
scrupoloso per ogni dettaglio accertabile».
39
Ibidem.
40
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p. 102: «Probabilmente nessun quadro mai dipinto prima fece una così
grande sensazione come il Beshazzar’s Feast, o portò una più rapida fama al suo creatore».
41
Ivi, p. 103: «il dipinto farà più rumore di qualsiasi altro dipinto prima d’ora».
42
Sulla figura di Allston si veda E. Benezit, voce Allston (Washington), in Dictionnaire critique cit., vol. I.
43
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 129.
gesture and facial expression, to be found in Martin’s works». 44
L’opera che stupì Londra (e oggi non più totalmente apprezzabile, in quanto inesorabilmente
danneggiata nel 1854)45, venne concepita in modo tale che ogni elemento contribuisse e accentuasse
l’aspetto terribile del Sublime descritto da Burke nella sua Enquiry. I toni rossi (colore del Sublime
per eccellenza), la titanica architettura del palazzo punteggiata da diversi stili (babilonese, egizio e
hindu), i forti contrasti di luce e buio, e i gesti concitati dei personaggi spaventati dal miracoloso
evento, tutto dava vita ad una «successful and total immersion of the eye into the liquid reaches of
sensation, a quite shockingly visual experience whose vertiginous scale opens into an abysmal
expanse of limitless space».46 Persino la ripetitiva serie di colonne, le cui linee si perdono nello
sfondo dell’opera, è di concezione burkeiana, ricreando, per successione e uniformità, ciò che il
filosofo definì «the artificial infinite».47 Per la complessità dei dettagli, il dipinto fu accompagnato
dal primo di una lunga serie di opuscoli illustrativi. In quattro pagine l’artista spiegava, tramite un
diagramma con frecce e numeri, l’ordine, il significato e la fonte dei vari elementi rappresentati, dal
punto 1 apposto sulla scritta divina, al punto 28 con la Torre di Babele. 48 Tutto era stato calcolato e
studiato, tanto che persino il cielo notturno era stato ordinatamente disposto in modo tale da
rappresentare il momento esatto in cui il popolo caldeo teneva le feste nazionali. 49
È ormai implicito che una tale costruzione drammatica e teatrale nascondesse dei fini più
seri del semplice stupore: Martin esprimeva le sue idee proprio attraverso dei concetti teatrali.
Considerate le teorie religiose e politiche dell’artista, è facile comprendere come quest’opera,
dipinta pochi anni dopo il massacro di Peterloo50, avesse delle forti risonanze radicali: secondo la
44
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 54: «è, probabilmente, la migliore figura, sia nella gestualità che
nell’espressione facciale, che si trova nelle opere di Martin».
45
Come riportato sul Gentleman’s Magazine del gennaio 1855, in seguito a una mostra a Liverpool nel novembre
precedente, venne deciso che, per sicurezza, la tela fosse trasportata tramite dei carri e non via treno. Ma ad un
passaggio a livello, le ruote del carro si incastrarono e prima che venissero liberate, un treno si abbattè su di esso,
demolendolo. Subì degli interventi di restauro che presto si rivelarono infruttuosi: in T. Balston, John Martin, 17891854 cit., p. 59.
46
N. Flynn, Seers and Seers Not: John Martin’s Belshazzar’s Feast and the Sublimation of Self, in “Word and Image”,
vol. XVI, n° 2, aprile-giugno, p. 166: «riuscita e totale immersione dell’occhio nelle liquide distanze della sensazione,
una quasi scioccante esperienza visiva, la cui scala vertiginosa si apre in una spaventosa distesa di spazio illimitato».
47
E. Burke, Philosophical Enquiry cit., p. 132: «l’infinito artificiale».
48
L’opera venne poi rivista e ristampata in occasione della mostra presso il negozio di William Collins col titolo: A
Description of the Picture BELSHAZZAR’S FEAST, Painted by Mr. Martin, lately exhibited at the British Institution,
and now at No. 343, Strand, the first door on the left in Catherine Street, London: Printed for the Proprietor of the
Picture, by J. Robins and Co. Albion Press, Ivy Lane, Paternoster Row. 1821 Price Sixpence. L’opera sebbene scritta
da Martin stesso, apparve col nome di John Bull: interamente riportato in T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit.,
Appendix 1, pp. 260-265.
49
«The moon in immediate conjunction with the planet of Astarte, and just three days old, marks the very point of time
at which the Chaldeans used to hold their national feasts, the beginning of the lunar month»: Ivi, p. 263, (La luna in
perfetta congiunzione col pianeta Astarte, e di soli tre giorni, segna il momento esatto in cui i Caldei usavano tenere le
loro feste nazionali, l’inizio del mese lunare).
50
I disordini scoppiarono a Manchester, in località St. Peter Fields (da cui il loro nome, ricalcato ironicamente su
Waterloo) il 16 agosto 1819, durante un comizio pacifico convocato per chiedere al parlamento britannico la riforma
teoria proposta da Morton D. Paley nel capitolo dedicato alla figura di Martin e alle sue espressioni
apocalittiche, «the prophet Daniel could be a personification of the artist himself, revealing to a
corrupt and unjust society the existence of another order of values».51 Un chiaro attacco, dunque,
rivolto al Principe Reggente George IV; fatto che non escludeva però la dedica al Re della
mezzatinta che se ne trasse successivamente (1826).
