unità 1 Tra ’800 e ’900: l’epoca delle masse e della velocità Riferimenti storiografici 1 Una folla di persone radunata in un campo per assistere alla partenza di un dirigibile, fotografia dei primi anni del Novecento. Sommario 1 2 3 4 Bilancio dell’economia italiana dall’unità alla prima guerra mondiale Spiritualità e razzismo nelle opere di Wagner La psiche umana secondo la concezione di Sigmund Freud La novità storica del boulangismo F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 5 6 7 8 9 L’antisemitismo in Francia alla fine dell’Ottocento Georges Sorel e il movimento operaio all’inizio del Novecento Charles Maurras, reazionario moderno L’Italia meridionale all’inizio del Novecento I cattolici di fronte alla guerra di Libia 1 Bilancio dell’economia italiana dall’unità alla prima guerra mondiale UNITÀ 1 L’Italia del periodo compreso tra il 1861 e il 1914 era ancora una potenza di seconda categoria, nel panorama europeo. Eppure, essa registrò alcuni significativi passi in avanti sia nel campo demografico che in quello industriale. Il principale problema restava la divaricazione del Paese in due aree nettamente distinte: mentre il Nord iniziò a integrarsi nel sistema economico mondiale, il Sud rimase periferico e arretrato. TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 2 Nel periodo immediatamente successivo all’unificazione nazionale, il regime demografico italiano presentava ancora i segni caratteristici di una situazione economicosociale scarsamente evolutiva. Il ritmo di crescita della popolazione era – a confronto di altri paesi europei – abbastanza ridotto, e i livelli di mortalità, nonostante la rarefazione e l’attenuazione delle crisi, ancora assai elevati: la speranza di vita alla nascita era molto al di sotto dei 40 anni, e il quoziente di mortalità infantile superava il 200%. Occorre aggiungere che la densità demografica era, in rapporto alle risorse naturali del territorio, assai elevata. A partire dal 1870, gli effetti della grande crisi agraria, sommandosi all’aumento del saldo naturale della popolazione determinato da un incipiente declino del tasso di mortalità [l’aumento demografico, provocato dalla crescita del numero dei soggetti in vita, rispetto ai decessi, n.d.r.], portarono a una situazione di sempre più acuta pressione demografica, che innescò il grandioso fenomeno dell’esodo di massa verso i paesi transoceanici. La rottura degli antichi equilibri, e i rapidi mutamenti dell’assetto economico-sociale, susseguenti al processo di unificazione politica si tradussero in una differenziazione dei regimi demografici. Il declino della mortalità e della natalità investì dapprima le aree – prevalentemente collocate nel settore nordoccidentale – che beneficiarono dell’inserimento dell’Italia nel contesto dello sviluppo europeo, e che furono interessate da processi di modernizzazione in agricoltura e (a partire dagli ultimi anni del secolo) dal take-off [decollo, n.d.r.] industriale; la gran parte dell’Italia rurale della mezzadria e del latifondo, che rimase esclusa da ogni processo di sviluppo sociale ed economico, fu segnata anche da una più lunga stabilità del regime demografico tradizionale. Complessivamente, tuttavia, il periodo di 20-25 anni compreso fra l’ultima decade del secolo XIX e l’inizio della Grande guerra vide svilupparsi, pur con forti differenziazioni regionali, un processo di mutamento del regime demografico assolutamente nuovo: si innescò quel declino irreversibile della mortalità e, con qualche ritardo, della fecondità, che doveva giungere a conclusione nella seconda metà del secolo XX, ma che, allo scoppio del primo conflitto mondiale, aveva già visto il tasso di natalità ridursi dal 38 al 30% e il tasso di mortalità addirittura dal 30 al 18‰. Questo processo, iniziato in Italia con ritardo rispetto agli altri paesi europei, ma compiutosi poi con maggiore rapidità, costituì un’autentica rivoluzione demografica, dal momento che, per la prima volta nella lunga storia dell’uomo, i meccanismi che consentono la riproduzione delle popolazioni F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 iniziarono a essere controllati, in misura via via crescente, dalla società, e divennero sempre meno dipendenti dalle pressioni ambientali. Nel campo della lotta per la sopravvivenza, le grandi scoperte della batteriologia, che costituirono una delle novità più importanti dell’ultimo scorcio del secolo XIX, ebbero un effetto immediato nella lotta contro le malattie infettive, soprattutto perché consentirono di rendere più efficaci le misure profilattiche [di prevenzione delle malattie, n.d.r.]. […] D’altra parte, la diffusione delle nuove conoscenze (nel campo medico e in quello igienico) e i conseguenti guadagni nella sopravvivenza, soprattutto infantile, tardarono a concretizzarsi nelle aree socialmente ed economicamente più svantaggiate, dove stentarono anche ad apparire i primi segni di quella propensione al controllo volontario del processo riproduttivo che – fin dalla fine del secolo XIX – aveva cominciato a manifestarsi nelle aree e negli strati sociali culturalmente più evoluti. Questa nuova attitudine (che doveva portare la fecondità italiana da circa 5 figli per donna, all’indomani dell’unificazione, sino al minimo attuale di 1,3) si sviluppò seguendo due direttrici: dalle regioni e province del Nord verso quelle del Mezzogiorno, e dalle popolazioni urbane a quelle rurali. L’eccezione più rilevante è costituita dall’area veneta, dove il permanere di un’elevata fecondità, in presenza di un calo assai rapido della mortalità, determinò – fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX – un incremento demografico eccezionale, che fu uno dei fattori del grande esodo delle popolazioni venete verso le Americhe. […] Nel cinquantennio postunitario l’economia italiana si è sviluppata meno di altre, come la tedesca o la danese, che con una crescita rapidissima raggiunsero i battistrada della prima rivoluzione industriale; e si è sviluppata meno sicuramente di quanto non avrebbe potuto con politiche più accorte; ma comunque è cresciuta più di tantissime altre, in Europa e altrove, che poco o nulla abbandonarono schemi e ritmi tradizionali. Bene o male, l’Italia si era inserita nel gruppo ancora ristrettissimo dei paesi che si modernizzavano; la valutazione complessiva di quel periodo non può essere pertanto che positiva. La controprova della trasformazione dell’economia italiana si ritrova nell’evoluzione del commercio estero. Il neonato regno esportava i prodotti del suolo e del sottosuolo, e importava manufatti e prodotti tropicali. Fra le esportazioni primeggiava la seta, appena dipanata dai bozzoli e pertanto prodotto agricolo assai più che industriale; seguivano l’olio d’oliva, e poi vari generi quali la canapa greggia, lo zolfo della Sicilia, il marmo delle Alpi Apuane. Fra le importazioni spiccavano i manufatti di cotone, lana e seta prodotti dai paesi industrialmente avanzati e in second’ordine i generi di consumo ottenuti sotto altri climi, quali lo zucchero o il caffè. Alla vigilia della Grande guerra, con un interscambio più che triplicato, il quadro era molto diverso. La seta era ancora l’esportazione più importante, anche se con una quota piuttosto ridimensionata; ma si era sviluppata l’industria di trasformazione, e l’Ita- lia vendeva all’estero i prodotti finiti che prima comprava. Si erano anche invertiti i flussi netti di filati e tessuti di cotone: il cotonificio italiano si era affermato, e fra le esportazioni i manufatti di cotone erano superati in valore solo dalla seta. […] Non si può non riconoscere anche i limiti dello sviluppo economico postunitario: i limiti geografici, che tramandarono alle generazioni più recenti il problema del Mezzogiorno, e ancor più i limiti sostanziali, che lasciarono l’Italia nella posizione di parente povero dei paesi ricchi. È sintomatica qui la massiccia emigrazione di quei tempi: non per formare, come gli inglesi, i quadri dirigenti o per lo meno le classi medie dei paesi nuovi, ma per prestarsi, come gli extracomunitari oggi in Italia, in condizioni durissime ai lavori più umili e precari. C.M. CIPOLLA, Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi, Mondadori, Milano 1996, pp. 157-159, 162-163 UNITÀ 1 Quali cambiamenti subirono il tasso di mortalità e quello di fertilità? Quale dinamica caratterizzò l’incremento demografico italiano? Quale particolarità demografica presenta l’area veneta, rispetto al Sud, da un lato, e al resto del Nord, dall’altro? Che cosa distingueva l’emigrazione italiana da quella britannica, all’inizio del Novecento? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 3 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 2 Spiritualità e razzismo nelle opere di Wagner UNITÀ 1 Le opere di Richard Wagner celebravano la grandezza e la purezza dello spirito tedesco, contrapposto alla grossolana e materialistica civiltà moderna: gli eroi wagneriani erano infatti casti, coraggiosi e disponibili a sacrificarsi per un ideale. TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 4 Le idee di Wagner hanno un’importanza particolare data l’influenza esercitata da Bayreuth [la città bavarese in cui le opere di Wagner erano rappresentate ogni anno, in un vasto teatro progettato dallo stesso compositore, n.d.r.] non solo durante la vita del compositore, ma anche molto tempo dopo la sua morte, e dato che il circolo wagneriano, presieduto dapprima dalla moglie Cosima e poi dalla nuora Winifred, diventò per molta parte della destra tedesca simbolo di cultura. Le rappresentazioni di opere eseguite annualmente sin dal 1876 erano «festival» che davano concretezza alle sue idee astratte. L’iniziativa era sostenuta da una martellante campagna propagandistica condotta dal [giornale, n.d.r.] “Bayreuther Blaetter” e anche mediante libri e opuscoli. Contemporaneamente Bayreuth proprio in quanto centro culturale divenne anche centro di idee razziste, dove i neofiti facevano atto di venerazione all’altare del sangue germanico e del mito teutonico (benché Cosima fosse per metà francese e Winifred di nascita inglese). […] La progressiva conversione di Wagner al razzismo fu accompagnata da un certo fervore protestante, e il protestantesimo non solo lo portò a considerare di tanto in tanto i gesuiti in particolare come partecipanti alla cospirazione contro la Germania, ma gli offrì anche la possibilità di separare Cristo dalle sue origini ebraiche. […] Molti protestanti in Germania avrebbero concordato con l’affermazione di Cosima Wagner che Cristo non era legato da alcuna parentela con il Dio ebraico, ma era un messia personale di coloro che conoscevano e donavano l’amore, cosa che l’ebreo non era in grado di fare perché privo dell’animo e del sangue adatti. Un cristianesimo concepito come avulso dalle sue storiche radici ebraiche e visto invece come parte integrante della missione germanica pervade numerose opere wagneriane: il peccato, il pentimento e la salvezza sono i concetti chiave sia del Lohengrin (1850) che del Parsifal. […] Lohengrin e Parsifal sono entrambi basati sul mito del Graal – il vaso in cui furono raccolte le gocce del sangue di Cristo morto sulla croce. Il «santo sangue» di Cristo […] è affidato alla custodia dei cavalieri germanici, ed essi lo difendono con le loro spade e la loro purezza morale. […] Ancora, il pentimento e la morte di Tannhaeuser (l’opera fu eseguita per la prima volta nel 1845) erano concepiti come espiazione per i piaceri sensuali cui si era abbandonato sul Monte di Venere e la sua salvezza finale era il frutto della pia morte della casta Elisabetta. Anche Par- sifal resisteva alle tentazioni della carne quando difendeva il Sacro Graal e le eroiche lotte di Sigfrido e Brunilde erano collegate con il cristianesimo sentimentale di Lohengrin, Parsifal e Tannhaeuser: la moralità delle classi medie entra in scena ancora una volta a rendere i tedeschi i degni custodi del Sacro Graal. […] L’idea razzista di Wagner (che lo portò a solidarizzare con Gobineau) è esposto anche nei suoi scritti in prosa, ma erano le sue opere, secondo le sue parole, le sue «gesta» a favore della Germania; esse erano veri e propri festival, miranti a iniziare i tedeschi al sogno ariano; e una volta che avessero sognato, essi avrebbero potuto tradurre il sogno in realtà. Era questo un misticismo atto a procurare gioia e commozione a gente rispettabile. I festival dovevano servire per le folle, non già per i pochi che leggevano la prosa di Wagner. Le opere erano ascoltate con commozione e soprattutto attraverso la loro trama Wagner comunicava la concezione teoretica su cui esse si basavano. La giustificazione filosofica sarebbe seguita in un secondo momento e fu Houston Stewart Chamberlain a fornirla, benché anche altri, meno famosi, diedero il loro contributo. Chamberain era un ammiratore di Wagner, pur non avendolo mai conosciuto personalmente; egli fu introdotto nel circolo wagneriano di Bayreuth per interessamento di Cosima, dopo la morte di Richard […] e alla fine sposò una figlia di Wagner. Il suo famoso libro I fondamenti del XIX secolo (Die Grundlagen des XIX Jahrhunderst, 1899) è stato considerato espressione della filosofia ufficiale di Bayreuth. In realtà in nessun’altra nazione è esistito alcunché di simile al circolo wagneriano e il suo ruolo nel radicare in Germania il mistero della razza non può essere sottovalutato. Per molti tedeschi i festival di Bayreuth, la personalità di Cosima e i due volumi di Chamberlain rappresentarono l’intera cultura tedesca. […] Chamberlain vedeva negli ebrei un popolo asiatico che era entrato nella storia europea contemporaneamente ai germani e che al pari di loro era riuscito a preservare la sua purezza razziale: egli sosteneva che lo spirito ebraico era materialistico, legalistico e privo di tolleranza e moralità e ne trovava la conferma nel Vecchio Testamento. A parere di Chamberlain gli ebrei erano il diavolo e i tedeschi il popolo eletto; al di fuori di essi esisteva una mescolanza caotica di popoli, spettatori passivi della battaglia decisiva della storia; l’esito della lotta tra ariani ed ebrei avrebbe deciso se il vile spirito ebraico avrebbe trionfato sull’anima ariana, trascinando alla rovina, insieme con questa, il mondo intero. G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 111-117, trad. it. L. DE FELICE Quale concezione di Gesù si aveva nel circolo di intellettuali che ruotava intorno a Richard Wagner? Quale concezione aveva Wagner del cristianesimo? Si può definire neoromantica la figura di Wagner? Quali punti di contatto individui con il Romanticismo dell’inizio dell’Ottocento? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il metodo di lavoro freudiano si sforzò di tenere sempre unite teoria e prassi clinica. Man mano che procedeva nel suo lavoro terapeutico, Freud elaborò un modello teorico, capace di spiegare i diversi fattori che si intrecciavano e contribuivano a costruire i meccanismi di funzionamento della psiche. «Ci rappresentiamo l’apparato ignoto che serve per l’esecuzione delle operazioni psichiche proprio come uno strumento costruito di più parti – che chiameremo istanze – ciascuna delle quali ha una sua particolare funzione. Esse presentano fra loro una stabile connessione spaziale: in altri termini, la relazione spaziale – avanti e indietro, superficiale e profondo – ha per il momento per noi solo il significato di una rappresentazione di una regolare successione delle funzioni». Con ciò Freud vuole significare che questa distinzione in spazi ha valore puramente simbolico e non rimanda a nessun principio di carattere anatomico, cioè a zone del cervello; è un modo di rappresentarsi visivamente le diverse funzioni di questo apparato psichico. Una posizione centrale tra queste istanze spetta all’Io. Che cosa è questo Io, cioè in che cosa consiste la sua funzione? […] L’Io ha una funzione di organizzazione e mediazione. Ma che cosa organizza e media? E da dove proviene il materiale (se così possiamo chiamarlo) da organizzare e mediare? «Oltre a questo Io riconosciamo un altro territorio psichico, più esteso, più vasto e più oscuro dell’Io, e lo chiamiamo Es». Es corrisponde al pronome impersonale tedesco e, secondo Freud, era particolarmente adatto a esprimere una forza impersonale «da cui veniamo vissuti, mentre crediamo di essere noi a vivere». Mutuò questo termine da Groddeck, suo contemporaneo, con il quale Freud intrattenne un’interessante corrispondenza. «L’Io è come una sorta di facciata dell’Es, come un avancorpo, o come lo strato esterno, superficiale dell’Es. Atteniamoci a quest’ultima immagine: gli strati superficiali, si sa, debbono le loro caratteristiche specifiche all’influenza modificatrice del mezzo esterno con cui sono a contatto. Immaginiamo dunque che l’Io sia quello strato dell’apparato psichico, dell’Es dunque, che è stato modificato dall’azione del mondo esterno… L’Io si trova intercalato tra la realtà e l’Es». Esiste una forte contrapposizione tra Io ed Es; per l’Io valgono leggi diverse che per l’Es; l’Io persegue scopi diversi con mezzi diversi. […] Nell’Es non vi sono conflitti; termini contraddittori, fattori contrari possono coesistere senza disturbarsi reciprocamente, ma componendosi invece spesso in formazioni di compromesso. L’Io avverte invece, in si- mili casi, un conflitto che deve essere risolto, e la soluzione non può essere che l’abbandono di un’aspirazione a profitto dell’altra. L’Io è un’organizzazione caratterizzata da una straordinaria tendenza all’unificazione, alla sintesi; questo carattere invece manca all’Es; è per così dire scisso in modo che le sue singole tendenze perseguono i loro scopi indipendentemente e senza riguardo. Tutto quello che avviene nell’Es è e rimane inconscio. I processi dell’Io possono divenire coscienti, ma non tutti, non sempre e non necessariamente: grandi parti dell’Io possono restare stabilmente inconsce. […] Proseguendo nella descrizione dell’apparato psichico, vediamo che le funzioni al suo interno non si limitano all’Io e all’Es. Abbiamo già visto nell’Interpretazione il fenomeno della censura. Essa opera nel sogno a produrre la deformazione onirica, e in altre formazioni psicopatologiche [in situazioni psichiche problematiche, caratterizzate da nevrosi, n.d.r.] a produrre il sintomo. Di questa istanza censoria […] è responsabile il Super-Io: «Siamo infatti stati costretti ad ammettere che nell’Io stesso si è venuta differenziando un’istanza particolare che diciamo Super-Io. Questo Super-Io ha una posizione speciale tra l’Io e l’Es. Esso è il residuo dei primi amori dell’Es, l’erede del complesso edipico dopo che questi è stato abbandonato. Questo Super-Io può contrapporsi all’Io e trattarlo come un oggetto, e lo tratta effettivamente spesso assai duramente. Per l’Io è altrettanto importante andare d’accordo col Super-Io come con l’Es. Lei avrà indovinato che il Super-Io è la sede di quel fenomeno che diciamo coscienza morale». Nell’uomo dunque esistono, accanto alle pulsioni che tendono brutalmente alla soddisfazione, anche imperativi, divieti, ideali che un tempo appartennero a quegli individui che da piccoli apparvero come superiori e che, in genere, sono rappresentati dai genitori del bambino (Questo significa i primi amori dell’Es). La personalità umana, secondo Freud, si trova quindi in questa posizione difficile: l’Io deve continuamente mediare tra le esigenze dell’Es, che richiederebbero un appagamento immediato secondo il principio del piacere, e il mondo esterno che pone altre esigenze secondo il principio di realtà. Deve, inoltre, tener testa anche alle esigenze che gli pone la sua coscienza morale, cioè il suo Super-Io; è quindi impegnato in una lotta eternamente conflittuale su tre fronti in un tentativo di sintesi soddisfacente. B. ZANUSO, La nascita della psicoanalisi. Freud nella cultura della Vienna fine secolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 148-151 Spiega l’affermazione «L’Io si trova intercalato tra la realtà e l’Es». Spiega le espressioni deformazione onirica, principio del piacere e principio di realtà. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 1 La psiche umana secondo la concezione di Sigmund Freud 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 3 4 La novità storica del boulangismo UNITÀ 1 Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, gran parte delle idee che saranno riprese e sviluppate dal fascismo italiano maturarono in Francia, nei decenni compresi tra il 1880 e il 1910. Naturalmente, secondo Sternhell, bisogna superare la tradizionale impostazione secondo cui l’ideologia del fascismo non aveva spessore culturale, ed era pura propaganda, diffusa in mala fede da individui che a loro volta erano manipolati dal grande capitale. A suo giudizio, la nuova ideologia nacque dalla fusione di elementi eterogenei che, in comune, avevano soprattutto l’odio per la borghesia, per il liberalismo e per il sistema parlamentare. Il boulangismo occupa un posto centrale nella ricostruzione di Sternhell: a suo parere, fu il primo movimento di massa (populista) capace di catalizzare tutti gli scontenti della democrazia e del sistema capitalistico. TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 6 Il disagio intellettuale, le tensioni politiche, i conflitti sociali che percorrono la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo esprimono tutti un ulteriore fenomeno rappresentato dalle enormi difficoltà incontrate dal liberalismo nel tentativo di adattarsi alla società di massa. Intorno alla fine del secolo gli effetti di quell’autentica rivoluzione intellettuale che fu il darwinismo, quelli dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione del continente e infine quelli del lungo processo di nazionalizzazione delle masse cominciano a farsi sentire. I contemporanei che avvertivano di trovarsi sul limitare di una nuova epoca dunque non si ingannavano. «L’età in cui entriamo sarà davvero l’età delle folle», scrive Le Bon. «Non è più nei consigli dei principi, ma nell’anima delle masse che si preparano i destini delle nazioni». L’ingresso delle nuove masse urbane nel territorio della politica pone al liberalismo dei problemi sconosciuti fino a quei tempi. Il liberalismo è un’ideologia fondata sull’individualismo e sul razionalismo; è il prodotto di una società che non prevedeva di dover subire ulteriori mutamenti strutturali e in cui, necessariamente, la partecipazione politica era estremamente limitata. A fine secolo, invece, sono sempre più numerosi coloro che mettono in discussione la funzionalità di un’ideologia nella quale le nuove classi sociali, milioni di lavoratori e di salariati di tutte le categorie, ammassati nei grandi centri industriali, non potevano riconoscersi. […] Il boulangismo rappresenta la prima espressione della crisi dell’ordine liberale – che costituisce un fenomeno costante del mezzo secolo di storia che precede il 1940 – in una politica di massa. La prova di forza tentata dall’estrema sinistra radicale e blanquista contro la democrazia liberale si spiega innanzitutto con la politicizzazione delle nuove masse urbane. […] Riteniamo importantissima la tappa del boulangismo perché in Francia ha rappresentato il primo punto di congiunzione fra il nazionalismo e una ben precisa forma di socialismo non marxista, antimarxista e già postmarxista. […] L’estrema sinistra blanquista era convinta che il boulangismo esprimesse una forma di rivolta contro la società borghese e contro la