Introduzione Il “luogo politico” del Partito liberale nell’Italia repubblicana Giovanni Orsina Università di Roma “La Sapienza” Fondazione Luigi Einaudi - Roma La storiografia sull’Italia repubblicana non ha trattato bene il Partito liberale. Di ricerche che gli siano specificamente dedicate ce ne sono poche, per lo più vecchiotte e scritte da uomini vicini o interni al partito1. Mentre i libri che si occupano in generale della storia politica italiana prestano di solito ai liberali scarsissima attenzione: qualche riga sparsa qua e là, per illustrare almeno i fatti di maggiore momento; in alcuni casi, per verità stupefacenti, neppure quello. In questi volumi inoltre il giudizio sul Pli, e soprattutto sulla lunga stagione in cui Giovanni Malagodi ne fu la guida, oscilla fra il negativo e il molto negativo. Né la svolta politica che concluse quell’epoca, portando Valerio Zanone alla segreteria e spostando il Pli verso sinistra, vale a mitigare o modificare la condanna – per la semplice ragione che, con qualche rara eccezione, l’evento dagli studiosi non è stato nemmeno registrato2. 1 Sul partito in generale si vedano soprattutto A. Giovannini, Il partito liberale italiano , Milano, Nuova Accademia, 1958; A. Ciani, Il partito liberale italiano, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1968. Da ultimo si veda pure A. Jannazzo, Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. Per quel che riguarda aspetti specifici della storia del liberalismo italiano del dopoguerra, ad essere un po’ più considerate sono soprattutto le vicende della sinistra liberale: si vedano i due noti libri su «Il Mondo», P. Bonetti, «Il Mondo» 1949/66. Ragione e illusione borghese, Roma-Bari, Laterza, 1975; A. Cardini, Tempi di ferro. «Il Mondo» e l’Italia del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 1992; l’antologia di «Critica Liberale» curata da Gian Piero Orsello, «Critica Liberale»: per una storia della sinistra liberale attraverso le riviste: 1952-1966, S. Giovanni Valdarno, Landi, 1969; e ora sul Movimento liberale di Carandini Ch. Blasberg, Die Illusion der Dritten Kraft und die Realität des Liberalismus. Die Bewegung des Nicolò Carandini im Dilemma der laizistischen Demokratie Italiens (1947-1951), tesi di dottorato, Università di Heidelberg, 2003. Sulla Resistenza liberale si vedano poi i volumi curati fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta da Ercole Camurani: La stampa clandestina liberale 1943-1945, Reggio Emilia, poligrafici, 1968; La delegazione Alta Italia del Pli, Bologna, Forni, 1970; Il partito liberale nella Resistenza, Roma, Fondazione Einaudi, 1971, bozze di stampa. Di Camurani si veda anche la Bibliografia del P.L.I., Roma, Partito liberale italiano, 1968. 2 Ad esempio, e senza alcuna pretesa di completezza: il Pli è sostanzialmente assente dalle sintesi di Pietro Scoppola (La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, 19451990, Bologna, il Mulino, 1991) e Aurelio Lepre (Storia della prima repubblica. L’Italia dal 1942 al Ora, non è certo in questa sede che sarà possibile riconsiderare e rettificare quei giudizi, o restituire al Partito liberale la rilevanza storica che s’è meritato. Per altro, fosse pure questa la sede, un percorso di riflessione storiografica che voglia essere rigoroso non può mai avere lo scopo di rivendicare o giustificare – per non dire di stendere apologie. E tuttavia, presentando un’ampia raccolta di documenti prodotti dal Pli e una guida ai depositi archivistici che lo riguardano, bisognerà pur richiamare le ragioni per le quali si ritiene che quest’operazione un suo interesse storico lo abbia. E indicare almeno, per quanto sommariamente, le piste di ricerca che da questo insieme di documenti potrebbero prendere le mosse. Uno dei motivi principali per i quali un ragionamento sul Pli può avere un suo interesse storico risiede a mio avviso nella capacità della vicenda liberale di aprire una prospettiva di analisi non banale sui caratteri e le trasformazioni dell’intero sistema politico italiano. E, in subordine, di illustrare in quale modo l’ideologia liberale, che sull’asse destra-sinistra dimostra una latitudine non indifferente, abbia faticosamente interagito con un contesto storico complesso come quello dell’Italia repubblicana. Questi sono i due binari lungo i quali corre la riflessione sul “luogo politico” del Pli 1992, Bologna, il Mulino, 1993). È presente, ma non per quanto riguarda l’opposizione al centro sinistra (Malagodi non è mai citato in tutto il volume), in Paul Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato, Torino, Einaudi, 1998. È scarsamente considerato da Giuseppe Mammarella (L’Italia contemporanea, 1943-1989, Bologna, il Mulino, 1990) e Silvio Lanaro (Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Venezia, Marsilio, 1992), che recuperano nel valutare la segreteria Malagodi i temi polemici dell’epoca, liquidandola come ultraconservatrice e subordinata agli interessi del capitale. Ancora a maggior ragione, lo stesso può dirsi dei saggi compresi nei volumi della Storia d’Italia della Einaudi: C. Pinzani, L’Italia repubblicana, in Storia d’Italia, vol. IV, t. III, Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1984; M.G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni della Guerra Fredda, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, pp. 911-1005; N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, ivi, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, t. II, Istituzioni, movimenti, culture, Torino, Einaudi, 1995, pp. 7-113. Decisamente più attenti i due volumi della Storia d’Italia editi dalla Utet: Simona Colarizi, La seconda guerra mondiale e la repubblica, 1984, e Piero Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, 1995, nonché, sempre di Simona Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1994. Anche in questo caso, tuttavia, i giudizi sulla stagione malagodiana sono negativi e, seppure assai meno dipendenti dalle polemiche dell’epoca, appaiono comunque condizionati da un pregiudizio favorevole al centrosinistra. È da un politologo, seppure in un libro di storia, che vengono i giudizi più equilibrati sul Pli: Piero Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 al 1992, in G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia d’Italia, 6. L’Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 101-232. In un testo politologico si veda pure una rapida analisi dell’avvento di Zanone alla segreteria del Pli: R. Leonardi, The Smaller Parties in the 1976 Italian Election, in H. R. Penniman (a cura di), Italy at the Polls. The Parliamentary Election of 1976, Washington, American Enterprise Institute for Public Policy Research, 1977, pp. 229-58, pp. 238-41. che ho sviluppato nelle pagine che seguono. Benché questa riflessione abbia l’ambizione di coprire l’intero periodo 1945-1992, sono due gli episodi storici sui quali mi sono potuto soffermare diffusamente: l’opposizione moderata che Giovanni Malagodi condusse al centro sinistra fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, e il ritorno della sinistra alla guida del partito, nel 1976, con l’ascesa di Valerio Zanone alla segreteria. Chi leggerà questo scritto non troverà nulla su momenti pure importanti della storia del Pli – l’attività di governo nei gabinetti dell’era centrista, la presidenza Einaudi, l’opera di Malagodi ministro del Tesoro. E troverà molto poco, per lo più desunto dalla poca storiografia, su altri argomenti altrettanto rilevanti – i liberali alla Costituente, la scissione radicale del 1955, l’età del pentapartito, la crisi dei primi anni Novanta. Sono tuttavia convinto che anche approfondendo soltanto i due episodi sopra menzionati sia possibile giungere a risolvere in maniera ragionevolmente generale il problema del “luogo politico” del Pli. Non manca, nella tradizione liberale italiana, un nucleo di principi che possa essere condiviso se non proprio da tutti quanti si sono dichiarati e si dichiarano liberali, quanto meno dalla grande maggioranza di essi. In linea di massima non mi sembra che si possa parlare di liberalismo là dove manchi il desiderio di fare dell’Italia una “società aperta” secondo l’esempio delle grandi democrazie occidentali: ricca, flessibile e dinamica, stimolatrice dell’iniziativa individuale, dotata di un mercato libero e pluralistico e di uno stato forte, democratico e limitato nel quale i diritti dell’individuo siano solidamente garantiti. La presenza di questo “minimo comune denominatore” non impedisce d’altra parte che sotto l’ampio ombrello del liberalismo siano rientrate scelte politiche e ideologiche anche molto differenti. Differenti già sul piano teorico, e destinate a divergere ancora di più nel momento in cui si confrontano concretamente con una vicenda non facile come quella dell’Italia repubblicana. Proprio rispetto ai problemi posti dallo sviluppo politico della Penisola, mi sembra che in linea di massima emergano all’interno del liberalismo due posizioni contrapposte, che possiamo definire “moderata” e “progressista” e che sono divise soprattutto da un diverso rapporto con la storia d’Italia. In breve, e semplificando alquanto, i moderati credono che la libertà e l’ancoraggio all’Occidente siano meglio garantiti nel caso in cui l’Italia repubblicana riesca a riannodare molti se non tutti i fili dell’età liberale che il fascismo ha spezzato: sostengono la monarchia al referendum, e conservano un atteggiamento non ostile nei confronti dei Savoia anche dopo; danno della costituzione un’interpretazione procedurale e non programmatica; considerano l’antifascismo un’esperienza meramente difensiva e conclusa con la Liberazione; pur essendo laici apprezzano la Chiesa cattolica per la sua capacità di garantire ordine e stabilità – e come baluardo anticomunista –; affermano la centralità dell’economia privata e la natura al più residuale di quella pubblica. Benché questa posizione possa essere declinata in chiave conservatrice, e lo sia certamente stata anche all’interno del Pli – ma in quel caso fuoriesce a mio avviso dai confini dell’ideologia liberale –, non è però necessariamente conservatrice. Non è insomma incompatibile con la convinzione che il paese debba modernizzarsi e progredire, né che lo stato debba accompagnare e agevolare questi processi. È però attenta soprattutto a delimitare “a sinistra” l’intervento della politica sul paese, mantenendo l’ancoraggio con la tradizione nazionale, soprattutto a motivo del timore che qualsiasi accelerazione in senso lato giacobina finisca in ultima analisi per favorire l’alternativa comunista. Così come il moderato, pure il liberalismo progressista si è presentato nell’età repubblicana in forme molto diverse, ed è poi mutato col trascorrere dei decenni. In alcune sue incarnazioni è stato anche molto radicale – e talvolta è anch’esso debordato dai limiti dell’ideologia liberale. In linea di massima, ad ogni modo, mi sembra che il suo carattere di fondo sia stato quello di considerare il secondo dopoguerra piuttosto nell’ottica della frattura che della continuità col passato. Sebbene con estrema cautela, con numerosi distinguo, distaccandosi nettamente dalle posizioni eccessivamente giacobine e adottando un atteggiamento in generale assai temperato, questo liberalismo ha insomma sostanzialmente sottoscritto l’interpretazione in senso lato “rivoluzionaria” dell’antifascismo – ha accettato la proposta di profondo rinnovamento nazionale che una parte della Resistenza aveva avanzato, e che è poi stata iscritta nella Costituzione. Di conseguenza è stato repubblicano, ha accolto almeno in parte il “programma” costituzionale, ha considerato la Chiesa uno dei principali ostacoli alla modernizzazione del paese, ha ritenuto che nel socialismo e perfino nel comunismo vi fossero aspirazioni condivisibili, ha approvato entro limiti piuttosto ampi il principio dell’intervento statale nell’economia. Il fatto che il liberalismo italiano – sia come area ideologica, sia, talvolta, come partito organizzato – si sia posto a cavallo di quella che fino agli anni Sessanta è stata una delle principali fratture storiche e politiche che hanno attraversato il nostro paese, fa in realtà sorgere il dubbio che nella vicenda dell’Italia repubblicana di un liberalismo non sia davvero possibile parlare. Non per caso, la storia del Pli è stata una storia di scissioni – quasi sempre scissioni a sinistra, da un partito collocato più (la segreteria Malagodi) o meno (le segreterie Lucifero e Bignardi) saldamente sul versante moderato. Non per caso, le scissioni hanno smesso di verificarsi soltanto nei momenti in cui la frattura storica fra moderati e progressisti apertasi con la genesi della repubblica ha perduto la sua rilevanza oppure ha mutato di forma: nella prima legislatura, quando quella frattura è stata sovrastata dalla divisione fra Occidente e Oriente; fra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, quando il rapporto con la tradizione nazionale ha trovato la sua sepoltura storica definitiva, e la nuova frontiera del moderatismo è divenuta quella della contestazione dall’interno del giacobinismo antifascista – ad opera soprattutto di socialisti, radicali e, appunto, liberali – nel nome non della continuità col passato, ma di una modernizzazione economica e sociale ormai acquisita. Queste ultime osservazioni, per quanto sommarie, confermano quel che ho affermato esplicitamente qualche riga addietro: analizzare la vicenda del Pli consente di riflettere non soltanto sulle diverse “incarnazioni” assunte dall’ideologia liberale in un contesto storico concreto come quello dell’Italia repubblicana, ma anche sui caratteri e le trasformazioni di quel contesto. La vicenda di Giovanni Malagodi in particolare, da quando salì alla segreteria nel 1954 a quando perse il controllo sul partito nel 1976-79, passando attraverso la sua ferma opposizione al centro sinistra, si intreccia in maniera inestricabile proprio con la questione, di grande importanza storica, della sconfitta del moderatismo italiano. Nell’epoca post-degasperiana, Malagodi fu fra i pochissimi uomini politici che perseguirono non soltanto sul piano della politique politicienne, ma anche sul terreno ideologico e culturale, l’obiettivo di mantenere l’Italia ancorata a un’interpretazione continuista e moderata della sua storia, senza tuttavia affatto escludere la prospettiva di una modernizzazione anche profonda secondo l’esempio delle grandi democrazie occidentali. La sconfitta del segretario liberale appartiene perciò a una vicenda storica di ampia portata, che ha avuto sull’assetto politico italiano molteplici conseguenze di rilievo. Osservare attraverso la storia del Pli la “svolta progressista” della prima metà degli anni Sessanta significa insomma chiedersi fino a che punto salvaguardare anche soltanto una parte della tradizione politica nazionale fosse ancora possibile dopo l’avvio del miracolo economico e del processo di trasformazione sociale che lo accompagnò. In quale modo si sia modificata l’interazione fra i due grandi complessi ideologici che hanno dato forma al sistema politico italiano – l’anticomunismo e l’antifascismo – negli anni della crisi del centrismo. Che ruolo potesse avere nel sistema politico italiano il Movimento sociale, e se un progetto moderato potesse fare a meno dei suoi voti. Come si sia giunti a una dinamica istituzionale di tipo consociativo, abbandonando in via definitiva, dopo lunghe esitazioni e complesse peripezie politiche, l’idea che la vita pubblica italiana potesse conservare una struttura sostanzialmente bipolare, imperniata su un’alleanza di governo rigidamente delimitata a sinistra. A tutte queste domande cercherò di rispondere, o almeno di accennare una risposta, nelle pagine che seguono. Prima di entrare in medias res, tuttavia, ritengo necessaria un’ulteriore precisazione. La strategia politica neocentrista perseguita da Giovanni Malagodi, come ho già notato, non ha incontrato il favore della storiografia. Alcuni studiosi hanno schiacciato senza alcun residuo l’opposizione al centro sinistra su un progetto politico di natura più o meno aggressivamente reazionaria. L’apertura al Psi a loro avviso non sarebbe stata un’operazione meramente politica, tesa fra l’altro a far prevalere un’interpretazione progressista della Costituzione su una moderata, anch’essa però legittima. Sarebbe stata una vera e propria operazione di difesa della democrazia, o se si preferisce dell’unica interpretazione legittima della Costituzione – quella appunto progressista –, dalla minaccia concreta e realistica di un’involuzione in senso autoritario della vita pubblica nazionale. Il protagonista principale della vicenda, in questi scritti, non è Malagodi ma Tambroni. Resta però il fatto che la possibilità stessa che vi fosse un’opposizione democratica al centro sinistra viene in sostanza negata3. Gli studiosi che riconoscono invece l’esistenza di un’ipotesi politica democratica ma moderata la giudicano però in maniera fortemente negativa. Malgrado i molti limiti del centro sinistra, l’apertura al Psi appare a questi storici l’unica opzione possibile negli anni Sessanta, l’alternativa centrista sembrando loro un estremo e anacronistico tentativo di difendere un’Italia antica e arretrata, ormai sulla difensiva davanti alla profonda trasformazione economica e sociale allora in corso4. Ora, non è assolutamente mia intenzione sostituire in questo scritto un atteggiamento favorevole al centro sinistra con uno sfavorevole. Con ogni probabilità per altro, tenuto anche conto di quel che negli anni Sessanta avviene negli altri paesi europei – l’avvento della Spd al governo in Germania, il ritorno dei laburisti al potere in Gran Bretagna –, l’apertura al Psi era effettivamente “inevitabile”. È però mia intenzione dimostrare come il progetto di Malagodi fosse effettivamente tutt’altro che destituito di fondamento: logico e coerente; non conservatore né tanto meno reazionario; capace di disegnare per l’Italia un percorso di sviluppo che era anacronistico politicamente perché il baricentro culturale del paese si stava spostando, ma che a priori non può essere giudicato anacronistico né socialmente né economicamente; soprattutto, tale da segnalare con notevole lungimiranza i difetti principali dell’operazione di apertura a sinistra, e le conseguenze più deleterie che quei difetti avrebbero generato. I tempi sarebbero stati maturi per ripensare storicamente l’opposizione malagodiana al centro sinistra già alla fine degli anni Settanta, quando gli effetti dell’apertura al Psi, fatta in quel modo, avevano avuto il tempo di dispiegarsi appieno. Se non è stato fatto né allora né dopo, è stato con ogni 3 Si vedano ad esempio i saggi di C. Pinzani, M.G. Rossi, N. Tranfaglia pubblicati nella Storia d’Italia e nella Storia dell’Italia repubblicana della Einaudi e citati alla nota precendente. Cfr. inoltre P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centro-sinistra, 1953-1960, Bologna, il Mulino, 1993. Partendo da alcuni documenti conservati nell’Archivio Centrale dello Stato (li si veda alle pp. 241-6), Di Loreto sostiene che Tambroni potesse concretamente tentare un colpo di Stato in senso autoritario. In realtà, quei documenti danno testimonianza di una certa disinvoltura e scorrettezza nell’uso delle strutture pubbliche, disinvoltura e scorrettezza per altro non proprio nuovissime nella storia d’Italia, ma davvero non mi sembra che autorizzino a pensare a un progetto reazionario. Di Loreto arriva a parlare addirittura, quasi come se fosse un corpo dello Stato, di «polizia politica» (p. 309). 4 Si vedano in particolare i volumi di Colarizi e Craveri citati alla nota 2. Da una prospettiva sostanzialmente favorevole al centro sinistra è scritta anche la storia del Pli di Arnaldo Ciani citata alla nota 1, e perfino una bozza di storia del partito che fu scritta alla fine degli anni Ottanta su commissione dello stesso Malagodi, e che è ora conservata in Carte di Giovanni Malagodi, Fondazione Einaudi di Roma (d’ora in poi CM), busta 427, fascicolo 18. probabilità a causa di quella stessa mutazione culturale alla quale Malagodi si era opposto invano. Oggi però, dopo la crisi istituzionale dei primi anni Novanta, la crisi culturale dell’antifascismo e dell’anticomunismo, la nascita seppure incerta di un sistema politico bipolare, sarebbe davvero imperdonabile non riconsiderare quella vicenda. Senza perdere la prospettiva storica, senza pretendere che i protagonisti delle vicende passate comprendessero quel che ora sappiamo per certo, senza fare del senno di poi uno strumento di assoluzione o di condanna, possiamo – dobbiamo – approfittare della diversa profondità che il trascorrere del tempo dà alla nostra analisi. 