Isola Nera
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casa di poesia e letteratura
La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori
italiani e di autori in lingua italiana.
Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo
di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.
Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione.
[email protected] - gennaio 2007 - Lanusei, Sardegna
Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste
(italia) http://www.unesco.org/poetry/
Giovanna Mulas
Sa Jana Reina
(la fata regina)
…Ed empirai di latte, spada mia, la coppa ardente. Capezzoli ginestra i muri prepotenti ai quali
romperai ogn’indugio, e dita come rami d’ oceanico seme, giù, oltre il buio dolce dove non c’è
stagione e primavera, sempre, dimora.
-Incredibile-, pensò a voce grezza e alta Sisinniu Scanu, e sorrise.
-Incredibile aberu- ripetè più forte.
Ora il torace si sollevava ed abbassava convulso, i denti gli si erano legati assieme.
Il sorriso era scomparso e l’uomo scandagliava attorno con occhi quasi severi.
Nove teste, rase e pidocchiose, sparpagliate à pedire attorno alla tavola comente sos
pilos aintru ‘e su mucadori nieddu ‘e thia Peppa, sa muzere de maistru ‘e muru de
cussa bidda ‘e mortos, intenta nel brusìo a sollevare con cucchiaio e forchetta dalla
scodella di portata tre culurjones tre colanti di salsa al lardo, pecorino e menta per
ogni bocca e pancia vuota; puntarono finalmente la testa più pensante della famiglia.
E ammutolirono. Gli occhi grandi di bambini e madre – caldi, uguali, circondati da
una raggiera di ciglia nere- sostennero pacatamente lo sguardo del capo famiglia.
Oltre i vetri latrava un Eolo impaziente, randagio, BalenteBelante; frustava i faggi
assonnati piegandoli come canne e come canne, da padrone, facendoli sònare,
vibrare, parlare di nenje di streghe antiche e, da amante, palpitare, gemere. Si diceva
che, fra quei faggi, avesse vissuto una fata dalla pelle d’ebano e gli occhi di carbone
ardente, strappata al suo mare da un destino crudele. Si diceva che avesse amato solo
una volta, Regina, amato il suo Re tanto da togliergli respiro ed anima e pensiero,
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amato tanto da lasciarlo andare, poi, scappare lontano, affinché il suo amore non
potesse togliergli anche la vita. E si diceva che fu allora, che la fata cominciò a
perdere i pezzi del suo cuore, a perdersi lei stessa nei meandri della propria mente.
Ogni passo, ogni volo, ogni luogo erano per lei ricordi, AmmentiFrammenti ‘e
suferentzia. E in ogni passo, ogni volo, ogni luogo un pezzo di cuore naufragava nei
tempi; cuore di fata debole, come debole è il cuore dell’uomo.
E sedette in una roccia la Fata, e cominciò ad urlare per la disperazione. E l’urlo
vento divenne e tempesta e uragano orrore d’ogni creatura. E poi quiete. Ed impazzì,
la Fata. E ancora vaga in forma di civetta, la bocca di ciliegia divenuta becco scuro e
duro d’osso, viola passita e pazza d’amore e senza mente e senza cuore, alla ricerca di
chi non è più.
Fata, la Fata, Sa Jana Reina,
E in sos mirtos, s’àrroccas su cantu (dal seno, pieno, il succo),
fùriosu su mare,CàstiaCàstiadi: in ie sa mente, su còro
OdoreDolore di Fata e fèmina, màlaria, malàdia ‘e amore (sudore)
E nessuno si, mai, potrà consolare.
Sisinnio ci aveva sempre creduto.
Alla Fata, ci aveva sempre creduto.
Ricordo che andava cincischiando in giro, quelle volte in cui su binu ‘onu, il vino
buono era stato per lui più buono del solito tanto da convincerlo che sì, poteva
mandarne giù ancora qualche litro senza pesanti conseguenze per fegato, denari e
moglie; che l’aveva vista lassù, gemere in cima à s’àrroccas; piangere di un pianto
strano, magico, prima di bambina, poi di giovinetta e donna. Infine diveniva urlo,
quel pianto, urlo continuo, e lungo, senza modulazione né tono.
Urlo di civetta, pareva. O di gatto impiccato.
E diceva Sisinnio che la Fata l’aspettava.Proprio così: l’aspettava.
Che gliel’aveva promesso lei.
E promessa di Fata è promessa mantenuta.
E lui ci credeva ché voleva crederci.
Credere all’incredibile.
-Incredibile aberu- mormorò Sisinnio.
E ora che gli anni erano passati, e così la giovinezza, l’uomo si guardava attorno e lì,
dove aveva creduto di vedere le testine rase, le sedie erano vuote, e vecchie quanto
lui. E lì, dove aveva creduto di vedere la giovane moglie, incinta dell’ultima creatura
bèddha e prena, intenta a servire i culurgjones colanti di sugo all’aglio, lardo e menta
e sussurrare antiche preghiere scacciadiavoli; in realtà c’era il buio, e solo buio e quel
brusìo di voci ora parlava di silenzi ché thia Peppa con la terra ora parlava, non più
con Sisinnio.
Due notti prima gli era apparsa, Peppa, come frequentemente gli appariva in quegli
ultimi tempi. Sisinnio conosceva il significato di quelle apparizioni; sapeva che stava
avvicinandosi per lui il momento di partire.E doveva salutare la terra, le cose terrene
che aveva conosciute e amate e odiate durante tutta la sua sconsacrata vita, salutare la
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terra prima che la terra aprisse le sue porte per accoglierlo dentro sé, farlo ritornare da
dove era venuto.E Peppa stava ai piedi del letto di Sisinnio, due notti prima. Lui s’era
svegliato di soprassalto e l’aveva vista così, bianca e pura come vergine, bianca e
pura come l’aveva conosciuta non ricordava più quanto tempo prima.Aveva
diciassette anni, Peppa, quando Sisinnio l’aveva incontrata per la prima volta, e
ritornava dal fiume con le sue amiche, carica dei panni lavati dei fratelli e della madre
vedova.Era bella, Peppa. Sisinnio ricordava che cantava sempre; lui e gli altri pastori
sapevano che Peppa era al fiume a lavare quando ne sentivano arrivare, tra i mirti e i
fusti di fico d’India, la voce; quel canto di sirena acerba.Allora Sisinnio s’infrattava
tra i cespugli e in amore, soltanto e semplicemente, la guardava lavare e cantare,
ridere con le amiche di disgrazia.
Eccola lì davanti a lui, ancora, Peppa, due notti prima. Muta, sorridente.
-Peppinè…-,
-…Peppinedda mea…-.
Poi Peppa era scomparsa.
Doveva salutare la terra, Sisinnio, prima d’entrarci dentro, salutare chi aveva amato e
chi aveva odiato.
Ora, era arrivato il momento di farlo.
E uscì di casa, Sisinnio, che la luna già s’alzava prepotente, stagliata tra tetti e aie e le
colline giù, all’occhio parevano fianchi o corone, scrigni attraversati da cicatrici
spurie, IncerteIrrequiete non segnate dalle mappe; quei fiumiciattoli magri e stinti
come le pecore quando l’acqua manca e la terra abortisce d’erbe.
L’avevano seppellita lì, la bambina.
Erano passati trent’anni ma Sisinnio ricordava perfettamente il posto, quel sughero
leggermente ricurvo a destra, un ramo ad indicare il cielo, l’altro la terra come che
quella bara naturale fosse in realtà un tramite ardito tra un elemento e l’altro, tra
spirito e corpo. Un fico d’India era cresciuto estendendosi in maniera spropositata
quasi ad abbracciare, cingere, proteggere l’albero e soprattutto ciò che l’albero
nascondeva, ed erbetta fine, e fresca, a quell’ora della notte umida e più tenera,
confortata dal canto delle cicale e la fragranza orgogliosa dei cespugli di felce.
Giunse lì dopo poco cammino nel bosco, attraversando il sentiero celato dai
corbezzoli e rovi. Fissò l’albero tra gli alberi e nel buio fitto non lo vide con gli occhi,
lo vide con la mente. E con la mente rivide Peppa, piantata lì come il sughero, ad
indicargli la via senza parlare. Sisinnio annuì, cadde in ginocchio e mormorò antiche
preghiere. Poi prese a scavare la terra brulla a mani nude, ficcò le dita forte e grattò
fango e radici, scavò e scavò. Smise, alzò il volto al cielo e, davanti a lui,
Peppa intimò scava ancora.
E Sisinnio scavò ancora, e ancora, e ancora che gli pareva di non dover mai finire di
scavare.
Toccò qualcosa, un sacco di tela grezza pareva.
E Sisinnio sussultò al ritorno del passato, che fu come uno schiaffo.
Ed ecco la bambina, una zingara figlia di zingari, dicevano che fosse in paese.
L’avevano vista camminare per le strade con la madre mezzo nuda al fianco per
qualche giorno, poi neppure più la madre s’era vista.
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Ed era andata, la bambina,a cercargli del formaggio mentre Sisinnio pascolava
pecore e capre ed il cane abbaiava ai falchi
E lui le aveva dato formaggio e pistoccu ed erano diventati amici; del resto zingari
tutti e due erano, chi di corpo, chi di mente. E tutti e due bambini erano, chi di corpo,
chi di mente
“E torna a trovarmi” le aveva detto Sisinnio
“E si” aveva risposto la bambina
Ed era tornata, per quindici giorni di fila, era tornata lì alla tanca, vicino à su riu ‘e
preda, tra sugheri e canne e menta odorosa
E il sedicesimo giorno era caduta nel fiume
(lui voleva strapparle un bacio – l’unico- e lei era scappata ridendo)
E aveva battuto la testa sul fondale
Ma Sisinnio sapeva che nessuno l’avrebbe cercata perché la zingara, per gli altri,
era Nessuno
E Sisinnio sapeva che avrebbero dato la colpa a lui di averla spinta nel fiume
E Sisinnio il Maresciallo Giommaria Trimarchi, un continentale, non l’aveva
cercato
Nemmeno avvisato, l’aveva
Senza vergogne aveva chiuso la zingara nel sacco che il suo padrone usava per
metterci il resto da dare ai maiali giù in paese
E il sacco l’aveva seppellito piangendo
E sapendo di fare peccato sapendo che tutta la vita quel peccato l’avrebbe pianto e
così davvero era stato
Sotto una piantina di sughero strana che a lei piaceva tanto perché curvava il fusto e
aveva un ramo che indicava il cielo, l’altro che indicava la terra
La zingara era la prima che Sisinnio aveva davvero amato, senza saperlo.
Amata come gli angeli amano.
