Isola Nera 1/41 casa di poesia e letteratura La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace. Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - gennaio 2007 - Lanusei, Sardegna Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste (italia) http://www.unesco.org/poetry/ Giovanna Mulas Sa Jana Reina (la fata regina) …Ed empirai di latte, spada mia, la coppa ardente. Capezzoli ginestra i muri prepotenti ai quali romperai ogn’indugio, e dita come rami d’ oceanico seme, giù, oltre il buio dolce dove non c’è stagione e primavera, sempre, dimora. -Incredibile-, pensò a voce grezza e alta Sisinniu Scanu, e sorrise. -Incredibile aberu- ripetè più forte. Ora il torace si sollevava ed abbassava convulso, i denti gli si erano legati assieme. Il sorriso era scomparso e l’uomo scandagliava attorno con occhi quasi severi. Nove teste, rase e pidocchiose, sparpagliate à pedire attorno alla tavola comente sos pilos aintru ‘e su mucadori nieddu ‘e thia Peppa, sa muzere de maistru ‘e muru de cussa bidda ‘e mortos, intenta nel brusìo a sollevare con cucchiaio e forchetta dalla scodella di portata tre culurjones tre colanti di salsa al lardo, pecorino e menta per ogni bocca e pancia vuota; puntarono finalmente la testa più pensante della famiglia. E ammutolirono. Gli occhi grandi di bambini e madre – caldi, uguali, circondati da una raggiera di ciglia nere- sostennero pacatamente lo sguardo del capo famiglia. Oltre i vetri latrava un Eolo impaziente, randagio, BalenteBelante; frustava i faggi assonnati piegandoli come canne e come canne, da padrone, facendoli sònare, vibrare, parlare di nenje di streghe antiche e, da amante, palpitare, gemere. Si diceva che, fra quei faggi, avesse vissuto una fata dalla pelle d’ebano e gli occhi di carbone ardente, strappata al suo mare da un destino crudele. Si diceva che avesse amato solo una volta, Regina, amato il suo Re tanto da togliergli respiro ed anima e pensiero, 1 amato tanto da lasciarlo andare, poi, scappare lontano, affinché il suo amore non potesse togliergli anche la vita. E si diceva che fu allora, che la fata cominciò a perdere i pezzi del suo cuore, a perdersi lei stessa nei meandri della propria mente. Ogni passo, ogni volo, ogni luogo erano per lei ricordi, AmmentiFrammenti ‘e suferentzia. E in ogni passo, ogni volo, ogni luogo un pezzo di cuore naufragava nei tempi; cuore di fata debole, come debole è il cuore dell’uomo. E sedette in una roccia la Fata, e cominciò ad urlare per la disperazione. E l’urlo vento divenne e tempesta e uragano orrore d’ogni creatura. E poi quiete. Ed impazzì, la Fata. E ancora vaga in forma di civetta, la bocca di ciliegia divenuta becco scuro e duro d’osso, viola passita e pazza d’amore e senza mente e senza cuore, alla ricerca di chi non è più. Fata, la Fata, Sa Jana Reina, E in sos mirtos, s’àrroccas su cantu (dal seno, pieno, il succo), fùriosu su mare,CàstiaCàstiadi: in ie sa mente, su còro OdoreDolore di Fata e fèmina, màlaria, malàdia ‘e amore (sudore) E nessuno si, mai, potrà consolare. Sisinnio ci aveva sempre creduto. Alla Fata, ci aveva sempre creduto. Ricordo che andava cincischiando in giro, quelle volte in cui su binu ‘onu, il vino buono era stato per lui più buono del solito tanto da convincerlo che sì, poteva mandarne giù ancora qualche litro senza pesanti conseguenze per fegato, denari e moglie; che l’aveva vista lassù, gemere in cima à s’àrroccas; piangere di un pianto strano, magico, prima di bambina, poi di giovinetta e donna. Infine diveniva urlo, quel pianto, urlo continuo, e lungo, senza modulazione né tono. Urlo di civetta, pareva. O di gatto impiccato. E diceva Sisinnio che la Fata l’aspettava.Proprio così: l’aspettava. Che gliel’aveva promesso lei. E promessa di Fata è promessa mantenuta. E lui ci credeva ché voleva crederci. Credere all’incredibile. -Incredibile aberu- mormorò Sisinnio. E ora che gli anni erano passati, e così la giovinezza, l’uomo si guardava attorno e lì, dove aveva creduto di vedere le testine rase, le sedie erano vuote, e vecchie quanto lui. E lì, dove aveva creduto di vedere la giovane moglie, incinta dell’ultima creatura bèddha e prena, intenta a servire i culurgjones colanti di sugo all’aglio, lardo e menta e sussurrare antiche preghiere scacciadiavoli; in realtà c’era il buio, e solo buio e quel brusìo di voci ora parlava di silenzi ché thia Peppa con la terra ora parlava, non più con Sisinnio. Due notti prima gli era apparsa, Peppa, come frequentemente gli appariva in quegli ultimi tempi. Sisinnio conosceva il significato di quelle apparizioni; sapeva che stava avvicinandosi per lui il momento di partire.E doveva salutare la terra, le cose terrene che aveva conosciute e amate e odiate durante tutta la sua sconsacrata vita, salutare la 2 terra prima che la terra aprisse le sue porte per accoglierlo dentro sé, farlo ritornare da dove era venuto.E Peppa stava ai piedi del letto di Sisinnio, due notti prima. Lui s’era svegliato di soprassalto e l’aveva vista così, bianca e pura come vergine, bianca e pura come l’aveva conosciuta non ricordava più quanto tempo prima.Aveva diciassette anni, Peppa, quando Sisinnio l’aveva incontrata per la prima volta, e ritornava dal fiume con le sue amiche, carica dei panni lavati dei fratelli e della madre vedova.Era bella, Peppa. Sisinnio ricordava che cantava sempre; lui e gli altri pastori sapevano che Peppa era al fiume a lavare quando ne sentivano arrivare, tra i mirti e i fusti di fico d’India, la voce; quel canto di sirena acerba.Allora Sisinnio s’infrattava tra i cespugli e in amore, soltanto e semplicemente, la guardava lavare e cantare, ridere con le amiche di disgrazia. Eccola lì davanti a lui, ancora, Peppa, due notti prima. Muta, sorridente. -Peppinè…-, -…Peppinedda mea…-. Poi Peppa era scomparsa. Doveva salutare la terra, Sisinnio, prima d’entrarci dentro, salutare chi aveva amato e chi aveva odiato. Ora, era arrivato il momento di farlo. E uscì di casa, Sisinnio, che la luna già s’alzava prepotente, stagliata tra tetti e aie e le colline giù, all’occhio parevano fianchi o corone, scrigni attraversati da cicatrici spurie, IncerteIrrequiete non segnate dalle mappe; quei fiumiciattoli magri e stinti come le pecore quando l’acqua manca e la terra abortisce d’erbe. L’avevano seppellita lì, la bambina. Erano passati trent’anni ma Sisinnio ricordava perfettamente il posto, quel sughero leggermente ricurvo a destra, un ramo ad indicare il cielo, l’altro la terra come che quella bara naturale fosse in realtà un tramite ardito tra un elemento e l’altro, tra spirito e corpo. Un fico d’India era cresciuto estendendosi in maniera spropositata quasi ad abbracciare, cingere, proteggere l’albero e soprattutto ciò che l’albero nascondeva, ed erbetta fine, e fresca, a quell’ora della notte umida e più tenera, confortata dal canto delle cicale e la fragranza orgogliosa dei cespugli di felce. Giunse lì dopo poco cammino nel bosco, attraversando il sentiero celato dai corbezzoli e rovi. Fissò l’albero tra gli alberi e nel buio fitto non lo vide con gli occhi, lo vide con la mente. E con la mente rivide Peppa, piantata lì come il sughero, ad indicargli la via senza parlare. Sisinnio annuì, cadde in ginocchio e mormorò antiche preghiere. Poi prese a scavare la terra brulla a mani nude, ficcò le dita forte e grattò fango e radici, scavò e scavò. Smise, alzò il volto al cielo e, davanti a lui, Peppa intimò scava ancora. E Sisinnio scavò ancora, e ancora, e ancora che gli pareva di non dover mai finire di scavare. Toccò qualcosa, un sacco di tela grezza pareva. E Sisinnio sussultò al ritorno del passato, che fu come uno schiaffo. Ed ecco la bambina, una zingara figlia di zingari, dicevano che fosse in paese. L’avevano vista camminare per le strade con la madre mezzo nuda al fianco per qualche giorno, poi neppure più la madre s’era vista. 3 Ed era andata, la bambina,a cercargli del formaggio mentre Sisinnio pascolava pecore e capre ed il cane abbaiava ai falchi E lui le aveva dato formaggio e pistoccu ed erano diventati amici; del resto zingari tutti e due erano, chi di corpo, chi di mente. E tutti e due bambini erano, chi di corpo, chi di mente “E torna a trovarmi” le aveva detto Sisinnio “E si” aveva risposto la bambina Ed era tornata, per quindici giorni di fila, era tornata lì alla tanca, vicino à su riu ‘e preda, tra sugheri e canne e menta odorosa E il sedicesimo giorno era caduta nel fiume (lui voleva strapparle un bacio – l’unico- e lei era scappata ridendo) E aveva battuto la testa sul fondale Ma Sisinnio sapeva che nessuno l’avrebbe cercata perché la zingara, per gli altri, era Nessuno E Sisinnio sapeva che avrebbero dato la colpa a lui di averla spinta nel fiume E Sisinnio il Maresciallo Giommaria Trimarchi, un continentale, non l’aveva cercato Nemmeno avvisato, l’aveva Senza vergogne aveva chiuso la zingara nel sacco che il suo padrone usava per metterci il resto da dare ai maiali giù in paese E il sacco l’aveva seppellito piangendo E sapendo di fare peccato sapendo che tutta la vita quel peccato l’avrebbe pianto e così davvero era stato Sotto una piantina di sughero strana che a lei piaceva tanto perché curvava il fusto e aveva un ramo che indicava il cielo, l’altro che indicava la terra La zingara era la prima che Sisinnio aveva davvero amato, senza saperlo. Amata come gli angeli amano. Peppa sorrise e Sisinnio uomo pianse, e Peppa scomparve e Sisinnio gemendo pulì il sacco dalla terra, Perdonami Signore perdona il peccatore perdonami zingara chè seppellita da femmina e non da bestia, dovevi essere, e non nascosta dalla vergogna degli altri Perdonaperdonaperdonaperdona… E Peppa, e sa Jana Reina eccole assieme e la zingara lì, Angelo bambina a dare una mano ad una ed una mano all’altra. E Sisinnio comprese d’essere stato perdonato, dalla TerraDio, perdonato. E con Peppa, sa Jana Reina e la Zingara Bambina danzò tutta la notte Dicono che lo videro danzare su ballu tundu E danzare e danzare e danzare Fino a che il cuore gli scoppiò di danza e di felicità E qualcuno lo vide danzare. (E ancora oggi, qualcuno lo vede danzare). 