Dopo la prima esposizione, il Belshazzar’s Feast divenne ancor più famoso per le varie
riproduzioni stampate. Effettivamente, questa fu la tela che diede vita alla prima grande incisione
creata dallo stesso Martin. Sebbene avesse avuto l’idea della mezzatinta fin dai tempi del Joshua,
incontrò numerose difficoltà nella realizzazione commissionata a William Turner, già incisore del
Liber Studiorum di J.M.W. Turner52, tanto che, esasperato dai ritardi, fu costretto a realizzarla da
solo e a pubblicarla nel 1827. Fra i molteplici interessi, fin dall’apprendistato, egli aveva sviluppato
la passione per la stampa, dedicandovisi in maniera sporadica, ma evidentemente sufficientemente
bene da attirare l’attenzione per una commissione importante: l’illustrazione, con 24 mezzetinte, del
Paradise Lost di Milton, apparso tra il 1825 e il 1827. Le mezzetinte create da Martin avevano ben
poco in comune con le precedenti illustrazioni dell’opera di Milton, non solo per le innovazioni
apportate nella rappresentazione delle figure (soprattutto per quelle demoniache), ma, in particolar
modo, per il fatto che le incisioni precedenti nascevano come riproduzioni di dipinti, mentre queste
erano concepite come disegni creati appositamente per la stampa: «Like no other artist before him,
he exploited the infinite black of the virgin mezzotint plate, which served him as the elemental
void».53
Il successo del progetto, spinse Martin a proseguire nello sviluppo ed utilizzo di questa
tecnica artistica. In quegli stessi anni, inoltre, Thomas G. Lupton, miniaturista e incisore, aveva
inventato la stampa su lastra d’acciaio, più resistente della precedente lastra di rame. Questa novità
attirò l’attenzione di Martin, sempre pronto a nuove scoperte e sperimentazioni, tanto che decise di
adottare la nuova lastra per la stampa della sua prima grande mezzatinta derivata da una tela.
L’apparizione dell’incisione tratta dal Belshazzar’s Feast nel 1826 segnò una nuova svolta nell’arte
elettorale. La folla convenuta (circa 60.000 persone) fu dispersa con la forza dalla cavalleria e molti dimostranti
restarono uccisi o feriti: in C. Harvie, Rivoluzione e dominio cit., pp. 372-377; G.M. Trevelyan, Storia di Inghilterra
cit., pp. 722-727.
51
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 135: «il profeta Daniele poteva essere una personificazione dello stesso artista,
che rivelava a una corrotta e ingiusta società l’esistenza di un altro ordine di valutazione».
52
Iniziato nel 1807 e terminato nel 1819, comprendeva numerose incisioni delle sue opere: A. Wilton (catalogo a cura
di), J.M.W. Turner cit., p. 87.
53
W. Feaver, The Art cit., p. 75: «Come nessun altro artista prima di lui, egli sfruttò il nero infinito della vergine
piastra per mezzatinta, che gli servì da vuoto essenziale». Per l’analisi delle illustrazioni del Paradise Lost si vedano
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., pp. 148-162, T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., pp. 94-105, W. Feaver,
The Art cit., pp. 72-84, e, in particolar modo, G. Klawitter, John Martin’s Revolution and Grandeur: A New Direction
for Milton’s Early Illustrators, in “Explorations in Renaissance Culture”, vol. XXIV, marzo, pp. 91-117.
e nella fama di Martin, che non solo aprì la strada a numerose successive incisioni, ma lasciò libero
sfogo alla sua passione per le invenzioni, dedicandosi a nuove combinazioni di materiali e
inchiostri.54 Con la realizzazione del Belshazzar’s Feast Martin si aggiudicò il titolo di «KING OF
THE VAST»55, e continuò ad esplorare le possibilità dell’infinito e le tematiche del Sublime anche
nelle sue opere successive, come in alcune opere minori, quali The Destruction of Pompeii and
Herculaneum (c. 1822) e The Seventh Plague of Egypt (1824).
Impossibilitato all’acquisto del Belshazzar, il Duca di Buckingham, commissionò una nuova
tela, e Martin si dedicò ad un tema che, da alcuni anni, aveva attirato la sua attenzione in seguito
alla pubblicazione del Pompeiana: Topography, Edifices, and Ornaments of Pompeii (1817-32),
scritto dagli archeologi Sir William Gell e John Peter Gandy. L’opera venne esposta in una mostra
dedicata interamente all’artista nella Egyptian Hall di Piccadilly (nota anche come il London
Museum o il Bullock’s Museum), accanto alle precedenti opere, e accompagnato da un catalogo
dell’intera esibizione.56 Ciononostante il dipinto non creò particolare interesse, come sottolinea il
biografo William Feaver: «In a tradition that demanded, above all, considerable advances in size
and ambition from one work to the next, The Destruction of Pompeii must have appeared fairly a
commonplace after the blazing effrontery of Belshazzar’s Feast». 57
Due anni dopo espose un nuovo tema apocalittico, The Seventh Plague of Egypt, durante
l’inaugurazione della mostra alla Society of British Artists, di cui fu socio fondatore nel 1823.58 Il
dipinto, che rappresenta la settima piaga descritta nell’Esodo (la grandine), ha chiare derivazioni
stilistiche dalle opere turneriane Decline of the Carthagian Empire e The Fifth Plague of Egypt.
Ancora una volta, l’artista trattò il tema ingigantendolo secondo la scala “martinesca”, e
supportandolo con ampie documentazioni e scritti storici, tratti dalla Bibbia e dal Paradise Lost,
facendo in modo che la tela fosse al centro dell’attenzione durante l’esposizione. Nonostante il
soggetto sia trattato in maniera piuttosto simile ai dipinti precedenti, rappresentando un gruppo di
figure in uno spazio aperto, con un palazzo o una città nelle vicinanze e sopra di essi un cielo
tumultuoso, diversamente, ciò che qui colpisce sono i protagonisti (Mosè e Aronne), non più
54
Alcuni esperimenti sono registrati nell’opera del figlio dell’artista, Leopold Martin, intitolata Reminescences of John
Martin K.L., e pubblicata nel Newcastle Weekly Chronicle, tra gennaio e aprile del 1889. Di questo particolare
argomento si trovano citazioni in M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., pp. 152-155.
55
Christopher North (pseudonimo di John Wilton), Noctes Ambrosianae, R. Shelton Mackenzie, New York:
Worthington, 1863, November 1832, n° 64, citato in M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 138: «il Re dell’immenso».
56
J. Martin, A Descriptive Catalogue of the Destruction of Pompeii and Herculaneum with other pictures…now
exhibiting at the Egyptian Hall Piccadilly, London, 1822, citato in W. Feaver, The Art cit., p. 221.
57
W. Feaver, The Art cit., p. 56: «in una tradizione che domandava, soprattutto, progressi considerevoli nella
grandezza e nell’ambizione da un’opera all’altra, The Destruction of Pompeii doveva essere apparso abbastanza
ordinario dopo l’abbagliante sfrontatezza del Belshazzar’s Feast».