democrazia liberale. Lafargue o Èmile Eudes, l’erede spirituale di Blanqui e capo dei suoi seguaci, non dubitavano che fosse opportuno sostenere il boulangismo nella sua opera di distruzione dell’ordine F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 costituito. L’antiparlamentarismo d’altra parte è uno degli aspetti più caratteristici della guerra dell’estrema sinistra contro il liberalismo. Altri due elementi si innesteranno sull’antiparlamentarismo, che era comunque la traccia di una certa tradizione giacobina, che vediamo rinascere nei radicali di estrema sinistra: il blanquismo e il nazionalismo. Il blanquismo si ribella al sistema borghese, il nazionalismo all’ordinamento politico che ne è l’espressione. Questi tre elementi convergono in una comune opposizione alla democrazia liberale: la loro sintesi si esprimerà nel boulangismo intorno alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo e, dieci anni più tardi, risorgerà nel nazionalismo antidreyfusardo. […] Dopo la Grande Guer-ra questa sintesi assumerà il nome di fascismo. Nel boulangismo convergono forze politiche diverse che volevano infrangere a ogni costo l’immobilismo del regime parlamentare: è il primo episodio della lunga serie di assalti che aggrediranno la democrazia liberale. Emerge allora per la prima volta un processo che poi diventerà il meccanismo classico del prefascismo, e più tardi del fascismo: lo spostamento verso la destra radicale di elementi di idee sociali avanzate e fondamentalmente antiliberali, che professano però un marxismo dubbio, o un socialismo esplicitamente antimarxista, oppure, come alla vigilia della guerra, abbandonano il marxismo per un’altra forma di solidarietà rappresentata dal nazionalismo. […] Non necessariamente la revisione del marxismo genera da sola lo slittamento verso la destra radicale: è indiscutibile. Se all’abbandono delle posizioni ideologiche della sinistra rivoluzionaria si accompagna l’accettazione dei principi di base e delle regole del gioco della democrazia liberale, nascono le varie forme di quel socialismo democratico che, con Bernstein, Jaurès e Turati, si è profondamente radicato nell’Europa occidentale. Quando invece il processo di revisione del marxismo si associa all’antiliberalismo, al rifiuto del parlamentarismo e del sistema dei partiti, all’autoritarismo e all’appello all’unità nazionale, al di là degli interessi di classe, l’esito è del tutto diverso. Nel momento in cui tutte queste condizioni sono compresenti, l’equazione fascista diviene praticamente inevitabile. […] Socialismo e nazionalismo, nella mentalità dei ribelli di fine secolo, come in quella dei fascisti degli anni 1920-1930, rappresentano due aspetti dell’antiliberalismo, due forme dello stesso rifiuto dell’individualismo democratico, due ideologie che considerano l’individuo solo come parte integrante di un tutto organico. «L’idea socialista è un’idea organizzatrice se viene purgata del veleno liberale, che non le è affatto necessario», afferma Barrès. I boulangisti contrappongono il culto del capo al parlamentarismo; il senso dell’autorità alla pretesa incoerenza delle istituzioni; e al capitalismo, un populismo basato su un parossismo verbale antiborghese destinato soprattutto a mobilitare gli strati popolari. I trionfi del boulangismo, anche se effimeri, dimostrano che la sinistra non era sempre esente dal culto dell’uomo forte, che poteva facilmente rassegnarsi alla sconfitta di una Repubblica che non rispondeva ai suoi ideali, che non era insensibile alla demagogia se essa avesse indicato alla vendetta popolare i magnati della finanza. Il successo riportato da questa convergenza di temi ideologici e di temi politici e sociali, considerati normalmente come antagonistici, ne spiega la gravità, dimostra la vulnerabilità della democrazia liberale e anticipa l’avvento di una nuova epoca. Z. STERNHELL, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia, Baldini Castoldi, Milano 1997, pp. 94-99, trad. it. M.G. MERIGGI UNITÀ 1 Spiega l’affermazione «Il blanquismo si ribella al sistema borghese, il nazionalismo all’ordinamento politico che ne è l’espressione». Socialismo e nazionalismo accusavano il sistema borghese di individualismo e di egoismo. Esponi le ragioni di tale accusa. Spiega l’espressione «parossismo verbale antiborghese». RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 5 L’antisemitismo in Francia alla fine dell’Ottocento UNITÀ 1 Alla fine dell’Ottocento, in Francia, gli ebrei divennero il capro espiatorio privilegiato di tutti gli individui scontenti e dei gruppi minacciati dalla rapida evoluzione economica, politica e sociale della Repubblica sorta nel 1870. TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 8 Che cosa rese tanto popolare la nuova mitologia antiebraica? Una paura profonda e ampiamente diffusa dei mutamenti sociali, rispondono alcuni storici, una profonda angoscia e un senso di sconforto di fronte alle forze che stavano trasformando la società francese. Da questo punto di vista, l’antisemitismo aveva poco a che fare con gli ebrei in carne e ossa; questi ultimi non erano che un simbolo, efficace e a portata di mano, della minaccia insita nei mutamenti in corso. Il coro della propaganda antiebraica sviluppò soprattutto tre temi, ognuno dei quali contribuì alla creazione della nuova immagine mitica dell’ebreo. Il primo fu il cri de coeur [lamento appassionato, n.d.r.] della piccola borghesia: negozianti, artigiani, impiegati e in genere tutti coloro ai quali il nascere in Francia di moderni modi di produzione e distribuzione su vasta scala pareva profondamente ingiusto. Molti trovarono nell’antisemitismo semplicemente un modo per esprimere il proprio rifiuto delle iniquità che sembravano in un certo senso costituire l’essenza della modernizzazione. Questo tipo di antisemitismo era populista; l’ebreo quindi veniva solitamente dipinto come un capitalista sfruttatore, collegato a una rete finanziaria internazionale, che in qualche oscura maniera stava assumendo il controllo dei destini economici dell’onesta e laboriosa gente di Francia. Nel suo Testament d’un antisémite, Drumont si presentò al pubblico come un difensore dei poveri e degli oppressi, un profeta della giustizia sociale. La rivoluzione antisemita che egli auspicava sarebbe stata una sorta di rivolta degli emarginati contro i ricchi: «I giorni dell’alta finanza cosmopolita sono contati. Grazie a noi, i nomi dei plutocrati che incarnano l’anima avida e intrigante del giudaismo si sono impressi nelle menti delle masse in tal guisa [maniera, n.d.r.] che nulla potrà cancellarli. Queste «masse» […] consisterebbero in una specie di universale confraternita di francesi, resi solidali dalla miseria e dall’alienazione, queste ultime causate, naturalmente, dagli ebrei. Un giorno, Drumont scrisse: «Un uomo del popolo assumerà la guida della nostra campagna, un leader socialista che non si lascerà comprare dalla Sinagoga, come invece han fatto tanti suoi compagni; raccoglierà intorno a sé migliaia di persone, quelle che noi abbiamo contribuito a ridestare e istruire, gli sfruttati di tutte le classi, i piccoli commercianti rovinati dal proliferare delle catene di grandi magazzini, i lavoratori rurali e urbani calpestati dai monopoli». Ecco dunque un socialismo interclassista, un movimento politico cui la lotta di classe era per principio estranea, almeno per quanto riguardava la Francia. Un socialismo che faceva a meno del complesso bagaglio teorico della sinistra, F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 perché nella sua estrema semplificazione riduceva tutti i problemi a uno solo. Un socialismo che non rivolgeva più il proprio appello solo a chi non aveva altra ricchezza che la forza delle proprie braccia, ma a qualsiasi cittadino francese che gradisse la consolazione di sentirsi