1. Liberali moderati e liberali progressisti nella prima legislatura repubblicana Misurata sull’asse destra-sinistra, come ho già accennato, l’ideologia liberale appare costituzionalmente ambigua – più di altre ideologie, ambigue anch’esse se valutate secondo altri parametri (riforme-rivoluzione; individuosocietà), ma più del liberalismo saldamente collocate a destra oppure a sinistra5. Il liberalismo italiano non s’è certo sottratto a questa regola generale – semmai l’ha confermata, aggiungendo ulteriori, specifiche ragioni storiche e filosofiche di ambiguità. Il pensiero di Benedetto Croce, che è notoriamente stato il più importante nucleo teorico della resistenza liberale al fascismo prima, e poi della rinascita del liberalismo all’indomani del 25 luglio, non ha contribuito certo a precisarne la fisionomia. Anzi, attraverso la definizione del partito liberale come “prepartito” ha volutamente consentito ai liberali di muoversi su un fronte ideologico assai ampio6. Né maggiore chiarezza poteva venire dalla storia delle forze politiche liberali dell’epoca prefascista. Anche a prescindere dalle perplessità ideologiche che solleva l’ascendenza hegeliana di certo pensiero politico di epoca risorgimentale, il liberalismo degli anni 1861-1922 fu essenzialmente un’ampia forza centrista di governo. Ossia, condivise alcuni principi politici essenziali, quelli sui quali si fondava il sistema, ma si divise su molto altro; tollerò al proprio interno una considerevole divaricazione ideologica; vide spesso i principi teorici corrotti dalle necessità pratiche del potere. Non fu insomma “di sinistra” né “di destra”, o fu l’uno e l’altro al contempo7. È con questa ambiguità che il liberalismo si ripresenta in Italia all’indomani della caduta del fascismo. Ulteriormente intralciato da una spiacevole novità, che gli anni del primo dopoguerra avevano annunciato e le elezioni per l’assemblea costituente s’incaricano di illustrare al di là di ogni possibile dubbio: non è più la forza egemone del sistema. Non solo: è una 5 Per un’analisi aggiornata di che cosa sia un’ideologia, e per un esame approfondito – seppure a mio avviso non pienamente condivisibile – dell’ideologia liberale, si veda M. Freeden, Ideologie e teoria politica, Bologna, il Mulino, 2000 (ed. or. 1996). 6 Sulla nozione crociana di prepartito cfr. G. Quagliariello, I liberali e l’idea di partito nella stagione costituente, in C. Franceschini, S. Guerriero, G. Monina (a cura di), Le idee costituzionali della Resistenza, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1997, pp. 268-88. 7 La letteratura storiografica su questi temi è notoriamente sterminata. Per brevità, mi permetto di rimandare soltanto a G. Orsina, Anticlericalismo e democrazia. Storia del partito radicale in Italia e a Roma, 1901-1914, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, in particolare il capitolo I, La Capitale e la nazione: ideologia e potere nell’età liberale, pp. 5-49. formazione di dimensioni decisamente modeste, e dal punto di vista organizzativo talmente labile da non poter nemmeno sperare, in futuro, di recuperare consensi al di là d’un certo limite. Non si può più pensare insomma che, come avveniva in passato, le implicazioni negative della latitudine ideologica liberale siano riassorbite monopolizzando il centro del sistema politico e la gestione del potere. Il centro e il potere si avvia ad occuparli la Democrazia cristiana, e dopo il 18 aprile del 1948 il primo e principale problema del Pli è decidere in quale modo debba collocarsi rispetto ad essa8. Che il Partito liberale si trovi in difficoltà nell’identificare quale possa essere il proprio “luogo politico” nel nuovo contesto dell’Italia postfascista, e che sia attraversato da divergenze ideologiche piuttosto consistenti, lo si vede immediatamente, ben prima che il sistema politico repubblicano abbia cominciato a consolidarsi. La crisi di regime e la guerra civile, com’è noto, hanno generato una matassa ideologica e politica quanto mai aggrovigliata, fatta di questione istituzionale ed epurazione, rapporti col passato regime e con l’ipotesi rivoluzionaria, desiderio di chiudere la lunga parentesi autoritaria e speranze di rinnovamento radicale, risorgimento patriottico e rinascita di classe. I liberali rappresentano l’ala moderata dello schieramento resistenziale: fermamente avversi alle ipotesi socialcomuniste di palingenesi sociale, ritengono prioritario ricostruire quanto prima un assetto costituzionale saldamente liberaldemocratico; e su questo terreno dialogano con la Democrazia cristiana, facendole talvolta da avanguardia, da stimolo, da pretesto9. Fino a quando, il 18 aprile del 1948, la Dc non s’impadronisce della quasi totalità dell’elettorato conservatore in nome dell’anticomunismo, sulla destra dei liberali rimane tuttavia disponibile un ampio spazio politico. Ed è forte quindi per il Pli la tentazione di diventare, da che era l’ala moderata dell’antifascismo, il volto presentabile dell’anti-antifascismo. Pesano su questa 8 Per la debolezza organizzativa del Pli e le perplessità ideologiche e politiche sulla sua collocazione negli anni 1943-51 cfr. ora A. Jannazzo, op. cit., pp. 175-91. Sulla riorganizzazione del Pli nel dopoguerra si vedano anche i documenti pubblicati in C. Vallauri (a cura di), La ricostituzione dei partiti democratici (1943-1948), Roma, Bulzoni, 1977, pp. 469-559. 9 Sulla funzione “moderatrice” svolta dai liberali nello schieramento resistenziale si vedano ad esempio: P. Gentile, Polemica contro il mio tempo, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1965, pp. 1-61; L. Cattani, Dalla caduta del fascismo al primo governo De Gasperi, «Storia contemporanea», 1974, pp. 737-85; E. Artom, La politica del P.L.I. nella Resistenza, in Il partito liberale nella Resistenza, cit., pp. 9-36; L. Ornaghi, I progetti di Stato (1945-1948) e M. Fantechi, Fra terza via e conservatorismo, in R. Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, t. I, L’area liberal-democratica. Il mondo cattolico e la Democrazia Cristiana, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 39-102 e 103-44. tentazione i diversi raggruppamenti meridionali confluiti nel partito man mano che il paese ha cominciato a tornare alla normalità. Pesa il dibattito sulla forma istituzionale, e il significato che l’opzione repubblicana potrà avere nel definire quale rapporto l’Italia avrà col suo passato, e quale sia il futuro politico che l’aspetta. Pesa il successo dell’Uomo qualunque, espressione anche di un desiderio di normalità e di un’avversione a certo giacobinismo antifascista che possono apparire come una forma elementare e istintiva di liberalismo10. È su queste due opzioni – rappresentare la parte moderata dello schieramento resistenziale o il volto rispettabile di quello antiresistenziale – che i liberali dibattono, divergono, si scindono. L’incertezza strategica, le fratture interne, la fragilità organizzativa – inserite in un contesto storico che è ancora estremamente fluido, e amplifica perciò tanto i successi quanto i fallimenti – contribuiscono senz’altro a ridurre il potenziale politico ed elettorale del partito. Il quale per altro, negli anni compresi fra le elezioni per la costituente e il 18 aprile del 1948, compie più d’un errore nel decidere la propria collocazione e nel concludere alleanze. È dubbio che ai liberali convenisse, in termini di irrobustimento elettorale e politico, accordarsi con l’Uomo qualunque e mettersi all’opposizione dell’alleanza antifascista. Più ancora di altre forme di populismo, quella qualunquista era intrinsecamente contraddittoria, ossia incapace di fornire alla propria utopia antipolitica uno sbocco politico concreto11. La vicenda storica del paese, poi, si stava muovendo in tutt’altra direzione, e il Pli avrebbe dovuto avere spalle diversamente larghe per opporsi da solo alla corrente – ossia per rifiutare l’antifascismo evitando al contempo di cadere, o di essere sospinto, nel campo antidemocratico. Certamente, però, se l’alleanza con i qualunquisti la si voleva proprio concludere, bisognava che lo si facesse prima che nel maggio del 1947 socialisti e comunisti fossero esclusi dal governo, ossia quando lo 10 Sulle fratture che attraversano in questi anni il Partito liberale si vedano i saggi di Ornaghi e Fantechi appena citati. Cfr. inoltre A. Ciani, op. cit., pp. 5-67; la già menzionata storia dattiloscritta del Partito liberale conservata in CM, b. 427, f. 18 (d’ora in poi Storia Pli), cap. I, Dalla caduta del fascismo alla svolta del 1947, pp. 1-30. Sui rapporti “teorici” fra qualunquismo e liberalismo si vedano G. Orsina, Le virtù liberali del qualunquismo, e V. Zanone, La riduzione qualunquista del liberalismo, in G. Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 7-26 e 27-38. Sulle vicende dell’Uomo qualunque si veda S. Setta, L’Uomo qualunque, 1944-1948, Roma-Bari, Laterza, 1975. 11 Cfr. G. Orsina, Le virtù liberali , cit., pp. 22-3. Ma le difficoltà dell’Uomo qualunque emergono chiaramente da tutta la sua storia, per la quale cfr. S. Setta, op. cit. schieramento resistenziale era integro e gli spazi al di là del suo confine destro ancora ampi. Non per caso l’Uomo qualunque ebbe il suo momento di massimo consenso alle elezioni amministrative del novembre 1946, quando nei comuni del centro-sud riuscì a recuperare dalla Democrazia cristiana un’ampia messe di voti moderati insoddisfatti. La decisione di presentarsi alle elezioni insieme al movimento di Giannini il Pli, dopo aver ripetutamente respinto il commediografo, la prese invece alla fine del 1947 nel suo quarto congresso nazionale, eleggendo a suo segretario Roberto Lucifero. Pagò questa scelta con una scissione a sinistra e con il consistente appannamento della propria immagine di partito antifascista e aperto al progresso. E non ne ricavò in cambio grandi benefici, in un contesto elettorale e politico, come quello del 18 aprile 1948, nel quale com’è noto i consensi moderati confluirono in massa su una Democrazia cristiana che si era ormai accreditata come il principale e più affidabile baluardo anticomunista12. Le circostanze politiche e parlamentari della prima legislatura consentirono al Partito liberale di ripiegarsi almeno in parte su se stesso e mettersi alla ricerca di un proprio equilibrio interno e di una propria identità. Non che in questi anni i rapporti fra i liberali da un lato, il governo e gli altri partiti dall’altro fossero del tutto pacifici. Basti pensare alla scelta di non rientrare nell’esecutivo dopo la crisi del gennaio 1950 che portò dal quinto al sesto gabinetto De Gasperi – scelta motivata com’è noto dal dissenso sulla politica agricola del governo, ma anche dalla richiesta liberale di trasformare in senso proporzionale il sistema elettorale amministrativo e di rimandare l’attuazione delle regioni13. Considerata la posizione nettamente predominante che con le elezioni del 1948 aveva acquisito la Democrazia cristiana, tuttavia, le decisioni del Pli finivano per avere un’importanza politica tutto sommato scarsa. E l’invisibilità e l’impotenza relative dei liberali, fra i tanti effetti negativi, avevano almeno la conseguenza positiva di rendere i loro dissensi interni meno evidenti e rilevanti – lasciavano insomma al partito il tempo necessario per riordinarsi da un punto di vista non soltanto ideologico ma anche organizzativo, la struttura del Pli essendo uscita dalle 12 Si veda A. Ciani, op. cit. , pp. 60-7. Sul progetto politico di Lucifero, interpretato (e criticato) come un tentativo di fare del Pli un partito conservatore di massa, si veda G. De Rosa, I partiti politici dopo la Resistenza, in Dieci anni dopo, 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955, pp.113-207, pp. 162-9. 13 A. Ciani, op. cit. , pp. 75 e 76; Storia Pli , cit., pp. 54-7; P. Baldesi, Un’esperienza liberale: Eugenio Artom, Livorno, La Nuova Frontiera, 1985, pp. 97-8. elezioni del 1948 in uno stato assai avanzato di disarticolazione14. Come ho già avuto occasione di accennare, poi, nella prima legislatura le questioni relative ai contenuti progressivi dell’antifascismo e della carta costituzionale, sulle quali i liberali si erano e si sarebbero divisi, furono ampiamente oscurate dallo scontro internazionale in atto e dall’assoluta preminenza domestica della divisione fra comunismo e anticomunismo – una divisione che, com’è ovvio, al Pli non creava alcun problema di compattezza interna15. Il segretario del partito Bruno Villabruna – subentrato nel 1948 a Roberto Lucifero – approfittò di questa fase per promuovere con convinzione e infine, nel dicembre del 1951, raggiungere la riunificazione con gli esponenti della sinistra che avevano abbandonato il partito quattro anni prima16. Sebbene i liberali rimanessero al di fuori della maggioranza di governo, astenendosi ancora nel luglio del 1951 nel voto al VII gabinetto De Gasperi e in seguito conservando la propria libertà di azione sui singoli provvedimenti di legge, in linea generale a partire da quest’epoca il Pli si attestò saldamente su di una posizione centrista. Nelle intenzioni così di Villabruna come della sinistra secessionista raccolta attorno a «Il Mondo», la riunificazione doveva avere un più ampio significato “terzaforzista” – tanto che all’interno del partito si discusse dell’opportunità di convocare un’ampia “assemblea costituente” rivolta a tutti i liberali, e fra i fuorusciti del 1947 ci si augurò che l’operazione fosse estesa anche ai repubblicani17. La speranza com’è noto non si realizzò. Questo non toglie tuttavia che nella fase finale della prima legislatura il Pli 14 Si vedano ancora A. Ciani, op. cit., pp. 73 e 77; Storia Pli, cit., p. 40. Per una breve illustrazione di come hanno interagito nella storia italiana del Novecento l’antifascismo e l’anticomunismo si veda A. Lepre, L’anticomunismo e l’antifascismo in Italia, Bologna, il Mulino, 1997. 16 A. Ciani, op. cit., pp. 77-80; e soprattutto Storia Pli, cit., pp. 58-65. P. Baldesi, op. cit., pp. 97104; A. Cardini, op. cit., pp. 230-6; P. Bonetti, op. cit., pp. 67 ss. 17 Storia Pli , cit., pp. 58-65. È dubbio d’altra parte che la riunificazione del Pli possa davvero essere considerata un’operazione “di sinistra”. Si vedano ad esempio le considerazioni di G. Galli (in Il difficile governo, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 105-6), il quale cita un’affermazione di Villabruna secondo la quale il Pli avrebbe dovuto collocarsi a destra della Dc, pur seguendo una linea di «intelligente progressismo liberale». Il documento sul quale il partito si riunificò (lo si legga in P. Baldesi, op. cit., pp. 98-100) avrebbe potuto essere sottoscritto da Giovanni Malagodi fino all’ultima sua riga. Sul tema che maggiormente differenziava il Pli dalla Dc e dagli altri suo alleati, collocandolo su posizioni più conservatrici, ossia sulla politica agraria, non risulta poi che vi fossero contrasti fra la sinistra e la destra del partito: cfr. A Giovannini, op. cit., p. 106; A. Spinelli, Il ritorno alla democrazia, in S. Rogari (a cura di), La Confagricoltura nella storia d’Italia. Dalle origini dell’associazionismo agricolo nazionale ad oggi, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 616-7. Quelli sono del resto gli anni nei quali si consuma l’estremo tentativo di consolidare l’alleanza centrista in chiave tanto anticomunista quanto antifascista; e su questo tentativo i liberali sono in grande maggioranza concordi. Si veda ad esempio l’approvazione che sulle pagine de «Il Mondo» ebbe la riforma in senso maggioritario della legge elettorale: P. Bonetti, op. cit., p. 73; A. Cardini, op. cit., pp. 259-63. 15 apparisse pienamente solidale con Dc, Pri e Psdi e profondamente inserito nel clima politico della stagione degasperiana – e, in concreto, si presentasse alleato con le altre forze della maggioranza di governo sia alle elezioni amministrative del 1951 e 1952, sia alle politiche del 195318. Da un punto di vista elettorale la via imboccata dal Pli si rivelò ancora una volta scarsamente produttiva: l’alleanza di governo – anche questo è ben noto – perse visibilmente consensi e fallì l’obiettivo del 50% più uno fissato dalla legge maggioritaria, mentre la destra salì al tredici per cento – sei per i missini, sette per i monarchici. Il partito rimase ciò nonostante attestato sulla linea centrista di solidarietà democratica, come si vide nel febbraio del 1954 quando, presidente Scelba, tornò al governo19. Entrato nel gabinetto quale ministro dell’industria, Villabruna si dimise dalla segreteria del partito, e al suo posto il Consiglio Nazionale del 2-3 aprile 1954 elesse, con pochissimi voti di scarto sul candidato del centro sinistra Francesco Cocco-Ortu, Giovanni Malagodi. Proveniente dal mondo bancario e imprenditoriale e nuovo alla politica, Malagodi si era iscritto al Pli in occasione della riunificazione del 1951 nell’ambito di un’operazione, promossa proprio da Villabruna, che mirava a rafforzare il partito nel nord Italia, da dove alle elezioni del 1948 i liberali erano quasi scomparsi20. Al VI congresso del partito, nel gennaio del 1953, aveva presentato una relazione sulla politica economica che aveva incontrato l’approvazione dell’intera assemblea. E nel 1954 fu eletto segretario da centrista – così come centrista era anche considerato il suo concorrente Cocco-Ortu –, benché con i voti del centro destra21. In un primo tempo, insomma, l’avvento di Malagodi alla segreteria del Pli non fu percepito come un momento di discontinuità rispetto alla gestione precedente; ci sarebbe voluto qualche mese perché questa situazione si modificasse e cominciasse a maturare la scissione dei radicali, avvenuta poi nel dicembre del 1955. Per certi versi del resto, come vedremo nelle pagine seguenti, l’ascesa di Malagodi alla guida del partito fu 18 A. Ciani, op. cit., pp. 79-95. Ivi, pp. 99-103. 20 Storia Pli , cit., p. 40. Già alle elezioni del 1953, e quindi prima che Malagodi divenisse segretario, l’opera di “settentrionalizzazione” del Pli era arrivata a uno stadio avanzato di realizzazione: dal 1948 al 1953 il partito passò dall’1,6 al 3,5% nel triangolo industriale, e crollò dal 7,3 al 3,5% nel Mezzogiorno. Cfr. ivi, p. 74. Sul mutare dei flussi elettorali liberali nel nord e nel sud dal prefascismo all’età di Malagodi, cfr. A. Jannazzo, op. cit. 21 A. Ciani, op. cit., 92 e 104-105. Per l’approvazione de «Il Mondo» alla relazione di Malagodi cfr. P. Bonetti, op. cit., pp. 75-6. 19 effettivamente un momento di discontinuità politica minore di quanto non sia apparso dalle polemiche successive. Seppure con qualche innovazione di tattica politica, e in particolare mostrando maggiore disponibilità nei confronti dei monarchici, sul piano strategico Malagodi conservò il Pli sulla linea centrista di solidarietà democratica che esso aveva adottato fra il 1951 e il 1953 – e ce lo tenne fin dentro agli anni Settanta. 2. Giovanni Malagodi e l’opposizione liberale al centro sinistra Giovanni Malagodi era persona dalle convinzioni ideologiche assai marcate. Non soltanto perché da giovane aveva studiato le ideologie – la sua tesi di laurea, che pubblicò nel 1928 nella Biblioteca di cultura filosofica Laterza, ovviamente sotto l’egida di Croce, s’intitolava proprio Le ideologie politiche –, ma più in generale perché s’era formato negli anni in cui il liberalismo aveva dovuto affrontare la sfida totalitaria. Gli anni insomma nei quali Croce e i crociani s’interrogavano sull’opportunità che il liberalismo acquisisse i caratteri d’una vera e propria religione della libertà, capace di contendere al fascismo il consenso delle masse22. L’avversione ai totalitarismi in ogni loro forma, la convinzione che nel ventesimo secolo la lotta politica avesse acquisito i caratteri di un’autentica guerra di religione, e che la democrazia liberale dovesse perciò difendersi in primo luogo sul piano della coerenza di principio e della fiducia in se stessa, furono i termini entro i quali Malagodi pensò la politica nel corso della sua esistenza. Interpretando la vita pubblica in una prospettiva ideologica, inoltre, Malagodi la affrontava come fosse un’entità compatta e coerente: politica economica, politica interna, politica estera, politique politicienne si connettevano l’una all’altra in maniera indissolubile, tanto che uno scivolamento significativo su uno qualsiasi di questi piani non avrebbe potuto che portare a scivolamenti corrispondenti dell’intera costruzione politica. Osservata a partire da queste premesse, l’opzione centrista – atlantismo, europeismo, antisovietismo in politica estera; rifiuto di qualsiasi compromesso con le forze antidemocratiche in politica interna, a destra così come a sinistra; liberismo non “selvaggio” in politica economica – rappresentava per Malagodi assai più che una formula di governo. Era «un’atmosfera etico-politica»: l’unica che a suo avviso potesse conservare l’Italia sulla via della democrazia, della libertà, del progresso economico e civile – ossia che potesse «mandare avanti il Paese e tenere lontano il comunismo (le due cose coincidono)»23. Coincidevano, perché nel contesto 22 Cfr. ora su questo A. Jannazzo, op. cit. , capitolo III, Croce clandestino , pp. 97-135, e soprattutto pp. 201-2. 