58
Sebbene socio fondatore non fu mai membro per evitare restrizioni per le mostre alla Royal Academy: C. Johnstone,
John Martin cit., p. 16.
ammassati in un tutt’uno, ma solitari, lontano dal resto dell’evento.
Com’è chiaro, a questo punto della sua carriera, le scene bibliche dal sapore apocalittico e
catastrofico erano il tema più popolare della sua arte, nonostante si fosse dedicato (saltuariamente)
anche alla pittura e all’incisione di paesaggi che ricordavano principalmente i luoghi in cui era
cresciuto. In quegli anni (1824-26) si dedicò quasi totalmente alla produzione delle illustrazioni del
Paradise Lost, lavoro al quale affiancò l’esposizione di un dipinto sul Diluvio Universale, che,
come si è detto in precedenza, suscitava particolare interesse negli artisti romantici e,
particolarmente, in un artista come Martin, attratto dai più svariati interessi e dominato dalla
passione per la storia e la scienza. Proprio in quest’ottica, successivamente alle rappresentazioni
sulla fine degli imperi antichi, egli si rivolse ad un tema biblico, che avesse importanti risvolti
storici e scientifici. A tal riguardo, Martin illustrò le sue teorie sul Diluvio, ossia, una sorta di
conciliazione tra la concezione tradizionale e religiosa, e i dati scientifici degli studi recenti, i quali
vedevano nell’evento catastrofico «ni le premier ni le dernier qu’ait subi l’humanité».59 Pertanto,
produsse una tela che insieme ai tradizionali elementi e personaggi delle Scritture, presentava anche
i fossili, vestigia di un era ancora più lontana.60 L’originale, esposto alla British Institution nel 1826,
andò perduto quasi subito: già nel 1829 Martin cercò invano di rintracciarlo per poterlo inviare a
Newcastle.61 Fortunatamente, l’artista ne dipinse una nuova versione nel 1834, leggermente
differente dal dipinto precedente, in quanto influenzato dalla mezzatinta prodotta per l’illustrazione
della Bibbia nel 1828, ma sufficientemente simile per poter comprendere quale fosse l’approccio al
tema: «a careful reconstruction of a historical event».62
In contrasto con le opere precedenti, The Deluge si sviluppava su uno sfondo completamente
naturale: una vallata rocciosa devastata dall’alluvione, le cui caratteristiche, secondo Thomas
Balston, sembrano ricordare le violente tempeste estive della Tyne Valley.63 Malgrado la mancanza
di precisi elementi descrittivi nel passo biblico della Genesi (VII:10-24), Martin si cimentò, come
già per gli elementi architettonici precedenti, in un’ardua ricostruzione storico-paesaggistica, i cui
dettagli vennero illustrati in un opuscolo64, arricchito da un brano tratto dal poema Heaven and
59
Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 93: «né il primo né l’ultimo che l’umanità avrebbe subito».
Il ritrovamento dei fossili, come gli scavi archeologici alla scoperta di antiche città, erano considerati prove dei
disastri biblici. Secondo queste teorie catastrofiche la Terra non era sorta da una graduale evoluzione, ma da una serie di
cataclismi corrispondenti ai disordini biblici: A. Staley, John Martin, in F. Cummings e A. Staley (catalogo a cura di),
Romantic cit., p. 233.
61
Tratto da una lettera indirizzata a William Nicolson del 13 luglio 1829, citata in M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p.
139.
62
W. Feaver, The Art cit., p. 92: «un’attenta ricostruzione di un evento storico».
63
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 18.
64
John Martin, Descriptive Catalogue of the Engraving of the Deluge, London, 1828, citato in M.D. Paley, The
Apocalyptic cit., p. 139. La struttura dell’opera riesce piuttosto convulsa, tanto da risultare necessaria la descrizione
fatta nel catalogo per comprendere ed individuare alcuni elementi.
60
Earth di Lord Byron (1822), che nelle ultime righe recita: «The waters rise; men fly in every
direction; many are overtaken by the waves; the Chorus of Mortals disperses in search of safety up
the mountains: Japhet remains upon a rock, while the Ark floats towards him in the distance».65
Nonostante questa licenza poetica, nella storia delle rappresentazioni del Diluvio, quest’opera segna
il perfetto incontro tra arte e scienza66, e l’impegno di Martin nella ricostruzione delle possibili
cause dell’evento catastrofico si ritrovano facilmente nell’illustrazione del cielo, dipinto in una
funesta combinazione tra il sole, la luna e una cometa, che portavano la terra nel caos più completo.
Lo stesso Barone Cuvier, naturalista e geologo francese, dopo aver visitato lo studio dell’artista ed
aver osservato l’opera, si complimentò con Martin per la sua spiegazione scientifica.67
Sebbene Francis Danby, suo “rivale” artistico, lo accusasse di aver plagiato il suo Attempt to
Illustrate the Opening of the Sixth Seal (esposto nel 1828)68, il Deluge risulta un dipinto
radicalmente differente dai suoi predecessori, sia in termini teorici che per quanto concerne la mera
rappresentazione. Ciononostante, l’influenza di Turner risulta ancora una volta evidente nell’ampio
vortice d’acqua che sembra arrotondare gli angoli della composizione, e nella valanga di rocce sulla
destra.69 Mentre Turner si dedicò alla raffigurazione di un Diluvio che si abbatteva su pochi e chiari
soggetti, Martin si concentrò principalmente sulla resa della forze divine e naturali che schiacciano
l’umanità. I protagonisti sono, ancora una volta, dominati dagli elementi che li circondano e, in
preda alla disperazione davanti ad una morte ormai certa, si rifugiano su una roccia da cui affiorano
dei fossili, nuova grande scoperta dell’epoca, «relegating mankind to the humiliatingly insignificant
role of topdressing on a rock of ages».70
L’opera del ’34 riscosse ampio successo tra il pubblico, ma meno favorevole fu, ancora una
volta, la critica artistica. Il recensore della Westminster Review condannò la tela per le sue
65
George Gordon Noel Byron (Lord Byron), Heaven and Earth (London, 1822), in The Poetical Works of Lord Byron,
J. Murray, London, vol. IV, p. 221: «Le acque aumentano; gli uomini fuggono in qualsiasi direzione;molti sono
raggiunti dalle onde; il coro di mortali si disperde in cerca di salvezza sulle montagne: Jafet resta su una roccia,
mentre l’arca fluttua verso lui in lontananza».
