unità
1
Tra ’800 e ’900:
l’epoca delle masse
e della velocità
Riferimenti storiografici
1
Una folla di persone radunata in un campo per assistere alla partenza di
un dirigibile, fotografia dei primi anni del Novecento.
Sommario
1
2
3
4
Bilancio dell’economia italiana dall’unità
alla prima guerra mondiale
Spiritualità e razzismo nelle opere
di Wagner
La psiche umana secondo la concezione
di Sigmund Freud
La novità storica del boulangismo
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
5
6
7
8
9
L’antisemitismo in Francia alla fine
dell’Ottocento
Georges Sorel e il movimento operaio
all’inizio del Novecento
Charles Maurras, reazionario moderno
L’Italia meridionale all’inizio del Novecento
I cattolici di fronte alla guerra di Libia
1
Bilancio dell’economia italiana dall’unità
alla prima guerra mondiale
UNITÀ 1
L’Italia del periodo compreso tra il 1861 e il 1914 era ancora
una potenza di seconda categoria, nel panorama europeo. Eppure, essa registrò alcuni significativi passi in avanti sia nel campo demografico che in quello industriale. Il principale problema restava la divaricazione del Paese in due aree nettamente
distinte: mentre il Nord iniziò a integrarsi nel sistema economico
mondiale, il Sud rimase periferico e arretrato.
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
2
Nel periodo immediatamente successivo all’unificazione nazionale, il regime demografico italiano presentava
ancora i segni caratteristici di una situazione economicosociale scarsamente evolutiva. Il ritmo di crescita della popolazione era – a confronto di altri paesi europei – abbastanza ridotto, e i livelli di mortalità, nonostante la
rarefazione e l’attenuazione delle crisi, ancora assai elevati: la speranza di vita alla nascita era molto al di sotto
dei 40 anni, e il quoziente di mortalità infantile superava
il 200%. Occorre aggiungere che la densità demografica
era, in rapporto alle risorse naturali del territorio, assai elevata. A partire dal 1870, gli effetti della grande crisi agraria, sommandosi all’aumento del saldo naturale della popolazione determinato da un incipiente declino del tasso
di mortalità [l’aumento demografico, provocato dalla crescita del numero dei soggetti in vita, rispetto ai decessi,
n.d.r.], portarono a una situazione di sempre più acuta
pressione demografica, che innescò il grandioso fenomeno dell’esodo di massa verso i paesi transoceanici. La
rottura degli antichi equilibri, e i rapidi mutamenti dell’assetto economico-sociale, susseguenti al processo di unificazione politica si tradussero in una differenziazione dei
regimi demografici. Il declino della mortalità e della natalità investì dapprima le aree – prevalentemente collocate
nel settore nordoccidentale – che beneficiarono dell’inserimento dell’Italia nel contesto dello sviluppo europeo,
e che furono interessate da processi di modernizzazione
in agricoltura e (a partire dagli ultimi anni del secolo) dal
take-off [decollo, n.d.r.] industriale; la gran parte dell’Italia rurale della mezzadria e del latifondo, che rimase
esclusa da ogni processo di sviluppo sociale ed economico, fu segnata anche da una più lunga stabilità del regime demografico tradizionale. Complessivamente, tuttavia, il periodo di 20-25 anni compreso fra l’ultima
decade del secolo XIX e l’inizio della Grande guerra vide
svilupparsi, pur con forti differenziazioni regionali, un processo di mutamento del regime demografico assolutamente nuovo: si innescò quel declino irreversibile della
mortalità e, con qualche ritardo, della fecondità, che doveva giungere a conclusione nella seconda metà del secolo XX, ma che, allo scoppio del primo conflitto mondiale,
aveva già visto il tasso di natalità ridursi dal 38 al 30% e
il tasso di mortalità addirittura dal 30 al 18‰. Questo processo, iniziato in Italia con ritardo rispetto agli altri paesi
europei, ma compiutosi poi con maggiore rapidità, costituì
un’autentica rivoluzione demografica, dal momento che,
per la prima volta nella lunga storia dell’uomo, i meccanismi che consentono la riproduzione delle popolazioni
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
iniziarono a essere controllati, in misura via via crescente,
dalla società, e divennero sempre meno dipendenti dalle
pressioni ambientali.
Nel campo della lotta per la sopravvivenza, le grandi
scoperte della batteriologia, che costituirono una delle novità più importanti dell’ultimo scorcio del secolo XIX, ebbero un effetto immediato nella lotta contro le malattie infettive, soprattutto perché consentirono di rendere più
efficaci le misure profilattiche [di prevenzione delle malattie, n.d.r.]. […] D’altra parte, la diffusione delle nuove conoscenze (nel campo medico e in quello igienico) e i
conseguenti guadagni nella sopravvivenza, soprattutto infantile, tardarono a concretizzarsi nelle aree socialmente
ed economicamente più svantaggiate, dove stentarono
anche ad apparire i primi segni di quella propensione al
controllo volontario del processo riproduttivo che – fin
dalla fine del secolo XIX – aveva cominciato a manifestarsi
nelle aree e negli strati sociali culturalmente più evoluti.
Questa nuova attitudine (che doveva portare la fecondità
italiana da circa 5 figli per donna, all’indomani dell’unificazione, sino al minimo attuale di 1,3) si sviluppò seguendo
due direttrici: dalle regioni e province del Nord verso quelle
del Mezzogiorno, e dalle popolazioni urbane a quelle rurali. L’eccezione più rilevante è costituita dall’area veneta,
dove il permanere di un’elevata fecondità, in presenza di
un calo assai rapido della mortalità, determinò – fra la fine
del XIX secolo e l’inizio del XX – un incremento demografico eccezionale, che fu uno dei fattori del grande esodo
delle popolazioni venete verso le Americhe. […]
Nel cinquantennio postunitario l’economia italiana si
è sviluppata meno di altre, come la tedesca o la danese,
che con una crescita rapidissima raggiunsero i battistrada della prima rivoluzione industriale; e si è sviluppata
meno sicuramente di quanto non avrebbe potuto con politiche più accorte; ma comunque è cresciuta più di tantissime altre, in Europa e altrove, che poco o nulla abbandonarono schemi e ritmi tradizionali. Bene o male,
l’Italia si era inserita nel gruppo ancora ristrettissimo dei
paesi che si modernizzavano; la valutazione complessiva
di quel periodo non può essere pertanto che positiva. La
controprova della trasformazione dell’economia italiana si
ritrova nell’evoluzione del commercio estero. Il neonato regno esportava i prodotti del suolo e del sottosuolo, e importava manufatti e prodotti tropicali. Fra le esportazioni
primeggiava la seta, appena dipanata dai bozzoli e pertanto prodotto agricolo assai più che industriale; seguivano l’olio d’oliva, e poi vari generi quali la canapa greggia, lo zolfo della Sicilia, il marmo delle Alpi Apuane. Fra
le importazioni spiccavano i manufatti di cotone, lana e
seta prodotti dai paesi industrialmente avanzati e in second’ordine i generi di consumo ottenuti sotto altri climi,
quali lo zucchero o il caffè. Alla vigilia della Grande guerra,
con un interscambio più che triplicato, il quadro era molto
diverso. La seta era ancora l’esportazione più importante, anche se con una quota piuttosto ridimensionata;
ma si era sviluppata l’industria di trasformazione, e l’Ita-
lia vendeva all’estero i prodotti finiti che prima comprava.
Si erano anche invertiti i flussi netti di filati e tessuti di cotone: il cotonificio italiano si era affermato, e fra le esportazioni i manufatti di cotone erano superati in valore solo
dalla seta. […] Non si può non riconoscere anche i limiti
dello sviluppo economico postunitario: i limiti geografici,
che tramandarono alle generazioni più recenti il problema
del Mezzogiorno, e ancor più i limiti sostanziali, che lasciarono l’Italia nella posizione di parente povero dei
paesi ricchi. È sintomatica qui la massiccia emigrazione
di quei tempi: non per formare, come gli inglesi, i quadri
dirigenti o per lo meno le classi medie dei paesi nuovi, ma
per prestarsi, come gli extracomunitari oggi in Italia, in
condizioni durissime ai lavori più umili e precari.