23 Le citazioni sono tratte da una lettera di Giovanni Malagodi ad Amedeo Ancarani Restelli, 3012-1966, in CM, b. 419, f. 3: una fonte piuttosto “tarda”, ma i concetti sono i medesimi che Malagodi espresse pubblicamente e privatamente fin dal 1954. In una presentazione così generale del pensiero politico dell’Italia postbellica salvaguardare la “religione” della libertà dagli assalti delle opposte “religioni” totalitarie significava per Malagodi in primo luogo escludere nella maniera più assoluta qualsiasi ipotesi di compromesso col Pci. L’anticomunismo era senz’altro uno degli assi portanti della riflessione politica del leader liberale, presenza costante in tutti i suoi scritti e discorsi pubblici e privati, ragione prima delle sue scelte politiche concrete. Un anticomunismo che, proprio a motivo della convinzione che tutto in politica si tenesse, acquistava toni spesso apocalittici: per Malagodi qualsiasi cedimento al Pci rischiava di avviare una reazione a catena che avrebbe infine fatto precipitare l’Italia all’interno del blocco sovietico. Come vedremo fra breve, saranno proprio questi i termini dell’opposizione intransigente che il leader liberale fece al centro sinistra. Non mi sembra, in linea generale, che si possa parlare d’un pensiero “di destra”, e tanto meno di un pensiero non liberale24. Siamo semmai di fronte al proposito fermo e angosciato di difendere fino in fondo e senza compromessi le forme economiche e politiche dell’Occidente, in un’Italia che si era divincolata dal fascismo soltanto per cascare a capofitto nella Guerra Fredda. Tanto più che, purché quelle forme fossero nella loro sostanza garantite, Malagodi guardava con grande favore alla modernizzazione economica e sociale del paese, lungo le linee segnate dalle grandi democrazie nordatlantiche. E tanto più ch’egli rimaneva fermamente chiuso, non solo in astratto, ma nelle scelte politiche quotidiane sue e del partito, a qualsiasi ipotesi di “grande destra”. Avviare un dialogo col Msi, non meno che col Pci, avrebbe infatti implicato ammettere sul piano ideologico che nel fascismo vi del segretario liberale non mi sembra utile soffermarmi nel dettaglio su questa o quella fonte specifica. Sulla formazione ideologica e il progetto politico di Malagodi si può vedere ora A. Jannazzo, op. cit., pp. 200-27. Rimando poi, in generale, agli interventi di Malagodi ai congressi e consigli nazionali liberali di quegli anni, riprodotti su questo Dvd; ai suoi Discorsi parlamentari, Roma, Senato della Repubblica, 2001, 3 voll.; ai due volumetti Massa non-massa. Riflessioni sul liberalismo e la democrazia, Roma, Sansoni, 1962; Liberalismo in cammino (1962-1965), Roma, Sansoni, 1965; ad alcuni suoi interventi pubblici riprodotti in opuscolo, quali ad esempio: Costruiamo una democrazia liberale, discorso pronunciato a Milano il 14-3-1954; La funzione politica del PLI, discorso pronunciato a Roma il 27-5-1954; Il Partito liberale, lo Stato e il ceto medio, discorso pronunciato a Torino e Venezia il 27 e 29-6-1954; La via della libertà, discorso pronunciato a Palermo il 16-4-1955; Per una politica positiva di libertà, discorso pronunciato a Riva del Garda, 30-9-1956; Discorsi politici (dal Luglio 1957 al Marzo 1958), Roma, Pli, 1958; Il compito dei liberali per lo sviluppo in Italia di una democrazia moderna, Roma, Pli, 1960; Alzare la mira nella libertà. Discorso di apertura della campagna elettorale amministrativa, Roma, Pli, 1960; Per il progresso democratico e contro la svolta a sinistra, discorso pronunciato a Milano il 17-12-1961. 24 È Piero Craveri ( op. cit. , p. 140) a sostenere che nella sua polemica contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica «Malagodi usava un linguaggio, che in nulla poteva dirsi proprio di un liberale, neppure di segno conservatore». fosse qualcosa di buono, e inquinare perciò la verità del centro democratico e liberale. In una congiuntura storica, per altro, che vedeva l’autoritarismo vivo e vegeto in paesi non lontani dall’Italia come la Spagna e il Portogallo, e una robusta corrente conservatrice e clericale interna alla Democrazia cristiana che dall’alleanza col Movimento sociale sarebbe stata ravvivata e amplificata25. Seppure non “di destra” né illiberale, il discorso politico di Malagodi conservava tuttavia un sapore moderato che, man mano che ci si addentrava negli anni Sessanta, mi sembra lo rendesse sempre più estraneo al clima culturale prima ancora che politico d’Italia. Il moderatismo di Malagodi – secondo le linee che abbiamo illustrato qualche pagina addietro – si sostanziava nel desiderio che l’occidentalizzazione del paese si coniugasse con la salvaguardia delle migliori fra le sue abitudini. Che, come ebbe a dire nel 1955, fossero conservati «le tradizioni e gli istituti dei padri in tutto quello che hanno di permanentemente valido», pur senza che ci si chiudesse perciò «all’evolversi e al rinnovarsi dei rapporti politici e sociali»26. E si faceva quanto mai evidente nel modo con cui il leader liberale affrontava, ad esempio, le questioni relative alla Chiesa cattolica, al passato monarchico del paese, all’identità nazionale italiana. Come vedremo anche più avanti – discorrendo del passaggio, negli anni Settanta, dal Pli di Malagodi al Pli di Zanone – la chiave culturale e generazionale consente di capire molto della vicenda politica così di Malagodi come del partito che egli guidò incontrastato per almeno un quindicennio, nei loro rapporti con il sistema politico nazionale. Il leader liberale appare insomma “di destra” non tanto se si considera in astratto il suo pensiero, quanto piuttosto se lo si confronta con un paese la cui cultura, a motivo della trasformazione economica e sociale ma anche degli eventi politici di quegli anni, si distaccava dai legami con la tradizione prefascista per rilanciare le speranze di rinnovamento della 25 La decisione ufficiale di rifiutare la “grande destra” fu presa alla quasi unanimità nel Consiglio Nazionale del 30-11-1957, su sollecitazione del segretario (A. Ciani, op. cit., p. 135). Negli interventi di Malagodi che abbiamo citato alla nota 23 il desiderio di modernizzare l’Italia secondo l’esempio dei paesi occidentali e il conseguente rifiuto di uno Stato “alla portoghese”, confessionale, repressivo, corporativo, compaiono ripetutamente. La chiusura verso il Msi e la “grande destra” sono un’ovvia conseguenza di queste scelte. Non vi è d’altra parte dubbio che nella congiuntura storica degli anni Cinquanta Malagodi ritenesse il pericolo comunista assai maggiore di quello neofascista, e sviluppasse la sua polemica principalmente verso sinistra. 26 G. Malagodi, La via della libertà , cit., p. 5. Si veda anche id., Costruiamo una democrazia liberale, cit., p. 18. Resistenza e della costituente27. Un “ritardo”, quello di Malagodi, che oltre ad avere numerosi e innegabili aspetti negativi gli consentì però di cogliere i limiti e i difetti della rapida evoluzione politica nazionale. È a partire da queste premesse ideologiche e culturali – per alcuni versi direi quasi temperamentali – che la ferma opposizione del Pli malagodiano al centro sinistra diviene pienamente comprensibile. L’avvento di Malagodi alla guida del partito, s’è detto qualche pagina addietro, non rappresentò a tutta prima un momento di discontinuità rispetto alla gestione Villabruna. Il nuovo segretario conservò il Pli nello stesso luogo politico centrista che esso aveva gradualmente guadagnato nel corso della prima legislatura, qualificandolo come un partito di progresso moderato28. A muoversi però, nel corso degli anni Cinquanta, fu il sistema politico italiano, e quel centrismo che con De Gasperi era apparso l’unica possibile forma di difesa della democrazia dalle forze antisistema di destra e di sinistra, con l’attenuarsi della Guerra Fredda e col riavvicinarsi dei socialisti all’area di governo divenne gradualmente un’opzione superata. Malagodi, così, condusse il partito a destra tenendolo fermo. La ragione principale per la quale il segretario liberale continuò a insistere sulla formula degasperiana fu la convinzione fermissima che l’apertura al Partito socialista potesse avvenire soltanto a determinate condizioni. Malagodi non era affatto insensibile alla necessità di consolidare e rafforzare il regime democratico. Al contrario, considerata la sua costituzione ideologica generale questo può senz’altro essere ritenuto il suo obiettivo 27 Sulla sconfitta della cultura moderata negli anni Sessanta, e in particolare con l’avvento del centro sinistra, ha scritto pagine di grande acutezza Augusto Del Noce. Si vedano ad esempio: Il suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978; I cattolici e il progressismo, Milano, Leonardo, 1994, nel quale sono ripubblicati saggi scritti fra il 1959 e il 1967. 28 Un appunto riservato conservato in CM, b. 27, f. 27, e datato luglio 1955 dimostra chiaramente come Malagodi intendesse proseguire lungo la linea centrista, e illustra anche di che natura fosse il suo centrismo. Conservandosi fedele alla coalizione di centro, il Pli doveva rappresentare la garanzia che essa non scivolasse a sinistra – uno scivolamento che la Dc sembrava sempre più tentata a promuovere. «Ciò significa», prosegue il documento, «caratterizzare sempre maggiormente il P.L.I. nella sua fisionomia inconfondibile di partito democratico, non vincolato a pregiudiziali istituzionali o nostalgiche; aperto ad ogni voce di reale progresso, e perciò appunto difensore risoluto della libertà come solo strumento efficace di progresso in tutti i campi; cosciente del valore dello Stato, della sua moralità ed efficienza, come garanzia di libertà contro tutte le tentazioni totalitarie e demagogiche». «Una politica di progresso, di stabilità e di libertà insieme non si può realizzare che offrendo alla D.C. la possibilità di una coalizione di C. che sia effettivamente tale, e quindi non sia esposta né a scivolamenti a S. né alla alternativa di operazioni di D., incompatibili con la struttura profonda della D.C. medesima». Il documento stigmatizza poi la sinistra liberale, «che predominava sostanzialmente nel P.L.I. da diversi anni», perché tendeva a fare del Pli «un’appendice del P.S.D.I., e quindi a falsare tutto il carattere della coalizione di C.». primario. «Il guadagno alla democrazia delle masse e se possibile anche dei quadri di sinistra», scriveva ad Aldo Moro il 24 maggio del 1963, «è un’operazione fondamentale». «Essa», aggiungeva tuttavia, «ha un suo limite preciso: va fatto in condizioni tali che non si converta nel suo contrario. Non bisogna che, correndo dietro ai socialisti, siano i partiti democratici a trovarsi prigionieri dei socialisti e dei comunisti»29. Il Psi, in altre parole, sarebbe stato ammesso nell’area di governo soltanto quando avesse accolto senza alcuna riserva i principi della democrazia liberale occidentale, distaccandosi totalmente dal Partito comunista. Se così non fosse stato, aprendo a sinistra i partiti centristi avrebbero implicitamente legittimato l’ideologia socialista, minando al contempo l’integrità spirituale del campo democratico liberale e indebolendolo fatalmente nello scontro epocale con il comunismo. Questo tipo di centro sinistra – ch’era poi secondo Malagodi quello cui si giunse effettivamente nel 1962-63 – avrebbe generato un’«ondata emozionale» tale che ne «sarebbero [state] senza dubbio travolte quelle frontiere ideali e morali che sono alla base delle frontiere politiche»30; avrebbe condotto al rafforzamento elettorale del Pci, sia direttamente a motivo della nuova legittimazione ch’esso avrebbe ottenuto dai democratici, sia indirettamente come conseguenza della destabilizzazione economica e sociale del paese; e attraverso il Psi avrebbe portato il governo sotto il condizionamento dei comunisti, tanto che l’ancoraggio occidentale dell’Italia ne sarebbe stato messo in dubbio. «Nessuna dichiarazione», scrisse Malagodi a Fanfani e Moro in un appunto del febbraio 1962, «avrà l’effetto di impedire che l’appoggio comunista al nuovo Governo si traduca immediatamente in una tremenda disfatta psicologica e politica per la democrazia italiana. Nel marasma che ne seguirà, i comunisti inseriranno richieste sempre più pericolose in Parlamento e agitazioni sempre più violente nelle piazze. Attraverso le organizzazioni di massa, forzeranno i Socialisti ad associarsi. È una tecnica ben nota: la tecnica di Praga»31. «Un governo appoggiato dal Psi», aveva scritto a Moro già 29 Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 24-5-1963, in CM, b. 420, f. 7. G. Malagodi, Contro l’equivoco e per una chiara scelta politica , discorso pronunciato alla Camera dei deputati, 7-4-1960, pp. 11-12. Ora anche in Discorsi parlamentari, cit., vol. I, pp. 426-48. 31 Un breve appunto per gli onorevoli Fanfani e Moro , s.d., ma del febbraio 1962, in CM, b. 420, ff. 6 e 7. Il «nuovo Governo» è il IV governo Fanfani, tripartito Dc-Psdi-Pri che ebbe in aula l’astensione del Psi. Malagodi era chiaramente convinto che anche il Pci avrebbe appoggiato il ministero: «L’on. Togliatti ha deciso di inserire il Partito Comunista nella “svolta” in preparazione». All’epoca, fra gli intellettuali, giudicarono quel centro sinistra un’operazione “oggettivamente” 30 qualche mese prima, «metterebbe in moto una reazione a catena in senso neutralistico che ci porterebbe fuori dal mondo libero e in braccio ai Soviet»32. Proprio le lettere che Malagodi inviò al segretario della Democrazia cristiana, nella loro insistenza e ripetitività, nei loro toni allarmati e a tratti apocalittici, nel loro prolungarsi fino al 1964 in quello che lo stesso leader liberale definì un «soliloquium ad Morum», danno l’idea di quanto sinceri e profondi fossero i timori di Malagodi per la situazione politica italiana. L’ultima missiva, datata Pasqua 1964, merita di essere riprodotta quasi per intero: Credo di essere dei non moltissimi che si rendono conto delle forze positive oltreché negative che ti hanno portato dove sei giunto. Ma al punto dove ora sei – o tu riesci a far accettare dai socialisti una politica molto più simile alla nostra che alla loro, una politica che si regoli sulla realtà e sull’interesse di tutti non sulle astrazioni e sul classismo – o rompi con loro – o scivoli in qualche modo in braccio ai comunisti con te lo Stato (e la Chiesa). Non hai più gran margine di tempo e di manovra. Non è sufficiente confidare in prese di posizione o in misure che sono obiettivamente insufficienti. Non è sufficiente lasciare intravedere un rallentamento delle procedure per certe leggi. Basta che tu le mandi avanti perché ne segua l’effetto psicologico e con esso quello economico e sociale. La crisi, che è nata dalla politica, è penetrata di lì nella moneta e nelle finanze, penetra ora nella produzione e nell’occupazione e di lì – bigamia socialista adiuvante – reagisce sulla politica. Come sempre ti dico in privato quello che da anni vado dicendo e scrivendo, in pubblico – non per cercare voti, ma perché credo che il Paese è in serio pericolo e 33 noi tutti con esso . Non vi è alcun dubbio che, rimanendo attestato su queste posizioni in un momento nel quale l’intero sistema politico ruotava verso sinistra, il Pli abbia finito per trovarsi schierato a destra – seppure, come s’è detto, su basi ideologiche cui quest’etichetta può applicarsi soltanto in parte, e perdurando comunque nella maggioranza malagodiana del partito il netto rifiuto dell’ipotesi di una “grande destra” aperta anche ai missini. La scelta di schierarsi sul versante moderato, ad ogni modo, portava al Pli dei vantaggi favorevole e non contraria al Pci anche A. Del Noce, del quale si vedano i saggi ristampati in I cattolici e il progressismo, cit., e P. Gentile, di cui si vedano Polemica contro il mio tempo, cit., e Opinioni sgradevoli, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1968. 32 Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 16-10-1961, in CM, b. 420, f. 7. 33 Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, Pasqua 1964, ivi, sottolineatura nel testo. Si vedano anche Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 7-8-1962, 24-5-1963, 22-7-1963, 14-8-1963, ivi. A quel che sembra, Moro rispose un’unica volta, in data 10-8-1963. politici tutt’altro che irrilevanti. In primo luogo, e com’è del resto noto, da quella collocazione i liberali raccolsero per anni il sostegno politico, sociale ed economico della Confindustria. Uno degli obiettivi che Malagodi fin da subito cercò di conseguire – e una delle ragioni, del resto, per le quali era stato eletto segretario – fu il rafforzamento della struttura del partito, che come s’è già accennato nel 1954 era ridotta assai male. Il leader liberale era uomo quanto mai concreto, attento alle esigenze organizzative e consapevole del ruolo essenziale che anche nell’attività politica svolge il denaro. Nelle sue carte sono rimaste tracce significative dell’opera cauta e realistica di ripensamento delle fortune elettorali e delle esigenze pratiche del liberalismo che egli svolse intorno alla metà degli anni Cinquanta, non appena ascese alla segreteria del partito34. E quelle tracce mostrano in tutta evidenza fino a che punto il consolidamento e l’ampliamento della struttura di partito dipendessero dalla raccolta di più ampie risorse finanziarie. L’incontro fra il Partito liberale e le associazioni dei produttori sul terreno dell’opposizione al centro sinistra rappresentò senz’altro, da questo punto di vista, un fondamentale passo in avanti: dalla metà degli anni Cinquanta la Confindustria non solo finanziava il Pli, ma lo finanziava riccamente35. Il rapporto fra Malagodi e la “destra economica”, com’è noto, fu anche la ragione principale per la quale la sinistra del partito ruppe con la segreteria, tanto da giungere infine, nel dicembre del 1955, alla scissione. «Il Mondo» mostrò un atteggiamento assai critico davanti alla scelta liberale di votare contro il distacco dell’Iri dalla Confindustria prima, e di opporsi alla riforma dei patti agrari poi. Arrivando infine ad accusare apertamente Malagodi di aver fatto del Pli lo «strumento dei grossi interessi monopolistici e terrieri», di aver consentito che «il nobile partito di Croce e di Einaudi» fosse «affittato (forse neppure comperato) dall’Assolombarda»36. Ora, che nella seconda metà degli anni Cinquanta vi fosse una relazione assai stretta fra il Pli e gli 34 Si vedano i documenti conservati in CM, b. 27, f. 27. L’appunto riservato del luglio 1955 che ho citato diffusamente alla nota 28, ad esempio, sosteneva in conclusione che, per svolgere la sua funzione all’interno della coalizione centrista, il Pli si sarebbe dovuto rafforzare all’interno e verso l’esterno. 35 Nell’aprile del 1956, 60 milioni di lire al mese e 500 in occasione delle elezioni. Poi si sarebbero ridotti a 40 milioni mensili. Si vedano alcuni appunti conservati in CM, b. 13, f. 11. 