Anno 14
Numero 28
Foglio della comunità italiana di Capodistria
Giugno 2009
La città
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La città
Auguri Radio Capodistria
di Aljoša Curavić
Caporedattore programmi italiani dell’emittente
Radio Capodistria nasce il 25 maggio 1949 come una stazione radio con programmi in lingua italiana, slovena
e croata. Se è vero che le origini segnano il futuro, nel Dna di questa emittente, che in questi giorni celebra
sessant’ anni, c’è la fotografia di questa regione e la volontà del dialogo fra lingue e culture differenti e altre.
Sessant’ anni non sono pochi. Ce ne rendiamo conto noi e se ne rende conto anche chi, forse, alimenta ancora
alcuni pregiudizi ereditati da una storia inclemente nei confronti delle popolazioni di queste terre.
Comunque sia, in sessant’anni di
storia e di sconvolgimenti epocali,
la radio si è sviluppata e assestata
in due programmi indipendenti e
autonomi: il programma in lingua
italiana e il programma in lingua
slovena, e nessun pregiudizio può
dare un colpo di spugna ad una realtà
che si pone come un esempio di tutela
di una minoranza, di convivenza e di
dialogo.
La radio in se’, come mezzo di
comunicazione, è sostanzialmente una
voce, una voce che riflette la realtà e
che parla a tutti coloro che quella realtà
condividono, superando i confini e le
barriere. Radio Capodistria, che dà
voce al programma in lingua italiana,
è una struttura programmaticamente
autonoma con status di emittente,
così come lo è Radio Koper, che dà
voce al programma in lingua slovena.
Entrambe convivono all’interno
del Centro regionale della RTV
di Slovenia. Entrambe hanno la
soggettività per creare programmi e
dare vita ad avvenimenti autonomi.
Entrambe sono nate dalla volontà,
sia pure strumentalmente politica,
di dar voce ad un brulichio di lingue
che ne’ la guerra, ne’ i regimi, ne’ i
nazionalismi hanno potuto zittire.
Penso e spero che la soggettività
consapevole di questi due programmi
non dia più fastidio a nessuno.
Noi non abbiamo dimenticato le
nostre origini. Non perdiamo mai
di vista la minoranza italiana in
tutto il suo insediamento storico,
anche se dobbiamo fare i conti con
la concorrenza radiofonica spietata
Da sinistra: il caporedattore
responsabile del programma
italiano di Radio Capodistria,
Aljoša Curavić, il direttore del
Centro regionale RTV KoperCapodistria, Dragomir Mikelič,
la caporedattrice responsabile
del programma sloveno di
Radio Koper, Maja Kirar ed il
vicedirettore generale per la
radio e la televisione per la CNI,
Antonio Rocco. (Maksimiljana
Ipavec – Primorske novice)
e un segnale radio che vorremmo
più forte in Istria, Quarnero e
Dalmazia, da aggiungere al segnale
satellitare e a quello della rete, che
ci sono e funzionano. Non abbiamo
dimenticato i nostri ascoltatori, che
poi sono quelli che contano più di
tutto. E ci premiano. Lo dicono i
numeri degli ascolti e lo dicono tutti
coloro che dal Friuli Venezia Giulia,
dal territorio del Litorale e dell’ Istria,
sono venuti a trovarci in occasione
dell’ormai tradizionale giornata delle
porte aperte. Mai così tanti come
quest’ anno.
Non ci siamo dimenticati degli altri,
perchè sono convinto che una voce
chiusa su se stessa, che parla per se
stessa, ghettizzata in schemi dettati
dalla paura del confronto con gli
altri, è destinata a spegnersi. Per
questo siamo entrati nel mondo dei
giovani e abbiamo aperto le nostre
porte al loro mondo, dando vita
a trasmissioni nate fra i banchi di
scuola, nelle strade, nelle piazze
delle nostre città. Abbiamo dato
voce agli extracomunitari per i quali
l’Europa da chimera si è trasformata
in dura realtà; abbiamo fatto parlare,
qualche volta fregandocene delle
regole grammaticali e dei sofismi
linguistici (e chiedo scusa se
qualcuno si è offeso per questo),
una realtà brulicante di contrasti e
vitalità, tentata dall’odio ma votata
alla convivenza e alla comprensione
reciproca. Abbiamo fatto cantare e
suonare chi spesso non ha trovato
un palco dove cantare o suonare,
ma anche chi ha saputo sfondare sui
più grandi palchi d’Europa. Infine,
visto che le origini spesso ritornano,
non ci siamo spaventati di dar voce
contemporaneamente su tre frequenze
(quelle di Radio Pula-Pola e Radio
Koper-Capodistria), sia pure per soli
quindici minuti, a tutte e tre le lingue
che compongono questo splendido
caleidoscopio istriano: l’ italiano, lo
sloveno e il croato.
* Testo letto al convegno del 29
maggio all’Università del Litorale
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La città
A margine del 60.mo anniversario di Radio Capodistria
Giorgio Visintin ha partecipato alla fase pionieristica di Radio Capodistria, e dal novembre del 1952, fino ad
oggi, quindi da buoni 56 anni, lavora per la RTV, con traduzioni e prestando voce alle sincronizzazioni. Gli
abbiamo posto alcune domande sugli inizi della radio.
In quale contesto nasce dunque Radio Capodistria?
Per farla nascere in quel lontano periodo, di intensa
conflittualità, c’erano almeno tre ragioni. Il confine tra
Italia e Jugoslavia si chiamava dal giugno 1945 Linea
Morgan; lasciava la penisola istriana (eccetto Pola)
sotto amministrazione jugoslava e Trieste occupata dagli
angloamericani, mentre Gorizia ritornava all’Italia nel
settembre ’47. La linea Morgan tracciava pressapoco il
confine poi stabilito dal trattato di pace, confine che era
anche quello dell’oggi dimenticato TLT, il Territorio libero
di Trieste, diviso con status provvisorio in due zone A e
B, finchè il Consiglio di sicurezza dell’ONU non avesse
nominato un governatore neutrale. L’accordo sulla sua
persona, tra veti russi e veti alleati non fu mai raggiunto e
la situazione rimase fluida e contesa fino al Memorandum
di Londra dell’ottobre ‘54, con il quale passava
all’amministrazione italiana la zona A, e alla jugoslava la
zona B, che arrivava fino al Quieto e a Cittanova. Ricordo
bene come ancora nel 1954, c’erano qui ancora molte,
anche serissime persone, convinte che Trieste andrà alla
Jugoslavia e ne costituirà, insieme all’odierno Litorale, la
settima repubblica federativa. In una domenica estiva, il
15 agosto del ’54, durante un discorso di Tito dal balcone
del palazzo Pretorio a Capodistria, dalla folla fu lanciato,
non so se per la prima volta, ma certo per l’ultima, lo
slogan in rima “Cona A, Cona Be, naši bosta obe!”(Le
zone A e B saranno ambedue nostre).A Trieste invece era
sentito il fronte per l’indipendenza del TLT, peraltro
rudemente osteggiato, con distruzioni di sedi, pestaggi
e accoltellamenti dei suoi attivisti, tra i quali anche mio
zio. L’MSI, (il Movimento sociale italiano) organizzava
le squadracce, che arrivavano in treno fin dal sud Italia.
Manifestazioni e contromanifestazioni si susseguivano,
continue e cruente, a malapena sedate dalla Military
Police e dai cosiddetti “Cerini”, la Polizia Civile - istituita
Il giornalista Silvano Sau e la speaker Maria Pfeifer
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Giorgio Visintin alla mostra per i 50 anni della RTV
slovena, in posa davanti a un'immagine che lo ritrae agli
albori di Tv Capodistria
dagli alleati. Risultavano nuove e sconvolgenti specie
le loro cariche a cavallo. Nel ’52, venire dalla bolgia di
Trieste a lavorare a Capodistria alla Radio, sembrava
come entrare in un’oasi di pace -oasi per me- che però
veniva abbandonata da troppo numerosi italiani, che per
l’incalzare di stressanti cambiamenti, si sentivano peggio
che pesci fuor d’acqua. Questo per capire i tempi che
correvano.
Radio Capodistria, nasce dunque in questo clima, nel
maggio del 1949.
Si, nasce con il nome di Radio Trieste zona jugoslava. Già
con il primo debole trasmettitore, s’inserisce subito con
successo, nelle feroci polemiche del tempo, con commenti
centrati e seguiti. Dicevo di più ragioni. La seconda ragione
della sua nascita, e sembra si preferisca dimenticarla oggi
- ma è storia - a seguito della scomunica della Jugoslavia
da parte del Cominform, riunito a Bucarest nel giugno
‘48, Tito era visto come un eretico filo-occidentale da
tutti i partiti comunisti e stalinisti di allora. Il Cominform
sobillava apertamente al rovesciamento del governo e
proprio i fedeli di “baffone” sono stati i primi a popolare
la famigerata Isola Calva.
Il movimento dei non allineati non era ancora nato, e alla
Jugoslavia isolata, urgeva rendere pubbliche le proprie
ragioni. Vennero spostati a Capodistria, mezzi e personale
dal programma per l’estero di Radio Belgrado, che aveva
poco ascolto. Venne a Capodistria anche un suo redattore,
Ettore Battelli, polesano, che divenne molto popolare per
le sue lucide rassegne domenicali di politica estera.
E la terza ragione della nascita di Radio Capodistria,
anche se non andrebbe citata per ultima, viene dalla
politica di rispetto dei diritti delle minoranze nazionali,
La città
sanciti dalla costituzione. Il concretamento cioè del loro
diritto all’informazione nella propria lingua. Negli anni
cinquanta poi, il bilinguismo non era formale, come lo è
abbastanza oggi, ma effettivo, onnipresente, e non solo a
Capodistria, dove si sentiva parlare italiano per strada, in
negozi, uffici e caffè, fino a che nel ‘54, non si aggravò,
anche nella ex zona B, il pernicioso stillicidio dell’esodo
della popolazione italiana.
Cosa trasmetteva allora la radio?
Accanto al fil rouge politico dei suoi notiziari e commenti,
Radio Capodistria ha immediatamente sviluppato anche
una notevole produzione culturale: trasmissioni per i
ragazzi delle scuole, si seguivano, ritrasmettevano e pure
organizzavano le più varie manifestazioni: rassegne,
cori, concerti. Capitava così che il mio professore di
violino, Carlo Sanzin, talvolta mi diceva: “Niente lezione
domani, devo preparare il concerto settimanale a Radio
Capodistria”.
Mezzi tecnici di registrazione, semplicemente non
esistevano ancora, tutto andava in onda esclusivamente
L'ex direttore Mario Abram e la conduttrice Bruna Alessio
dal vivo, anche il Teatro radiofonico, con commedioni in
tre atti, con fino a quindici interpreti. Appena nel 1953-54
apparvero i primi registratori americani a filo, i Webster,
di resa piuttosto carente; per cui i radiodrammi, allora
di moda, e che piacevano molto al primo regista Anton
Marti, si cominciarono a produrre appena nel 1957-58
quando comparvero i primi magnetofoni a nastro.
Ci racconti qualche aneddoto?
Non vado nei dettagli di quello notissimo, finito anche
sul foglio “La Nostra Lotta”, che è capitato quand’ero
ancora speaker e in turno per il primo Notiziario delle
6.30. Non arrivavo, e il tecnico venne a svegliarmi. Mi
son messo a correre, in pigiama, e il tecnico in camice
bianco mi correva dietro; sono arrivato però in tempo
utile. “La Nostra Lotta” ovviamente ci ha ricamato sopra,
descrivendo una “mattiniera fuga dal manicomio”.
Può essere maggiormente specchio di quei tempi un
altro aneddoto. Poco prima del Memorandum d’intesa di
Londra dell’ottobre 1954, che sanciva la spartizione del
Stefano Lusa, caporedattore del programma informativo di
Radio Capodistria, Donatella Pohar, responsabile del settore
musicale e di intrattenimento e la giornalista Lara Drčič.
TLT - con zona B de facto alla Jugoslavia, Trieste tornava
all’Italia e se ne andavano gli alleati - nella continua
tensione c’era stata un’escalation. L’allora presidente del
consiglio italiano Scelba, già prima noto come “ministromitra” per il largo uso che faceva della polizia, aveva
mandato l’esercito al confine. Ovviamente la Jugoslavia
aveva fatto subito altrettanto. Segue un lungo tira-molla
di trattative diplomatiche internazionali. E i più giovani
fummo comandati allo stadio di Capodistria, dove con
Tomizza, ci hanno inquadrato nei battaglioni di “volontari
per la difesa dei confini”. Fortunatamente tutto si limitò
alle riprese del cinegiornale “Filmske novosti”di Belgrado.
Anche perchè, qualche settimana dopo, Tito, in uno dei
suoi interminabili discorsi pronunciava, non ricordo se
a Belgrado o a Spalato, la provvidenziale frase “Non
faremo certo la guerra per Trieste”. Provvidenziale, per
la distensione ed anche per me. Un giudice mi prosciolse
infatti dall’accusa di aver propalato notizie sovversive.
Cos’era successo? Parlavo con il direttore del Teatro, e lui
m’aveva chiesto: “Cosa pensa: Trieste sarà jugoslava?”
Conoscendo troppo bene la situazione, non potevo certo
dirgli di sì. E il giorno dopo, mi convocava agli Affari
interni in Piazzale Derin, un ufficiale dell’Udba, guarda
caso, marito della segretaria del direttore, che era presente
ed evidentemente attenta ai nostri discorsi.
Ma Radio Capodistria si adoperava fin da allora per
abbatterli i confini, lanciando sempre più ampi messaggi
di apertura, di collaborazione, di reciproca conoscenza, e
distensione, nonostante la guerra fredda tra Est ed Ovest,
in un impegno continuo e appassionato, che vede oggi,
direi, un suo coronamento, anche nella raggiunta Casa
Europea.
Insomma un lavoro tra entusiasmo e, diciamo…
censura…
In qualità di “laudator temporis acti”, amo ricordare il
periodo pionieristico della Radio, anche perchè coincide
con i miei anni verdi. E mi piace sottolineare l’entusiasmo,
che animava tutti negli anni ‘50, 60 e 70. Spesso il
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La città
1954. Bruno Cannella (giornalista), Lojze Vilhar (capo
esecuzione), Tončka Ventin (speaker sloveno), Gašperlin
(redattore musicale) e Mihelič (speaker croato). In piedi Visintin
lavorare con passione, riusciva a sopperire a più di qualche
manchevolezza. A Radio Capodistria, s’era comunque
raccolto un nerbo di persone, di giornalisti e di altri profili
di tutto rispetto. Va ricordato lo scrittore di fantascienza,
Peter Kolosimo, altoatesino, e le sue trasmissioni satiriche
“Le Follie”, in cui si recitava ed anche cantavano strofette
sull’aria di canzoni in voga. Me n’è rimasta nella memoria
solo una, dedicata al primo grande evasore fiscale italiano:
“Povero Brusadelli, ha solo quattro ville e tre castelli, che
tristezza!”
Da Roma era giunto il solido commentatore Carlo Laurenzi;
da Genova, Libero Verardo, i cui commenti significavano
per gli speaker autentiche sfide, le sue frasi duravano fin 13
righe, prima di arrivare al punto. C’era Anton Marti, regista
Le giornaliste del programma sloveno Mateja
Markončič, Neva Zajc, la speaker Janja Lešnik con il
direttore generale di RTV Slovenia, Anton Guzej.
specchio, genialissimo, che veniva dall’avanspettacolo, e
partecipò poi alla fondazione della prima TV jugoslava a
Zagabria. Mia Kalan di Trieste, bravissima nelle trasmissioni
per ragazzi, passò al reportage settimanale, quando, fu
assunto -terminato il liceo-il compianto amico Fulvio
Tomizza; fra l’altro mattatore anche nella compagnia del
Teatro del popolo di Capodistria, che in poco più di tre anni
di vita diede la bellezza di 97 spettacoli. Mi piace ricordare
anche Bruno Cannella, goriziano, che oltre che giornalista
del turno notiziari, era attivo come attore negli “Angoli dei
ragazzi”, magistralmente scritti da Tomizza. La principale
preoccupazione di Cannella era di non dover interpretare
personaggi che finivano per morire. Perchè diceva:“Poi la
mia mamma, che mi ascolta, si spaventa!”.