66
R. Cariel, De Poussin à Turner , fortune d’une icône, in Visions cit., p. 16.
67
W. Feaver, The Art cit., p. 94.
68
Che Martin abbia plagiato l’idea di Danby viene stabilito da due lettere scritte nel 1826 da alcuni amici di Danby,
dove si commentava la somiglianza delle due opere e si facevano delle allusioni sull’eventuale contatto tra i due pittori.
In realtà, nonostante le due composizioni siano simili, non vi è un’evidenza concreta dell’imitazione. Al contrario, da
una lettera dello stesso Danby a John Gibbons, suo primo mecenate, traspare non solo che i due artisti fossero amici, ma
che avessero preso accordi in modo da non vedere le opere incompiute l’uno dell’altro. Ciononostante, sembrerebbe che
Martin, saputo dei due progetti (The Deluge e Attempt to Illustrate the Sixth Seal) dallo stesso Danby, sia entrato senza
permesso nel suo studio, potendo poi emulare la struttura delle composizioni: F. Greenacre (catalogo a cura di), The
Bristol School of Artists: Francis Danby and Painting in Bristol, 1810-1840, City Art of Gallery, Bristol, 1973, pp. 4546 e C. Johnstone, John Martin cit., pp. 17-18.
69
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., pp. 130-140.
70
W. Feaver, The Art cit., p. 94: «relegando l’umanità all’umiliante e insignificante ruolo di concime su una roccia
antica».
«extravagant and unnatural attitudes»71, stretta nel tentativo di «bear down the senses with
substantial evidences of destruction».72 Secondo l’analisi di Morton D. Paley questa critica
anonima, sebbene scritta come condanna all’arte di Martin, presentò quel sottile filo conduttore tra
quest’artista e la pittura di Blake e Füssli, con cui egli «shares with the other two not only a
predilection for the sublime and the visionary but also a need for some prior commitment from the
viewer, for that willing suspension of disbelief that consitutes poetic faith»73; aspetto che verrà
brevemente trattato, solo in tempi più recenti, da Ruthven Todd nel 1946.74
L’ultima opera dedicata alla ricostruzione architettonica di una grande città decadente, e
quindi un tema che ancora una volta implicò toni apocalittici e catastrofici, fu The Fall of Nineveh.
Questa volta però, il soggetto non derivava dalle Scritture, ma dalla storia antica e, più
precisamente, dalla vicenda di Sardanapalo, ultimo Re di Babilonia, la cui figura venne ripresa
proprio in quegli anni da altri due grandi artisti europei: Lord Byron, che scrisse una tragedia75
riguardante la leggenda assira; e Eugène Delacroix, con il dipinto La Mort de Sardanapale (1827).
La rappresentazione di Martin raffigura la distruzione dell’intera città di Ninive attorno alla pira
funeraria dell’irresponsabile Re, che dinanzi alla sconfitta decide di immolare al suicidio se stesso,
le sue concubine e i suoi tesori. Più esattamente «the moment […] in which Sardanapalus, with his
concubines, is going to the pile which, by his orders, has been erected for his and their final
destruction»76; alle loro spalle l’armata nemica che, riuscendo a creare una breccia nel grande
serbatoio idrico, si appresta a invadere la città.
Disgustato sia dalla Royal Academy che dalla British Institution, Martin decise di esporre
privatamente la tela al Western Exchange in Old Bond Street, dove raccolse ampi consensi sia dal
pubblico che dalla critica artistica. Secondo una nota sull’ European Magazine del 1822, l’opera era
stata progettata per essere «a work of perhaps greater sublimity and difficulty of execution than he
has hitherto painted»77, ed effettivamente Martin realizzò l’opera dalle dimensioni più imponenti di
tutta la sua carriera artistica: un vero e proprio tour de force se ricondotta alle misure più solite di
71
Anonimo, Westminster Review, XX, 1834, 459, citato in M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 142: «pose stravaganti e
innaturali».
72
Ibidem: «superare i sensi con una solida prova di distruzione».
73
Ibidem: «condivide con gli altri due non solo la predilezione per il sublime e il visionario, ma anche la necessità di
un impegno prioritario dello spettatore, allo scopo di interrompere volontariamente quello scetticismo che costituisce
la fede poetica».
74
T. Ruthven, Tracks in the Snow: Essay in English Science and Art, The Gray Walls Press, London, 1946, passim.
75
George Gordon Noel Byron (Lord Byron), Sardanapalus: a Tragedy, (London 1821), J. Murray, London, 1823.
76
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 107: «il momento […] in cui Sardanapalo, insieme alle sue concubine, va
verso la pira, che secondo i suoi ordini, è stata eretta per la sua e la loro distruzione finale».
77
Citato in W. Feaver, The Art cit., p. 99: «un’opera probabilmente più sublime e più difficile nell’esecuzione tra quelle
dipinte fino ad allora». La sua esecuzione era dunque stata progettata alcuni anni prima dell’esposizione, ma venne
certamente rimandata data la grossa commissione di Prowett per l’illustrazione del Paradise Lost, che in quegli anni
assorbiva la maggior parte del suo tempo.
quel periodo in Inghilterra.78 Nel suo catalogo, egli stesso descrisse il suo ultimo capolavoro con i
termini magniloquenti già ricordati precedentemente: «the great becomes gigantic, the wonderful
swells into the sublime». Come suggerì Gustav F. Waagen, il dipinto doveva «unite, in a high
degree, the three qualities which the English require, above all, in a work of art, effect, a fanciful
invention, inclining to melancholy, and topographic historical truth»79, ma concretamente l’ampio
panorama (eccezionalmente congestionato da molteplici elementi e figure) risulta, secondo alcuni
critici, eccessivo e vacuo, «remarkable rather than sublime, gigantic rather than great».80 The Fall
of Nineveh segnò la fine di un’epoca nella carriera di questo artista, che per molti anni non concepì
più nulla di notevole, e venne ricordato per le sue grandi opere precedenti o per la produzione di
incisioni.