Peppa sorrise e Sisinnio uomo pianse,
e Peppa scomparve
e Sisinnio gemendo pulì il sacco dalla terra,
Perdonami Signore perdona il peccatore perdonami zingara chè seppellita da
femmina e non da bestia, dovevi essere, e non nascosta dalla vergogna degli altri
Perdonaperdonaperdonaperdona…
E Peppa, e sa Jana Reina eccole assieme e la zingara lì, Angelo bambina a dare una
mano ad una ed una mano all’altra.
E Sisinnio comprese d’essere stato perdonato,
dalla TerraDio, perdonato.
E con Peppa, sa Jana Reina e la Zingara Bambina danzò tutta la notte
Dicono che lo videro danzare su ballu tundu
E danzare e danzare e danzare
Fino a che il cuore gli scoppiò di danza e di felicità
E qualcuno lo vide danzare.
(E ancora oggi, qualcuno lo vede danzare).
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Ma don Puddu coi suoi chierichetti, la mattina, bussò alla porta di Sisinnio per
accoglierne la confessione e dargli l’ostia, come faceva ogni giorno.
E lo vide così, Sisinnio, che pareva addormentato sulla sedia.
E don Puddu disse in paese che Sisinnio sorrideva; disse proprio così: sorrideva.
In tavola undici scodelle e undici bicchieri avevano trovato
E al centro della tavola in su tàlleri trentanove culurgjones trentanove, tre a testa per
ogni bocca e pancia vuota
E una civetta silente abbarbicata sulla tredicesima sedia,
le ali chiuse, il capo chino.
Olbia-Roma 29/06/2004, h. 07.40
POESIA E LA COMPRENSIONE DEI
LIMITI DELLA STESSA
Eugenio Montale
(1896-1981)
Una nuova intensità derivante da una continua ricerca nelle cose e nelle parole di
un legame con la situazione umana, originato anche dalla forza di un linguaggio
fortemente ancorato al presente; Eugenio Montale individua così il suo punto di
equilibrio tra la letteratura e il quotidiano, uno spazio non rifiutato, ma vissuto con un
sereno distacco lontano dal turbinoso mutare dei tempi e del significato esistenziale.
Genovese di nascita — la città ligure gli diede i natali il 12 ottobre del 1896 —, Montale
nutriva una forte passione per la letteratura e la poesia, approfondite in maniera
irregolare e sulla spinta della sete di conoscenza lungo l’arco di tutta la sua vita. Sergio
Solmi, Bobi Bazlen e i triestini —Italo Svevo e Umberto Saba —, passando da Ezra Pound
e la tanto amata letteratura inglese: furono questi gli autori che segnarono i primi
approcci artistici di Montale fino al periodo fiorentino e alla nomina a direttore del
Gabinetto Viesseux a Firenze, città che lo vide tra i suoi più brillanti intellettuali
negli anni dal 1929 al 1938. Il suo rifiuto di aderire al partito fascista lo costrinse ad
abbandonare la prestigiosa carica e dedicarsi ad attività di traduzione, inframmezzata da
collaborazioni con alcune riviste. Durante la seconda guerra mondiale fu richiamato alle
armi, ma ben presto fu congedato e visse il periodo dell’occupazione nazista a Firenze.
Dopo la liberazione si iscrisse al partito d’azione, ma la sua militanza politica durò poco a
causa della delusione provata nell’osservare come tutte le speranze in un cambiamento si
riducevano allo scontro tra la sinistra e il clericalismo, a discapito di quanti auspicavano
una svolta liberista di stampo europeo, che portasse alla nascita di un’Italia aliena dai
retaggi nazionalistico-provinciali e proiettata in un orizzonte di più ampio respiro.
Montale indaga l’uomo e il suo isolamento nel mondo, osservati anche rispetto al fluire di
natura e storia, come insegnavano i filosofi esistenzialisti e i poeti francesi — Charles
Baudelaire innanzitutto — e inglesi e americani — Robert Browning, Thomas Stearns
Eliot ed Ezra Pound —. La grandezza del poeta genovese risiede in quella straordinaria
abilità nel tentare di comprendere l’occidente a lui contemporaneo e i cambiamenti che le
arti e il sociale avevano subito dallo svilupparsi di una cultura massificata di carattere
planetario. Egli aspira a essere una voce laica, razionale, italiana ed europea, pronta a
sondare anche gli aspetti più terrificanti del presente con la consapevolezza, di fronte ai
sinistri presagi del futuro, dei suoi limiti e dell’inarrestabile corsa degli eventi.
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Una straordinaria capacità di comprensione rese Montale un acuto lettore e critico dei
libri più disparati, esaminati razionalmente per andare a scovare al loro interno le tracce
della condizione umana e della forza della conoscenza. L’arte, la parola, l’atto del
comunicare erano per il poeta dotati di concretezza, perciò, radicati nell’esistenza
individuale e proiettati in un ambito storico e collettivo, divenendo così concreti e
influenti. La sua poesia nasce dalla comprensione dei limiti ad essa connessi, dalla presa
di coscienza della contemporaneità, vista come una minaccia nei confronti dell’arte, in
pericolo non a causa della povertà del linguaggio, ma travolta dalle tante e troppe parole
che albergano nel mondo. L’unica risposta possibile è la poesia del confronto con la fine,
degli aspetti umani e civili positivi e, soprattutto, degli oggetti: concreti rivelatori del
senso interno delle cose, nel solco di Eliot e della nuova vitalità di simbolo e allegoria.
Montale è allo stesso tempo influenzato dalla tradizione poetica italiana, rivista alla luce
di un rapporto differente, diretto e vitale, dal quale trarre i necessari presupposti per
comprendere la condizione moderna. Tradizione e contemporaneità viaggiano su di un
binario parallelo che porta a un linguaggio poetico perfetto, essenziale, ma denso e
profondo
Ossi di seppia,
dato alle stampe nel 1925, è il primo esempio di questo tipo di poesia generata da
un’emozione intima ed espressa attraverso l’essenzialità degli oggetti e del linguaggio.
Montale cerca nuove forme, ma non esita nella sperimentazione dei metri tradizionali,
raggiungendo un eccellente risultato di linearità sintattica; i toni sublimi si trasformano
in concretezza e la parola diventa precisa, tecnica nelle designazioni per diventare poi
ironica e colloquiale in virtù di un abbassamento del linguaggio. Montale è una voce
immersa nel paesaggio, ma non direttamente partecipante alla vita, interrogata
attraverso segni, forme, suoni e movimenti, scanditi dal procedere del tempo. La vita
diventa così inafferrabile, vuota e reale, disgregandosi in un continuo equilibrio con l’io e
la sua distanza che si risolve in angoscia e rovina.
Le occasioni,
pubblicate nel 1939 da Einaudi, ridimensionano la riflessione esistenziale della
precedente poetica, la parola punta la sua attenzione sugli oggetti, tralasciando qualsiasi
aspetto meditativo e problematico per concentrarsi sul susseguirsi di immagini nette,
frutto anche di un forte impatto di suoni, parole e frasi. La poetica diventa complicata,
ardua, impenetrabile, portatrice di un messaggio volutamente occulto, mostrandosi,
però, tesa alla ricerca del contatto con l’altro che diventa una donna persa o
irraggiungibile, o la lontananza del tempo e il suo rievocare esperienze, oggetti e
immagini sbiadite nella memoria e ormai trascorse e intangibili. La donna rappresenta la
salvezza, il riscatto del poeta da questo vivere e dall’avvicinarsi, annunciato dalla
volgarità e dalla mediocrità del presente, della catastrofe; essa è reale in alcuni casi,
mentre in altri rivela le tracce di persone diverse, restando, comunque, l’ultimo baluardo
contro il precipitare degli eventi.
La bufera e altro,
terza raccolta poetica di Montale risalente al 1956, contiene poesie pubblicate
precedentemente in alcune riviste e scritte tra il 1940 e il 1954. La struttura aperta
dell’opera tradisce un intento romanzesco di prossimità con la Vita Nuova dantesca, nella
quale il presente si intreccia con l’amore per una donna salvatrice. La Beatrice di
Montale è moderna, ostile e amorevole, lotta contro la violenza e il degrado, permettendo
al poeta di riconoscersi e affermare la strenua resistenza della poesia, confrontandosi con
il mondo e la sua diffidenza. Questa figura femminile si muove in un ambito enigmatico,
cambia qualità e nomi, lanciando segnali contrastanti al poeta, al cui elegante verso
giocosamente si nasconde. Le figure femminili si intrecciano anche alle diverse situazioni
storiche in atto: il passaggio dalla speranza della fine della guerra a un dopoguerra
angoscioso e sinistro diretto verso la fine della civiltà.
Al termine di un lungo periodo di silenzio poetico, negli anni ’60 Montale ritorna con una
nuova poesia, più diretta, quasi dimessa, assolutamente lontana dal tono alto ed
essenziale della poetica precedente. La parodia, l’ironia, la diversità di stili prendono il
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posto della tensione lirica per mostrarsi completamente attraverso una revisione della
propria poetica, ora degradata a un livello più basso. La nuova arte si mostra semplice
solo in apparenza, assumendo su di sé il vuoto delle banalizzazioni con disincanto e
ironia, ma conservando come suo punto di riferimento la memoria. Il passato si
confronta con se stesso e il presente in una nuova dimensione, nella quale il
contemporaneo è ancora più angoscioso, tra la perduta giovinezza e l’attuale vecchiaia
come scoperta della precedente condizione e del suo significato. La voce di Montale
sopravvive perché non può accettare il mondo, costretta a negarsi sottraendosi alla
propria identità e alla verità. Satura, raccolta uscita nel 1971, sarà il primo risultato di
questa nuova poetica, di cui una parte era già stata pubblicata dieci anni prima, e il suo
influsso resterà tale anche nelle composizioni degli ultimi anni, dove il poeta, sfuggendo
al presente, osserva i dissensi, il disordine e la confusione di una vita artefatta.
È il cosiddetto secondo Montale, quello che afferma di avere aperto ai suoi lettori,
Il retrobottega della sua poesia. Nell'intervista Francesca Ricci, autrice della prima
opera di esegesi del Diario del '71 e del '72,
parla delle 90 schede, una per ogni poesia, che costituiscono il suo commento integrale a
questa raccolta.
«È ancora possibile la poesia?» — si chiedeva Montale — «In un mondo nel quale il
benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha
perso la sua essenza primaria?». Questa domanda, rivolta all’Accademia di Svezia il 12
dicembre del 1975, durante la cerimonia di consegna del premio Nobel, lo colloca quale
spirito antesignano rispetto ad un futuro, oggi reale, inquietante e problematicamente
terrificante, da lui individuato e scandagliato con anticipo impressionante. (L.A.)