4 Ma don Puddu coi suoi chierichetti, la mattina, bussò alla porta di Sisinnio per accoglierne la confessione e dargli l’ostia, come faceva ogni giorno. E lo vide così, Sisinnio, che pareva addormentato sulla sedia. E don Puddu disse in paese che Sisinnio sorrideva; disse proprio così: sorrideva. In tavola undici scodelle e undici bicchieri avevano trovato E al centro della tavola in su tàlleri trentanove culurgjones trentanove, tre a testa per ogni bocca e pancia vuota E una civetta silente abbarbicata sulla tredicesima sedia, le ali chiuse, il capo chino. Olbia-Roma 29/06/2004, h. 07.40 POESIA E LA COMPRENSIONE DEI LIMITI DELLA STESSA Eugenio Montale (1896-1981) Una nuova intensità derivante da una continua ricerca nelle cose e nelle parole di un legame con la situazione umana, originato anche dalla forza di un linguaggio fortemente ancorato al presente; Eugenio Montale individua così il suo punto di equilibrio tra la letteratura e il quotidiano, uno spazio non rifiutato, ma vissuto con un sereno distacco lontano dal turbinoso mutare dei tempi e del significato esistenziale. Genovese di nascita — la città ligure gli diede i natali il 12 ottobre del 1896 —, Montale nutriva una forte passione per la letteratura e la poesia, approfondite in maniera irregolare e sulla spinta della sete di conoscenza lungo l’arco di tutta la sua vita. Sergio Solmi, Bobi Bazlen e i triestini —Italo Svevo e Umberto Saba —, passando da Ezra Pound e la tanto amata letteratura inglese: furono questi gli autori che segnarono i primi approcci artistici di Montale fino al periodo fiorentino e alla nomina a direttore del Gabinetto Viesseux a Firenze, città che lo vide tra i suoi più brillanti intellettuali negli anni dal 1929 al 1938. Il suo rifiuto di aderire al partito fascista lo costrinse ad abbandonare la prestigiosa carica e dedicarsi ad attività di traduzione, inframmezzata da collaborazioni con alcune riviste. Durante la seconda guerra mondiale fu richiamato alle armi, ma ben presto fu congedato e visse il periodo dell’occupazione nazista a Firenze. Dopo la liberazione si iscrisse al partito d’azione, ma la sua militanza politica durò poco a causa della delusione provata nell’osservare come tutte le speranze in un cambiamento si riducevano allo scontro tra la sinistra e il clericalismo, a discapito di quanti auspicavano una svolta liberista di stampo europeo, che portasse alla nascita di un’Italia aliena dai retaggi nazionalistico-provinciali e proiettata in un orizzonte di più ampio respiro. Montale indaga l’uomo e il suo isolamento nel mondo, osservati anche rispetto al fluire di natura e storia, come insegnavano i filosofi esistenzialisti e i poeti francesi — Charles Baudelaire innanzitutto — e inglesi e americani — Robert Browning, Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound —. La grandezza del poeta genovese risiede in quella straordinaria abilità nel tentare di comprendere l’occidente a lui contemporaneo e i cambiamenti che le arti e il sociale avevano subito dallo svilupparsi di una cultura massificata di carattere planetario. Egli aspira a essere una voce laica, razionale, italiana ed europea, pronta a sondare anche gli aspetti più terrificanti del presente con la consapevolezza, di fronte ai sinistri presagi del futuro, dei suoi limiti e dell’inarrestabile corsa degli eventi. 5 Una straordinaria capacità di comprensione rese Montale un acuto lettore e critico dei libri più disparati, esaminati razionalmente per andare a scovare al loro interno le tracce della condizione umana e della forza della conoscenza. L’arte, la parola, l’atto del comunicare erano per il poeta dotati di concretezza, perciò, radicati nell’esistenza individuale e proiettati in un ambito storico e collettivo, divenendo così concreti e influenti. La sua poesia nasce dalla comprensione dei limiti ad essa connessi, dalla presa di coscienza della contemporaneità, vista come una minaccia nei confronti dell’arte, in pericolo non a causa della povertà del linguaggio, ma travolta dalle tante e troppe parole che albergano nel mondo. L’unica risposta possibile è la poesia del confronto con la fine, degli aspetti umani e civili positivi e, soprattutto, degli oggetti: concreti rivelatori del senso interno delle cose, nel solco di Eliot e della nuova vitalità di simbolo e allegoria. Montale è allo stesso tempo influenzato dalla tradizione poetica italiana, rivista alla luce di un rapporto differente, diretto e vitale, dal quale trarre i necessari presupposti per comprendere la condizione moderna. Tradizione e contemporaneità viaggiano su di un binario parallelo che porta a un linguaggio poetico perfetto, essenziale, ma denso e profondo Ossi di seppia, dato alle stampe nel 1925, è il primo esempio di questo tipo di poesia generata da un’emozione intima ed espressa attraverso l’essenzialità degli oggetti e del linguaggio. Montale cerca nuove forme, ma non esita nella sperimentazione dei metri tradizionali, raggiungendo un eccellente risultato di linearità sintattica; i toni sublimi si trasformano in concretezza e la parola diventa precisa, tecnica nelle designazioni per diventare poi ironica e colloquiale in virtù di un abbassamento del linguaggio. Montale è una voce immersa nel paesaggio, ma non direttamente partecipante alla vita, interrogata attraverso segni, forme, suoni e movimenti, scanditi dal procedere del tempo. La vita diventa così inafferrabile, vuota e reale, disgregandosi in un continuo equilibrio con l’io e la sua distanza che si risolve in angoscia e rovina. Le occasioni, pubblicate nel 1939 da Einaudi, ridimensionano la riflessione esistenziale della precedente poetica, la parola punta la sua attenzione sugli oggetti, tralasciando qualsiasi aspetto meditativo e problematico per concentrarsi sul susseguirsi di immagini nette, frutto anche di un forte impatto di suoni, parole e frasi. La poetica diventa complicata, ardua, impenetrabile, portatrice di un messaggio volutamente occulto, mostrandosi, però, tesa alla ricerca del contatto con l’altro che diventa una donna persa o irraggiungibile, o la lontananza del tempo e il suo rievocare esperienze, oggetti e immagini sbiadite nella memoria e ormai trascorse e intangibili. La donna rappresenta la salvezza, il riscatto del poeta da questo vivere e dall’avvicinarsi, annunciato dalla volgarità e dalla mediocrità del presente, della catastrofe; essa è reale in alcuni casi, mentre in altri rivela le tracce di persone diverse, restando, comunque, l’ultimo baluardo contro il precipitare degli eventi. La bufera e altro, terza raccolta poetica di Montale risalente al 1956, contiene poesie pubblicate precedentemente in alcune riviste e scritte tra il 1940 e il 1954. La struttura aperta dell’opera tradisce un intento romanzesco di prossimità con la Vita Nuova dantesca, nella quale il presente si intreccia con l’amore per una donna salvatrice. La Beatrice di Montale è moderna, ostile e amorevole, lotta contro la violenza e il degrado, permettendo al poeta di riconoscersi e affermare la strenua resistenza della poesia, confrontandosi con il mondo e la sua diffidenza. Questa figura femminile si muove in un ambito enigmatico, cambia qualità e nomi, lanciando segnali contrastanti al poeta, al cui elegante verso giocosamente si nasconde. Le figure femminili si intrecciano anche alle diverse situazioni storiche in atto: il passaggio dalla speranza della fine della guerra a un dopoguerra angoscioso e sinistro diretto verso la fine della civiltà. Al termine di un lungo periodo di silenzio poetico, negli anni ’60 Montale ritorna con una nuova poesia, più diretta, quasi dimessa, assolutamente lontana dal tono alto ed essenziale della poetica precedente. La parodia, l’ironia, la diversità di stili prendono il 6 posto della tensione lirica per mostrarsi completamente attraverso una revisione della propria poetica, ora degradata a un livello più basso. La nuova arte si mostra semplice solo in apparenza, assumendo su di sé il vuoto delle banalizzazioni con disincanto e ironia, ma conservando come suo punto di riferimento la memoria. Il passato si confronta con se stesso e il presente in una nuova dimensione, nella quale il contemporaneo è ancora più angoscioso, tra la perduta giovinezza e l’attuale vecchiaia come scoperta della precedente condizione e del suo significato. La voce di Montale sopravvive perché non può accettare il mondo, costretta a negarsi sottraendosi alla propria identità e alla verità. Satura, raccolta uscita nel 1971, sarà il primo risultato di questa nuova poetica, di cui una parte era già stata pubblicata dieci anni prima, e il suo influsso resterà tale anche nelle composizioni degli ultimi anni, dove il poeta, sfuggendo al presente, osserva i dissensi, il disordine e la confusione di una vita artefatta. È il cosiddetto secondo Montale, quello che afferma di avere aperto ai suoi lettori, Il retrobottega della sua poesia. Nell'intervista Francesca Ricci, autrice della prima opera di esegesi del Diario del '71 e del '72, parla delle 90 schede, una per ogni poesia, che costituiscono il suo commento integrale a questa raccolta. «È ancora possibile la poesia?» — si chiedeva Montale — «In un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria?». Questa domanda, rivolta all’Accademia di Svezia il 12 dicembre del 1975, durante la cerimonia di consegna del premio Nobel, lo colloca quale spirito antesignano rispetto ad un futuro, oggi reale, inquietante e problematicamente terrificante, da lui individuato e scandagliato con anticipo impressionante. (L.A.) La vita di Eugenio Montale è la vita di un uomo schivo, distaccato e disilluso verso se stesso e la propria stessa esistenza: scrivendo «sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale», diviene uno dei massimi rappresentanti della poesia e della cultura contemporanea. Nasce a Genova il 12 ottobre del 1896. Trascorre l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua poesia. Di salute malferma, compie studi irregolari, nutrendo una forte passione, oltre che per