C.M. CIPOLLA, Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo
a oggi, Mondadori, Milano 1996, pp. 157-159, 162-163
UNITÀ 1
Quali cambiamenti subirono il tasso di mortalità e quello di fertilità? Quale dinamica caratterizzò l’incremento demografico
italiano?
Quale particolarità demografica presenta l’area veneta, rispetto al Sud, da un lato, e al resto del Nord, dall’altro?
Che cosa distingueva l’emigrazione italiana da quella britannica, all’inizio del Novecento?
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
3
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
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Spiritualità e razzismo nelle opere
di Wagner
UNITÀ 1
Le opere di Richard Wagner celebravano la grandezza e la
purezza dello spirito tedesco, contrapposto alla grossolana e materialistica civiltà moderna: gli eroi wagneriani erano infatti casti, coraggiosi e disponibili a sacrificarsi per un ideale.
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
4
Le idee di Wagner hanno un’importanza particolare
data l’influenza esercitata da Bayreuth [la città bavarese
in cui le opere di Wagner erano rappresentate ogni anno,
in un vasto teatro progettato dallo stesso compositore,
n.d.r.] non solo durante la vita del compositore, ma anche
molto tempo dopo la sua morte, e dato che il circolo wagneriano, presieduto dapprima dalla moglie Cosima e poi
dalla nuora Winifred, diventò per molta parte della destra
tedesca simbolo di cultura. Le rappresentazioni di opere
eseguite annualmente sin dal 1876 erano «festival» che
davano concretezza alle sue idee astratte. L’iniziativa era
sostenuta da una martellante campagna propagandistica condotta dal [giornale, n.d.r.] “Bayreuther Blaetter”
e anche mediante libri e opuscoli. Contemporaneamente
Bayreuth proprio in quanto centro culturale divenne anche centro di idee razziste, dove i neofiti facevano atto di
venerazione all’altare del sangue germanico e del mito
teutonico (benché Cosima fosse per metà francese e Winifred di nascita inglese). […]
La progressiva conversione di Wagner al razzismo fu
accompagnata da un certo fervore protestante, e il protestantesimo non solo lo portò a considerare di tanto in
tanto i gesuiti in particolare come partecipanti alla cospirazione contro la Germania, ma gli offrì anche la possibilità di separare Cristo dalle sue origini ebraiche. […] Molti
protestanti in Germania avrebbero concordato con l’affermazione di Cosima Wagner che Cristo non era legato
da alcuna parentela con il Dio ebraico, ma era un messia personale di coloro che conoscevano e donavano l’amore, cosa che l’ebreo non era in grado di fare perché
privo dell’animo e del sangue adatti. Un cristianesimo
concepito come avulso dalle sue storiche radici ebraiche
e visto invece come parte integrante della missione germanica pervade numerose opere wagneriane: il peccato,
il pentimento e la salvezza sono i concetti chiave sia del
Lohengrin (1850) che del Parsifal. […] Lohengrin e Parsifal sono entrambi basati sul mito del Graal – il vaso in cui
furono raccolte le gocce del sangue di Cristo morto sulla
croce. Il «santo sangue» di Cristo […] è affidato alla custodia dei cavalieri germanici, ed essi lo difendono con le
loro spade e la loro purezza morale. […]
Ancora, il pentimento e la morte di Tannhaeuser (l’opera fu eseguita per la prima volta nel 1845) erano concepiti come espiazione per i piaceri sensuali cui si era abbandonato sul Monte di Venere e la sua salvezza finale era
il frutto della pia morte della casta Elisabetta. Anche Par-
sifal resisteva alle tentazioni della carne quando difendeva
il Sacro Graal e le eroiche lotte di Sigfrido e Brunilde
erano collegate con il cristianesimo sentimentale di
Lohengrin, Parsifal e Tannhaeuser: la moralità delle classi
medie entra in scena ancora una volta a rendere i tedeschi i degni custodi del Sacro Graal. […] L’idea razzista
di Wagner (che lo portò a solidarizzare con Gobineau) è
esposto anche nei suoi scritti in prosa, ma erano le sue
opere, secondo le sue parole, le sue «gesta» a favore della
Germania; esse erano veri e propri festival, miranti a iniziare i tedeschi al sogno ariano; e una volta che avessero
sognato, essi avrebbero potuto tradurre il sogno in realtà.
Era questo un misticismo atto a procurare gioia e commozione a gente rispettabile. I festival dovevano servire
per le folle, non già per i pochi che leggevano la prosa di
Wagner. Le opere erano ascoltate con commozione e soprattutto attraverso la loro trama Wagner comunicava la
concezione teoretica su cui esse si basavano.
La giustificazione filosofica sarebbe seguita in un secondo momento e fu Houston Stewart Chamberlain a fornirla, benché anche altri, meno famosi, diedero il loro
contributo. Chamberain era un ammiratore di Wagner, pur
non avendolo mai conosciuto personalmente; egli fu introdotto nel circolo wagneriano di Bayreuth per interessamento di Cosima, dopo la morte di Richard […] e alla
fine sposò una figlia di Wagner. Il suo famoso libro I fondamenti del XIX secolo (Die Grundlagen des XIX Jahrhunderst, 1899) è stato considerato espressione della filosofia ufficiale di Bayreuth. In realtà in nessun’altra nazione è
esistito alcunché di simile al circolo wagneriano e il suo
ruolo nel radicare in Germania il mistero della razza non
può essere sottovalutato. Per molti tedeschi i festival di
Bayreuth, la personalità di Cosima e i due volumi di Chamberlain rappresentarono l’intera cultura tedesca. […]
Chamberlain vedeva negli ebrei un popolo asiatico
che era entrato nella storia europea contemporaneamente ai germani e che al pari di loro era riuscito a preservare la sua purezza razziale: egli sosteneva che lo spirito ebraico era materialistico, legalistico e privo di
tolleranza e moralità e ne trovava la conferma nel Vecchio Testamento. A parere di Chamberlain gli ebrei erano
il diavolo e i tedeschi il popolo eletto; al di fuori di essi
esisteva una mescolanza caotica di popoli, spettatori
passivi della battaglia decisiva della storia; l’esito della
lotta tra ariani ed ebrei avrebbe deciso se il vile spirito
ebraico avrebbe trionfato sull’anima ariana, trascinando
alla rovina, insieme con questa, il mondo intero.
G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto,
Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 111-117, trad. it. L. DE FELICE
Quale concezione di Gesù si aveva nel circolo di intellettuali che ruotava intorno a Richard Wagner?
Quale concezione aveva Wagner del cristianesimo?
Si può definire neoromantica la figura di Wagner? Quali punti di contatto individui con il Romanticismo dell’inizio
dell’Ottocento?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Il metodo di lavoro freudiano si sforzò di tenere sempre unite teoria e prassi clinica. Man mano che procedeva nel suo lavoro terapeutico, Freud elaborò un modello teorico, capace di
spiegare i diversi fattori che si intrecciavano e contribuivano a
costruire i meccanismi di funzionamento della psiche.
«Ci rappresentiamo l’apparato ignoto che serve per
l’esecuzione delle operazioni psichiche proprio come
uno strumento costruito di più parti – che chiameremo
istanze – ciascuna delle quali ha una sua particolare funzione. Esse presentano fra loro una stabile connessione
spaziale: in altri termini, la relazione spaziale – avanti e
indietro, superficiale e profondo – ha per il momento per
noi solo il significato di una rappresentazione di una regolare successione delle funzioni». Con ciò Freud vuole
significare che questa distinzione in spazi ha valore puramente simbolico e non rimanda a nessun principio di
carattere anatomico, cioè a zone del cervello; è un
modo di rappresentarsi visivamente le diverse funzioni
di questo apparato psichico. Una posizione centrale
tra queste istanze spetta all’Io. Che cosa è questo Io,
cioè in che cosa consiste la sua funzione? […] L’Io ha
una funzione di organizzazione e mediazione. Ma che
cosa organizza e media? E da dove proviene il materiale
(se così possiamo chiamarlo) da organizzare e mediare?