Il tecnico Danijel Matič in uno degli studi di Radio Koper-Capodistria assieme a giovani ospiti.
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La città
Al trasmettitore di Croce Bianca
La vecchia antenna di Croce Bianca
La seconda guerra mondiale ha
duramente penalizzato parecchi
studenti, specie dopo l’armistizio del
settembre 1943. Alla fine dell’anno
scolastico 1942-’43, io avevo
concluso il ginnasio classico ed avevo
affrontato con successo gli esami
d’ammissione al liceo, ma purtroppo
i miei studi classici si erano conclusi
con quegli esami. Finita la guerra
avevo ripreso gli studi iscrivendomi
all’Istituto tecnico industriale di
Lubiana, reparto elettrotecnico.
Ho fatto questo preambolo per far
comprendere che è stata proprio
la conoscenza della lingua italiana
il fattore determinante per il mio
impiego a radio Capodistria. Infatti
alla fine degli studi, dopo un breve
periodo di pratica a Radio Lubiana,
mi hanno mandato a Capodistria
dove ho lavorato prima in regia, poi
sono stato traferito al trasmettitore
di Croce Bianca per sostituire alcuni
tecnici triestini che avevano dato le
dimissioni per ragioni finanziarie. I
primi mesi di lavoro al trasmettitore
sono trascorsi all’insegna di un lavoro
piacevole, seppure a volte stressante.
All’arrivo dell’inverno le cose
sono cambiate a causa del freddo e
della bora. Nei giorni di bora forte
dovevamo riscaldare all’aperto un
bidone d’acqua per travasarla poi
nel carter del gruppo elettrogeno
che forniva l’energia elettrica al
trasmettitore in caso di interruzioni
alla linea di alta tensione. Oltre al
lavoro di turno al trasmettitore questo
era uno dei lavori più duri. L’altro
lavoro impegnativo consisteva nel
controllo e nella manutenzione
dell’antenna del traliccio alta oltre 70
metri. Lavoro che si svolgeva sempre
sotto il controllo del nostro capo
Pino Hollstein. Durante l’inverno
le oscillazioni provocate dal forte
vento allentavano le viti, ragion per
cui in primavera bisognava avvitarle.
Mi ricordo che una volta, durante la
visita di controllo degli ufficiali della
VUJA (Vojna Uprava Jug. Armije)
uno degli ufficiali stava discutendo
sotto l’antenna con il segretario
del nostro ente Oscar Venturini sul
nostro lavoro e sulle nostre paghe.
»Questi ragazzi – disse l’ufficiale
– meriterebbero, per il lavoro che
svolgono, una paga almeno del
15% in più«. Io, dopo esser sceso
dall’antenna mi avvicinai all’ufficiale
e gli dissi: »Noi non richiediamo un
aumento, credo però sia giusto che
ci paghino gli straordinari, specie
durante l’inverno quando ci alziamo
alle 4 per riscaldare l’acqua che
dobbiamo poi travasare nel carter del
gruppo elettrogeno«.
Lo stesso ufficiale della VUJA,
Ferdi Vidmar intervistato dalla
giornalista televisiva Claudia Raspolič
Palazzo Tarsia, la prima sede di Radio
Capodistria
alcuni mesi più tardi, nuovamente
in ispezione al trasmettitore si era
avvicinato a me e al mio collega
Bruno Cocceani per chiederci tra
l’altro se ci consideravamo cittadini
jugoslavi o italiani. Cocceani gli
rispose: »Io mi considero cittadino
europeo«. Molto sorpreso l’ufficiale
ripetè la domanda a me. Io per
smorzare e mitigare la secca risposta
di Cocceani risposi: »Gli stati europei
sono ormai da centinaia di anni in
continua lotta tra loro. La soluzione
sarebbe una pacifica coesistenza fra
tutti gli stati del vecchio continente,
perciò mi sembra lecito aspirare a una
cittadinanza europea«. Conclusi il
mio dire sperando che non avremmo
dovuto sopportare le conseguenze per
aver pronunciato parole che nel 1950
erano alquanto azzardate. Per fortuna
tutto si concluse senza conseguenze.
Di queste parole mi ricordai spesso e
in particolare dopo il 1951, quando
nell’Europa
occidentale
iniziò
prima un processo di integrazione
economica e in seguito politica, cose
che hanno contribuito a far diventare
l’Europa una potenza economica di
primo piano.
Ferdi Vidmar
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La città
Nasce il sito della CAN comunale
Dall’inizio dell’anno è ufficialmente attivo il sito www.cancapodistria.org, della Comunità Autogestita della Nazionalità
Italiana di Capodistria. L’iniziativa è stata presentata in conferenza stampa dal presidente, Alberto Scheriani, affiancato
dai due ideatori responsabili, che hanno lavorato al progetto, ovvero Roberto Colussi e Saša Geissa.
Per adesso le pagine non sono ancora
complete, ma si conta di aggiornarle
continuamente. “Un sito non è mai
finito, ma cresce sempre” ha detto
Colussi durante la presentazione. La
funzione principale del portale è quella
digarantireunamaggiorericonoscibilità
della Comunità Nazionale Italiana,
attraverso l’uso di uno strumento che
prende sempre più piede tra tutti i
tipi di utenti, di diverse generazioni e
diversi ceti sociali. Il sito web è stato
creato in maniera da essere fruibile
e funzionale. Si compone di diversi
menù, con i documenti principali e le
notizie fondamentali sulla CAN, come
pure informazioni su Capodistria e la
sua storia, dati su Palazzo Carli e su
Palazzo Gravisi - Buttorai, sede della
CI “Santorio Santorio” di Capodistria,
la quale pure ha un suo menù, dove
saranno presentate le attività che vi si
svolgono. Inoltre “La Città”, foglio del
sodalizio capodistriano, è scaricabile
in formato pdf anche da Internet.
L’occasione è servita anche per
affrontare altri argomenti, esposti da
Aleksandro Burra rispettivamente
Fulvio Richter. Il primo ha presentato
i diversi progetti a livello europeo
ai quali la CAN partecipa assieme
a diversi enti della zona ed anche
transfrontalieri – i quali verranno
tutti illustrati sul nuovo sito. Richter,
invece, ha toccato un tasto dolente,
ovvero la problematica sorta attorno
alla chiesetta della Madonna della
Salute. Il luogo è oramai accerchiato
dal cantiere stradale e da uscite e strade
legate ai lavori per la superstrada
Capodistria - Isola. Parte della
superficie di cui poteva disporre è
stata diminuita, per cui si sta lavorando
assieme al Comune di Capodistria
ed alla parrocchia capodistriana,
per riuscire a comunicare con la
Società per le autostrade (DARS) per
risolvere, almeno in parte, il problema
dell’accesso e del parcheggio. Anche
Flavio Forlani, presidente della
Comunità autogestia costiera e vice
di quella capodistriana, ha illustrato
altri due progetti in cui la CAN è
protagonista, che riguardano la scuola
a Capodistria dal ‘45 in poi ed un
altro intitolato “Progetto lingue”. Da
entrambi dovrebbero risultare delle
pubblicazioni nei prossimi anni.
Interessante pure il progetto di fondare
una libreria italiana proprio di fronte a
Palazzo Carli, negli spazi in cui anni
fa vi era un negozio di scarpe, ormai
vuoto da molto tempo.
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Capodistria
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mar 26 mag 09
12:22
Attività
IN EVIDENZA
can
capodistria
commissione
della
delle diversi
esecutori
italiana
presidente
Gallerie
fotografiche
Il giornalino "La
8
Benvenuto nel sito della CAN di
EVENTI
parolieri
La città
Un libreria italiana nell'area costiera
Proposta al vaglio nell’ambito del progetto europeo »Lingua«
Vi sarà capitato qualche volta di entrare in una libreria del Capodistriano e di aver pensato: peccato che non
ci sia qualche libro in più in lingua italiana? Ebbene fra non molto qualcosa potrebbe cambiare. Non tanto con
l’allargamento dell’offerta delle librerie presenti, ma con la creazione di una libreria specializzata che metterebbe
in vendita volumi italiani. È l’idea lanciata dall’Unione italiana da realizzare nell’ambito dell’ennesimo progetto
che vede coivolta l’organizzazione della Comunità nazionale in Slovenia e Croazia, assieme a istituzioni della
Comunità slovena nel vicino Friuli Venezia Giulia.
Vediamo dunque nello specifico di che cosa si tratta.
Abbiamo chiesto spiegazioni sulla proposta di aprire
una libreria italiana nel territorio nazionalmente
misto costiero alla responsabile dell’Ufficio di Unione
italiana a Capodistria, ROBERTA VINCOLETTO.
La minoranza italiana sta lavorando già da un anno con
quella slovena per presentare un progetto strategico,
questo bando del progetto operativo Italia-Slovenia
2007-2013. L’idea è quella di un progetto che vada a
valorizzare e promuovere le lingue del territorio, quindi
l’italiana sulla costa slovena e la lingua slovena nel Friuli
Venezia Giulia. Sono previste diverse iniziative legate sia
alle scuole che alle biblioteche e alle Università. Tra le
iniziative proposte rientra anche l’apertura di una libreria
italiana qui nel Capodistriano. Un’altra iniziativa, prevista
nel progetto »Lingua« è, in previsione, anche quella di
aprire un centro multimediale per la promozione della
lingua slovena a San Pietro al Natisone.
Perchè avete pensato a una libreria piuttosto che
qualcos’altro?
Abbiamo fatto un’analisi di quello che la minoranza
italiana ha già sul territorio, quindi tra il Centro Combi,
le Comunità degli italiani, le Can e l’Unione e abbiamo
pensato – visto anche l’afflusso di numerosi studenti
presso la Facoltà di umanistica indirizzo italianistica, di
aprire una libreria di cui le nostre autorità parlano già
da anni ma non si è mai realizzata. Speriamo che questa
sia la volta buona, magari con l’aiuto del Comune di
Capodistria. Se tutto andrà bene, le attività dovrebbero
partire nel 2010.
Sulla scia di questa prospettiva, abbiamo cercato di
capire – assieme a persone della Comunità nazionale
impegnate nel mondo della cultura – come viene vista
l’iniziativa e che tipo di nuova libreria in sostanza
sarebbe utile per il territorio nazionalmente misto
del Litorale. Il parere di AMALIA PETRONIO,
responsabile del settore italiano della Biblioteca
centrale di Capodistria.
Io vedo tale iniziativa in modo positivo sia dal punto di
vista culturale che come bibliotecario, come persona che
legge, che ama i libri. Per me è una cosa positiva a patto
che i prezzi siano concorrenziali, ciò significa che i prezzi
devono essere bassi e indubbiamente non si deve avere
l’intenzione di guadagnare, perchè è molto difficile oggi
guadagnare con la vendita dei libri. Si deve prenderlo
come un fatto culturale, seminar libri per così dire. Oggi
come oggi purtroppo il libro è sempre meno usato, perchè
si usa il libro digitalizzato, si usa internet. Qui da noi
spesso c’è richiesta di libri per ragazzi oppure il libro che
è alla moda tipo »Harry Potter«, e non riusciamo a correre
a Trieste ad acquistare il libro e allora sarebbe una bella
cosa veramente avere la libreria qui in Calegaria. Uno
scende e lo prende anche ad un prezzo, diciamo buono,
non più caro che a Trieste. Penso che sono interessanti per
la vendita i libri scolastici, i libri per i bambini piccoli che
imparano la lingua italiana, ma anche per i bambini della
minoranza, libri con caratteri grandi. Noi bibliotecari
facciamo già da filtro, perchè l’Italia è un mercato enorme;
scegliamo i libri migliori, meglio illustrati…quindi questa
libreria deve venir guidata da una persona preparata.
Questo è essenziale secondo me. Un problema anche da
affrontare è la tassa sul libro dell’8,5 per cento che è un
peso che io penso non è giustificabile.
Amalia Petronio nella sala di lettura intitolata a Fulvio Tomizza
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La città
E poi parlo di prezzi concorrenziali perchè l’anno scorso,
in giugno, sono stata a Lendava su invito della minoranza
ungherese, e presso la loro Comunità ho visto la vendita
di libri attuali a metà prezzo. Non so come sono riusciti
a produrre nell’ambito della Comunità una specie di
libreria e riescono a vendere i libri a metà prezzo. Devo
dire che collaborano molto bene con Budapest, con il
suo ambiente culturale e le biblioteche. La cultura è un
investimento. In Francia so che a Natale ogni bambino
riceve una novità libraria, anche questo è un modo per
diffondere la cultura nazionale. Anche i politici italiani e
sloveni devono trovare una metodologia per avvicinare
sempre di più la cultura italiana e slovena ai ragazzi e agli
adulti. Con la buona volontà si può arrivare lontano.
MARIO STEFFÉ, coordinatore culturale per la
Comunità nazionale italiana presso il comune di
Capodistria.
È chiaro che come lettore e persona attenta a quelle che
sono le questioni in campo librario, mi farebbe molto
piacere che si aprisse uno spazio di questo genere. In realtà
bisogna dire che l’opportunità per la stampa periodica in
lingua italiana di essere presente sugli scaffali delle librerie,
in tutti e tre i comuni costieri, si sia andata notevolmente
affievolendo. Ci sono delle presenze sporadiche che sono
inserite nella distribuzione complessiva sul mercato, nelle
librerie e reti di distribuzione libraria, però è ben poca cosa.
Io credo che ci sia una forte richiesta e un buon interesse
Mario Steffè nella biblioteca della CI "Santorio Santorio"
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da parte della popolazione, non solo da quella autoctona
della minoranza, ma anche da parte della maggioranza
in gran parte bilingue o comunque interessata ad aspetti
specifici della stampa in lingua italiana che può offrire
dei titoli non presenti sul mercato nazionale in lingua
slovena. Di conseguenza questa innovazione, questa
introduzione di una libreria italiana, potrebbe diventare
una buona opportunità in questo senso. Resta da capire poi
se per una questione di mercato i prezzi diventerebbero
concorrenziali rispetto alle stesse pubblicazioni periodiche
o ai libri presenti in Italia.
Che tipo di offerta vede in questa eventuale futura
libreria italiana?
Chiaramente l’offerta deve essere modellata in base
a quella che è la richiesta. Credo che accanto a una
buona offerta di quelli che sono i titoli che vanno per
la maggiore nel campo della prosa, della letteratura di
genere, della saggistica, dovrebbero trovarsi comunque
delle pubblicazioni che riguardano il territorio, quindi di
storia patria, saggistica di carattere storiografico ma anche
pubblicazioni che possano interessare soprattutto il grosso
pubblico. Questo tipo di offerta verrebbe a sopperire delle
lacune che sono bene evidenziate.
Con la caduta dei confini interni europei questo
discorso diventa più facile?
Per certi versi diventa paradossalmente anche più difficile.
Vista la vicinanza con il territorio italiano bisogna chiarire
anche la questione della competitività nei prezzi. E’
chiaro che al lato pratico se io trovo lo stesso libro nelle
edicole o in una libreria specializzata qui a Capodistria
a un prezzo superiore rispetto a quanto offerto a Trieste,
vado a comperarlo oltre.
Il limite, le differenze tra biblioteca e libreria, si
fanno sempre meno marcati nel contesto moderno
della fruibilità libraria. Questo è il punto di vista del
direttore della Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di
Capodistria, IVAN MARKOVIĆ.
L’idea è senz’altro interessante per noi che siamo fruitori
regolari della letteratura e del libro italiano. Lo vediamo
insomma come un fattore positivo. Le possibilità di
collaborazione sono tante. Da una parte la possibilità
di reperire dei libri per non dover andare nelle librerie
d’oltreconfine, la possibilità magari di recuperare più
facilmente le pubblicazioni edite dall’Edit o da altre
istituzioni della Comunità nazionale italiana. Un momento
di aggregazione che vedo senz’altro in luce positiva.
Che tipo di pubblicazioni?
Tutte le pubblicazioni che sono in qualche modo legate
alla nazionalità italiana del territorio, Edit, Centro ricerche
storiche e via dicendo. Poi naturalmente le novità librarie
in Italia, la letteratura. Non dovrebbe mancare un settore di
Storia patria; a Trieste ad esempio c’è una libreria come la
»Italo Svevo« che ha una grandissima tradizione per quel
che riguarda la pubblicazione e anche l’edizione di libri
legati al territorio.