la letteratura e la poesia, anche per il canto. Nel 1917 viene chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Dopo la guerra stringe rapporti sia con gli scrittori che a Genova frequentano il Caffè Diana in Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di Piero Gobetti, che negli anni venti cerca di attuare una resistenza culturale al fascismo, in opposizione al futurismo e al dannunzianesimo. Nel 1925 pubblica, proprio per le edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, Ossi di Seppia, e firma il manifesto antifascista di Croce. Sempre nel '25 esce sulla rivista milanese «L'esame» l'articolo Omaggio a Italo Svevo, con cui contribuisce in modo determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni successivi diviene amico. Nel '26 conosce inoltre Saba e il poeta americano Ezra Pound, e d'allora indirizza una viva attenzione alla letteratura anglosassone. Nel 1927 raggiunge l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la casa editrice Bemporad; e conosce Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che più tardi diverrà sua compagna, ma che sposerà solo nel 1962. Nel '29 è nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, dal quale incarico nel ‘38 verrà esonerato, avendo sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale è uno dei principali animatori della vita intellettuale fiorentina: frequenta il noto caffè degli ermetici Le Giubbe Rosse, fa amicizia con i maggiori scrittori italiani del tempo (Vittorini, Gadda) e inoltre allarga sempre più i sui interessi alla cultura europea. 7 Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca vive attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto grazie ad una varia attività di traduttore. Nel '39 pubblica la sua seconda raccolta di poesie, Le occasioni. Dopo una breve poesia introduttiva, Il balcone, la raccolta si divide in quattro parti: la prima e l’ultima presentano poesie di carattere diverso; la seconda, invece, s’intitola Mottetti e contiene venti brevi componimenti che intendono riprodurre la forma musicale del "mottetto", sorta nel XIII secolo; la terza, infine, contiene tre pezzi dal comune titolo di Tempo di Bellosguardo. Nel '43, a Lugano esce Finisterre, un volumetto di liriche scritte tra il '40 e il '42, esportato clandestinamente in Svizzera. Finita la guerra, si iscrive al partito d'azione, riceve un incarico culturale dal Comitato Nazionale di Liberazione e fonda, con Bonsanti e Loira, il quindicinale «Il Mondo». La sua esperienza politica è tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, vengono fortemente deluse dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo e la sinistra filostalinista. All'inizio del '48 la sua vita, fino ad allora così normale, comincia a mutare. Si trasferisce infatti a Milano, dove lavora come giornalista e critico letterario al «Corriere della Sera» e al «Corriere d'Informazione». Pubblica sia una nutrita serie di interventi di attualità culturale e politica che tendono a sostenere una cultura borghese critica e razionale, sia recensioni musicali (raccolte nel 1981 nel volume Prime alla scala), reportages di viaggio in diversi paesi del mondo (raccolti nel 1969 nel volume Fuori di casa) e numerosi brevi racconti, la maggior parte dei quali costituiranno il volume Farfalla di Dinard (1958). Nel '56 esce la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra, La bufera e altro. Negli anni Cinquanta e Sessanta viene considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e liberale, tanto che riceverà diversi riconoscimenti culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura. Nel 1966 pubblica le riflessioni di Auto da fé, e nel 1973 il volumetto Trentadue variazioni. Dopo un periodo di completo silenzio poetico esce nel 1971 Satura, e nel 1973 Diario del '71 e del '72, nel 1977 Quaderno di quattro anni; ed infine nel 1980, caso unico per un autore contemporaneo vivente, viene pubblicata l'edizione critica della sua intera Opera in versi. Trascorre gran parte della vecchiaia nell'appartamento milanese in via Bigli 15. Muore a Milano il 12 settembre 1981. (D.M.) FONTE: http://www.italialibri.net Lo sport e il patriottismo Il patriottismo è un'infezione dalla quale non fui sempre immune. Quando l'Italia entrò in guerra, nel 1915, io stoltamente non mi trovai d'accordo sui "parecchio" di cui si sarebbe accontentato l'onorevole Giolitti; e se pure non partecipai ad agitazioni di piazza come tanti altri non pensai affatto ad alcuna forma più o meno lecita di mio imboscamento. Fu un errore? Non sono ancora riuscito a pentirmene del tutto. C'è però una forma di patriottismo, quello sportivo, che mi trova totalmente allergico. Si tratta evidentemente di una mia costituzionale deficienza e alcuni miei amici se ne rendono conto non senza farmi notare quanto più piena e completa sarebbe stata la mia vita qualora il brivido di un gol "nazionale" avesse mai scosso i miei precordi. Purtroppo nulla di simile è mai accaduto. Giorni fa, quando un certo personaggio apparve al video affermando che il calcio è cosa nostra, di noi tutti, dell'intera nazione, feci uno sforzo per sentirmi mutilato, alieno, moralmente spastico, affettivamente fermo allo stato zero, ma non ottenni alcun risultato. Si noti che io soffro di horror vacui e che una piazza affollata, un anfiteatro stracolmo mi danno meno preoccupazione della deserta (finché dura) e incantevole piazza Navona. Ciò nonostante non riesco a trovare alcun nesso tra una pedata al pallone, o agli stinchi di qualcuno, e il così detto orgoglio nazionale. Piedi e patria per me non sono omogenei: non si fondono. So benissimo che i "ginnici ludi" (cfr. Arrigo Boito in non so quale suo libretto) hanno fatto salir la temperatura di interi popoli fin dalla più oscura preistoria. Conosco il detto 8 mens sana ecc. Non mi dispiace assistere a qualche exploit atletico, guardo volentieri le corse dei cavalli, apprezzo il nuoto, io che so appena sguazzare per pochi minuti, e ho persino sognato di vincere una maratona. Ma qui mi fermo: penso che la caccia e la boxe appartengano alla macelleria, non allo sport; e quanto ai piedi, quand'entrano in ballo i piedi della nazione, della patria, i piedi della città, i piedi di seria A, B, C... Z, quando non provo sintomi di infarto per il calcio di rigore, quando non me la sento di odiare l'arbitro, l'allenatore, o qualsiasi altro caporione della baracca calcistica, quando mi accade di ravvisare nell'egregio collega Alfredo Pigna piuttosto la vittima di una follia collettiva che il mentore o l'aruspice delle nostre fortune calcistiche, allora debbo concludere che la calciomania (diffusa com'è in tutto il mondo) dev'essere il chiodo che scaccia un altro chiodo, un morbo che ne sostituisce un altro anche peggiore. E infatti non mi sfugge che cosa c'è sotto le demenzialì manifestazioni di cui sto parlando. Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano. L'uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine. Non gli mancano - fatte le debite eccezioni - i mezzi per sopravvivere e neppure i sempre più tiepidi affetti familiari. Gli manca invece la sintonia, il senso di esser legato agli altri uomini da un motivo qualsivoglia, magari modesto ma tale da riempire quasi automaticamente il suo vuoto. Di qui il grande e piccolo tifo. Al tifoso non interessa sapere che nessun italiano può correre i cento metri in dieci secondi. Ci sono riusciti tre negri, e che importa? Bel merito esser nati negri. Lo stadio invece offre partecipazione e non tanto per i suoi magri spettacoli quanto perché è l'aspetto visibile di una grande macchina che implica denaro a palate, scommesse, retroscena di ogni genere, ingaggi, disingaggi, uomini venduti a peso d'oro come merce preziosa. Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia. Scopo della vita è quello di "farcela". Gli artisti del piede ce l'hanno fatta, ecco il segreto dell'entusiasmo che destano. Di qui il carattere rissaiolo, vendicativo, nettamente antisportivo di un giuoco che è tanto più eccitante quanto meno è lucido, disinteressato. Ma... Ma a questo punto sento la domanda di uno spazientito lettore: che cosa accadrebbe ogni domenica se non esistesse questo salasso, questo vescicante, questo quasi innocuo sfiatatoio che è la partita? Forse che si venderebbero più libri, si chiederebbe musica migliore di quella Canzonissima che è sfornata da un monopolio di Stato? Forse si affollerebbero le biblioteche (sempre chiuse), i giardini pubblici (inesistenti), i pestiferi e ameni dintorni delle nostre città? E non si può supporre che Lei, antitifoso incancrenito, soffra di egocentrismo, di sociofobia e di altri peggiori mali? Forse un mattino andando in un'aria di vetro Forse un mattino andando in un'aria di vetro, arida,rivolgendomi vedró compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andró zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. (Eugenio Montale, Ossi di Seppia) È ridicolo credere È ridicolo credere che gli uomini di domani 9 possano essere uomini, ridicolo pensare che la scimmia sperasse di camminare un giorno su due zampe é ridicolo ipotecare il tempo e lo é altrettanto immaginare un tempo suddiviso in piú tempi e piú che mai supporre che qualcosa esista fuori dall'esistibile, il solo che si guarda dall'esistere. (Eugenio Montale, Satura; Satura II) Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco di un abbandono nel suburbio. Io il tuo l'ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo gioco della mia sorte, alla fiducia sovrumana con cui parlasti al rospo uscito dalla fogna, senza orrore o pietà o tripudio, al respiro di quel forte e morbido tuo labbro che riesce, nominando, a creare; rospo fiore erba scoglio quercia pronta a spiegarsi su di noi quando la pioggia spollina i carnosi petali del trifoglio e il fuoco cresce. (Eugenio Montale, La bufera) Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. (Eugenio Montale, Satura, Xenia II) 10 Bibliografia - Ceserani R. e L. De Federicis, La società industriale avanzata: conflitti