36 Si vedano A. Cardini, op. cit., pp. 314-9; P. Bonetti, op. cit., pp. 83-6, dal quale sono tratte le citazioni. industriali, è certo37. Alcuni documenti conservati fra le carte di Malagodi lasciano anzi pensare che fosse ancora più stretta di quanto non si sia finora ritenuto: ad esempio che il nuovo segretario liberale sia stato coinvolto in maniera assai rilevante nella progettazione politica della Confintesa; e che dopo il fallimento di quell’iniziativa, fino almeno al 1960, incontrasse molto di frequente esponenti di primissimo piano del mondo industriale per discutere di politica – e di denari38. Detto tutto ciò, ad ogni modo, credo sia opportuno non dimenticare che la convergenza fra il Pli e le organizzazioni economiche fu soprattutto una convergenza politica, così come politici, non soltanto finanziari, furono i vantaggi che i liberali ne trassero. Una convergenza politica perché, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, l’opposizione di Malagodi al centro sinistra fu un’opposizione profondamente sentita e ideologicamente motivata, affatto coerente col suo mondo mentale, ed era perfino scontato che allo scopo di difendere il modello occidentale egli si rivolgesse a quei ceti sociali che più avevano da perdere dall’eventuale vittoria del collettivismo. Lo stesso segretario liberale lo scrisse sdegnato a «Il Mondo» nel maggio del 1955, rispondendo a una delle molte critiche incentrate sulla sua contiguità col mondo imprenditoriale: «Come uomo politico, ho le mie idee, ereditate anche da antica tradizione familiare e ben note per frequenti e precise manifestazioni pubbliche. Quale deputato e segretario generale del Pli, le traduco in atti politici»39. Vantaggi politici, quelli che il Pli ricavò dai suoi rapporti con Confindustria, perché a partire dalla 37 Per altro, quella relazione era stata assai forte anche nel corso della prima legislatura – anche se, come si accenna alla nota successiva, l’avvento di Malagodi alla segreteria avvicinò ulteriormente il Pli agli industriali. Liborio Mattina (Gli industriali e la democrazia. La Confindustria nella formazione dell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 1991) parla di un rapporto “simbiotico” fra la Confederazione degli industriali e il Pli fin dalle primissime battute della vita democratica italiana. Potrebbe insomma non essere infondato il giudizio di Arnaldo Ciani (op. cit., p. 107), secondo il quale nel 1954-55 «la sinistra non aveva motivi seri per giustificare i suoi attacchi» a Malagodi, e «stava facendo in realtà, nei riguardi del Segretario Generale, un inammissibile processo alle intenzioni». 38 Purtroppo non c’è qui lo spazio per approfondire questo argomento, che mi riservo di affrontare più diffusamente in altra sede. Fra le carte di Malagodi, ad ogni modo (e si vedano soprattutto i già citati ff. 11 della b. 13 e 27 della b. 27), sono presenti documenti riservati e parti di interventi pubblici relativi alla Confintesa che sono con ogni probabilità frutto della penna di Malagodi, o portano correzioni manoscritte di suo pugno. Altri appunti e documenti danno testimonianza degli stretti contatti politici che intercorrevano fra il segretario liberale e gli esponenti del mondo imprenditoriale. Sull’esperienza della Confintesa cfr. L. Mattina, op. cit., pp. 299 ss.; G. Raimondi, Soggetti e politiche delle relazioni industriali: la Confederazione generale dell’industria italiana, in F. Peschiera (a cura di), Sindacato industria e Stato negli anni del centrismo, Firenze, Le Monnier, 1979, pp. 1-103, pp. 64 ss.; A. Spinelli, art. cit., pp. 631 ss. Nessuno di questi scritti nota tuttavia il ruolo che nella fondazione della Confintesa svolse Malagodi. 39 Citato in A. Cardini, op. cit., p. 317. seconda metà degli anni Cinquanta i liberali ne trassero qualcosa di ancor più importante che un robusto sostegno economico: una chiara funzione politica, e un altrettanto limpido collegamento con un’area ideologica, sociale, geografica. Una funzione, inoltre, che i liberali esercitarono in una posizione di sostanziale monopolio. E proprio questo mi sembra il risvolto largamente più vantaggioso dell’identità che Malagodi diede al Pli. Nel sistema politico italiano dei primissimi anni Sessanta il centro sinistra era alquanto affollato, occupato com’era dal Psdi, dal Pri e in definitiva, una volta accettata l’apertura al Psi, anche dalla Democrazia cristiana. Se il Partito liberale avesse scelto di seguire la corrente e avesse accettato l’accordo coi socialisti, si sarebbe trovato anch’esso costretto in quello spazio: la sua specificità e visibilità politica ne sarebbero state seriamente indebolite; e le sue fortune elettorali ne avrebbero con ogni probabilità sofferto. Seguendo la linea di Malagodi il Partito si trovò invece a occupare un’area politica non soltanto ben definita, ma totalmente sgombra: nessun altro partito era in grado di giocare il ruolo della forza moderata ma democratica, europea ed europeista, antifascista tanto quanto anticomunista, leale alle istituzioni repubblicane. Dopo anni di incertezza, nel panorama politico italiano il Pli diventava infine limpidamente distinguibile, e nell’opposizione all’apertura a sinistra aveva pure trovato una grande battaglia da combattere. Date queste premesse, alle urne non poteva che raccogliere un premio consistente – il sette per cento alle politiche del 1963, addirittura l’otto nelle amministrative del 1964. Il successo elettorale, d’altra parte, apriva più problemi di quanti non ne risolvesse. Malgrado il partito fosse cresciuto tanto che assai difficilmente sarebbe potuto andare molto oltre, s’era anche cacciato in una posizione tale da non sapere che cosa farsene, dei suffragi raccolti. Accanto agli indubbi risvolti positivi, insomma, la strategia di Malagodi ne aveva anche di negativi – numerosi e pesanti. Il segretario generale liberale sperava che dalle politiche del 1963 uscisse un parlamento composto in modo tale che Dc e Pli potessero da soli formare una maggioranza di governo. Il centro sinistra avrebbe così avuto una chiara alternativa moderata, repubblicani e socialdemocratici sarebbero dovuti scendere a più miti consigli, e la leadership democristiana non avrebbe più potuto scaricare sugli alleati minori la responsabilità dell’apertura a sinistra40. In quelle elezioni, però, alla crescita del Pli si accompagnò com’è noto un calo consistente della Democrazia cristiana – tanto che rispetto al 1958 la somma fra le percentuali elettorali dei due partiti scese dal 45,8 al 45,3%, mentre alla Camera da che avevano insieme più del 48,5% dei deputati (290 su 596) arrivarono al di sotto del 47,5% (299 su 630). Con un misero 1,7% e otto seggi i monarchici non potevano essere granché d’aiuto, mentre il Movimento sociale, ben più consistente e in lieve ripresa rispetto al 1958, non solo non era contemplato dalla strategia malagodiana, ma dopo il luglio 1960 era più che mai emarginato. Opporsi al centro sinistra in queste condizioni significava perciò isolarsi, interrompere le comunicazioni con la Democrazia cristiana e gli altri partiti laici, e trovarsi nell’impossibilità di tornare al governo in tempi brevi o anche medi. Andavano in questa direzione le critiche che, in uno scambio epistolare dell’estate 1964, un vecchio dirigente liberale come Enzo Storoni, per altro già protagonista della scissione della sinistra nel 1948, muoveva a Malagodi. «Il Partito», scriveva Storoni, «ha sì guadagnato dei voti ma ha finito col perdere in influenza politica: oggi con 40 deputati siamo meno determinanti di quando ne avevamo 17». Né era lecito ipotizzare che il Pli potesse ulteriormente rafforzarsi, rimanendo fermo su quelle posizioni: «tenuto conto che il Movimento Sociale Italiano ha una riserva di caccia che noi non potremmo mai eliminare, l’elettorato di destra in Italia è praticamente esaurito, i nostri 2 milioni di voti non possono più essere aumentati con voti di destra: i campi da mietere si trovano a sinistra». Sul punto specifico della capacità dei liberali di incidere nella vita pubblica nazionale, Malagodi replicava con forza: ritenere che stare all’opposizione significasse perdere in influenza era un grave errore sul piano «morale oltreché politico». Al contrario, aggiungeva, «nel gioco ci siamo molto di più oggi, se sappiamo parlare al Paese, che non quando eravamo nelle coalizioni». Là dove parlare al 40 Cfr. A. Ciani, op. cit. , pp. 165-6; Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 16-10-1961, cit.; G. Malagodi, Per il progresso democratico e contro la svolta a sinistra, cit., p. 40. Moro con Malagodi usava “coprirsi” dietro a repubblicani e socialdemocratici: cfr. ad esempio Aldo Moro a Giovanni Malagodi, 1-9-1961, in b. 420, f. 7. Su questo si vedano le acute notazioni di G. Baget Bozzo (Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La Dc di Fanfani e anche di Moro 1954-1962, Firenze, Vallecchi, 1977, p. 6): «Moro ha reso possibile il “centro sinistra con l’astensione socialista” e quindi l’apertura a sinistra, mostrando che essa non ha alternative e che essa è per la Dc una scelta obbligata. Sono bastati repubblicani e socialdemocratici (e, in modo dirimente, i soli repubblicani) a costringere la Dc alla scelta dell’apertura a sinistra: e la Dc ha accettato la scelta proprio in tale forma. Ciò dimostra che in essa l’accettazione dei rapporti di forza, lo “stato di necessità”, diviene il più spontaneo motivo di azione politica». paese, in questo caso, significava combattere «una grande battaglia di fondo» contro lo «spostamento della DC in senso populista-corporativo e nel fondo autoritario» dettato «dalla antica antipatia costituzionale di larghi strati cattolici verso il liberalismo» – una battaglia, aggiungeva il segretario del Pli, «che ha le sue radici in tutta la storia d’Italia e che ci mette ancora una volta in una postura di opposizione rivoluzionaria (costituzionale, democratica, pacifica, ma sempre intimamente e sostanzialmente rivoluzionaria). E che non sarà breve, anche se avrà, forse, parentesi governative o di maggioranza». Collocata com’era sul terreno ideologico, d’altra parte, questa risposta non faceva che evidenziare come il dissenso fra i due interlocutori fosse in realtà più profondo, e difficilmente conciliabile. Storoni era infatti convinto che l’errore del Pli fosse in primo luogo nel suo posizionamento culturale: nel «non aver seguito nei limiti del ragionevole l’evoluzione a sfondo sociale manifestatasi in tutto il mondo», tanto che i liberali erano ormai «considerati dall’opinione pubblica più come conservatori che come liberali», là dove «essere conservatori in simile fase di trasformazione equivale ad essere politicamente invecchiati». E Malagodi proprio quel posizionamento difendeva con forza, riportandolo allo scontro “religioso” fra la società chiusa «teocratica o materialista» e la società aperta: una società quest’ultima fatta di economia di mercato e di libertà democratiche, ossia di elementi che soltanto nella propaganda socialista e nella polemica cattolica potevano apparire il frutto di «conservatorismo», «reazionarismo» o «classismo borghese». «Conservatori (…) lo siamo», dichiarava ancora il segretario liberale: «Conservatori della libertà, della possibilità di cambiare legalmente e pacificamente. Come Croce ed Einaudi erano conservatori (e sbeffeggiati come tali) di fronte al fascismo». «L’essenziale», concludeva, è respingere dall’animo nostro ogni complesso d’inferiorità, ogni nostalgia verso di “loro” che oggi sono più forti (e la cui forza potrà ancora crescere), ogni illusione che siano diversi da quello che sono, ogni piatire di quei loro riconoscimenti che non mancano ai La Malfa e ai Saragat, macellai del benessere e domani della reale libertà popolare. Non vinceremo – non faremo intanto tutta la grossa parte che ci spetta – mimetizzandoci, pregando che non ci trattino male – ma solo vincendo nell’animo di un numero sufficienti di italiani – solo se la nostra idea troverà le forze sufficienti41. Le osservazioni di Storoni avevano irritato Malagodi perché venivano da un amico personale e di partito42 – «da un uomo della tua esperienza politica e serietà mentale». Per il resto, ad ogni modo, non facevano che riecheggiare le critiche spesso assai aspre che al Pli erano state rivolte dai promotori del centro sinistra, e delle quali Malagodi s’era già lagnato qualche mese prima nel suo «soliloquium ad Morum». E in fondo le riecheggiavano solo in parte e in forma assai meno ruvida: gli attacchi ch’erano giunti dall’esterno alla politica dei liberali, infatti, non si limitavano a stigmatizzare il conservatorismo del Pli – che lo avrebbe reso incompatibile col «corso politico intrapreso d’intenso sviluppo democratico» –, ma riconducevano inoltre quelle scelte alla decisione del partito di farsi «espressione di determinati interessi e delle tendenze della parte meno illuminata dell’alta borghesia». L’opposizione moderata al centro sinistra insomma, che come s’è visto aveva delle motivazioni ideologiche generali assai robuste, era invece riportata per intero alla difesa delle esigenze particolaristiche di una classe di ridotte dimensioni numeriche e di utilità sociale e moralità quanto mai dubbie. I liberali – scriveva Malagodi a Moro – non soltanto vedevano così negata la loro «assoluta libertà di giudizio e di determinazione» e gettata un’ombra consistente sulla loro buona fede, ma si trovavano, nelle dichiarazioni degli esponenti della nuova maggioranza, sostanzialmente equiparati ai comunisti. Anzi, considerati ancor peggio dei comunisti, che almeno si ponevano «su un piano storico, politico ed umano di aspirazione verso la giustizia». Nella sua replica il segretario democristiano negò che così fosse. Ribadì certo, pur nel suo linguaggio cauto, il suo dissenso dalle scelte del Pli: «Ho rilevato sempre d’altra parte che si è sovente registrato un irrigidimento del partito liberale su posizioni economico-sociali che avrebbero potuto ammettere più libertà di giudizio in un partito come quello liberale. Ciò avrebbe, io credo, resa meno pesante e difficile la situazione politica italiana». Ma dichiarò anche fermamente che erano «fuori discussione (…) la tradizione e la ispirazione 41 Enzo Storoni a Giovanni Malagodi, 10 e 15-7-1964; Giovanni Malagodi a Enzo Storoni, 11 e 19-7-1964. CM, b. 420, f. 9. Malagodi stava riproponendo in queste lettere la strategia dell’“alternativa liberale” che aveva presentato nell’aprile del 1962 al IX congresso liberale: una «strategia di fondo, di riconquista della società italiana» (A. Jannazzo, op. cit., p. 221). 42 Malagodi, peraltro, era stato invitato a iscriversi al Pli proprio da Storoni: cfr. ivi, p. 201. democratica del partito liberale» ch’egli per altro aveva «sempre riconosciuto e dichiarato»43. Nonostante questa chiara asserzione di Moro – privata però, non pubblica, com’ebbe a rilevare lo stesso Malagodi –, le lamentele del segretario liberale un loro fondamento lo avevano. Non solo: segnalavano anche come la battaglia intrapresa dal Pli fosse per molti versi disperata. Perché era perduta già in partenza proprio sul terreno su cui Malagodi intendeva combatterla – quello ideologico. L’avvento del centro sinistra al governo si accompagnò infatti, essendone per altro in buona misura causa esso stesso, con una profonda mutazione culturale che spostò su posizioni più avanzate l’intero asse politico del paese, recuperando e rilanciando le aspirazioni radicali che erano presenti fin dagli anni della fondazione della repubblica. A questa trasformazione apparteneva anche l’operazione in virtù della quale i sostenitori della nuova formula di governo fecero della “destra economica” uno dei propri bersagli polemici principali. L’immagine positiva che del capitalismo e dell’economia di mercato aveva e cercava di accreditare Malagodi, come elementi di modernità, civiltà, benessere, avanzamento politico e sociale, era rovesciata nell’immagine negativa dei poteri forti intenti all’esclusiva difesa delle proprie posizioni di privilegio, avversi al progresso e sospettosi della democrazia. E il centro sinistra nasceva con l’obiettivo dichiarato di contrapporsi a quei poteri, realizzando in qualche misura la promessa di palingenesi sociale che era stata della stagione della lotta antifascista e che era iscritta nella carta costituzionale. Osservato in questa prospettiva il Partito liberale, schiacciato polemicamente nella posizione di mero portavoce del grande capitale, appariva non più soltanto come una forza ostile ai nuovi equilibri e quindi incompatibile con essi, ma come uno degli avversari principali contro cui e per sconfiggere i quali quegli equilibri dovevano essere raggiunti e consolidati44. Nel generale scivolamento verso sinistra così della politica italiana come della cultura che la sorreggeva, 43 Le ultime due citazioni sono tratte da Aldo Moro a Giovanni Malagodi, 10-8-1963, cit. Le citazioni precedenti provengono da dichiarazioni pubbliche di leader o organi di stampa favorevoli al centro sinistra e sono riportate in Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 22-7-1963, cit. 44 Si vedano, ad esempio, ancora le opere di Del Noce citate alla nota 27. In particolare, sul fatto che una Dc alleata al Psi avrebbe rivolto la propria polemica soprattutto contro i liberali, cfr. I cattolici e il progressismo, cit., pp. 81-2 e 220-1. Sul mutamento di cultura politica all’interno della Dc cfr. pure A. Giovagnoli, Il partito italiano: La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 96-9, nonché G. Baget Bozzo, op. cit. inoltre, il Pli correva davvero il rischio che Malagodi aveva percepito e denunciato a Moro: di trovarsi sospinto in una posizione simmetrica rispetto a quella del Pci, di opposizione non solo al governo ma all’intero sistema. Data un’interpretazione della costituzione che ne considerasse elementi irrinunciabili non soltanto l’assetto democratico liberale dei poteri ma anche i contenuti sociali, infatti, i comunisti sarebbero stati esclusi dal novero delle forze costituzionali perché incompatibili con quell’assetto, e i liberali invece perché incompatibili con quei contenuti. All’interno di questo quadro, non vi è alcun dubbio che il rifiuto opposto al Movimento sociale abbia rappresentato un ulteriore elemento di debolezza nella strategia di Malagodi. Sia ben chiaro: non intendo affatto sostenere che il segretario liberale dovesse accettare la prospettiva della “grande destra”. Da un lato, e soprattutto, accoglierla avrebbe rappresentato un momento di forte discontinuità nel suo percorso ideologico, e avrebbe portato il Pli su posizioni conservatrici e non liberali – e perciò non malagodiane. Dall’altro, in particolare dopo il 1960, avrebbe distanziato ulteriormente il partito dall’area di governo, rendendone ancora più marcato l’isolamento. Intendo però notare in primo luogo come, in termini di geografia parlamentare, l’impossibilità di ricorrere ai voti missini abbia ulteriormente ridotto le dimensioni della passerella centrista sulla quale Malagodi voleva camminare. E in secondo luogo come non opponendosi alla riattivazione politica dell’antifascismo il Pli abbia esso stesso contribuito alla propria emarginazione. La pregiudiziale antifascista infatti non poteva che riavvicinare i partiti marxisti all’area di governo, indebolendo di conseguenza la pregiudiziale anticomunista; e favoriva poi quell’interpretazione progressista e sociale della costituzione per la quale, come s’è detto, i liberali di Malagodi finivano per apparire estranei al sistema quasi quanto i neofascisti o il Pci. Opera di autoemarginazione ancora più grave, sia detto per inciso, fu quella che svolse la sinistra liberale nel momento in cui scelse di sostenere la mutazione culturale e politica in atto in quegli anni. Il linguaggio nel quale si espresse quella mutazione – incentrata com’era sul rinnovamento della società e sull’ampliamento del ruolo pubblico nell’economia – fu infatti un linguaggio socialista, non liberale. E il liberalismo, anche di sinistra, finì così per trovarsi confinato su posizioni sempre più minoritarie – come dimostra fra l’altro la scelta, maturata nel 1966, di chiudere «Il Mondo»45. I liberali avrebbero dovuto attendere la fine degli anni Settanta per recuperare un po’ di spazio culturale. Le posizioni che il Pli assunse nella lunga e cruciale crisi politica che si aprì nel febbraio del 1960 con la caduta del secondo gabinetto Segni e si chiuse nel luglio dello stesso anno con la nascita del terzo ministero Fanfani, danno testimonianza tanto della coerenza ideologica di Malagodi quanto del prezzo che per quella coerenza egli dovette pagare. Il Partito liberale respinse nettamente il governo Tambroni, sia prima sia dopo i fatti di luglio, e non soltanto perché lo considerava un “ponte” verso il centro sinistra, ma anche perché si reggeva coi voti del Msi: un partito tanto incompatibile col progetto liberale di convergenza democratica quanto lo erano Psi e Pci – come Malagodi in quei mesi ebbe a ribadire in parlamento46. Né si trattò di una scelta ininfluente. Stando all’interessante e dettagliata ricostruzione che di quelle vicende ci ha dato Baget Bozzo, infatti, all’indomani degli eventi drammatici del luglio ’60 il Pli fu per un istante «l’ago della bilancia», ed ebbe nelle proprie mani il destino del governo47. La sopravvivenza del gabinetto non sarebbe certo bastata a scongiurare l’apertura a sinistra. Avrebbe però potuto ritardarla o renderla più difficile, e in termini di cultura politica avrebbe rappresentato un segnale assai significativo. Proprio l’esigenza di svincolarsi dalla prossimità col Msi, oltre che di non sostenere un uomo di Gronchi come Tambroni, spinse tuttavia Malagodi a rifiutare il voto liberale al ministero. E, lungo la china della crisi, lo portò infine ad accettare il governo Fanfani, che era sì di solidarietà democratica, ma che lo stesso Fanfani, La Malfa e Saragat interpretavano come un ponte verso la soluzione di centro sinistra. Per «paradosso» insomma, nota Baget Bozzo, la «chiave di volta» dell’operazione che riportò Fanfani alla presidenza del consiglio fu proprio 45 Sulla crisi del pensiero liberale fra gli anni Sessanta e i Settanta si veda ad esempio N. Matteucci, Dal populismo al compromesso storico, Roma, Edizioni della Voce, 1976. Per un’interpretazione della fine de «Il Mondo» di termini di “autoerosione culturale”, per il ruolo che ebbe il rilancio dell’antifascismo in questa “autoerosione”, e più in generale per la crisi del liberalismo si veda R. Pertici, La crisi della cultura liberale in Italia nel primo ventennio repubblicano, relazione presentata al convegno I partiti politici nell’Italia repubblicana, Roma, Luiss-Guido Carli, novembre 2002, del quale sono in via di pubblicazione gli atti. Nel 1964 Augusto Del Noce scrisse che accettando l’accordo con i socialisti i cattolici affermavano «la priorità di valore del nucleo di verità contenuto nel socialismo rispetto a quello contenuto nel liberalismo», rompendo così «in maniera davvero irreversibile con le linee di don Sturzo e di De Gasperi» (I cattolici e il progressismo, cit., p. 77). 