SALONE DEL LIBRO -‐ TORINO -‐ 1988 Stefano Jacomuzzi, Fernanda Pivano, Guido Almansi, Grazia Cherchi, Giuseppe Pontiggia, Gianni Rizzoni La fabbrica del libro: l'editing Stefano Jacomuzzi Signore e signori, prima di iniziare il nostro incontro, mi si permetta di esprimere, anzi di rinnovare, il senso di stupore, o meglio di soddisfazione già provato ripetutamente in questi giorni davanti ad un esito così inatteso -‐ inatteso almeno nelle dimensioni, stupore e soddisfazione per la partecipazione che vedo così numerosa e certo attenta e appassionata al nostro incontro su un aspetto di tanta importanza e attualità come quello dell'editing che ha avuto nel mondo anglosassone, e ha tuttora, un'importanza e un peso a noi ancora sconosciuti. Tuttavia anche nella nostra tradizione, prendendola ovviamente alla larga, non mancano esempi illustri di editing a cominciare da Mecenate, perlomeno. Penso anche, entro il più ristretto ambito di personale competenza, a quale straordinario lavoro di editing nei confronti dell'amatissimo Dante si è dedicato Boccaccio, o alla straordinaria forza e presenza nel mondo editoriale del Cinquecento, per esempio, di un Annibal Caro. Ma è bene che si entri subito nel cuore del nostro fenomeno. Ho detto dell'importanza che questo tipo di operazione ha assunto nel mondo anglosassone. Mi pare quindi giusto dare la parola a chi ha certo molte cose da dirci, e di prima mano, e cioè Fernanda Pivano. Fernanda Pivano La figura dell'editor sembra tipicamente americana anche se dall'America è rimbalzata in Europa in tempi recenti; e infatti non si è ancora trovata una espressione italiana che la indichi compiutamente, dato che quella di redattore non sembra soddisfacente. Da noi per lo più gli scrittori sono ostili agli editor e li considerano prevaricatori e inutilmente invadenti: sono insofferenti a modifiche volute da altri e soltanto i più maturi si adattano ad accettare consigli e suggerimenti. In America non è così. Per lo più si stabilisce tra lo scrittore e il suo editor un rapporto di vera e propria amicizia che va al di là della solidarietà professionale e della alleanza editoriale. Questo era vero negli anni Venti quando l'editoria diventò decisamente industriale e in maggiore o minore misura continua ad essere vero adesso anche se i giovanissimi cominciano a mostrare qualche segno di insofferenza anche in America. Tra gli editor più illustri nella 1 storia di questa professione indimenticabili sembrano Maxwell Perkins della casa editrice Scribners e Saxe Commins della Random House: il primo è stato il grande artefice della disciplina imposta a due artisti imprevedibili come Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway, e il secondo è stato il letterato al quale dobbiamo forse la possibilità di aver visto condotte a termine le opere di William Faulkner. Erano due amici insostituibili dei loro autori. Perkins è andato a Cuba a fare la pesca di altura con Hemingway vincendo una radicata sedentarietà e Commins è andato spesso nella tenuta di Faulkner nel Mississippi accolto come una persona di famiglia. Quando Perkins morì il 17 giugno 1947 Hemingway fece fatica ad adattarsi a lavorare senza i suoi consigli, a prendere decisioni editoriali senza i suoi suggerimenti; mi disse spesso che si sentiva smarrito senza di lui. Con Faulkner avevo meno dimestichezza, ma abbastanza perché mi indirizzasse da Commins alla Random House e mi facesse accogliere da lui fraternamente nella stanza minuscola dove lavorava e dove aveva riservato in un angolo un tavolino al quale Faulkner faceva le sue incessanti modifiche ai testi quando andava a New York a discutere con il suo editor. Commins morì il 17 luglio 1958, sicché Faulkner dovette arrangiarsi senza di lui soltanto quattro anni prima della sua morte avvenuta nel 1962; mentre per Hemingway il periodo della emancipazione durò quattordici anni e forse è a causa della mancanza di Perkins che tante sue opere sono rimaste incompiute conducendo alla dolorosa pubblicazione di opere postume alle quali manca l'incontentabile severità del loro autore. Il lavoro di questi grandissimi editor si svolgeva in una critica amorosa del testo condotta con una umiltà che impediva agli autori di sentirsi offesi; una critica che segnalava le ripetizioni, grande pericolo anche di scrittori attenti fino alla pedanteria, o indicava gli squilibri di scene che avevano preso la mano agli scrittori trascinati dalla emozione, o sottolineava episodi che invece erano stati trascurati. È chiaro che un'azione simile era possibile soltanto grazie ad una simbiosi totale tra editor e autore basata sul reciproco rispetto ma soprattutto sul riconoscimento del genio dell'autore da parte dell'editor, anche perché in questi casi ai quali abbiamo accennato di veri e propri grandissimi geni si trattava. Da questa scuola nacquero gli editor successivi che non sempre avevano a che fare con grandi geni e che non sempre sono stati grandi editor ma hanno raggiunto risultati importanti nella storia dell'editoria. Il primo esempio che viene in mente è quello di Henry Robbins, al quale si deve il perfetto ridimensionamento di un libro straordinario del 1978, il mondo secondo Garp di John Irving (in Italia è stato pubblicato da Bompiani) e al quale la grande Joan Didion è indebitata per la chiarezza delle sue prime opere. John Irving era legatissimo a Robbins e quando questi morì nel 1979, un anno dopo la pubblicazione di Garp, si sentì così perduto senza di lui che non volle venire in Europa a Francoforte dove sarebbe rimasto acclamato come la grande rivelazione dell'anno. Prima di Garp e degli interventi di Robbins, Irving aveva pubblicato tre libri passati inosservati, e la sua fluvialità si è rivelata in modo 2 evidente nei romanzi seguiti a Garp senza le redini di Robbins. Nella grande tradizione degli editor si rivelò in quegli stessi anni il grandissimo Bob Gottlieb, che Cynthia Ozick ha ribattezzato God Bobblieb e fu per anni l'inaccessibile dittatore della casa editrice Knopf fino a quando la lasciò, qualche anno fa, per assumere la direzione del "New Yorker". Gottlieb entrò nella Knopf nel 1970 quando morì David SegaI, che era stato editor senza grande risonanza appunto di Cynthia Ozick, la scrittrice ebrea che ripropone un ritorno allo stilismo e al moralismo di Henry James; e fu Gottlieb per esempio a fare da editor a Toni Morrison, la scrittrice nera che ha vinto il Premio Pulitzer di quest'anno e che continua a considerarlo una specie di maestro: la Morrison stessa ha fatto l'editor dal 1964 al 1983 per la Random House e in questa veste ha curato i libri della militante nera Angela Davis oltre a far pubblicare vari esempi di narrativa femminista militante o anche soltanto femminile. Gottlieb fu anche responsabile del lancio, qualche anno fa, della squadra femminile di scrittrici minimaliste consigliate da Gordon Lish, un professore di Creative Writing che approfittò della indulgenza di Gottlieb per fare pubblicare le sue allieve preferite; ma ormai era da anni un super presidente più che un editor, e questo con grave danno di scrittori giovani e meno giovani che non possono più avvalersi della sua maestria. Di grande maestria è stato un altro editor che a suo tempo ha seguito da vicino l'esempio ineguagliato di Perkins e Commins. È a lui, Hiram Haydn, che dobbiamo la scoperta di William Styron. Styron fu suo allievo per qualche tempo quando Haydn insegnava in una scuola di Ricerche Sociali e fu Haydn a sconsigliarlo di intraprendere subito la stesura di un libro di Nat Turner, un argomento che ha appassionato Styron fin da adolescente quando viveva nella tenuta di famiglia a contatto con gli ex schiavi dei nonni. Haydn gli consigliò di esercitarsi prima con argomenti contemporanei e fu dunque a lui che dobbiamo il primo romanzo di Styron, quel formidabile, faulkneriano, molto sudista Un letto di tenebre del 1951, che in Italia abbiamo letto nelle edizioni di Sugar e che rivelò il futuro Premio Pulitzer e sovrano della letteratura contemporanea del sud. Fece parte del lancio e della aneddotica di Styron l'episodio in cui Haydn lesse forte nella sua classe i primi capitoli del bellissimo libro e affascinò gli studenti con quella scrittura elegante, dolorosa, pensosa di cui solo Styron è capace. Hiram Haydn è stato editor anche di Alice Walker, la fortunata autrice de Il colore viola (pubblicato da noi da Frassinelli); ma è difficile sapere fino a che punto suoi consigli sono stati accettati da questa indomita grande scrittrice nera che ha ora soltanto 44 anni. Alice Walker conduce questa brevissima rassegna ai giorni nostri e mi sembra giusto concluderla accennando a due autori giovanissimi che con i loro editor di poco meno giovani stanno ristabilendo la tradizione del valore degli editor. Jay Mcinerney che con Le mille luci di New York (pubblicato da noi da Bompiani) ha mostrato di aver assimilato con umiltà ed eccezionale bravura gli insegnamenti del suo maestro Raymond Carver ed i consigli del suo editor Joe Fox e, soprattutto, quello del suo compagno di studi 3 poi diventato suo editor Gary Fisketjon, che infatti Mcinermey seguì quando questi lasciò la Random House e la collana tascabile da lui introdotta nella casa editrice per rilanciare le nuove edizioni della Atlantic Monthly Press. L'altro autore contemporaneo al quale vorrei alludere è Bret Easton Ellis, che a 24 anni ha già una scuola di imitatori come Mark Lindquist (autore di Cinema triste annunciato dall'editore Pironti) e Michael Chabon (autore dei Misteri di Pittsburgh annunciati da Mondadori). Il suo Meno di zero (pubblicato da noi da Pironti) ha avuto come editor un suo amico, Morgan Entrekin, giovane e wasp come lui, che, mi ha detto, ha lasciato il manoscritto di Ellis quasi intatto, con tutte le asprezze e acerbità dell'autore diciottenne, offrendoci un esempio inimitabile di scrittura modernissima basata come è sul tentativo di rifare in prosa i video clips così cari agli adolescenti. L'importanza dell'umiltà di Entrekin si è vista nel secondo romanzo di Ellis, Le