La vita di Eugenio Montale
è la vita di un uomo schivo, distaccato e disilluso verso se stesso e la propria
stessa esistenza: scrivendo «sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere
professionale», diviene uno dei massimi rappresentanti della poesia e della
cultura contemporanea.
Nasce a Genova il 12 ottobre del 1896. Trascorre l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e
Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua poesia. Di salute
malferma, compie studi irregolari, nutrendo una forte passione, oltre che per la letteratura e
la poesia, anche per il canto. Nel 1917 viene chiamato alle armi come ufficiale di fanteria.
Dopo la guerra stringe rapporti sia con gli scrittori che a Genova frequentano il Caffè Diana
in Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di
Piero Gobetti, che negli anni venti cerca di attuare una resistenza culturale al fascismo, in
opposizione al futurismo e al dannunzianesimo. Nel 1925 pubblica, proprio per le edizioni
di Gobetti, il suo primo libro di poesie, Ossi di Seppia, e firma il manifesto antifascista di
Croce.
Sempre nel '25 esce sulla rivista milanese «L'esame» l'articolo Omaggio a Italo Svevo, con
cui contribuisce in modo determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni
successivi diviene amico. Nel '26 conosce inoltre Saba e il poeta americano Ezra Pound, e
d'allora indirizza una viva attenzione alla letteratura anglosassone. Nel 1927 raggiunge
l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la casa
editrice Bemporad; e conosce Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che
più tardi diverrà sua compagna, ma che sposerà solo nel 1962.
Nel '29 è nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, dal quale incarico
nel ‘38 verrà esonerato, avendo sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli
anni Montale è uno dei principali animatori della vita intellettuale fiorentina: frequenta il
noto caffè degli ermetici Le Giubbe Rosse, fa amicizia con i maggiori scrittori italiani del
tempo (Vittorini, Gadda) e inoltre allarga sempre più i sui interessi alla cultura europea.
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Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca vive attraverso collaborazioni a
riviste e soprattutto grazie ad una varia attività di traduttore. Nel '39 pubblica la sua
seconda raccolta di poesie, Le occasioni. Dopo una breve poesia introduttiva, Il balcone,
la raccolta si divide in quattro parti: la prima e l’ultima presentano poesie di carattere
diverso; la seconda, invece, s’intitola Mottetti e contiene venti brevi componimenti che
intendono riprodurre la forma musicale del "mottetto", sorta nel XIII secolo; la terza, infine,
contiene tre pezzi dal comune titolo di Tempo di Bellosguardo. Nel '43, a Lugano esce
Finisterre, un volumetto di liriche scritte tra il '40 e il '42, esportato clandestinamente in
Svizzera. Finita la guerra, si iscrive al partito d'azione, riceve un incarico culturale dal
Comitato Nazionale di Liberazione e fonda, con Bonsanti e Loira, il quindicinale «Il Mondo».
La sua esperienza politica è tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed
europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, vengono fortemente deluse dallo
scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo e la sinistra filostalinista.
All'inizio del '48 la sua vita, fino ad allora così normale, comincia a mutare. Si trasferisce
infatti a Milano, dove lavora come giornalista e critico letterario al «Corriere della Sera» e al
«Corriere d'Informazione». Pubblica sia una nutrita serie di interventi di attualità culturale e
politica che tendono a sostenere una cultura borghese critica e razionale, sia recensioni
musicali (raccolte nel 1981 nel volume Prime alla scala), reportages di viaggio in diversi
paesi del mondo (raccolti nel 1969 nel volume Fuori di casa) e numerosi brevi racconti, la
maggior parte dei quali costituiranno il volume Farfalla di Dinard (1958).
Nel '56 esce la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e
dell'immediato dopoguerra, La bufera e altro. Negli anni Cinquanta e Sessanta viene
considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e liberale, tanto
che riceverà diversi riconoscimenti culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e
nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura.
Nel 1966 pubblica le riflessioni di Auto da fé, e nel 1973 il volumetto Trentadue
variazioni. Dopo un periodo di completo silenzio poetico esce nel 1971 Satura, e nel 1973
Diario del '71 e del '72, nel 1977 Quaderno di quattro anni; ed infine nel 1980, caso
unico per un autore contemporaneo vivente, viene pubblicata l'edizione critica della sua
intera Opera in versi. Trascorre gran parte della vecchiaia nell'appartamento milanese in
via Bigli 15. Muore a Milano il 12 settembre 1981. (D.M.)
FONTE: http://www.italialibri.net
Lo sport e il patriottismo
Il patriottismo è un'infezione dalla quale non fui sempre immune. Quando l'Italia entrò in
guerra, nel 1915, io stoltamente non mi trovai d'accordo sui "parecchio" di cui si sarebbe
accontentato l'onorevole Giolitti; e se pure non partecipai ad agitazioni di piazza come
tanti altri non pensai affatto ad alcuna forma più o meno lecita di mio imboscamento. Fu
un errore? Non sono ancora riuscito a pentirmene del tutto. C'è però una forma di
patriottismo, quello sportivo, che mi trova totalmente allergico. Si tratta evidentemente di
una mia costituzionale deficienza e alcuni miei amici se ne rendono conto non senza
farmi notare quanto più piena e completa sarebbe stata la mia vita qualora il brivido di
un gol "nazionale" avesse mai scosso i miei precordi. Purtroppo nulla di simile è mai
accaduto. Giorni fa, quando un certo personaggio apparve al video affermando che il
calcio è cosa nostra, di noi tutti, dell'intera nazione, feci uno sforzo per sentirmi mutilato,
alieno, moralmente spastico, affettivamente fermo allo stato zero, ma non ottenni alcun
risultato. Si noti che io soffro di horror vacui e che una piazza affollata, un anfiteatro
stracolmo mi danno meno preoccupazione della deserta (finché dura) e incantevole piazza
Navona. Ciò nonostante non riesco a trovare alcun nesso tra una pedata al pallone, o agli
stinchi di qualcuno, e il così detto orgoglio nazionale. Piedi e patria per me non sono
omogenei: non si fondono.
So benissimo che i "ginnici ludi" (cfr. Arrigo Boito in non so quale suo libretto) hanno
fatto salir la temperatura di interi popoli fin dalla più oscura preistoria. Conosco il detto
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mens sana ecc. Non mi dispiace assistere a qualche exploit atletico, guardo volentieri le
corse dei cavalli, apprezzo il nuoto, io che so appena sguazzare per pochi minuti, e ho
persino sognato di vincere una maratona. Ma qui mi fermo: penso che la caccia e la boxe
appartengano alla macelleria, non allo sport; e quanto ai piedi, quand'entrano in ballo i
piedi della nazione, della patria, i piedi della città, i piedi di seria A, B, C... Z, quando non
provo sintomi di infarto per il calcio di rigore, quando non me la sento di odiare l'arbitro,
l'allenatore, o qualsiasi altro caporione della baracca calcistica, quando mi accade di
ravvisare nell'egregio collega Alfredo Pigna piuttosto la vittima di una follia collettiva che
il mentore o l'aruspice delle nostre fortune calcistiche, allora debbo concludere che la
calciomania (diffusa com'è in tutto il mondo) dev'essere il chiodo che scaccia un altro
chiodo, un morbo che ne sostituisce un altro anche peggiore.
E infatti non mi sfugge che cosa c'è sotto le demenzialì manifestazioni di cui sto
parlando. Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo
accentuano. L'uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche
caserme è un uomo condannato alla solitudine. Non gli mancano - fatte le debite
eccezioni - i mezzi per sopravvivere e neppure i sempre più tiepidi affetti familiari. Gli
manca invece la sintonia, il senso di esser legato agli altri uomini da un motivo
qualsivoglia, magari modesto ma tale da riempire quasi automaticamente il suo vuoto. Di
qui il grande e piccolo tifo. Al tifoso non interessa sapere che nessun italiano può correre
i cento metri in dieci secondi. Ci sono riusciti tre negri, e che importa? Bel merito esser
nati negri. Lo stadio invece offre partecipazione e non tanto per i suoi magri spettacoli
quanto perché è l'aspetto visibile di una grande macchina che implica denaro a palate,
scommesse, retroscena di ogni genere, ingaggi, disingaggi, uomini venduti a peso d'oro
come merce preziosa. Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello
della sua stessa infanzia. Scopo della vita è quello di "farcela". Gli artisti del piede ce
l'hanno fatta, ecco il segreto dell'entusiasmo che destano. Di qui il carattere rissaiolo,
vendicativo, nettamente antisportivo di un giuoco che è tanto più eccitante quanto meno
è lucido, disinteressato. Ma...
Ma a questo punto sento la domanda di uno spazientito lettore: che cosa accadrebbe ogni
domenica se non esistesse questo salasso, questo vescicante, questo quasi innocuo
sfiatatoio che è la partita? Forse che si venderebbero più libri, si chiederebbe musica
migliore di quella Canzonissima che è sfornata da un monopolio di Stato? Forse si
affollerebbero le biblioteche (sempre chiuse), i giardini pubblici (inesistenti), i pestiferi e
ameni dintorni delle nostre città? E non si può supporre che Lei, antitifoso incancrenito,
soffra di egocentrismo, di sociofobia e di altri peggiori mali?
Forse un mattino andando in un'aria di vetro
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida,rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia)
È ridicolo credere
È ridicolo credere
che gli uomini di domani
9
possano essere uomini,
ridicolo pensare
che la scimmia sperasse
di camminare un giorno
su due zampe
é ridicolo
ipotecare il tempo
e lo é altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in piú tempi
e piú che mai
supporre che qualcosa
esista
fuori dall'esistibile,
il solo che si guarda
dall'esistere.
(Eugenio Montale, Satura; Satura II)
Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco
Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco
pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco
di un abbandono nel suburbio. Io il tuo
l'ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo
gioco della mia sorte, alla fiducia
sovrumana con cui parlasti al rospo
uscito dalla fogna, senza orrore o pietà
o tripudio, al respiro di quel forte
e morbido tuo labbro che riesce,
nominando, a creare; rospo fiore erba scoglio quercia pronta a spiegarsi su di noi
quando la pioggia spollina i carnosi
petali del trifoglio e il fuoco cresce.
(Eugenio Montale, La bufera)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
(Eugenio Montale, Satura, Xenia II)
10
Bibliografia
- Ceserani R. e L. De Federicis, La società industriale avanzata: conflitti sociali e differenze di cultura, Torino,
Loescher, 1986; pagg.1382.
- De Caprio V. e S. Giovanardi, I testi della letteratura italiana, Il Novecento, Milano, Einaudi, 1994;
pagg.1470.
- Luperini R., Storia di Montale, Roma, Laterza, 1986; pagg. 262.
- Montale E., Mottetti, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1988; pagg. 135.