vittima dei giudei venuti da fuori. […] Il secondo importante tema antisemita recava il marchio del cattolicesimo popolare […]. Esso consisté nel dipingere l’ebreo come un temibile antagonista della Chiesa e della brava gente timorata di Dio. Riecheggiando la tradizionale accusa di deicidio [secondo cui gli ebrei erano stati i principali responsabili della morte di Cristo, Figlio di Dio, n.d.r.], si sostenne che in tempi moderni l’odio degli israeliti per Cristo e i suoi seguaci avrebbe assunto la forma di un lavorio volto a indebolire e infine abbattere i pilastri del cristianesimo francese. […] Uno dei giornali francesi più moderni dal punto di vista tecnico, “La Croix”, organo della Confraternita Assunzionista, raggiunse un enorme diffusione al tempo dell’Affare Dreyfus. Un antisemitismo che non pare eccessivo definire fanatico, vi si combinava con altri elementi appetibili dai lettori cattolici, clericali e laici. Secondo “La Croix” gli ebrei erano diventati addirittura i padroni della Repubblica, e ad essi si doveva l’invenzione del socialismo, del materialismo e dell’anticlericalismo, strumenti ideologici approntati per propagandare il loro anticristianesimo. Violento e razzista, il giornale lasciava ben poco all’immaginazione quanto ai misfatti che il giudaismo avrebbe compiuto o si sarebbe apprestato a compiere. In pratica, tutte le difficoltà e contraddizioni della società moderna venivano collegate alla cospirazione ebraica volta a distruggere la Francia e il cristianesimo in generale. […] Il nazionalismo è alla base del terzo argomento antisemita che risuonò spesso nel periodo dell’Affare Dreyfus. I nazionalisti antisemiti si distinsero perché si mostrarono abitualmente più preoccupati dei presunti nemici interni che degli avversari esterni del paese. Sembravano ossessionati dal timore che forze corrosive minassero le fondamenta della società francese, rendendola debole e demoralizzata. L’ebreo, in quest’ottica, era in primo luogo il cosmopolita privo di radici e di legami alla nazione, incapace di difendere altri interessi che i propri. M.R. MARRUS, Antisemitismo popolare, in N.L. KLEEBLATT, L’affare Dreyfus. La storia l’opinione l’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 101-105, trad. it. S. GALLI Spiega l’espressione «mitologia antiebraica». Spiega le espressioni «antisemitismo populista» e «socialismo interclassista». Come venivano descritti gli ebrei dal cattolicesimo popolare francese? Quali fenomeni erano loro attribuiti? All’inizio del XX secolo, numerose delle promesse e delle previsioni di Marx sembravano del tutto errate e inconsistenti. Il capitalismo era più forte che mai, non mostrava alcun segno di crollo imminente, anzi si rivelò capace di accettare il movimento operaio come interlocutore nel confronto tra le parti sociali. L’obiettivo che si propose Sorel fu di spezzare lo stallo che si era creato e di trovare nuovi mezzi per mantenere vivo lo spirito combattivo degli operai. Ai suoi occhi, la società borghese era immorale e corrotta: con essa, quindi, non era lecito alcun compromesso. Il revisionismo soreliano è profondamente radicato nelle realtà sociali del suo tempo e nel suo contesto ambientale immediato. Non si tratta di un semplice esercizio intellettuale: Sorel si applica a sviluppare l’aspetto mitico e apocalittico del marxismo sullo sfondo dei grandi scioperi e dell’ascesa del sindacato nei primi anni del secolo. Lo sciopero e la violenza non sono metafore: nella Francia del 1906 si conta uno scioperante su sedici operai d’industria; in tutto, alcune centinaia di migliaia. E più numerosi ancora sono coloro che solidarizzano con i lavoratori in lotta. Lo sciopero colpisce tanto più l’opinione pubblica quanto più la sua durata è prolungata: nel 1902 gli scioperi raggiungono una durata media di ventidue giorni – rileva Madeleine Rebérioux [storica francese specializzata nello studio della Terza Repubblica francese, n.d.r.] – cioè più del triplo rispetto a trent’anni prima. L’anno 1904 è segnato da 1026 scioperi, circa il doppio dell’anno precedente; 271 097 operai si astengono dal lavoro, il che comporta quasi 4 000 000 di giornate lavorative perdute. Il movimento raggiunge il punto culminante nel 1906: 438 000 scioperanti – un record che non sarà mai superato prima della guerra – per 1039 scioperi della durata media di diciannove giorni. In alcuni casi, le condizioni di vita degli operai in sciopero sono miserande: alle ferriere di Hennebont, dall’aprile all’agosto di quell’anno, 1800 operai si nutrono di granchi pescati con la bassa marea e di qualche tozzo di pane; alla fine dello sciopero, la famiglia di un operaio che abbia scioperato può contare soltanto su 750 grammi di pane alla settimana. L’esercito spara e uccide: a Longwy nel settembre 1905, a Raon-l’Étape nel luglio 1907; nel bacino di Lens, dopo la catastrofe di Courrières [l’espressione designa il drammatico incidente che, avvenuto il 10 marzo 1907, provocò 1099 vittime: la più grave tragedia mineraria mai avvenuta in Europa, n.d.r.], l’entrata in scena della cavalleria provoca altri spargimenti di sangue. Le tensioni sociali raggiungono l’acme con il primo maggio del 1906. Per la prima volta, si è sistematicamente organizzata una mobilitazione operaia di ampiezza nazionale, e per il movimento sembrano aprirsi possibilità insperate. […] Il 1906 è anche l’anno delle Riflessioni sulla violenza e delle Illusioni del progresso. Il revisionismo rivoluzionario è il riflesso puntuale dell’epopea degli scioperi, di cui costituisce, di fatto la teoria, esprimendo la speranza F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 di un proletariato eroico, pronto a ogni sacrificio e cosciente della propria missione. Ma Sorel è dotato di sufficiente chiaroveggenza per non dimenticare il rovescio della medaglia: gli operai in sciopero non sono preoccupati dal destino della civiltà occidentale, quanto piuttosto dalle loro condizioni di vita e di lavoro; il fulcro delle loro rivendicazioni è la giornata lavorativa di otto ore, non certo la fine della cultura borghese. Comunque, il 13 luglio 1906, viene votata la legge che rende obbligatorie le 24 ore settimanali di riposo. La crescita economica non si arresta, e di pari passo migliora, grazie alla legislazione sociale, anche la condizione operaia: legge sulla protezione del salario femminile nel luglio 1907, legge sulle pensioni degli operai e dei contadini nell’aprile 1910. Se il primo maggio fa ancora paura ai proprietari, se la combattività degli operai è sempre su livelli altissimi, il capitalismo francese – come quello italiano e tedesco – si dimostra in grado, grazie al suo dinamismo, di affrontare ed assorbire le rivendicazioni sociali. […] È questa la situazione cui i rivoluzionari devono far fronte in qualche modo. Da un lato, si assiste allo sviluppo incontestabile della militanza operaia e ai sanguinosi scontri con lo stato borghese; dall’altro, una crescita economica quasi senza soluzioni di continuità ha il risultato, grazie a riforme che modificano profondamente le condizioni di vita del proletariato, di ridurre considerevolmente l’ardore rivoluzionario della classe operaia. La teoria soreliana dei miti trova dunque un senso profondo in questo contesto particolare: il suo obiettivo è lo sviluppo della coscienza di classe delle masse proletarie e il pieno mantenimento della loro combattività. Si tratta di dar vita a una élite operaia ben strutturata e organizzata sindacalmente, e di scavare un profondo fossato psicologico tra questa avanguardia e la borghesia al potere. Questo fossato psicologico deve essere approfondito di giorno in giorno, attraverso il rifiuto costante di ogni forma di collaborazione con lo stato borghese e coi suoi rappresentanti. È necessaria un’ostilità totale, senza cedimenti, che si manifesti in