«Oltre a questo Io riconosciamo un altro territorio psichico, più esteso, più vasto e più oscuro dell’Io, e lo
chiamiamo Es». Es corrisponde al pronome impersonale
tedesco e, secondo Freud, era particolarmente adatto
a esprimere una forza impersonale «da cui veniamo vissuti, mentre crediamo di essere noi a vivere». Mutuò
questo termine da Groddeck, suo contemporaneo, con
il quale Freud intrattenne un’interessante corrispondenza. «L’Io è come una sorta di facciata dell’Es, come
un avancorpo, o come lo strato esterno, superficiale dell’Es. Atteniamoci a quest’ultima immagine: gli strati superficiali, si sa, debbono le loro caratteristiche specifiche
all’influenza modificatrice del mezzo esterno con cui
sono a contatto. Immaginiamo dunque che l’Io sia quello
strato dell’apparato psichico, dell’Es dunque, che è
stato modificato dall’azione del mondo esterno… L’Io si
trova intercalato tra la realtà e l’Es». Esiste una forte contrapposizione tra Io ed Es; per l’Io valgono leggi diverse
che per l’Es; l’Io persegue scopi diversi con mezzi diversi. […] Nell’Es non vi sono conflitti; termini contraddittori, fattori contrari possono coesistere senza disturbarsi reciprocamente, ma componendosi invece spesso
in formazioni di compromesso. L’Io avverte invece, in si-
mili casi, un conflitto che deve essere risolto, e la soluzione non può essere che l’abbandono di un’aspirazione
a profitto dell’altra. L’Io è un’organizzazione caratterizzata da una straordinaria tendenza all’unificazione, alla
sintesi; questo carattere invece manca all’Es; è per così
dire scisso in modo che le sue singole tendenze perseguono i loro scopi indipendentemente e senza riguardo.
Tutto quello che avviene nell’Es è e rimane inconscio. I
processi dell’Io possono divenire coscienti, ma non tutti,
non sempre e non necessariamente: grandi parti dell’Io
possono restare stabilmente inconsce. […]
Proseguendo nella descrizione dell’apparato psichico,
vediamo che le funzioni al suo interno non si limitano all’Io e all’Es. Abbiamo già visto nell’Interpretazione il fenomeno della censura. Essa opera nel sogno a produrre la
deformazione onirica, e in altre formazioni psicopatologiche [in situazioni psichiche problematiche, caratterizzate
da nevrosi, n.d.r.] a produrre il sintomo. Di questa istanza
censoria […] è responsabile il Super-Io: «Siamo infatti stati
costretti ad ammettere che nell’Io stesso si è venuta differenziando un’istanza particolare che diciamo Super-Io.
Questo Super-Io ha una posizione speciale tra l’Io e l’Es.
Esso è il residuo dei primi amori dell’Es, l’erede del complesso edipico dopo che questi è stato abbandonato.
Questo Super-Io può contrapporsi all’Io e trattarlo come
un oggetto, e lo tratta effettivamente spesso assai duramente. Per l’Io è altrettanto importante andare d’accordo
col Super-Io come con l’Es. Lei avrà indovinato che il Super-Io è la sede di quel fenomeno che diciamo coscienza
morale». Nell’uomo dunque esistono, accanto alle pulsioni che tendono brutalmente alla soddisfazione, anche
imperativi, divieti, ideali che un tempo appartennero a
quegli individui che da piccoli apparvero come superiori
e che, in genere, sono rappresentati dai genitori del bambino (Questo significa i primi amori dell’Es). La personalità umana, secondo Freud, si trova quindi in questa posizione difficile: l’Io deve continuamente mediare tra le
esigenze dell’Es, che richiederebbero un appagamento
immediato secondo il principio del piacere, e il mondo
esterno che pone altre esigenze secondo il principio di
realtà. Deve, inoltre, tener testa anche alle esigenze che
gli pone la sua coscienza morale, cioè il suo Super-Io; è
quindi impegnato in una lotta eternamente conflittuale su
tre fronti in un tentativo di sintesi soddisfacente.
B. ZANUSO, La nascita della psicoanalisi. Freud nella cultura della
Vienna fine secolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 148-151
Spiega l’affermazione «L’Io si trova intercalato tra la realtà e l’Es».
Spiega le espressioni deformazione onirica, principio del piacere e principio di realtà.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 1
La psiche umana secondo la concezione
di Sigmund Freud
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RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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La novità storica del boulangismo
UNITÀ 1
Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, gran parte delle idee che saranno riprese e sviluppate dal fascismo italiano
maturarono in Francia, nei decenni compresi tra il 1880 e il 1910.
Naturalmente, secondo Sternhell, bisogna superare la tradizionale
impostazione secondo cui l’ideologia del fascismo non aveva
spessore culturale, ed era pura propaganda, diffusa in mala fede
da individui che a loro volta erano manipolati dal grande capitale. A suo giudizio, la nuova ideologia nacque dalla fusione di
elementi eterogenei che, in comune, avevano soprattutto l’odio
per la borghesia, per il liberalismo e per il sistema parlamentare. Il boulangismo occupa un posto centrale nella ricostruzione
di Sternhell: a suo parere, fu il primo movimento di massa (populista) capace di catalizzare tutti gli scontenti della democrazia e del sistema capitalistico.
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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Il disagio intellettuale, le tensioni politiche, i conflitti
sociali che percorrono la fine del XIX secolo e l’inizio del
XX secolo esprimono tutti un ulteriore fenomeno rappresentato dalle enormi difficoltà incontrate dal liberalismo nel tentativo di adattarsi alla società di massa. Intorno alla fine del secolo gli effetti di quell’autentica
rivoluzione intellettuale che fu il darwinismo, quelli dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione del continente
e infine quelli del lungo processo di nazionalizzazione
delle masse cominciano a farsi sentire. I contemporanei
che avvertivano di trovarsi sul limitare di una nuova
epoca dunque non si ingannavano. «L’età in cui entriamo sarà davvero l’età delle folle», scrive Le Bon.
«Non è più nei consigli dei principi, ma nell’anima delle
masse che si preparano i destini delle nazioni». L’ingresso delle nuove masse urbane nel territorio della politica pone al liberalismo dei problemi sconosciuti fino a
quei tempi. Il liberalismo è un’ideologia fondata sull’individualismo e sul razionalismo; è il prodotto di una società che non prevedeva di dover subire ulteriori mutamenti strutturali e in cui, necessariamente, la partecipazione politica era estremamente limitata. A fine secolo, invece, sono sempre più numerosi coloro che
mettono in discussione la funzionalità di un’ideologia
nella quale le nuove classi sociali, milioni di lavoratori e
di salariati di tutte le categorie, ammassati nei grandi
centri industriali, non potevano riconoscersi. […]
Il boulangismo rappresenta la prima espressione
della crisi dell’ordine liberale – che costituisce un fenomeno costante del mezzo secolo di storia che precede
il 1940 – in una politica di massa. La prova di forza tentata dall’estrema sinistra radicale e blanquista contro la
democrazia liberale si spiega innanzitutto con la politicizzazione delle nuove masse urbane. […] Riteniamo importantissima la tappa del boulangismo perché in Francia ha rappresentato il primo punto di congiunzione fra
il nazionalismo e una ben precisa forma di socialismo
non marxista, antimarxista e già postmarxista. […] L’estrema sinistra blanquista era convinta che il boulangismo esprimesse una forma di rivolta contro la società
borghese e contro la democrazia liberale. Lafargue o
Èmile Eudes, l’erede spirituale di Blanqui e capo dei suoi
seguaci, non dubitavano che fosse opportuno sostenere
il boulangismo nella sua opera di distruzione dell’ordine
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
costituito. L’antiparlamentarismo d’altra parte è uno degli aspetti più caratteristici della guerra dell’estrema sinistra contro il liberalismo.