- Montale E., Prose e racconti, a cura di Marco Forti, i Meridiani, Mondadori, 1995; pagg. 1253.
- Montale E., Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984; pagg. 1948.
- Varie risorse Web.
Enrico Pietrangeli
Italia
Primavera del ’44
Primavera del quarantaquattro, la giornata è vanamente tiepida e serena, continuano movimenti di truppe
tedesche che si susseguono da giorni. Dal fronte adriatico, sotto l’alto comando del generale Kesselring,
confluiscono a contrastare le armate alleate su quello tirrenico. Puntuali, da qualche giorno, sfrecciano
incursioni di caccia britannici per intercettare linee e rifornimenti del nemico. Roma non è lontana, dista
meno di cinquanta chilometri, e qui l’orizzonte è contornato di aperta campagna: per lo più ulivi tra ondulati
pendii di colline.
Sento e comprendo quanto sta accadendo, ne conosco i luoghi, lo spazio e persino il tempo. Lo vedo in prima
persona, senza neppure essere stato concepito, attraverso gli occhi di mia madre e sotto forma di coscienza
astrale. Di primigenia essenza ho facoltà di percepire, disincarnato nell’ovocita quiescente. Un destino
sospeso tra ipotalamo ed ipofisi che, in balia di ormoni, mi porta all’infuori del tempo, tra gli eventi di quella
stessa visione. Mia madre, giovane donna provata ma forte, gode di un’ottima funzione ciclica dell’ovaio,
con mestruazioni regolari impiantate da una buona produzione di ormoni steroidei.
Stamani attraversa i campi, guardinga e ancora un po’ bambina, trasformando l’incombente pericolo in una
sorta di gioco, per trovare, nella fantasia, un’ulteriore via di uscita. Porta nel ventre, stretta, una borsa
d’acqua calda con dentro olio fresco di molitura. È a pochi passi dalla via Salaria, da più di quindici
minuti il fuoco sembra tacere e, tra le retrovie, transitano ancora reparti di SS in scorta a munizioni e
rifornimenti. Un camion la nota e si ferma; il sergente Brunner, in uno stentato ma collaudato italiano, la
invita, educatamente, offrendole un passaggio. Lei indugia, ma non più di qualche istante, per poi prendere
posto tra i commilitoni, sopra casse di proiettili e dinamite.
Il percorso è lungo e, di mezzi civili, all’epoca se ne vedevano davvero pochi. Lui, il sergente, continua di
tanto in tanto a sghignazzare raccontando improbabili barzellette tra tedesco ed italiano. Lei, da parte sua,
sembra quasi incurante del pericolo di tutto quell’arsenale ma, nondimeno, è rigida e timorosa nel trovarsi
sola, in una morsa di uomini a farle contorno. Lo sguardo di Brunner, tra una battuta e l’altra, si lascia
distrarre da quel poco di caviglia che fuoriesce dalla gonna. Poi, all’improvviso, un rombo cupo si addensa,
ovunque, nello stomaco. Il sergente dà ordine di lasciare il veicolo, tutti corrono lungo la scarpata.
Giallo! Vedo giallo negli occhi di mia madre che fugge, corre via accasciandosi a terra. La scarica di
adrenalina si assesta, frazioni di secondi, e la polvere sollevata riprende un grigio, più naturale colore, tra il
sangue e le grida soffocate dal rumore dei motori, nel boato della deflagrazione. Fluttuo, a mia volta,
terrorizzato, spintonato tra altri ovociti. È una carneficina, diversi non arriveranno ad assestarsi,
predisponendosi ad una futura, più feconda vita: nobili ovulazioni pronte a rincorrere il sogno di baciare
lucenti getti di spermatozoi e divenire esistenza! Io, con la più paradossale delle fortune, quella del
sopravvivere, dal menarca mi assesto nella zona più attiva e prossima alla menopausa. Sarò uno degli ultimi
superstiti all’atresia, nonché predestinato a concepimento; uno strano frutto di quel primo “boom
economico”, in bianco e nero, ancora in odore di dopoguerra. L’insolito incontro con l’ostinata volontà di un
flusso spermatico tardivo ma innamorato del vivere e, soprattutto, di mia madre. Come loro ho conosciuto
l’amore, nella strisciante guerra di una protratta pace, attraverso gorghi d’egoismo e solitudine, sentendomi
ancora vivo.
11
Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia
Filosofia filosofia Filosofia filosofia
PROBLEMI DI BIOETICA I
EUTANASIA
Remo Bodei
Visiti all'ospedale una persona che soffre di un male incurabile e provi pena alla vista dei
dolori che distruggono il suo corpo e il suo animo. Sai che medita di togliersi la vita, suicidandosi
direttamente oppure chiedendo a un familiare o a un amico di aiutarlo comunque a morire. Pensa
così di mettere fine a una esistenza intollerabilmente penosa e senza prospettive di guarigione o di
sollievo psicologico.
Come ti comporteresti se tu volessi davvero bene a questa persona e ti fossi coscienziosamente
informato dai medici delle sue effettive condizioni (venendo a sapere che per lui non vi è scampo e
che anzi la sua malattia è destinata ad aggravarsi in maniera devastante sino a una morte che
giungerà inevitabilmente entro pochi mesi)?
Alternative
Cercheresti di convincerlo a desistere dal suo proposito, sostenendo che la vita è un bene in se
stessa, di cui non ci è lecito disporre in nessun caso, e questo almeno per due motivi: in quanto
appartiene a Dio o in quanto dobbiamo renderne conto non solo a noi stessi, ma anche e soprattutto
alla famiglia, agli amici, alla comunità (SOLUZIONE A; )? Oppure, al contrario, saresti d'accordo, - in
linea di principio - con i suoi propositi, riconoscendo che la sofferenza fine a se stessa rappresenta
una crudeltà disumana, lesiva della stessa dignità del morente, che avrebbe il diritto, finché è
lucido, di decidere in piena autonomia della propria sorte (SOLUZIONE B; )? Arriveresti, infine, per
coerenza e per convinzione, a sostenere le sue ragioni sino al punto di aiutarlo a togliersi la vita
(magari senza il suo esplicito consenso, impossibile da ottenere a causa delle sue attuali condizioni
fisiche e psichiche, che gli impediscono di intendere e di volere), incorrendo tu stesso, come avviene
nella maggior parte dei paesi del mondo, in un reato penalmente perseguibile (SOLUZIONE C; )?
A
Se scegli questa soluzione, può significare che aderisci intuitivamente a un'etica di carattere
sostanzialmente religioso o civile, ma guidato dall'idea del primato della comunità sull'individuo e di
valori assoluti su valori relativi. Tale etica concepisce la vita: 1) come proprietà di Dio (di potenze
comunque misteriose che guidano il nostro destino) e ritiene allora che essa ci sia stata affidata
unicamente in usufrutto, simile a una "livrea" che ogni uomo, quale servo della divinità, dovrà
restituire al momento della morte; 2) oppure come proprietà delle istituzioni che circondano e
proteggono il singolo (famiglia, ceto, società, Stato) e verso le quali si contraggono degli obblighi
superiori a quelli verso se stessi [Cfr. Paul Ricoeur Intervista 33; "L'idea di giustizia", domanda n. 7.
A proposito di Schopenhauer, contrario al suicidio perché non annulla ma rafforza la Volontà di
vivere e perché ha per oggetto l'individuo, un puro fenomeno, Cfr. Manuale, III, p. 173].
B
Se opti per questa soluzione sei vicino a certe forme di sensibilità 'laica' moderna, che sottolinea
fortemente l'elemento di autodeterminazione dell'individuo e che trova già voce in Michel de
Montaigne.
"La morte è una ricetta per tutti i mali. E' un porto sicurissimo, che non si deve mai temere, e che
spesso si deve cercare. E' lo stesso che l'uomo si dia da sé la fine o che la subisca; che corra
incontro al suo giorno o che l'aspetti; da qualunque parte esso venga, è sempre il suo; in
qualunque punto si rompa il filo, è già tutto, è la fine del fuso. La morte più volontaria è la più
bella. La vita dipende dalla volontà altrui; la morte dalla nostra. In nessuna cosa dobbiamo tanto
assecondare in nostri umori come in questa. La reputazione non riguarda una tale azione, è follia
farne caso. Il vivere è un servire, se manca la libertà di morire. Il processo ordinario della
guarigione si compie a spese della vita; ci tagliano, ci cauterizzano, ci amputano le membra, ci
sottraggono l'alimento e il sangue; ancora un passo, eccoci guariti del tutto. Perché la vena della
gola non dovrebbe essere al nostro comando come la mediana? Alle più forti malattie, i più forti
rimedi" (Michel de Montaigne, Saggi, libro II, cap. III, a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1982,
vol. 1 pp. 450-451).
12
[Cfr. su Montaigne il Manuale, II, pp. 28-31]. Ma ancora di più potresti condividere le posizioni
espresse da David Hume nell'opuscolo Sul suicidio, in cui si rivendica la piena liceità di questo
atto [Cfr. il Manuale, II, pp. 324-326]
"Che cosa significa dunque l'opinione che in uomo, il quale, stanco della vita e perseguitato dai
dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente i terrori naturali della morte ed esca da questa scena
crudele; che tale uomo, dico, incorra nell'indignazione del creatore per aver violato l'opera della
provvidenza e turbato l'ordine dell'universo? Affermare questo è affermare il falso; la vita degli
uomini è soggetta alle stesse leggi cui è soggetta la vita di tutti gli altri animali; e tutte queste
esistenze sono soggette alle leggi generali della natura e del moto. La caduta di una torre o un
infuso di sostanze velenose distruggeranno un uomo come la più meschina creatura,
un'inondazione porta via indistintamente tutto ciò che trova alla portata della sua furia" (..) Per
l'universo la vita di un uomo non è più importante di quella di un'ostrica. E se anche fosse molto
importante, l'ordine della natura umana l'ha sottoposta alla prudenza umana, e ci costringe a
prendere decisioni in ogni circostanza. Se disporre della vita umana fosse una prerogativa
peculiare dell'Onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse
un'usurpazione dei suoi diritti, sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se
cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il
dominio peculiare dell'Onnipotente, prolungando la mia vita oltre al periodo che, in base alle leggi
generali della materia e del moto, le era assegnato. - Un capello, una mosca, un insetto può
distruggere questo essere potente, la cui vita è tanto importante. E' assurdo supporre che la
prudenza umana abbia legittima facoltà di disporre di ciò che dipende da cause così
insignificanti? Non sarebbe un delitto per me deviare il Nilo o il Danubio dal loro corso, se fossi
capace di farlo. E' dunque delittuoso distogliere dai loro canali naturali poche once di sangue?"