primo luogo con l’opposizione alle riforme sociali: così si realizzerà, grazie alla forza di volontà degli operai, la polarizzazione sociale, e l’attesa crisi del capitalismo, occultata e ritardata dalla crescita economica, diventerà infine realtà. Appare qui, con chiarezza, la funzione sociale della teoria dei miti. […] Il pensiero mitico si oppone al pensiero riflessivo e discorsivo, è una mentalità di tipo religioso che si ribella contro la mentalità razionalistica. La sua funzione immediata è quella di mobilitare le masse per cambiare il mondo. Il mito soreliano ha in sé un’enorme forza evocativa e di incitamento all’azione, è una fonte inestinguibile di rigenerazione, di moralizzazione e di eroismo. Il mito è unità di pensiero e azione, crea leggende e permette all’individuo di vivere nella leggenda invece che nella storia, trascendendo la bassezza del presente, armato di una fede che niente potrà distruggere. Ecco perché, in Sorel, UNITÀ 1 Georges Sorel e il movimento operaio all’inizio del Novecento 9 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 6 mito e razionalità si oppongono; ed è grazie a questa opposizione che il mito può costituire una forza concreta: galvanizzando le masse, esso permette di sormontare l’ostacolo costituito dalla realtà economica e sociale. […] Il mito si presenta dunque come uno strumento dotato di una straordinaria efficacia, con in più il vantaggio di essere totalmente immunizzato contro ogni rischio di fallimento: esso non può essere sottoposto ad un’analisi razionale di tipo classico, il che rende il suo raggio d’azione quasi illimitato. I miti soreliani sono dei «sistemi di immagini», cioè delle costruzioni grazie alle quali gli «uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie, per assicurare il trionfo della loro causa». Come esempi di mito degni d’essere ricordati, Sorel menziona «quelli che furono costruiti dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Ri- voluzione…»; in questo senso e allo stesso modo, sono miti anche «lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx». Sorel è perfettamente conscio dell’importanza di questa interpretazione irrazionalistica del marxismo […]. L’individuo formato nei sindacati è il produttore e il guerriero, nutrito di valori eroici, come lo erano i primi cristiani, i legionari romani, i soldati delle guerre rivoluzionarie o i discepoli di Mazzini; è un combattente assetato di gloria, votato all’abnegazione più completa e sempre pronto al sacrificio, come i soldati di Napoleone. Guidati dai miti, uomini come questi non si attendono risultati concreti e immediati, hanno orrore dell’utilità personale e voglia di sublime: sono i soli in grado di dominare la Storia. Z. STERNHELL, Le origini dell’ideologia fascista, Baldini Castoldi, Milano 1993, pp. 76-79, 84-88, trad. it. G. MORI UNITÀ 1 Come si concluse «l’epopea degli scioperi», cioè la grande ondata di lotte condotte in Francia dagli operai? Spiega l’affermazione secondo cui il mito «permette all’individuo di vivere nella leggenda invece che nella storia». Quale strategia politica sono portati ad adottare i partiti socialisti che seguono la razionalità? Quale strategia, invece, adotterà un’organizzazione operaia che si lasci guidare dal mito? TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 10 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La figura del fondatore dell’Action Française è per molti versi quella di un personaggio al confine tra due mondi. Per certi aspetti, ci appare ancora sbilanciato in direzione dell’Ancien Régime; tuttavia, il suo obiettivo primario era la guerra aperta contro la Terza Repubblica, il liberalismo e la democrazia, in termine che per certi versi anticipano il fascismo. La storia dell’Action Française inizia con l’affare Dreyfus. Da questa, che fu la meno sanguinosa di tutte le rivoluzioni, sono tuttavia derivate la partecipazione al governo dei socialisti, la separazione di Stato e Chiesa, l’effettiva sottomissione dei militari al potere civile. La differenziazione di socialismo e comunismo, l’origine del sionismo e il delinearsi delle estreme conseguenze immaginabili dell’antisemitismo sono, più o meno chiaramente, connessi all’affare Dreyfus. È tutt’altro che infondata l’opinione secondo la quale con esso avrebbe inizio, in Francia, il XX secolo, che nel resto d’Europa comincerebbe solo con la prima guerra mondiale. Sarebbe assai strano se proprio il partito conservatore, che in questa lotta fu vinto, ma in nessun caso distrutto, non avesse dato vita a una manifestazione di nuovo tipo proiettata nel futuro del periodo postbellico europeo. […] I fronti erano stabiliti. Chiunque parteggiasse per l’esercito e per la Chiesa, l’intero vastissimo gruppo della borghesia conservatrice, era decisamente contro Dreyfus. Chiunque avesse spirito anticlericale, e soprattutto le masse dei lavoratori socialisti, era raccolto in campo avverso. Un sorprendente mutamento: nel 1894, Jaurès aveva attaccato, alla Camera, il governo perché la sua magistratura di classe non aveva comminato la condanna a morte al ricco capitano Dreyfus; il promotore di tutta l’affaire, il generale Mercier, era un repubblicano anticlericale; la politica di ralliement [adesione alla Repubblica, n.d.r.] di Leone XIII aveva portato alla divisione dei cattolici in due raggruppamenti, progressista l’uno, reazionario l’altro. Ora, però, ecco sparire le sottili differenze, ecco la società polarizzarsi in due blocchi contrapposti, intenti ad accusarsi a vicenda di disegni criminosi. A decidere doveva per forza di cose essere lo spirito, l’intellighenzia [gli intellettuali più illuminati, n.d.r.] che in Francia ha tanto peso. A quanto pareva, essa sempre più largamente sposava la causa di Dreyfus: i professori universitari e i maestri di scuola ormai si dichiaravano, quasi senza eccezioni, per Dreyfus; esitava ancora l’enseignement secondaire [i docenti della scuola secondaria, n.d.r.]. Insieme con Reinach, Clemanceau [due dei numerosi giornalisti che si erano schierati a favore di Dreyfus, n.d.r.] aveva fondato la Ligue pour la défense des droit de l’homme e pubblicato un Manifeste des intellectuelles. Prendere posizione per Dreyfus, sembrava cosa in sé e per sé di natura intellettuale: resistenza opposta dagli uomini di pensiero e dai singoli alla fredda ragion di Stato e al cieco pregiudizio delle masse. E, se questa impressione si imponeva, era perduta la partita, per i nemici di Dreyfus. L’iniziativa più urgente era dunque di dar vita a un’unione dell’intellighenzia antidreyfusistica, e Maurras F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 ebbe in questo una parte cospicua. Il 31 dicembre 1898, vedeva la luce la Ligue de la patrie française. Il successo fu strepitoso: quasi l’intera Académie Française vi aderì; in brevissimo tempo a ben centomila ammontarono le iscrizioni. Evidentemente l’intelletto francese non era ancora tutto schierato dalla parte del traditore, contro la patria! […] L’Action Française è, dapprima, null’altro che un gruppetto, affatto privo di influenza, di giovani intellettuali, i quali dispongono solo di una piccola rivista e si riuniscono regolarmente al Café de Flore, dove hanno luogo interminabili discussioni: un gruppo i cui componenti sono di disparata origine culturale: positivisti, spinoziani, un protestante, pochissimi cattolici praticanti; tutti, però, fanaticamente persuasi essere loro compito quello di dar vita a una nuova dottrina politica, e che da questa dipenda la salvezza dello Stato. E in effetti, essi si trovarono a un crocevia di indirizzi ideologici e atteggiamenti politici. L’affare Dreyfus era stato di notevole importanza soprattutto nel senso che, sotto il suo segno, alleanze si erano scisse e scissioni si erano trasformate in alleanze. Fin dall’inizio, per la Rivoluzione