sociali e differenze di cultura, Torino, Loescher, 1986; pagg.1382. - De Caprio V. e S. Giovanardi, I testi della letteratura italiana, Il Novecento, Milano, Einaudi, 1994; pagg.1470. - Luperini R., Storia di Montale, Roma, Laterza, 1986; pagg. 262. - Montale E., Mottetti, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1988; pagg. 135. - Montale E., Prose e racconti, a cura di Marco Forti, i Meridiani, Mondadori, 1995; pagg. 1253. - Montale E., Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984; pagg. 1948. - Varie risorse Web. Enrico Pietrangeli Italia Primavera del ’44 Primavera del quarantaquattro, la giornata è vanamente tiepida e serena, continuano movimenti di truppe tedesche che si susseguono da giorni. Dal fronte adriatico, sotto l’alto comando del generale Kesselring, confluiscono a contrastare le armate alleate su quello tirrenico. Puntuali, da qualche giorno, sfrecciano incursioni di caccia britannici per intercettare linee e rifornimenti del nemico. Roma non è lontana, dista meno di cinquanta chilometri, e qui l’orizzonte è contornato di aperta campagna: per lo più ulivi tra ondulati pendii di colline. Sento e comprendo quanto sta accadendo, ne conosco i luoghi, lo spazio e persino il tempo. Lo vedo in prima persona, senza neppure essere stato concepito, attraverso gli occhi di mia madre e sotto forma di coscienza astrale. Di primigenia essenza ho facoltà di percepire, disincarnato nell’ovocita quiescente. Un destino sospeso tra ipotalamo ed ipofisi che, in balia di ormoni, mi porta all’infuori del tempo, tra gli eventi di quella stessa visione. Mia madre, giovane donna provata ma forte, gode di un’ottima funzione ciclica dell’ovaio, con mestruazioni regolari impiantate da una buona produzione di ormoni steroidei. Stamani attraversa i campi, guardinga e ancora un po’ bambina, trasformando l’incombente pericolo in una sorta di gioco, per trovare, nella fantasia, un’ulteriore via di uscita. Porta nel ventre, stretta, una borsa d’acqua calda con dentro olio fresco di molitura. È a pochi passi dalla via Salaria, da più di quindici minuti il fuoco sembra tacere e, tra le retrovie, transitano ancora reparti di SS in scorta a munizioni e rifornimenti. Un camion la nota e si ferma; il sergente Brunner, in uno stentato ma collaudato italiano, la invita, educatamente, offrendole un passaggio. Lei indugia, ma non più di qualche istante, per poi prendere posto tra i commilitoni, sopra casse di proiettili e dinamite. Il percorso è lungo e, di mezzi civili, all’epoca se ne vedevano davvero pochi. Lui, il sergente, continua di tanto in tanto a sghignazzare raccontando improbabili barzellette tra tedesco ed italiano. Lei, da parte sua, sembra quasi incurante del pericolo di tutto quell’arsenale ma, nondimeno, è rigida e timorosa nel trovarsi sola, in una morsa di uomini a farle contorno. Lo sguardo di Brunner, tra una battuta e l’altra, si lascia distrarre da quel poco di caviglia che fuoriesce dalla gonna. Poi, all’improvviso, un rombo cupo si addensa, ovunque, nello stomaco. Il sergente dà ordine di lasciare il veicolo, tutti corrono lungo la scarpata. Giallo! Vedo giallo negli occhi di mia madre che fugge, corre via accasciandosi a terra. La scarica di adrenalina si assesta, frazioni di secondi, e la polvere sollevata riprende un grigio, più naturale colore, tra il sangue e le grida soffocate dal rumore dei motori, nel boato della deflagrazione. Fluttuo, a mia volta, terrorizzato, spintonato tra altri ovociti. È una carneficina, diversi non arriveranno ad assestarsi, predisponendosi ad una futura, più feconda vita: nobili ovulazioni pronte a rincorrere il sogno di baciare lucenti getti di spermatozoi e divenire esistenza! Io, con la più paradossale delle fortune, quella del sopravvivere, dal menarca mi assesto nella zona più attiva e prossima alla menopausa. Sarò uno degli ultimi superstiti all’atresia, nonché predestinato a concepimento; uno strano frutto di quel primo “boom economico”, in bianco e nero, ancora in odore di dopoguerra. L’insolito incontro con l’ostinata volontà di un flusso spermatico tardivo ma innamorato del vivere e, soprattutto, di mia madre. Come loro ho conosciuto l’amore, nella strisciante guerra di una protratta pace, attraverso gorghi d’egoismo e solitudine, sentendomi ancora vivo. 11 Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia Filosofia filosofia PROBLEMI DI BIOETICA I EUTANASIA Remo Bodei Visiti all'ospedale una persona che soffre di un male incurabile e provi pena alla vista dei dolori che distruggono il suo corpo e il suo animo. Sai che medita di togliersi la vita, suicidandosi direttamente oppure chiedendo a un familiare o a un amico di aiutarlo comunque a morire. Pensa così di mettere fine a una esistenza intollerabilmente penosa e senza prospettive di guarigione o di sollievo psicologico. Come ti comporteresti se tu volessi davvero bene a questa persona e ti fossi coscienziosamente informato dai medici delle sue effettive condizioni (venendo a sapere che per lui non vi è scampo e che anzi la sua malattia è destinata ad aggravarsi in maniera devastante sino a una morte che giungerà inevitabilmente entro pochi mesi)? Alternative Cercheresti di convincerlo a desistere dal suo proposito, sostenendo che la vita è un bene in se stessa, di cui non ci è lecito disporre in nessun caso, e questo almeno per due motivi: in quanto appartiene a Dio o in quanto dobbiamo renderne conto non solo a noi stessi, ma anche e soprattutto alla famiglia, agli amici, alla comunità (SOLUZIONE A; )? Oppure, al contrario, saresti d'accordo, - in linea di principio - con i suoi propositi, riconoscendo che la sofferenza fine a se stessa rappresenta una crudeltà disumana, lesiva della stessa dignità del morente, che avrebbe il diritto, finché è lucido, di decidere in piena autonomia della propria sorte (SOLUZIONE B; )? Arriveresti, infine, per coerenza e per convinzione, a sostenere le sue ragioni sino al punto di aiutarlo a togliersi la vita (magari senza il suo esplicito consenso, impossibile da ottenere a causa delle sue attuali condizioni fisiche e psichiche, che gli impediscono di intendere e di volere), incorrendo tu stesso, come avviene nella maggior parte dei paesi del mondo, in un reato penalmente perseguibile (SOLUZIONE C; )? A Se scegli questa soluzione, può significare che aderisci intuitivamente a un'etica di carattere sostanzialmente religioso o civile, ma guidato dall'idea del primato della comunità sull'individuo e di valori assoluti su valori relativi. Tale etica concepisce la vita: 1) come proprietà di Dio (di potenze comunque misteriose che guidano il nostro destino) e ritiene allora che essa ci sia stata affidata unicamente in usufrutto, simile a una "livrea" che ogni uomo, quale servo della divinità, dovrà restituire al momento della morte; 2) oppure come proprietà delle istituzioni che circondano e proteggono il singolo (famiglia, ceto, società, Stato) e verso le quali si contraggono degli obblighi superiori a quelli verso se stessi [Cfr. Paul Ricoeur Intervista 33; "L'idea di giustizia", domanda n. 7. A proposito di Schopenhauer, contrario al suicidio perché non annulla ma rafforza la Volontà di vivere e perché ha per oggetto l'individuo, un puro fenomeno, Cfr. Manuale, III, p. 173]. B Se opti per questa soluzione sei vicino a certe forme di sensibilità 'laica' moderna, che sottolinea fortemente l'elemento di autodeterminazione dell'individuo e che trova già voce in Michel de Montaigne. "La morte è una ricetta per tutti i mali. E' un porto sicurissimo, che non si deve mai temere, e che spesso si deve cercare. E' lo stesso che l'uomo si dia da sé la fine o che la subisca; che corra incontro al suo giorno o che l'aspetti; da qualunque parte esso venga, è sempre il suo; in qualunque punto si rompa il filo, è già tutto, è la fine del fuso. La morte più volontaria è la più bella. La vita dipende dalla volontà altrui; la morte dalla nostra. In nessuna cosa dobbiamo tanto assecondare in nostri umori come in questa. La reputazione non riguarda una tale azione, è follia farne caso. Il vivere è un servire, se manca la libertà di morire. Il processo ordinario della guarigione si compie a spese della vita; ci tagliano, ci cauterizzano, ci amputano le membra, ci sottraggono l'alimento e il sangue; ancora un passo, eccoci guariti del tutto. Perché la vena della gola non dovrebbe essere al nostro comando come la mediana? Alle più forti malattie, i più forti rimedi" (Michel de Montaigne, Saggi, libro II, cap. III, a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1982, vol. 1 pp. 450-451). 12 [Cfr. su Montaigne il Manuale, II, pp. 28-31]. Ma ancora di più potresti condividere le posizioni espresse da David Hume nell'opuscolo Sul suicidio, in cui si rivendica la piena liceità di questo atto [Cfr. il Manuale, II, pp. 324-326] "Che cosa significa dunque l'opinione che in uomo, il quale, stanco della vita e perseguitato dai dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente i terrori naturali della morte ed esca da questa scena crudele; che tale uomo, dico, incorra nell'indignazione del creatore per aver violato l'opera della provvidenza e turbato l'ordine dell'universo? Affermare questo è affermare il falso; la vita degli uomini è soggetta alle stesse leggi cui è soggetta la vita di tutti gli altri animali; e tutte queste esistenze sono soggette alle leggi generali della natura e del moto. La caduta di una torre o un infuso di sostanze velenose distruggeranno un uomo come la più meschina creatura, un'inondazione porta via indistintamente tutto ciò che trova alla portata della sua furia" (..) Per l'universo la vita di un uomo non è più importante di quella di un'ostrica. E se anche fosse molto importante, l'ordine della natura umana l'ha sottoposta alla prudenza umana, e ci costringe a prendere decisioni in ogni circostanza. Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell'Onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un'usurpazione dei suoi diritti, sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il dominio peculiare dell'Onnipotente, prolungando la mia vita oltre al periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era assegnato. - Un capello, una mosca, un insetto può distruggere questo essere potente, la cui vita è tanto importante. E' assurdo supporre che la prudenza umana abbia legittima facoltà di disporre di ciò che dipende da cause così insignificanti? Non sarebbe un delitto per me deviare il Nilo o il Danubio dal loro corso, se fossi capace di farlo. E' dunque delittuoso distogliere dai loro canali naturali poche once di sangue?" (D. Hume, Sul suicidio, in Opere, Roma-Bari, Laterza, 1987, a cura di E. Lecaldano, vol. III, pp. 588-590). C Se, pur con forti dubbi e timori, saresti propenso ad aiutare un caro amico o un familiare che ti implora di porre fine alle sue sofferenze, allora aderiresti alle posizioni recentemente espresse sull'eutanasia e sul diritto morale del singolo al suicidio sostenute in Olanda (dove l'eutanasia è legale) e negli Stati Uniti. Se poi il malato non fosse più in grado di decidere sull'accorciamento delle sue pene mediante la morte e tu fossi, anche in questo caso favorevole, all'eutanasia - intesa in questo senso ristretto - allora potresti trovare conferma alle tue intuizioni morali nel medico e filosofo contemporaneo Hugo Tristam Engelhardt. "Se la vita non è sempre meglio della morte, può essere benefico anticipare la morte, invece di lasciare che 'la natura faccia il suo corso'. Ciò è vero anche quando la morte non è una libera scelta, fatta personalmente o mediante una direttiva anticipata dell'individuo che sta morendo. Se non vi è differenza di principio fra volere intenzionalmente la morte di qualcuno e limitarsi a permetterla, non vi sarà alcun impedimento morale assoluto contro l'anticipazione della morte, una volta che si sia deciso che il prolungamento della vita sarebbe dannoso (...). Considerato il diffuso rifiuto del suicidio assistito e dell'eutanasia nella nostra cultura, l'onere della prova di dimostrare tale consenso ipotetico sarebbe assai pesante. Si deve presumere che la maggior parte degli individui che non hanno disposto esplicitamente che la loro morte venga anticipata non siano interessati a tale rimedio. Tuttavia, i casi di dolore e sofferenza prolungati e gravi, purché non vi siano credi, religiosi o meno, in senso contrario, possono rendere plausibile il sostenere che l'individuo vorrebbe il più rapido sollievo possibile, anche se esso comportasse l'anticipazione della morte. E' possibile richiedere anche un assenso da parte dell'individuo del quale si sta considerando se anticipare la morte, per quanto incapace. Denominerò eutanasia una simile pratica, che si attua quando non c'è un consenso effettivo espresso da un soggetto capace di intendere e di volere, ma soltanto un consenso presunto, per distinguerla dal suicidio e anche dal suicidio assistito, che si hanno quando un individuo morente, capace di intendere e di volere, provoca la morte, da solo o mediante l'azione di un altro (...). Com'è stato notato, la liberalizzazione tanto dell'eutanasia quanto dell'aiuto al suicidio, richiederà dei mutamenti nel diritto. Fino a quando tali mutamenti verranno realizzati, è probabile che i doveri morali di beneficenza di anticipare la morte di coloro che stanno morendo nel dolore saranno vanificati dai rischi di essere perseguiti penalmente e considerati responsabili civilmente" (H. T. von Engelhardt, Manuale di bioetica, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 364-365). 13 [Cfr. inoltre di Jean Bernard intervista 3; , Etica e scienza domanda n. 4; di Hans Georg Gadamer intervista 16; Il filosofo e la morte domanda n. 4]. Fonte: http://www.donatoromano.it Ferdinando Pastori Italia “La mia firma. Ripetuta centotredici volte. Su otto fogli bianchi illuminati di giallo dalla luce di una vecchia insegna Sali e Tabacchi appesa al muro. Le iniziali di nome e cognome troppo rotonde, eccessivamente marcate mentre il resto delle lettere è una greca di geometrie quasi perfette. Piccole curve appena accennate e lievi tratteggi senza angoli retti. Senza staccare la penna, mai, un solo gesto. Inchiostro nero in quanto definitivo. Il blu non è sempre uguale. Diverse sfumature. NomeCognome, proprio così, tutto attaccato. Lo rileggo cercando di assumere una tonalità di voce il più possibile neutra e distaccata. Come se non mi appartenesse. Non è facile. Il suono del mio nome e la mia firma, pur esplicitando il medesimo concetto, descrivendo la stessa persona, sono diversi. Un caso d’omonimia che si rivela al momento delle presentazioni. La firma circoscrive la mia immagine in una dimensione piana. Esprime solo l’infinitesima parte di ciò che sono. La voce si sviluppa, si richiude su se stessa per poi riaprirsi, sale e scende, si increspa e si spezza. Acrobatiche evoluzioni…e io mi ascolto parlare senza dire niente, pur affermando verità inutili e bugie necessarie. Ho sviluppato una capacità non comune d’adeguamento alle diverse situazioni che mi circondano. Incredibili e inaspettate qualità di trasformismo e mimetismo. Chiudo gli occhi alle sei di mattina, Michael Hucknall nelle orecchie intona Sunrise…” ("Euthanasia" - Edizioni Clandestine 2006).- Fonte: http://www.ferdinandopastori.135.it Carmelo Parrinelli Italia Serena sei tu: Sul mare e sulla terra, mai così simili ad angeli decaduti e i miei occhi annebbiati e chiusi rovinati dalla luce del giorno. Serena sei tu dentro ai miei giochi e come il colore più vivo, acceso riempi il grigiore di giorni annoiati… E quando s'è fatta sera nessuno di me si consola avendo te come giusta preghiera mentre vien meno bramata parola. Sei come l'oceano calmo, cheto e mi tuoni dentro come tempesta, io delle tuo onde affogo, annego tanto che poi dinanzi a me s'è festa e urlar non saprei se d'amor s'appresta. L'ordinata follia or festeggia e andrà di spazi nel mio essere assorto canterà di un ciel che poi troneggia innominato lustro e di me accorto mai dubitando amor mio celeste anche dell'uomo innamorato, avvolto. La dea essenza: E quella terra baciò il cielo in fronte con il bisbiglio di stelle intorno ed io invidioso di quell'amore folle mai più rivolsi lo sguardo al mondo. La memoria di cui tanto favelli è si la via tarda del cuore 14 ma la grazia di cui mi nutristi fece largo al nostro piccolo amore. Forse l'essenza ha origine immensa così come l'anima mia s'accoccola nutrito di latte divino dalla dea coscienza ci rende immortale alla sua prole e con noi s'accorse di non poterne fare senza. Walt Whitman USA Anima, verresti tu con me adesso Anima, verresti tu con me adesso, verso la regione sconosciuta, dove non c'è terra per i piedi, né sentiero da percorrere? Oseresti? Non c'è mappa laggiù, non c'è guida, né mano che tocchi, e non si odono voci, non ci sono volti ben in carne, né labbra, né occhi, laggiù in quella terra. O anima, io non la conosco, né la conosci tu, c'è un immenso vuoto innanzi a noi, non possiamo nemmeno immaginare ciò che troveremo in quella terra inesplorata. Fino a quando non si scioglieranno i vincoli, tutti, eccetto quelli eterni, Tempo e Spazio, e non ci legherà più il buio, né la forza di gravità, il senso o alcun altro legame. Allora esploderemo, fluttueremo, anima, nel tempo e nello Spazio, pronti ad essi, eguali, attrezzati finalmente (oh gioia! Oh esito di tutto!) a soddisfarli. Dino Campana Italia Da La Verna (Diario) Sulla Falterona (Giogo) La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere: 15 limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) Valentina Piroddi Italia Guida E’ strano come possa essere buio anche di giorno E’ strano come sia in realtà l’anima a far da sole ai giorni dagli occhi il bianco la luce l’azzurro il mare... Lontano, libero cento mille volte ancora e all’infinito com’egli liberi forse in una sola notte o mai. Aiutami, aiutaci mare rabbia e calma ombra e bagliore toni e suoni senza limiti, insieme. Aiutami, aiutaci strada perenne verso la speranza; Re del nuovo cambiamento pazzo ma coerente guida aiutami, aiutaci. Santoro Salvatore Armando Italia CATERINA ERA LA MENTE Caterina era la mente, e l’anima rispondeva con amplessi tra le gorgoglianti gore che la bianca Dea dell’amore sublimava a Mileto nella candida costa della Caria. Inutilmente il canto si levava tra le gole scoscese e negli anfratti. Lugubri le prèfiche pianti e singhiozzi al Nume con mestizia e rimpianto al cielo infinito intonavano. 16 Neri corvi roteavano tra le bianche nubi: indizi inquieti tratteggiavano nei catini gli oli purificati che il veggente divino aspergeva e disseminava per l’Ade e i destini degli uomini ignari prediva ed il loro futuro segnava. Caterina era la mente, e l’orme stanche disegnava sulla sabbia lucente e proiettava sul fiume infìdo d’Acheronte i sogni e la speranza del mondo; perché nei sogni del cuore trova ristoro e pace quell’amor che agli umani è proibito palesar se difforme dal costume antico ed alle convenzioni degli avi. Caterina era la mente, e il giogo ruppe. La gioia del cuore abrogò le usanze, giacché l’amor che cova nell’esausto spirito d’un vegliardo fresche acque asperge e gioiosi effluvi effonde, perché al calore dei sensi solo puri interessi ostenta e lo spirito libero offre al piacer della vita ed alla lucidità della ragione. Raul Garcia Palma Venezuela Del Libro: No sabemos dónde tejer su forma 6 Hace olvidar el auge de lo efímero una gota que brillante se aleja y no explota La inestabilidad no tiene argumentos Todos los objetos corren dispersando sus contornos En la vigilia se ejercita el centro donde hay voces Son letras a punto de fugarse y cuando escapan en la unión con el fuego no sabemos dónde tejer su forma Dal libro: non sappiamo dove tessere la sua forma 6 fa dimenticare l’auge dell’effimero una goccia che brillante si allontana e non esplode l’instabilità non ha argomenti tutti gli oggetti corrono disperdendo i loro contorni nella vigilia si esercita il centro dove ci sono voci sono lettere al punto di fuggire e quando scappano nell’unione col fuoco non sappiamo dove tessere la sua forma Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Imp 17 Leopoldo Castilla Salta, Argentina Círculo A José Antonio Gabriel y Galán Circolo Concepirono il circolo radioso, la sua forma Partendo dal centro E nella realtà Fu l’esteriore, l’universo, quella sedia, un cavallo tutto l’esterno modulato per finalizzare quella sfera Concibieron el círculo radiante, su forma partiendo desde un centro y en realidad fue lo exterior, el universo, esa silla, un caballo todo lo externo modulado para finalizar esa esfera il tuo occhio non emette attrae tu ojo no emite atrae quel bambino con un pallone tra le mani gioca con l’ultimo punto della materia con la fine del mondo. ese niño con un balón entre las manos juega con el último punto de la materia con el fin del mundo. Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglion Carlos Aldazabal Salta. Argentina Tejido social Aushwitz bosteza telarañas redes de Juanas en la hoguera de represiones británicas en dólmenes asiáticos de picanas de carbón encallecidas sobre números porcentajes de Videla de Pizarro de cenizas que rondan y rondan los cerebros con sus hilos saturados de memoria. Tessuto sociale Aushwitz sbadiglia ragnatele Reti Di Giovanne nel falò Di repressioni britanniche In dolmen asiatici Di picana* di carboni callosi Sopra numeri Percentuali di Videla Di Pizarro Di ceneri Che rondano e rondano I cervelli Coi loro fili Saturi Di memoria. Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione Picana*= uno degli strumenti di tortura utilizzati dalla dittatura argentina Jaime Sabines Mexico Tu nombre Trato de escribir en la oscuridad tu nombre. Trato de escribir que te amo. Trato de decir a oscuras esto. No quiero que nadie se entere, que nadie me mire a las tres de la mañana paseando de un lado a otro de la estancia, loco, lleno de ti, enamorado. Iluminado, ciego, lleno de ti, derramándote. Digo tu nombre con todo el silencio de la noche, lo grita mi corazón amordazado. Il tuo nome Cerco di scrivere nell’oscurità il tuo nome. Cerco di Che ti amo. Cerco di dire al buio questo. Non voglio lo Sappia, che nessuno mi guardi alle tre del mattino pa da un lato all’altro della camera, pazzo, pieno di te, i Illuminato, cieco, pieno di te, rovesciandoti. Dico 18il tuo nome co silenzio della notte, lo grida il mio cuore bendato. Ripeto il tuo nome, torno a dirlo, lo dico instancabilm Repito tu nombre, vuelvo a decirlo, lo digo incansablemente, y estoy seguro que habrá de amanecer. Ci vediamo? – Festival Internacional de Poesia de La Habana, Cuba, ottobre 2007! Verosimile Daniel Freidemberg Argentina Verosímil Será mi mano en tu pelo, será que afuera paró de llover o el hueco que hace siglos dejaron ciertas cosas como tu pelo, mi mano, la lluvia, lo que relumbra entre los dos que actuamos esta escena decididamente verosímil. Claribel Alegria Nicaragua Ars poetica Yo, poeta de oficio, condenada tantas veces a ser cuervo jamás me cambiaría por la Venus de Milo: mientras reina en el Louvre y se muere de tedio y junta polvo yo descubro el sol todos los días y entre valles volcanes y despojos de guerra avizoro la tierra prometida. Sarà la mia mano tra i tuoi capelli, sarà Che fuori smise di piovere O il vuoto che secoli fa Lasciarono certe cose Come i tuoi capelli, la mia mano, la pioggia, tutto che brilla tra noi due che attuamo questa scena decisamente verosimile. Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione Ars poetica Io, poeta di mestiere, condannata tante volte a essere corvo mai cambierei per la Venere di Milo: mentre regna nel Louvre e muore di noia e accumula polvere io scopro il sole tutti i giorni e tra le valli vulcani e resti di guerra guardo oltre la terra promessa. Traduccion: Giovanna Mulas y Gabriel Impaglione Francisco de Asis Fernández Granada, Nicaragua MONÓLOGO INTERIOR Nadie es mi alma y está estropeada por la virtud. Me metí en una novela equivocada y quise cosas que no eran para mí. Monologo interiore Nessuno è la mia anima E rimane rovinata dalla virtù. Mi mise in un romanzo equivoco E volli cose che non erano per me. Mi vidi nello specchio quando il mio viso perse il senso. E guardai il senso quando il mio viso perse lo specchio. Mi sento vecchio e truffato 19 Dalle rose inquiete dei miei pensieri. Già ho il veleno della vecchiaia E il viso lo vedo cereo, inesplicabile e misterioso. Me vi en el espejo cuando mi rostro perdió el sentido y miré el sentido cuando mi rostro perdió el espejo. Me siento viejo y estafado por las rosas inquietas de mis pensamientos. Ya tengo el veneno de la vejez y el rostro me lo veo cenizo, inexplicable y misterioso. Hubo una tormenta en la tierra y hay un olor fresco en el cielo y solo mis pensamientos arañan y torturan a las mariposas. ¿Lo que deseamos es lo que debemos ser? ¿Lo que debemos ser es lo que somos? La vida es un lecho de rosas sangre. Total: la poesía que viví no me hizo escalar el Kilimanjaro ni me arrojó a los lugares secretos del mundo. Me perdí a mí y quiero perder la religión que ve los atardeceres con los ojos cerrados. Realmente Dios trabaja de manera misteriosa y hace maravillas: te oculta todo o te revela todo frente a tus ojos: aquí, los humanos se transforman en animales, allá, ves que entre el hombre y el tigre vive el dragón, allí, en medio de la noche, entre brumas y misterios, nos acariciamos como lo hacen los caballos y las yeguas: topándonos con las cabezas y mordiéndonos el cuello, acullá, nos deshacemos de las mosquitas muertas que hablan de cuerpos desnudos con palabras vestidas porque queremos pezones púrpuras y sexo ardiente y sucio, aquí , me rebelo cuando el matrimonio domestíca lo salvaje, y allá , por fin, nos damos cuenta que el corazón es sencillo y que repararlo es lo complicado . Mario Luzi L'opera poetica Introduzione di Stefano Verdino al libro "L'opera poetica" Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Luzi, il cui itinerario poetico (oltre sessantacinque anni) non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure dell'immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo. Diversamente da altri importanti poeti della sua generazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi è stato pressoché‚ subito riconosciuto: la sua era un'«immagine esemplare» (secondo una famosa definizione di Bo) già nel 1940 -"Avvento notturno" segnava allora il culmine dell'ermetismo-, quando il poeta non ancora ventiseienne viveva in quella capitale della letteratura italiana che era la Firenze degli anni Trenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi, Vittorini, Gatto, Landolfi, Bilenchi, Pratolini e altri. Il precoce riconoscimento comportò anche un'etichetta -Luzi poeta ermetico, anzi il poeta ermetico per antonomasia- che, mai respinta dal poeta fedele alla propria giovinezza, si è sempre più mostrata limitante e inadeguata via via che Luzi andava pubblicando nuovi volumi, anche se sopravvive pigramente nella vulgata scolastica, dove a poesie come "Avorio" tocca in sorte la documentazione, anch'essa esemplare, di un'esperienza estrema e acrobatica dell'analogismo simbolista italiano. L'accantonamento sbrigativo dell'ermetismo nel dopoguerra accreditò altrettanto presto l'immagine di un Luzi epigono di una stagione scaduta, senza tener conto di quanto il poeta andava nel frattempo elaborando; ciò ha comportato una sottovalutazione analoga e opposta a quella di Caproni, questi confinato in un'inaccettabile minorità, l'altro chiuso in una notorietà che si credeva non più produttiva. Così negli anni Cinquanta i neorealisti e negli anni Sessanta i novissimi valutavano la poesia di Luzi come il 20 fondo di una pagina da voltare, secondo la perfida espressione di Sanguineti, mentre al contrario l'elaborazione della poetica dell'autore fiorentino andava preparando una svolta radicale, tale da restituirlo -in barba ai suoi troppo impazienti obliteratori- come uno dei principali interlocutori dei più giovani poeti dagli anni Settanta ad oggi. A ripensare questa lunghissima parabola, che vede Luzi dialogare all'inizio con Montale e Betocchi e in tempi recenti con Viviani e De Angelis, si rimane sorpresi da una vivacità creativa sempre risorgente, fedele a un suo codice, ma continuamente mobile nelle sue realizzazioni e tale da costituire davvero un gran viaggio di immaginazione e conoscenza, promesso d'altronde fin dall'avvio della sua ricerca espressiva. [...] E' stato Giovanni Giudici, una ventina d'anni fa, a rimarcare la «coerenza» di Luzi che «proprio liberandosi della sua cultura e con essa in continuo antagonismo, è riuscito a conquistare una rara pienezza». E' un'affermazione che rende sinteticamente l'esito del vasto procedere dell'opera luziana: la fedeltà ad alcuni elementi primi (evidenti già in "La barca") si intreccia a un continuo e vasto rinnovamento, che vede quel principio metamorfico, suo tema prediletto, sistematicamente presente nella dinamica dei testi; ne deriva un procedere molto teso per continuità e discontinuità, una dinamica nella quale possiamo inoltre osservare il singolare fenomeno di una poesia che, caratterizzata da una sua prima identità negli anni ermetici di "Avvento notturno", con una nozione molto precisa di "cultura", successivamente tende ad allontanarsene, come osserva Giudici, per ritrovare il "discorso naturale". La vastità dell'opera luziana fa sì che egli sia un poeta plurimo come pochi e che sia emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni Cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale (soprattutto con Sereni, suo prediletto interlocutore in poesia) di derivazione ben più montaliana di quanto l'appariscente orfismo di alcune sue punte ermetiche faccia supporre. Egli risalta in tale ambito per la tensione etica alla non disperazione (pur se intimamente attraversata), al superamento del «male di vivere» per «il giusto della vita», in virtù di una consonanza cristiana (ma anche leopardiana) dell'essere «ciascuno e tutti insieme» a vivere. Proprio qui si apre la svolta: il punto di vista non è più tra l'io e la