Altri due elementi si innesteranno sull’antiparlamentarismo, che era comunque la traccia di una certa tradizione giacobina, che vediamo rinascere nei radicali di
estrema sinistra: il blanquismo e il nazionalismo. Il blanquismo si ribella al sistema borghese, il nazionalismo all’ordinamento politico che ne è l’espressione. Questi tre
elementi convergono in una comune opposizione alla
democrazia liberale: la loro sintesi si esprimerà nel boulangismo intorno alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo
e, dieci anni più tardi, risorgerà nel nazionalismo antidreyfusardo. […] Dopo la Grande Guer-ra questa sintesi
assumerà il nome di fascismo. Nel boulangismo convergono forze politiche diverse che volevano infrangere
a ogni costo l’immobilismo del regime parlamentare: è
il primo episodio della lunga serie di assalti che aggrediranno la democrazia liberale. Emerge allora per la
prima volta un processo che poi diventerà il meccanismo classico del prefascismo, e più tardi del fascismo:
lo spostamento verso la destra radicale di elementi di
idee sociali avanzate e fondamentalmente antiliberali,
che professano però un marxismo dubbio, o un socialismo esplicitamente antimarxista, oppure, come alla vigilia della guerra, abbandonano il marxismo per un’altra
forma di solidarietà rappresentata dal nazionalismo. […]
Non necessariamente la revisione del marxismo genera
da sola lo slittamento verso la destra radicale: è indiscutibile. Se all’abbandono delle posizioni ideologiche
della sinistra rivoluzionaria si accompagna l’accettazione dei principi di base e delle regole del gioco della
democrazia liberale, nascono le varie forme di quel socialismo democratico che, con Bernstein, Jaurès e Turati, si è profondamente radicato nell’Europa occidentale. Quando invece il processo di revisione del
marxismo si associa all’antiliberalismo, al rifiuto del parlamentarismo e del sistema dei partiti, all’autoritarismo
e all’appello all’unità nazionale, al di là degli interessi di
classe, l’esito è del tutto diverso. Nel momento in cui
tutte queste condizioni sono compresenti, l’equazione
fascista diviene praticamente inevitabile. […]
Socialismo e nazionalismo, nella mentalità dei ribelli
di fine secolo, come in quella dei fascisti degli anni
1920-1930, rappresentano due aspetti dell’antiliberalismo, due forme dello stesso rifiuto dell’individualismo
democratico, due ideologie che considerano l’individuo
solo come parte integrante di un tutto organico. «L’idea
socialista è un’idea organizzatrice se viene purgata del
veleno liberale, che non le è affatto necessario», afferma Barrès. I boulangisti contrappongono il culto del
capo al parlamentarismo; il senso dell’autorità alla pretesa incoerenza delle istituzioni; e al capitalismo, un populismo basato su un parossismo verbale antiborghese
destinato soprattutto a mobilitare gli strati popolari. I
trionfi del boulangismo, anche se effimeri, dimostrano
che la sinistra non era sempre esente dal culto dell’uomo forte, che poteva facilmente rassegnarsi alla
sconfitta di una Repubblica che non rispondeva ai suoi
ideali, che non era insensibile alla demagogia se essa
avesse indicato alla vendetta popolare i magnati della finanza. Il successo riportato da questa convergenza di
temi ideologici e di temi politici e sociali, considerati
normalmente come antagonistici, ne spiega la gravità,
dimostra la vulnerabilità della democrazia liberale e anticipa l’avvento di una nuova epoca.
Z. STERNHELL, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in
Francia, Baldini Castoldi, Milano 1997,
pp. 94-99, trad. it. M.G. MERIGGI
UNITÀ 1
Spiega l’affermazione «Il blanquismo si ribella al sistema borghese, il nazionalismo all’ordinamento politico che ne è
l’espressione».
Socialismo e nazionalismo accusavano il sistema borghese di individualismo e di egoismo. Esponi le ragioni di tale accusa.
Spiega l’espressione «parossismo verbale antiborghese».
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
5
L’antisemitismo in Francia alla fine
dell’Ottocento
UNITÀ 1
Alla fine dell’Ottocento, in Francia, gli ebrei divennero il capro espiatorio privilegiato di tutti gli individui scontenti e dei gruppi minacciati dalla rapida evoluzione economica, politica e sociale della Repubblica sorta nel 1870.
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
8
Che cosa rese tanto popolare la nuova mitologia antiebraica? Una paura profonda e ampiamente diffusa
dei mutamenti sociali, rispondono alcuni storici, una
profonda angoscia e un senso di sconforto di fronte alle
forze che stavano trasformando la società francese. Da
questo punto di vista, l’antisemitismo aveva poco a che
fare con gli ebrei in carne e ossa; questi ultimi non erano
che un simbolo, efficace e a portata di mano, della minaccia insita nei mutamenti in corso. Il coro della propaganda antiebraica sviluppò soprattutto tre temi, ognuno
dei quali contribuì alla creazione della nuova immagine
mitica dell’ebreo.
Il primo fu il cri de coeur [lamento appassionato, n.d.r.]
della piccola borghesia: negozianti, artigiani, impiegati e
in genere tutti coloro ai quali il nascere in Francia di moderni modi di produzione e distribuzione su vasta scala
pareva profondamente ingiusto. Molti trovarono nell’antisemitismo semplicemente un modo per esprimere il
proprio rifiuto delle iniquità che sembravano in un certo
senso costituire l’essenza della modernizzazione. Questo
tipo di antisemitismo era populista; l’ebreo quindi veniva
solitamente dipinto come un capitalista sfruttatore, collegato a una rete finanziaria internazionale, che in qualche
oscura maniera stava assumendo il controllo dei destini
economici dell’onesta e laboriosa gente di Francia. Nel
suo Testament d’un antisémite, Drumont si presentò al
pubblico come un difensore dei poveri e degli oppressi,
un profeta della giustizia sociale. La rivoluzione antisemita
che egli auspicava sarebbe stata una sorta di rivolta degli emarginati contro i ricchi: «I giorni dell’alta finanza cosmopolita sono contati. Grazie a noi, i nomi dei plutocrati
che incarnano l’anima avida e intrigante del giudaismo si
sono impressi nelle menti delle masse in tal guisa [maniera, n.d.r.] che nulla potrà cancellarli.
Queste «masse» […] consisterebbero in una specie
di universale confraternita di francesi, resi solidali dalla miseria e dall’alienazione, queste ultime causate, naturalmente, dagli ebrei. Un giorno, Drumont scrisse: «Un
uomo del popolo assumerà la guida della nostra campagna, un leader socialista che non si lascerà comprare
dalla Sinagoga, come invece han fatto tanti suoi compagni; raccoglierà intorno a sé migliaia di persone, quelle
che noi abbiamo contribuito a ridestare e istruire, gli
sfruttati di tutte le classi, i piccoli commercianti rovinati dal
proliferare delle catene di grandi magazzini, i lavoratori rurali e urbani calpestati dai monopoli». Ecco dunque un
socialismo interclassista, un movimento politico cui la
lotta di classe era per principio estranea, almeno per
quanto riguardava la Francia. Un socialismo che faceva
a meno del complesso bagaglio teorico della sinistra,
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
perché nella sua estrema semplificazione riduceva tutti i
problemi a uno solo. Un socialismo che non rivolgeva più
il proprio appello solo a chi non aveva altra ricchezza che
la forza delle proprie braccia, ma a qualsiasi cittadino
francese che gradisse la consolazione di sentirsi vittima
dei giudei venuti da fuori. […]
Il secondo importante tema antisemita recava il marchio del cattolicesimo popolare […]. Esso consisté nel
dipingere l’ebreo come un temibile antagonista della
Chiesa e della brava gente timorata di Dio. Riecheggiando la tradizionale accusa di deicidio [secondo cui gli
ebrei erano stati i principali responsabili della morte di
Cristo, Figlio di Dio, n.d.r.], si sostenne che in tempi moderni l’odio degli israeliti per Cristo e i suoi seguaci
avrebbe assunto la forma di un lavorio volto a indebolire e infine abbattere i pilastri del cristianesimo francese.