Francese i concetti di nazione e patria e i concetti di umanità e diritti dell’uomo erano stati intercambiabili. Ma, in seguito all’affare Dreyfus, la Ligue de la patrie française e la Ligue pour la défense des droit de l’homme erano schierate in campi avversari. Certo, in pratica la contrapposizione era attenuata dal fatto che Clemanceau non cessava dall’essere un patriota né Barrès [scrittore nazionalista, n.d.r.] negava i propri legami con la Rivoluzione. Ma, dal punto di vista ideologico la dissociazione era ormai programmatica, tanto più che i socialisti da un pezzo si erano schierati con l’altra corrente. Evidentemente il nuovo nazionalismo sarebbe stato completo, integrale, soltanto quando si fosse totalmente sbarazzato delle idee della Rivoluzione francese. Ma in Francia, dall’esecuzione di Luigi XVI in poi, la monarchia (e non già l’impero, che veniva inteso come democrazia plebiscitaria), costituiva la vera antitesi della Rivoluzione; soltanto un nazionalismo monarchico, dunque, sarebbe stato un nazionalismo integrale, vale a dire antirivoluzionario, ma proprio per questo non conservatore nel senso abituale del termine. […] Un atteggiamento di tipo nuovo fu inaugurato in politica dall’Action Française anche mediante la sua presa di posizione nei confronti dei problemi religiosi. Certo, da un pezzo vari partiti laici avevano tentato di rafforzare la propria posizione ricorrendo all’appoggio della Chiesa Cattolica: […] ma non aveva precedenti il fatto che un gruppo politico, alla cui guida stavano atei e agnostici esaltasse il cattolicesimo quale il più valido dei fondamenti della Francia e, con pervicacia e abilità, si ergesse a difesa del Sillabo, quella dichiarazione di guerra della Chiesa alla società moderna, della quale perfino buoni cattolici preferivano non parlare. Ma la Chiesa era impegnata in una dura e testarda lotta col modernismo, e la Chiesa aveva pochi alleati. Il Vaticano era l’unica potenza mondiale che prendesse affatto sul serio l’Action Française già nel 1910. […] La Chiesa UNITÀ 1 Charles Maurras, reazionario moderno 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 considera l’Action Française come un mezzo valido, ancorché impuro, di cui non vuole privarsi prima che abbia reso i suoi servigi. Ma non era, anche Maurras, la Chiesa un mezzo, e non patisce danni nell’animo qualunque istituzione la quale si lasci anche solo considerare da estranei, senza opporre resistenza, un mezzo? Una straordinaria ambiguità aduggia [intristisce, n.d.r.] pertanto, già in quei giorni felici, i rapporti tra Action Française e Chiesa Cattolica. Ambiguo e oltretutto inefficace, rimase anche il tentativo di alleanza con un’altra grande potenza, giovanissima, poco più che un abbozzo ancora, ma straordinariamente gravida di futuro: il sindacalismo. […] La comune ostilità alla repubblica costituì il fondamento e il punto di partenza. Sotto il protettorato di Maurras, aderenti all’Action Française e seguaci di Georges Sorel si unirono in un Cercle Proudhon [Circolo Proudhon, n.d.r.], che disponeva di propri Cahiers [Quaderni, n.d.r.], nella cui prima dichiarazione si afferma, con una caratteristica commistione di concezioni socialistiche e nazionalistiche: «La democrazia costituisce il maggior errore del secolo scorso… Essa ha permesso, in economia e in politica, la costituzione del regime capitalistico, il quale distrugge, nello Stato, ciò che le idee democratiche portano a dissoluzione nello spirito, vale a dire la nazione, la famiglia, i costumi, in quanto sostituiscono alle leggi dello spirito le leggi dell’oro». E. NOLTE, I tre volti del fascismo, Mondadori, Milano 1978, pp. 95, 110-118, trad. it. F. SABA SARDI, G. MANZONI UNITÀ 1 Quale scissione si crea, a seguito dell’affare Dreyfus, nei valori tradizionali tipici della Francia ottocentesca? Quale operazione, secondo Maurras, avrebbe dovuto compiere il nuovo nazionalismo? Su quali punti comuni si costruì la singolare (quanto effimera) convergenza tra seguaci di Maurras e discepoli di Sorel? TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 12 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 All’inizio del Novecento, il Sud Italia versava in condizioni drammatiche. Dopo che il protezionismo aveva rovinato l’agricoltura, l’emigrazione verso l’America fu, per milioni di poveri contadini, l’unica alternativa alla miseria e alla fame. La relativa [= confrontata con la situazione del Nord – n.d.r.] povertà del Mezzogiorno era facilmente dimostrabile: il reddito pro capite era, nel 1900, meno della metà di quello dell’Italia settentrionale; nel Mezzogiorno viveva il 40 per cento della popolazione totale, ma nel 1911 il consumo di energia elettrica per usi industriali nel Sud raggiungeva appena quello del solo Piemonte. Il Mezzogiorno era arretrato anche in molti settori dell’agricoltura: la resa di 3-5 quintali di grano per ettaro costituiva la norma, e anche negli anni più favorevoli la resa media nazionale di 10,5 quintali venne raramente raggiunta. Un quadro analogo offrono i dati sul tasso di mortalità e sulle condizioni di abitazione: nel 1910-14 il tasso nazionale di mortalità era del 19,2 per mille abitanti, ma nel Mezzogiorno il tasso più basso era del 19,7 per mille in Calabria, e quello più elevato del 22,6 in Basilicata. Mentre nel 1911 meno dell’un per cento della popolazione di Genova, Firenze e Livorno viveva in una sola stanza, a Bari la percentuale era del 42 per cento (con una media di 4,7 persone per stanza) e a Foggia del 70,5 (6 persone per stanza). Il tasso di analfabetismo aumentava costantemente a mano a mano che si scendeva verso sud: nel 1911 era dell’11 per cento nel Piemonte, del 37 in Toscana, del 54 in Campania, del 65 in Basilicata e del 70 in Calabria; in Sicilia la situazione era leggermente migliore con il 58. (La media nazionale era del 37,6 per cento). I comuni più isolati del Sud potevano toccare punte di analfabetismo che arrivavano fino al 90 per cento. La deficienza di scuole era scandalosa: nel 1907-1908 il Piemonte, con 3,4 milioni di abitanti, aveva 9000 scuole, mentre la Sicilia, con 3,6 milioni, ne aveva 5000. [...] I meridionalisti sostenevano che la politica seguita dallo stato dopo l’unità aveva contribuito ad approfondire il divario. Dopo il 1887 il sistema tariffario [= il protezionismo sui manufatti industriali – n.d.r.] aveva costretto il Sud a comprare a prezzi elevati i prodotti industriali e a vendere a basso prezzo i suoi prodotti agricoli. [...] Se, nonostante tutto, tra il 1900 e il 1914 le condizioni del Mezzogiorno rurale migliorarono, ciò fu dovuto non tanto all’azione governativa, quanto all’emigrazione, un fenomeno di cui il governo non poteva certo menar vanto. Il numero degli emigranti crebbe ogni anno (se si eccettuano i periodi di stasi temporanea della crisi economica del 1907-1908 e della guerra libica del 1911), e raggiunse nel 1913 la punta massima di 873000 unità: nessun altro paese, tranne l’Irlanda, poteva vantare un esodo così imponente. Il contributo del Mezzogiorno alla corrente migratoria andò sempre aumentando e passò da un quarto del totale negli anni ’80 fino a quasi la metà tra il 1905 e il 1913. Questo spostamento dell’equilibrio mutò anche la natura del fenomeno: l’emigrazione dall’Italia settentrionale e centrale era generalmente di carattere temporaneo, spesso solo stagionale, ed era orientata soprattutto verso i paesi dell’Europa settentrionale, mentre l’emigrazione dal Mezzogiorno aveva un carattere più duraturo, spesso permanente, ed era orientata verso le due Americhe. Dopo il 1898 gli Stati Uniti presero il posto del Brasile e dell’Argentina come destinazione preferita degli emigranti, e più di tre degli otto milioni di italiani che lasciarono il paese tra il 1901 e il 1913 si recarono negli Stati Uniti. Anche nel caso degli emigranti