realtà, non c'è più giudizio (o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo Novecento, affine, per quanto diversissimo, all'altro prediletto compagno di poesia, Giorgio Caproni. E' la stagione poetica che, dopo la svolta di "Nel magma", inizia a pieno regime con "Su fondamenti invisibili" e fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della «pienezza» (per tornare all'espressione di Giudici), rispetto alla spettralità di Caproni. E va riconosciuto il coraggio di una poesia che, per quanto allarmata dal nefando della storia, dice un raro (o forse unico) "sì" a una vita naturale, che per altri sembra una chiave perduta, nonostante sussistano pur sempre i segnali di essa. Se negli anni giovanili la poesia di Luzi, sigla di una convulsa interiorità, si costituiva momentaneo e precario blocco formale, successivamente i testi si configurano come progressivi e aperti, perché‚ orientati verso la nascita intesa come «non un luogo, non un tempo determinato, ma il sorgivo stesso, l'aperto» (Cacciari), mentre «la parola, sulla pagina, si muove pià rapida, forse più inquieta» chiamata a seguire «i percorsi, gli scatti, il respiro del pensiero» (Raboni). Luzi, per quanto nei modi così diversificati che abbiamo descritto, è sempre stato un poeta dell'estremismo; può sembrare paradossale dire questo di un poeta da sempre bersagliato dagli avanguardismi, ma esistono diversi tipi di estremismo, anche laddove può aver vigore la tradizione e la misura (e d'altronde Manzoni non era, a suo modo, un estremista, in letteratura?). L'estremismo nasce dal fatto che per Luzi la parola della poesia, come ogni parola umana e ogni segno, non può che misurarsi con un'altra parola, cioè la Rivelazione: laddove Caproni sconta la propria «ateologia», Luzi non dubita della «travolgente nascita»; il dubbio è invece sulle possibilità umane di ricezione del messaggio, da cui l'ardua difficoltà di tale captazione. A questa meta mira il perenne statuto di viaggio (diversamente centrale anche in Caproni) della sua poesia da "La barca" a "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" e oltre, nelle poesie in elaborazione. Questo viaggio implica una tensione particolare del testo che si può agevolmente definire come vocazione al sublime, motore del dinamismo e del taglio linguistico di tipo "alto": inizialmente la difficoltà di Luzi era trovare la via al sublime dentro il "bello", che tanto ha sostanziato il suo primo tempo, mentre poi è risultato più agevole trovare l'"alto" incastonato nel "basso" delle sue scelte prosastico-poematiche. Anche la vocazione al sublime è un tratto raro, proprio per la sua diversificata costanza, rispetto alla scissione di tempo tragico e comico in Montale, ma è scelta condivisa nel tardo Novecento, a suo modo, sempre dal fraterno Caproni. Ma il sublime di Caproni si alimenta, come ha notato Surdich, di una dislocazione metaforica di un codice quanto mai standardizzato (la «segnaletica stradale» cara al poeta livornese), mentre il sublime di Luzi vive di 21 una multipla tradizione letteraria, riportata dal suo epilogo a una nuova sorgente. E questa esperienza rinnovata di sublime non è certo stata senza significato per i poeti più giovani come Viviani e De Angelis. Ma a chi somiglia Luzi? Alla fine di questo periplo risalta il fatto che un poeta nato da una genealogia tanto "novecentesca" alla svolta di secolo appaia così lontano da quella. Ma chi somiglia a Luzi? Chi è vicino al suo intreccio di naturalità e poesia-pensiero? Francamente, non sovvengono molti nomi. Uno, però, si impone sempre di più, quello di un musicista, di Olivier Messiaen, che nelle sue libere modalità partecipa della comune convinzione di essere testimoni transitori di un qualcosa che continuamente avviene. E al lettore che gusterà le "Frasi nella luce nascente" non resta che consigliare di accompagnarle con l'ascolto degli "Éclairs sur l'Au-Delà"... Bibliografia A cura di Stefano Verdino La bibliografia delle opere di Luzi rubrica tutti i titoli editi in volume, in opuscolo e in edizione d'arte, le singole poesie stampate in cartelle d'artisti (ad esclusione dei testi d'occasione) e presenta una scelta delle numerosissime interviste.Non si sono considerati gli scritti critici dispersi, di cui si veda un primo provvisorio regesto in M. Zulberti, "Un'arte umana: i saggi critici di Mario Luzi", "ACME", Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, vol.II, fasc.II, maggio-agosto 1996, pp.225-46.È stata invece rubricata la monografia pascoliana (di 80 pp.) nella "Storia della letteratura italiana garzantiana", a cura di E. Cecchi e N. Sapegno.Per i testi tradotti in altre lingue sono segnalati i volumi e non singole poesie o sezioni tradotte su riviste o antologie (vi sono due sole deroghe per segnalare la quanto mai tempestiva versione inglese di "Quaderno gotico", prima versione di poesie di Luzi, e la consistente antologia in croato).Sono anche inserite le scelte di poesie contenute in antologie storiche del Novecento poetico in quanto fondamentali voci critiche per un riscontro della ricezione della poesia di Luzi. La bibliografia della critica è scelta su materiale ancora più vasto ed è ripartita in sezioni per consentire al lettore di orientarsi rispetto al tipo di contributo critico all'opera luziana (all'interno delle sezioni si è seguito l'ordine cronologico).È segnalata tra parentesi la curatela quando questa non è dichiarata in frontespizio.Si danno gli estremi di pagine nel caso di periodici specialistici; si danno invece i numeri di pagine totali per le monografie e i volumi complessivi o gli atti di convegno.Non si dà invece numerazione di pagina: per le recensioni (tranne nei casi di testi particolarmente estesi), per gli interventi limitati a una sola pagina, per i giornali o rotocalchi settimanali, ed infine per i libri o articoli di carattere generale sulla poesia del Novecento, sull'ermetismo, sulle riviste, ecc. in cui Luzi sia citato, anche più volte, ma non in modo sistematico. Nel caso di periodici stranieri si è segnata tra parentesi la relativa città. A Bellariva Colloqui con Mario a cura di Stefano Verdino A Bellariva è stato pubblicato nell'«Annuario della Fondazione Schlesinger» del 1995, in edizione limitata e fuori commercio.Per la presente edizione sono state effettuate alcune modifiche di natura formale. Nel Magma "Nel Magma" è un libro di svolta radicale, certamente preparato dal precedente "Dal fondo" nel viaggio dentro l'«opera del mondo», ma in sostanza nuovissimo per le forze espressive che contiene. Mi sembra che il fattore rivoluzionario stia nel mutamento di prospettiva: qui non c'è più un io lirico a reggere il discorso, l'io diventa personaggio e si mette in scena, senza privilegi rispetto ai suoi vari antagonisti. Il verso è condotto dalla poesia stessa, che ambisce ad essere sermo merus, concrezione e voce neutra captata dal magma, nel suo immediato accadere. Per certi versi è davvero un libro-zero, dove tutto appare problematico, a partire dai margini frastagliati di accenti quotidiano-realistici e onirici, fino all'andamento diatribico ed irrisolto delle varie contese tra personaggi. L'irruzione del mondo, nel suo quotidiano, da un lato consente un vario rendiconto della prostrazione ed umiliazione dell'umano, nelle sue diverse crisi (in particolare la crisi della politica in "Presso il Bisenzio"; la crisi dell'autenticità in "Tra notte e giorno"; la crisi dell'intimità e della coppia in tanti altri testi); dall'altro ci porta il soccorso di varie epifanie della beatrice (penso a "Ménage"), intese come aperture al trascendente, oltre e nonostante l'esperienza del torpore e dell'inerzia, che tanto sostanzia il libro. Per chiudere in una sigla dantesca, si potrebbe forse dire che ciò che sembra un irrimediabile limbo, è in realtà una esperienza del purgatorio. Un elemento che salta agli occhi è un più scoperto dantismo della raccolta: la struttura narrativo-dialogica, il colore cinereo purgatoriale, la «gora» iniziale, i vari richiami a 22 Brunetto e Forese. Perché questo più aperto dantismo: è il bisogno di un richiamo a una poesia frontale, calata nel «magma» della realtà? E' proprio questo, la desistenza dell'io come autorità pone tutto in fase di ricerca. Il modello del lirismo tradizionale non aveva più senso, mentre il convivere e contrastarsi di personaggi, di menti e di sensibilità che c'è in Dante mi era molto congeniale. Se quel mio scritto sull'inferno e il limbo ha avuto un seguito l'ha avuto qui. Non è un mondo di dannati, ma di gente sospesa e disorientata; il valore etico è purgatoriale, ma la realtà ha colori decisamente infernali. Come mai l'umile Bisenzio, invece del più consueto Arno? E' un fiume-non fiume, la sua immagine degradata in «gora»? Si possono mettere meglio a fuoco i due tuoi interlocutori antagonisti" Chi sono questi uomini della resistenza" E' il fiume della zona industriale e d'aspetto un po' deprimente, dove i contrasti dell'impegno politico di Sinistra sono più netti. In particolare allora c'erano giovani, in certo senso provocatori, che chiedevano di schierarsi e partecipare politicamente. Un motivo nuovo del "Magma" è l'affiorare della consapevolezza del vuoto storico, della «mancanza umiliante della lotta», vale a dire del depotenziamento dell'agire umano, inadeguato alla forza di cose ed eventi. Per tutto il libro si scandisce una lentezza ed un torpore, a volte una minacciosa degradazione, cui contrastano varie immagini numinose e di grazia. Ma il rendiconto del torpore è ciò che mi affascina sempre di più a rileggere questo testo, per l'acume profetico delle stagioni tanto disgregate dell'umano che tutti sperimentiamo sempre più. E' una poesia, quella del "Magma", che è sempre più vicina, man mano che il tempo scorre ci offre sempre più intelligenza della nostra condizione. Forse è il tuo testo, che più sente, trattiene e prefigura un clima sociale. Quale era il tuo animo mentre scrivevi? Come si compiva dentro di te questa rivoluzione del tuo dire? Io sentivo il bisogno di dare una