(D. Hume, Sul suicidio, in Opere, Roma-Bari, Laterza, 1987, a cura di E. Lecaldano, vol. III, pp.
588-590).
C
Se, pur con forti dubbi e timori, saresti propenso ad aiutare un caro amico o un familiare che ti
implora di porre fine alle sue sofferenze, allora aderiresti alle posizioni recentemente espresse
sull'eutanasia e sul diritto morale del singolo al suicidio sostenute in Olanda (dove l'eutanasia è
legale) e negli Stati Uniti. Se poi il malato non fosse più in grado di decidere sull'accorciamento
delle sue pene mediante la morte e tu fossi, anche in questo caso favorevole, all'eutanasia - intesa
in questo senso ristretto - allora potresti trovare conferma alle tue intuizioni morali nel medico e
filosofo contemporaneo Hugo Tristam Engelhardt.
"Se la vita non è sempre meglio della morte, può essere benefico anticipare la morte, invece di
lasciare che 'la natura faccia il suo corso'. Ciò è vero anche quando la morte non è una libera
scelta, fatta personalmente o mediante una direttiva anticipata dell'individuo che sta morendo. Se
non vi è differenza di principio fra volere intenzionalmente la morte di qualcuno e limitarsi a
permetterla, non vi sarà alcun impedimento morale assoluto contro l'anticipazione della morte,
una volta che si sia deciso che il prolungamento della vita sarebbe dannoso (...). Considerato il
diffuso rifiuto del suicidio assistito e dell'eutanasia nella nostra cultura, l'onere della prova di
dimostrare tale consenso ipotetico sarebbe assai pesante. Si deve presumere che la maggior parte
degli individui che non hanno disposto esplicitamente che la loro morte venga anticipata non
siano interessati a tale rimedio. Tuttavia, i casi di dolore e sofferenza prolungati e gravi, purché
non vi siano credi, religiosi o meno, in senso contrario, possono rendere plausibile il sostenere che
l'individuo vorrebbe il più rapido sollievo possibile, anche se esso comportasse l'anticipazione
della morte. E' possibile richiedere anche un assenso da parte dell'individuo del quale si sta
considerando se anticipare la morte, per quanto incapace. Denominerò eutanasia una simile
pratica, che si attua quando non c'è un consenso effettivo espresso da un soggetto capace di
intendere e di volere, ma soltanto un consenso presunto, per distinguerla dal suicidio e anche dal
suicidio assistito, che si hanno quando un individuo morente, capace di intendere e di volere,
provoca la morte, da solo o mediante l'azione di un altro (...). Com'è stato notato, la
liberalizzazione tanto dell'eutanasia quanto dell'aiuto al suicidio, richiederà dei mutamenti nel
diritto. Fino a quando tali mutamenti verranno realizzati, è probabile che i doveri morali di
beneficenza di anticipare la morte di coloro che stanno morendo nel dolore saranno vanificati dai
rischi di essere perseguiti penalmente e considerati responsabili civilmente" (H. T. von Engelhardt,
Manuale di bioetica, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 364-365).
13
[Cfr. inoltre di Jean Bernard intervista 3; , Etica e scienza domanda n. 4; di Hans Georg
Gadamer intervista 16; Il filosofo e la morte domanda n. 4].
Fonte: http://www.donatoromano.it
Ferdinando Pastori
Italia
“La mia firma. Ripetuta centotredici volte. Su otto fogli bianchi illuminati di giallo dalla luce di
una vecchia insegna Sali e Tabacchi appesa al muro. Le iniziali di nome e cognome troppo
rotonde, eccessivamente marcate mentre il resto delle lettere è una greca di geometrie quasi
perfette. Piccole curve appena accennate e lievi tratteggi senza angoli retti. Senza staccare la
penna, mai, un solo gesto. Inchiostro nero in quanto definitivo. Il blu non è sempre uguale.
Diverse sfumature. NomeCognome, proprio così, tutto attaccato. Lo rileggo cercando di assumere
una tonalità di voce il più possibile neutra e distaccata. Come se non mi appartenesse. Non è
facile. Il suono del mio nome e la mia firma, pur esplicitando il medesimo concetto, descrivendo la
stessa persona, sono diversi. Un caso d’omonimia che si rivela al momento delle presentazioni. La
firma circoscrive la mia immagine in una dimensione piana. Esprime solo l’infinitesima parte di
ciò che sono. La voce si sviluppa, si richiude su se stessa per poi riaprirsi, sale e scende, si
increspa e si spezza. Acrobatiche evoluzioni…e io mi ascolto parlare senza dire niente, pur
affermando verità inutili e bugie necessarie. Ho sviluppato una capacità non comune
d’adeguamento alle diverse situazioni che mi circondano. Incredibili e inaspettate qualità di
trasformismo e mimetismo. Chiudo gli occhi alle sei di mattina, Michael Hucknall nelle orecchie
intona Sunrise…”
("Euthanasia" - Edizioni Clandestine 2006).- Fonte: http://www.ferdinandopastori.135.it
Carmelo Parrinelli
Italia
Serena sei tu:
Sul mare e sulla terra,
mai così simili ad angeli decaduti
e i miei occhi annebbiati e chiusi
rovinati dalla luce del giorno.
Serena sei tu dentro ai miei giochi
e come il colore più vivo, acceso
riempi il grigiore di giorni annoiati…
E quando s'è fatta sera
nessuno di me si consola
avendo te come giusta preghiera
mentre vien meno bramata parola.
Sei come l'oceano calmo, cheto
e mi tuoni dentro come tempesta,
io delle tuo onde affogo, annego
tanto che poi dinanzi a me s'è festa
e urlar non saprei se d'amor s'appresta.
L'ordinata follia or festeggia
e andrà di spazi nel mio essere assorto
canterà di un ciel che poi troneggia
innominato lustro e di me accorto
mai dubitando amor mio celeste
anche dell'uomo innamorato, avvolto.
La dea essenza:
E quella terra baciò il cielo in fronte
con il bisbiglio di stelle intorno
ed io invidioso di quell'amore folle
mai più rivolsi lo sguardo al mondo.
La memoria di cui tanto favelli
è si la via tarda del cuore
14
ma la grazia di cui mi nutristi
fece largo al nostro piccolo amore.
Forse l'essenza ha origine immensa
così come l'anima mia s'accoccola
nutrito di latte divino dalla dea coscienza
ci rende immortale alla sua prole
e con noi s'accorse di non poterne fare senza.
Walt Whitman
USA
Anima, verresti tu con me adesso
Anima, verresti tu con me adesso,
verso la regione sconosciuta,
dove non c'è terra per i piedi, né sentiero da percorrere?
Oseresti?
Non c'è mappa laggiù, non c'è guida,
né mano che tocchi, e non si odono voci,
non ci sono volti ben in carne, né labbra, né occhi,
laggiù in quella terra.
O anima, io non la conosco,
né la conosci tu, c'è un immenso vuoto innanzi a noi,
non possiamo nemmeno immaginare ciò che troveremo
in quella terra inesplorata.
Fino a quando non si scioglieranno i vincoli,
tutti, eccetto quelli eterni, Tempo e Spazio,
e non ci legherà più il buio, né la forza di gravità,
il senso o alcun altro legame.
Allora esploderemo, fluttueremo,
anima, nel tempo e nello Spazio, pronti ad essi, eguali,
attrezzati finalmente (oh gioia! Oh esito di tutto!)
a soddisfarli.
Dino Campana
Italia
Da La Verna (Diario)
Sulla Falterona (Giogo)
La Falterona verde nero e argento:
la tristezza solenne della Falterona
che si gonfia come un enorme
cavallone pietrificato,
che lascia dietro a sé una cavalleria
di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi
di colline laggiù
sul piano di Toscana:
Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre
che ho visto accese:
così a le creature del paesaggio
cubistico,
in luce appena dorata di occhi interni
tra i fini capelli vegetali
il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti
traspare il sorriso di Cerere:
15
limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero
i chiari occhi grigi:
la dolcezza della linea
delle labbra, la serenità
del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu.
(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)
Valentina Piroddi
Italia
Guida
E’ strano
come possa essere buio anche di giorno
E’ strano
come sia in realtà l’anima
a far da sole ai giorni
dagli occhi
il bianco
la luce
l’azzurro
il mare...
Lontano, libero
cento mille volte ancora
e all’infinito
com’egli liberi
forse in una sola notte
o mai.
Aiutami, aiutaci
mare
rabbia e calma
ombra e bagliore
toni e suoni
senza limiti, insieme.
Aiutami, aiutaci
strada perenne
verso la speranza;
Re del nuovo
cambiamento pazzo ma coerente
guida
aiutami, aiutaci.
Santoro Salvatore Armando
Italia
CATERINA ERA LA MENTE
Caterina era la mente,
e l’anima rispondeva
con amplessi tra le gorgoglianti gore
che la bianca Dea dell’amore
sublimava a Mileto
nella candida costa della Caria.
Inutilmente il canto
si levava tra le gole scoscese
e negli anfratti.
Lugubri le prèfiche
pianti e singhiozzi al Nume
con mestizia e rimpianto
al cielo infinito intonavano.
16
Neri corvi roteavano
tra le bianche nubi:
indizi inquieti
tratteggiavano nei catini
gli oli purificati
che il veggente divino
aspergeva e disseminava per l’Ade
e i destini degli uomini ignari prediva
ed il loro futuro segnava.
Caterina era la mente,
e l’orme stanche disegnava
sulla sabbia lucente
e proiettava sul fiume
infìdo d’Acheronte
i sogni e la speranza del mondo;
perché nei sogni del cuore
trova ristoro e pace
quell’amor che agli umani
è proibito palesar
se difforme dal costume antico
ed alle convenzioni degli avi.
Caterina era la mente,
e il giogo ruppe.
La gioia del cuore
abrogò le usanze,
giacché l’amor che cova
nell’esausto spirito d’un vegliardo
fresche acque asperge
e gioiosi effluvi effonde,
perché al calore dei sensi
solo puri interessi ostenta
e lo spirito libero offre
al piacer della vita
ed alla lucidità della ragione.