46 Discorsi pronunciati alla Camera dei deputati il 7-4 e il 12-7-1960, in G. Malagodi, Discorsi parlamentari, cit., vol. I, pp. 426-48 e 468-79. 47 G. Baget Bozzo, op. cit., p. 296. «lo sconfitto di essa, cioè Malagodi»48. Avendo a lungo reclamato un governo centrista, d’altra parte, il segretario liberale non poteva a quel punto respingerlo, soprattutto dopo che i fatti di luglio avevano riportato all’ordine del giorno il problema della difesa delle istituzioni. Eppure è in quel momento che il progetto politico e culturale di Malagodi incontra la sua disfatta definitiva. Anche al di là della questione missina49, per altro, la crisi politica del febbraio-luglio 1960 rappresentò per Malagodi un momento di suicidio politico. Fu infatti il segretario liberale ad aprirla, facendo cadere il governo di centro destra del “moderato” Antonio Segni perché riteneva che sotto la sua copertura si stesse preparando l’apertura a sinistra, per trovarsi infine costretto a sostenere il ministero centrista del “progressista” Amintore Fanfani che a quell’apertura era ben più esplicitamente propedeutico. La decisione presa nel febbraio si rivelò insomma un errore macroscopico, ed ebbero ragione i molti che criticarono con forza il Pli per aver ritirato l’appoggio al leader doroteo – non ultimi gli industriali, che il 18 giugno del 1960 in una riunione riservata contestarono a Malagodi quella scelta, e per qualche mese ridussero in misura consistente i finanziamenti al partito50. A parziale discolpa del leader liberale, bisogna sottolineare d’altra parte che quei mesi furono estremamente convulsi e complessi, che l’esito finale della crisi era tutt’altro che stabilito in partenza, e che una svolta politica profonda come quella seguita ai fatti di luglio era oltremodo difficile da prevedere. In più di un’occasione insomma la linea sostenuta dai liberali fu quasi per prevalere – per spostare il baricentro politico nazionale verso centro destra e rinviare ulteriormente l’apertura al Psi51. 48 Ivi, pp. 296-301, p. 299 per la citazione. Non per caso, nota ancora Baget Bozzo (ivi, p. 305), Malagodi dovette tollerare «da Fanfani molto di più di quello che aveva sopportato da Segni». 50 Per le critiche a Malagodi cfr. A. Ciani, op. cit. , p. 154; P. Di Loreto, op. cit. , p. 327. Sulle ragioni che indussero Malagodi a far cadere il governo si vedano G. Galli, op. cit., pp. 163-4 e G. Baget Bozzo, op. cit., p. 238 – stando al quale, per altro, Malagodi fece cadere Segni anche perché «intendeva separare radicalmente il partito liberale dalle destre: si trovava invece incluso dalla Dc in un medesimo blocco con queste e trattato allo stesso modo». Documenti sulla riunione del 18 giugno fra alcuni importanti esponenti dell’industria italiana e Malagodi in CM, b. 13, f. 11. I finanziamenti al Pli erano stati ridotti da 40 a 15 milioni mensili. Questi documenti aprono una finestra estremamente significativa sui rapporti fra Malagodi e gli industriali, ma, come ho già accennato, su questo argomento mi riservo di tornare in altra sede. 51 Si veda ancora in generale G. Baget Bozzo, op. cit., pp. 238-301. 49 La scelta di Malagodi di opporsi alla corrente, culturale prima ancora che politica, fu ideologicamente conseguente e politicamente coraggiosa. La seconda metà degli anni Sessanta e la prima dei Settanta, d’altronde, avrebbero dimostrato con chiarezza che il Partito liberale non aveva spalle sufficientemente larghe per nuotare a lungo contro il corso del fiume. Nei loro aspetti maggiormente apocalittici, innanzitutto, le previsioni di Malagodi si rivelarono erronee. L’opera concreta dei governi di centro sinistra fu com’è noto assai meno radicale di quanto non si sperasse o paventasse. E l’Italia si tenne ben lontana da qualsiasi ipotesi di distacco dal blocco occidentale – per non parlare di avvicinamento a quello sovietico. In assenza di preoccupazioni politiche concrete, i timori etici e culturali di Malagodi non erano più sufficienti a gonfiare le vele del Pli. Com’è altrettanto noto, poi, già dai primissimi anni Sessanta, e con convinzione sempre maggiore via via che il centro sinistra si consolidava, i grandi gruppi industriali privati abbandonarono la linea di dura opposizione seguita fin dall’avvio della seconda legislatura e trovarono nuovi punti di contatto coi governi e i partiti di governo – Dc in primo luogo52. Oltre che agli imprenditori, per altro, stare a lungo all’opposizione non si confaceva nemmeno agli elettori liberali di diversa estrazione sociale, i quali, da persone d’ordine e moderate, apparivano maggiormente propensi a scelte governative. L’orientamento culturale ed elettorale complessivo del paese, in terzo luogo, col passare degli anni si spostò sempre più a sinistra, e la linea di Malagodi non soltanto non riuscì a recuperare consensi ulteriori, come sperava il segretario liberale, ma divenne al contrario sempre più debole e anacronistica. In quelle condizioni politiche, anche conservare nelle tornate successive il sette per cento ottenuto alle elezioni del 1963 sarebbe equivalso in sostanza a una sconfitta. E il Pli non solo non riuscì a conservarlo, ma perse costantemente – arrivando nel 1972 al di sotto del quattro per cento. Collocandosi alla destra della Democrazia cristiana, infine, ma rifiutando al contempo qualsiasi contatto col Movimento sociale, il Pli si metteva completamente alla mercé del partito di maggioranza relativa: sarebbe potuto rientrare in gioco unicamente se e quando fossero mutati i suoi rapporti di forza interni e la sua linea politica. Nei fatti, così andò nel 1972-73, quando per una breve stagione fu riesumata la formula 52 Cfr. P. Craveri, op. cit., pp. 135-46. centrista e i liberali tornarono al governo. Era un destino quanto mai scomodo, considerata anche la natura complessa e politicamente cangiante della Dc – un destino che posizionandosi sul centro sinistra il Pli avrebbe almeno in parte evitato, potendo in quel caso aprire un dialogo “terzaforzista” con repubblicani, socialdemocratici e socialisti. Al di là dell’impatto che essa ebbe sulle fortune elettorali e politiche del Pli, quale deve essere in conclusione il giudizio storico sulla strenua opposizione che Giovanni Malagodi fece al centro sinistra, quando la si riconsideri alla luce delle vicende dell’intero primo cinquantennio repubblicano? La storiografia, come s’è detto, ne ha dato in generale una valutazione assai negativa. E qualche riga addietro ho notato come la catastrofe che il segretario liberale riteneva sarebbe conseguita all’avvento dei socialisti al governo abbia in realtà mancato di verificarsi. Ciò nonostante, è mia convinzione che una rilettura equanime della politica seguita dal Pli nei tardi anni Cinquanta e primi Sessanta debba sottolinearne la coerenza e il carattere non anacronistico né irrealistico, e soprattutto possa trovarvi delle chiavi di lettura interessanti per l’interpretazione delle vicende pubbliche italiane dei decenni successivi. Come ho già notato più di una volta, non aveva torto Malagodi quando sosteneva che il passaggio dal centrismo al centro sinistra non rappresentava soltanto un mutamento della formula di governo, ma segnava soprattutto una discontinuità culturale di rilevo. E le sue ragioni non vengono meno neanche quando si consideri il rapido e consistente ridimensionamento delle velleità riformatrici del centro sinistra. Le promesse, le speranze, l’atmosfera ideologica che accompagnarono gli eventi politici dei tardi anni Cinquanta e primi Sessanta ebbero un loro effetto indipendentemente dal fatto che si tradussero soltanto in parte in decisioni politiche effettive – come cercheremo di dimostrare fra breve, anzi, il loro effetto fu forse ancora maggiore proprio perché non si concretizzarono. Partendo da queste premesse, valutare le scelte di Giovanni Malagodi significa soprattutto imboccare l’uno o l’altro sentiero del seguente bivio: o riteniamo che la mutazione nella cultura politica di quegli anni sia stata soprattutto “nelle cose”, sia stata un effetto inevitabile della modernizzazione sociale ed economica del paese, e che alla politica non fosse in alcun modo dato di guidarla ma soltanto di adeguarsi ad essa – e allora del segretario liberale non si vedrà altro che l’eccessiva rigidità ideologica, l’incapacità di comprendere l’evoluzione del paese e di adattarvisi. Oppure crediamo che, sebbene magari soltanto in parte, la politica fosse in grado di condizionare l’evoluzione ideologica del paese – ossia di formulare una proposta esplicitamente, consapevolmente e anche orgogliosamente moderata di gestione dei processi di modernizzazione. In questo caso, Malagodi diverrà il sostenitore politicamente sconfitto d’una strategia che non era né anacronistica né a priori destinata al fallimento. Il primo sentiero del bivio l’imboccò, com’è noto, Aldo Moro. L’evidente stima reciproca alla quale erano improntati i rapporti fra il leader democristiano e il liberale dipendeva proprio dalla serietà, dalla sincera preoccupazione, si potrebbe anche dire dall’angoscia, con la quale entrambi vivevano l’evoluzione della vita pubblica nazionale. «Caro Moro», scriveva Malagodi, «io non ho mai dubitato e non dubito della sofferenza di cui tu hai parlato anche pubblicamente. Credo che neppure tu possa dubitare dell’animo mio e della mia profonda volontà di costruire una democrazia italiana più larga e più libera e più giusta»53. Diversamente da Malagodi, tuttavia, Moro era chiaramente convinto che della piena si potessero al più limitare i danni, ma che non la si potesse in alcun modo arginare. L’inserimento dei socialisti al governo, scriveva al segretario del Pli, è più importante oggi, quando si registra un preoccupante aumento del voto comunista che sarebbe ingenuo attribuire all’esistenza di una politica di centrosinistra, perché è frutto amaro dell’inquietudine e dell’impazienza di uno sviluppo economico sociale che è merito dei democratici aver promosso ma che essi non riescono pienamente a dominare. C’è un inclinare progressivo verso l’opposizione, anche se è l’opposizione comunista. C’è una crescente minaccia di collegamento tra comunisti e socialisti in ragione delle polemiche interne del mondo comunista e della distensione internazionale. Basta guardare del resto alle posizioni dei socialisti francesi che hanno pesato sui socialisti italiani. Io so che le difficoltà sono grandi. Ma non si risolve il problema non affrontandolo affatto o affrontandolo al di fuori di alcuni dati reali della situazione politica. Ecco perché lavoriamo in questa direzione, sperando che il senso di responsabilità finisca per prevalere54. Malagodi replicò seguendo le linee che abbiamo ampiamente considerato nelle pagine precedenti – ossia, imboccando senza esitazione l’altro ramo del 53 Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 7-8-1962, cit. Aldo Moro a Giovanni Malagodi, 10-8-1963, cit. 54 bivio. L’“inquietudine” e l’“impazienza” del paese dovevano esser gestite da uno stato forte, efficiente, giusto e democratico, che seguisse «una politica seriamente aderente alle necessità del Paese», non una politica in cui tali necessità finiscano coll’essere accantonate o postergate in favore di altre cose che non hanno, o sono fatte in modo da perdere, giustificazione obiettiva, anzi sono negative salvo che ai fini di trasformare l’Italia in quello che nessun democratico può volere e cioè in un paese più o meno socialista – il che, nelle circostanze storiche passate e presenti della nostra Patria vuol dire comunista. «Chi vive sperando», concludeva Malagodi, che pure ancora una volta esprimeva il proprio apprezzamento per la serietà e la buona fede di Moro, «muore disperato. Non è certo il mio augurio!»55. Ora, date le due ipotesi, a me non sembra che quella sostenuta da Malagodi possa essere considerata irrealistica. Sebbene lo scivolamento verso sinistra della cultura politica italiana fosse senz’altro in buona misura un effetto della modernizzazione del paese, e si ricollegasse per altro a una dinamica storica presente in tutto il mondo occidentale, sarebbe a mio avviso azzardato sostenere che la classe politica non potesse gestirlo diversamente da come fece. Tanto più se consideriamo quali furono gli effetti della via morotea che il paese seguì effettivamente. Aprire in quel modo al Psi, senza pretenderne la separazione netta dal Pci, significò rinunciare in via definitiva a dare alla vita pubblica una strutturazione bipolare, per quanto approssimativa, avviando una dinamica di slittamento verso sinistra dell’area di governo che implicò in misura crescente l’attenuarsi della distinzione fra maggioranza e opposizione. Con ogni probabilità, quella dinamica e quell’attenuarsi sono stati funzionali a una democrazia bloccata com’era l’Italia, mentre seguire la via centrista sostenuta da Malagodi avrebbe sottoposto il sistema politico a una tensione maggiore – come per altro i fatti del luglio 1960 dimostrano. Allo stesso tempo, però, è noto come quella dinamica e quell’attenuarsi abbiano ridotto, e non di poco, l’efficacia e l’efficienza delle istituzioni repubblicane. Questi esiti Malagodi li previde. Esagerato nei suoi timori sulle conseguenze internazionali che esso avrebbe avuto, non sbagliò però nell’affermare che col centro sinistra Moro non avrebbe affatto raggiunto l’obiettivo che dichiarava di perseguire – ossia il ridimensionamento elettorale 55 Giovanni Malagodi ad Aldo Moro, 14-8-1963, cit. e politico del Pci. Non mi paiono poi destituite di fondamento le sue perplessità su quanto l’ingresso al governo dei socialisti – come del resto poi il “compromesso storico” coi comunisti –, compiuto in quelle forme e a quelle condizioni, rappresentasse davvero un momento di allargamento e rafforzamento dell’area democratica. Scontato il suo allarmismo sull’imminente bolscevizzazione del paese, non vi è tuttavia dubbio che le notevoli divergenze fra una Democrazia cristiana sostanzialmente moderata e un Partito socialista ancora attestato su posizioni marxiste siano state fra le cause principali delle incertezze e timidezze che caratterizzarono i gabinetti di centro sinistra. Riportare nel governo la considerevole latitudine ideologica presente in parlamento e nel paese insomma, su questo Malagodi non aveva certamente torto, non significava affatto diminuirla o neutralizzarla – al contrario, significava paralizzare l’esercizio del potere nei suoi aspetti programmatici e fattivi, inducendolo a spostarsi su altri terreni. Là dove pretendere che il Psi venisse accolto nella “stanza dei bottoni” se e soltanto se si fosse trasformato in un’autentica forza socialdemocratica e distaccato completamente, a ogni livello, dal Pci significava anche proteggere la compattezza ideologica, e quindi le capacità di realizzazione, del potere esecutivo. Il segretario liberale, infine, previde pure che col centro sinistra la presa dei partiti sulle istituzioni si sarebbe ulteriormente rafforzata, e che l’estendersi della presenza dello Stato nell’economia sarebbe servita anche – se non soprattutto – ad accrescere le risorse di cui il partito di maggioranza relativa poteva disporre al fine di consolidare le proprie posizioni politiche e sociali. Tanto più che il rapporto col Psi, fallito sul terreno programmatico, non poteva essere ricucito altro che sul terreno della concreta gestione del potere. Già nel febbraio del 1959 Malagodi sottolineava così che «oggi in Italia, lo si voglia o no, creare un settore statizzato significa (non me ne vogliano i colleghi democristiani) creare un settore democristianizzato». Aggiungendo poi: «ma davvero, colleghi di sinistra, volete regalare alla democrazia cristiana degli altri strumenti di pressione politica e qualche volta, diciamolo pure, di corruzione politica? (…) Davvero si vuole creare una situazione per cui i giovani si sentano costretti a prendere la tessera della democrazia cristiana per trovare lavoro? (…) Non credo che questo giovi a nessuno e pertanto penso che convenga andare molto adagio prima di proporre la creazione nel nostro paese di nuove democristianizzazioni». Quattro anni dopo, davanti al primo governo di centro sinistra “organico”, sviluppava poi in parlamento un ragionamento esplicitamente antipartitocratico: «purtroppo, l’antipatia contro i partiti, contro la partitocrazia, anche se è male ragionata, onorevole Moro, non viene soltanto da un cosiddetto qualunquismo di destra, viene da qualcosa di più serio e di più profondo (…) Qui siamo arrivati al punto in cui tutto, fino alla virgola, è fissato prima e al di fuori del Parlamento (…) Ma, vivaddio, che ci si metta d’accordo su alcuni punti fondamentali sì, ma il Consiglio dei ministri resti Consiglio dei ministri, il Presidente resti Presidente, la Camera e il Senato restino il Parlamento, non che diventino unicamente una specie di organo di registrazione!»56. Se la sconfitta della cultura politica moderata e lo scivolamento a sinistra del paese abbiano rappresentato un fenomeno storico positivo o negativo, è valutazione che dipende troppo dalle preferenze politiche personali perché la si possa affrontare in un saggio storico. Mi sembra invece che in sede storiografica sia lecito constatare come l’avvento del centro sinistra abbia avviato in Italia un processo di divaricazione fra politica e cultura politica. Detto in maniera più esplicita: come s’è già accennato, sul versante ideologico assistiamo alla delegittimazione del moderatismo – sia pure una delegittimazione certamente graduale, mai completa e tutt’altro che incontrastata –, al rilancio delle aspirazioni di rinnovamento ch’erano state della stagione resistenziale, alla promessa d’una democrazia migliore e più compiuta, alla diffusione di un pregiudizio negativo nei confronti dell’economia privata, e positivo nei confronti di quella pubblica. Allo stesso tempo, però, sul versante della vita politica concreta è ancora il moderatismo che nella sostanza continua a prevalere: moderato è certamente il paese nella sua grande maggioranza; ultramoderata la Democrazia cristiana dei dorotei; moderati gli equilibri parlamentari e governativi. Di un moderatismo, 56 Interventi di Malagodi alla Camera dei deputati, 26-2-1959 e 16-12-1963, in G. Malagodi, Discorsi parlamentari, cit., vol. I, pp. 357-84 e 780-806, pp. 371-2 e 791-2 per le citazioni. Si vedano anche, sempre a titolo esemplificativo, l’intervento di Malagodi alla Camera dell’8-8-1969, sul II governo Rumor, e l’intervento al Senato di Edoardo Battaglia, 1-8-1964, sul II governo Moro, nel quale è denunciata la «tirannide dei partiti, anzi, dico meglio, di taluni piccoli clan che si sono impadroniti della direzione dei rispettivi partiti» (NO al secondo governo Moro. Discorsi liberali al Senato 30 luglio-1 agosto 1964, Partito liberale italiano, 1964, pp. 89-90). Cfr. infine A. Jannazzo, op. cit., pp. 223-6, che riporta anche parte della prima citazione qui riprodotta. tuttavia, che osa sempre meno pronunciare il proprio nome o difendersi apertamente, e si maschera invece dietro parole d’ordine progressiste57. Questa divaricazione fra politica e cultura politica non giova né all’una né all’altra né al paese. Non giova alla politica, che si trova indebolita nelle sue radici ideologiche e nella sua legittimità. Non giova alla cultura politica, frustrata e quindi permanentemente tentata dalle accelerazioni radicali o anche rivoluzionarie – basti pensare a quanto le speranze suscitate e non realizzate dal centro sinistra hanno pesato sulla genesi della contestazione studentesca. Non giova al paese, schizofrenicamente scisso fra la promessa del rinnovamento sociale e la realtà d’una gestione quotidiana anche troppo cauta e pragmatica. È tenendo presenti queste considerazioni che diviene difficile liquidare troppo in fretta il percorso politico alternativo immaginato da Giovanni Malagodi. 