[…] Uno dei giornali francesi più moderni dal punto di vista tecnico, “La Croix”, organo della Confraternita Assunzionista, raggiunse un enorme diffusione al tempo
dell’Affare Dreyfus. Un antisemitismo che non pare eccessivo definire fanatico, vi si combinava con altri elementi appetibili dai lettori cattolici, clericali e laici. Secondo “La Croix” gli ebrei erano diventati addirittura i
padroni della Repubblica, e ad essi si doveva l’invenzione del socialismo, del materialismo e dell’anticlericalismo, strumenti ideologici approntati per propagandare
il loro anticristianesimo. Violento e razzista, il giornale lasciava ben poco all’immaginazione quanto ai misfatti
che il giudaismo avrebbe compiuto o si sarebbe apprestato a compiere. In pratica, tutte le difficoltà e contraddizioni della società moderna venivano collegate
alla cospirazione ebraica volta a distruggere la Francia
e il cristianesimo in generale. […]
Il nazionalismo è alla base del terzo argomento antisemita che risuonò spesso nel periodo dell’Affare Dreyfus. I nazionalisti antisemiti si distinsero perché si mostrarono abitualmente più preoccupati dei presunti nemici
interni che degli avversari esterni del paese. Sembravano
ossessionati dal timore che forze corrosive minassero le
fondamenta della società francese, rendendola debole e
demoralizzata. L’ebreo, in quest’ottica, era in primo luogo
il cosmopolita privo di radici e di legami alla nazione, incapace di difendere altri interessi che i propri.
M.R. MARRUS, Antisemitismo popolare,
in N.L. KLEEBLATT, L’affare Dreyfus. La storia
l’opinione l’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 1987,
pp. 101-105, trad. it. S. GALLI
Spiega l’espressione «mitologia antiebraica».
Spiega le espressioni «antisemitismo populista» e
«socialismo interclassista».
Come venivano descritti gli ebrei dal cattolicesimo
popolare francese? Quali fenomeni erano loro
attribuiti?
All’inizio del XX secolo, numerose delle promesse e delle previsioni di Marx sembravano del tutto errate e inconsistenti. Il
capitalismo era più forte che mai, non mostrava alcun segno
di crollo imminente, anzi si rivelò capace di accettare il movimento operaio come interlocutore nel confronto tra le parti sociali. L’obiettivo che si propose Sorel fu di spezzare lo stallo che
si era creato e di trovare nuovi mezzi per mantenere vivo lo spirito combattivo degli operai. Ai suoi occhi, la società borghese era immorale e corrotta: con essa, quindi, non era lecito alcun compromesso.
Il revisionismo soreliano è profondamente radicato
nelle realtà sociali del suo tempo e nel suo contesto ambientale immediato. Non si tratta di un semplice esercizio intellettuale: Sorel si applica a sviluppare l’aspetto mitico e apocalittico del marxismo sullo sfondo dei grandi
scioperi e dell’ascesa del sindacato nei primi anni del secolo. Lo sciopero e la violenza non sono metafore: nella
Francia del 1906 si conta uno scioperante su sedici operai d’industria; in tutto, alcune centinaia di migliaia. E più
numerosi ancora sono coloro che solidarizzano con i lavoratori in lotta. Lo sciopero colpisce tanto più l’opinione
pubblica quanto più la sua durata è prolungata: nel
1902 gli scioperi raggiungono una durata media di ventidue giorni – rileva Madeleine Rebérioux [storica francese specializzata nello studio della Terza Repubblica
francese, n.d.r.] – cioè più del triplo rispetto a trent’anni
prima. L’anno 1904 è segnato da 1026 scioperi, circa il
doppio dell’anno precedente; 271 097 operai si astengono dal lavoro, il che comporta quasi 4 000 000 di giornate lavorative perdute. Il movimento raggiunge il punto
culminante nel 1906: 438 000 scioperanti – un record
che non sarà mai superato prima della guerra – per
1039 scioperi della durata media di diciannove giorni. In
alcuni casi, le condizioni di vita degli operai in sciopero
sono miserande: alle ferriere di Hennebont, dall’aprile all’agosto di quell’anno, 1800 operai si nutrono di granchi pescati con la bassa marea e di qualche tozzo di
pane; alla fine dello sciopero, la famiglia di un operaio
che abbia scioperato può contare soltanto su 750
grammi di pane alla settimana. L’esercito spara e uccide: a Longwy nel settembre 1905, a Raon-l’Étape nel
luglio 1907; nel bacino di Lens, dopo la catastrofe di
Courrières [l’espressione designa il drammatico incidente che, avvenuto il 10 marzo 1907, provocò 1099
vittime: la più grave tragedia mineraria mai avvenuta in
Europa, n.d.r.], l’entrata in scena della cavalleria provoca
altri spargimenti di sangue. Le tensioni sociali raggiungono l’acme con il primo maggio del 1906. Per la prima
volta, si è sistematicamente organizzata una mobilitazione operaia di ampiezza nazionale, e per il movimento
sembrano aprirsi possibilità insperate. […]
Il 1906 è anche l’anno delle Riflessioni sulla violenza
e delle Illusioni del progresso. Il revisionismo rivoluzionario è il riflesso puntuale dell’epopea degli scioperi, di
cui costituisce, di fatto la teoria, esprimendo la speranza
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
di un proletariato eroico, pronto a ogni sacrificio e cosciente della propria missione. Ma Sorel è dotato di sufficiente chiaroveggenza per non dimenticare il rovescio
della medaglia: gli operai in sciopero non sono preoccupati dal destino della civiltà occidentale, quanto piuttosto dalle loro condizioni di vita e di lavoro; il fulcro delle
loro rivendicazioni è la giornata lavorativa di otto ore,
non certo la fine della cultura borghese. Comunque, il
13 luglio 1906, viene votata la legge che rende obbligatorie le 24 ore settimanali di riposo. La crescita economica non si arresta, e di pari passo migliora, grazie
alla legislazione sociale, anche la condizione operaia:
legge sulla protezione del salario femminile nel luglio
1907, legge sulle pensioni degli operai e dei contadini
nell’aprile 1910. Se il primo maggio fa ancora paura ai
proprietari, se la combattività degli operai è sempre su
livelli altissimi, il capitalismo francese – come quello
italiano e tedesco – si dimostra in grado, grazie al suo
dinamismo, di affrontare ed assorbire le rivendicazioni
sociali. […] È questa la situazione cui i rivoluzionari devono far fronte in qualche modo. Da un lato, si assiste
allo sviluppo incontestabile della militanza operaia e ai
sanguinosi scontri con lo stato borghese; dall’altro,
una crescita economica quasi senza soluzioni di continuità ha il risultato, grazie a riforme che modificano
profondamente le condizioni di vita del proletariato, di
ridurre considerevolmente l’ardore rivoluzionario della
classe operaia. La teoria soreliana dei miti trova dunque
un senso profondo in questo contesto particolare: il suo
obiettivo è lo sviluppo della coscienza di classe delle
masse proletarie e il pieno mantenimento della loro
combattività. Si tratta di dar vita a una élite operaia ben
strutturata e organizzata sindacalmente, e di scavare un
profondo fossato psicologico tra questa avanguardia e
la borghesia al potere. Questo fossato psicologico deve
essere approfondito di giorno in giorno, attraverso il rifiuto costante di ogni forma di collaborazione con lo
stato borghese e coi suoi rappresentanti. È necessaria
un’ostilità totale, senza cedimenti, che si manifesti in
primo luogo con l’opposizione alle riforme sociali: così
si realizzerà, grazie alla forza di volontà degli operai, la
polarizzazione sociale, e l’attesa crisi del capitalismo,
occultata e ritardata dalla crescita economica, diventerà
infine realtà. Appare qui, con chiarezza, la funzione sociale della teoria dei miti. […] Il pensiero mitico si oppone al pensiero riflessivo e discorsivo, è una mentalità
di tipo religioso che si ribella contro la mentalità razionalistica. La sua funzione immediata è quella di mobilitare le masse per cambiare il mondo. Il mito soreliano
ha in sé un’enorme forza evocativa e di incitamento all’azione, è una fonte inestinguibile di rigenerazione, di
moralizzazione e di eroismo. Il mito è unità di pensiero
e azione, crea leggende e permette all’individuo di vivere nella leggenda invece che nella storia, trascendendo la bassezza del presente, armato di una fede
che niente potrà distruggere. Ecco perché, in Sorel,
UNITÀ 1
Georges Sorel e il movimento operaio
all’inizio del Novecento
9
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
6
mito e razionalità si oppongono; ed è grazie a questa
opposizione che il mito può costituire una forza concreta: galvanizzando le masse, esso permette di sormontare l’ostacolo costituito dalla realtà economica e
sociale. […] Il mito si presenta dunque come uno strumento dotato di una straordinaria efficacia, con in più
il vantaggio di essere totalmente immunizzato contro
ogni rischio di fallimento: esso non può essere sottoposto ad un’analisi razionale di tipo classico, il che
rende il suo raggio d’azione quasi illimitato. I miti soreliani sono dei «sistemi di immagini», cioè delle costruzioni grazie alle quali gli «uomini che partecipano ai
grandi movimenti sociali si figurano le loro future azioni
sotto forma di immagini di battaglie, per assicurare il
trionfo della loro causa». Come esempi di mito degni
d’essere ricordati, Sorel menziona «quelli che furono costruiti dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Ri-
voluzione…»; in questo senso e allo stesso modo, sono
miti anche «lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx». Sorel è perfettamente
conscio dell’importanza di questa interpretazione irrazionalistica del marxismo […]. L’individuo formato nei
sindacati è il produttore e il guerriero, nutrito di valori
eroici, come lo erano i primi cristiani, i legionari romani,
i soldati delle guerre rivoluzionarie o i discepoli di Mazzini; è un combattente assetato di gloria, votato all’abnegazione più completa e sempre pronto al sacrificio,
come i soldati di Napoleone. Guidati dai miti, uomini
come questi non si attendono risultati concreti e immediati, hanno orrore dell’utilità personale e voglia di sublime: sono i soli in grado di dominare la Storia.