regole dell'attrazione (annunciato da Pironti), non più curato da lui ma dal nuovo editor che ha preso il posto di Entrekin quando questi ha lasciato la casa editrice Simon and Schuster per diventare socio di Gary Fisketjon all'Atlantic Montlhy Press. L'intervento del nuovo editor, l'americano di origine giapponese Robert Asahina, è stato, o così pare, pesantissimo in Le regole dell'attrazione, un romanzo dove di Ellis sono rimaste la disperazione e l'angoscia di una adolescenza tormentata e ansiosa ma difficile è rintracciare la spuma soffice e sorprendente che scaturiva da Meno di zero. Ho detto che questa è una rassegna brevissima ed è chiaro come diventerebbe lunga se si prendesse in esame la larghissima area degli editori americani con i loro editor e i loro innumerevoli scrittori: ho voluto ricordare soltanto qualche esempio dell'azione per lo più positiva ma a volte anche negativa condotta da questi oscuri letterati che possono essere dei grandi collaboratori o dei pericolosi manipolatori. Resta il fatto che in entrambi i casi nessuno di loro riesce ad alterare in modo sensibile o a offuscare senza rimedio la bravura dello scrittore quando questa si impone in un romanzo o in un racconto. L'unghia del leone resta sempre, con o senza editor, lo dimostrano le tristi pagine postume di Hemingway e tanti romanzi americani sopravvissuti a interventi troppo grevi o troppo presuntuosi. Quello degli editor è un lavoro prezioso finché è condotto con umiltà e con rispetto; le stesse qualità necessarie ad uno scrittore per scrivere un buon romanzo o un buon racconto. Stefano Jacomuzzi Attraverso questa rassegna di esempi, per forza di cose rapida, di cui ringraziamo Fernanda Pivano, siamo entrati nel cuore del problema. Chi è abituato a un'idea dell'arte come di qualcosa molto asettico, di assoluta e quasi istintiva creatività, può avere anche avuto qualche choc dalla constatazione di quali complessi legami, rapporti, di quale processo di osmosi, di travaso di consigli, accettati o meno, è costituito il manufatto artistico. È augurabile che 4 l'unghia del leone, e magari qualcosa di più anche nei dettagli, resti dell'imprescindibile singolarità di un lavoro e di uno scrittore, nel nostro caso. A questo punto penso che si possa continuare seguendo un ordine alfabetico e quindi do la parola a Guido Almansi. Guido Almansi Di tutte le persone che sono state invitate a questo dibattito, credo di essere il solo a non avere avuto una esperienza diretta di editing. Non ho mai fatto l'editor: sono stato il paziente di un dottore che si chiamava Editor. Sono stato "edited", in un ruolo passivo e non in un ruolo attivo. Non so bene perché sono stato invitato, a meno che non dipenda da un articoletto che avevo scritto su "la Repubblica" in cui raccontavo una mia esperienza inglese. Ma vorrei cominciare da un aneddoto diverso che riguarda un caso in cui non sono stato "edited". Tra i libri che ho pubblicato in Italia ce n'è uno che contiene un errore. Non si tratta di un errore madornale: molte persone avrebbero potuto caderci. Non si tratta di un errore gigantesco, ma di un errore antipatico; e ogni volta che ci penso mi sento a disagio. È un errore, come dire, volgare, che dovrebbe essere commesso da uno scrittore culturalmente volgare, quale io non considero di essere. È quindi un errore che io sento estraneo, e mi dà fastidio, come se portassi sulla pelle un indumento smesso da una persona che mi sta antipatica: le sue mutande, o la sua canottiera. Questo errore io non l'ho mai raccontato a mia moglie; non l'ho mai confessato al mio migliore amico; e nemmeno al mio psicanalista (se ne avessi uno); non l'ho denunciato al mio editore, non lo dirò nemmeno a voi. Solo in un caso potrei rivelare il segreto: se ci fossero nei sotterranei del Salone del Libro a Torino delle camere di tortura. Allora sì, basterebbe farmi vedere quelli che un tempo si chiamavano "gli stromenti", e confesserei subito quello sbaglio che ancora mi fa rabbrividire dal disgusto e dall'odio per me stesso. Ebbene, questo errore avrebbe potuto essere evitato dal semplice intervento di un editor, perché si trattava di una svista che un revisore coscienzioso, il quale passa in rassegna tutto, controlla le citazioni, le attribuzioni, le date, e così via, non si sarebbe lasciato sfuggire. In un articolo uscito su "La Stampa" qualche giorno fa si parlava dell'editor per eccellenza nella storia della cultura italiana, cioè Cesare Pavese; pochi minuti fa Fernanda Pivano ha citato il caso ben noto dei celebri editor americani che hanno contribuito alla fama di grandi scrittori. Si potrebbe aggiungere il nome di Ezra Pound, l'editor della modernità per eccellenza; o di Elio Vittorini; o perfino di Italo Calvino, che ha sempre accompagnato al suo lavoro creativo un'opera di incoraggiamento e di guida dei giovani che era una forma altissima di editing: Ma il problema è più vasto, perché non tutti possono avere Il privilegio di essere assistiti o da quei grandissimi professionisti dell'editoria citati dalla Pivano, o da scrittori come Pound o Pavese. Certo, un libro passato per le mani di Vittorini o 5 di Calvino subisce una sorta di trasformazione; e questa trasformazione in genere (non sempre) migliora il libro. Ma non ci sono abbastanza Vittorini o Pavese in giro; e l'unica persona che potrebbe editare tutti i libri che si stampano in Italia -‐ o nel mondo -‐ è l'infaticabile Umberto Eco. Ma forse sarebbe troppo anche per lui o piuttosto gli sarebbe più facile scriverli lui tutti i libri piuttosto che correggerli. Che fare? Dobbiamo, ovviamente, rivolgerci ai funzionari delle case editrici. Nella mia esperienza personale, nel corso dei numerosi rapporti che ho avuto con molte case editrici italiane, e fra le migliori (da Einaudi a Garzanti, da Longanesi a Feltrinelli, da Rizzoli alla Bompiani), ho sempre incontrato degli editor coscienziosissimi, ma non ho mai trovato quella griglia serrata, quella rete a maglie fittissime, che è stata una delle mie esperienze inglesi. Ho pubblicato insieme a un mio studente per una casa editrice londinese, Methuen, un libro breve, di un centinaio di pagine, su un commediografo contemporaneo, e ho avuto un rapporto molto intenso con un editor straordinario. Fu un'esperienza molto strana, che pensavo valesse la pena di raccontare ai lettori italiani, poco abituati a questo genere di cose. Citerò qualche riga da quel mio vecchio articolo su "la Repubblica" perché penso che dia un'idea del professionalismo e della intensità di quella forma di editing: "Quando ricevette il dattiloscritto la casa editrice lo mandò a un editor la quale lavorava dalla sua casa nello Yorkshire. Dopo una settimana ricevetti quattordici pagine di note che riguardavano problemi di ogni tipo: dalla punteggiatura al lessico, dalla grammatica alle virgolette (semplici o doppie?), dai riferimenti storici alle convenzioni nelle citazioni bibliografiche (M.L.A.: Style Sheet, o una variante?), dallo stile alle licenze linguistiche, dal controllo dei dati attuali (la data esatta della prima di una commedia) ai pregiudizi circa la scelta fra la grafia inglese e quella americana, dalle contraddizioni logiche nell'ambito di una disquisizione filosofica all'uso di adoperare solo il cognome o il nome e cognome per i filosofi del Settecento (Hume o David Hume). Queste quattordici pagine erano un capolavoro di giudizio, di pignoleria, di sensibilità critica, di cercare il pelo nell'uovo, di sottigliezza linguistica, di raffinatezza di gusto e di paranoia." Il mio collaboratore ed io accettammo gran parte dei suggerimenti, ma eravamo incerti su una trentina di punti, e in disaccordo totale su una dozzina di correzioni suggerite. Seguirono due settimane di trattative, con intense telefonate e lunghe lettere da una parte e dall'altra, per difendere una certa posizione, uno spelling o una convenzione grafica. In due o tre casi non riuscimmo a metterci d'accordo, e dovemmo ricorrere a un arbitraggio, fatto da un altro editor della casa. Alla fine il testo era pronto per andare in tipografia, e non ho il minimo dubbio che il libro era migliorato in quel periodo: come presentazione, come uniformità di stile, e anche perché era stato messo a confronto con un lettore intelligente, una specie di super-‐lettore che era quasi una summa di tutti i lettori possibili. 6 Una gran parte delle obiezioni che avrebbero potuto farci i nostri venticinque lettori, noi le avevamo già trovate in questo rapporto. Ho avuto esperienze ben diverse con altre case editrici inglesi, alcune disastrose; ma volevo presentare qui un caso ottimale. Può avvenire questo in Italia? Si può creare una figura di editor di questo tipo? Direi di no, per molti motivi. In primo luogo, dove li troviamo questi editor, che si creano in anni di pratica, e non si inventano sul momento e non vengono reclutati all'angolo della strada? Immagino si potranno trovare in certe facoltà universitarie tra i migliori studenti, il quale abita a Carpi, in provincia di Modena (si fa per dire), e opera da quella città, che potrebbe essere l'equivalente della cittadina dello Yorkshire dove abita il mio editor inglese. Ammettiamo che il lavoro di questo carpigiano venga ben pagato (cosa improbabile, vista la bassa remunerazione presso le case editrici dei traduttori, tanto per fare un esempio), perché si tratta di un lavoro difficile e intenso. Un buon editing richiede molti giorni di attenzione fanatica. Lo studente manderebbe il suo rapporto allo scrittore, e poi ci sarebbe questa triangolazione fra editor, scrittore e casa editrice. Vedo subito due obiezioni. La prima: a Carpi l'editor non può trovare gli strumenti bibliografici necessari per fare il suo lavoro. Questo editor, intendiamoci, non è il figlio di Benedetto Croce che ha ereditato la biblioteca paterna, ma vive con i genitori in un appartamento di tre stanze che contiene duecento libri, compreso quelli di cucina e di giardinaggio. Quindi non può fare l'editing da casa sua, ma ha bisogno di fare delle consultazioni in una biblioteca. il