La città
Un settore che troverebbe interesse anche tra i lettori
sloveni, dunque non solo di madrelingua italiana.
Senza dubbio. Noi in biblioteca vediamo che il libro
italiano viene usato e fruito anche dai non appartenenti
alla minoranza italiana. Poi qui c’è anche l’Università
del Litorale. Come Università non vedo tanto i libri
di testo quanto i sussidiari e tutto quello che un polo
universitario può produrre. Io vedo che le possibilità
sono tante. E’ una questione di domanda-offerta. Una
buona offerta stimola la domanda. Oggi le grandi librerie
sono accattivanti, invogliano alla lettura, non sono un
momento di antagonismo ma piuttosto un momento di
comunione, di riflessione in questo senso. Questa libreria
potrà sopravvivere se avrà un’offerta di qualità.
Come dev’essere una libreria moderna?
La libreria moderna si avvicina sempre di più ad una
biblioteca. E’ un posto di ritrovo sociale, non è solo
una questione di mercato. E’ un momento di riflessione
nel quale è possibile trovare, scegliere, immedesimarsi
e vedere qual’è la situazione sul mercato. La libreria
moderna, anche grazie ai mezzi informatici che ci sono
a disposizione, deve dare l’opportunità di fruire e dare
una scelta molto superiore rispetto a quella che poteva
offrire una biblioteca-magazzino solo di qualche decennio
addietro. Quindi in questo periodo le librerie sono un
po’ come le biblioteche: non si va lì solo per comprare
libri, ma anche per informarsi, vedere quelle che sono
le novità. Le librerie hanno una grande importanza nella
scelta di quelli che saranno i nuovi autori, i best seller, di
quelli che saranno i futuri Premi Nobel, se volete. Quindi
l’importanza di questa libreria italiana io la vedo in futuro
se sarà in grado di essere competitiva sul mercato. Per
essere competitiva sul mercato dovrà avere una vasta
offerta, per il territorio e anche più in là.
Nelle librerie si fanno sempre più presentazioni di
autori.
Ivan Markovič davanti alla sede della Biblioteca
centrale"Srečko Vilhar"
Certo, perchè le librerie, come le biblioteche, sono quelle
che fanno questi momenti di ritrovo, di serate letterarie
e quindi al giorno d’oggi le librerie e le biblioteche sono
molto vicine e direi, hanno un compito abbastanza affine
rispetto a quella che è l’educazione al libro e alla lettura.
Ognuno lo fa dal proprio punto di vista; le librerie sono un
poco più legate al mondo del mercato, le biblioteche oggi
purtroppo, o forse per fortuna, devono lavorare anche
come librerie. I confini non sono più così separati come
lo erano in passato.
Mladinska knjiga. Una delle attuali librerie di Capodistria.
11
La città
VICESINDACI DI CAPODISTRIA E PIRANO ALLA FESTA DELLA SERENISSIMA
Rinsaldare i legami con Venezia
Ricordare la storia, rinsaldare
antichi vincoli d’amicizia e
rilanciare forme di collaborazione
in campo culturale. Si è svolta in
questo clima a fine marzo a Venezia,
la cerimonia per l’anniversario
della fondazione della Serenissima.
A Palazzo Ducale sono convenuti
numerosi Comuni dell’area Alto
adriatica, che hanno legato la loro
storia a quella della Repubblica. Tra
gli invitati, anche le municipalità
di Capodistria e Pirano. Nei saluti
introduttivi di Franco Manzato,
vicepresidente della Regione
Veneto, del presidente della
Provincia di Venezia, Davide
Zoggia e del vescovo ausiliario
di Venezia, mons. Beniamino
Pizziol, sono stati ricordati i fasti
della Serenissima e le relazioni
che ha tenuto con numerose città
Adriatiche. Per cementare queste
amicizie, che durano anche oggi
in varia forma, è stato sottoscritto
un
protocollo
che
auspica
collaborazioni in campo culturale
sempre più strette. Nel suo
messaggio di saluto il vicesindaco
di Capodistria, Alberto Scheriani
ha citato gli avvenimenti storici
che hanno accomunato le due
città, nei secoli passati alleate e
antagoniste, ma in tempi più recenti
sempre amiche. Scheriani ha fatto
presente i frequenti contatti in
campo culturale degli anni passati,
partendo dal 2000, quando fu
rievocato il dazio che Capodistria si
impegnò a inviare a Venezia: cento
anfore di vino pregiato all’anno, in
cambio della difesa in mare dalle
incursioni dei pirati. Hanno fatto
seguito alcune partecipazioni di
equipaggi capodistriani alla regata
storica. Il vicesindaco Scheriani
ha espresso piena disponibilità a
nuovi contatti con Venezia e le
municipalità limitrofe. L’anno
prossimo Venezia promuoverà un
simposio ancora più importante
sulle sue origini, coinvolgendo
molte altre località Adriatiche.
Altare di S. Marco nel Duomo di Capodistria. Particolare dell'omonima pala di Stefano Celesti (1638) con
raffigurazione di Piazza S. Marco a Venezia.
12
La città
A Tv Koper-Capodistria migliaia di nastri sono stati puliti, ricatalogati e rimessi in onda in una rubrica
speciale realizzata dall’archivista Ketty Kovačič Poldrugovac che, in questo articolo ci racconta un po’
come nasce questa esperienza.
L’archivio di Tv Capodistria,
un patrimonio da valorizzare
Ketty Kovačič Poldrugovac
La mia avventura nell’archivio di TV
Capodistria è iniziata nel 2000, con
l’avvicinarsi del 30esimo anniversario
della nostra emittente.
Il progetto si è rivelato una sfida
sin dall’inizio, rappresentato da
pile di bobine ammucchiate in uno
sgabuzzino sconosciuto ai più.
Il sistema di catalogazione era
incarnato in mucchi di quaderni
dal dubbio contenuto. Ben presto
infatti molte trasmissioni presenti su
bobine si sono rivelate non iscritte
nei quaderni, mentre altre erano
evidenziate, ma introvabili tra le
bobine dello sgabuzzino. La ragione
ho scoperto essere estremamente
banale, tanto da sembrare un emblema
dell’incapacità dell’uomo di tenere
fronte alle tecnologie che egli stesso
crea. Accadde infatti, che attraverso
gli anni si svilupparono e quindi
cambiarono i sistemi di registrazione
e salvaguardia dei materiali televisivi.
Questi cambiamenti dettarono la
necessità di riversare trasmissioni
da un tipo di nastro a un altro. Al
contempo la costante mancanza di
fondi rese pratica comune l’uso di
uno stesso nastro piu volte, con il
risultato che alcuni contenuti sono
andati definitivamente persi.
Per chi si occupa di televisione,
nel caso di mancata catalogazione
dei nastri, giungono in aiuto i
telopi. Si tratta di cartoncini, che
Jolanda Grando e Neva Grižonič nella sala di montaggio.
all’epoca sostitutivano le sigle e cosi
fornivano un’accesso altrernativo
alle informazioni di base necessarie
per una catalogazione. Neanche a
dirlo, non tutte le bobine ne erano
fornite. Chi scrive lo scopriva dopo
aver aperto scatole piene di muffa ed
esaminato bobine dall’acre odore di
prodotto chimico.
Il piano era il seguente: pulire le
bobine, visionarle e catalogarle. La
prima fase venne affidata alla sede
centrale di Lubiana. La seconda, il
visionamento, richiedeva un’apposita
macchina, all’epoca molto comune
ma oggigiorno in disuso: la moviola.
TV Capodistria non ne disponeva più,
a differenza della sede di Lubiana. La
prima soluzione proposta prevedeva
il visionamento dei nastri a Lubiana.
Onde evitare che chi scrive andasse
alla proverbiale montagna, per di
più con 600 nastri sotto braccio, feci
venire la montagna a Capodistria.
Assicurate le bobine pulite e la
moviola ebbi a quel punto bisogno
dell’aiuto di un montatore esperto, che
trovai in Jolanda Grando, montatrice
in pensione. La nostra collaborazione
fu eccellente. Passammo l’estate del
2000 a visionare materiali, unendo
nastri audio ai rispettivi nastri video
e catalogandoli. Tutta l’estate si è
rivelata un viaggio virtuale, che ci
dette l’occasione di rivivere la nostra
storia recente e rivedere conoscenti e
amici, che non sono più tra noi.
In occasione del 30esimo anniversario
di TV Capodistria curai una serie di
trasmissioni sulla storia della nostra
emittente, dedicando mensilmente
13
La città
Ketty Kovačič Poldrugovac, autrice della trasmissione di Tv Capodistria in
cui vengono riproposti spezzoni d'archivio dell'emittente.
una puntata ad un argomento: la d’oro.
Costiera, il debutto e l’informazione, Al termine della serie di trasmissioni
le trasmissioni per ragazzi, le sulla storia di TV Capodistria, reduce
trasmissioni musicali e lo sport, da mesi di visionamento di materiali,
ripercorrendo le varie tappe con desideravo far rivivere la nostra storia
ospiti che hanno fatto la nostra storia, recente al grande pubblico, come
da Dušan Fortič ad Andrea Facchi, ebbi occasione di fare con Jolanda in
da Minghetti a Diviacchi, da Gisella quell’estate del 2000. Naque così la
Pagano a Sergij Premru, il tutto serie spezzoni d’archivio.
condotto dalla storica Bruna Alessio. Durante la prima puntata apparve
La mia idea sul programma era un indirizzo e-mail in sottopancia
molto semplice: una ricostruzione invitando gli spettatatori a inoltrare
cronologica della nostra storia. eventuali richieste di spezzoni o
Inevitabilmente si pose la domanda trasmissioni, che volessero rivedere.
sulle ragioni che hanno portato alla Allora TV Capodistria era visibile via
nascita dell’emittente. Questo discorso satellite e di conseguenza giunsero
è fonte di vivaci discussioni ancora molte richieste in particolare
oggi. I fronti sono divisi tra coloro che dall’Italia. Sfortunatamente non era
ritengono, che la ragione principale possibile esaudire la maggior parte
della fondazione di TV Capodistria delle richieste, a causa di bobine
fu di natura economica e coloro che andate perse negli anni. Per correttezza
sostengono sia nata anzitutto come e cortesia era comunque necessario
servizio per la minoranza italiana rispondere alle varie e-mail, il che
nell’allora Jugoslavia. Tra i vari mi portò nella spiacevole situazione
interpreti di quel periodo, c’è chi di non riuscire a occuparmi in modo
vede la questione come la proverbiale opportuno contemporaneamente delle
domanda „E’ nato prima l’uovo o la trasmissioni e della corrispondenza.
gallina?“ e chi ritiene si sia trattato Finì che si decise di togliere il
in ogni caso di una gallina dalle uova sottopancia per le richieste. In mia
14
difesa aggiungo che mantengo ancora
oggi una vivace corrispondenza con
alcuni di questi fedeli spettatatori.
Inizialmente invitavo in studio persone
che da ragazzi avevano partecipato
alle trasmissioni scolastiche realizzate
da Lucia Scher. La maggior parte di
queste non si erano mai viste nella
suddetta e vivevano l’occasione con
grande sorpresa. Diversi spettatori da
casa riconoscevano se stessi o amici
e davano origine a chiamate a catena,
che invitavano a sintonizzarisi su
TV Capodistria. Nella fase seguente
invitai anche diversi autori di
trasmissioni, che sorprendentemente
spesso non le ricordavano. Di regola
gli ospiti non erano a conoscenza
di cio che avrei fatto vedere loro,
quindi non mancavano i momenti di
emozione.
L’archvio si rivelò ricco di materiale
inerente alla storia della Jugoslavia.
Così curai una serie di trasmissioni
su questo tema, invitando lo storico,
nonchè collega, Stefano Lusa a
commentare gli spezzoni. Anche
questa serie ebbe un piacevole
riscontro di pubblico.
Arriviamo così a tempi piu recenti. Ora
mi sbizzarrisco inventado rubriche
e argomenti in base al materiale
trovato. Talvolta dedico trasmissioni
ad anniversari (per esempio delle
nostre Comunità), ad avvenimenti
(l’apertura dei confini), a ricorrenze
(Capodanno, Natale, Primo Maggio),
o a personaggi (Ligio Zanini, Tito,
Giusto Curto, Slavko Zlatić e altri).
Il mio prossimo progetto è una
trasmissione su Fulvio Tomizza, in
occasione del 10.mo anniversario
della sua scomparsa. Punto soprattutto
su spezzoni in cui lo scrittore parla
di sè, attingendo a materiali del
nostro archivio, ma non solo. Il titolo
della trasmissione sarà: »Io, Fulvio
Tomizza«.
Devo dire che le trasmissioni mi danno
grandi soddisfazioni, sono in molti a
farmi sapere che seguono la serie con
interesse. Vorrei sfruttare l’occasione
per ringraziare il pubblico fedele,
nella speranza di aver incuriosito
quello rimanente.
La città
Tutti i valori della buona tavola
A Capodistria delegazione dell’Accademia della cucina
Visita a Capodistria, domenica 29 marzo, per
una delegazione MuggiaCapodistria dell’Accademia italiana della cucina.
L’Organizzazione, che si
prefigge si promuovere
i valori della cucina italiana, la cultura del saper
mangiare e bere di qualità, vanta sezioni in tutto
il mondo. Alcuni anni fà
è stata fondata la prima
delegazione transfrontaliera, che raduna buongustai muggesani e capodistriani. La presiede
Paolo Kulterer, mentre
vicepresidente è Maurizio Tremul. Dopo una
visita guidata della città,
gli ospiti sono stati ricevuti alla Comunità degli italiani »Santorio Santorio« dal presidente Lino Cernaz. Si sono infine traferiti a
pranzo al ristorante Skipper del centro nautico di Capodistria. Come consuetudine in queste occasioni, hanno
proceduto alla valutazione delle pietanze, a base di pesce, e dei vini serviti, nonchè della qualità del servizio
e dell’accoglienza nel locale.
Studenti in visita
Varie comitive di studenti e allievi hanno visitato anche
negli ultimi mesi la nostra Comunità. Tra queste una
comitiva dell'Istituto »Maria Consolatrice« di Milano, del
Liceo Linguistico di Peano Cinisello Balsamo, del Liceo
scientifico »Lorenzo Mascheroni« di Bergamo, dell'ITIS
Bernocchi di Legnano, della Scuola media Statale »Dante
Alighieri« di Varese e dell'Istituto Comprensivo »Aldo
Moro« di Cisiago. Inoltre hanno voluto conoscerci
insegnanti e alunni della Scuola elementare slovena di S.
Lucia, presso Pirano.
Gli allievi delle scuole lombarde nel salone espositivo.
Gli alunni di S. Lucia al piano nobile della CI.
15
La città
Sul suolo dove è stata demolita recentemente la scuola elementare »Janko Premrl Vojko« sorgeva per
secoli, fino al 1806, il convento di S. Domenico. Pubblichiamo uno scritto di Antonio Alisi, già direttore
del Museo capodistriano, uscito a Firenze nel 1937 sulla rivista »Memorie domenicane«. Abbiamo
trovato l’estratto nell’archivio del CRS di Rovigno. Una grazie di cuore al prof. Nicolò Sponza per
avercelo fornito in fotocopia.
Chiesa e convento di S. Domenico di Capodistria
Antonio Alisi
Secondo la tradizione locale questo complesso di edifizi
venne fondato nel 1217 (la tradizione locale però non ha
fondamento storico, perchè S. Domenico nel 1217 mandò
i pochi frati solo in cospicue città e nessun documento
accerta che li abbia inviati nell’Istria). Quando i genovesi,
durante la guerra con Venezia s’avvidero che per vincere
quest’ultima si doveva impedire ogni rifornimento che
potesse giungerle dall’Istria, essi non esitarono ad assaltare
tutte le città costiere istriane. Nel 1354 Paganino Doria
colle sue galere (galee, ndr) s’impossessava di Pola, di
Parenzo, di Capodistria e d’altri porti istriani, ponendo
tutte queste città a ruba ed a fuoco. Quattro anni dopo è
firmata la pace, che è rotta nuovamente nel 1379 da una
guerra ancora più barbara. Al 1. luglio 1380 Capodistria
è obbligata a darsi a Matteo Maruffo, ammiraglio
genovese, che nuovamente pone la città al saccheggio
delle sue ciurme, le quali non rispettano ne’ le chiese, ne’
i conventi, dai quali si tolgono, quale bottino di guerra,
le reliquie ed i corpi santi. La pace di Torino del 1381,
segna il ritorno alla vita normale, e ovunque gli istriani
si affannano a porre riparo agli ingenti danni subiti. O
nell’uno o nell’altro assalto dei Genovesi, precisamente
quale non si sa, tanto la chiesa, quanto il convento dei
Domenicani di Capodistria andarono distrutti; certo è
che l’Ordine provvide sollecitamente alla ricostruzione
di entrambi, ultimata avanti la fine del secolo XIV.