Z. STERNHELL, Le origini dell’ideologia fascista, Baldini Castoldi,
Milano 1993, pp. 76-79, 84-88, trad. it. G. MORI
UNITÀ 1
Come si concluse «l’epopea degli scioperi», cioè la grande ondata di lotte condotte in Francia dagli operai?
Spiega l’affermazione secondo cui il mito «permette all’individuo di vivere nella leggenda invece che nella storia».
Quale strategia politica sono portati ad adottare i partiti socialisti che seguono la razionalità? Quale strategia, invece,
adotterà un’organizzazione operaia che si lasci guidare dal mito?
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
La figura del fondatore dell’Action Française è per molti versi quella di un personaggio al confine tra due mondi. Per certi
aspetti, ci appare ancora sbilanciato in direzione dell’Ancien Régime; tuttavia, il suo obiettivo primario era la guerra aperta contro la Terza Repubblica, il liberalismo e la democrazia, in termine
che per certi versi anticipano il fascismo.
La storia dell’Action Française inizia con l’affare
Dreyfus. Da questa, che fu la meno sanguinosa di
tutte le rivoluzioni, sono tuttavia derivate la partecipazione al governo dei socialisti, la separazione di Stato
e Chiesa, l’effettiva sottomissione dei militari al potere
civile. La differenziazione di socialismo e comunismo,
l’origine del sionismo e il delinearsi delle estreme conseguenze immaginabili dell’antisemitismo sono, più o
meno chiaramente, connessi all’affare Dreyfus. È
tutt’altro che infondata l’opinione secondo la quale
con esso avrebbe inizio, in Francia, il XX secolo, che nel
resto d’Europa comincerebbe solo con la prima guerra
mondiale. Sarebbe assai strano se proprio il partito
conservatore, che in questa lotta fu vinto, ma in nessun caso distrutto, non avesse dato vita a una manifestazione di nuovo tipo proiettata nel futuro del periodo postbellico europeo. […]
I fronti erano stabiliti. Chiunque parteggiasse per l’esercito e per la Chiesa, l’intero vastissimo gruppo della
borghesia conservatrice, era decisamente contro Dreyfus. Chiunque avesse spirito anticlericale, e soprattutto
le masse dei lavoratori socialisti, era raccolto in campo
avverso. Un sorprendente mutamento: nel 1894,
Jaurès aveva attaccato, alla Camera, il governo perché
la sua magistratura di classe non aveva comminato la
condanna a morte al ricco capitano Dreyfus; il promotore di tutta l’affaire, il generale Mercier, era un repubblicano anticlericale; la politica di ralliement [adesione
alla Repubblica, n.d.r.] di Leone XIII aveva portato alla
divisione dei cattolici in due raggruppamenti, progressista l’uno, reazionario l’altro. Ora, però, ecco sparire le
sottili differenze, ecco la società polarizzarsi in due
blocchi contrapposti, intenti ad accusarsi a vicenda di
disegni criminosi. A decidere doveva per forza di cose
essere lo spirito, l’intellighenzia [gli intellettuali più illuminati, n.d.r.] che in Francia ha tanto peso. A quanto
pareva, essa sempre più largamente sposava la causa
di Dreyfus: i professori universitari e i maestri di scuola
ormai si dichiaravano, quasi senza eccezioni, per Dreyfus; esitava ancora l’enseignement secondaire [i docenti
della scuola secondaria, n.d.r.]. Insieme con Reinach,
Clemanceau [due dei numerosi giornalisti che si erano
schierati a favore di Dreyfus, n.d.r.] aveva fondato la Ligue pour la défense des droit de l’homme e pubblicato
un Manifeste des intellectuelles. Prendere posizione
per Dreyfus, sembrava cosa in sé e per sé di natura intellettuale: resistenza opposta dagli uomini di pensiero
e dai singoli alla fredda ragion di Stato e al cieco pregiudizio delle masse. E, se questa impressione si imponeva, era perduta la partita, per i nemici di Dreyfus.
L’iniziativa più urgente era dunque di dar vita a un’unione dell’intellighenzia antidreyfusistica, e Maurras
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
ebbe in questo una parte cospicua. Il 31 dicembre
1898, vedeva la luce la Ligue de la patrie française. Il
successo fu strepitoso: quasi l’intera Académie
Française vi aderì; in brevissimo tempo a ben centomila
ammontarono le iscrizioni. Evidentemente l’intelletto
francese non era ancora tutto schierato dalla parte del
traditore, contro la patria! […]
L’Action Française è, dapprima, null’altro che un
gruppetto, affatto privo di influenza, di giovani intellettuali,
i quali dispongono solo di una piccola rivista e si riuniscono regolarmente al Café de Flore, dove hanno luogo
interminabili discussioni: un gruppo i cui componenti
sono di disparata origine culturale: positivisti, spinoziani,
un protestante, pochissimi cattolici praticanti; tutti, però,
fanaticamente persuasi essere loro compito quello di
dar vita a una nuova dottrina politica, e che da questa dipenda la salvezza dello Stato. E in effetti, essi si trovarono
a un crocevia di indirizzi ideologici e atteggiamenti politici. L’affare Dreyfus era stato di notevole importanza
soprattutto nel senso che, sotto il suo segno, alleanze si
erano scisse e scissioni si erano trasformate in alleanze.