mio editor dello Yorkshire andava in centro a fare la spesa, comprava biscotti salsicce e fagioli in scatola, e poi con la sporta andava nella biblioteca comunale dove consultava: un dizionario di marina per controllare un termine nautico; una buona edizione dell'Hudibras di Samuele Butler (quello del Seicento, non lo scrittore di Erewhon) per correggere una citazione; un trattato anche elementare sui mobili Chippendale per verificare un termine tecnico; una rivista di teatro famosa negli anni cinquanta; e così via. Diciamo che, per fare l'editing del nostro libretto, la persona incaricata avrà avuto bisogno di circa cinquanta opere specializzate. Di queste 42 o 43 sono nella biblioteca pubblica della sua cittadina. Lei gira per gli scaffali, prende sei o sette libri, se li porta su un tavolo da lavoro, e nel giro di dieci minuti ha risolto cinque sei problemi di editing. Torna ad alzarsi, riporta i libri negli scaffali, ne prende altri cinque o sei e ricomincia a lavorare. Nello spazio di una mattinata o di una giornata di lavoro in biblioteca, lei ha risolto il 95% dei problemi che richiedono consultazione. Rimane quel 5% che tutti sappiamo è la vera difficoltà della ricerca: quando si fanno le note ad un libro, c'è sempre la nota impossibile che richiede una quantità di tempo sproporzionata alla sua importanza. Anche nell'editing ci saranno i problemi per cui bisognerà rivolgersi a una biblioteca più grande (per esempio, quella della università più vicina, aperta a tutti per la consultazione dei 7 libri); scrivere a uno specialista per ottenere un'informazione; o addirittura andare a Londra alla British Library. Ma il 95% dei problemi venivano risolti con una semplice visita alla biblioteca pubblica. Trasferiamo il problema a Carpi, dove non esiste una biblioteca pubblica così ben attrezzata. Esiste forse nelle grandi città, ma il metodo di consultazione è molto laborioso. Cosa succede in questo caso? II nostro studente deve andare a Firenze o a Roma alla Biblioteca Nazionale e lì incominciano i guai: quanto tempo ci impiegherà a trovare quella cinquantina di informazioni necessarie, in una grande biblioteca? Un mese? Cinque mesi? Tutta la vita? Io vorrei che un giornale, o un settimanale, mandasse un suo inviato a fare la seguente inchiesta; quanto tempo impiega uno studioso a fare cinquanta note per un libro di alta cultura nella grande biblioteca di una Università americana, alla Bibliothèque Nationale a Parigi, o alla Biblioteca Nazionale a Firenze? II rapporto credo che sia di uno a cinquecento: quello che si fa in un'ora in una biblioteca americana ben attrezzata, si fa in un giorno alla Nationale a Parigi (che è una biblioteca ben più ricca ma più laboriosa nella consultazione), e in uno o due o tre mesi a Firenze. Quando qualche anno fa mi sono trasferito quasi a tempo pieno in Italia dopo una lunghissima esperienza in Inghilterra, la cosa che mi sbalordiva di più era vedere l'abilità di tutti i miei colleghi italiani che facevano dei lavori di alta precisione scientifica avendo a disposizione degli strumenti così rozzi, così volgari, così burocratizzati, così medievali, così sporchi, così polverosi, così spiacevoli, così maleodoranti, così ostili alla cultura, come le biblioteche italiane (ci sono eccezioni, lo so; ma la situazione generale è questa; rimando per conferma al prezioso opuscolo di Umberto Eco, De Bibliotheca, Milano, 1981). È il primo motivo per cui sarebbe impossibile inventare in Italia la figura dell'editor all'inglese: prima di inventare l'editor bisognerebbe inventare la biblioteca. E questo è un problema che il Salone del Libro a Torino avrebbe potuto anche affrontare. L'Italia è il quinto paese industriale nel mondo, ma ha un sistema di biblioteche a livello del centesimo ad essere ottimisti e patriottici. Se qui al Salone ci si occupa di libri, ci si dovrebbe occupare anche di biblioteche. Il secondo motivo per cui è difficile concepire l'editor in Italia è la differenza, a cui già accennava Fernanda Pivano, tra lo scrittore inglese o americano e quello italiano. In questo periodo mi occupo particolarmente di teatro, e vedo che gli attori inglesi più famosi sono disposti ad accettare un ruolo secondario purché sia interessante e possa contribuire a questo grande gioco che è uno spettacolo teatrale. L'attore italiano di grido molto difficilmente accetterà un ruolo che non sia di protagonista. C'è tutto un costume e un'educazione teatrale diversa. Ancora più grave mi sembra la posizione dello scrittore; lo si vede per esempio dalle dichiarazioni ufficiali e dalle interviste di scrittori giovani, i quali si sentirebbero offesi nella dignità e nella unicità del loro ruolo se la loro scrittura venisse minimamente toccata o criticata (ma chi mai critica la scrittura in Italia? 8 Semmai si critica la convenienza di adottare una certa soluzione romanzesca o un tipo di modello narrativo. Ma questo ci porterebbe lontano, fino al problema delle stroncature). Quanto peggiore lo scrittore, tanto maggiore il suo orgoglio. Pensate se un Aldo Busi accetterebbe mai dei consigli. E avrà anche ragione, perché spesso l'editing in Italia significa tagliare centocinquanta pagine da un libro per abbassare i costi; fare un romanzo di trecento invece di quattrocento pagine per poterlo vendere a 25 invece che a 35 mila lire. E poi c'è un altro editing: quello che si premura dal rischio di parlar male di Garibaldi (oggi non è più Garibaldi, sarà Wojtyla o Alberto Moravia o Renato Guttuso, ma il problema sussiste). Il tipo di setaccio attraverso cui deve passare la cultura e la scrittura italiana è questo: un editing tutto sommato negativo, non il controllo positivo delle citazioni o delle grafie o delle virgolette. Sento su di me lo sguardo di rimprovero di due o tre amici, nel pubblico, che hanno "edited" dei miei testi. Lo so benissimo che i miei libri sono migliorati nelle loro mani; ma non allo stesso modo del nostro libretto sul commediografo inglese, per una questione di tempo Il redattore di casa editrice, che ha curato un mio libro, nello spazio di due settimane, dovrà badare a quattro cinque libri diversi. Vi ricordo il termine di confronto inglese: quindici giorni di lavoro a tempo pieno per un libretto di cento pagine. Temo che nessuno possa permettersi questa forma di editing in Italia. Vorrei concludere con un ultimo punto. Credo che sia sempre utile far leggere i propri libri, qualunque tipo di libri, a molte persone: alla moglie, all'amico, al nemico, per controllare la sua reazione. Ma non è mai sufficiente, ci vuole sempre un lettore in più. Questo lettore supplementare, l'editor, sarebbe un'ottima cosa per il clima generale della discussione letteraria in Italia e per il modo di trattare i libri e gli scrittori. Sarebbe anche una mossa nella direzione giusta contro l'intollerabile sussiego dei letterati italiani. Ma credo, come ho cercato di spiegare nel quarto d'ora che avevo a disposizione, che la cosa sia impossibile. Stefano Jacomuzzi Grazie ad Almansi, anche per la sacrosanta impietosa pittura del nostro paesaggio di istituzioni culturali carenti, che sono proprio quelle che non permettono da noi la professione autentica, e indubbiamente benefica nella maggior parte dei casi, di editor. Quella di avere un appoggio nell'editor è una esigenza profondamente sentita, tanto è vero che ciascuno di noi, di quelli che scrivono, l'editor se lo va a cercare, non fosse che nell'amico, nella moglie, ecc. Ma sentiamo chi ha le mani direttamente in pasta. Passo la parola a Grazia Cherchi. 9 Grazia Cherchi La mia sarà una testimonianza sui misteri dell'editing visti dall'interno, dato che io continuo, sia pure saltuariamente, a fare l'editing di libri di narratori o di giornalisti mentre ho lasciato per il resto l'editoria, dato che secondo me è incompatibile con il lavoro di critico o cronista letterario che io sia. L'anno scorso c'è stato sulla nostra stampa un breve dibattito sull'editing, più che altro per dire che non si usa più o quasi più. Io ero intervenuta e avevo citato una frase dettami, circa un lustro fa da Erich Linder (la cui scomparsa, mi si consenta l'inciso, ha lasciato un vuoto terribile). Tra le tante qualità, Linder aveva anche quella di saper distribuire i libri secondo una certa immagine che egli aveva delle varie case editrici e se l'immagine di ognuna di esse oggi risulta appannata o stravolta è anche perché non c'è più Linder. A Linder io avevo chiesto un consiglio: "Dato che nel lavoro editoriale le mie preferenze vanno nettamente all'editing, posso svolgere, in modo autonomo, solo quest'attività?" Linder me lo sconsigliò dicendomi: "Non avrebbe di che campare". Infatti qui da noi usa pochissimo a differenza che negli U.S.A. dove è pratica corrente come ha ricordato Fernanda Pivano. Ricordo a questo proposito una discussione di qualche anno fa sul romanzo americano in cui il critico Leslie Fiedler esaltava la collaborazione fra redattore e scrittore mentre Susan Sontag la aborriva e guardava con invidia ai Paesi europei dove non viene praticata. Ma su quest'argomento mi sembra che ne abbiamo saputo molto di più di quello che ne so io da Fernanda Pivano. Torniamo in Italia dove, dicevo, usava pochissimo e oggi ancora meno, data l'attuale tendenza dell'editoria (naturalmente ci sono delle eccezioni: pochissime) a liberarsi immantinente dei testi spedendoli così come sono in tipografia, con i bei risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi. In questo bisogna però dire che c'è una corresponsabilità secondo me tra i vertici delle nostre case editrici che non vogliono gravare di spese ulteriori la merce-‐ libro già ben poco redditizia, e alcuni autori il cui efferato narcisismo non tollera interventi di alcun genere sui loro splendidissimi manufatti. Ma bisogna anche dire, a parziale scusante, che molti nostri scrittori sanno solo fino a un certo punto in che cosa consista propriamente l'editing: tendono a vedere in chi lo fa una specie di longa manus dell'editore, un manipolatore che ha solo obiettivi bassamente