Una panoramica del cantiere dall'alto. (Ilona Dolenc – Primorske novice)
16
La città
Non è difficile supporre che entrambi gli edifici si
costruirono nello stile gotico-veneziano dell’epoca;
tenendo conto delle simpatie, che i Domenicani avevano
destate fra i cittadini, si può anche ritenere che quella
ricostruzione si effettuasse con una certa larghezza di
concetti, però nulla si è conservato fino ad oggi di essa. Si
sa tuttavia che sopra la porta della chiesa era stata posta
una lapide colla scritta:
Anno Domini 1401 die prima mensis maij
Consacrata fuit haec Ecclesia cum omnibus
Suis altaribus
Coemeterio, Claustro, et Capitulo
Tempore prioratus
Fr. Dominici Lippi de Firmo Ordinis
Praedicat.
La consacrazione era impartita dal vescovo di Capodistria
Mons. Giovanni Loredano (1390 – 22.4.1411), assistito
dal capitolo.
Non si hanno notizie di lavori nel complesso domenicano
di Capodistria fino al 1534 (Archivio Comunale di
Capodistria N. 1336, I-IV fasc.), quando un Maistro Pietro
di Zuara si commette il nuovo organo per la chiesa. In essa
però si è già cominciato a sostituire qualche altare vecchio,
sul quale poggiava probabilmente qualche preziosa ancona
intagliata e dorata, con altro nuovo, più conforme ai gusti
del tempo; così si spiega la spesa incontrata nel 1580 per
aggiustare il tabernacolo del Santissimo, non riuscito
perfettamente. Nel 1673, finalmente, i Domenicani hanno
affidato al proto Alessandro Fremignan la trasformazione
totale della Chiesa e del Chiostro. Quarant’anni prima
Fremignan aveva sperperato tutta la sostanza dei patrizi
Fini nella costruzione della Chiesa di S. Moisè di Venezia,
con i Domenicani di Capodistria è evidente ch’egli avrà
moderato e la foga barocca e le pretese. Dai conti che si
sono conservati, appare ch’egli nell’anno anzidetto aveva
commesso cinque statue in legno di ciruolo a Venezia e
che le aveva fatto dorare; da quanto sappiamo, solamente
due statue v’erano nella chiesa e non è neppure certo che
facessero parte del gruppo. Nel 1676 il Fremignan dà i
disegni per l’altare di S. Rosa in marmi diversi, che sono
approvati ed egli lo commette a Venezia. L’altare non era
però ancora finito nel 1691, essendo già rilevanti le spese, il
capitolo del convento decide di aprire una speciale »Cassa
della fabbrica della chiesa«, cioè un proprio registro nel
quale un incaricato speciale segnerà dettagliatamente le
entrate e le uscite per tutti i lavori ancora da farsi. Nel
1694 è pagato il pittore Ambrogio Bon di Venezia per la
sua pala di S. Pietro Martire.
Intorno a quest’anno circa il vescovo capodistriano
fra Paolo Naldini di Padova (11.3.1686-21.4.1713)
prendeva gli appunti che poi dovevano servirgli per la sua
importantissima »Corografia Ecclesiastica di Capodistria«
Archeologi sempre molto attivi
L’anno scorso è venuta alla luce un’estesa fascia delle
mura veneziane, sotto Sanpieri. Il basamento della
Torre medievale della munission in Riva Vojko è stato
lasciato a vista. Ora gli archeologi stanno lavorando
alacremente nell’ampio Piazzale del museo, dove è
stato demolito l’edificio della scuola elementare »Janko
Premrl Vojko«, una scuola costruita sessant’anni fa
sulle macerie delle carceri, che furono costruite a
loro volta dagli austriaci sui resti del Duecentesco
convento domenicano. E’ un’area cittadina questa,
di notevole interesse storico: gli archeologi e
una trentina di studenti, guidati da Alfred Trenz
dell’Istituto per la tutela dei beni artistico-culturali di
Pirano, hanno riportato alla luce la pianta originale
dell’antico monastero con i resti ben conservati della
canalizzazione. Sono stati rivenuti reperti d’epoca
tardo-antica, diverse tombe e i resti dell’abside della
chiesa di San Domenico, descritta nei secoli passati
come la seconda chiesa di Capodistria, per grandezza
e ricchezza artistica. Quello che ha stupito di più gli
esperti è l’enorme cisterna costruita dagli austriaci. Il
tunnel circolare è così largo che lo speleologo Franc
Malečkar vi è potuto entrare comodamente con un
piccolo gommone.
I lavori finiranno in estate, dopodichè sul sito della ex
scuola si comincerà a scavare a fondo per realizzare un
parcheggio sotterraneo di quattro piani. Con un progetto
a lungo termine, l’amministrazione capodistriana
intende togliere gradualmente le macchine da vie e
piazze del centro storico.
(Venezia, 1700) e fra gli altri anche quelli sulla chiesa
dei Domenicani. Essa »constava d’una semplice navata,
a’ giusta proporzione alta, lunga e larga, con tre regolate
cappelle a’ fronte, la maggiore delle quali serve di coro
diurno, e le due laterali formano i Santuari del glorioso
istitutore dell’Ordine e della Beata Serafina da Siena.
Chiudesi il Coro coll’Altarmaggiore, il quale da quattro
grandi Colonne, sovra d’altrettanti Piedestalli eretti, cinto
e ripartito, piega in tre vaghi e pomposi archi; nel maggiore
dei quali in maestosa Mensa, da più gradini sostenuta,
s’erge il Tabernacolo del Venerabile, e ne’ due laterali,
sovra le Porte conducenti al Coro, veggonsi gli adorati
simulacri de’ i gloriosi Alberto Magno e Tomaso Aquinate,
il maestro e il discepolo. Si corona l’opera con altri Altari
distribuiti a’ fianchi della Navata, tutti ricchi di marmi, ma
singolarmente pretiosi di pitture; tra le quali celeberrime
sono la Palla del Santo Antonio Abbate e la figura del Padre
Eterno sovra l’altare della B. V., anche fatture insigni delli
due Tiziani padre e figlio. Sono pure di raro pregio i Misteri
del Santissimo Rosario, parte delineati da Stefano Celesti, e
parte coloriti da Pietro Bellotti».
17
La città
Il tunnel pieno d'acqua che circonda l'enorme cisterna
rinvenuta (Franc Malečkar)
Frattanto nel 1683-84, si era ricostruito il chiostro, ad
archi su pilastri a bugnato in pietra di Grisignana, sotto la
direzione di Maestro Matteo Lucchese, taiapiera, e di suo
figlio Valentino. Essi mettono in opera anche i trentacinque
gradini in pietra, venuti dalle cave di Torre del Quieto, per
la scala che condurrà al primo piano del Convento. Tali
lavori però vanno troppo lentamente, i frati protestano e
infine chiamano a compierli i maestri taiapiera Sebastiano
Venturini e Giacomo Pecora, nel 1691.
L’ultimo vecchio altare che sia stato sostituito nella
chiesa, sembra fosse quello di S. Tomaso, perchè nel 1694
si registra il compenso dato »al pitor di Venezia«, per la
rispettiva pala.
In quanto ai pittori nominati da Mons. Naldini, rilevaremo
che di Stefano Celesti, meno valente di suo figlio Andrea,
e perciò meno noto, v’è nel Duomo di Capodistria una
pala, coll’immagine di S. Marco. Di Pietro Bellotti s’è
pure conservata a Capodistria un’altra pittura, la pala di S.
Antonio di Padova ch’egli fece per la chiesa di S. Francesco
e dopo la soppressione di essa, passò nella chiesa di S.
Anna dei Minori Osservanti. Il Bellotti dovrebbe essere
nato intorno al 1625 a Venezia ed ivi morto di 75 anni.
La chiesa possedeva oltre l’altare maggiore, dedicato a S.
Antonio Abate, ancora otto altari laterali, di cui due, come
sappiamo nelle cappelle ai lati del presbiterio, uno dedicato
a S. Domenico, l’altro a S. Caterina da Siena. Degli altri
sei, gli altari appoggiati alla parete settentrionale erano:
18
di S. Rosa, del SS. Rosario, di S. Vincenzo Ferreri: lungo
l’altra parete l’altare del Nome di Dio o del Crocifisso, di
S. Tommaso d’Aquino e di S. Pietro Martire.
Nella chiesa v’erano varie sepolture: quella della
Confraternita del Rosario dinanzi all’altare omonimo;
di fianco ad essa l’altra della Confraternita di S. Antonio
Abate e poco distante da quella della Confraternita della
Madonna del Carmine, detta dal popolo »la Madonna
dell’abito«. Fra il 1450 e il 1470 ebbe sepoltura nella
chiesa l’oratore della repubblica e patrizio capodistriano
Rainaldo de Gavardo. Nel 1677 chiede ed ottiene sepoltura
nel coro il dott. Girolamo Vergerio, della antica famiglia
nobile che a Capodistria diede i due Pier Paolo, l’uno
filosofo e letterato, l’altro noto per l’apostasia. Nel 1751
donna Mattea Zarotti dichiara nel suo testamento di non
voler essere sepolta nella tomba che la sua famiglia aveva
in San Domenico dinanzi all’altare di S. Vincenzo, ma in
quella dei Servi.
Nel 1725 la Scuola (confraternita, ndr) di S. Antonio
Abate vota un contributo unico di 100 ducati per la
ricostruzione del vecchio coro »cadente e rovinoso« e
cominciano subito i lavori per farne uno più ampio e in
muratura più solida. Nel 1742 il campanile, cui non si era
ancora pensato, minaccia di crollare; lo si deve demolire
e rifare nella parte superiore e si accomodano le scale che
conducono alla cella delle campane. I frati sono poveri,
dopo tante spese e non è da meravigliarsi se nel 1715
si videro obbligati a lasciare che le panche della chiesa
siano rifatte a spese delle famiglie che ne avevano chieste
delle nuove. Intorno a quest’anni il Maestro falegname e
intagliatore Bernardino Martinuzzi da Tricesimo (Udine)
consegnava gli stalli per il nuovo coro.
Al 25 aprile 1806 era intimato ai Domenicani di
Capodistria il decreto di soppressione e poco dopo,
con un accanimento incredibile quanto v’era nel loro
complesso così faticosamente rifatto ed abbellito, fu
Frammento della tomba dei Tarsia, che la famiglia
fece murare sul proprio palazzo (oggi sede del giornale
Primorske novice) dopo averla tolta dalla chiesa
di S. Domenico.
La città
messo all’asta, mentre i fondi e gli edifici rimanevano
di proprietà dell’erario. Sarebbe lungo estrarre dagli atti
che si conservano nell’Archivio Comunale di Capodistria
ulteriori dettagli per illustrare quei penosi momenti, ci
limiteremo a constatare che tutto andò disperso e a mala
pena si è riusciti a conservare nel locale Museo Civico
un puteale quattrocentesco ed una lapidetta a memoria di
quell’istituzione già così fiorente.
Fino intorno al 1818 nessuno si prese cura ne’ della
chiesa, ne’ del convento, che abbandonati, rapidamente
deperivano; poi il governo austriaco ebbe la felice idea di
trasformare il tutto in un penitenziario, senza tener conto
dell’ubicazione, la migliore che vi sia a Capodistria, nella
parte più alta, prospettante verso il mare, con ampia vista
nel golfo di Trieste. La parte occidentale del convento fu
ricostruita in modo da darle quasi l’aspetto di un castello
quadrato, a due piani, con torri quadrate agli angoli;
poi man mano si elevarono d’un piano le altre parti
includendovi la chiesa, che divenne oratorio dei carcerati.
Così sussiste ancora quale nocciolo originale nell’interno,
il chiostro con le sue poderose arcate (dopo la seconda
guerra mondiale anche questi resti vennero abbattuti,
ndr).
La biblioteca del convento di S. Domenico
Stando a diverse autorevoli testimonianze (Girolamo Gravisi, Baccio Ziliotto, Domenico Venturini), una delle
biblioteche più antiche ed importanti di Capodistria è stata la biblioteca del convento dei domenicani. Purtroppo a
causa della soppressione del convento (1806) da parte dei Francesi e la sua successiva demolizione per opera degli
austriaci (1818), di questa biblioteca a Capodistria non è rimasta alcuna traccia. La biblioteca dei domenicani è
stata trasportata a Trieste per ordine del prefetto Calafati e da Trieste al Seminario di Gorizia dove se ne conservano
ancora le opere superstiti.
In una lettera a Calafati, Girolamo Gravisi, a nome dell’Accademia dei Risorti, chiese nel 1806 al prefetto che »i
libri vengano benignamente accordati all’Accademia per uso non solo dei suoi membri, ma di tutti i cittadini«.
Il prefetto napoleonico non solo consegnò i libri dei conventi alla Biblioteca Civica di Trieste, ma soppresse
anche l’Accademia. Alcuni anni dopo i volumi passarono al al Seminario di Gorizia. Ancora oggi parecchi libri e
manoscritti di questa biblioteca portano diciture legate all’ambito dei conventi di San Domenico e San Francesco
di Capodistria. Notizie tratte da »Fondi librari e biblioteche a Capodistria« di Ivan Marković.
Passaggi sotterranei affiorati durante gli scavi in Piazzale del Museo.
19
La città
La Casa di pena di Capodistria
dalla sua istituzione alla sua demolizione
di Vlasta Beltram
Fin dal loro sorgere, le formazioni sociali provvidero anche alla punizione di chi minava l’ordinamento sociale
costituito. Le prime pene consistettero innanzi tutto nell’espulsione dalla comunità dei responsabili di tale
condotta, più tardi si fece ricorso alle pene corporali – ad un determinato reato corrispondeva la punizione della
parte del corpo che se ne era resa responsabile (ad esempio, il furto era punito con l’amputazione della mano);
gli avversari politici ed i responsabili di gravi violazioni delle norme sociali venivano, di regola, condannati alla
pena capitale.
Con lo sviluppo dello stato di diritto, le pene corporali
furono sostituite dalla privazione dei diritti fondamentali
dell’uomo e dei beni materiali. Il reo era privato della
libertà e del patrimonio, un metodo, peraltro ancora in
vigore.
L’applicazione della pena di privazione della libertà
richiese il ricorso ad appositi stabilimenti di pena. I
loro albori risalgono al medioevo, quando il feudatario,
investito dell’autorità giudiziaria, si dotava, all’interno
del suo castello, di appositi vani con celle e prigioni. Esse
erano destinate in primo luogo ai sudditi renitenti alle
datazioni obbligatorie, ai cacciatori di frodo, eccetera.
Erano i precursori delle carceri moderne. Ne furono
dotate anche le città, sovente in prossimità delle sedi delle
massime autorità cittadine, investite anche della funzione
giudiziaria, oppure, a seguito dell’istituzione di appositi
tribunali, nei loro pressi.
Nell’Ottocento e nel Novecento comparve un’inedita e
massiccia categoria di carcerati – quella dei prigionieri
politici. Le carceri furono, beninteso, da sempre
colme anche di avversari del principe o del regime di
turno, di antesignani e protagonisti dello sviluppo e
delle trasformazioni sociali (di innovatori, scienziati,
riformatori religiosi), dediti alla demolizione dei modelli
sociali esistenti ed ammessi, ma il più delle volte non vi
soggiornarono a lungo, perchè costoro venivano di regola
condannati alla pena capitale. Il fenomeno culminò nel
corso del ‘900, con l’avvento dei regimi totalitari.
Dalle nostre parti, il fenomeno dei detenuti politici,
e della persecuzione politica in genere, assunse vaste
proporzioni durante il fascismo, quando la popolazione
reagì all’azione snazionalizzatrice del regime.