Era inevitabile che il suo amore per la stampa e per i temi biblici, lo avvicinassero, attorno
agli anni ’30, alla più ambiziosa impresa artistica: l’illustrazione del Vecchio e del Nuovo
Testamento. Martin progettò la creazione di 40 mezzetinte raffiguranti scene della Bibbia,
considerata, dall’artista stesso, fonte inesauribile per gli artisti di tutti i tempi.81 Egli si cimentò,
dunque, con un soggetto a lui caro, al quale aveva dedicato numerosi dipinti precedenti, e nel quale
fuse composizioni già assestate, con nuovi motivi, che si ritroveranno nelle minori tele successive,
come Pandemonium e The Celestial City and River Bliss (entrambe del 1841) o nella grande trilogia
del Giudizio, che verrà analizzata più avanti. Visto il grande successo avuto con il Paradise Lost,
decise di pubblicare e vendere lui stesso le tavole, senza l’appoggio di un editore. Nonostante la
raffinatezza delle illustrazioni, del tutto simili, per qualità, a quelle della pubblicazione precedente,
il lavoro si rivelò un fallimento proprio per le modalità di divulgazione. Non è semplice
comprendere i motivi di tale scelta: Septimus Prowett era ormai morto, ma dato l’esito positivo del
Paradise Lost, riesce difficile credere che non ci fosse un editore interessato alla diffusione di tale
impresa. Fu, dunque, una scelta propria dell’artista che, verosimilmente, non valutò il fatto che il
successo dell’illustrazione dell’opera di Milton dipendeva anche dall’ottima qualità della stampa
che egli non riuscì, evidentemente, ad ottenere in proprio.82
In quegli stessi anni, esattamente tra il 1831 e il 1836, Martin eseguì numerosi intagli per
l’illustrazione di un altro progetto biblico, le Illustrations of the Bible, by Westall and Martin,
78
L’opera, attualmente non rintracciabile, misurava secondo i dati in possesso da Thomas Balston 213 x 340 cm: T.
Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 106.
79
G.F. Waagen, Works of Art and Artist in Great Britain, London, 1838, vol. II, p. 162, citato in W. Feaver, The Art
cit., p. 101: «unire, ad un alto livello, le tre qualità che gli inglesi richiedono principalmente in un’opera d’arte: effetto;
una fantasiosa invenzione, incline alla malinconia; e una topografica verità storica».
80
W. Feaver, The Art cit., p. 101: «eccezionale piuttosto che sublime, gigante piuttosto che grandioso».
81
Dal programma per una «Series of Prints to illustrate the Old and New Testaments» tratta da una lettera a Barton: T.
Balston, John Martin, 1789-1854 cit., pp. 138-139.
82
Ivi, p. 139.
pubblicata da Edward Churton.83 Il titolo era in realtà errato, in quanto la prima pubblicazione
riguardava soltanto il Vecchio Testamento, per il quale l’artista aveva prodotto 48 disegni color
seppia. Nei due volumi che compongono l’opera, le scene tumultuose di Martin si alternano alle
ordinate tavole dell’altro collaboratore, Richard Westall84 (1765-1836), e nel complesso questo
progetto incontrò un tale favore del pubblico, che l’editore decise di produrre anche le Illustrations
of the New Testament, con 42 tavole di cui la metà affidata a Martin. L’opera andò incontro a
numerose ristampe e, sulla scia di questo rinnovato interesse per le rappresentazioni del testo sacro,
Charles Tilt acquistò le mezzetinte prodotte in precedenza e le adattò ad una nuova edizione
intitolata Illustrations of the Bible by John Martin (1838).
Parallelamente all’interesse per la Bibbia, approfondì un’altra sua grande passione, quella
per la scienza, attraverso l’interesse per i progetti urbanistici e i fitti contatti con i grandi geologi e
ingegneri contemporanei. Per esempio, nell’estate del 1834 egli ebbe dei contatti con Gideon
Mantell, paleontologo inglese considerato lo scopritore dei primi fossili di dinosauro.85 Questi
rapporti diedero vita non solo alla produzione di alcune opere specifiche come The Country of the
Iguanodon (1838), utilizzata come frontespizio per lo studio di Mantell86, ma influenzarono anche
le composizioni dal carattere parzialmente scientifico, come avvenne per il Deluge e per le tele ad
esso correlate.
In effetti, dopo l’esposizione in Francia nel 1834 della tela sul Diluvio Universale, vennero
commissionate altre due opere che andarono a formare una trilogia, di cui l’opera precedente
costituì la parte centrale. Accanto a essa comparvero, nel 1840, The Eve of the Deluge,
commissionata dal Principe Albert, e The Assuaging of the Waters, voluta dalla Duchessa del
Sutherland. Insieme, i tre dipinti formarono un’illustrazione completa dell’episodio biblico,
rappresentandone le fasi principali: la sera, la mezzanotte e l’alba.
L’ambientazione di The Eve of the Deluge è un dolce e ampio paesaggio naturale dai toni
idilliaci, ripreso poi in altri dipinti, fra i quali il magistrale The Plains of Heaven. L’opera è
suddivisa su due piani: in basso quello terrestre, caratterizzato da alcune famiglie che, scalando
un’altura, si recano da Matusalemme per avere chiarimenti sull’evento che si stava preparando;
nella parte superiore, il piano celeste, dove i segni divini sono appena apparsi e indicano, nella
sventurata congiunzione astrale, l’arrivo del disastro.
La tela di The Assuaging of the Waters riprende alcuni elementi già comparsi nelle altre due
83
Illustration of the Bible, by Westall and Martin with Descriptions by the Rev. Hobart Caunter, B.D., E. Churton,
London, 1835, voll. I-II, citato in T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., pp. 152-153.
84
Per approfondimenti si consulti E. Benezit, voce Westall (Richard), in Dictionnaire critique cit., vol. X.