57 Per molti versi la chiave di questo rapporto fra politica e cultura politica dev’essere cercata dentro la Democrazia cristiana. Sulle mutazioni culturali interne alla Dc fra gli anni Cinquanta e i Sessanta si vedano ancora A. Del Noce, I cattolici e il progressismo, cit.; G. Baget Bozzo, op. cit. 3. Il Pli da Malagodi a Zanone Col trascorrere degli anni, come s’è detto, la posizione d’isolamento e di opposizione nella quale il Pli si era collocato cominciò a diventare sempre più scomoda. Per la verità, il partito tentò in qualche occasione di ammorbidire la polemica contro il centro sinistra e di rientrare timidamente in gioco, ma senza ottenere grandi risultati58. E i voti, anche a questo si è già accennato, diminuirono anno dopo anno. L’unico momento di inversione della tendenza si verificò alla tornata amministrativa del novembre 1972: presentatosi dopo un intervallo di dieci anni come partito di governo il Pli non per caso riuscì a recuperare suffragi, salendo dal 3,8 al 4,3%. L’anno successivo, tornato all’opposizione, ridiscese tuttavia di un significativo 1,2%59. Ma non fu soltanto sul terreno elettorale che il distacco fra il liberalismo di Malagodi e il baricentro politico e culturale del paese si venne facendo sempre più visibile. Lo si cominciò a percepire chiaramente anche all’interno del partito, e in particolare nella Gioventù liberale e fra gli studenti universitari dell’Associazione dei goliardi indipendenti – un organismo formalmente autonomo dal Pli, ma che nei fatti era molto legato ad esso e ne era finanziato60. Il lavoro di riorganizzazione del partito che Malagodi aveva intrapreso fin dalla sua ascesa alla segreteria, nel 1954, ne aveva ridotto in misura assai considerevole la dialettica politica interna. Come s’è visto all’inizio di questo scritto, all’indomani della caduta del fascismo il Pli s’era ripresentato sulla scena segmentato in correnti – correnti, per altro, spesso politicamente assai divaricate. Giovanni Malagodi lavorò da subito al consolidamento della propria maggioranza, e rispetto ai suoi predecessori si dimostrò molto meno 58 Malagodi, ad esempio, provò ad aprire cautamente al centro sinistra nel Consiglio nazionale del febbraio 1965, ma il partito non reagì bene. Prudente attenzione nei confronti del nuovo Partito socialista unificato manifestò anche in occasione del X Congresso, svoltosi l’anno successivo. La partecipazione alla battaglia per il divorzio, della quale si dirà diffusamente fra breve, e l’opera di revisione ideologica del liberalismo culminata nel corso di preparazione organizzato dalla Gli a Sarnano nel settembre del 1968 possono anche essere considerati tentativi di riavvicinarsi all’area di governo. Si vedano su questi temi A. Ciani, op. cit., pp. 221 ss.; P. Baldesi, op. cit., pp. 127-31; S. Colarizi, Storia dei partiti, cit., pp. 404-6. Su Sarnano cfr. G. Malagodi, Libertà Nuova, Bologna, 1968; Sarnano ’68, 3 voll., Bologna, 1968. 59 Storia Pli, cit., pp. 269-70. 60 Per l’Agi mi permetto di rimandare al mio Studenti e politica in Italia (1943-1968) , in G. Quagliariello (a cura di), La formazione della classe politica nell’Italia repubblicana, Luiss Edizioni, Roma, in via di pubblicazione. tollerante del frazionismo. Non per caso la scissione della sinistra avvenuta nel 1955 ebbe origine da una circolare della segreteria che, ai sensi dell’articolo 30 dello statuto, rammentava il divieto di ogni pubblica manifestazione di corrente61. Cogli anni la presa del nuovo segretario sul partito si fece sempre più robusta, e alle opposizioni interne rimase sempre meno spazio. Nella stagione della resistenza al centro sinistra, ossia nel primo lustro degli anni Sessanta, il Pli seguì quasi unanime la linea segnata da Malagodi. Via via che quella linea però s’indeboliva in termini sia elettorali sia politici, montavano nel partito le voci critiche. Tanto più che il moto di contestazione del 1968 e la lunga onda politica e culturale che esso generò – soprattutto nei loro elementi libertari, ma a quanto sembra pure nelle loro aspirazioni a una qualche forma di profonda trasformazione sociale – cominciarono a pesare anche nel Pli, e in particolare fra i giovani liberali. «La minoranza PLI e GLI», scriveva ad esempio a Malagodi, nell’aprile del 1969, Paolo Battistuzzi, allora segretario della Gli e vicesegretario del partito, «aveva negli anni dal ’66 al ’68 svolto una polemica che era molto vicina alle posizioni repubblicane (…) Ora, Le ripeto, l’unico spazio politico che rimane aperto alla minoranza, dovendo necessariamente essere uno di sinistra, è quello lombardiano»62. Malagodi non fu avverso al desiderio di modernizzazione e secolarizzazione che l’Italia cominciò a manifestare visibilmente verso la fine degli anni Sessanta. Di certo, però, non apprezzò affatto né le forme ideologicamente radicali con le quali questo desiderio fu espresso, né il movimentismo al quale si accompagnò. Per due ragioni: in linea generale perché erano fenomeni politici a lui profondamente alieni; più concretamente, perché temeva finissero per rafforzare il Partito comunista. La maniera nella quale il Partito liberale gestì la delicatissima questione del divorzio dà piena dimostrazione di come Malagodi abbia accettato di assecondare il moto di laicizzazione, e cercato però di limitarlo nelle sue conseguenze politiche. Al consiglio nazionale del giugno 1967 il Pli si pronunciò a larghissima maggioranza – 132 voti contro 28 e 12 astenuti – contro l’indissolubilità del 61 A. Ciani, op. cit., p. 106. Paolo Battistuzzi a Giovanni Malagodi, 23-4-1969, in CM, b. 419, f. 4. Sul rafforzarsi dell’opposizione interna a Malagodi cfr. P. Baldesi, op. cit., pp. 153 ss. 62 matrimonio63. Per la verità, il segretario in principio non è che si fosse dimostrato particolarmente propenso a sostenere la riforma. Quando, nel novembre del 1966, il deputato liberale Antonio Baslini aveva deciso di partecipare alla prima manifestazione in favore del divorzio, Malagodi lo aveva criticato severamente64. Una volta avviato il treno divorzista, ad ogni modo, i liberali contribuirono senz’altro a spingerlo – e questo in fondo rappresenta il dato politicamente rilevante. Nel momento in cui la legge Fortuna-Baslini arrivò al voto in Senato, nell’ottobre del 1970, Giovanni Malagodi si sbilanciò anzi notevolmente, sollecitando i senatori liberali, ai quali il partito aveva lasciato libertà di decidere secondo coscienza, a votare senz’altro in favore. L’approvazione del divorzio si era ormai trasformata a suo avviso in una battaglia di principio contro l’intromissione delle gerarchie ecclesiastiche nei processi decisionali dello stato italiano – una battaglia che il Pli, «la prima e la più limpida e ferma» delle «forze democratiche laiche», non poteva rinunciare a combattere. Ed era poi indispensabile ad evitare che andasse in porto un’ipotesi di convergenza fra cattolici e comunisti dalla quale i primi avrebbero ricavato la bocciatura della legge, i secondi la possibilità di accrescere notevolmente la propria influenza politica65. In quegli stessi mesi, ad ogni modo, Malagodi prima ammoniva amichevolmente, poi criticava duramente e in via ufficiale i deputati Baslini ed Ennio Bonea per il loro eccessivo attivismo anticlericale. Al di là dell’ovvia antipatia che un moderato come il segretario del Pli provava per quelle che giudicava «vere e proprie escandescenze da “Asino” di Podrecca», il problema era con ogni evidenza soprattutto politico: scavare un fossato troppo largo fra laici e socialisti da un lato, democristiani dall’altro significava fare il gioco del Pci. Quelli che sono e che vogliamo che diventino nostri elettori – scriveva Malagodi in termini fin troppo chiari – non apprezzerebbero un urto frontale con la DC, che non essendo più basato su un tema preciso e valido, ma su un rigurgito di ostilità viscerale, assumerebbe il carattere di una rottura di fondo, quando la libertà in Italia corre altri e più gravi pericoli. Ai quali non si può porre rimedio, anche influendo e premendo contro i residui clericali della DC, se i partiti democratici 63 Storia Pli, cit., pp. 218. Antonio Baslini a Giovanni Malagodi, 23-12-1970, in CM, b. 419, f. 4. 65 Il Segretario Generale del Pli a tutti i Senatori Liberali, 5-10-1970, in CM, b. 419, f. 4. Cfr. anche Giovanni Malagodi a Felice Battaglia, 19-11-1970, ivi. 64 laici non mantengono con essa una possibilità di sincera collaborazione dialettica, come PRI e PSI e PSU sembrano aver compreso. Baslini replicava sottolineando come quelle iniziative «improntate a rozzo ed anacronistico anticlericalismo» potessero servire a scongiurare «in concreto l’intesa clerico-marxista». Ma soprattutto contestava l’omogeneità e la compattezza che Malagodi pretendeva d’imporre al partito, in termini quanto mai indicativi dell’atmosfera dell’epoca e di come essa fosse penetrata pure ben dentro i ranghi liberali: Non posso pertanto concordare sul fatto che, nel 1970, in piena rivoluzione “partecipazionistica” mondiale, nell’intolleranza sempre più dilagante per ogni disciplina che non sia quella che ciascuno sente di potersi imporre, si debba, proprio in un partito liberale, chiedere “autorizzazioni” per assumere una iniziativa inquadrabile secondo me nell’azione di un partito schierato in difesa dell’autonomia dello Stato66. Via via che ci si addentrava negli anni Settanta, il Pli si ritrovava sempre più profondamente diviso in correnti sempre più aspramente contrapposte. L’archivio personale di Giovanni Malagodi è ricco, per quegli anni, di fascicoli dedicati alle dimissioni di questo o quell’esponente, alle crisi interne al partito o alla Gioventù liberale, ai frequenti richiami rivolti ai troppo indisciplinati. E i riferimenti alle fratture fra le correnti compaiono anche di frequente nei discorsi pubblici pronunciati in quest’epoca dai leader del partito. Con ogni probabilità pesava su questa situazione anche il passaggio della segreteria del partito da Malagodi al malagodiano Agostino Bignardi, avvenuto nell’estate del 1972 quando il leader liberale era divenuto Ministro del Tesoro nel secondo gabinetto Andreotti. In linea di massima, tuttavia, le difficoltà erano nelle cose: nelle complesse circostanze politiche che l’Italia stava attraversando, nell’irrequietezza delle ali estreme del partito. “Ali”, al plurale, perché, sebbene la sfida di maggiore rilievo provenisse da sinistra, in alcuni settori del Pli si rafforzava anche la tentazione di spostarsi ulteriormente a destra ed entrare in competizione elettorale col Movimento sociale67. 66 Giovanni Malagodi ad Antonio Baslini, 21-9-1970 e Giovanni Malagodi ad Antonio Baslini ed Ennio Bonea, 9-12-1970, in CM, b. 419, f. 4. Antonio Baslini a Giovanni Malagodi, 23-12-1970, cit. L’iniziativa in questione era la denuncia penale rivolta ai vescovi italiani per la posizione assunta dalla Cei sul divorzio. 67 Cfr. V. Zanone, Appunti sul PLI , «Biblioteca della Libertà», sett.-dic. 1974, pp. 125-30, p. 128. Sulla frammentazione interna al Pli negli anni Settanta cfr. anche S. Colarizi, Storia dei partiti, cit., pp. 436-7. Non per caso, dunque, nel 1974-75 la maggioranza del partito si trovò a dover affrontare le non lievi difficoltà poste dall’iscritto, e membro sia del consiglio nazionale sia della direzione centrale, Edgardo Sogno. Il quale, com’è noto, riteneva giunta l’ora dello scontro finale e mortale fra il comunismo e la democrazia, ed era perciò convinto che, data la posta in gioco, non si dovesse andare troppo per il sottile nella politica delle alleanze – aprendo anche al Msi – né ritenersi eccessivamente limitati dal quadro costituzionale e legale. Alle dichiarazioni di Sogno, pronunciate in pubblico o in consiglio nazionale, gli esponenti delle minoranze di sinistra risposero con un aut aut: o era espulso lui, o si sarebbero dimessi loro. Bignardi e Malagodi stigmatizzarono con forza le «decisioni minatorie e i toni ultimativi» utilizzati dalla sinistra68, ma furono altrettanto duri con Sogno, al quale scrissero che «la tesi politica rivoluzionaria da te denunciata è in contraddizione con gli ideali democratici che sostanziano lo Statuto del P.L.I.», e dal quale presero poi pubblicamente e ripetutamente le distanze. La Direzione centrale del partito ribadì, alla fine di luglio del 1974, che «ogni suggestione di ricorso alla violenza o di passaggio a governi autoritari, o comunque costruiti contro le norme costituzionali, esula dai principi liberali»; e Sogno, poiché rispose che non essendo quella una «crisi ordinaria» non poteva «sanarsi con mezzi ordinari», si guadagnò infine sei mesi di sospensione da ogni attività di partito, a decorrere dall’inizio di dicembre del 197469. Malagodi confermò anche in questa occasione di voler conservare il Pli saldo su una posizione centrista, chiusa ai marxisti così come ai missini. Al di là dell’opzione ideologica, ad ogni modo, i voti della corrente di destra cui Sogno apparteneva servirono in più di un’occasione a puntellare nelle assemblee del partito una maggioranza che si andava facendo sempre più incerta70. 68 Si vedano: l’ordine del giorno approvato dai liberali del gruppo di Rinnovamento e Presenza Liberale, 12-10-1974, e Giovanni Malagodi e Agostino Bignardi a Raffaello Morelli e Valerio Zanone, 18-10-1974, in CM, b. 420, f. 7. 69 Si veda un appunto sul caso Sogno conservato in CM, b. 427, f. 18. Si vedano inoltre la circolare di Edgardo Sogno ai Consiglieri Nazionali del Pli, s.d. (ma immediatamente successiva al 15 giugno 1975), in CM, b. 420, f. 9; l’opuscolo G. Malagodi, A. Bignardi, Riscossa democratica e collegamento laico. Discorsi pronunciati al Consiglio nazionale del 14/16-2-1975, pp. 27, 33, 49 ss. 70 Sulla disgregazione della corrente malagodiana “Libertà Nuova” al XIV Congresso del partito svoltosi nell’aprile del 1974, e sul peso che all’interno del partito acquistò la destra, cfr. Documento approvato al Convegno di Firenze il 9 giugno 1974, in CM, b. 421, f. 10. Sul sostegno che “Libertà Nuova”, contro la volontà di Malagodi, ebbe dalla destra al Consiglio nazionale del 12-10-1975 si veda Un partito sceglie il suicidio, intervista di Alberto Papuzzi a Valerio Zanone, «Gazzetta del Popolo», 14-10-1975. A metà degli anni Settanta la situazione interna al Pli – fra indebolimento della maggioranza e asprezza crescente dello scontro fra correnti – appariva ormai ingestibile. La tornata elettorale amministrativa del 15 giugno 1975 evidenziò non soltanto, com’è ben noto, il netto spostamento dell’elettorato verso sinistra, ma anche un ulteriore grave calo dei liberali, che alle regionali scesero al 2,5%. Date le circostanze, nell’estate di quell’anno Malagodi, allora presidente del Pli, avviò i contatti per una “tregua di Dio” all’interno del partito, scegliendosi come interlocutore privilegiato Valerio Zanone, leader della corrente minoritaria di “Rinnovamento”. Nell’analisi politica, la lettera che alla fine di agosto Malagodi inviò a tutti quanti avessero posizioni di responsabilità nel Pli aveva toni quanto mai “malagodiani”. Il centro delle sue preoccupazioni rimaneva come sempre il Partito comunista, che era a suo avviso rimasto immutato nel suo «“quadro di riferimento” eticopolitico», così come, malgrado la distensione, non era affatto venuta meno a livello internazionale la minaccia sovietica. Il leader liberale concedeva pure che in alcune posizioni del Pci si potesse intravedere «non un puro tatticismo, ma il sintomo che qualche cosa di nuovo germina[va] in alcuni spiriti»; riteneva tuttavia «un errore fatale», «la ripetizione terribilmente aggravata dell’errore di fondo del centro-sinistra, lo scambiare con risultati già acquisiti o prossimi quelli che sono, nella migliore ipotesi, sintomi incerti, sviluppi forse possibili in avvenire ma lentissimi a penetrare nello spirito di un elettorato condizionato da quasi cent’anni di indottrinamento classista e massimalista, pesantemente condizionati in senso negativo dalla situazione internazionale». Scongiurare l’avvento dei comunisti al potere, e salvare così «quello che esiste[va] ancora di libertà» in Italia, non era operazione possibile senza «un Partito Liberale, magari piccolo, ma compatto nella coscienza della sua funzione e deciso a fare fronte a compiti che la realtà gli impone». Su queste premesse Malagodi innestava una dettagliata proposta di pacificazione interna che prevedeva la stesura di un documento comune, la ristrutturazione dei vertici del partito, la revisione dello statuto, la convocazione a breve di un convegno ideologico, il rilancio immediato dell’attività dei liberali. Disegnava inoltre le linee essenziali del documento politico, seguendo il binario a lui consueto di un «liberalismo aperto, sicuramente democratico, né conservatore né radicale», riformatore, pluralista e individualista; disponibile alla «collaborazione dialettica» con le altre forze democratiche, ivi incluso il Psi purché si distaccasse dai comunisti; deciso a una «rigorosa contrapposizione ideale e politica al comunismo e a qualsiasi governo, giunta o maggioranza che siano aperti, direttamente o indirettamente, al PCI», e simmetricamente ostile «al neo-fascismo e quindi al MSI o a sue mimetizzazioni»71. La lettera di Malagodi fu seguita da intense trattative fra le correnti e da un’ulteriore missiva, datata 5 ottobre 197572, con la quale il leader liberale annunciava che vi era la concreta possibilità di arrivare a formulare un documento politico comune. Proponeva poi che gli organi direttivi fossero ristrutturati a partire dalla constatazione che “Libertà Nuova” rimaneva comunque la corrente di maggioranza, e che era però chiamata, nel nome di una gestione concordata, «a rinunciare ad alcune importanti posizioni a favore di altri amici». La mediazione proseguì nei giorni successivi, soprattutto fra Malagodi e Zanone. Rispetto all’organigramma ipotizzato nella lettera del 5 ottobre, stando al quale “Libertà Nuova” avrebbe avuto sia il presidente sia il segretario del Pli, Zanone chiedeva che una almeno delle due cariche fosse attribuita alle minoranze. Malagodi si mostrò disponibile a discuterne, ma non nascose al suo interlocutore le difficoltà che su questa linea avrebbe potuto incontrare all’interno della sua stessa corrente73. E fu buon profeta: nel consiglio nazionale immediatamente successivo, svoltosi fra il 10 e il 12 ottobre, la maggioranza smentì il suo leader, accettando di elevarlo alla presidenza d’onore, com’era stabilito, ma alleandosi con la destra per riconfermare Agostino Bignardi segretario, e a cose fatte offrendo a Zanone una semplice vicesegreteria – che fu rifiutata74. Malgrado la battuta d’arresto Malagodi volle tuttavia insistere, e già il giorno successivo alla conclusione del consiglio nazionale, anche a nome di Bignardi, invitò Zanone a «riprendere quel dialogo confidenziale, da uomo a uomo, che abbiamo iniziato sotto gli alberi dell’Ajola», così da scongiurare il grave pericolo che «da una polarizzazione numerica» interna al partito uscisse «una polarizzazione psicologico-politica dirompente»75. Il tentativo non ebbe però 71 Giovanni Malagodi a tutti dirigenti del Pli, fine agosto 1975, in CM, b. 14, f. 17. Ivi. 73 Appunti manoscritti di Giovanni Malagodi su una conversazione con Valerio Zanone, 7-101975, in CM, b. 73, f. 6. 