Le carceri di Capodistria poi, sorte sin dalla prima metà
dell’800, pullularono sempre di detenuti politici – in epoca
austro-ungarica ne furono perlopiù vittime gli italiani
(carbonari, irredentisti), durante il regime fascista e sotto
l’occupazione tedesca ne subirono invece le restrizioni
gli sloveni ed i croati della Venezia Giulia come pure
gli antifascisti istriani di lingua italiana, un »bacino
d’utenza« che nel corso della guerra si allargò anche ai
Alcuni libri della biblioteca della CI "Santorio Santorio"
portano i timbri dell'Istituto carcerario
20
La città
territori jugoslavi occupati ed annessi della Provincia di
Lubiana e della Dalmazia.
Ed è precisamente quest’ultima categoria di carcerati
ad esssere oggetto del presente opuscolo. Vi si affronta
la storia delle carceri di Capodistria; di un penitenziario
eretto sin dall’epoca della monarchia asburgica, ossia, di
uno stabilimento di pena dalle dimensioni tali, da far sì
che l’enorme quadrilatero, sovrastato da due torri merlate,
marcasse il profilo architettonico della città a guisa di
monito intimidatorio rivolto a tutta la popolazione (…).
La monarchia asburgica
Le carceri di Capodistria funsero dapprima da penitenziario
in cui i condannati dovevano scontare la loro pena. Lo
stabilimento penale assunse nel corso degli anni diverse
denominazioni (Casa di castigo, Penitenziario, Casa di
pena, Istituto carcerario, Stabilimento penale, Casa di
reclusione). Più tardi furono attribuite anche le funzioni
di carcere giudiziario. La loro gestione fu affidata alle
competenze del ministero della giustizia.
Da una lettera del commissario straordinario indirizzata
al ministero della giustizia nel 1923 si apprende che lo
stabilimento penale capodustriano era stato eretto dalle
autorità austriache nel 1850 e precisamente sul sedime
di un complesso monastico formato da due conventi
dismessi – uno, più vasto, di S.Domenico, ed uno minore,
di S.Gregorio, separati l’uno dall’altro da una pubblica
via. Sopra il sedime del convento domenicano era stato
eretto l’enorme edificio carcerario che racchiudeva
dei cortili interni. Esso era dotato di celle carcerarie, di
uffici, una chiesadisponeva di un proprio personale e di
tutti i servizi necessari, fra i quali anche un’infermieria.
Sull’area dell’ex convento glagolita di S. Gregorio, lungo
quella che si chiamava Via Castel Musella, sorgevano
alcuni edifici minori che ospitavano i detenuti minorenni,
officine, mentre il cortile adiacente fungeva da lavanderia
e asciugatoio.
Vi era una chiesa anche in S. Gregorio, nel quale la
liturgia ortodossa era officiata a beneficio dei detenuti
provenienti dalla Dalmazia. Di fatto erano stati adibiti a
carcere i vani di due conventi che erano stati aboliti dalle
autorità francesi nel 1806; un intervento che richiese dei
rimaneggiamenti e delle integrazioni edili di modesta
portata, per far fronte alle nuove esigenze sin dalla prima
metà dell’800, sin dagli anni attorno al 1820. In una lettera
del 1836 le carceri sono indicate Imperial-regia Casa di
castigo.
L’approvigionamento idrico delle carceri fu una sfida,
alla quale si pose mano con maggior lena solo agli inizi
degli anni Sessanta. Nel 1863 fu elaborato un progetto di
condotta idrica che avrebbe dovuto convogliarvi l’acqua
delle sorgenti in località Campel ai piedi di Paugnano.
L’impresa avrebbe dovuto coinvolgere anche le autorità
civili di Capodistria, perchè a trarne beneficio sarebbe
stata la cittadinanza intera.
L’illuminazione fu inizialmente assicurata da lumi a
petrolio, mentre nel 1910 il complesso carcerario si vide
allacciato alla rete elettrica.
21
La città
I detenuti provenivano dai territori dell’Istria e della
Dalmazia, e di conseguenza anche la loro estrazione
linguistica appariva quanto mai variegata. Inizialmente
vi si utilizzarono i ceppi, sia per gli arti inferiori che
per quelli superiori, le catene ed altri metodi cruenti di
restrizione della libertà, che nel corso degli anni Sessanta
dell’Ottocento furono aboliti. Spiccava all’epoca l’alta
mortalità fra i detenuti. Pure in seguito all’abolizione degli
strumenti di detenzione cruenti, le condizioni carcerarie
rimasero pessime, al punto da prestare fianco per ripetuti
ammutinamenti. Sin dal 1868 il comune cercò di ovviarvi,
ricorrendo ad una guarnigione di 300 soldati. Verso la
fine di dicembre del 1899 scoppiò fra i carcerati uno
sciopero generale che vide i condannati, insofferenti del
duro regime carcerario, rifiutare le prestazioni di lavoro
inerenti alla gestione diurna e dal funzionamento delle
officine interne. L’amministrazione richiese il rinforzo
di soldati di stanza a Trieste, mentre il podestà richiese a
tal fine lo stabilimento permanente a Capodistria di una
guarnigione di 80 soldati.
22
Verso la fine degli anni Sessanta fu introdotta nelle carceri
l’istruzione a beneficio dei detenuti. I giornali locali
riportano notizie sugli esami sostenutivi, sugli insegnanti
eccetera, ma soltano per gli anni Settanta, mentre di vani
didattici e del personale docente si fa menzione anche nel
1922. Così ad esempio, si legge che il 21 dicembre 1871
si svolsero, presso le carceri, gli esami per gli allievi dei
corsi scolastici avviati qualche anno prima. Essi furono
infatti obbligatori dapprima soltanto fino al ventesimo
anno d’età, dal 1872 in poi, fino al 24.mo anno d’età. Per il
1877 si legge che vi avevano operato due sezioni, ciascuna
articolata in due corsi: la sezione italiana con 72 allievi,
quella slava di 129. Insegnò presso la prima Simeone
Vascotti, mentre presso la seconda (frequentata perlopiù
da contadini dalmati analfabeti) Matteo Cristofich. Le
materie di studio erano religione, lingua materna, storia
e geografia austriache, fisica aritmetica, canto e disegno;
accanto ai due maestri citati vi insegnarono due sacerdoti
cattolici (Giorgio Zubranich e Biagio Glavina) ed uno
ortodosso (Vladimiro Kordich).
Nel 1861 venne istituito un comitato di assistenza ai
reduci dal carcere, domiciliati nel comune di Capodistria.
I carcerati che scontavano la pena detentiva venivano
addetti ai lavori nelle officine del penitenziario, ma erano
tenuti a prestazioni lavorative anche nell’ambito dei
molteplici lavori pubblici esterni. Furono, ad esempio,
impiegati nella costruzione del terrapieno e della strada
di Semedella , nonchè dei lavori di manutenzione della
strada per Isola.
La città
Nel marzo del 1915 le autorità austriache evacuarono le
carceri. Detenuti impiegati e personale di sorveglianza
furono trasferiti a Maribor. Una prigione funzionò anche
al pianterreno del Palazzo Pretorio: tre vani destinati agli
indagati per reati comuni e politici in fase istruttoria.
Il Regno d’Italia
Nel 1919, le autorità italiane provvidero alla riapertura
dello stabilimento penitenziario (nel 1922 fu introdotto il
Regolamento vigente nel resto del territorio del Regno).
Furono invece abbandonati i vani dell’ex convento di San
Gregorio. Negli anni 1920-21 fu demolita gran parte del
maggiore dei suoi edifici, mentre il resto del complesso fu
destinato alle esigenze dell’11.mo Reggimento di fanteria.
Venne inoltre abolita la liturgia ortodossa, per la presunta
assenza di detenuti provenienti dalla Dalmazia, mentre
sei quadri ed il lampadario della chiesa di S. Gregorio
sarebbero stati affidati alle cure dell’allora Civico museo
di Storia ed Arte.
Fino alla fine della guerra operarono nel complesso
carcerario diverse officine, al cui fabbisogno di manodopera
sopperirono esclusivamente i detenuti. Le carceri
nell’appendice di Palazzo Pretorio funsero all’epoca da
carcere femminile. Durante il primo decennio del regime
fascista, tali necessità non dovettero apparire pressanti se
nel 1931 il ministro della giustizia decise di disfarsene
affidandoli al comune e di ricorrere all’uopo, alle carceri
triestine. Più tardi furono riaperti e nel corso della guerra
si rivelarono sovraffollati. Funsero allora anche da tappa
di transito delle detenute politiche provenienti dai territori
jugoslavi occupati dall’esercito italiano e destinate ad
istituti di pena dell’interno dell’Italia. Verso la fine del
1942, il ministero chiese al comune di poter utilizzare, a
tal fine, altri vani adiacenti ed il cortile.
Le carceri di Capodistria, dotate dello statuto sia di
carcere giudiziario, sia di istituto di pena, accolsero
un numero crescente di detenuti politici, persino
preponderante, nel corso della guerra. Vi trascorsero
periodi più o meno lunghi (come in occasione delle
paventate celebrazioni clandestine del Primo maggio, di
visite in loco di gerarchi di spicco e di altri eventi politici
di rilievo). Altri stabilimenti carcerari operarono, entro un
breve raggio, a Trieste (le carceri del Coroneo, quelle Ai
Gesuiti), a Gorizia ed a Fiume, ma nelle testimonianze
memorialistiche ricorre spesso la considerazione che fu
proprio quello di Capodistria a goder della peggior fama.
Incutevano terrore le celle di isolamento, dette »tombe
dei vivi«, deputate a rendere gli inquisiti più malleabili
alla vigilia degli interrogatori. Prima della guerra gli
interrogatori si svolgevano in Questura o alla stazione
dei Carabinieri di Semedella; durante la guerra invece,
ebbero luogo nel carcere. Gli interrogatori furono il più
delle volte accompagnati da torture proporzionali alla
gravità del reato politico imputato.
La maggior parte dei detenuti politici era di origine
slava, proveniente da tutta l’area della Venezia Giulia;
seguivano per incidenza, gli antifascisti italiani dell’Istria.
La conquista da parte italiana di territori jugoslavi nel
corso della seconda guerra mondiale, estese il bacino di
provenienza dei carcerati, facendo registrare un afflusso
di detenuti dalle province di Lubiana e della Dalmazia. Lo
stabilimento carcerario fu così investito anche di un ruolo
inedito – quello di tappa di transito di detenuti politici
(uomini e donne), condannati dinnanzi alle corti marziali
nei territori occupati e destinati alle carceri all’interno del
paese. Essendo disponibili, per le carceri di Capodistria,
soltanto modeste fonti d’archivio, sarà probabilmente
impossibile giungere a dei dati quantitativi completi
sul numero dei detenuti politici di qualisiasi nazionalità
transitati attraverso l’istituto. Dovette tuttavia trattarsi di
un numero consistente, posto che la sua capienza ufficiale
era di 2100 detenuti e considerando che nel corso della
lotta di liberazione vi avrebbero soggiornato fino a 5 mila
detenuti. In un censimento conservato presso l’Archivio
della Repubblica di Slovenia, si riportano – per il 1943
– ben 7500 posizioni carcerarie per altrettanti detenuti
(il dato si riferisce sia alle carceri maschili che a quelle
femminili). Non è difficile immaginarne le condizioni di
vita.
Trascorsero giorni da incubo nelle carceri di Capodistria,
subendo cruenti interrogatori, anche gli inquisiti, gli
imputati ed i condannati ad alcuni processi che ebbero
grande risonanza pubblica: fra essi, quello dei partecipanti
alla sollevazione di Maresego del maggio 1921, nonchè
quello ai militanti dell’organizzazione clandestina Borba
Manette della prigione conservate nel Museo Regionale
23
La città
nel settembre del 1930, imputati dinanzi al Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato, convocato in via
eccezionale a Trieste (fra loro i quattro condannati a fucilati
al poligono di Basovizza) nonchè quello agli antifascisti,
di svariata estrazione politica, imputati, ancora una volta
a Trieste, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello
Stato, nel dicembre del 1941 (con l’esecuzione di cinque
condanne capitali presso il poligono di Opicina). Accanto
a loro passarono per il carcere molti antifascisti locali,
militanti in formazioni partigiane (…).
La liberazione dei detenuti nel
settembre del 1943
L’armistizio, reso pubblico l’8 settembre, accese le
speranze di una sollecita liberazione dei detenuti.
Esse rimasero tuttavia deluse. Il 9 ed il 10 settembre, i
parenti dei detenuti originari dei villaggi circostanti
organizzarono delle manifestazioni per rivendicare la
liberazione dei carcerati. Contestualmente, i detenuti stessi
si ammutinarono, ottenendo la liberazione dei detenuti
originari del circondario, metre quelli di nazionalità
italiana erano stati rilasciati in precedenza. In un
telegramma dell’11 settembre, indirizzato dal commissario
di pubblica sicurezza di Capodistria al Questore di Pola,
lo scrivente motivò la decisione di rilasciare i detenuti
locali: il giorno prima i militari italiani avevano disertato
in massa di fronte all’avanzata dell’esercito germanico,
mentre la gente s’appropriava delle armi, delle uniformi e
delle vettovaglie abbandonate, ponendo con ciò a rischio
l’ordine pubblico. Al tempo stesso, congiunti ed amici
24
dei detenuti politici ne rivendicarono la liberazione. Di
fronte alla situazione incerta, alla scarsità di forze a sua
disposizione ed all’eventualità che la protesta di massa
potesse sfociare in una sollevazione generale dei detenuti
e nella loro evasione, dispose il rilascio degli arrestati.
Sorte ben peggiore spettò ai detenuti originari di altre
regioni. L’invasore tedesco ne dispose la deportazione.
Le donne furono traferite il 15 settembre nelle carceri
maschili per venir due giorni dopo avviate alle carceri
di Venezia ed altrove in Italia. Il 26 settembre un gran
numero di detenuti maschi fu deportato verso i campi
di concentramento in Germania. Il giorno seguente la
popolazione dei dintorni di Capodistria, con l’aiuto dei
partigiani croati (il primo battaglione della seconda brigata
croata, che allora presidiava il territorio) liberò i detenuti
rimasti, e nei giorni che precedettero l’offensiva tedesca,
scatenata il 2 ottobre, asportarono dalle carceri un’enorme
quantità di materiale che fu dapprima custodito presso gli
edifici scolastici dei villaggi, per venir quindi inoltrato a
Pinguente.
Circa le modalità dell’azione che condusse alla liberazione
dei detenuti, uno dei partecipanti, Nazario Bordon della
frazione di Cesari, conserva il seguente ricordo: »La
sortita avrebbe dovuto svolgersi il 26 settembre. Fu in
quel giorno che i combattenti si diedero appuntamento a
Pobeghi, alle 8 del mattino. Ci dividemmo per manipoli e
ci dirigemmo verso Capodistria. Fui designato a recarmi
in avanscoperta sul monte sopra Pobeghi. Ben presto
scorsi tre navi, salpate da Trieste alla volta di Capodistria.
Corremmo ad avvertire l’unità che intercettammo nei
pressi di Prade. Le navi fecero fuoco in direzione di
Bertocchi. Tornai a Cesari dove la mattina successiva
La città
venne a cercarmi Vincenc Kocjančič (membro del
comitato distrettuale del Partito Comunista Sloveno per
la zona dei Brkini e la parte slovena dell’Istria) perchè
lo affiancassi nell’operazione volta a liberare i detenuti.
Aggregammo a noi un gruppo di persone e ci dirigemmo
a Capodistria. Assieme al Kocjančič e a qualche attivista
di Bertocchi bussammo alla porta delle carceri. Esigemmo
che ci aprissero e ci consegnassero le chiavi. Dopo una
breve trattativa ottenemmo lo scopo: il custode aprì la
porta e ci consegnò le chiavi. Dall’una del pomeriggio alle
undici di sera si snodò poi un via-vai di camion, carichi di
materiali sequestrati all’Istituto di pena e smistate presso
le sedi scolastiche di Monte, Maresego, Cesari, Prade
e S. Antonio. Caricammo sul camion anche dei fascisti
capodistriani: il direttore delle carceri, il maresciallo
dei carabinieri, il veterinario, i fratelli Almerigogna, il
maestro Zetto. Furono dapprima trasferiti a Maresego,
quindi a Pinguente, dove tuttavia i tedeschi provvidero
ben presto a rimetterli in libertà«.