85
W. Feaver, The Art cit., p. 146.
86
G. Mantell, Wonders of Geology, (London 1838), Relfe and Fletcher, London, 4° ed., vol. I, p. vi.
opere della trilogia, come, per esempio, l’ampia piattaforma rocciosa, questa volta circondata dalle
acque, piuttosto che da una vallata. In primo piano, accanto a numerose specie marine che
emergono dalle acque che pian piano si ritirano, protagonisti del dipinto sono il corvo e la colomba,
inviati da Noè in cerca di terra ferma, e un serpente, ormai annegato, simbolo del peccato
originale.87
Conseguentemente ai suoi interessi scientifici e urbanistici, si può notare, principalmente
nella tarda produzione artistica, una profonda preoccupazione per l’ambiente e l’uomo. Già da
alcuni anni le grandi città si estendevano rapidamente in seguito alla Rivoluzione industriale e al
conseguente flusso di popolazione dalle campagne. Ciononostante, non venivano prese adeguate
misure di sicurezza e riorganizzazione del centro urbano, creando una situazione «dangereuse
humainement, politiquement et moralement». 88 Le inquietudini di Martin si univano, dunque, a
quelle dei profeti dell’epoca, ma anche a quelle dei letterati, i quali, a partire dagli anni ’20 del XIX
secolo, si concentrarono sulla previsione della fine della razza umana. Scrittori come Mary Shelley
o Thomas Campbell descrissero nelle loro opere, entrambe intitolate The Last Man, la fine
dell’umanità e della civilizzazione. Martin, a sua volta, angosciato dal crescente senso d’isolamento
e delusione, di cui è prova l’ampia produzione dal carattere apocalittico, diede al mito letterario una
trasposizione visiva89, nel mezzo della quale l’Ultimo Uomo, sovrastato dal sentimento di
desolazione e morte, non può far altro che reagire con la rassegnazione.90
Considerando il carattere apocalittico della sua pittura, riesce sicuramente curioso che
Martin non abbia dipinto alcun soggetto realmente tratto dal Libro di Giovanni fino alla sua ultima
fatica artistica, la trilogia esposta nel 1854.91 E altrettanto curioso, secondo Morton D. Paley, è il
fatto che raramente la carriera di un artista si sviluppa così chiaramente, e inesorabilmente, fin
dall’inizio, verso una rappresentazione finale, per l'appunto quella sul Giudizio Universale.92
Secondo William Feaver, egli mise mano a tale soggetto già da alcuni anni prima, probabilmente
per produrre alcuni dipinti o incisioni legati al tema della Crocifissione. 93 Ma fu solo agli inizi del
1851, che Martin si dedicò effettivamente alla realizzazione di una tela raffigurante l’Apocalisse, e
pochi mesi dopo firmò un contratto con Thomas Maclean, un editore di Haymarket, per consentire
la realizzazione di un’incisione, che sarebbe stata realizzata da Charles Mottram. Dagli scritti del
87
Come scritto dallo stesso Martin nel catalogo descrittivo e citato da M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p.138.
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 91: «umanamente, politicamente e moralmente pericolosa».
89
L’artista produsse uno studio nel 1826 (andato perduto) e una versione acquerellata nel 1832. Infine dipinse la
versione definitiva ad olio nel 1849.
90
W. Feaver, The Art cit., p. 186.
91
Prima di questa data non venne prodotta nessuna pittura ad olio ma soltanto alcune mezzetinte e una pittura su vetro:
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 146.
92
Ibidem.
93
William Feaver basa la sua teoria su alcuni schizzi datati 1845 di cui si ha copia solo in R. Todd, Tracks cit., fig. 37a
e 37b.
88
figlio Leopold, emerge che l’opera venne concepita esclusivamente per la stampa, ma, come ritiene
Mary L. Pendered, appare difficile credere che l’artista avrebbe speso tanto tempo e impegno per
una tela che non sarebbe mai stata vista.94
The Last Judgement è indubbiamente l’opera più ambiziosa della sua carriera artistica95 non
solo per le dimensioni (la tela più grande dopo The Fall of Nineveh), ma anche perché racchiude in
sé tutti gli elementi tipici delle sue rappresentazioni, uniti a componenti della tradizione pittorica
apocalittica, come il trono, l’Angelo vendicatore e la Nuova Gerusalemme, insieme a motivi tratti
dalla modernità, per esempio il treno deragliato e la raffigurazione di personaggi storici. 96 A
differenza di Blake, Martin evitò l’esempio di Michelangelo, dal quale derivò esclusivamente lo
schema tradizionale, suddividendo l’opera in tre scene diverse: il mondo dei buoni e quello dei
cattivi si fronteggiano dai lati del quadro, separati da una netta linea divisoria, la voragine, e
sormontati dal Cristo Giudice. Proprio con questa triplice struttura, egli collegò diversi passi
dell’Apocalisse. Dal IV capitolo derivò la rappresentazione celeste:
Ed ecco un trono stava nel cielo, e sul trono uno seduto […] intorno al trono poi girava
un alone dall’aspetto simile allo smeraldo. Attorno a quel trono ve ne stavano altri
ventiquattro, sui quali sedevano ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti, con in
capo corone d'oro. […] Davanti al trono sta come un mare di vetro simile a cristallo.97
John Martin, The Last Judgement
94
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., pp. 245-246.
W. Feaver, The Art cit., p. 191.
96
J. Durbin Rudney, Apocalypse et peinture cit., p. 92.
97
Apo IV:2-6, in La Sacra Bibbia cit., pp. 2267-2268.