commerciali. Lo dico per esperienza: una volta avevo fatto -‐ come uso sempre io, a matita -‐ una specie di editing non richiesto, quindi per deformazione professionale, sulle bozze del romanzo che mi aveva mandato in anteprima un amico scrittore. Il quale poi guardò questi miei interventi, ne rimase molto sorpreso e se la vanità o la memoria non mi accecano, li utilizzò quasi tutti. Aveva quindi ragione Pasinetti, che intervenne nel breve dibattito sull'editing l'anno scorso, a scrivere sul "Corriere" che in versione italiana "l'editing non occupa un suo posto definito tra le arti e i mestieri che hanno a che fare con la pubblicazione dei libri". Anzitutto vorrei precisare che fare l'editing 10 (dove mi dicevano fosse eccezionale negli anni '50 quel finissimo letterato che fu Niccolò Gallo) richiede, secondo me, l'appartenenza ad una categoria che mi pare in via di estinzione, che è quella dei masochisti. Infatti mentre lo si fa bisogna in buona parte dimenticare il proprio stile, il proprio pensiero, anche la propria formazione culturale e fare un'immersione totale in quelli altrui, cioè sposarli per migliorarli, come generalmente non avviene nei matrimoni. Anche per questo l'editing è molto faticoso, direi psichicamente faticoso, è un po’ scrivere per interposta persona. Altro inciso: è un lavoro che non è quasi mai ufficialmente riconosciuto dall'autore, che in genere si guarda bene dal ringraziare a stampa chi lo fa. Anche qui, a differenza degli americani che ringraziano sempre nel libro il loro editor. Non si vuole cioè pubblicamente ammettere di aver ricevuto un aiuto qualsivoglia; ne va del proprio ego. Ci si riserva di farlo, a penna, nella dedica, dove si è generosissimi di lodi, ma a penna e in un'unica copia del libro. Certo che ogni editing è diverso dall'altro, la casistica è sterminata, secondo me, cioè tanti gli autori, altrettanti di editing. C'è ad esempio l'autore che tende a tirare un po’ via e allora si tratterà di interventi che, ripeto, sono sempre e solo dei suggerimenti, su sciatterie, ripetizioni, collegamenti un po’ scollati, ecc. ecc. C'è l'autore che straripa, e questo è forse il caso più diffuso, cioè è prolisso fino a fare ululare dalla noia (lui dice che è barocco): insiste sulle situazioni, abbonda in esempi, similitudini, sinonimi; gonfia la sua rana a dismisura. E allora bisogna consigliare dove potare, sfrondare, dimagrire: gli otto bagni ridurli a quattro, i dieci aggettivi dimezzarli; gettare un terzo dei soprammobili nella pattumiera, i sei uccelletti, che non si sa mai quale verbo usare per farli cantare, ridurli a uno, ecc. ecc. C'è l'autore pignolissimo che illustra minuziosamente ogni movimento del suo eroe, tipo: accese la sigaretta, ripose l'accendino, accostò il posacenere, tirò una boccata, contemplò il circoletto di fumo... E intanto la vita passa e lui è sempre lì con la sua sigaretta. Tutti movimenti di nessuna utilità nello sviluppo dell'azione. Romano Bilenchi cita spesso ai giovani scrittori la frase: "Scese le scale lentamente". "Quel lentamente -‐ dice Bilenchi -‐ presuppone uno sviluppo nell'azione". Se invece non succede nulla l'avverbio va tolto. E conclude drasticamente i suoi consigli con un: "Scrivere tutto e togliere tutto". Ma c'è ben di peggio di un "lentamente" di troppo. A volte ci sono personaggi che fanno capolino nei primi capitoli, poi scompaiono perché l'autore si è dimenticato completamente di loro. Allora qui bisogna stare attenti perché l'autore, una volta avvisato, per accidia non li ammazzi immediatamente. Altro problema sono i dialoghi, un problema di moltissimi nostri scrittori, forse da sempre. E oggi più che mai, dato che nessuno ascolta più nessuno e così i due dialoganti sono spesso due monologanti. C'è l'autore che è debolino nei finali (alludo qui ai racconti) e allora bisogna proporgli altre soluzioni in modo da far rizzare di nuovo il lenzuolo che si è improvvisamente afflosciato. C'è quell'altro autore che è fiacco nelle similitudini e allora, chissà perché, si fa un punto d'onore a 11 costellarne il testo. C'è quello tele-‐dipendente, anche se lo nega, ma chi mai lo ammette, e ogni tanto ti infila una scena da telefilm americano in un contesto di tutt'altro genere. C'è quello che, costretto ad usare, oh quanto di malavoglia, la terza persona, continua però ad intervenire -‐ imperversare -‐ con i suoi commenti, mettendoli in bocca a chiunque capita, anche ad un bambino di quattro anni improvvisamente sentenzioso. O ancora c'è quello che è troppo autobiografico, razza pericolosissima, e allora crede che ogni suo stato d'animo, anche il più lillipuziano, essendo capitato a lui, sia memorabile C'è quello che comincia molto bene e a pagina 60 sempre si rattrappisce di colpo e poi prende quota nel finale, eccetera, eccetera. Una parentesi sui libri dei giornalisti, che sappiamo che vanno per la maggiore, forse troppo, di questi tempi dato che sono per lo più raccolte di articoli già pubblicati. "Si fa il pane con le briciole," diceva a questo proposito Karl Kraus. Qui il problema si riduce a "potare" energicamente, il più delle volte. In quest'operazione il "giornalista-‐scrittore" (definizione che, come dice Oreste Del Buono, ricorda quella di "palombaro-‐ciclista") ha assolutamente bisogno di aiuto perché li trova tutti ugualmente splendidi (ho lavorato molto con giornalisti, quindi lo posso dire a ragion veduta). Gli si fa notare che ce ne sono cinque sullo stesso argomento e che forse un paio possono bastare e gli dici quali. Dopo mezz'ora si può essere sicuri che ne ha già recuperati due, e poi tre, e poi rieccoci a quota cinque: tutto da ricominciare. Ma questa è solo un'operazione "taglio-‐ cucio" che non è quello che intendo per editing. Comunque se dovessi fare una graduatoria tra gli scrittori con cui mi è più gradito e facile fare l'editing che, come forse è noto, è un'attività che si svolge prima da soli e poi fianco a fianco dell'autore (il tempo richiesto varia, e moltissimo, a seconda delle condizioni del testo), direi che i più ostici sono per me gli esordienti, che sono per ovvi motivi i più numerosi e oggi, col loro misteriosissimo boom, numerosissimi. Diffidenti e permalosi, quasi sempre convinti di aver scritto, se sono modesti, Il diavolo in corpo. Qui gli atteggiamenti da assumere fin dall'inizio sono due (secondo me ovviamente): o una simulata autorevolezza e almeno un paio di motivate irrisioni su brani particolarmente penosi, o all'opposto, iniziare con moltissime lodi e poi, una volta che si sono raddolciti, passare al contrattacco. I più amabili e trattabili sono per me i giornalisti che si avventurano nella narrativa o nel libro-‐ inchiesta: si divertono enormemente all'idea che si possa discutere a lungo su un aggettivo, o proporre il cambiamento di un sostantivo o insistere su un punto e virgola al posto della virgola. Ti assecondano in tutto, guardandoti con struggente compassione. Ma passiamo, e concludo, ad un punto nodale. Chi fa l'editing propone, è l'autore che dispone, cioè è l'autore che decide su tutto. Io dò dei suggerimenti, e basta. Spesso mi è capitato di discutere con un autore su una certa espressione secondo me infelice e di sentirmi obiettare: "Sarà come dice lei, ma io ci tengo molto". E ovviamente l'espressione restava. (Il già citato Fiedler diceva: "Un redattore non dice allo scrittore “fa’ questo”, ma gli indica un 12 passaggio e dice: “Non mi piace, che cosa pensa di fare?"). Insomma, facendo l'editing, io lavoro solo per l'autore badando solo a quello che ritengo sia vantaggioso per il testo. E sarei proprio curiosa di sapere qual è l'autore che non abbia interesse a conoscere cosa ne pensa, frase per frase, del suo lavoro un altro lettore disinteressato e, si presume, non privo di qualche competenza. E, cosa fondamentale, che crede nel testo su cui lavora. L'importante, per rendere al meglio, è fare l'editing su dattiloscritti in cui si veda, o almeno si intraveda, un buon libro. Personalmente accetto solo questi. Anche perché altrimenti è facile far disastri e il demone dell'editing si può scatenare, fino a rendere un testo da brutto assai a orripilante. Devo dire che in tanti anni di editing ho stabilito rapporti molto cordiali con gli autori, che tuttalpiù mi fanno osservare che tendo a "togliere" troppo (e immancabilmente mi fanno la battuta: "Con i tuoi tagli farò un altro libro"). Rapporti che in qualche caso sono sfociati in una vera amicizia con persone che prima dell'editing erano dei perfetti sconosciuti. E come credo capiti a chiunque faccia l'editing con passione, finisce che sono gli stessi autori a chiedere all'editore di riaverti al fianco nel libro successivo e gli editori accettano sia pure a malincuore per via del compenso, su cui nobilmente sorvolo (spesso è risibile). E un famoso editore ebbe a dirmi: "Grazia, quando la smette di raddrizzare le gambe ai cani?" L'inconveniente forse maggiore nel fare l'editing -‐ per via di quella immersione totale nello stile, nell'atmosfera altrui, cui accennavo all'inizio -‐ è che può capitare di esprimersi per un certo periodo in modi non congeniali, che non si condividono affatto. Di qui una momentanea perdita di identità, per miserella che sia, che poi però si recupera facilmente. La si recupera fino al prossimo editing. Stefano Jacomuzzi Un intervento divertentissimo, proprio perché profondamente serio e profondamente vero. Disperante davvero da noi il lavoro dell'editor, che ha a che fare con evidenti insormontabili nevrosi dello scrittore. Terribile compito quello che gli spetterebbe: raddrizzar le gambe ai cani. Ma è proprio il caso di compiere una simile fatica? Non sarebbe meglio lasciarli andare con le gambe storte e... non pubblicarli? Certo, la figura dell'editor vero capovolge quella delineata da un aforisma che mi pare di aver letto, di una personalità americana, forse Adlai Stevenson, che affermava che “l'editor separa il grano dalla pula e poi stampa la pula”. L'intervento di Grazia Cherchi mi pare che ci presenti una situazione del tutto opposta; si direbbe che del poco grano che c'è gran parte del merito vada proprio all'editor. E ora la parola a un altro... editor, se lo vogliamo così chiamare, nonché soprattutto scrittore in proprio, Giuseppe Pontiggia. 