Fin dall’inizio, per la Rivoluzione Francese i concetti di nazione e patria e i concetti di umanità e diritti dell’uomo
erano stati intercambiabili. Ma, in seguito all’affare Dreyfus, la Ligue de la patrie française e la Ligue pour la défense des droit de l’homme erano schierate in campi avversari. Certo, in pratica la contrapposizione era
attenuata dal fatto che Clemanceau non cessava dall’essere un patriota né Barrès [scrittore nazionalista,
n.d.r.] negava i propri legami con la Rivoluzione. Ma, dal
punto di vista ideologico la dissociazione era ormai programmatica, tanto più che i socialisti da un pezzo si
erano schierati con l’altra corrente. Evidentemente il
nuovo nazionalismo sarebbe stato completo, integrale,
soltanto quando si fosse totalmente sbarazzato delle
idee della Rivoluzione francese. Ma in Francia, dall’esecuzione di Luigi XVI in poi, la monarchia (e non già l’impero, che veniva inteso come democrazia plebiscitaria),
costituiva la vera antitesi della Rivoluzione; soltanto un
nazionalismo monarchico, dunque, sarebbe stato un
nazionalismo integrale, vale a dire antirivoluzionario, ma
proprio per questo non conservatore nel senso abituale
del termine. […]
Un atteggiamento di tipo nuovo fu inaugurato in
politica dall’Action Française anche mediante la sua
presa di posizione nei confronti dei problemi religiosi.
Certo, da un pezzo vari partiti laici avevano tentato di
rafforzare la propria posizione ricorrendo all’appoggio
della Chiesa Cattolica: […] ma non aveva precedenti il
fatto che un gruppo politico, alla cui guida stavano atei
e agnostici esaltasse il cattolicesimo quale il più valido
dei fondamenti della Francia e, con pervicacia e abilità,
si ergesse a difesa del Sillabo, quella dichiarazione di
guerra della Chiesa alla società moderna, della quale
perfino buoni cattolici preferivano non parlare. Ma la
Chiesa era impegnata in una dura e testarda lotta col
modernismo, e la Chiesa aveva pochi alleati. Il Vaticano
era l’unica potenza mondiale che prendesse affatto sul
serio l’Action Française già nel 1910. […] La Chiesa
UNITÀ 1
Charles Maurras, reazionario moderno
11
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
7
considera l’Action Française come un mezzo valido, ancorché impuro, di cui non vuole privarsi prima che abbia reso i suoi servigi. Ma non era, anche Maurras, la
Chiesa un mezzo, e non patisce danni nell’animo qualunque istituzione la quale si lasci anche solo considerare da estranei, senza opporre resistenza, un mezzo?
Una straordinaria ambiguità aduggia [intristisce, n.d.r.]
pertanto, già in quei giorni felici, i rapporti tra Action
Française e Chiesa Cattolica. Ambiguo e oltretutto inefficace, rimase anche il tentativo di alleanza con un’altra grande potenza, giovanissima, poco più che un abbozzo ancora, ma straordinariamente gravida di futuro:
il sindacalismo. […] La comune ostilità alla repubblica
costituì il fondamento e il punto di partenza. Sotto il
protettorato di Maurras, aderenti all’Action Française e
seguaci di Georges Sorel si unirono in un Cercle
Proudhon [Circolo Proudhon, n.d.r.], che disponeva di
propri Cahiers [Quaderni, n.d.r.], nella cui prima dichiarazione si afferma, con una caratteristica commistione
di concezioni socialistiche e nazionalistiche: «La democrazia costituisce il maggior errore del secolo
scorso… Essa ha permesso, in economia e in politica,
la costituzione del regime capitalistico, il quale distrugge, nello Stato, ciò che le idee democratiche portano a dissoluzione nello spirito, vale a dire la nazione,
la famiglia, i costumi, in quanto sostituiscono alle leggi
dello spirito le leggi dell’oro».
E. NOLTE, I tre volti del fascismo, Mondadori, Milano 1978,
pp. 95, 110-118, trad. it. F. SABA SARDI, G. MANZONI
UNITÀ 1
Quale scissione si crea, a seguito dell’affare Dreyfus, nei valori tradizionali tipici della Francia ottocentesca?
Quale operazione, secondo Maurras, avrebbe dovuto compiere il nuovo nazionalismo?
Su quali punti comuni si costruì la singolare (quanto effimera) convergenza tra seguaci di Maurras e discepoli di Sorel?
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
All’inizio del Novecento, il Sud Italia versava in condizioni
drammatiche. Dopo che il protezionismo aveva rovinato l’agricoltura, l’emigrazione verso l’America fu, per milioni di poveri
contadini, l’unica alternativa alla miseria e alla fame.
La relativa [= confrontata con la situazione del Nord
– n.d.r.] povertà del Mezzogiorno era facilmente dimostrabile: il reddito pro capite era, nel 1900, meno della
metà di quello dell’Italia settentrionale; nel Mezzogiorno
viveva il 40 per cento della popolazione totale, ma nel
1911 il consumo di energia elettrica per usi industriali nel
Sud raggiungeva appena quello del solo Piemonte. Il
Mezzogiorno era arretrato anche in molti settori dell’agricoltura: la resa di 3-5 quintali di grano per ettaro costituiva la norma, e anche negli anni più favorevoli la resa
media nazionale di 10,5 quintali venne raramente raggiunta. Un quadro analogo offrono i dati sul tasso di
mortalità e sulle condizioni di abitazione: nel 1910-14 il
tasso nazionale di mortalità era del 19,2 per mille abitanti, ma nel Mezzogiorno il tasso più basso era del 19,7
per mille in Calabria, e quello più elevato del 22,6 in Basilicata. Mentre nel 1911 meno dell’un per cento della
popolazione di Genova, Firenze e Livorno viveva in una
sola stanza, a Bari la percentuale era del 42 per cento
(con una media di 4,7 persone per stanza) e a Foggia
del 70,5 (6 persone per stanza).
Il tasso di analfabetismo aumentava costantemente
a mano a mano che si scendeva verso sud: nel 1911 era
dell’11 per cento nel Piemonte, del 37 in Toscana, del
54 in Campania, del 65 in Basilicata e del 70 in Calabria;
in Sicilia la situazione era leggermente migliore con il 58.
(La media nazionale era del 37,6 per cento). I comuni più
isolati del Sud potevano toccare punte di analfabetismo
che arrivavano fino al 90 per cento. La deficienza di
scuole era scandalosa: nel 1907-1908 il Piemonte, con
3,4 milioni di abitanti, aveva 9000 scuole, mentre la Sicilia, con 3,6 milioni, ne aveva 5000. [...] I meridionalisti
sostenevano che la politica seguita dallo stato dopo l’unità aveva contribuito ad approfondire il divario. Dopo il
1887 il sistema tariffario [= il protezionismo sui manufatti
industriali – n.d.r.] aveva costretto il Sud a comprare a
prezzi elevati i prodotti industriali e a vendere a basso
prezzo i suoi prodotti agricoli. [...]
Se, nonostante tutto, tra il 1900 e il 1914 le condizioni del Mezzogiorno rurale migliorarono, ciò fu dovuto
non tanto all’azione governativa, quanto all’emigrazione,
un fenomeno di cui il governo non poteva certo menar
vanto. Il numero degli emigranti crebbe ogni anno (se si
eccettuano i periodi di stasi temporanea della crisi economica del 1907-1908 e della guerra libica del 1911), e
raggiunse nel 1913 la punta massima di 873000 unità:
nessun altro paese, tranne l’Irlanda, poteva vantare un
esodo così imponente. Il contributo del Mezzogiorno alla
corrente migratoria andò sempre aumentando e passò
da un quarto del totale negli anni ’80 fino a quasi la metà
tra il 1905 e il 1913. Questo spostamento dell’equilibrio
mutò anche la natura del fenomeno: l’emigrazione dall’Italia settentrionale e centrale era generalmente di carattere temporaneo, spesso solo stagionale, ed era
orientata soprattutto verso i paesi dell’Europa settentrionale, mentre l’emigrazione dal Mezzogiorno aveva un
carattere più duraturo, spesso permanente, ed era
orientata verso le due Americhe. Dopo il 1898 gli Stati
Uniti presero il posto del Brasile e dell’Argentina come
destinazione preferita degli emigranti, e più di tre degli
otto milioni di italiani che lasciarono il paese tra il 1901
e il 1913 si recarono negli Stati Uniti. Anche nel caso degli emigranti oltreoceano, tuttavia, la percentuale di quelli
che non tornavano più andò diminuendo: su ogni 100
emigranti, ne tornarono 40 nel periodo 1897-1901 e 68
nel periodo 1911-1913. È stato calcolato che tra il 1862
e il 1913 abbandonarono definitivamente l’Italia quattro
milioni e mezzo di persone.