Nel volume Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria
slovena nella lotta per la libertà) lo svolgimento degli
eventi è stato così integrato, sulla scorta di alcune fonti
memorialistiche: il medico capodistriano Giovanni
Paruta, incaricato anche del servizio medico carcerario,
usava nascondere i prigionieri politici sloveni coprendoli
con delle lenzuola ed asserendo che si trattava di malati
gravi. Nelle ore notturne del 25 settembre i tedeschi
trasferirono numerosi detenuti politici, a bordo di una
nave, per associarli alle carceri triestine del Coroneo. Ne
rimasero circa 200, in attesa di subire una sorte analoga,
perciò il comitato distrettuale del PCS per la zona dei
Brkini e dell’Istria slovena, dette avvio all’azione volta
a liberarli e portata a buon fine dai villici delle frazioni
del circondario, coadiuvati dai partigiani croati. Una volta
entrati e liberati i detenuti, fecero schierare di fronte ad essi
il personale carcerario, per consentire il riconoscimento,
in quei ranghi, degli aguzzini più feroci.
Il governo militare dell’Armata
jugoslava
L’imponente edificio sopravvisse per soli tre anni alla
fine della guerra. Nel maggio del 1945 vi erano stati
rinchiusi dei prigionieri di guerra tedeschi (fra loro
anche appartenenti all’organizzazione di lavoro coatto
tedesca TODT di Villa Decani), ma non funse più da
istituto carcerario. Vi operarono una falegnameria ed
un’officina meccanica e, dal novembre 1946, anche una
filatura. Vi elessero inoltre sede diverse organizzazioni e
piccole imprese che vi perseverarono addirittura qualche
anno dopo che nel 1948 ne era stata avviata l’opera di
demolizione. Il materiale edile ricavatone fu perlopiù
riutilizzato per la costruzione delle sedi cooperative che
sorsero, a quel tempo, e si diffusero massicciamente in
tutte le frazioni. Sopra l’area nord-orientale del sedime
del complesso carcerario fu avviata la costruzione della
scuola elementare slovena ed italiana; il 21 luglio 1949 si
svolse la cerimonia della posa della prima pietra. Sul resto
del sedime sorsero più tardi un grattacielo e la sede degli
uffici postali.
* Per gentile concessione dell’autrice, tratto dal libro
»Le carceri capodistriane«, 2008
25
La città
Da dicembre a giugno alla CI…e dintorni
5 dicembre – »Itinerario per la terraferma veneta nel
1483 di Marin Sanuto«. Presentazione del libro curato
da Roberto Bruni e Luisa Bellini, dell’Associazione
culturale »Terzomillennio«, con l’appoggio del Centro di
ricerche storiche di Rovigno e del Circolo culturale istroveneto »Istria«.
19 dicembre – Inaugurazione sito web della CAN di
Capodistria, a palazzo Carli,
www.cancapodistria.org, presentato dal presidente
Alberto Scheriani e dai due ideatori responsabili,
Roberto Colussi e Saša Geissa.
22 dicembre – Serata ricordo per Matteo Scocir
Ricordati i 25 anni dalla scomparsa di Matteo Socir,
maestro di mandolino presso il sodalizio. Lo hanno
ricordato Lidia Colarich e Marino Orlando, già suo
studente di musica, presso l’allora Circolo di cultura
italiana, ed in chiusura la conferenza-concerto, tenuta
dai musicisti Sergio Zigiotti e Fabiano Merlante, duo
mandolino e chitarra.
5 gennaio – nasce il coro »Porporella« della CI
Santorio. Diretti da Emil Zonta i componenti del gruppo
s’incontrano per le prove ogni lunedì sera.
Carnevale – ballo tradizionale in Circolo.
"Carnaval: Se no i xe mati no li volemo!"
3 febbraio – incontro degli studenti del »Carli« con
rappresentanti della CNI. Incontro dei giovani di III e
IV classe del ginnasio Gian Rinaldo Carli con il Console
generale d’Italia a Capodistria, Carlo Gambacurta,
ed esponenti della CNI: Alberto Scheriani (CAN
Capodistria), Lino Cernaz (CI Santorio), Roberto Battelli
(deputato al Parlamento sloveno) e Maurizio Tremul
(Giunta esecutiva UI).
27 febbraio – serata di poesia nel settore italiano
della biblioteca in Calegaria. Serata bilingue, dedicata
alla poesia al femminile. A questo incontro, organizzato
dall’Associazione Pari Opportunità, POEM, e dalla
sua responsabile Isabella Flego, hanno preso parte
le poetesse Ines Cergol di Capodistria ed Alessandra
26
Pecman Bertok di Muggia.
2 marzo – mostra artisti FVG. Mostra »Artisti dalle
province del Friuli Venezia Giulia«, inaugurata venerdì
27 febbraio. Inaugurata da Enzo di Grazia, a cui si
deve il concetto e la cura dell’esposizione, il quale ha
presentato i quattro artisti che espongono ciascuno
un’opera – Carmelo Cacciato, Massimo Poldelmengo,
Franco Vecchiet e Carlo Marzuttini.
La presentazione di Enzo di Grazia
5 marzo – incontro con l’ombudsman ČebašekTravnik. Conferenza-dibattito »Ma adesso noi – diritti
umani e libertà fondamentali dell’uomo«, organizzata
dall’Associazione per le pari opportunità, »POEM«,
responsabile Isabella Flego, dalla CI »Santorio Santorio«
e dall’Ufficio del deputato al seggio specifico per la
CNI presso la Camera di Stato, Battelli. Ospite la dott.
Zdenka Čebašek-Travnik, tutore pubblico della RS per i
diritti umani e civili.
Roberto Battelli, Vanja Vitoševič, Zdenka Čebašek
Travnik e Isabella Flego
7 marzo – premi CAN. Consegna dei premi annuali
della Comunità autogestita della nazionalità italiana di
Capodistria a Matilde Crevatin, Nadia Vidovich e Lidia
Colarich.
9 marzo – concerto in occasione della Festa della
donna. Si sono esibiti in concerto Monica Cesar,
soprano, Neven Stipanov, baritono e clarinetto,
accompagnati da Federico Consoli al pianoforte, con
l’ospite d’eccezione sempre al piano, Serena Buremi.
29 marzo – visita delegazione dell’Accademia italiana
della cucina.
La città
7 aprile – presentazione del libro di Marco Apollonio.
»L’altra parte del cielo«, pubblicazione inclusa ne
»Lo Scampo Gigante – collana della nuova letteratura
italiana dell’Istria e del Quarnero« dell’EDIT di Fiume,
è stata introdotta da Elis Deghenghi Olujić, docente
universitario di letteratura italiana e critico letterario,
e poi discussa dal letterato e traduttore Gašper Malej
assieme all’autore stesso.
7 aprile – inaugurazione sala di lettura »Fulvio
Tomizza« presso la Biblioteca centrale.
Pubblico delle grandi occasioni per la cerimonia ufficiale
di intitolazione della sala di lettura del settore italiano
della biblioteca civica »Srečko Vilhar« di Capodistria a
Fulvio Tomizza.
Interventi di Ivan Markovič, direttore della biblioteca
capodistriana, Amalia Petronio, responsabile del settore
italiano, del vicesindaco e presidente della CAN, Alberto
Scheriani, Maurizio Tremul, presidente della Giunta UI,
Lino Cernaz, presidente della CI »Santorio Santorio« e
Isabella Flego, amica della famiglia Tomizza che non
poco ha contribuito all’evento celebrato. Vi è stata poi
la parte più professionale e letteraria legata all’autore,
presentato da Irene Visintini, professoressa e critico
letterario.
26 aprile – la Madonna di Semedella. Tradizionale
rito in ricorrenza della »Beata Vergine delle Grazie«,
più comunemente denominata »la Semedella«. Messa
celebrata dal vescovo Mons. Metod Pirih, coadiuvato
dall’ex parroco Mons. Bojan Ravbar e da Don Giovanni
Gasperutti.
12 maggio – Serata dedicata a Giorgio Depangher
(Capodistria 1941 – Trieste 2001).
Note biografiche a cura di Roberto Dedenaro. Parte
centrale poi la lettura delle poesie dell’autore, recitate
con tatto e stile da Mario Mirasola, regista radiofonico,
la cui voce veniva fluidificata dal sottofondo delicato
ed azzeccato proposto dal compositore e pianista Silvio
Donati. Una serata tutto sommato proprio in armonia
con lo spirito di entrambe gli enti organizzatori (la
CI »Santorio Santorio« ed il Circolo di cultura istroveneta »Istria«), e dello stesso personaggio definito
»capodistriano, insegnante, letterato e uomo di confine
aperto alla convivenza«.
15 maggio – Scuole lombarde in visita in Istria. La
comitiva di scuole italiane in visita in Istria, si è fermata
pure presso la Comunità degli Italiani di Capodistria, con
i ragazzi dell’Istituto »Maria Consolatrice« di Milano,
del Liceo linguistico di Peano Cinisello Balsamo, del
Liceo scientifico »Lorenzo Mascheroni« di Bergamo,
dell’ITIS Bernocchi di Legnano, della Scuola media
Statale “Dante Alighieri” e dell’ISISS “F.Daverio” di
Varese, nonchè dell’Istituto Comprensivo “Aldo Moro”
di Cisiago.
15 maggio – presentazione volume e DVD Santuari
Mariani. Presentata la pubblicazione accompagnata dal
documentario su DVD »Santuari Mariani dall’Adriatico
alle Alpi«. Si tratta dei prodotti realizzati nell’ambito
del progetto “I luoghi di culto e le tradizioni religiose
del territorio transfrontaliero”, portato avanti in seno al
programma di iniziativa comunitaria Interreg III A Italia
- Slovenia 2000 – 2006. Presenti Sergij Pahor, ideatore
del progetto, David Bandelj, autore dei testi, e Flavio
Forlani, presidente della Società Italiana di Ricerca di
Capodistria.
Flavio Forlani, David Bandelj e Drago Štoka
29 maggio – presso l’estivo serata »ArtiIstria« del
Forum Tomizza.
Presso l’estivo della CI si è ufficialmente chiusa la
data capodistriana del »Forum Tomizza 2009« con il
tradizionale spettacolo di poesia e musica »ArtiIstra«.
In programma le musiche di Maxmaber Orchestra e dei
Katalena, che hanno accompagnato ed intercalato le
letture dei poeti Dorta Jagić, Karlo Hmeljak, Arjan Leka
e Roberto Dedenaro.
30 maggio – Concerto nel salone per il Convegno dei
60 anni di Radio Capodistria. Sul palco Dario Marušić,
Tamara Obrovac e il gruppo »Transhistria electric«.
31 maggio – Raduno della Mailing List Histria.
Nono raduno della Mailing List Histria, la cui prima
parte è stata inaugurata dai saluti di rito, effettuati da
Maria Luisa Botteri, presidente della Commissione di
valutazione dei lavori in concorso e da Mario Steffè,
coordinatore culturale della CI capodistriana. Pervenuti
155 elaborati per 221 partecipanti.
11 giugno – "Capodistria per sempre..." Serata
letteraria e presentazione dei lavori di ricerca in
collaborazione con la Scuola elementare "Pier Paolo
Vergerio il Vecchio" a cura dei mentori Nicoletta
Casagrande e prof. Lorena Chirissi, con la partecipazione
degli alunni della VI, VII e VIII classe.
12 giugno – "Cappuccetto rosso". Rappresentazione
scenica del Teatrino instabile dei genitori fantasiosi in
collaborazione con l'Asilo "Delfino blu". A cura delle
educatrici del giardino d'infanzia e con la partecipazione
dei genitori dei bambini d'asilo.
17-21 giugno – San Nazario. Manifestazioni culturali
e sportive co-organizzate in occasione della festa
patronale.
27
La città
Il semestre alla Comunità degli Italiani di Bertocchi
12 marzo - Mostra del gruppo creativo “dipinto
su seta” alla CI di Pirano. È stata inaugurata in Casa
Tartini, sede della Comunità degli Italiani “Giuseppe
Tartini” di Pirano, la mostra dei quadretti realizzati dal
gruppo creativo “dipinto su seta” della Comunità degli
Italiani di Bertocchi. Il gruppo conta cinque attiviste che
si incontrano regolarmente una volta alla settimana con la
mentore Liana Vincoletto.
Inaugurazione della mostra a Pirano.
13 marzo – Formazione ed aggiornamento in campo
agricolo. Dal 2006 ad oggi si svolge, presso la CI di
Bertocchi, un nuovo ciclo di lezioni (negli anni precedenti si
è svolto quello sulla viticoltura), sempre in collaborazione
con l’UI e l’UPT, riguardante l’olivicoltura e dirette dal
prof. Paolo Parmegiani. Dopo una serie di lezioni teoriche
che hanno visto coinvolti diversi connazionali, si è svolta
anche una prima lezione pratica sulla potatura nell’aprile
2008, presso l’oliveto del connazionale Franco Vojvoda.
Le tematiche affrontate, nel corso delle lezioni teoriche
sono state le seguenti: i parassiti e la difesa antiparassitaria
per l’olivo, le tecniche di estrazione dell’olio dalle olive,
il terreno, l’impianto dell’oliveto e le varietà coltivate,
la conduzione agronomica dell’oliveto. Il 13 marzo di
quest’anno si è svolta una seconda lezione pratica di
potatura presso l’oliveto del connazionale Gianfranco
Vincoletto, guidata sempre dal prof. Parmegiani. Anche
questa lezione ha visto la partecipazione di oltre venti
connazionali, molto soddisfatti delle nozioni apprese.
Il prof. Parmegiani e i connazionali durante la lezione
pratica di potatura dell’olivo.
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29 marzo – con il “Lasciapassare”, risate e divertimento
garantito! La CI di Bertocchi ha ospitato presso la Casa
di Cultura la Compagnia Filodrammatica della Comunità
degli Italiani “Giuseppe Tartini” di Pirano. Quest’ultima si
è presentata con la commedia: “Cos’ha da dichiarare? –
Propustnica –Prepustnica – Lasciapassare”, cripto storie
di confine dalla propustnica a Schengen. Un “collage” di
vari pezzi che ricordano fatti veramente accaduti, ma che
sono stati con successo un po’ “romanzati” ed enfatizzati
dall’autore nonché regista Ruggero Paghi, sulla scia della
ben nota domanda “Cos’ha da dichiarare?”
18 aprile – “Saluto alla primavera”. All’ormai
tradizionale manifestazione hanno preso parte
il coro “S. Ignazio” di Gorizia diretto da Liviano Brumat,
il gruppo di danza moderna Blue Dream della CI Fulvio
Tomizza di Umago, il Coro Misto Giuseppe Tartini di
Pirano diretto da Neven Stipanov, la filodrammatica della
CI di Momiano con lo sketch “Buon giorno” interpretato
da Gianluca Zubin e Caterina Visintin ed il quintetto
vocale “Volta” di Verteneglio. La manifestazione, dove
ha regnato il bel canto, la danza e il divertimento, non
si è conclusa sul palcoscenico anzi è proseguita con la
serata sociale che ha unito i gruppi attraverso la musica e
il canto inoltre, sono nati nuovi legami e programmi futuri
per nuovi scambi culturali.
10 maggio - la CI di Bertocchi in bancarella a
Capodistria. Alla ormai tradizionale presentazione delle
Comunità Locali ed altri enti ed associazioni, lungo la Via
del Porto, in occasione della Festa del Comune città di
Capodistria, per il terzo anno consecutivo ha preso parte
anche la CI di Bertocchi. Sulla bancarella sono stati messi
in mostra i lavori del Gruppo creativo “dipinto su seta”,
attivo presso la CI ed altri lavoretti realizzati dagli alunni
della Scuola elementare Pier Paolo Vergerio il Vecchio,
sezione periferica di Bertocchi.
La bancarella allestita dalla Comunità
La città
23 maggio – bambini e amici vallesi in scena. I piccoli
del Giardino d’infanzia Delfino blu, sezione periferica di
Bertocchi hanno preparato una poesia ed un allegro chacha-cha dedicato alle mamme. Inoltre abbiamo avuto il
piacere di ospitare la Comunità degli Italiani di Valle,
che si è presentata con balli, il canti e poesie. La serata
si è conclusa con la rappresentazione della commedia „Il
paese di carta“ in cui hanno recitano i bambini del Gruppo
filodrammatico “Le nuvole” della CI di Bertocchi, mentore
Edda Viler, in collaborazione con la Scuola elementare
Pier Paolo Vergerio il Vecchio, sezione di Bertocchi e le
loro insegnanti.