Raul Garcia Palma
Venezuela
Del Libro: No sabemos dónde tejer su forma
6
Hace olvidar el auge de lo efímero
una gota que brillante se aleja
y no explota
La inestabilidad no tiene argumentos
Todos los objetos corren
dispersando sus contornos
En la vigilia se ejercita
el centro
donde hay voces
Son letras
a punto de fugarse
y cuando escapan
en la unión con el fuego
no sabemos dónde tejer su forma
Dal libro: non sappiamo dove tessere la sua forma
6
fa dimenticare l’auge dell’effimero
una goccia che brillante si allontana
e non esplode
l’instabilità non ha argomenti
tutti gli oggetti corrono
disperdendo i loro contorni
nella vigilia si esercita
il centro
dove ci sono voci
sono lettere
al punto di fuggire
e quando scappano
nell’unione col fuoco
non sappiamo dove tessere la sua forma
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Imp
17
Leopoldo Castilla
Salta, Argentina
Círculo
A José Antonio Gabriel y Galán
Circolo
Concepirono il circolo radioso, la sua forma
Partendo dal centro
E nella realtà
Fu l’esteriore, l’universo, quella sedia,
un cavallo
tutto l’esterno modulato
per finalizzare quella sfera
Concibieron el círculo radiante, su forma
partiendo desde un centro
y en realidad
fue lo exterior, el universo, esa silla,
un caballo
todo lo externo modulado
para finalizar esa esfera
il tuo occhio non emette
attrae
tu ojo no emite
atrae
quel bambino con un pallone tra le mani
gioca
con l’ultimo punto della materia
con la fine del mondo.
ese niño con un balón entre las manos
juega
con el último punto de la materia
con el fin del mundo.
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglion
Carlos Aldazabal
Salta. Argentina
Tejido social
Aushwitz bosteza telarañas
redes
de Juanas en la hoguera
de represiones británicas
en dólmenes asiáticos
de picanas de carbón encallecidas
sobre números
porcentajes de Videla
de Pizarro
de cenizas
que rondan y rondan
los cerebros
con sus hilos
saturados
de memoria.
Tessuto sociale
Aushwitz sbadiglia ragnatele
Reti
Di Giovanne nel falò
Di repressioni britanniche
In dolmen asiatici
Di picana* di carboni callosi
Sopra numeri
Percentuali di Videla
Di Pizarro
Di ceneri
Che rondano e rondano
I cervelli
Coi loro fili
Saturi
Di memoria.
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione
Picana*= uno degli strumenti di tortura utilizzati dalla dittatura argentina
Jaime Sabines
Mexico
Tu nombre
Trato de escribir en la oscuridad tu nombre. Trato de escribir
que te amo. Trato de decir a oscuras esto. No quiero que nadie se
entere, que nadie me mire a las tres de la mañana paseando de un
lado a otro de la estancia, loco, lleno de ti, enamorado. Iluminado,
ciego, lleno de ti, derramándote. Digo tu nombre con todo el silencio
de la noche, lo grita mi corazón amordazado.
Il tuo nome
Cerco di scrivere nell’oscurità il tuo nome. Cerco di
Che ti amo. Cerco di dire al buio questo. Non voglio
lo
Sappia, che nessuno mi guardi alle tre del mattino pa
da un lato all’altro della camera, pazzo, pieno di te, i
Illuminato,
cieco, pieno di te, rovesciandoti. Dico
18il tuo nome co
silenzio
della notte, lo grida il mio cuore bendato.
Ripeto il tuo nome, torno a dirlo, lo dico instancabilm
Repito tu nombre, vuelvo a decirlo, lo digo incansablemente,
y estoy seguro que habrá de amanecer.
Ci vediamo? – Festival Internacional de
Poesia de La Habana, Cuba, ottobre 2007!
Verosimile
Daniel Freidemberg
Argentina
Verosímil
Será mi mano en tu pelo, será
que afuera paró de llover
o el hueco que hace siglos
dejaron ciertas cosas
como tu pelo, mi mano, la lluvia,
lo que relumbra entre los dos
que actuamos esta escena
decididamente verosímil.
Claribel Alegria
Nicaragua
Ars poetica
Yo,
poeta de oficio,
condenada tantas veces
a ser cuervo
jamás me cambiaría
por la Venus de Milo:
mientras reina en el Louvre
y se muere de tedio
y junta polvo
yo descubro el sol
todos los días
y entre valles
volcanes
y despojos de guerra
avizoro la tierra prometida.
Sarà la mia mano tra i tuoi capelli, sarà
Che fuori smise di piovere
O il vuoto che secoli fa
Lasciarono certe cose
Come i tuoi capelli, la mia mano, la pioggia,
tutto che brilla tra noi due
che attuamo questa scena
decisamente verosimile.
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione
Ars poetica
Io,
poeta di mestiere,
condannata tante volte
a essere corvo
mai cambierei
per la Venere di Milo:
mentre regna nel Louvre
e muore di noia
e accumula polvere
io scopro il sole
tutti i giorni
e tra le valli
vulcani
e resti di guerra
guardo oltre la terra promessa.
Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione
Francisco de Asis Fernández
Granada, Nicaragua
MONÓLOGO INTERIOR
Nadie es mi alma
y está estropeada por la virtud.
Me metí en una novela equivocada
y quise cosas que no eran para mí.
Monologo interiore
Nessuno è la mia anima
E rimane rovinata dalla virtù.
Mi mise in un romanzo equivoco
E volli cose che non erano per me.
Mi vidi nello specchio quando il mio viso perse il senso.
E guardai il senso quando il mio viso perse lo specchio.
Mi sento vecchio e truffato
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Dalle rose inquiete dei miei pensieri.
Già ho il veleno della vecchiaia
E il viso lo vedo cereo, inesplicabile e misterioso.
Me vi en el espejo cuando mi rostro perdió el sentido
y miré el sentido cuando mi rostro perdió el espejo.
Me siento viejo y estafado
por las rosas inquietas de mis pensamientos.
Ya tengo el veneno de la vejez
y el rostro me lo veo cenizo, inexplicable y misterioso.
Hubo una tormenta en la tierra y hay un olor fresco en el cielo
y solo mis pensamientos arañan y torturan a las mariposas.
¿Lo que deseamos es lo que debemos ser?
¿Lo que debemos ser es lo que somos?
La vida es un lecho de rosas sangre.
Total: la poesía que viví no me hizo escalar el Kilimanjaro
ni me arrojó a los lugares secretos del mundo.
Me perdí a mí
y quiero perder la religión
que ve los atardeceres con los ojos cerrados.
Realmente Dios trabaja de manera misteriosa y hace maravillas:
te oculta todo o te revela todo frente a tus ojos:
aquí, los humanos se transforman en animales,
allá, ves que entre el hombre y el tigre vive el dragón,
allí, en medio de la noche, entre brumas y misterios,
nos acariciamos como lo hacen los caballos y las yeguas:
topándonos con las cabezas y mordiéndonos el cuello,
acullá, nos deshacemos de las mosquitas muertas
que hablan de cuerpos desnudos con palabras vestidas
porque queremos pezones púrpuras y sexo ardiente y sucio,
aquí , me rebelo cuando el matrimonio domestíca lo salvaje,
y allá , por fin, nos damos cuenta que el corazón es sencillo
y que repararlo es lo complicado .
Mario Luzi L'opera poetica
Introduzione di Stefano Verdino al libro "L'opera poetica"
Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Luzi, il cui itinerario poetico
(oltre sessantacinque anni) non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie
ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure
dell'immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo. Diversamente
da altri importanti poeti della sua generazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi è stato
pressoché‚ subito riconosciuto: la sua era un'«immagine esemplare» (secondo una famosa
definizione di Bo) già nel 1940 -"Avvento notturno" segnava allora il culmine dell'ermetismo-,
quando il poeta non ancora ventiseienne viveva in quella capitale della letteratura italiana che era
la Firenze degli anni Trenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi, Vittorini, Gatto,
Landolfi, Bilenchi, Pratolini e altri. Il precoce riconoscimento comportò anche un'etichetta -Luzi
poeta ermetico, anzi il poeta ermetico per antonomasia- che, mai respinta dal poeta fedele alla
propria giovinezza, si è sempre più mostrata limitante e inadeguata via via che Luzi andava
pubblicando nuovi volumi, anche se sopravvive pigramente nella vulgata scolastica, dove a poesie
come "Avorio" tocca in sorte la documentazione, anch'essa esemplare, di un'esperienza estrema e
acrobatica dell'analogismo simbolista italiano. L'accantonamento sbrigativo dell'ermetismo nel
dopoguerra accreditò altrettanto presto l'immagine di un Luzi epigono di una stagione scaduta,
senza tener conto di quanto il poeta andava nel frattempo elaborando; ciò ha comportato una
sottovalutazione analoga e opposta a quella di Caproni, questi confinato in un'inaccettabile
minorità, l'altro chiuso in una notorietà che si credeva non più produttiva. Così negli anni
Cinquanta i neorealisti e negli anni Sessanta i novissimi valutavano la poesia di Luzi come il
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fondo di una pagina da voltare, secondo la perfida espressione di Sanguineti, mentre al contrario
l'elaborazione della poetica dell'autore fiorentino andava preparando una svolta radicale, tale da
restituirlo -in barba ai suoi troppo impazienti obliteratori- come uno dei principali interlocutori dei
più giovani poeti dagli anni Settanta ad oggi. A ripensare questa lunghissima parabola, che vede
Luzi dialogare all'inizio con Montale e Betocchi e in tempi recenti con Viviani e De Angelis, si
rimane sorpresi da una vivacità creativa sempre risorgente, fedele a un suo codice, ma
continuamente mobile nelle sue realizzazioni e tale da costituire davvero un gran viaggio di
immaginazione e conoscenza, promesso d'altronde fin dall'avvio della sua ricerca espressiva.
[...]
E' stato Giovanni Giudici, una ventina d'anni fa, a rimarcare la «coerenza» di Luzi che «proprio
liberandosi della sua cultura e con essa in continuo antagonismo, è riuscito a conquistare una
rara pienezza». E' un'affermazione che rende sinteticamente l'esito del vasto procedere dell'opera
luziana: la fedeltà ad alcuni elementi primi (evidenti già in "La barca") si intreccia a un continuo e
vasto rinnovamento, che vede quel principio metamorfico, suo tema prediletto, sistematicamente
presente nella dinamica dei testi; ne deriva un procedere molto teso per continuità e
discontinuità, una dinamica nella quale possiamo inoltre osservare il singolare fenomeno di una
poesia che, caratterizzata da una sua prima identità negli anni ermetici di "Avvento notturno", con
una nozione molto precisa di "cultura", successivamente tende ad allontanarsene, come osserva
Giudici, per ritrovare il "discorso naturale". La vastità dell'opera luziana fa sì che egli sia un poeta
plurimo come pochi e che sia emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni
Cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale (soprattutto con Sereni, suo
prediletto interlocutore in poesia) di derivazione ben più montaliana di quanto l'appariscente
orfismo di alcune sue punte ermetiche faccia supporre. Egli risalta in tale ambito per la tensione
etica alla non disperazione (pur se intimamente attraversata), al superamento del «male di vivere»
per «il giusto della vita», in virtù di una consonanza cristiana (ma anche leopardiana) dell'essere
«ciascuno e tutti insieme» a vivere. Proprio qui si apre la svolta: il punto di vista non è più tra l'io e
la realtà, non c'è più giudizio (o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla
vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in
un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo
Novecento, affine, per quanto diversissimo, all'altro prediletto compagno di poesia, Giorgio
Caproni. E' la stagione poetica che, dopo la svolta di "Nel magma", inizia a pieno regime con "Su
fondamenti invisibili" e fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della «pienezza» (per
tornare all'espressione di Giudici), rispetto alla spettralità di Caproni. E va riconosciuto il coraggio
di una poesia che, per quanto allarmata dal nefando della storia, dice un raro (o forse unico) "sì" a
una vita naturale, che per altri sembra una chiave perduta, nonostante sussistano pur sempre i
segnali di essa.