13 Giuseppe Pontiggia Vorrei indugiare brevemente su certi aspetti dell'editing come si sono configurati nella mia esperienza personale. Mi sono imbattuto per la prima volta nell'editing senza sapere che cosa fosse, quando ero molto giovane. Ero nella redazione di una rivista di avanguardia che si faceva a Milano a metà degli anni '50, "Il Verri", e chiedevo agli amici che erano nella rivista, Porta, Balestrini, che cosa pensavano dei miei testi narrativi e loro mi indicavano con precisione le cose che li persuadevano e le cose che invece secondo loro non andavano. Lo stesso chiedevano loro a me per i loro scritti. È stata un'esperienza molto importante. Negli anni precedenti avevo avuto contatto con Vittorini a cui avevo portato un romanzo breve: La morte in banca. Vittorini mi aveva indicato le cose che secondo lui andavano e quelle che non andavano. Non sono, a distanza di anni, del tutto convinto della pertinenza di alcune valutazioni di Vittorini sulla struttura del romanzo. E questo è uno degli aspetti dell'editing sul quale è bene indugiare. Vittorini aveva l'idea che io dovessi ampliarlo, aggiungergli capitoli, mentre questo era al di là delle mie possibilità psicologiche ed espressive in quel periodo e a distanza di tempo trovo che il suo fosse un giudizio fuorviante. Con ciò gli sono infinitamente grato dell'impulso che mi ha dato a scrivere, della fiducia che mi ha accordato, e del rapporto che mi ha aiutato a stabilire con il testo, un rapporto, come dire, tra virgolette, oggettivo. Occorre evitare il lettore complice, che è la cosa peggiore. Purtroppo questi compagni indulgenti si trovano sempre lungo il percorso, attori che fingono adesione e poi hanno in mente tutt'altro giudizio. È molto importante avere lettori che abbiano una salutare insofferenza nei confronti del testo, e che lo leggano con una certa resistenza, perché si chiede loro un lavoro. Questi lettori possono essere amici, scrittori, o persone non specialiste, purché abbiano però un atteggiamento serio, severo, di fronte al testo. Sarebbe naturalmente preferibile una competenza specifica, ma non è frequente. Mi sono laureato nel '59 con una tesi sulla tecnica narrativa di Svevo, ma tale disciplina, sia in quegli anni, sia oggi, non è particolarmente studiata e approfondita né dalla critica, né dagli stessi scrittori. E questo può aiutare a capire come mai in Italia la pratica dell'editing non sia sempre soddisfacente, parlo dell'editing riservato alla narrativa, all'interno delle case editrici: perché non si è sviluppata una cultura adeguata del romanzo. I problemi di tecnica narrativa per lungo tempo in Italia sono stati visti con sospetto e questo per una serie di ragioni, tra le quali il prevalere di una cultura idealistica e crociana, che poneva l'accento sull'identità di intuizione ed espressione e considerava la tecnica come uno strumento meramente pratico. Inoltre non c'è stata nell'Ottocento italiano una stagione narrativa così felice, piena ed esemplare come nell'Ottocento russo, francese e anglosassone. Nei confronti della tecnica narrativa, oggi l'atteggiamento va evolvendosi in senso positivo, ma allora non esisteva, e ancora oggi esiste solo in parte, un 14 atteggiamento adeguato. Faccio un esempio. Mi è accaduto di partecipare ad un convegno su Guido Morselli, nel quale un illustre italianista, che stimo molto, affermava che i periodi di Morselli non sono riconoscibili, mentre quelli di Gadda... tre righe di Gadda si riconoscono immediatamente: una pagina di Morselli, no. Io sono intervenuto dicendo che questo non era vero, che un narratore lo si individua anche dai trattini del dialogo, dalle articolazioni del dialogo. Noi siamo abituati a riconoscere l'espressività di uno scrittore dalla ricchezza lessicale, dalla costruzione sintattica, mentre in genere non abbiamo un occhio attento a certe sfumature del dialogo, che invece sono fondamentali. "Disse lui"... "lei disse" ... variazioni minime che però sono rilevanti all'interno di una prosa narrativa. Questa attenzione specifica ai problemi della tecnica non si è sviluppata in Italia se non negli ultimi anni, perché secondo me non esiste ancora una cultura del romanzo, quale si è invece sviluppata nei Paesi anglosassoni, in Francia e in Russia. Tra parentesi, per documentarmi criticamente, ho dovuto fare in quegli anni riferimento quasi esclusivamente a bibliografie straniere, perché in Italia c'erano solo alcuni studi interessanti di stilistica, ma la specificità della tecnica narrativa non era affrontata. Negli anni successivi mi è accaduto di fare più volte editing di opere narrative. È stata un'esperienza molto importante, perché mi ha aiutato ad approfondire e capire i problemi della scrittura. Dal punto di vista psicologico il bilancio non è molto positivo, nel senso che, come hanno accennato oratori che mi hanno preceduto, nei confronti di chi lavora sul testo c'è spesso una diffidenza ingiustificata, come se fosse un operatore ostile che vuole intervenire arbitrariamente e prepotentemente sul testo. Queste diffidenze sono comprensibili, soprattutto sono direttamente proporzionali alla insicurezza degli scrittori; devo dire che quanto più uno scrittore è consapevole dei suoi mezzi espressivi, e maturo, e esperto, tanto più capisce l'aiuto che gli può venire da un occhio critico estraneo. Però devo dire anche che il mio atteggiamento nei confronti dell'editing è andato cambiando. Anzitutto non ne faccio più da molti anni, per ragioni di tempo. Se qualche amico mi chiede di segnargli le cose che vanno o non vanno, lo faccio, ma in via del tutto personale. Lo stesso, quando scrivo, chiedo sempre un parere ad altri. Di solito, come diceva Almansi, si ricorre al capro espiatorio, alla vittima designata che è il congiunto, il parente, la persona amica. Sono dei punti di riferimento che spesso hanno una grande importanza, nel percorso. Si può chiedere il parere ad amici scrittori, anche se c'è il pericolo che un occhio orientato finisca per essere vizioso e sovrapponga la propria prospettiva a quella invece interna al testo. Però al di là di questi aspetti personali, per cui non faccio più editing, ci sono anche aspetti oggettivi che mi vedono un po’ diffidente nei confronti di questa attività. Ossia, ci sono dei pericoli nell'editing sui quali vorrei indugiare. Sono d'accordo su gran parte dei suoi aspetti positivi. Quali sono invece gli aspetti negativi, i pericoli? Anzitutto di muovere, per quanto riguarda la narrativa, da un modello di romanzo, da un'idea 15 di romanzo che non coincide con quella che persegue il narratore e che però può avere altrettanta legittimità. Molte volte sono stati censurati, all'interno di case editrici e anche dalla stessa critica, romanzi che presentavano elementi innovativi e scarti e digressioni insolite, rispetto ad un modello tradizionale di romanzo, e che però erano importanti. Ecco il pericolo dell'editing, di riflettere una immagine parziale del romanzo, di sovrapporla al testo. Naturalmente chi è esperto cerca in tutti i modi di non farlo, però questo pericolo c'è. Ci sono stati casi gravi di fraintendimento di scrittori, scrittori che sono stati ignorati non per una svista tecnica, non per stupidità dei lettori, quanto per un occhio inadeguato perché suggestionato dalla moda, dai modelli letterari correnti. C'è il pericolo cioè di una sovrapposizione involontaria di modelli al giudizio interno al testo. L'editing che cosa dovrebbe avere come punto di riferimento? In un certo senso le parti migliori di un testo. Ossia si legge un romanzo, se ne individuano le parti felici e le parti che sono ridondanti, superflue, pleonastiche. Per la correzione o lo scarto delle parti deboli, si tiene, come punto di riferimento costante, la qualità delle pagine di resa migliore. Però anche questo criterio può rivelarsi fallace, fuorviante. A distanza di tempo quelle che a noi sembrano pagine deboli possono essere invece pagine che presentano novità rispetto ad un immediato che ci colpisce di più perché si inserisce più facilmente nelle nostre abitudini di lettura. Faccio un esempio: Manzoni fu criticato per l'inserzione di parti storiche che venivano giudicate fuorvianti, mentre oggi si riconoscono come strutturalmente importanti. Tra parentesi debbo dire che all'editing i narratori hanno spesso ricorso. Manzoni ricorreva a un editing famigliare, leggendo il testo ai suoi famigliari, e a un editing epistolare. All'editing pensò Collodi per Pinocchio, aveva infatti chiesto al suo editore di dargli delle indicazioni e di fare degli interventi per rendere il testo più efficace; all'editing ricorreva Cechov, all'editing ricorreva, a suo modo Kafka, leggendo i suoi testi con amici, commentandoli di solito con risate collettive, e non con lacrime come pensano certi critici. Quindi l'editing come pratica di lettura, come confronto col testo è sempre stata una modalità perseguita dagli scrittori. In questo senso io credo all'editing, altrimenti non terrei dei corsi sulla prosa, non corsi euforizzanti per creare scrittori, ma corsi in cui si affrontino i problemi dello scrivere, problemi di tecnica narrativa, costruzione dei periodi, collocazione della parola nella frase, impiego espressivo degli aggettivi, degli avverbi, ecc. ecc. Problemi di prosa in senso lato, valendosi di esempi che sono tratti dalla letteratura antica e contemporanea, indicando alcune soluzioni felici e mostrando al tempo stesso tentativi falliti, pagine mancate, e perché e come, analizzando. Dando cioè un taglio sempre problematico e non normativo. Quindi sono io stesso il primo a credere nella perfettibilità del testo e nell'aiuto che ci può venire da un occhio estraneo, disinteressato e attento. Però direi anche che non vanno sottovalutati i pericoli. Un ultimo accenno all'importanza dell'editing nella traduzione. Gran parte delle 16 