Momenti della commedia “Il paese di carta”
Il Console generale d'Italia a Capodistria, Carlo
Gambacurta, è giunto al termine del suo mandato.
Lascia la città a fine giugno per nuovo incarico.
Prima di partire ha donato seicento libri della sua
biblioteca personale alla locale Comunità degli italiani.
Nella foto il console Gambacurta, secondo da sinistra,
dopo l'ambasciatore Pietromarchi, al ricevimento
offerto lo scorso 3 giugno in occasione della festa della
Repubblica italiana.
Le classi Seconda, Terza e Quarta della scuola italiana di Bertocchi il 6 giugno 1955. In piedi da sinistra: Sonia
Marsetič, Maria Kuret, Edda Apollonio, Renata Brajnik, Elena Vincoletto, Giuseppe Babuder. In basso: i fratelli
Gianfranco e Maurizio Vincoletto. Maestra Maria Kalan.
29
La città
Crevatini: Il disperso che non voleva tornare
La grande guerra portò lutti, distruzioni e dolore, tanto
dolore. Di persone che si ricordano di questo tragico
evento ormai non ce ne sono più. Tanto tanto tempo fa
Maria Colombin allora centenaria accennò a quel periodo
con parole dolci e sagge, definì quell’evento come l’ultima
guerra di cavalleria dove pur essendo nemici i soldati si
rispettavano, rispettavano regole non scritte, in tempo di
guerra, regole di pace. Finita la guerra molti tornarono
feriti nel fisico e nell’ animo, numerosi furono i morti e
numerosi quelli che non tornarono: i dispersi. I parenti si
attivarono per le ricerche e qualcuno venne trovato e tornò
a casa con moglie russa a carico. Ci furono altri che non
ne vollero sapere di tornare perché i loro affetti li avevano
costruiti in terra ucraina. Qualcuno dovette ritornare dopo
pesanti pressioni da parte della famiglia. Il documento che
segue è un carteggio fra il comune di Muggia e l’allora
Console d’Italia a Odessa.
Il tutto frutto delle ricerche del gruppo storico etnografico
della Comunità degli italiani di Crevatini. Nella foto, in
piedi il soldato Giuseppe Srelz.
Mentore: Maria Pia Casagrande
30
La città
Al »Delfino blu« di Crevatini, ospitati alunni di Bled
Tra il giardino d’infanzia »Delfino blu« di Capodistria
e la scuola elementare di Bled è stata instaurata una
proficua collaborazione. Grazie al contributo della
Società turistica e degli albeghi »Sava« di Bled, la
scuola slovena si è presentata a Crevatini, nella Casa
di cultura di Bosici, con uno spettacolo di animazione
per i bambini dell’asilo dal titolo »Il cigno Zaki ritrova
i genitori« di Cvetka Bevc. Si tratta di una piacevole
favola ambientata sulle sponde del rinomato lago e
tradotta in italiano da Barbara Forza. In scena gli alunni
della scuola ospitata, mentre nello spettacolo sono stati
coinvolti anche i bambini dell’asilo capodistriano. In
futuro si punta a contraccambiare la visita organizzando
una gita nella nota località slovena.
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La città
La poesia di Giorgio Depangher
Serata letteraria organizzata assieme al Circolo Istria
Il 12 maggio la Comunità ha ospitato una serata letteraria
dedicata a Giorgio Depangher, capodistriano, insegnante,
letterato e uomo di confine aperto alla convivenza, al quale
i Comuni di Capodistria e Duino Aurisina hanno intitolato
un premio letterario per gli allievi delle scuole. L’evento
a palazzo Gravisi è stato organizzato dalla CI “Santorio
Santorio” insieme al Circolo di cultura istro-veneta“Istria”.
La serata è stata presentata da Roberto Dedenaro,
insegnante e poeta, ed arricchita dalla voce recitante di
Mario Mirasola, regista radiofonico, accompagnato dal
compositore e pianista Silvio Donati. Presente in prima
fila anche la vedova dell’autore, Anna Maria Depangher.
In chiusura il presidente del Circolo “Istria”, Livio
Dorigo, si è augurato di cuore che lo stesso autore abbia
Da sinistra: Livio Dorigo, Lino Cernaz, Mario Steffè,
potuto ascoltare ed emozionarsi come il pubblico in sala.
Anna Maria Depangher, Fabio Scropetta,
Roberto Dedenaro.
Attraverso La Città formuliamo una proposta: dato che i
libri di Depangher sono ormai difficilmente reperibili, molti lettori sarebbero sicuramente interessati ad una ristampa
(magari una raccolta) delle opere principali.
Comune, premiati Zubin e Steffè
Una pulitina ai balconi
Da quando è andato in pensione, Claudio Antonaz,
certamente non si annoia. Dopo una vita passata al Museo
come restauratore, Claudio è ora impegnato a mettere in
sesto oggetti antichi nel suo laboratorio di Calle dei carreri,
ma viene spesso anche incaricato di pulire stemmi e altri
particolari architettonici in pietra bianca. Qui l’abbiamo
sorpreso mentre tira a lucido il balcone della Biblioteca
centrale.
Aldo Zubin, il sindaco Boris Popovič e Fabio Steffè
Quest’anno i riconoscimenti per la festa comunale
sono andati al Club alpinistico del Litorale (nella foto
il presidente Aldo Zubin) e a Fabio Steffè. Di Steffè la
motivazione ricorda la sua lunga carriera nella polizia,
iniziata nel 1973. Nei reparti marittimi ha ricoperto vari
incarichi, sino a diventare comandante della motovedetta
M-44. Quindi, con il grado di ispettore, ha curato le
questioni legate all’immigrazione. La conoscenza della
lingua italiana gli ha permesso di allacciare proficui
contatti con le forze dell’ordine italiane. È stato sempre
convinto assertore della necessità di superare i confini e
d’instaurare rapporti di amicizia nella zona transfrontaliera.
Durante la guerra per l’indipendenza della Slovenia, nel
1991, e nel periodo immediatamente precedente, è stato
in prima linea nelle operazioni per difendere la zona dagli
attacchi dei reparti federali jugoslavi.
32
Claudio Antonaz sotto il balcone di palazzo Brutti.
La città
Campus studentesco itinerante,
oltre i confini e oltre le lingue
A fine aprile il salone del Museo regionale di Capodistria ha ospitato l’incontro finale del Campus studentesco
transfrontaliero, iniziativa che vede collaborare Licei sloveni e italiani da una parte e dall’altra del confine.
Philip Tarsia, docente al »Galilei«
di Trieste, è uno degli ideatori del
progetto. Quali le caratteristiche
del Campus 2009?
Devo dire che la concretezza e
la pratica concreta sono state le
caratteristiche
fondamentali
di
quest’azione.
L’azione
SPIN,
di per se’ dall’acronimo inglese
significa ciclico, rotazione, continua
rivisitazione della conoscenza che
si ha per costruirne nuove. I ragazzi
quest’anno hanno complementato, o si
sono preparati al Campus, attraverso
una serie di incontri preparatori che
li hanno calati nella realtà didattica.
Quindi sono arrivati al Campus, che è
il punto terminale del progetto, avendo
osservato, sperimentato, valutato,
costruito. Quindi questo credo che
sia uno degli approcci “bottom-up”
che noi dovremmo assimilare nella
pratica didattica quotidiana, cioè
mettere lo studente in grado di ideare
percorsi formativi e quindi di essere
lui protagonista di piattaforme di
discussione, di progettualità, ideare
insieme ai docenti una nuova scuola.
E mi pare che in questo Campus
questo messaggio è stato colto.
Sono stati formati gruppi misti fra
diverse scuole che a più riprese
hanno analizzato aspetti specifici
del mondo dell’istruzione.
Avremmo potuto chiuderci nella nostra
referenzialità di scuole, presentare i
nostri progetti invece si è lavorato in
gruppi misti fin dall’inizio.
I ragazzi mi hanno detto “E’ stato
diverso, più interessante di quanto
avrei immaginato”.
Avendo aperto le porte, facendoli
entrare in classe, i docenti erano
osservati; quindi hanno toccato con
mano quello che veniva fatto, quanto il
docente stimolava o quanto il docente
ostacolava la discussione in classe,
come la valutava, come portava avanti
i suoi metodi, quindi hanno avuto
modo di viverla questa cosa. Loro
hanno visto istituti diversi dal loro.
Dopo due-tre visite preparatorie, li
abbiamo messi a contatto con diverse
realtà, ruotando come lo SPIN ci fa
capire. Sono passati dal Liceo Galilei,
al Liceo Prešeren, ai Ginnasi sloveno
e italiano di Capodistria, al Sema di
Pirano; si sono confrontati e alla fine
hanno detta la loro.
Slovenia e Italia sono nell’Unione
europea, ma all’interno del mondo
dell’istruzione vi sono tra i due
Paesi ancora parecchie differenze.
I ragazzi le hanno fatto notare.
Ed infatti, questa credo sia la
costruzione di una dimensione
europea. Questo è un microcosmo,
un crocevia di interessi, di lingue, di
gente…quindi secondo me una delle
potenzialità di quest’area è proprio
questa, la ricchezza della diversità ma
anche la voglia di costruire insieme
con un modello che ha l’Europa
come sfondo. Direi che la novità
di quest’anno è che abbiamo avuto
una collaborazione a diversi gradi:
dagli studenti ai docenti, agli uffici
scolastici referenti, alle istituzioni a
livello più alto. Quindi la risposta che
hanno dato, creando la possibilità dui
interagire in questo modo, è stata una
risposta di altissima qualità. Questo
ci fa sperare di poter continuare
l’esperienza. Io credo che abbiamo
seminato adesso, e che a lungo
andare noi potremo cogliere ancora
altri risultati; però certamente queste
iniziative devono continuare ad essere
incoraggiate, devono rappresentare
per i giovani degli appuntamenti fissi,
degli appuntamenti ricchi di proposte
di novità.
33
La città
Abbiamo chiesto a Luca del
»Petrarca« di Trieste se c’è qualche
differenza nelle scuole in Slovenia
che gli piacerebbe fosse adottata
anche in Italia.
Sicuramente una differenza che spero
venga adottata anche nel sistema
scolastico italiano è la possibilità
di avere vari livelli per le materie.
Quindi ad esempio in Slovenia
l’insegnamento della matematica
e dell’inglese sono su vari livelli a
seconda della bravura degli studenti.
Io auspico che questo venga adottato
anche in Italia perchè è il modo
migliore per riuscire veramente a far
migliorare gli studenti nelle materie
per le quali sono più portati e quindi
anche magari interessano di più.
Seconda cosa un numero inferiore di
studenti per classe permette di avere
lezioni migliori, un migliore rapporto
tra studenti e professori, e c’è la
possibilità da parte dell’insegnante
di seguire più nel dettaglio le singole
capacità di ogni studente.
Che cosa ti lascia questo Campus?
Sicuramente la dimostrazione che i
confini per noi giovani non sono caduti
Vprašali smo za mnenje tudi prof.
Loredano Guštin, ravnateljico
Znanstvenega Liceja »France
Prešeren« iz Trsta.
Meni je bilo letos bistveno več všeč,
dijaki so veliko več sodelovali. So
videli vsako posamezno šolo, so
tudi prisostvovali pouku, sledili
lekcijam in bili kar precej kritični
do italijanskega šolskega sistema
tako kot do slovenskega. Je bilo
pa tudi zelo zanimivo to naše
soočanje na različnih nivojih,
tudi med ravnatelji smo se srečali
in na zavodu za šolstvo. In se mi
zdi da smo to leto prvič dejansko
sodelovali. Na začetku je bilo neke
okornosti, drugačnih gledanj…
sedaj pa, z dobro mero dobre volje
in želja po tem da bi se še naprej
srečevali in da bi vse čim boljše
uspelo, smo vse to premagali in tudi
uspeli. Kot tudi sprašujem malo
34
soltanto nelle cartine geografiche,
ma sono caduti realmente. E questa
dijake vidim veliko nasmejanih
obrazov. Danes sem nalašč prišla v
Koper nekaj prej in sem se podala
z njimi do Pirana, sem se pomešala
z dijaki in opazovala če dejansko
prihaja do izmenjave…ker pač
večkrat se zgodi da so projekti
zelo lepi, lepo nastavljeni, ampak
konkretne izmenjave med osebami
ni, ali je zelo pomanjkljiva. Tokrat
sem opazila da so bile v večini
primerov skupine pomešane med
sabo, se pogovarjali, tudi jezika
sta se prepletala. In to je zame že
neke vrste rezultat, ne glede na to
da so tudi predstavili svoja dela in
projekte. Pomembno je to da so
nekaj skupaj naredili, da so se med
sabo pomešali in da so videli da,
v bistvu, niso tako različni. Zdi se
mi da so v večji meri premostili
te tako imenovane stereotipe,
oziroma kalupe v katere smo nekje
vklenjeni vsi skupaj.
secondo me è la cosa più importante,
perchè noi vogliamo dare vita a
un’Unione europea coesa, unita nella
diversità.
Si è svolto tutto come avevi
immaginato prima di partecipare?
Immaginavo di trovare maggiori
difficoltà a svolgere questo lavoro e
invece è stato veramente facile perchè
tutti i ragazzi erano entuasiasti e c’è
stata subito una collaborazione stretta
sia tra noi che con gli insegnanti. E’
stata un’esperienza che credo ci aiuterà
a crescere anche come persone.
La città
Ragazzi del “Gian Rinaldo Carli” a Barcellona
Dal 24 aprile al 30 aprile di quest’anno gli allievi che studiano lingua spagnola del “Ginnasio Gian Rinaldo
Carli” di Capodistria hanno partecipato all’escursione a Barcellona. L’escursione, con lo scopo di far conoscere
questa città cosmopolita, la sua cultura, le lingue, le tradizioni, la gastronomia e il turismo, è stata denominata
“Conoscere Barcellona”.
Gli allievi e le due professoresse che accompagnavano
gli alunni, la professoressa di spagnolo Selma Širca
e la professoressa di psicologia Elena Bulfon, hanno
organizzato l’escursione con l’aiuto di guide locali. È
stato proprio grazie a loro, che ci hanno guidato da Lloret
de Mar (Costa Brava), dove il nostro gruppo alloggiava,
a Barcellona, che abbiamo conosciuto i lunghi più
significativi e i monumenti più importanti della città.
Gli allievi di spagnolo sono stati divisi in 6 gruppi con
l’obbiettivo di osservare i vari monumenti e di lavorare
insieme per approfondire sul posto le conoscenze su
Barcellona. Così abbiamo potuto ammirare e contemplare
luoghi come l’impressionante cattedrale Sagrada Familia,
non ancora ultimata, del rinomato architetto catalano
Antonio Gaudí, il parco di sua progettazione, il Parc
Güell e attraversando la Avinguda Diagonal, la Gran
vía, abbiamo contemplato la casa Milà. Nel quartiere
Eixample, abbiamo poi visitato l’acquario di Barcellona
(Aquarium Barcelona) con i suoi acquari, tra i più grandi
d’Europa per quanto riguarda il mar Mediterraneo, siamo
saliti sul monte Monjuïc con il suo castello e lo stadio,
che ci ha offerto una panoramica sulla città e sul porto
davvero spettacolare, così come abbiamo potuto godere
dello scenario dello stadio Port Nou con il museo della
squadra di calcio del Barcelona. Il nostro percorso ci ha
portato verso Barceloneta per infine immergerci tra la folla
del centro di Barcellona passeggiando per Las Ramblas e
il Barri Gòtic.
Abbiamo gustato la tipica gastronomia catalana e
spagnola facendo lunghe passeggiate per il centro di
questa metropoli affascinante. Gli allievi hanno potuto
usare la lingua spagnola imparata a scuola, cercando di
familiarizzare anche con la lingua catalana che è una delle
due lingue ufficiali in Catalogna.
La sera abbiamo assistito ad uno spettacolo di flamenco
con canti e balli in una suggestiva sala a Santa Susana
a pochi chilometri da Lloret de Mar sulla Costa Brava.
Oltre a Barcellona abbiamo potuto osservare il fenomeno
del turismo di massa sviluppatosi soprattutto sulle coste
mediterranee della Spagna. Il nostro viaggio si è concluso
alle prime ore del mattino del 1° maggio.