95
Dall’VIII capitolo prese, invece, le figure dei quattro angeli con le trombe. Nella parte
inferiore egli combinò due estremi opposti e incompatibili, secondo una tipica associazione del
Sublime di Burke.98 A destra, l’Armaghedòn è in pieno svolgimento, nettamente separato dal
mondo dei giusti dal ponte, ormai crollato, che conduce alla valle di Giosafat99, e per il quale
l’artista si rifece all’incisione di William Finden, Soracte: Civita Castellana, apparsa nel volume II
delle Illustrations to Byron nel 1833, di cui possedeva una copia. 100 Per la parte sinistra,
rappresentante la situazione contraria (la serenità dei giusti con le Nazioni che fraternamente si
incontrano in attesa della chiamata divina), egli si rifece all’affresco di James Barry, Elysium: or the
State of the Final Retribution (dipinto per la serie dei grandi affreschi nella Great Room della
Society of Arts tra il 1779 e il 1783), dal quale derivò l’idea di raffigurare personaggi storici
realmente vissuti. La presenza, fra i tanti, di Nicholas Ridley, non solo ci ricorda il rigido
insegnamento religioso impartitogli dalla madre e la presunta parentela col martire protestante, ma
ci ricollega ad un testo che colpì particolarmente la sua fantasia, gli Actes and Monuments di John
Foxe, nel quale veniva minuziosamente descritto il martirio di Nicholas Ridley e che venne poi
probabilmente utilizzato anche per la realizzazione delle immagini di tortura in The Great Day of
His Wrath.101
Presto Martin decise di ampliare il soggetto, affiancando al dipinto altre due tele, come era
avvenuto in precedenza con la trilogia del Diluvio, ma, stavolta, quasi a voler riprendere e
sviluppare due temi opposti già rappresentati nell’opera appena trattata. Il 23 Giugno del 1852,
firmò un secondo accordo con Maclean, per la realizzazione di due nuovi soggetti apocalittici: The
Great Day of His Wrath e The Plains of Heaven. La prima tela trattava il VI capitolo del Libro di
Giovanni ed esattamente l’apertura del sesto sigillo:
Vidi pure, quando aprì il sesto sigillo, che avvenne un gran terremoto, il sole diventò
nero come un telo di crine, la luna si fece tutta come sangue, e le stelle del cielo caddero
sulla terra, come una ficaia scossa dal vento gagliardo getta giù i suoi fichi acerbi. Il
cielo si accartocciò come un foglio che si arrotola, e ogni montagna e isola furono
smosse dal loro posto. I Re della terra, i potenti e tutti, schiavi e liberi, si nascosero nelle
spelonche e tra le rocce dei monti; e dicono ai monti e alle rocce: «Cadeteci addosso e
98
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 150.
Giosafat era il nome dato al luogo del giudizio finale in Gioele IV:12: «Si destino e montino le genti alla valle di
Giosafat, perché ivi siedo a giudicare tutte le genti d’attorno», ivi, p. 1694.
100
W. Brockedon, Finden’s Illustrations of the Life and Works of Lord Byron, J. Murray, London, 1833, vol. II.
L’incisione era basata sull’originale di William Purser (1790-1852).
101
M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 151.
99
nascondeteci dalla faccia dell’Assiso sul trono, e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il
gran giorno della loro ira; e chi può reggervi?102;
raffigurando dunque uno spaccato ampliato della parte destra del Last Judgement con la fine del
mondo ricca d’intenso orrore. per ottenere il quale egli si rifece sia al suo stesso Deluge di qualche
anno prima, sia alla seconda opera “martinesca” di Danby, Attempt to Illustrate the Opening of the
Sixth Seal, già fonte per la rappresentazione del Diluvio.103 È indubbio che la rappresentazione delle
montagne che si riversano su se stesse, schiacciando i protagonisti, fosse derivata dall’opera di
Danby: sembra pertanto corretta l’affermazione di Thomas Balston quando dice che Martin «chose
to plagiarize his plagiarist».104 Ma, come una costante nel suo stile pittorico, Martin accrebbe
l’effetto di drammaticità, aggiungendovi sopra delle città, in modo da creare un tutt’uno tra le
meraviglie dell’uomo e le “antichità naturali” che, indistintamente, esplodono e si rovesciano. Ogni
elemento venne calcolato per provocare nello spettatore angoscia e terrore, compreso l’attento uso
del colore. Ancora una volta la tinta dominante è il rosso, basato, secondo gli scritti di Leopold, su
«the glow of the furnaces, the red blaze of light»105 osservate durante una gita notturna nel Black
Country, e riportando alla memoria opere come Coalbrookdale by Night di Philippe Jacques de
Loutherbourg.
Mentre The Great Day of His Wrath si collegava agli aspetti terribili dei luoghi della sua
infanzia, l’ultima opera del trittico era una rappresentazione onirica della sua Tyne Valley, dove
ogni cosa svanisce nell’infinita tonalità delle tinte verdi e blu. Concepito per essere esposto a
sinistra del centrale The Last Judgement, The Plains of Heaven, che originariamente s’intitolava All
Things Made New106, riprende e amplifica il tema della salvezza. In accordo con l’analisi di William
Feaver, questa tela risulta un’estensione del paesaggio già rappresentato, poco più di un decennio
prima, in The Celestial City and River Bliss e nella mezzatinta che Martin compose come
illustrazione per il Paradise Lost, con la Nuova Gerusalemme «acconciata come una sposa
adornatasi per il suo sposo»107, che appare come un miraggio tra le morbide foschie. Sebbene gran
parte dei dettagli fossero già apparsi in opere precedenti108, egli riuscì a trattare in maniera
sbalorditiva e trascendentale una materia ormai nota, creando la degna conclusione di una trilogia e
della sua intera carriera artistica. Effettivamente l’opera venne accolta con grande clamore del
pubblico proprio per quelle sue tonalità sfumate e trasparenti e quel paesaggio onirico nettamente
102
Apo VI:12-17, in La Sacra Bibbia cit., pp. 2269-2270.
W. Feaver, The Art cit., p. 196.
104
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 235: «scelse di plagiare il suo plagiatore».
105
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p. 248: «l’incandescenza delle fornaci, il rosso bagliore della luce».
106
Ivi, p. 245, in riferimento ad Apo XXI:5, «Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco faccio a nuovo ogni cosa”»: in
La Sacra Bibbia cit., p. 2284.
107
Apo XXI:2, in La Sacra Bibbia cit., p. 2284.