74 Un partito sceglie il suicidio, cit. 75 Giovanni Malagodi a Valerio Zanone, 13-10-1975, in CM, b. 421, f. 10. Il riferimento al fatto che il «dialogo confidenziale» fosse cominciato «sotto gli alberi dell’Ajola», ossia durante l’estate, 72 successo, e le trattative ripresero soltanto con l’invio di una terza lettera di Malagodi a tutti i dirigenti del Pli, in data 20 novembre76. I temi erano ormai consueti: in una situazione storica come quella che stava attraversando, il partito non poteva permettersi di perdere tempo ed energie nei conflitti intestini; ed era quindi indispensabile che si tentasse almeno di verificare se le diverse linee politiche presenti nel Pli potessero essere amalgamate «nella sostanza, non solo a parole». Si tratta, perciò, passando al concreto, di sapere se rifiutiamo insieme, oppure no, il concetto che il PLI sia necessariamente obbligato, senza altra alternativa, a scegliere tra una sinistra a fondo radicale e una destra a fondo ultra-conservatore; fra vie che sboccano – lo si voglia o no – l’una su un terreno dove diventa impossibile distinguersi concretamente dalle posizioni autoritarie o neo-fasciste; l’altra nell’arrendevolezza più o meno grande verso gli equivoci del PSI, e anche di alcuni nelle forze intermedie, e quindi verso le manovre del PCI. Se rifiutiamo o no quella variante di tale seconda via che consiste nel fiancheggiamento più o meno “critico” di una specie di neo-centro-sinistra che sotto l’ombrello sdrucito dell’“arco costituzionale” coinvolga anche il PCI in “maggioranze di programma”. I leader della minoranza risposero positivamente77, e il dibattito interno al Pli poté così riprendere. Per l’Epifania del 1976 Malagodi riassunse la lunga trattativa in un documento politico e in un pacchetto di proposte concrete per la gestione dell’accordo – proposte relative soprattutto al nuovo organigramma del partito e alle procedure che avrebbero regolato i successivi consiglio e congresso nazionali. Il documento fu poi rimaneggiato e ricorretto innumerevoli volte, diventando fra l’altro oggetto di un’interminabile discussione fra Malagodi e Zanone durata un giorno e una notte e svoltasi con ogni probabilità fra domenica 11 e lunedì 12 gennaio 1976. Il 23 gennaio si giunse infine alla stesura definitiva, da portare al consiglio nazionale che si sarebbe aperto il 30 gennaio. Il testo è piuttosto lungo e articolato, e non può certo essere riassunto in questa sede78. I termini politici essenziali, ad ogni modo, erano i seguenti: intenzione di promuovere un accordo fra i partiti laici non marxisti; desiderio che le forze alleate alla Dc arrivassero a stabilire con essa un «rapporto qualitativamente paritario»; constatazione dei limiti indica con chiarezza come la lettera di fine agosto inviata da Malagodi al partito fosse stata ampiamente preceduta da contatti e trattative. 76 In CM, b. 14, f. 17. 77 Vedi Giovanni Malagodi ad Aldo Bozzi ed altri, 4-12-1975, in CM, b. 73, f. 6. 78 Lo si veda in CM, b. 14, f. 17. dell’azione del Psi negli anni del centro sinistra, ma anche riconoscimento «della funzione che il socialismo può svolgere nell’ordinamento democratico nel quadro di una società e di uno stato libero», e auspicio che il partito evolvesse «al di fuori di ogni tatticismo e delle attuali contraddizioni, verso la completa autonomia quale esponente democratico della sinistra italiana»; chiusura assoluta verso il Pci e il Msi. Rispetto a quanto prevedeva la lettera circolare diffusa da Malagodi il 5 ottobre, poi, nel nuovo organigramma le sinistre avrebbero avuto un peso assai maggiore, collocandosi in una posizione paritaria se non addirittura lievemente sovraordinata rispetto a “Libertà Nuova”: Malagodi sarebbe stato confermato presidente d’onore con poteri accresciuti, e Bignardi sarebbe diventato presidente, anch’egli con facoltà non meramente formali; ma alla sinistra di “Democrazia liberale” sarebbe toccata la segreteria, mentre le due correnti sarebbero state rappresentate alla pari nella Direzione centrale e avrebbero avuto un vicepresidente ciascuna79. Il consiglio nazionale che si svolse fra il 30 gennaio e il primo febbraio del 1976 ratificò infine l’accordo, eleggendo Valerio Zanone nuovo segretario del partito. Malagodi e i malagodiani s’erano conservati un ruolo politico sostanziale nel nuovo assetto degli organi direttivi liberali. Le lettere che Bignardi, Zanone e Malagodi si scambiarono fra la fine del 1977 e l’inizio del 1978, in mesi cruciali per l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, dimostrano come nell’inverno del 1976 il Pli si fosse effettivamente dotato di una leadership collegiale. Non vi è dubbio, d’altra parte, che l’avvento di Zanone alla segreteria abbia rappresentato per i liberali un significativo mutamento di linea: dopo più di vent’anni, la sinistra tornava alla guida del partito – e, come vedremo meglio fra breve, era sinistra sia nel suo impianto culturale generale, sia nella ferma convinzione che fosse indispensabile aprire col Psi un nuovo dialogo politico. Non aveva insomma torto Manlio Brosio, oppositore accanito dell’accordo fra Malagodi e Zanone, quando affermava che esso «costituisce in se stesso, di fronte alla stampa ed alla pubblica opinione un successo della corrente di Valerio Zanone, Democrazia Liberale ex Rinnovamento, e della sinistra del partito; ad essa va la segreteria del 79 Pacchetto di proposte per un accordo fra LN e DL, 6-1-1976, ivi. Partito e quindi la sua effettiva gestione politica»80. Partendo da queste premesse, non è a mio avviso inopportuno chiedersi per quale motivo Malagodi abbia non soltanto deciso di cercare l’accordo con le opposizioni, ma accettato anche di lasciare loro la segreteria – sia pure una segreteria limitata dalla presenza di un presidente e un presidente d’onore rafforzati nei loro poteri. Fu Malagodi stesso, innanzitutto, a spiegare le proprie ragioni nelle tre lettere indirizzate al partito che abbiamo sopra citato, oltre che in alcune altre dichiarazioni pubbliche. Pesava senz’altro sul leader liberale il timore che lo scivolamento a sinistra dell’elettorato italiano e l’apertura al partito comunista mettessero in serio pericolo la democrazia italiana, e la convinzione che non solo i liberali ma tutti i democratici si sarebbero perciò dovuti ricompattare. In secondo luogo, il partito era in profonda crisi di consensi e così diviso al suo interno da correre il rischio quanto mai concreto di una scissione – che in quelle condizioni avrebbe ovviamente avuto effetti devastanti. Infine, era da tempo ormai che si discuteva dell’opportunità di un ricambio generazionale ai vertici del Pli: della necessità «di mettere alla prova, in posizioni di responsabilità diretta, uomini della terza generazione liberale – gli uomini di 40-50 anni, assieme a quelli di 50-60, di 60-70 ed ahimè oltre»81. Oltre a questi motivi, che il presidente del Pli citava esplicitamente, l’iniziativa di Malagodi si poggiava poi con ogni probabilità su alcune considerazioni ulteriori, taciute o solo appena accennate in pubblico. La sinistra del partito confidava di poter vincere il congresso del partito programmato per il febbraio del 1976, e riteneva di poter essere fermata soltanto da un ulteriore scivolamento del Pli verso destra82. È possibile che Malagodi condividesse questa convinzione – certo non destituita di fondamento, alla luce anche dei risultati del consiglio nazionale del 10/12 ottobre 1975 –, e preferisse l’accordo con l’opposizione al pericolo non impensabile che il partito si spostasse troppo a destra o troppo a sinistra. Benché sia nelle sue lettere al partito, sia nel documento su cui si 80 Intervento di Manlio Brosio alla riunione dei parlamentari e consiglieri nazionali di Libertà Nuova tenutasi al Partito liberale in Roma, 24-1-1976, in CM, b. 419, f. 4. 81 Malagodi spiega il senso della svolta del partito liberale , lettera di Giovanni Malagodi a «Il Tempo», 9-2-1976. Si vedano poi le tre lettere inviate al partito, fine agosto, 5-10, 20-11-1975, cit. Cfr. inoltre, per le motivazioni che spinsero Malagodi all’accordo, l’intervento di Manlio Brosio alla riunione dei parlamentari e consiglieri nazionali di Libertà Nuova tenutasi al Partito liberale in Roma, 24-1-1976, cit., pp. 5-6. 82 Gianluigi Degli Esposti, Vogliono il Pli “progressista”. Intervista con Valerio Zanone, leader di “democrazia liberale”, «Resto del Carlino», 17-12-1975. fondò l’accordo il presidente del Pli non concedesse quasi nulla ai socialisti, è ben evidente poi che la prospettiva del compromesso storico non poteva fare a meno di modificare a sinistra la frontiera della resistenza liberale. Il punto sul quale Malagodi mostrò di non essere davvero disposto a transigere, non a caso, fu quello dell’apertura al Pci83; e su questo egli trovò d’accordo anche la sinistra del partito. Non è poi improbabile che il costante declino elettorale dei liberali e il quindicennio trascorso all’opposizione e nell’isolamento politico, con l’unica non felice interruzione del secondo ministero Andreotti, avessero convinto Malagodi dell’opportunità di riportare il Pli nell’area di governo – anche per evitare di passare alla storia come il seppellitore del partito. Un’operazione, quella del riavvicinamento dei liberali alla maggioranza, che il presidente del Pli non avrebbe potuto ovviamente condurre in prima persona. Infine, al di là dei dissensi politici, Malagodi aveva con Zanone un buon rapporto personale, fatto di stima e fiducia reciproca. Nei due anni successivi il Pli, nel quale pure le fratture interne erano state tutt’altro che cancellate, si tenne sostanzialmente fedele alla linea del rifiuto «motivato e rigoroso a compromessi di governo e a formule di maggioranza, centrali o locali, che [implicassero] la diretta o indiretta partecipazione del PCI»84 – linea riconfermata appieno, del resto, nel primo congresso svoltosi dopo la conclusione dell’accordo fra le correnti, a Napoli nell’aprile 1976. Allo stesso tempo, tuttavia, il partito cercò anche di evitare di ritrovarsi su una posizione di eccessivo isolamento politico. Un’esigenza tanto più pressante poiché, fra le prolungate polemiche intestine, il mutamento di strategia politica, il processo allora in atto di concentrazione dei voti su Dc e Pci, i liberali subirono alle politiche del giugno 1976 la più drammatica delle loro sconfitte elettorali, scendendo all’1,3% e raccogliendo appena cinque deputati e due senatori. I discorsi che il nuovo segretario Zanone tenne sia nelle assemblee del partito sia alla Camera dei deputati, dunque, ribadivano le forti perplessità sull’effettiva trasformazione del Pci, e in particolare sull’eurocomunismo; respingevano perché portatrice di un’idea ambigua 83 Si veda su questo anche la lettera di Agostino Bignardi, allora ancora segretario del partito, ai Consiglieri Nazionali di “Libertà Nuova”, 24-1-1976, in CM, b. 419, f. 4. 84 Citato dal testo del documento politico su cui si fondò l’accordo del gennaio 1976, cit. Sulla situazione interna al Pli si veda ora l’intervista di Antonio Carioti a Valerio Zanone, Zanone: Craxi e Berlinguer, divisi da un abisso, in «XXI Secolo», a. I, n. 1, marzo 2002, pp. 221-228. A p. 223 Zanone ricorda come la sua «conduzione del partito» fosse «accettata con riserva da Malagodi e subita controvoglia dai suoi residui sostenitori». d’unanimismo la formula dell’arco costituzionale; sottolineavano la distanza fra la concezione organica che della democrazia avevano i comunisti, e l’interpretazione che di essa davano invece i liberali. E affermavano però sempre che il Pli era un partito progressista, e che l’opposizione al compromesso storico doveva essere fatta nel nome non della conservazione o, a maggior ragione, di un accordo a destra, ma d’una diversa solidarietà democratica, compatibile con l’idea liberale di una lotta politica aperta e pluralista, e soprattutto estesa anche al partito socialista85. In concreto, realizzare la doppia operazione di opporsi alla solidarietà nazionale senza isolarsi eccessivamente fu per il Pli tutt’altro che agevole. Quando nel luglio del 1976 nacque il terzo governo Andreotti, cosiddetto della “non sfiducia”, i liberali scelsero anch’essi l’astensione – come risposta all’emergenza, però, non come accettazione di un’alleanza politica che comprendesse anche il Pci. Questa linea – un’astensione “politicamente non convergente” – fu sostanzialmente mantenuta per tutta la durata del gabinetto, ma non senza qualche contrasto all’interno del partito. Da un lato, infatti, c’era fra i liberali chi sosteneva che stare fuori dal compromesso storico significasse isolarsi di nuovo, e che bisognasse quindi partecipare appieno alla vicenda politica in atto86. Dall’altro si riteneva invece, in particolare, com’è ovvio, da Malagodi, che la posizione anticomunista assunta con gli accordi del gennaio 1976 e confermata dal congresso dell’aprile di quell’anno non potesse in alcun modo essere smentita. Quando nel luglio del 1977 il Partito liberale, pur dopo avere limitato la propria adesione ad alcuni punti soltanto del programma di governo, accettò di firmare la mozione Piccoli che sanciva l’accordo “sulle cose” fra la Democrazia cristiana e i cinque partiti dell’astensione – liberali, repubblicani, socialisti, socialdemocratici e comunisti –, Malagodi e Bignardi decisero di dimettersi dalle rispettive cariche, ritenendo che con quell’atto fosse stata superata la linea sottile che separava l’astensione dal sostegno al ministero87. E fu soltanto al consiglio nazionale svoltosi nel successivo mese di ottobre che la frattura poté essere ricomposta, con un ordine del giorno che riconfermava ancora una volta la 85 Si vedano i discorsi raccolti in Valerio Zanone, Diario liberale, 1976-1979 , Roma, edizioni L’Opinione, 1979. 86 Storia Pli, cit., p. 296. Valerio Zanone a Rosario Rusciano, 27-5-1977, in CM, b. 421, f. 10. 87 Storia Pli, cit., p. 299. decisione di «contrastare la presunta ineluttabilità del compromesso storico fra DC e PCI e la caduta a piccoli passi in un regime di grande coalizione»88. Fra la fine del 1977 e l’inizio del 1978, nei mesi cruciali in cui si tiravano le fila del compromesso storico, Bignardi, Malagodi e Zanone si scrissero di frequente, interrogandosi su quale fosse la strategia migliore da seguire in quelle circostanze. In queste lettere la fedeltà alla linea di opposizione all’ingresso del Pci nella maggioranza di governo fissata nel 1976 dal congresso di Napoli non fu mai davvero messa in discussione. È però evidente che Zanone era più degli altri preoccupato per la mancanza di sbocchi concreti di quella strategia e per l’isolamento del partito, là dove Malagodi insisteva con forza non solo perché la posizione fosse mantenuta, ma perché fosse comunicata con convinzione anche all’esterno89. Malgrado qualche resistenza interna al partito, espressa in particolare da Aldo Bozzi, convinto che «per combattere il comunismo [bisognasse] “star dentro”», i liberali si schierarono infine all’opposizione contro il IV gabinetto Andreotti90. Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non mutarono insomma il convincimento che, garantita senz’altro la solidarietà democratica, il Pli potesse servire l’Italia meglio fuori che dentro il governo. Non vi è dubbio, d’altra parte, che nella tragica situazione dei cinquantacinque giorni le scelte dei sette parlamentari liberali non siano state particolarmente visibili all’opinione pubblica91. Quindici anni dopo la nascita del primo governo di centro sinistra “organico”, il Pli si ritrovava dunque all’opposizione anche contro la seconda apertura a sinistra della storia repubblicana. Con il terzo governo Andreotti, della “non sfiducia”, a svolgere in qualche modo le funzioni che nel 1960-63 88 Cfr. Giovanni Malagodi ad Agostino Bignardi e Valerio Zanone, 18-12-1977 e 18-1-1978, in CM, b. 421, f. 10. 89 Giovanni Malagodi ad Agostino Bignardi e Valerio Zanone, 6 e 18-12-1977, 5 e 18-1, 13 e 16-2-1978; Valerio Zanone ad Agostino Bignardi e Giovanni Malagodi, 7-12-1977; Agostino Bignardi a Giovanni Malagodi e Valerio Zanone, 12-12-1977, in ivi. 90 La citazione è dalla lettera di Malagodi a Bignardi e Zanone del 16-2-1978, cit. Sull’opposizione dei liberali al governo Andreotti si veda Storia Pli, cit., p. 301. 91 La relativa invisibilità dei liberali è sottolineata da Malagodi in un’ulteriore missiva a Bignardi e Zanone, 17-5-1978, in CM, b. 421, f. 10. Sulle ragioni dell’opposizione liberale si vedano gli interventi di Zanone alla Camera dei deputati, 16-3-1978, e al Consiglio nazionale del Pli, 7-4-1978, entrambi in V. Zanone, Diario liberale, 1976-1979, cit. Una difesa della linea seguita nell’intera vicenda, dall’astensione all’accordo di programma all’opposizione, nella relazione di Zanone al XVI congresso del Pli, svoltosi nel gennaio del 1979, in V. Zanone, Le libertà degli ’80, Roma, edizioni L’Opinione, 1981, in particolare pp. 24-7. Sull’atteggiamento liberale davanti al compromesso storico cfr. in generale S. Colarizi, Storia dei partiti, cit., pp. 495-7. avevano svolto il secondo e il terzo gabinetto Fanfani, delle “convergenze parallele” quello, tripartito con l’astensione del Psi questo; e il quarto Andreotti a richiamare – seppure anche in questo caso soltanto da lontano – il Moro I. Malgrado qualche analogia, d’altra parte, le due situazioni presentavano delle differenze notevoli. Il centro sinistra era nato in origine con obiettivi ben più ambiziosi di quelli che avevano portato il Pci al governo. E non solo: aveva avuto fra i suoi bersagli polemici principali proprio il Pli, identificato come l’alfiere politico della destra economica e del conservatorismo borghese, mentre Malagodi dall’altra parte – come abbiamo visto – s’era opposto con grande veemenza all’ingresso dei socialisti al governo. Nulla di paragonabile era invece avvenuto nel 1978. Ma soprattutto, se il centro sinistra era diventato ben presto, com’è noto, una “formula irreversibile”, già all’inizio del 1979 la stagione della solidarietà nazionale poteva considerarsi conclusa. Al Pli si aprivano così nuovi spazi di movimento – spazi per altro che dal sedicesimo congresso, svoltosi nel gennaio del 1979, Valerio Zanone poteva utilizzare forte nel partito d’una maggioranza omogenea indipendente dalla corrente di Bignardi e Malagodi. Non diversamente da Malagodi, anche Zanone, nel momento in cui s’interrogava su che cosa fosse il liberalismo, cercava di evitare di trovarsi incastrato nella dicotomia fra destra e sinistra. Data la propensione dei liberali alla conflittualità non soltanto politica ma anche filosofica, del resto, sostenere che il liberalismo non dovesse essere né di destra né di sinistra, ma contribuire in concreto alla modernizzazione del paese e all’ampliamento dei suoi spazi di libertà, era affermazione non soltanto giustificata sul piano teorico ma anche opportuna sul piano pratico. Il liberalismo di Zanone, tuttavia, era certamente dissimile da quello di Malagodi – sia in principio, sia per come veniva poi tradotto in strategia politica. La differenza forse maggiore fra i due segretari del Pli era di temperamento ancor prima che politica, e le questioni di temperamento, a loro volta, potevano essere in buona misura ricondotte alla distanza generazionale fra i due. Malagodi – lo si è detto – era diventato adulto in un’Italia fascista nella quale il liberalismo era potuto sopravvivere soltanto come crociana religione della libertà, ansiosamente intenta a difendere la purezza delle proprie verità dagli assalti degli opposti totalitarismi. Non per caso nella sua riflessione riemergeva di continuo il timore che l’Italia scivolasse fuori dal campo politico e culturale dell’Occidente – timore che in alcuni casi si intensificava fino a raggiungere punte che, col senno di poi, possono apparire ingiustificate. Era proprio questa paura a dare al suo liberalismo un’intonazione “moderata” – secondo la definizione che del liberalismo moderato ho dato all’inizio di questo saggio. Difendere la libertà individuale e garantire il progresso del paese verso la modernità, insomma, significava per Malagodi prima di tutto conservare quel che di liberale il paese aveva prodotto nella sua storia, evitando accelerazioni “giacobine” che avrebbero rischiato di spezzare il precario equilibrio democratico del paese. Zanone aveva invece avuto il suo apprendistato politico fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, in un clima internazionale relativamente più disteso, e soprattutto in contemporanea con il rapido e profondo sviluppo economico e sociale del paese. Da un lato gli mancava quindi il riflesso difensivo presente in Malagodi: non si trattava di tutelare un sistema politico in pericolo, quanto piuttosto di far sviluppare ulteriormente una democrazia ragionevolmente solida, benché piena di difetti92. E il comunismo, di conseguenza, non si presentava come un nemico mortale col quale nessuna transazione era possibile, ma come un avversario politico a cui bisognava sì opporsi, ma non ad ogni costo, e senza chiudere ogni linea di dialogo. Dall’altro garantire e ampliare la libertà individuale e modernizzare il paese non poteva significare per lui difendere una tradizione italiana ormai scardinata dal “miracolo economico”, quanto piuttosto utilizzare gli spazi di dinamismo sociale che quel “miracolo” aveva già aperto. La distanza generazionale e di temperamento che lo separava dall’antico segretario del Pli era senz’altro ben presente a Zanone. Che non per caso alla gestione malagodiana del partito aveva fin dai tardi anni Sessanta rimproverato la crescente mancanza di sintonia con i nuovi orientamenti della cultura italiana, e soprattutto con le convinzioni politiche delle nuove generazioni. A