Se negli anni giovanili la poesia di Luzi, sigla di una convulsa interiorità, si costituiva
momentaneo e precario blocco formale, successivamente i testi si configurano come progressivi e
aperti, perché‚ orientati verso la nascita intesa come «non un luogo, non un tempo determinato,
ma il sorgivo stesso, l'aperto» (Cacciari), mentre «la parola, sulla pagina, si muove pià rapida, forse
più inquieta» chiamata a seguire «i percorsi, gli scatti, il respiro del pensiero» (Raboni). Luzi, per
quanto nei modi così diversificati che abbiamo descritto, è sempre stato un poeta dell'estremismo;
può sembrare paradossale dire questo di un poeta da sempre bersagliato dagli avanguardismi, ma
esistono diversi tipi di estremismo, anche laddove può aver vigore la tradizione e la misura (e
d'altronde Manzoni non era, a suo modo, un estremista, in letteratura?). L'estremismo nasce dal
fatto che per Luzi la parola della poesia, come ogni parola umana e ogni segno, non può che
misurarsi con un'altra parola, cioè la Rivelazione: laddove Caproni sconta la propria «ateologia»,
Luzi non dubita della «travolgente nascita»; il dubbio è invece sulle possibilità umane di ricezione
del messaggio, da cui l'ardua difficoltà di tale captazione. A questa meta mira il perenne statuto di
viaggio (diversamente centrale anche in Caproni) della sua poesia da "La barca" a "Viaggio
terrestre e celeste di Simone Martini" e oltre, nelle poesie in elaborazione.
Questo viaggio implica una tensione particolare del testo che si può agevolmente definire come
vocazione al sublime, motore del dinamismo e del taglio linguistico di tipo "alto": inizialmente la
difficoltà di Luzi era trovare la via al sublime dentro il "bello", che tanto ha sostanziato il suo
primo tempo, mentre poi è risultato più agevole trovare l'"alto" incastonato nel "basso" delle sue
scelte prosastico-poematiche. Anche la vocazione al sublime è un tratto raro, proprio per la sua
diversificata costanza, rispetto alla scissione di tempo tragico e comico in Montale, ma è scelta
condivisa nel tardo Novecento, a suo modo, sempre dal fraterno Caproni. Ma il sublime di Caproni
si alimenta, come ha notato Surdich, di una dislocazione metaforica di un codice quanto mai
standardizzato (la «segnaletica stradale» cara al poeta livornese), mentre il sublime di Luzi vive di
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una multipla tradizione letteraria, riportata dal suo epilogo a una nuova sorgente. E questa
esperienza rinnovata di sublime non è certo stata senza significato per i poeti più giovani come
Viviani e De Angelis.
Ma a chi somiglia Luzi? Alla fine di questo periplo risalta il fatto che un poeta nato da una
genealogia tanto "novecentesca" alla svolta di secolo appaia così lontano da quella. Ma chi
somiglia a Luzi? Chi è vicino al suo intreccio di naturalità e poesia-pensiero? Francamente, non
sovvengono molti nomi. Uno, però, si impone sempre di più, quello di un musicista, di Olivier
Messiaen, che nelle sue libere modalità partecipa della comune convinzione di essere testimoni
transitori di un qualcosa che continuamente avviene. E al lettore che gusterà le "Frasi nella luce
nascente" non resta che consigliare di accompagnarle con l'ascolto degli "Éclairs sur l'Au-Delà"...
Bibliografia
A cura di Stefano Verdino
La bibliografia delle opere di Luzi rubrica tutti i titoli editi in volume, in opuscolo e in edizione
d'arte, le singole poesie stampate in cartelle d'artisti (ad esclusione dei testi d'occasione) e
presenta una scelta delle numerosissime interviste.Non si sono considerati gli scritti critici
dispersi, di cui si veda un primo provvisorio regesto in M. Zulberti, "Un'arte umana: i saggi critici
di Mario Luzi", "ACME", Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di
Milano, vol.II, fasc.II, maggio-agosto 1996, pp.225-46.È stata invece rubricata la monografia
pascoliana (di 80 pp.) nella "Storia della letteratura italiana garzantiana", a cura di E. Cecchi e N.
Sapegno.Per i testi tradotti in altre lingue sono segnalati i volumi e non singole poesie o sezioni
tradotte su riviste o antologie (vi sono due sole deroghe per segnalare la quanto mai tempestiva
versione inglese di "Quaderno gotico", prima versione di poesie di Luzi, e la consistente antologia
in croato).Sono anche inserite le scelte di poesie contenute in antologie storiche del Novecento
poetico in quanto fondamentali voci critiche per un riscontro della ricezione della poesia di Luzi.
La bibliografia della critica è scelta su materiale ancora più vasto ed è ripartita in sezioni per
consentire al lettore di orientarsi rispetto al tipo di contributo critico all'opera luziana (all'interno
delle sezioni si è seguito l'ordine cronologico).È segnalata tra parentesi la curatela quando questa
non è dichiarata in frontespizio.Si danno gli estremi di pagine nel caso di periodici specialistici; si
danno invece i numeri di pagine totali per le monografie e i volumi complessivi o gli atti di
convegno.Non si dà invece numerazione di pagina: per le recensioni (tranne nei casi di testi
particolarmente estesi), per gli interventi limitati a una sola pagina, per i giornali o rotocalchi
settimanali, ed infine per i libri o articoli di carattere generale sulla poesia del Novecento,
sull'ermetismo, sulle riviste, ecc. in cui Luzi sia citato, anche più volte, ma non in modo
sistematico. Nel caso di periodici stranieri si è segnata tra parentesi la relativa città.
A Bellariva Colloqui con Mario
a cura di Stefano Verdino
A Bellariva è stato pubblicato nell'«Annuario della Fondazione Schlesinger» del 1995, in edizione
limitata e fuori commercio.Per la presente edizione sono state effettuate alcune modifiche di
natura formale.
Nel Magma
"Nel Magma" è un libro di svolta radicale, certamente preparato dal precedente "Dal fondo" nel
viaggio dentro l'«opera del mondo», ma in sostanza nuovissimo per le forze espressive che
contiene. Mi sembra che il fattore rivoluzionario stia nel mutamento di prospettiva: qui non c'è più
un io lirico a reggere il discorso, l'io diventa personaggio e si mette in scena, senza privilegi
rispetto ai suoi vari antagonisti. Il verso è condotto dalla poesia stessa, che ambisce ad essere
sermo merus, concrezione e voce neutra captata dal magma, nel suo immediato accadere. Per
certi versi è davvero un libro-zero, dove tutto appare problematico, a partire dai margini
frastagliati di accenti quotidiano-realistici e onirici, fino all'andamento diatribico ed irrisolto delle
varie contese tra personaggi. L'irruzione del mondo, nel suo quotidiano, da un lato consente un
vario rendiconto della prostrazione ed umiliazione dell'umano, nelle sue diverse crisi (in
particolare la crisi della politica in "Presso il Bisenzio"; la crisi dell'autenticità in "Tra notte e
giorno"; la crisi dell'intimità e della coppia in tanti altri testi); dall'altro ci porta il soccorso di varie
epifanie della beatrice (penso a "Ménage"), intese come aperture al trascendente, oltre e
nonostante l'esperienza del torpore e dell'inerzia, che tanto sostanzia il libro. Per chiudere in una
sigla dantesca, si potrebbe forse dire che ciò che sembra un irrimediabile limbo, è in realtà una
esperienza del purgatorio.
Un elemento che salta agli occhi è un più scoperto dantismo della raccolta: la struttura
narrativo-dialogica, il colore cinereo purgatoriale, la «gora» iniziale, i vari richiami a
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Brunetto e Forese. Perché questo più aperto dantismo: è il bisogno di un richiamo a una
poesia frontale, calata nel «magma» della realtà?
E' proprio questo, la desistenza dell'io come autorità pone tutto in fase di ricerca. Il modello del
lirismo tradizionale non aveva più senso, mentre il convivere e contrastarsi di personaggi, di menti
e di sensibilità che c'è in Dante mi era molto congeniale. Se quel mio scritto sull'inferno e il limbo
ha avuto un seguito l'ha avuto qui. Non è un mondo di dannati, ma di gente sospesa e
disorientata; il valore etico è purgatoriale, ma la realtà ha colori decisamente infernali.
Come mai l'umile Bisenzio, invece del più consueto Arno? E' un fiume-non fiume, la sua
immagine degradata in «gora»? Si possono mettere meglio a fuoco i due tuoi interlocutori
antagonisti" Chi sono questi uomini della resistenza"
E' il fiume della zona industriale e d'aspetto un po' deprimente, dove i contrasti dell'impegno
politico di Sinistra sono più netti. In particolare allora c'erano giovani, in certo senso provocatori,
che chiedevano di schierarsi e partecipare politicamente.
Un motivo nuovo del "Magma" è l'affiorare della consapevolezza del vuoto storico, della
«mancanza umiliante della lotta», vale a dire del depotenziamento dell'agire umano,
inadeguato alla forza di cose ed eventi. Per tutto il libro si scandisce una lentezza ed un
torpore, a volte una minacciosa degradazione, cui contrastano varie immagini numinose e
di grazia. Ma il rendiconto del torpore è ciò che mi affascina sempre di più a rileggere
questo testo, per l'acume profetico delle stagioni tanto disgregate dell'umano che tutti
sperimentiamo sempre più. E' una poesia, quella del "Magma", che è sempre più vicina, man
mano che il tempo scorre ci offre sempre più intelligenza della nostra condizione. Forse è il
tuo testo, che più sente, trattiene e prefigura un clima sociale. Quale era il tuo animo
mentre scrivevi? Come si compiva dentro di te questa rivoluzione del tuo dire?