108
W. Feaver, The Art cit., p. 199 e M.D. Paley, The Apocalyptic cit., p. 153.
103
superiore a qualsiasi sua precedente rappresentazione, tanto che Lord Lytton, noto politico e
scrittore inglese, lo descrisse come «the divine intoxication of a soul lapped in majestic and
unearthly dreams». 109
Come afferma Mary L. Pendered, sebbene queste ultime tre opere presentassero alcuni
difetti, «[they] made a wide sensation»110 non solo per le dimensioni, ma soprattutto per l’ampio
uso delle caratteristiche tipiche delle rappresentazioni del Sublime sia nelle scene di estrema
violenza, sia in quelle di eccezionale beatitudine. Le opere vennero esposte insieme, e
accompagnate da un catalogo descrittivo, il 10 febbraio 1854, esattamente sette giorni prima la
morte del loro artefice. Essendo di diritto sotto il controllo di Maclean, le tele furono portate in tour
per le principali città della Gran Bretagna e tornarono a Londra nel 1855. Qui, vennero nuovamente
esposte col titolo di «the most sublime and extraordinary pictures in the world»111, per poi essere
temporaneamente ritirate in modo da permettere il completamento delle incisioni, pubblicate nel
1857. Godettero ancora di grande prestigio fino al 1872, anno dell’ultima esibizione secondo i dati
in possesso da Thomas Balston.112
Nel momento in cui terminarono le mostre, andò scemando anche la fama di Martin, e le sue
opere persero completamente valore, languendo negli scantinati e venendo battute all’asta, nel
1935, per meno di 7 sterline.113 L’arte che un tempo aveva infiammato l’Inghilterra per il grande
stupore, venne superata dalle nuove tendenze e nessuno dei capolavori di quest’artista venne più
esposto fino al 1972. 114 Effettivamente, in accordo con l’affermazione di William Feaver:
Seen simply as ‘a reckless accumulation of false magnitude’, Martin’s designs become
undeniably tedious and repetitive; but studied in detail, through the eyes of an audience
accustomed to reading such compositions –to spending an hour or more watching
diorama shows– they were compelling.115
E irresistibili dovettero effettivamente apparire, secondo gli studi di questo storico, alla
nascita del grande cinema, quando, opere che spaziano da Nascita di una nazione di David W.
Griffith fino a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, s’ispirarono alle composizioni di
109
M.L. Pendered, John Martin, Painter cit., p. 248: «la divina intossicazione dell’anima beata in sogni maestosi e
sovrannaturali».
110
Ivi, p. 247: «fecero una grande sensazione».
111
Ivi, p. 253: «i più sublimi e straordinari dipinti del mondo».
112
T. Balston, John Martin, 1789-1854 cit., p. 247.
113
Ivi, p. 248.
114
W. Feaver, The Art cit., p. 204.
115
W. Feaver, The Art cit., p. 208: «Viste semplicemente come “uno sprezzante ammasso di falsa grandezza”, i disegni
di Martin diventano innegabilmente tediosi e ripetitivi; ma studiati nel dettaglio, attraverso gli occhi di un pubblico
abituato a leggere tali composizioni –spendendo un’ora o più guardando gli spettacoli di diorama– erano irresistibili».
Martin per l’immaginazione e l’espressione in esse contenute.116 Nonostante la parabola calante che
portò all’oblio la figura di Martin, è ormai indubbia, attraverso gli studi più recenti, la grandezza
della sua arte, riconosciuta vero e proprio modello di un genere pittorico in voga nell’Inghilterra
degli anni tra il Romanticismo e l’Epoca Vittoriana. 117 Oltre ai suoi allievi118, egli fu di grande
ispirazione anche per una parte della letteratura coeva, in quanto incarnazione di un sentimento
tumultuoso particolarmente amato da scrittori, fra i quali si ricordano le sorelle Brontë, che
ospitarono nel loro maniero alcune opere di Martin e s’ispirarono ad esse per alcune visionarie
descrizioni. 119 Ma il nome di questo maestro riscosse grande successo anche oltre i confini
britannici, essendo ammirato e imitato da pittori quali Thomas Cole e Gustave Doré.120 Principale
esponente dello stile apocalittico, fu di grande stimolo anche per altri pittori inglesi a lui
contemporanei, ingaggiando a volte vere e proprie sfide artistiche. Si è già visto come il nome di
Martin sia spesso affiancato, e confrontato, a quello di Turner; ma altrettanto sostanziali per la
comprensione della tendenza catastrofica che caratterizzò i primi decenni del XIX secolo, furono
altre due figure che, sebbene minori per fama, svilupparono un’arte in quello stile che è stato più
volte definito “martinesco”: Francis Danby e Samuel Colman.
116
Ivi, pp. 211-213.
Essendo il Romanticismo un periodo difficile da limitare in definizioni letterarie e temporali, si è propensi ad
utilizzare la data delle prime pubblicazioni di Blake (1783), fino alla prima opera di Tennynson (1830) Per
l’inquadramento dell’Epoca Vittoriana è, invece, più semplice usare le date del periodo storico durante il quale la regina
Vittoria governò il Regno Unito (1837-1901). Per maggiore definizione si vedano: F. Kermode e J. Hollander, The
Oxford cit., vol. II, pp. 3-9, 789-799; C. Harvie, Rivoluzione cit., e H.C.G. Matthew, L’età liberale, entrambi in K.O.
Morgan (a cura di), Storia cit., pp. 357-443.
118
William Geller di Bradford e John St. John Long da Limerick: in W. Feaver, The Art cit., pp. 104-105.
119
Per esempio, nell’ultima opera di Charlotte Brontë, Villette (1853), la protagonista, Lucy Snowe, mentre vaga
confusamente attraverso il parco durante una notte di Carnevale, descrive un mondo allucinato, che i lettori non
avevano difficoltà a ricondurre ai sublimi paesaggi di Martin. Sull’argomento si vedano C. Alexander, "The Burning
Clime": Charlotte Bronte and John Martin, in Nineteenth-Century Literature, vol. L, n° 3, December 1995, pp. 285321, e M. Walker, John Martin: Visionary Artist, in “Brontë Studies”, vol. XXX, n° 1, febbraio 2005, pp. 53-60.
120
A. Staley, John Martin, in F. Cummings e A. Staley (catalogo a cura di), Romantic cit., p. 233. Per approfondimenti
sulle influenze di Martin su questi artisti si veda W. Feaver, The Art cit., pp. 107-110, 207-208. Per alcune generali
informazioni sui pittori in questione si consulti E. Benezit, voci Cole (Thomas) e Doré (Paul Gustave Louis Cristophe),
in Dictionnaire critique cit, vol. III.
117
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