partire dalla scissione dei radicali nel 1955, lamentava Zanone, il Pli era stato vivaio di classe dirigente per tutte le altre forze politiche: aveva selezionato e formato nella Gioventù liberale italiana e nell’Associazione dei goliardi indipendenti decine di giovani di qualità; i quali erano però cresciuti “sulla sinistra” del liberalismo, e poi, una volta diventati adulti e trovatisi 92 Cfr. ad esempio Valerio Zanone a Carlofelice Rossotto, 30-12-1973, in CM, b. 420, f. 8. nell’impossibilità di far passare la loro linea nel partito, avevano trasferito altrove le proprie ambizioni politiche. Era tempo, concludeva Zanone, che questa diaspora terminasse. Così come era tempo che il partito si aggiornasse culturalmente, abbandonando l’ostilità di antica origine crociana nei confronti delle scienze sociali e accettando di utilizzarne i metodi e le conclusioni a sostegno di una lettura finalmente moderna della società e della politica italiane. Anche su questo piano insomma il nuovo segretario liberale – che pure era giunto all’età adulta nel decennio precedente – si inseriva appieno nella svolta culturale degli anni Sessanta; là dove le polemiche ad esempio di Agostino Bignardi sull’«invadente sociologismo dell’ultimo ventennio» erano chiaramente dirette contro quella svolta93. Anche al di là delle differenze culturali e generazionali, ad ogni modo, il liberalismo del nuovo segretario aveva senz’altro un’intonazione più “di sinistra” rispetto a quello dei suoi due predecessori. Per quanto nel momento in cui affrontava questioni di teoria politica Malagodi si rivelasse tutt’altro che un conservatore, difficilmente avrebbe potuto condividere appieno il «Memoriale sul rapporto fra cultura liberale e partito liberale» Ripensare il liberalismo che Zanone scrisse nel 1968. Un documento certo non radicale, nel quale però si sottolineava come il liberalismo italiano dovesse dare per perduta la tradizione prefascista e rompere con l’elettorato monarchico e conservatore, diventando una forza illuminista e progressista, capace di recuperare dal marxismo la propensione al cambiamento e di affrontare con pragmatismo le questioni legate all’intervento pubblico nell’economia – di aprire insomma seriamente il dialogo col socialismo. Dal piano teorico, in quel documento, la riflessione scendeva nelle conclusioni sul terreno pratico, segnando le linee che Zanone avrebbe seguito da segretario un decennio più tardi. Sebbene i liberali non potessero dare del centro sinistra un giudizio positivo, ciò non dipendeva certamente dal fatto che quella formula si fosse dimostrata eversiva; al contrario, i gabinetti Moro non erano stati in fondo diversi da quelli De Gasperi – collocati gli uni e gli altri su una posizione di «riformismo moderato». L’opposizione liberale doveva allora «qualificarsi per 93 Dalla relazione di Agostino Bignardi al XIV Congresso nazionale del Pli, 18/23-4-1974, in A. Bignardi, Politica di centro, Firenze, Sansoni, 1974, p. 64. Si veda per Zanone: Valerio Zanone ad Agostino Bignardi, 5-11-1973, in CM, b. 421, f. 10: «Il ricorso alle scienze sociali non sarà taumaturgico, ma presumibilmente potrebbe fornire qualche dato empiricamente verificato circa questioni che sono ora lasciate alle impressioni individuali». capacità di invenzione, più che di resistenza; per l’intenzione di riformare meglio, non meno». E a questo fine non poteva ignorare il fatto che «l’indubbia evoluzione socialista verso la democratizzazione [poneva] le premesse per un “incontro laico” in contrapposizione alla crescente credibilità del dialogo fra i comunisti e il populismo cattolico». Emergeva così il principale momento di dissenso strategico fra la linea di Malagodi e Bignardi da un lato, quella di Zanone dall’altro. Nel momento in cui socialdemocratici e repubblicani si erano messi a guardare al Psi, e Malagodi aveva scelto di non seguirli su quel terreno, l’opzione centrista che egli sosteneva con forza s’era tradotta – lo abbiamo visto qualche pagina addietro – nella subordinazione pressoché completa del Pli alle scelte tattiche della Democrazia cristiana. Sullo stesso scoglio dei rapporti coi socialisti, e pure con i comunisti, erano poi naufragati anche i ripetuti tentativi di costituire un fronte laico esperiti dalla segreteria Bignardi negli anni Settanta94. Sottrarre i liberali alla dipendenza dalla Dc era invece il primo obiettivo strategico di Valerio Zanone; e, di conseguenza, la critica più aspra ch’egli muoveva alla maggioranza malagodiana era proprio quella di dimostrarsi eccessivamente remissiva nei confronti del partito di maggioranza relativa. «Ma sugli abusi del regime democristiano la maggioranza del PLI è reticente», scriveva privatamente nel 1973, «perché in realtà la prospettiva della maggioranza liberale è quella di una forza conservatrice che si propone di tornare al governo, e che per tornarci ha come unico potenziale alleato le tendenze moderate della DC»95. Essendo ormai palese, d’altra parte, che «il partito liberale non aveva concrete possibilità di sostituirsi alle correnti moderate della Democrazia cristiana nel ruolo di organizzazione di massa dell’elettorato conservatore», accettare quella prospettiva significava incastrare il Pli in una «trappola mortale». Così come, per certi versi, trappole erano state secondo Zanone il ritorno alla formula centrista nel 1972-73 e il governo Andreotti-Malagodi: perché avevano rappresentato «soltanto un episodio transitorio della lotta all’interno della DC», che i liberali avevano subito ma sulla quale non avevano avuto alcuna possibilità di incidere concretamente. Uscire da questa impasse significava rendere i rapporti fra i partiti di democrazia laica e la Democrazia cristiana 94 Cfr. per questi tentativi Storia Pli, cit., pp. 273 ss. Valerio Zanone a Carlofelice Rossotto, 30-12-1973, cit. 95 «meno subalterni e meglio equilibrati»; a sua volta, «la solidarietà fra i tre partiti laici intermedi (PLI, PRI, PSDI) [richiedeva] per attuarsi anche una intesa fra questi partiti sui rapporti da tenere con la sinistra, con i socialisti, con le organizzazioni sindacali e con una opposizione comunista tanto forte da esercitare una innegabile influenza sulla stessa area di governo»96. Il cerchio si chiudeva: il dissenso fra Zanone e i suoi predecessori sulla collocazione del Pli era allo stesso tempo strategico – evitare di mettersi alla mercé del partito di maggioranza relativa – e ideologico – accettare il dialogo a sinistra. E, infine, dipendeva anche dal tono alquanto più accesso dell’anticlericalismo di Zanone rispetto a quello senz’altro più moderato di Malagodi. Con l’aprirsi del 1979, si diceva qualche pagina addietro, la crisi della formula di solidarietà nazionale e la chiara vittoria della sua corrente al XVI congresso del Pli crearono le condizioni interne ed esterne perché la nuova linea di Valerio Zanone potesse infine essere tentata. Condizioni confermate e ulteriormente consolidate dai risultati delle elezioni politiche ed europee che si svolsero nel giugno di quello stesso anno, e che invertirono nettamente la tendenza emersa nel 1976 – ridimensionando il Pci e più in generale rafforzando i partiti “terzi” rispetto ai due maggiori. Ci volle ancora qualche tempo perché il distacco dei comunisti dalla maggioranza diventasse definitivo e il sistema trovasse un nuovo equilibrio, e i rapporti fra i liberali e il governo rimasero di conseguenza turbolenti – il partito partecipò al I gabinetto Cossiga, fu all’opposizione contro il II, si astenne sul ministero Forlani. Nell’estate del 1981, ad ogni modo, con la formazione del primo governo Spadolini, il percorso poteva dirsi compiuto97. Nasceva il pentapartito, e dopo quasi vent’anni il Pli tornava stabilmente al potere. Nasceva il pentapartito, e il disegno “lib-lab” perseguito da Zanone si realizzava sia nei suoi aspetti ideologici – un liberalismo “di sinistra” che dialogasse con i socialisti –, sia nei suoi aspetti strategici – un fronte laico capace di imporre i propri termini alla Democrazia cristiana. Oltre alle circostanze politiche generali, sull’esito dell’operazione aveva ovviamente pesato il nuovo corso del Psi di Bettino Craxi, la cui strategia trovava svariati punti di contatto con quella di Zanone: l’opposizione all’incontro fra il 96 V. Zanone, Appunti sul PLI, cit. Si veda su questa fase Storia Pli, cit., pp. 307 ss.; V. Zanone, Le libertà degli ’80, cit. 97 populismo cattolico e il comunista nel nome di una democrazia più moderna; l’intenzione di far crescere e rafforzare nel sistema politico uno schieramento “terzo”; il desiderio di rompere con la cultura marxista e d’individuare nuovi punti di riferimento culturale nell’area liberalsocialista o anche liberale tout court98. L’operazione craxiana convinse perfino il vecchio Malagodi, persuaso che quasi ottant’anni dopo il primo, famoso invito di Giolitti a Turati il Psi fosse infine approdato alle sponde dell’Occidente – consentendo che si compisse l’opera di allargamento della maggioranza democratica così come lui l’aveva sempre caldeggiata99. Se forniva una sponda alla segreteria Zanone, d’altra parte, il “nuovo” Psi rappresentava per i liberali anche un pericolo: il pericolo di ritrovarsi schiacciati e controllati da un partito più forte e aggressivo – il pericolo insomma di cadere dalla padella dell’egemonia democristiana alla brace dell’egemonia socialista100. Che di questo pericolo i liberali fossero ben avvertiti, e che intendessero evitarlo, Zanone lo chiarì assai presto: Non è infine vero che l’intesa tra i liberali e i socialisti possa essere considerata come subordinazione dell’uno all’altro. Dobbiamo tener conto dei rapporti di forza, che in politica sono una realtà alla quale non ci si può sottrarre. Ma non si esorcizza il rischio di subordinazione all’arroganza del quaranta per cento democristiano, per rendersi disponibili all’arroganza del dieci per cento socialista. Ci sia da parte liberale la disponibilità a intendere le ragioni dell’interlocutore socialista, ed altrettanto ci sia da parte socialista la disponibilità a trovare una sintonia e una convergenza con la democrazia liberale. In ciò deve consistere la politica dell’intesa lib-lab, dell’intesa fra socialisti e liberali101. L’obiettivo esposto a parole con tanta chiarezza, tuttavia, non era altrettanto semplice da raggiungere in pratica. Nei fatti, negli anni Ottanta il Partito liberale patì non poco il dinamismo del suo più robusto alleato. E prima tentò con Zanone di costituire un asse laico sufficientemente forte da bilanciare i consensi socialisti, presentandosi alle europee del 1984 in un 98 Sulla trasformazione imposta da Craxi al Psi e sul progetto “lib-lab” si vedano P. Craveri, op. cit., pp. 662-78, e da ultimo S. Colarizi, L’area laico socialista, in F. Malgeri, L. Paggi (a cura di), Partiti e organizzazioni di massa, vol. III di L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 123-42. Si vedano poi due interventi “retrospettivi” di Zanone: Il compito liberale in Italia, «Biblioteca della libertà», ott.-dic. 1989; e l’intervista rilasciata ad Antonio Carioti, Zanone: Craxi e Berlinguer, divisi da un abisso, cit. 99 Cfr. P. Craveri, op. cit., p. 859. 100 Cfr. S. Colarizi, art. cit., p. 137; ead., Storia dei partiti, cit., pp. 594-6. 101 V. Zanone, relazione al Consiglio nazionale del Pli, 18-4-1980, in id., Le libertà degli ’80 , cit., p. 128. cartello elettorale con i repubblicani – e non riuscendo però a ottenere il successo sperato102. Poi per una breve stagione – quando fra il 1985 e il 1986 la destra del partito tornò alla segreteria con Alfredo Biondi, prima che la sinistra prevalesse di nuovo con Renato Altissimo – si riavvicinò alla Democrazia cristiana103. Il problema dei rapporti con i socialisti, ad ogni modo, era soltanto l’aspetto più evidente d’una questione più ampia: il nuovo “luogo politico” nel quale Zanone aveva voluto collocare il Pli era affollato, e un partito piccolo come il liberale faceva una gran fatica a distinguersi dalle altre “terze” forze. Uno dei vantaggi principali della scelta moderata fatta all’inizio degli anni Sessanta, come abbiamo già notato, era stato proprio quello di dare ai liberali il monopolio su una posizione politica – isolata e destinata alla lunga a rivelarsi sterile, ma chiaramente definita e quanto mai “individualizzante”. Forte di quella posizione, Malagodi aveva potuto pensare di opporsi alla marea montante del centro sinistra: di mettersi in concorrenza con la Dc per i consensi dell’elettorato moderato; di crescere tanto che potesse esservi una maggioranza parlamentare di soli liberali e democristiani. Seguendo l’ipotesi “lib-lab” il partito si spostava ovviamente in uno spazio diverso, politicamente assai più produttivo, e nel quale era però costretto a coabitare con più d’un inquilino. Zanone aveva del resto vissuto il fallimento del disegno malagodiano, e sembrava aver accettato come premessa non eludibile di qualsiasi ragionamento strategico lo status irrimediabilmente minoritario del Pli: impossibilitati a correre da soli, i liberali non potevano che essere una minoranza autorevole e influente, ed era quindi nelle alleanze che realizzavano la propria vocazione. L’ipotesi di un cartello fra laici e socialisti che limitasse lo strapotere democristiano era perfettamente coerente con questa ipotesi. Ma nel cartello, e per di più in presenza di un alleato robusto e prepotente come il Psi, farsi vedere diventava difficile. 102 S. Colarizi, Storia dei partiti, cit., pp. 644-6. Storia Pli, cit., pp. 339-41 e appendice sugli anni Ottanta. 103 4. Epilogo Non è mia intenzione aprire in questa sede il discorso sulla crisi del sistema politico repubblicano, sul ruolo che in quella crisi svolse il Pli, sugli eventi che portarono il partito alla dissoluzione. Quella stagione, per quanto già ne siano state date alcune letture intelligenti, in realtà non è ancora diventata oggetto di riflessione storiografica – anche perché a tutt’oggi, nel 2004, la transizione verso un nuovo equilibrio politico e istituzionale appare ancora lontana dall’essere conclusa. Al termine di questo scritto, d’altra parte, non mi sembra inopportuno almeno abbozzare qualche considerazione sulla fase finale dell’esistenza del Pli. La polemica sul malfunzionamento delle istituzioni politiche repubblicane, sul potere eccessivo che al loro interno avevano i partiti, sul malcostume e la corruzione, appartiene certamente alla storia del Partito liberale. Da un punto di vista culturale, quella polemica si sviluppa in ambienti in senso lato riconducibili al pensiero liberale, e spesso effettivamente contigui al partito – Giuseppe Maranini, Mario Vinciguerra, Panfilo Gentile, solo per fare qualche nome. In una prospettiva più strettamente politica, la denuncia del carattere “partitocratico” della repubblica è anche chiaramente visibile nelle prese di posizione ufficiali del Pli104. I liberali insomma, come del resto abbiamo visto nelle pagine precedenti, hanno spesso svolto il ruolo di oppositori moderati e democratici degli equilibri non solo politici, ma più in generale politico-istituzionali della repubblica. Nella sua polemica contro il centro sinistra, così, Malagodi denunciava sia lo svuotamento delle istituzioni pubbliche ad opera dei partiti, sia l’uso che delle risorse pubbliche e del “sottogoverno” faceva la Democrazia cristiana, anche al fine di ricucire nella gestione del potere il rapporto col Psi, fallito sul terreno programmatico. E nella stagione della solidarietà nazionale sia Malagodi sia Zanone rigettavano la nozione di “arco costituzionale”, assieme alla concezione di democrazia unanimistica e consociativa ch’essa implicava. Negli anni Settanta, poi, la destra liberale di Edgardo Sogno portò la critica al sistema politico italiano a livelli parossistici – tanto da entrare in collisione con la maggioranza del Pli –, negando che la 104 Fin dall’età della costituente, per altro: cfr. G. Quagliariello, art. cit. repubblica fosse davvero una democrazia e ipotizzando un rovesciamento radicale degli equilibri istituzionali. In una chiave certamente molto più moderata, ad ogni modo, la denuncia della «degenerazione partitocratica» del sistema politico italiano apparteneva anche alla sinistra liberale. Non per caso fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta quella denuncia, lungi dallo scemare, acquistò rilievo ulteriore105. In questi contesti il disegno “lib-lab” era presentato come frutto e al contempo elemento di accelerazione del processo di modernizzazione del paese. E sul versante politico modernizzare significava soprattutto adeguare la democrazia italiana ai grandi modelli occidentali – liberando la dialettica istituzionale dalla presa dei partiti, correggendo quanto nel quadro costituzionale appariva non più adeguato alle esigenze del paese, moralizzando la vita pubblica. Sia per i liberali sia per i socialisti106, insomma, opporsi al compromesso storico e tentare di riequilibrare i rapporti di forza interni alla maggioranza di governo a favore dei partiti laico-socialisti significava collocarsi in una posizione critica rispetto alla conformazione generale che con gli anni aveva acquisito il sistema politico italiano, e non soltanto a questa o quella specifica ipotesi politica. La principale controindicazione della linea sulla quale Zanone aveva collocato il Pli, d’altra parte, ossia la diminuzione di visibilità determinata dalla scelta di collocarsi in uno spazio politico “affollato”, valeva tanto all’interno quanto nei confronti del sistema. Se il Partito liberale, insomma, partecipando al pentapartito faticava a marcare la propria specificità rispetto agli altri tre alleati della Democrazia cristiana, allo stesso modo non trovava agevole, essendo forza di maggioranza e di governo, far valere la propria moderata alterità nei confronti del sistema di potere repubblicano. Non per caso i propositi liberali di rinnovamento delle istituzioni e di moralizzazione della vita pubblica finirono per essere neutralizzati dalla vischiosità del sistema partitico, e così come le ipotesi socialiste di grande riforma e le tantissime 105 Si vedano gli interventi di Valerio Zanone riprodotti in Le libertà degli ’80 , cit. L’espressione «degenerazione partitocratica» vi compare a p. 154. 106 Per il dibattito in casa socialista si veda ora M. Gervasoni, Le insidie della “modernizzazione”. “Mondo operaio”, la cultura socialista e la tentazione della “seconda repubblica” (1973-1982), in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), Sistema politico e istituzioni, vol. IV di L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 20334. parole spese da ogni parte sulla modifica della costituzione si ridussero infine a un nulla di fatto107. In un quadro politico così poco dinamico come quello italiano, d’altra parte, anche se fosse ritornato a una linea di opposizione democratica al sistema il Pli, col suo due o tre per cento, difficilmente avrebbe ottenuto qualcosa. Certo, non è del tutto illogico ipotizzare che, in quel caso, avrebbe potuto tentare di approfittare della crisi di sistema dei primi anni Novanta – epoca peraltro di intenso seppur superficiale revival del pensiero liberale – per aumentare i propri consensi e candidarsi a un ruolo di rilievo nell’edificazione della seconda repubblica. Per ipotizzarlo bisognerebbe però costruire una congettura di “storia controfattuale” alquanto ardita – se non altro perché nelle crisi di sistema il caso e l’elemento umano acquistano un ruolo di tale rilievo da rendere molto difficile immaginare “quel che sarebbe potuto accadere se…”. Tornando alla storia com’è realmente andata, ad ogni modo, possiamo ribadire come, una volta fallito il tentativo malagodiano di crescere in misura significativa seguendo una linea politica moderata, si riducessero quasi a zero le possibilità per il Pli non solo di contare, ma perfino di sopravvivere stando all’opposizione – opposizione sia di governo sia di sistema. Forse l’unica possibilità reale era quella di un’opposizione estremamente dinamica e movimentista, un’opposizione alla radicale. Ma – anche a prescindere dal fatto che già vi camminava il Pr – nel suo complesso il Partito liberale era per tradizione, cultura e personale politico assai poco adatto a battere questa via. 107 Alla fine degli anni Ottanta Zanone rilanciò in maniera particolarmente articolata il tema della riforma dello stato, invitando poi il Pli «a distinguersi dai comportamenti politici che non deve condividere, a non agganciarsi ad un convoglio di partiti ai quali non deve somigliare», a «dare il segnale concreto della propria diversità» (V. Zanone, Il compito liberale in Italia, cit.).