traduzioni di opere di poesia, di narrativa, di saggistica sono spesso insoddisfacenti nella stesura presentata all'editore. L'editing perciò è molto importante come controllo e revisione della traduzione. Le case editrici che tengono in particolare modo alla qualità delle loro traduzioni affrontano costi anche molto rilevanti di editing, a volte spendendo il triplo di quello che costerebbe una traduzione normale. Secondo me andrebbero pagati il doppio i buoni traduttori, ma sono pochissimi. Quindi fatalmente che cosa succede? Che una traduzione viene corretta in redazione da persone altamente specializzate, anche se il tipo di intervento varia secondo le case editrici. Concludo dicendo che l'editing secondo me è una pratica importante, è una pratica che le case editrici è giusto che perseguano proponendo agli autori dei miglioramenti, proponendo degli interventi, suggerendo alternative, sempre in una forma di proposta, come diceva Grazia Cherchi, mai in una forma impositiva, mai in una forma normativa. E poi se gli autori non sono disposti a riconoscere questa, questi suggerimenti, alla fine pubblicare il testo e assumersene la responsabilità. Stefano Jacomuzzi Grazie a Pontiggia e, prima di dare la parola all'ultimo (ultimo in ordine alfabetico, ben inteso), vorrei richiamare l'attenzione sulla grande quantità di questioni, sul molto materiale e la molta carne messa al fuoco. Intravedo tra il pubblico molti addetti ai lavori, e anticipo l'intenzione di dare successivamente al pubblico la parola, oltre a quelli degli intervenuti, che avessero qualcosa da chiarire o da precisare. Prevediamo, insomma, dopo l'intervento dell'ultimo relatore, una seconda e diversa tornata della nostra tavola rotonda. Do la parola a Gianni Rizzoni, direttore generale delle Edizioni del Sole 24 Ore. Gianni Rizzoni Mi sento un poco in difficoltà in questa tavola rotonda, perché fra tutti sono l'unico rappresentante "ufficiale" di un editore. E sugli editori -‐ o almeno su un certo tipo di editori -‐ abbiamo sentito varie accuse: che pagano poco, che non capiscono le esigenze di autori, redattori, traduttori, ecc. Ma prima di diventare direttore generale delle Edizioni del Sole 24 Ore ho fatto anch'io la trafila: collaboratore esterno, redattore, giornalista, direttore editoriale, prima alla Mondadori e poi al Gruppo Fabbri. E devo dire che di editing -‐ sui testi o redazionale -‐ ne ho sudato molto. A questo punto vorrei però introdurre un concetto di editing diverso da quello di cui si è parlato sinora: un editing forse meno "nobile", meno conosciuto e meno interessante dal punto di vista del lettore -‐ e anche meno gratificante per il redattore -‐ ma ugualmente fondamentale per la casa editrice e per la sua immagine: l'editing redazionale. Tutti quegli interventi non rivolti cioè a 17 modificare il testo o la struttura di un libro di narrativa, ma a "confezionare" un prodotto editoriale corretto -‐ dall'impaginazione ai refusi, dall'accuratezza delle note alla eliminazione di contraddizioni ecc. L'importanza di questo editing è, ripeto, fondamentale. Per la narrativa, certo, ma anche per la saggistica, la scolastica e soprattutto per i libri illustrati, nei quali la figura dell'autore può anche non essere così importante. Perché il libro illustrato nasce generalmente dalla collaborazione di varie figure professionali: l'autore o gli autori dei testi, il fotografo, il ricercatore iconografico, il redattore e l'impaginatore, il fotolitista, lo stampatore. In questa tipologia di libri, il redattore ha anzi un ruolo fondamentale: quello di coordinare il tutto, di "costruire" e far uscire un "prodotto" perfettamente amalgamato nelle sue componenti contenutistiche ed estetiche. E veniamo ad alcuni esempi di cattivo editing redazionale che anche Grazia Cherchi ricordava poco fa. Cito a memoria: la settimana scorsa "la Repubblica" titolava "Neanche Camus si salva dall'editing" riferendo il caso di una nuova edizione di un dramma dello scrittore francese con tagli arbitrari e interpolazioni gratuite. E anche "il Messaggero", sempre dei giorni scorsi (e questo è forse l'esempio migliore per spiegare l'importanza dei lavoro di editing), denunciava i troppi errori di un libro tradotto dall'americano. Errori sicuramente imputabili all'autore (date sbagliate, citazioni e riferimenti inesatti, eccetera), ma che un buon editing redazionale avrebbe dovuto individuare e correggere. Ma non basta: l'articolo proseguiva con queste frasi che vi leggo integralmente: “Ci voleva tanto ad andare a cercare nell'epistolario per riportarle come Verdi le scrisse?" Sono d'accordo, è proprio un orrore. Un orrore che, purtroppo, viene ripetuto continuamente in quasi tutte le case editrici. In questo Almansi mi ha anticipato poco fa, dicendo che in Italia non ci sono strumenti e biblioteche per eseguire le ricerche. Ma siccome l'editore di cui si parla è una importante casa editrice di Milano, e a Milano le biblioteche sono almeno dignitose, mandare un redattore a controllare e trascrivere correttamente le lettere di Verdi non sarebbe stato impossibile. Perché succedono casi come quelli denunciati dalla stampa? Perché il lavoro redazionale a volte è svolto così sciaguratamente? Per una serie di motivi che cercherò di riassumere in breve. Primo: nelle case editrici mancano i "maestri", non solo di editing in senso nobile, ma addirittura di lavoro redazionale puro e semplice. Secondo: le esigenze della nuova imprenditoria editoriale sono tali da non consentire un accurato editing editoriale; bisogna fare uscire i libri a catena di montaggio, rispettare certe scadenze, ridurre i costi di redazione, di collaboratori, dare il più possibile il lavoro all'esterno. Terzo: la mancanza di umiltà degli autori, in particolare degli italiani. Su questo punto non mi soffermo, perché è l'argomento di cui finora si è parlato più a lungo. 18 Quarto: una notevole mancanza di umiltà da parte dei nuovi redattori, la maggior parte giovani laureati entusiasti che entrano in casa editrice e immediatamente diventano Redattori con la R maiuscola e sono subito responsabili della realizzazione di alcuni volumi. Questo si ricollega in parte alla mancanza di "maestri" capaci di istruirli e di guidarli. Anni fa, invece, chi entrava in casa editrice cominciava col correggere le bozze e veniva affiancato ad un redattore anziano -‐ non tanto di anni quanto di mestiere. Il redattore lo aiutava, gli faceva capire gli infiniti piccoli e grandi problemi che la corretta realizzazione di un libro richiede. Oggi ben poco di tutto questo: un giovane entra in casa editrice e dopo sei mesi pontifica già di autori, traduttori e collaboratori esterni buoni e cattivi. E viene travolto dal lavoro: "tu quanti testi hai? Sei per il prossimo mese". Manca poi la persona in grado di controllare globalmente il lavoro e così si pubblicano quelle bestialità che ogni tanto grandi giornali come "Panorama" e "L'Espresso" giustamente dileggiano. Io ho avuto la fortuna di imparare l'editing da due maestri. Enzo Orlandi e AlbertoTedeschi. Il primo, Orlandi, è un giornalista-‐editor-‐manager che all'interno della Mondadori aveva creato una vera e propria scuola redazionale. È l'inventore dei libri illustrati seriali. Li commissionava a specialisti o a docenti universitari, ma per contratto li faceva riscrivere sistematicamente da giornalisti o da buoni divulgatori esperti appunto nell'editing "nobile". La sua prima fortunata serie s'intitolava I grandi di tutti i tempi e ha venduto oltre quindici milioni di copie in Italia e all'estero, dove è stata tradotta in qualcosa come quindici lingue. Poi sono venuti I Giganti della Letteratura, I grandi della Storia, I pro e i contro, nomi che forse oggi non dicono molto, ma che hanno venduto complessivamente milioni di copie in Italia e all'estero e hanno portato nelle case italiane un contributo culturale rilevante. Quale era il pregio di quei libri? Quello di essere ricchi di illustrazioni, bene impaginati, ben lavorati dalle redazioni e soprattutto di essere scritti in modo esemplarmente semplice, diretto. Il che non vuole evidentemente dire poco corretti scientificamente ma, al contrario, lungamente elaborati per dare al lettore non abituale la possibilità di accostarsi senza difficoltà a opere o concetti ai quali usualmente non avrebbe potuto accostarsi. Ma che fatica per Orlandi riuscire a imporre quella impostazione! Appena si seppe dell'intenzione di lanciare questi libri "popolari" ci fu subito chi protestò: "La Mondadori è la principale casa editrice di cultura, cosa facciamo, ci mettiamo a pubblicare libri di basso livello, quasi dispense? Se proprio si vuole fare questo esperimento, che si esca almeno con una sigla che non sia quella (gloriosa) di Mondadori". Fu Arnoldo Mondadori in persona che chiamato a decidere se fare uscire questi libri e con che sigla, decise che erano degni del nome Mondadori. Ancora una volta il "vecchio" aveva dimostrato il suo celebre fiuto, scavalcando i suoi collaboratori. Quale era la tecnica redazionale predicata da Orlandi? Il direttore voleva che i 19 testi fossero precisi, semplici, pieni di notizie e di stimoli; voleva che l'impaginato fosse perfetto, che nelle didascalie ci fosse un racconto con informazioni che non figuravano nel testo. Le didascalie dovevano esseri come dei brevissimi articoli. Andavano composte a bandiera molto compatta, con la prima e l'ultima riga lunghe. I redattori faticavano come pazzi a far e rifare didascalie per mettere la notizia in più, chiudere bene le righe, ecc... Orlandi, poi, teneva moltissimo all'impaginazione, alla qualità della stampa e della legatura. Controllava personalmente tutto, gli originali e le ciano. Correggeva di suo pugno le prove colore, coi pennarelli, per indicare le sfumature. Scriveva frasi tipo: "Questo cielo deve essere più terso, azzurro come il cielo del Manzoni. Ricordo quanto mi ha fatto sudare sulla biografia di Voltaire, uno dei primi lavori che ho seguito come redattore: ho dovuto riscrivere il testo tre o quattro volte. Alla fine non