oltreoceano, tuttavia, la percentuale di quelli che non tornavano più andò diminuendo: su ogni 100 emigranti, ne tornarono 40 nel periodo 1897-1901 e 68 nel periodo 1911-1913. È stato calcolato che tra il 1862 e il 1913 abbandonarono definitivamente l’Italia quattro milioni e mezzo di persone. L’esodo dal Sud era cominciato in Basilicata, Calabria e Campania negli anni ’80, e il movimento si era esteso subito dopo all’Abruzzo: alla svolta del secolo, il ruscello divenne una fiumana. La Sicilia contribuì al movimento migratorio solo in un secondo tempo, ma dopo il 1904 diede ad esso il maggiore contributo. La Puglia fu la sola regione del Sud in cui il tasso di emigrazione fosse inferiore a quello medio nazionale. L’emigrazione meridionale fu un fenomeno esclusivamente proletario, uno spontaneo gesto di protesta contro condizioni di vita insopportabili: cominciò nelle pianure e nelle zone costiere, dove i contatti con il mondo esterno erano più facili, e quindi si diffuse all’interno, raggiungendo le punte più alte nelle zone montane più isolate, dove la povertà era maggiore. Le città più grandi non diedero un grande contributo all’emigrazione: alcuni emigranti erano artigiani, ma la stragrande maggioranza erano contadini e braccianti. Coloro che possedevano terra, o godevano di condizioni di maggiore stabilità sul fondo [= sul podere che coltivavano – n.d.r.], erano i più riluttanti a partire. Quattro quinti degli emigranti erano maschi, soprattutto tra i 20 e i 50 anni, sicché nelle zone più isolate era possibile trovare villaggi abitati quasi esclusivamente da vecchi e da bambini: fu proprio questo drenaggio di giovani energie verso terre straniere che colmò di indignazione i nazionalisti ed ispirò loro l’immagine di un’Italia proletaria. C. SETON-WATSON, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, trad. di L. TREVISANI, Bari, Laterza, 1973, pp. 357-358 e 365-366 Individua nel testo i principali indicatori relativi al sottosviluppo delle regioni meridionali, verso la fine dell’Ottocento. Individua i caratteri fondamentali del fenomeno migratorio negli anni compresi tra il 1890 e il 1914. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 1 L’Italia meridionale all’inizio del Novecento 13 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 8 9 I cattolici di fronte alla guerra di Libia UNITÀ 1 In occasione della guerra di Libia, molti cattolici, per la prima volta, espressero la volontà di collaborare con lo stato unitario, uscito dal Risorgimento. Ormai lontana nel tempo, la questione del potere temporale del pontefice non era più sentita, dalle nuove generazioni di cattolici, come un ostacolo decisivo, che avrebbe dovuto impedir loro di integrarsi a pieno titolo nella vita del Regno d’Italia. TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ 14 «Viva Tripoli italiana», «Viva l’Esercito»: questo grido, accompagnato da grandi applausi, interrompe un oratore della settimana sociale cattolica di Assisi, Vincenzo Mangano, che sta delineando, agli attoniti congressisti, un terribile quadro delle gravi conseguenze che potrebbe avere sulle ricchezze della Sicilia, il passaggio delle miniere di zolfo della Tripolitania in mano ad un’altra potenza che non fosse l’Italia. Il Prefetto di Perugia, Buraggi, si preoccupa di segnalare immediatamente quel grido rivelatore, questa singolare manifestazione, al Ministero dell’Interno: sicuro che Giolitti ne trarrà un ulteriore motivo di forza e di fiducia nelle storiche decisioni che sta per assumere e che tutto il paese – cattolici compresi – aspetta. [...] Da anni un linguaggio e uno spirito nuovo circolavano [...] in campo cattolico. L’esercito italiano non era più l’esercito specializzato nelle sconfitte, l’esercito trascinato «verso le roventi sabbie e i dirupi dell’Eritrea dalla stessa giustizia provvidenziale e misteriosa che aveva spinto Napoleone nei ghiacciai della Russia» [così la Civiltà Cattolica commentò la disfatta di Adua, nel 1896 – n.d.r.], l’esercito del Faraone italico piegato dalla mano del Negus [= imperatore d’Etiopia – n.d.r.] per ammonire tutto il popolo sulla necessità di restituire la libertà al Capo della Chiesa. Al contrario. I valori militari, di ordine, di gerarchia, di disciplina, erano stati difesi e rivendicati, contro tutte le negazioni socialiste, contro tutte le svalutazioni del sovversivismo, dagli organi cattolici anche più animosi e intransigenti [= ostili allo stato unitario e liberale – n.d.r.]. La politica coloniale non era più giudicata con lo sfavore di una volta (chi avrebbe più scritto, come la Civiltà Cattolica nel ’96, che si parteggia più volentieri per gli aggrediti che per gli aggressori?). Le forze armate erano identificate col «più valido ostacolo all’avanzare del pericolo sovversivo» e messe addirittura sullo stesso piano degli ordini religiosi (tanto che contro le une e gli altri «più furiosamente si avventa la furia dei partiti sovversivi»). Tutta l’azione per l’assistenza religiosa nell’esercito era curata con particolare fervore, con eccezionale slancio; ed in ogni ricreatorio militare che si creava [...] si inculcava l’obbedienza «al Re, ai capi gerarchici, alle istituzioni». [...] Giornali come l’Unità Cattolica, che continuano a parlare del Risorgimento come di un «delitto» (nello stile dell’ultimo Pio IX), di un crimine preordinato ai danni della Chiesa e della religione, diventano sempre più rari, sempre meno ascoltati e autorevoli. [...] I cattolici giovani, coloro che sono nati dopo il 1870, non comprendono più quel linguaggio, non sentono più l’urgenza del problema, aprono il cuore a ogni possibilità di conciliazione o anche soltanto di distensione. Nulla di eterno, di irrimediabile, di «teologico» in quel conflitto: come invece avevano sentito i clericali degli anni successivi a Porta Pia [= all’annessione di Roma, nel 1870 – n.d.r.]. [...] La guerra di Libia scoppia quindi in un terreno preparato, favorevole ad un ulteriore avvicinamento di cattolici e liberali, ad un ulteriore incontro fra i valori di Patria e di Fede (quei valori che erano stati custoditi nel segreto di tante coscienze, nello scrigno di tante anime, ma si erano dilacerati «coram populo» [= in pubblico – n.d.r.], nella vita ufficiale e pubblica. Oggi [= nel 1911 – n.d.r.] il quadro è diverso, è irriconoscibile rispetto ai tempi del «dilaceramento». Oggi non sono ancora aperte le ostilità in Libia, e già parecchi vescovi, di propria iniziativa, senza neppure autorizzazioni superiori, avvalendosi di quel margine discrezionale che è proprio dell’autorità episcopale, indicono le orazioni «tempore belli» [= da recitare in tempo di guerra – n.d.r.] per la vittoria delle armi italiane [...]. Oggi le festività tipiche della tradizione cattolica [...] rappresentano altrettante occasioni favorevoli per auspicare la vittoria delle armi italiane, per tessere paralleli arditi e immaginosi fra le vecchie crociate contro il turco e la nuova «guerra santa» dell’Italia contro l’Islam, per istituire raffronti che non sono solo simbolici ed occasionali, ma valgono di auspicio per l’avvenire, di prefigurazione del futuro (di un futuro che risolva, sul piano internazionale, le lacerazioni interne, che ricomponga, in Africa e nel Mediterraneo, l’unità della Chiesa e dell’Impero). G. SPADOLINI, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Mondadori, Milano 1974, pp. 166-171 Che cosa distingue il comportamento tenuto dai cattolici negli anni Novanta, di fronte alla campagna di Etiopia, dall’atteggiamento assunto all’epoca della guerra di Libia? Che giudizio danno i cattolici, nel 1911, delle forze armate del Regno d’Italia? Quali problemi non vengono più considerati gravi (e, al limite, non vengono neppure più compresi) dalle nuove generazioni cattoliche? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012