L’esodo dal Sud era cominciato in Basilicata, Calabria e Campania negli anni ’80, e il movimento si era
esteso subito dopo all’Abruzzo: alla svolta del secolo, il
ruscello divenne una fiumana. La Sicilia contribuì al movimento migratorio solo in un secondo tempo, ma dopo
il 1904 diede ad esso il maggiore contributo. La Puglia
fu la sola regione del Sud in cui il tasso di emigrazione
fosse inferiore a quello medio nazionale. L’emigrazione
meridionale fu un fenomeno esclusivamente proletario,
uno spontaneo gesto di protesta contro condizioni di
vita insopportabili: cominciò nelle pianure e nelle zone
costiere, dove i contatti con il mondo esterno erano più
facili, e quindi si diffuse all’interno, raggiungendo le
punte più alte nelle zone montane più isolate, dove la
povertà era maggiore. Le città più grandi non diedero un
grande contributo all’emigrazione: alcuni emigranti erano
artigiani, ma la stragrande maggioranza erano contadini
e braccianti.
Coloro che possedevano terra, o godevano di condizioni di maggiore stabilità sul fondo [= sul podere che
coltivavano – n.d.r.], erano i più riluttanti a partire. Quattro quinti degli emigranti erano maschi, soprattutto tra i
20 e i 50 anni, sicché nelle zone più isolate era possibile
trovare villaggi abitati quasi esclusivamente da vecchi e
da bambini: fu proprio questo drenaggio di giovani energie verso terre straniere che colmò di indignazione i nazionalisti ed ispirò loro l’immagine di un’Italia proletaria.
C. SETON-WATSON, L’Italia dal liberalismo al fascismo
1870-1925, trad. di L. TREVISANI, Bari, Laterza, 1973,
pp. 357-358 e 365-366
Individua nel testo i principali indicatori relativi al sottosviluppo delle regioni meridionali, verso la fine dell’Ottocento.
Individua i caratteri fondamentali del fenomeno migratorio negli anni compresi tra il 1890 e il 1914.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 1
L’Italia meridionale all’inizio
del Novecento
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RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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I cattolici di fronte alla guerra di Libia
UNITÀ 1
In occasione della guerra di Libia, molti cattolici, per la prima volta, espressero la volontà di collaborare con lo stato unitario, uscito dal Risorgimento. Ormai lontana nel tempo, la questione del potere temporale del pontefice non era più sentita,
dalle nuove generazioni di cattolici, come un ostacolo decisivo, che avrebbe dovuto impedir loro di integrarsi a pieno titolo nella vita del Regno d’Italia.
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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«Viva Tripoli italiana», «Viva l’Esercito»: questo grido,
accompagnato da grandi applausi, interrompe un oratore della settimana sociale cattolica di Assisi, Vincenzo
Mangano, che sta delineando, agli attoniti congressisti,
un terribile quadro delle gravi conseguenze che potrebbe avere sulle ricchezze della Sicilia, il passaggio
delle miniere di zolfo della Tripolitania in mano ad un’altra potenza che non fosse l’Italia. Il Prefetto di Perugia,
Buraggi, si preoccupa di segnalare immediatamente
quel grido rivelatore, questa singolare manifestazione, al
Ministero dell’Interno: sicuro che Giolitti ne trarrà un ulteriore motivo di forza e di fiducia nelle storiche decisioni
che sta per assumere e che tutto il paese – cattolici
compresi – aspetta. [...]
Da anni un linguaggio e uno spirito nuovo circolavano [...] in campo cattolico. L’esercito italiano non era
più l’esercito specializzato nelle sconfitte, l’esercito trascinato «verso le roventi sabbie e i dirupi dell’Eritrea dalla
stessa giustizia provvidenziale e misteriosa che aveva
spinto Napoleone nei ghiacciai della Russia» [così la
Civiltà Cattolica commentò la disfatta di Adua, nel 1896
– n.d.r.], l’esercito del Faraone italico piegato dalla mano
del Negus [= imperatore d’Etiopia – n.d.r.] per ammonire
tutto il popolo sulla necessità di restituire la libertà al
Capo della Chiesa. Al contrario. I valori militari, di ordine,
di gerarchia, di disciplina, erano stati difesi e rivendicati,
contro tutte le negazioni socialiste, contro tutte le svalutazioni del sovversivismo, dagli organi cattolici anche
più animosi e intransigenti [= ostili allo stato unitario e liberale – n.d.r.].
La politica coloniale non era più giudicata con lo sfavore di una volta (chi avrebbe più scritto, come la Civiltà
Cattolica nel ’96, che si parteggia più volentieri per gli aggrediti che per gli aggressori?). Le forze armate erano
identificate col «più valido ostacolo all’avanzare del pericolo sovversivo» e messe addirittura sullo stesso piano
degli ordini religiosi (tanto che contro le une e gli altri «più
furiosamente si avventa la furia dei partiti sovversivi»).
Tutta l’azione per l’assistenza religiosa nell’esercito era
curata con particolare fervore, con eccezionale slancio;
ed in ogni ricreatorio militare che si creava [...] si inculcava
l’obbedienza «al Re, ai capi gerarchici, alle istituzioni». [...]
Giornali come l’Unità Cattolica, che continuano a parlare del Risorgimento come di un «delitto» (nello stile dell’ultimo Pio IX), di un crimine preordinato ai danni della
Chiesa e della religione, diventano sempre più rari, sempre meno ascoltati e autorevoli. [...] I cattolici giovani, coloro che sono nati dopo il 1870, non comprendono più
quel linguaggio, non sentono più l’urgenza del problema,
aprono il cuore a ogni possibilità di conciliazione o anche
soltanto di distensione. Nulla di eterno, di irrimediabile, di
«teologico» in quel conflitto: come invece avevano sentito
i clericali degli anni successivi a Porta Pia [= all’annessione
di Roma, nel 1870 – n.d.r.]. [...] La guerra di Libia scoppia quindi in un terreno preparato, favorevole ad un ulteriore avvicinamento di cattolici e liberali, ad un ulteriore incontro fra i valori di Patria e di Fede (quei valori che erano
stati custoditi nel segreto di tante coscienze, nello scrigno
di tante anime, ma si erano dilacerati «coram populo» [=
in pubblico – n.d.r.], nella vita ufficiale e pubblica. Oggi [=
nel 1911 – n.d.r.] il quadro è diverso, è irriconoscibile rispetto ai tempi del «dilaceramento».
Oggi non sono ancora aperte le ostilità in Libia, e
già parecchi vescovi, di propria iniziativa, senza neppure autorizzazioni superiori, avvalendosi di quel margine discrezionale che è proprio dell’autorità episcopale, indicono le orazioni «tempore belli» [= da recitare
in tempo di guerra – n.d.r.] per la vittoria delle armi italiane [...]. Oggi le festività tipiche della tradizione cattolica [...] rappresentano altrettante occasioni favorevoli
per auspicare la vittoria delle armi italiane, per tessere
paralleli arditi e immaginosi fra le vecchie crociate contro il turco e la nuova «guerra santa» dell’Italia contro
l’Islam, per istituire raffronti che non sono solo simbolici ed occasionali, ma valgono di auspicio per l’avvenire, di prefigurazione del futuro (di un futuro che risolva, sul piano internazionale, le lacerazioni interne,
che ricomponga, in Africa e nel Mediterraneo, l’unità
della Chiesa e dell’Impero).
G. SPADOLINI, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Mondadori,
Milano 1974, pp. 166-171
Che cosa distingue il comportamento tenuto dai cattolici negli anni Novanta, di fronte alla campagna di Etiopia,
dall’atteggiamento assunto all’epoca della guerra di Libia?
Che giudizio danno i cattolici, nel 1911, delle forze armate del Regno d’Italia?
Quali problemi non vengono più considerati gravi (e, al limite, non vengono neppure più compresi) dalle nuove generazioni
cattoliche?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
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l`epoca delle masse e e della velocità