ne potevo assolutamente più. Dato che avevo insegnato letteratura francese al liceo, e mi ritenevo uno specialista in materia, mi sembrava sempre che tutto fosse perfetto. Arrivavo dicendo: "Tutto chiaro". E lui subito mi pizzicava una frase: "Mi spieghi bene questo concetto, non è chiaro". E dovevo riscriverlo. Il secondo maestro si chiama Alberto Tedeschi ed è stato per cinquant'anni il "padre" del giallo Mondadori. Perché è importante Alberto Tedeschi? Non solo perché ha insegnato a tradurre ad alcuni dei migliori traduttori italiani ma anche perché è stato un maestro dell'editing della traduzione per tanti redattori. Alberto Tedeschi viveva in modo totale il suo compito: si portava a casa non solo il lavoro, ma anche i collaboratori, sabato e domenica che fosse. Li invitava a pranzo e cena; li consigliava non solo nel lavoro, ma anche nella vita. Libro dopo libro, insegnava il mestiere. Dalla sua scuola sono usciti grandi traduttori (Carlo Rossi Fantonetti, Laura Grimaldi, Hilya Brinis solo per citare alcuni nomi), ma anche revisori e redattori che oggi occupano posti di rilievo nelle grandi case editrici. Per concludere, vorrei citare alcuni fatti che secondo me fanno ben sperare nella ripresa dell'interesse per l'editing redazionale. La nascita di alcune piccole case editrici molto attente alla qualità del libro in primo luogo, e poi l'organizzazione di corsi professionali di redazione come quelli aperti recentemente a Milano -‐ uno per redattori generici e uno per redattori scientifici. Vorrei infine citare l'esempio di una casa editrice che dell'editing e della perfezione redazionale e di stampa ha sempre fatto il suo cavallo di battaglia: Selezione dal Reader's Digest. Dato che opera essenzialmente sul mercato "mailing" e solo per grandi tirature, Selezione può permettersi di lavorare i suoi volumi per mesi e mesi, cosa che evidentemente non possono fare gli altri editori legati alle esigue cifre del mercato librario. Ciò non toglie che la rigorosa impostazione dei suoi testi sia per tutti un ottimo esempio da seguire. 20 Stefano Jacomuzzi E così, abbiamo concluso i primi interventi. Mi sono accorto che anch'io, senza volere, ho fatto l'editor nella mia vita e ho subito l'editor. Prima volevo chiedere ai presenti, a questi che sono seduti a questo tavolo se hanno qualche intervento particolare ciascuno sull'intervento dell'altro, qualche osservazione e chiarimento, per poi passare la parola invece a chi ha qualcosa da chiedere, o ha qualcosa da dire e da insegnare... Almansi. Guido Almansi Un piccolissimo punto sull'intervento di Pontiggia. Pontiggia sembra pensare soltanto ad un editor reazionario e conservatore e questo mi ha un po’ sorpreso. Tu dici che un editor potrebbe causare dei danni, in fondo, invece che migliorare il libro perché l'editor vive secondo dei criteri, segue dei criteri che sono passati e invece lo scrittore è sperimentale per definizione, per vocazione, per necessità, perché altrimenti se non ci fossero scrittori sperimentali la letteratura morirebbe, ma non mi pare che questa sia una conseguenza necessaria. È chiaro che uno andrebbe da un certo tipo di scrittore e non da un altro a farsi leggere il libro, e io se scrivessi un libro di tipo sperimentale, non so, un libro joyceano, non credo che andrei da Giorgio Bassani a farmelo leggere. Ma è possibilissimo avere il caso contrario: avere un editor che è sperimentale e uno scrittore che non lo è; ma non è che l'editor per sua fatalità debba essere questo fenomeno frenante, debba mettere il freno. Giuseppe Pontiggia Non è una fatalità ma è un pericolo. Ti faccio due esempi: uno, il Gruppo 63. All'interno del Gruppo si leggevano testi e c'era il commento immediato, molto duro, programmaticamente molto energico, di lettori e scrittori che commentavano il testo e che in gran parte condividevano le premesse di poetica da cui muovevano gli scrittori. È stata un'esperienza interessante, vitale, così, ma anche piena di insidie, di pericoli: ho visto scrittori uscire scioccati per interventi troppo aggressivi, legati a ragioni di poetica che entravano in conflitto con il testo, uscirne colpiti più del necessario. Io sono per una lettura severa, però c'è un tipo di lettura volontariamente o involontariamente faziosa, fuorviante che può danneggiare lo scrittore. Questo l'ho visto in più interventi, tanto è vero che mi ero rifiutato di leggere. 21 Guido Almansi Perché hai paura del giudizio? Giuseppe Pontiggia No, ho paura della stupidità dei giudizi, in qualche caso... Questo è un'altra cosa... Guido Almansi Ma questo non riguarda l'editing, riguarda le scuole letterarie ... Giuseppe Pontiggia Lo so, ma a volte interferiscono sull'editing. Un altro caso è quello di Morselli. Morselli è stato rifiutato da editori con motivazioni non banali, con motivazioni legate ad una certa idea di romanzo al quale Morselli non si uniformava, perché procedeva per vie sue, ecc. Queste motivazioni tra l'altro si traducevano in suggerimenti di interventi che non sono stati ascoltati dall'autore, perciò alla fine il romanzo non è uscito; e questo con più editori. Ecco, sono un esempio di come una certa idea di editing finisca per sovrapporsi a quella passività concentrata di fronte al testo nuovo che invece bisognerebbe avere. Stefano Jacomuzzi Questo è vero, e d'altra parte diciamo che anche lo scrittore deve avere nei confronti del suo editor una sua forza, una sua convinzione. Penso alla frase detta da un pittore, se ricordo bene Braque, a una signora che davanti a un ritratto di donna aveva fatto notare come avesse un braccio troppo corto: "Ma signora, questo è un quadro, non una donna!". Non penso che un vero editor possa fare osservazioni così banali, ma l'autore deve anche possedere questa forza nei confronti della sua opera, facendo lui capire all'editor che gli stava a cuore in quel passo qualcosa di più importante che la lunghezza del braccio. Divagando, mentre ascoltavo gli interventi mi veniva in mente che molto più difficile deve essere il lavoro di editing nei confronti della poesia L'esempio è naturalmente ridicolo e paradossale, immagino un editor che faccia notare a Montale come nel verso "non recidere, forbice quel volto" forse ci sarebbe andato meglio un rasoio... Vedo Almansi che fa il grido dell'armi... No, ma non era questo che intendevo dire... 22 Guido Almansi No, sono veramente molto sorpreso da quello che dice, perché la storia della poesia moderna si basa un colossale lavoro di editing di Ezra Pound, il quale prende La Terra Desolata -‐ The Waste Land e lo cambia radicalmente, taglia il 40%. Se questo non è editing. Questo è grandissimo editing: tra tutti gli editor citati da Fernanda Pivano, il più grande di tutti certamente è stato Ezra Pound. Stefano Jacomuzzi Ma questo è un altro tipo di rapporto, non più quello dell'editor vero e proprio. Allora siamo davvero editor tutti di tutti. Vedo che chiede la parola il dottor Pignata, dell'editrice UTET... Piero Pignata Dunque io penso di avere qualcosa da dire su questo argomento visto che sono ventiquattro anni che faccio l'editor e sono anche spesso dall'altra parte della barricata e quindi conosco abbastanza i lati del problema. Vorrei riallacciarmi un attimo a quanto diceva prima il direttore delle Edizioni del Sole 24 Ore per porre l'accento su questo editing diciamo editoriale; lui ha parlato soprattutto di un rapporto tra editor e autore, ma c'è poi il problema delle opere collettive, storie affidate a diversi autori, enciclopedie, testi scientifici, in cui l'editor si trova a dover lottare non solo con l'autore, ma con i diversi autori, perché deve fare in maniera che uno non dica bianco, l'altro non dica nero. Poi naturalmente deve lottare con il direttore della collana, deve lottare con le esigenze editoriali che spesso e volentieri lo invitano a non fare l'editor perché non c'è tempo di farlo; nonostante ciò i libri escono, spesso non come dovrebbero, ma spesso come dovrebbero, talora anche migliorati. Vorrei dire anche che gli autori, se spesso sono suscettibili, non sempre lo sono: ci sono quelli che non lo sono affatto, specie nel campo scientifico. Basta che il libro si venda e sono felicissimi che il volume sia rifatto da un editor. Io qui in sala vedo degli editor che conosco e che sono autori di libri senza che nessuno lo sappia, quindi direi che di editor, nonostante quello che diceva prima Almansi, in Italia almeno, non ce ne saranno tanti, ma di buoni ce ne sono, malgrado tutte quelle difficoltà oggettive di poter reperire i dati in biblioteca. Stefano Jacomuzzi Non mi pare ci sia nulla da commentare o da aggiungere. Ci farebbe piacere se venisse a spiegare le proprie ragioni anche un editore, a spiegare i perché. Certo, 23 i problemi sono molti, problemi di tempi, di costi, ecc. Qualche altro intervento o qualche domanda di relatori? Eugenio Bonaccorsi Sono Eugenio Bonaccorsi, direttore editoriale della Costa & Nolan. Noi siamo una piccola casa editrice, ma facciamo editing, e non so se Almansi si riferisse proprio a me. Comunque nei nostri libri facciamo dell'editing. Io credo che ci siano due cose in più che vanno dette rispetto alle cose molto interessanti ed intelligenti che sono state dette qua. La personalità dell'editor quale deve essere? Si sono evocati qua dei nomi molto importanti, come quelli di Pavese. La domanda che io faccio è questa: "È bene che l’editor, in quanto editor, abbia una spiccata personalità di autore o di scrittore?" Non tanto provocatoriamente, ma sulla base dell'esperienza posso dire che forse questo non è un bene. Non un bene in quanto stiamo parlando di editor, che poi un singolo individuo possa essere un grosso scrittore tanto meglio per tutti, per tutti noi che ci occupiamo di libri e per lui, ma l'editor deve avere una personalità flessibile, deve essere pronto a reincarnarsi di volta in volta a seconda degli autori che tratta, non può violentare lo stile o la personalità dello scrittore di cui si occupa. L'editor è uno, nessuno o centomila, cioè una personalità plurima, pirandellianamente: è uno, ma per se stesso come scrittore nessuno, è centomila scrittori che di volta in volta devono sintonizzarsi con lo scrittore di cui si occupa. Noi per esempio in casa editrice avevamo un ottimo redattore, che aveva fra l'altro un prestigioso pedigree, diciamo così, professionale. Era stato in grosse case editrici, poi una serie di circostanze personali lo avevano portato da noi. Però era male abituato perché gli passavano davanti testi molto diversi di scrittori con caratteristiche particolari specifiche e lui tendeva a riportarle sempre alla stessa misura; cioè spianava questi testi, si sovrapponeva e li rendeva corretti; ma toglieva loro il sapore, quel gusto, quella particolarità che è tipica appunto dell'espressione di ciascun autore. Ecco perché dico che l'editor in fondo deve avere una sua cultura, deve avere una sua professionalità ma non è necessario che sia autore in proprio; anzi talvolta se si fa prevalere questo aspetto, questa ambizione, qualche volta anche frustrata, può scattare la trappola per cui l'editor trovi finalmente il momento di esprimersi totalmente, globalmente come l'autore quando ha come autore, davanti un dattiloscritto. Ecco, io metterei in guardia da questo tipo di meccanismo. Un altro aspetto che qua non è stato evocato ma che esiste nelle case editrici, ahimè, purtroppo è che l'editing è anche in relazione alle esigenze commerciali, nel senso che c’è anche la parte commerciale che preme, che ha le sue ragioni, le fa sentire e cerca di importele. E allora l'editing è sempre un equilibrio, una lotta, risultato di forze diverse che si confrontano e si discutono nei migliori dei casi: talvolta questo confronto è abbastanza aspro ma la parte commerciale può non essere d'accordo su un titolo e può proporne un 24 altro; è successo, succede nelle piccole case editrici e talvolta questo ha la valenza di un editing perché non conta chi lo propone, se è l'editor, diciamo così, che ha questo status professionale, o è il commerciale. Resta il fatto che l'effetto è lo stesso. La rete commerciale può discutere la copertina, nel senso che si ha ben presente un certo target, un certo pubblico, che il libro non è soltanto un'operazione intellettuale, è anche un prodotto che va portato ad un certo destinatario. Allora deve essere a punto in tutti i suoi risvolti, curato e la destinazione giusta, l'incontro, l'appuntamento con il lettore giusto è qualche cosa che è troppo importante perché anche chi ha il compito di venderlo non se ne occupi. Allora succede che spesso la parte commerciale fa delle richieste molto precise. Ho sentito qua come una specie di sfiducia aprioristica nei confronti di quelle che possono essere le esigenze commerciali. Dal nostro piccolo osservatorio, dal nostro piccolo punto di vista di piccoli editori dobbiamo dire che certe volte la parte commerciale ci ha dato delle indicazioni che si sono tradotte poi in operazioni di editing, che sono risultate preziose, addirittura vincenti. Un certo modo di fare la pubblicità, un certo modo di fare la copertina, un certo modo di proporre il titolo. E quindi in sostanza non voglio sanare qui e adesso delle contrapposizioni che qualche volta esistono, ma l'editing talvolta è un'operazione globale, complessiva che accoglie in sé anche delle istanze che sono proprie della parte commerciale e non per questo sono volgari. Stefano Jacomuzzi Abbiamo sentito anche questa voce. Mi pare che l'incontro di questa sera faccia anche giustizia di una troppo facile condanna. Sia pure entro limiti determinati, l'attività dell'editor si rivela come uno degli elementi indispensabili della moderna editoria. Pensavo ai titoli, elemento di notevole importanza agli effetti sia dell'esito tra il pubblico, sia della sua effettiva necessità di chiarificazione. lo stesso, per un mio lavoro, avevo proposto un titolo che mi pareva azzeccato, e la risposta è stata netta, inequivocabile e probabilmente anche giusta: con titolo così non ne venderemmo neppure una copia. Vorrei chiedere qualcosa al riguardo a Grazia Cherchi. Grazia Cherchi Ma io purtroppo non mi interesso dell'aspetto titolo perché non sono una titolista, sono disastrosa. Quindi non me ne occupo mai; posso dire all'autore che secondo me non funziona, però non ne propongo mai uno. Forse Peppo tu ne hai proposti 25 Giuseppe Pontiggia No, io per esempio anche per le opere narrative che scrivo, il titolo lo decido alla fine, chiedo molto agli altri, cioè è il frutto di una ricerca; faccio una serie di proposte, quindi sono io il primo anche a vagliare le risposte degli altri e penso che anche gli altri lo facciano. Come tendenza io sarei per ascoltare appunto le ragioni dell'autore, però sottoponendole a critica, se resistono alla critica, accettarle, e può darsi che abbia ragione, è probabile che abbia ragione. Questo è successo, è successo più volte; ho constatato più volte una certa resistenza nei confronti del titolo che era motivata dal fatto che questo titolo si collocava nel contesto di opere che si conoscono, mentre il titolo che suonava magari dissonante aveva le sue ragioni proprio in questa dissonanza. All'inizio sembrava ma stonatura e poi invece si rivelava un elemento innovativo. Stefano Jacomuzzi Ripeto l'invito per qualche altro intervento... Giuseppe Pontiggia Una cosa volevo dire a proposito del titolo. Idealmente, il titolo migliore dovrebbe essere quello, secondo me, che attira prima che il libro sia letto e che aggiunga qualcosa a lettura ultimata, rivelandosi non gratuito, contenendo, come dire, elementi di ulteriore riflessione. Grandi titoli spesse volte sono semplici e funzionano benissimo, da Guerra e pace al Castello; però, anche Addio alle armi è un bellissimo titolo, funziona prima e funziona dopo. Stefano Jacomuzzi Nella storia della nostra narrativa più recente il fattore titolo ha già una sua aneddotica, se non una sua storia, che ne testimonia l'importanza. Pensiamo al romanzo più noto di Buzzati con un titolo diverso da Deserto dei Tartari... Eppure l'autore voleva intitolarlo La fortezza. Va però detto, che nel titolo propostogli dall'editore-‐editor l'autore si riconobbe in pieno, per quel tanto di suspense e di mistero che era poi il sugo vero del romanzo, come ha detto appunto Pontiggia. Altri interventi? Sono così numerosi qui gli editori Ce ne sono, e Almansi in prima fila ... Guido Almansi Volevo ritornare proprio brevissimamente con un problema e un breve aneddoto, su quello che dicevi prima sulla poesia. Ora tu avevi fatto questo 26 esempio: "non recidere forbice quel volto”... e l'editor dice "non recidere coltello"... No, questo proprio non funziona, perché qui abbiamo un poeta che scrive, che inventa uno dei versi più belli della poesia del Novecento e un editor cretino, chi dice "coltello" sarebbe proprio un editor cretino. No, io volevo invece raccontare una storia in cui né il poeta, né l'editor sono stati cretini. Due o tre anni fa stavo facendo un'antologia di poesie e volevo un testo inedito di un celebre poeta italiano, di cui non farò il nome e ci siamo incontrati; lui mi ha dato questa breve poesia e io l'ho letta, e ho detto: "L'ho trovata molto bella, non mi piace l'ultimo verso ... ". Abbiamo cominciato a discutere, al caffè dove c'eravamo trovati, l'ultimo verso, e alla fine c'è stata una soluzione di compromesso. Io ho preso la poesia e l'ho messa nella mia antologia. La cosa curiosa però è questa. Questo poeta italiano aveva passato dieci anni in America. Stefano Jacomuzzi Ma la mia citazione del verso di Montale voleva essere poco più che una boutade. È l'editor di professione che vedo poco alle prese con la poesia, l'editor che abita a Prato, come diceva Almansi, e di lì invia i suoi pareri. Pound ed Eliot stabiliscono una collaborazione di altro tipo e certo che allora tutta la nostra poesia è frutto di editing diretto o indiretto, a cominciare perlomeno da Dante e Cavalcanti, o, chissà, Forese Donati... Qualche altro intervento? A questo punto se non... Fernanda Pivano voleva dire qualcosa... Anzi, potresti chiudere tu, come hai aperto. Fernanda Pivano Ma chiudere questi interventi di questi miei illustri colleghi è molto difficile. Hanno detto delle cose così interessanti e così divertenti e così pertinenti che io veramente non so che cos'altro dire. Posso insistere sul fatto che certe volte la figura dell'editor, che è un eroico, silenzioso, umile, meraviglioso personaggio, può creare dei grossi problemi, Per esempio in un libro mio su Hemingway, l'editor a mia insaputa ha corretto il "Poste" di Cortina nell'albergo della "Posta", facendomi fare una figura che non saprei definire con tutti gli amici, perché pareva che io a Cortina non ci fossi mai stata. Però in cambio di questo, gli editor possono fare delle correzioni formidabili e aiutare enormemente. Sicché dobbiamo solo essere grati, secondo me, a questi interventi silenziosi, sommessi, umili appunto, coraggiosi, anche di editor che hanno a che fare con la nostra vanità, con la nostra presunzione, con la nostra insofferenza e con questo invito al coraggio agli editor io chiudo, questa bellissima... ah, no, non chiudo... C'è qualcuno che vuole dire qualcosa. Allora, io da parte mia chiudo adesso. E adesso gli altri chiudano da loro. 27 Stefano Jacomuzzi Qualche voce ancora? No? Allora la nostra tavola si chiude... Grazie a tutti. Fernanda Pivano Allora la nostra vera conclusione con un omaggio a questa figura molto bella e molto coraggiosa dell'editor e un incitamento ai giovani autori ad accoglierla con più umiltà, per farsi aiutare da questi editor che sono personaggi preziosi. Grazie dell'interesse. * Ne presero parte Stefano Iacomuzzi (1924-‐1996) scrittore e critico letterario, Fernanda Pivano (1917-‐2009), traduttrice, scrittrice, giornalista , Guido Almansi, (1931-‐2001) critico letterario, scrittore e traduttore, Grazia Cherchi (1937-‐1995) scrittrice, giornalista, editor, Giuseppe Pontiggia (1934-‐2003) scrittore e critico letterario, Gianni Rizzoni, direttore generale delle Edizioni del Sole 24 Ore negli anni ’80. 28