Io sentivo il bisogno di dare una rappresentazione al tempo; in fondo noi abbiamo registrato varie
situazioni individuali, ma non vedevo un quadro generale. Sentivo questo bisogno, ma come ci
sono entrato? Le prime due poesie scritte sono il "Bisenzio" e "Nel caffè". Ci sono entrato quasi
oniricamente, a un certo punto sentii una dimensione del linguaggio che si apriva ed allora ho
seguito, molto sorpreso io stesso, finché‚ non sentii la musica nuova che c'è in questo libro, che
non è solo prosastico come è stato scritto.
Tra le cliniche: "che cosa si presuppone"?
La malattia mi pare presente, non biograficamente; più volte visitando persone a Careggi, vidi la
città dei malati che ha un suo mondo e la sua legge. Anche lì con aspirazione a qualcosa che non
si realizza.
"Nel caffè" rievochi tuo cognato Carlo Monaci, fratello di tua moglie, mi confidasti una
volta, operato di cancro («forato nella gola»): ma come per tua madre, la poesia supera i suoi
contorni elegiaci, per essere conoscenza; in particolare tuo cognato appare riconciliato con
le cose, ma forse lo è fin troppo, anche con il loro avvilimento?
Gli ho dato una dolcezza che aveva acquistato. Ed era una cosa molto bella, sdrammatizzava
contrasti ed anche la sua situazione di morente.
L'amore, in una sua varia contesa, tra complessi di colpa, difficoltà, visioni beatifiche ha
una sua varia importanza nel libro. Da un lato ci sono le figure femminili: mi sembra di
poterne individuare tre: a) la donna platonica di "D'intesa" e "Prima di sera"; b) la donna di
grazia di "Ménage", "Terrazza", "L'India" (che si svolge in un cinema); c) la donna disamata
di "In due", la cui vicenda è specularmente leggibile in "L'uno e l'altro". Sono aspetti
verosimili, che concretano nel "Magma" il discorso sul femminile, da sempre presente, ed
anticipano le figurazioni molteplici, dal positivo al negativo (o meglio all'umiliazione) della
donna nelle raccolte più recenti. Ma chi sono queste donne?
E' un po' anche il purgatorio della donna ed anche questo rapporto soffre di questa incoerenza
dell'umano; c'è sempre comunque il desiderio di una sua presenza salvifica. La prima donna è un
po' la Franca [Bacchiega], ma potrebbe essere anche la Cristina Campo. La Franca non l'ha
conosciuta, ma sostiene di averla sognata ed avere avuto dei messaggi. Anche "Ménage" fa
riferimento alla Franca.
Nel "Magma" ci sono vari interlocutori maschili, spesso antagonisti di varia forza; oltre i
citati del "Bisenzio", vi è il teso scontro di "Bureau", quello ideologico di "Nella hall",
l'accusa di tipo privato del "Giudice", il viso servo e ghiotto del compagno addormentato in
"Tra notte e giorno", infine il pretonzolo di "Tra quattro mura". Qui si incentra la contesa
umana, che sfocerà nei drammi, penso. Come mai tanta durezza, se pur sofferta?
Dove c'è scontro, è con il tipo umano che è agguerrito nella sua misura di "praticone", ed è
un'accusa contro di me che sembro non impegnato nelle cose. Questi sono tutto quello che non
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sono e mi è stato rimproverato di non essere. Il pretonzolo è uno che ha una visione onesta ma
angusta.
Tu metti in scena il personaggio di te stesso e ti rappresenti senza privilegi, equiparato agli
altri, nemmeno molto cordiale e simpatico, ti esibisci prigioniero del tuo io e i vari scontriincontri sono come delle ferite-aperture per il superamento della prospettiva dell'io lirico.
E' un punto capitale del libro e della poesia del '900, mi pare, anticipato, tematicamente,
più che stilisticamente, dal "Fondo". Anche qui nel distacco poeta-personaggio si vede una
funzione dantesca, nella ricerca di una pluralità di voci, capace di captare meglio il
magma?
Perfetto. Nasce una scissione interna allo scrittore e nasce una presenza umana del tutto
metamorfica che non è più al servizio di un io lirico e despota del testo.
E' evidente che c'è un tuo vissuto, con tante specificazioni di tempi e luoghi; mi sembra
che da un lato il movente biografico sia necessario come maggiore incontro con il magma,
fuori del tuo privilegio intellettuale; dall'altro che esso diventi paradigma e mai
confessione.
Io posso anche abusare di questi ricorsi biografici, perché non sono più interni allo scrittore, ma
fanno parte della commedia umana.
"L'uno e l'altro" finisce quasi visionariamente: «mi striscia davanti un'ombra o una coda di
opossum»; puoi dirmi qualcosa di più?
E' un richiamo al mondo oscuro della natura, al mistero biologico presente nel mondo. La natura
ha una energia che passa nella nostra vita; è un motivo quasi unificante, però oscuro.
In "Ménage" il grido «vitreo» dei bambini?
Nell'inverno sembra che le voci si raggelino e diventino una specie di strazio, verso sera. In questo
vitreo c'è la stagione e l'ora, il declino del giorno.
"In Terrazza" «l'animale leggiadro e ambiguo» è la donna?
Sì.
"Dopo la festa" ha una specifica motivazione?
E' un po' quel "demimonde" che ha anche qualcosa di patetico e di ambiguo.
Da quanto si è discorso mi pare che il libro abbia anche questa novità importante: non è
una raccolta di versi, ma un libro di poesia. Le varie poesie hanno reciproci collegamenti e
si organizzano in figure del poema, costituendo la doppia matrice della gemmazione da un
lato della successiva poematicità, dall'altro della necessità drammaturgica. Ci sono così
immagini ricorrenti: gli occhi che non vedono ad esempio o vedono il vuoto...
Anche questo è detto benissimo.
Come tipo di struttura "Nel Magma" è unico; in fondo ci sono continuità strutturali tra le
altre tue opere; invece "Nel Magma" è unico e solo. Perché?
E' vero che ha questa irripetibilità, essendo per altro matrice del resto. Io mi sono poi spostato su
considerazioni più costanti di tipo più speculativo; è difficile spiegare l'irripetibilità; qui ho
esaurito la ricognizione sul presente, che poi non ho dismesso ma ho spostato su altra scala,
come capita nei "Fondamenti".
Mi ha sempre stupito il grande rinnovamento di lingua e ritmo del "Magma"; anche perché
penso sia stato difficile cassare una stilistica tanto collaudata e apprezzata quale era il tuo
precedente modo, così mirante all'alto e alla grazia. Come hai proceduto? In che modo hai
avvertito la nascita del sermo merus e del suo ritmo, che frantuma (non spegnendola) la tua
sapienza d'uso dell'endecasillabo?
Ti ho già in parte risposto prima. Ero preso molto da questa cosa e scrissi rapidamente come per
"La barca", fui trascinato da questa nuova scrittura, non fu tormentata. Avevo rotto lo schema
predeterminato e questo mi facilitava: trovavo la forma facendola; non c'era più una forma
platonica, ma una forma teleologica. Anzi trovato questo filone, rischiava di diventare una
modalità. Feci le "Postille" ma capii che poteva diventare una modalità e scadere.
Nel Magma: Tra notte e giorno
«Che luogo è questo?» mormora tra il sonno il mio compago
scuotendosi al sussulto
del treno fermato in aperta linea.
«E' un luogo verso Pisa» rispondo
mentre guardo nella profondità grigia il viola
cinerino dei monti affondare nel colore dell'ireos.
Una tappa del lungo andirivieni
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tra casa e fuori, tra la tana e il campo,
rifletto io pensando a lui
che spesso parla della nostra vita
come del lavorio d'un animale strano tra formica e talpa.
E ancora dev'essere un pensiero
non dissimile da questo
che muove ad un sorriso
colpevole le labbra
di lui riverso con la testa contro lo schienale in quest'alba.
O morire o piegarsi sotto il giogo
della bassezza della specie, leggo
in quel viso servo e ghiotto,
fiducioso della buona sorte
dell'anima e, perché no, della rivoluzione inesorabile ch'è [alle porte.
«Anche tu sei nel gioco,
anche tu porti pietre
rubate alle rovine
verso i muri dell'edificio» penso;
e penso ad un amore più grande del mio
che vince questa ripugnanza
e insieme a una saggezza più perfetta che prende il buono
e per il buono chiude un occhio sul corrotto e il guasto.
Fugge, fuoco di rondine
saettato dalla pioggia,
si spenge alto
il grido del ferroviere che dà il via
al convoglio impigrito tra l'erba folta.
«Devi crescere: crescere in amore
e in saggezza» m'intima quel viso
disfatto che trasuda in questa luce di giorno incerto.
Nel Magma: D'intesa
Il seguito d'esistenze umane non votato a morte ma al
[ritorno.
Le conosco bene questi pensieri
anche se ora tace e guarda sotto il ponte
il Tamigi grigio solcato da poche chiatte.
Non è molto che abbiamo alla luce bassa scorto
scolpiti nella stessa positura
che ebbero stesi al suolo sotto i colpi i cavalieri del
[Temple.
Ed è mente la sua da non restringere
a un caso senza legge occulta l'aspetto
di quella cruda fine d'iniziati
né la nostra visita al luogo tra le tombe a fior di terra in
[quel punto.
«Ti basti che io sia qui» immagino di dirle
per vincere il silenzio
spesso che solo un poco ci appartiene, non per sfida o
[vanto.
Ma non ha senso alcuno richiamarla
a una certezza così imperfetta ed angusta
mentre indaga e scruta segni almanaccando
ammirevole del resto
per come le parla da ogni pietra
o volto la religione del mondo.
Le anime di pochi, affinate, elette a conoscere il principio.
Indovino ora il suo tormento
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mentre tace e mi guarda fine e intensa
non senza una luce arguta di sospetto
che io ne rida e la giudichi una testa piena di vento.
«Ah perché non mi credi fino in fondo»
continua senza parole
ritmata dallo sciacquio del fiume
quella disputa antica quanto la mente
e non tra me e lei,
in ciascuno di noi, tra l'una e l'altra sua parte.
FONTE: http://www.italica.rai.it
Ilha Negra
Rivista di letteratura in portoguese
Diretta da Amelia Pais (Portogallo)- Gabriel Impaglione (Italia).
Isla Negra
La revista de poesia en español
Per riceverla : [email protected]
Uno spazio Libero!!!
Il blog di Isla Negra
http://isla_negra.zoomblog.com
Isola Niedda
Dae sa Sardinia po su Mondu- Escrie a [email protected]
Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia,
aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori
in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima
pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli
sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale
vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte.
41
hasta la pròxima…
al prossimo numero
Ringraziamo calorosamente tutti i lettori che hanno inviato commenti, auguri,
critiche in merito alla Nomination al Nobel per la Letteratura 2006 e l’adesione
alla Legge Bacchelli pro Giovanna Mulas.
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Scarica

Isola Nera 1/41 Gennaio 2007