rappresentazione al tempo; in fondo noi abbiamo registrato varie situazioni individuali, ma non vedevo un quadro generale. Sentivo questo bisogno, ma come ci sono entrato? Le prime due poesie scritte sono il "Bisenzio" e "Nel caffè". Ci sono entrato quasi oniricamente, a un certo punto sentii una dimensione del linguaggio che si apriva ed allora ho seguito, molto sorpreso io stesso, finché‚ non sentii la musica nuova che c'è in questo libro, che non è solo prosastico come è stato scritto. Tra le cliniche: "che cosa si presuppone"? La malattia mi pare presente, non biograficamente; più volte visitando persone a Careggi, vidi la città dei malati che ha un suo mondo e la sua legge. Anche lì con aspirazione a qualcosa che non si realizza. "Nel caffè" rievochi tuo cognato Carlo Monaci, fratello di tua moglie, mi confidasti una volta, operato di cancro («forato nella gola»): ma come per tua madre, la poesia supera i suoi contorni elegiaci, per essere conoscenza; in particolare tuo cognato appare riconciliato con le cose, ma forse lo è fin troppo, anche con il loro avvilimento? Gli ho dato una dolcezza che aveva acquistato. Ed era una cosa molto bella, sdrammatizzava contrasti ed anche la sua situazione di morente. L'amore, in una sua varia contesa, tra complessi di colpa, difficoltà, visioni beatifiche ha una sua varia importanza nel libro. Da un lato ci sono le figure femminili: mi sembra di poterne individuare tre: a) la donna platonica di "D'intesa" e "Prima di sera"; b) la donna di grazia di "Ménage", "Terrazza", "L'India" (che si svolge in un cinema); c) la donna disamata di "In due", la cui vicenda è specularmente leggibile in "L'uno e l'altro". Sono aspetti verosimili, che concretano nel "Magma" il discorso sul femminile, da sempre presente, ed anticipano le figurazioni molteplici, dal positivo al negativo (o meglio all'umiliazione) della donna nelle raccolte più recenti. Ma chi sono queste donne? E' un po' anche il purgatorio della donna ed anche questo rapporto soffre di questa incoerenza dell'umano; c'è sempre comunque il desiderio di una sua presenza salvifica. La prima donna è un po' la Franca [Bacchiega], ma potrebbe essere anche la Cristina Campo. La Franca non l'ha conosciuta, ma sostiene di averla sognata ed avere avuto dei messaggi. Anche "Ménage" fa riferimento alla Franca. Nel "Magma" ci sono vari interlocutori maschili, spesso antagonisti di varia forza; oltre i citati del "Bisenzio", vi è il teso scontro di "Bureau", quello ideologico di "Nella hall", l'accusa di tipo privato del "Giudice", il viso servo e ghiotto del compagno addormentato in "Tra notte e giorno", infine il pretonzolo di "Tra quattro mura". Qui si incentra la contesa umana, che sfocerà nei drammi, penso. Come mai tanta durezza, se pur sofferta? Dove c'è scontro, è con il tipo umano che è agguerrito nella sua misura di "praticone", ed è un'accusa contro di me che sembro non impegnato nelle cose. Questi sono tutto quello che non 23 sono e mi è stato rimproverato di non essere. Il pretonzolo è uno che ha una visione onesta ma angusta. Tu metti in scena il personaggio di te stesso e ti rappresenti senza privilegi, equiparato agli altri, nemmeno molto cordiale e simpatico, ti esibisci prigioniero del tuo io e i vari scontriincontri sono come delle ferite-aperture per il superamento della prospettiva dell'io lirico. E' un punto capitale del libro e della poesia del '900, mi pare, anticipato, tematicamente, più che stilisticamente, dal "Fondo". Anche qui nel distacco poeta-personaggio si vede una funzione dantesca, nella ricerca di una pluralità di voci, capace di captare meglio il magma? Perfetto. Nasce una scissione interna allo scrittore e nasce una presenza umana del tutto metamorfica che non è più al servizio di un io lirico e despota del testo. E' evidente che c'è un tuo vissuto, con tante specificazioni di tempi e luoghi; mi sembra che da un lato il movente biografico sia necessario come maggiore incontro con il magma, fuori del tuo privilegio intellettuale; dall'altro che esso diventi paradigma e mai confessione. Io posso anche abusare di questi ricorsi biografici, perché non sono più interni allo scrittore, ma fanno parte della commedia umana. "L'uno e l'altro" finisce quasi visionariamente: «mi striscia davanti un'ombra o una coda di opossum»; puoi dirmi qualcosa di più? E' un richiamo al mondo oscuro della natura, al mistero biologico presente nel mondo. La natura ha una energia che passa nella nostra vita; è un motivo quasi unificante, però oscuro. In "Ménage" il grido «vitreo» dei bambini? Nell'inverno sembra che le voci si raggelino e diventino una specie di strazio, verso sera. In questo vitreo c'è la stagione e l'ora, il declino del giorno. "In Terrazza" «l'animale leggiadro e ambiguo» è la donna? Sì. "Dopo la festa" ha una specifica motivazione? E' un po' quel "demimonde" che ha anche qualcosa di patetico e di ambiguo. Da quanto si è discorso mi pare che il libro abbia anche questa novità importante: non è una raccolta di versi, ma un libro di poesia. Le varie poesie hanno reciproci collegamenti e si organizzano in figure del poema, costituendo la doppia matrice della gemmazione da un lato della successiva poematicità, dall'altro della necessità drammaturgica. Ci sono così immagini ricorrenti: gli occhi che non vedono ad esempio o vedono il vuoto... Anche questo è detto benissimo. Come tipo di struttura "Nel Magma" è unico; in fondo ci sono continuità strutturali tra le altre tue opere; invece "Nel Magma" è unico e solo. Perché? E' vero che ha questa irripetibilità, essendo per altro matrice del resto. Io mi sono poi spostato su considerazioni più costanti di tipo più speculativo; è difficile spiegare l'irripetibilità; qui ho esaurito la ricognizione sul presente, che poi non ho dismesso ma ho spostato su altra scala, come capita nei "Fondamenti". Mi ha sempre stupito il grande rinnovamento di lingua e ritmo del "Magma"; anche perché penso sia stato difficile cassare una stilistica tanto collaudata e apprezzata quale era il tuo precedente modo, così mirante all'alto e alla grazia. Come hai proceduto? In che modo hai avvertito la nascita del sermo merus e del suo ritmo, che frantuma (non spegnendola) la tua sapienza d'uso dell'endecasillabo? Ti ho già in parte risposto prima. Ero preso molto da questa cosa e scrissi rapidamente come per "La barca", fui trascinato da questa nuova scrittura, non fu tormentata. Avevo rotto lo schema predeterminato e questo mi facilitava: trovavo la forma facendola; non c'era più una forma platonica, ma una forma teleologica. Anzi trovato questo filone, rischiava di diventare una modalità. Feci le "Postille" ma capii che poteva diventare una modalità e scadere. Nel Magma: Tra notte e giorno «Che luogo è questo?» mormora tra il sonno il mio compago scuotendosi al sussulto del treno fermato in aperta linea. «E' un luogo verso Pisa» rispondo mentre guardo nella profondità grigia il viola cinerino dei monti affondare nel colore dell'ireos. Una tappa del lungo andirivieni 24 tra casa e fuori, tra la tana e il campo, rifletto io pensando a lui che spesso parla della nostra vita come del lavorio d'un animale strano tra formica e talpa. E ancora dev'essere un pensiero non dissimile da questo che muove ad un sorriso colpevole le labbra di lui riverso con la testa contro lo schienale in quest'alba. O morire o piegarsi sotto il giogo della bassezza della specie, leggo in quel viso servo e ghiotto, fiducioso della buona sorte dell'anima e, perché no, della rivoluzione inesorabile ch'è [alle porte. «Anche tu sei nel gioco, anche tu porti pietre rubate alle rovine verso i muri dell'edificio» penso; e penso ad un amore più grande del mio che vince questa ripugnanza e insieme a una saggezza più perfetta che prende il buono e per il buono chiude un occhio sul corrotto e il guasto. Fugge, fuoco di rondine saettato dalla pioggia, si spenge alto il grido del ferroviere che dà il via al convoglio impigrito tra l'erba folta. «Devi crescere: crescere in amore e in saggezza» m'intima quel viso disfatto che trasuda in questa luce di giorno incerto. Nel Magma: D'intesa Il seguito d'esistenze umane non votato a morte ma al [ritorno. Le conosco bene questi pensieri anche se ora tace e guarda sotto il ponte il Tamigi grigio solcato da poche chiatte. Non è molto che abbiamo alla luce bassa scorto scolpiti nella stessa positura che ebbero stesi al suolo sotto i colpi i cavalieri del [Temple. Ed è mente la sua da non restringere a un caso senza legge occulta l'aspetto di quella cruda fine d'iniziati né la nostra visita al luogo tra le tombe a fior di terra in [quel punto. «Ti basti che io sia qui» immagino di dirle per vincere il silenzio spesso che solo un poco ci appartiene, non per sfida o [vanto. Ma non ha senso alcuno richiamarla a una certezza così imperfetta ed angusta mentre indaga e scruta segni almanaccando ammirevole del resto per come le parla da ogni pietra o volto la religione del mondo. Le anime di pochi, affinate, elette a conoscere il principio. Indovino ora il suo tormento 25 mentre tace e mi guarda fine e intensa non senza una luce arguta di sospetto che io ne rida e la giudichi una testa piena di vento. «Ah perché non mi credi fino in fondo» continua senza parole ritmata dallo sciacquio del fiume quella disputa antica quanto la mente e non tra me e lei, in ciascuno di noi, tra l'una e l'altra sua parte. FONTE: http://www.italica.rai.it Ilha Negra Rivista di letteratura in portoguese Diretta da Amelia Pais (Portogallo)- Gabriel Impaglione (Italia). Isla Negra La revista de poesia en español Per riceverla : [email protected] Uno spazio Libero!!! Il blog di Isla Negra http://isla_negra.zoomblog.com Isola Niedda Dae sa Sardinia po su Mondu- Escrie a [email protected] Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte. 41 hasta la pròxima… al prossimo numero Ringraziamo calorosamente tutti i lettori che hanno inviato commenti, auguri, critiche in merito alla Nomination al Nobel per la Letteratura 2006 e l’adesione alla Legge Bacchelli pro Giovanna Mulas. 26