Il lavoro fatto dagli allievi durante l’escursione sarà
presentato a scuola alla fine dell’anno scolastico.
Selma Širca
Una parte del gruppo in Pla
Plaçça de Colon dopo la prima giornata trascorsa a Barcellona.
35
La città
Giulio Coniglio e la raccolta delle olive
Libro realizzato dai bambini della scuola di Semedella
Il 27 maggio scorso gli alunni della Scuola elementare italiana di Semedella, presso Capodistria, hanno
presentato un libro preparato da loro, ispirato dal racconto “Giulio Coniglio” della scrittrice per l’infanzia
Nicoletta Costa.
L’anno scorso avevano incontrato Nicoletta Costa presso
la sezione italiana della Biblioteca centrale “Srečko
Vilhar” di Capodistria, ora le alunne della seconda
classe della Vergerio il Vecchio di Semedella, si sono
ripresentate di fronte alla scrittrice con un libro tutto loro.
Prendendo spunto dal racconto “Giulio coniglio”, seguiti
dall’insegnante Silvia Furlanič, hanno immaginato e
raccontato una storia ambientata in Istria, durante la
raccolta delle olive. Un libro con tanto di disegni al quale le
vispe ragazzine hanno fatto accompagnare raffigurazioni
I lavori preparati dagli alunni
Poi questi bambini sono stati eccezionali, hanno veramente
lavorato tanto, hanno interpretato Giulio Coniglio che è il
mio personaggio preferito in questo momento e mi hanno
dato molta soddisfazione, sono stati molto bravi”.
Nika, Pilar, Aida, Ana, Ilaria e Lara
inerenti al racconto prodotte su legno, vetro, piastrelle e
quant’altro. Alla presentazione ha partecipato la stessa
Nicoletta Costa che ha rilevato l’importanza per una
scrittrice per l’infanzia di incontrare e confrontarsi con il
suo pubblico.
»È importantissimo – ci spiega la scrittrice – perchè il
primo riscontro che ho del mio lavoro, dei libri che faccio,
è quando ne parlo con i bambini, quando i bambini che
hanno letto il libro me ne parlano. Allora il libro diventa
reale. Prima era soltanto qualcosa nella mia testa.
Nicoletta Costa, Giulio Coniglio e Silvia Furlanič
La Città è il foglio semestrale della CI di Capodistria. Responsabile Alberto Cernaz.
Stampa Pigraf s.r.l. Isola. Tiratura 1300 copie. Si invia gratuitamente ai soci.
Indirizzo: Comunità degli italiani, Via Fronte di liberazione 10, 6000 Capodistria.
NUOVO INDIRIZZO EMAIL: [email protected]
Foto in copertina: Arcobaleno su Capodistria (Gianni Katonar).
36
La città
Concerto di canti patriarchini
aquileiesi al Duomo di Capodistria
Il Duomo di Capodistria era quasi troppo stretto per ospitare tutti gli amanti della musica che hanno voluto
sentire il canto patriarchino aquileiese, intonato a Capodistria dopo ben cinque secoli, intonato in un singolare
concerto organizzato dalla Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di Capodistria sui testi originali da essa custoditi.
È stata un’occasione unica poi, per sentire il suono dell’organo del Duomo di Capodistria, un famoso “Callido”
(Gaetano Antonio Callido, Este, 14 gennaio 1727 – Venezia, 8 dicembre 1813), organaro italiano che in 44 anni
di attività costruì ben 430 organi, dal suono delicatissimo ma deciso.
Il Reparto di storia patria della Biblioteca centrale »Srečko
Vilhar« di Capodistria custodisce, tra gli altri cimeli, anche
una preziosa raccolta di codici musicali, perlopiù Graduali
e Antifonari del sec. XV. Per sottolineare l’importanza dei
preziosi testi e renderli noti al vasto pubblico ci siamo rivolti
al maestro Luigi Donorà che li ha studiati anche dal punto di
vista musicologico oltre che bibliografico. I canti del Graduale
(1500) e Antifonario (1503) sono una particolare forma di
canto gregoriano, detta canto patriarchino aquileiese, che era
in uso in Istria almeno fino alla fine del sec. XVI. Il maestro
Donorà ha scelto cinque canti e li ha trascritti e armonizzati
dall’antica notazione quadrata, chiamata anche notazione di
Guido D’Arezzo, nella notazione moderna. Tali canti sono
stati poi eseguiti in concerto nel Duomo di Capodistria (17
aprile c.a.), dal soprano Giovanna De Liso dell’Opera di
Torino e dal tenore Rusmir Redžić dell’Opera di Lubiana,
accompagnati all’organo dallo stesso maestro Donorà.
»I codici della Biblioteca Civica di Capodistria - così il
maestro Donorà - contengono quella particolare forma
di canto gregoriano denominato canto patriarchino che
serviva a solennizzare la liturgia celebrata nella Basilica di
San Marco e in altre chiese del Patriarcato di Venezia. Il
particolare schema liturgico della Basilica di San Marco era
eseguito in altre chiese della Serenissima, ma anche in Istria
e Dalmazia. Il canto patriarchino si completa in due forme
pricipali: il Graduale e l’Antifonario.
Il canto patriarchino dei nostri codici è scritto in notazione
“quadrata” su tetragramma, con sottoposte in scrittura gotica
i relativi testi latini, variabili secondo il calendario dell’anno
liturgico. I canti necessiterebbero di uno studio accurato
sotto ogni punto di vista, sia melodico che estetico, con una
profonda conoscenza del canto gallicano, mozarabico e
romano, onde compararli con i canti gregoriani intonati nella
sede di Roma e con quelli della sede di Aquileia«.
Partendo dai nostri codici musicali, il maestro Donorà ha
trascritto e composto originali composizioni per organo e
tenore, organo e soprano, rendendo in questo modo il canto
patriarchino in qualche modo più ascoltabile anche dal nostro
orecchio ormai sordo a questo tipo di musica. Operazione ardua
è stato l’improbo compito dell’armonizzazione del “cantus
planus”, con tutte le difficoltà legate all’armonizzazione del
canto modale del canto gregoriano. L’armonizzazione con
accordi, per citare nuovamente il maestro, nel canto modale
della chiesa cristiana non viene accettato, proprio perché il
“cantus planus” è nato ancora quando non si conoscevano
minimamente le prime combinazioni della diafonia, e se
vogliamo della polifonia. Il risultato di questo lavoro di
filologia musicale oltrecché di armonizzazione e creatività
artistica, è stato il concerto che abbiamo organizzato nel
Duomo di Capodistria, un avvenimento unico di questo
genere mai realizzato non soltanto nella nostra città ma ben
oltre.
Per la biblioteca e per la Città, è senz’altro il modo migliore
per studiare, rivalutare e pubblicizzare il prezioso patrimonio
librario che ci è dato in custodia e presentarlo al vasto
pubblico. In questo modo conosciamo meglio e diamo
nuova linfa ai libri, alla cultura e alla nostra eredità culturale.
Soltanto in questo modo, si completa e si arricchisce anche il
significato della biblioteca nel suo territorio, non soltanto nel
ruolo di tutore del patrimonio librario, ma anche e soprattutto
come ente culturale vivo e intraprendente e che si assume
l’obbligo, oltre che di custodire, anche di studiare e rivalutare
il ricco patrimonio culturale di queste terre.
Ivan Marković
37
La città
Freschi di stampa
»Capodistria 1947. L’ultimo confine«
Libro intervista di Edoardo Gridelli con don Lucio Gridelli, sacerdote triestino che racconta il periodo passato
nel Seminario di Capodistria alla fine del secondo conflitto mondiale. Il volumetto, edito da »Franco Rosso
editore«, parla tra le altre cose dell’aggressione subita dal vescovo Santin e presenta anche una serie di foto
inedite scattate in quel periodo. Ho avuto ospiti Edoardo e Lucio Gridelli negli studi di radio Capodistria. (a.c.)
Sulle vicende del Seminario di
Capodistria è stato scritto già
parecchio. Perchè ha ritenuto
opportuno pubblicare questo libro
testimonianza?
EDOARDO: Un motivo è sicuramente
il periodo a cui sono molto legato, non
solo per le testimonianze di Lucio. Il
secondo motivo, mi piace la storia in
generale, mi piace la storia »equa«,
perchè molti storici dicono che non
ci può essere equità nel raccontare
la storia. Posso esser d’accordo e
anche no, cioè la storia non può
avere due facciate, l’importante è
avere testimonianze di ogni parte
soprattutto se queste testimonianze
vengono riportate con candore e
pulizia mentale. Un confronto dopo si
può cominciare a fare.
I semplici ricordi personali a volte
aiutano a capire determinate vicende
storiche, più che un articolato libro
di storia.
Per forza di cose sì. Il libro è nato
38
anche quando Lucio mi ha detto:
»Sai, io ho delle fotografie di allora«.
Come? Hai delle fotografie? E
ho pensato opportuno pubblicarle
assieme a quest’intervista.
Don Lucio, ha accettato subito la
proposta di Edoardo.
LUCIO: Subito e volentieri. Perchè
di recente un gruppo di scout mi ha
chiesto di raccontare le esperienze dei
tempi di guerra globalmente intese,
e questa di Capodistria è una delle
vicende di cui mi sono sentito più
partecipe. Avevo cercato forse per
un certo tempo di cancellarla, perchè
il dispiacere di quanto avevo vissuto
era rimasto. Però ti rendi conto che
raccontarlo, con onestà, possa aiutare
a capire il passato, in barba al discorso
se la historia est magistra vitae o no,
mi sembrava utile che si sapessero
certi particolari per capire meglio il
presente.
»Spesso – scrive nella postfazione
– la verità viene tenuta per chiusa
in un cassetto nella segretezza di
un vecchio rullino fotografico«. Nel
libro vengono infatti pubblicate per
la prima volta delle foto scattate in
quei concitati momenti di 60 anni
fa. Don Lucio, come mai decise di
scattarle?
A quei tempi la macchina fotografica
era una cosa rara. Credo che in
seminario nessuno la possedesse. E
sono andato dal fotografo Pizzarello
il quale, a suo rischio e pericolo,
me ne ha prestata una. E quindi mi
è sembrato che fissare in immagini
quelle cose sarebbe stato qualcosa di
significativo.
Edoardo, in prefazione leggiamo
brevi note di Claudio Magris e dello
storico Roberto Spazzali…
EDOARDO: Sono due nomi di
prestigio che hanno notato, penso,
l’importanza che possono avere 10-12
fotografie e la testimonianza di mio
cugino, pulita, serena, obiettiva.
Don Lucio, a distanza di tanti anni le
cose si vedono più offuscate o nitide?
LUCIO: Direi più nitide perchè si
inquadrano meglio, intanto su altre
testimonianze sui medesimi fatti, e poi
si ragiona anche su altri elementi, una
visione più complessiva della storia.
Magris parla di »sguardo oggettivo«
su quella che reputa »un’indegna
violenza«.
EDOARDO: Sono completamente
d’accordo. Ma vorrei cogliere
l’occasione di chiedere una cosa al
pubblico. C’e’ una piccola nicchia che
Spazzali ha detto, cioè stranamente non
c’è nessuno, o almeno non è risultato
ne a me ne a Spazzali, che abbia detto
nulla di chi stava dall’altra parte in
quel momento. Cioè se c’è qualcuno
tra coloro che allora manifestò contro
la presenza di Santin, che si faccia
avanti. Mi piacerebbe altrettanto
intervistarlo e altrettanto riproporre
la visione dall’altra parte, perchè la
storia deve essere non univoca ma
»biunivoca«.
Ricordiamo allora per sommi capi
quanto accadde quel 19 giugno del
1947 a Capodistria. Allora la città
è sotto amministrazione militare
jugoslava; è la festa del patrono,
quando per antica tradizione si
faceva la processione. Da Trieste
arriva il vescovo Santin e un gruppo
di persone venne a manifestare
davanti al seminario.
E’ arrivata
inizialmente
una
delegazione che ha chiesto di parlare
col vescovo con questo messaggio:
La città
»Lei è compromesso col fascismo,
noi non vogliamo che tocchi i nostri
bambini«. Monsignor Santin deve
aver risposto – non so perchè non
ero presente – che lui il suo dovere
(di impartire la cresima, ndr) doveva
farlo, e loro se ne sono andati. Son
tornati dopo mezz’oretta, un gruppo di
40-50 persone, alle quali dopo si sono
aggiunte molte altre. Gente, a quanto
mi hanno raccontato i capodistriani,
portati via via coi camion dal contado
e si è raggiunto un numero di parecchie
centinaia.
Tutti del circondario?
Qualche capodistriano probabilmente
c’era, anche perchè nel libro cito due
che sono arrampicati sul muro – quelli
erano capodistriani. Ma certamente
tutto era stato ben organizzato.
Ricordo bene questo particolare:
quando entravano, gridando dal cortile
esterno, arrivavano estremamente
adagio, di modo che ci fosse tutto il
modo di vedere, di capire, di sentire.
E racconto nel volumetto che un prete,
ormai defunto, Don Raffaele Tomizza
e un seminarista, morto anche lui in
un incidente d’auto, Pippo Dreossi…
ci siamo messi davanti alla porta, così
in un gesto simbolico di difesa. E la
gente, organizzata da quello stesso che
era venuto per parlare col vescovo,
gridava questo slogan: »Rispettiamo
le vostre divise, ma vogliamo fuori il
fascista«.
Le divise?!
Eravamo vestiti in veste cotta. Infatti
l’unica violenza nei nostri confronti
è stata quella di metterci fuori dai
piedi. Null’altro. Avrebbero potuto
schiacciarci, volendo. Poi, e questo
ha fatto già sorridere diverse persone,
resomi conto che avevano già sfondato
la porta, che stavano entrando e che
non potevo far niente, son corso per
le strade di Capodistria cercando la
polizia, ossia la Difesa popolare. Che
ovviamente non ho trovato. Non solo
loro, ma anche nei palazzi ufficiali,
non c’era segno di vita; per cui mi
son reso conto che stavo cercando
qualcosa di sbagliato. Il tempo
era sufficiente perchè accadesse
tutto quello che doveva accedere.
Quando son ritornato in seminario
gli aggressori erano spariti. E questa
rimane una delle cose misteriose…ma
neanche tanto infondo. Probabilmente
avevano delle intenzioni molto precise,
di manifestare la violenza, ma di non
arrivare alle estreme conseguenze.
Tutto però non finì li.
Tutto non finì li. Fra parentesi alcuni,
e questi credo capodistriani, erano
entrati in cucina del seminario a prender
dei coltellacci. Per cui c’erano delle
frange chiamiamole »irregolari«. La
gente di Capodistria diceva – ma sono
quelle cosa da prendere con beneficio
di inventario – che l’intenzione era di
mettere il cadavere del vescovo sotto
la Loggia circondato da quei cartelli.
Quanto questa possa valere, non lo
so. Quei cartelli ci sono, e i coltellacci
c’erano anche. Però la parte ufficiale
era conclusa, finita, sparita. C’era,
questo l’ho raccontato anche, una
cosa stranissima: in refettorio dove
il vescovo era arrivato c’era lui con
alcune suore e i seminaristi intorno
che lo soccorrevano, era un momento
smarrito, probabilmente per i tanti
colpi ricevuti; e c’era un tizio, un
giovane signore, elegante, ben vestito
con occhiali scuri, con un giornale
arrotolato in mano, appoggiato in un
angolo. Che guardava. E so che gli ho
chiesto: »Ma scusi, lei cosa fa qua?«
Mi rispose: »A, io sono venuto da
Trieste col vaporetto perchè capivo
che sarebbe successo qualcosa«. Poi
il discorso è finito lì. Poi sono arrivati
alcuni agenti in borghese e la cosa ha
preso una svolta diversa. Le autorità
hanno dovuto prendere in mano la
situazione. Immagino che l’uomo
fosse uno della polizia politica che
stava controllando la situazione.
Dunque l’impressione sua è che
l’aggressione al vescovo sia stata
montata dall’alto?
Questo l’ho capito dopo, un po’.
Montato dall’alto e anche dei criteri
ben calcolati. Degli scatenati lo
avrebbero anche ammazzato, ma i
responsabili non intendevano arrivare
a questo.
L’obiettivo era il clero in se’ o
proprio la figura di Santin?
In quel tempo era in atto una vera e
propria ostilità nei confronti della
religione, perchè al di là di Santin,
hanno aggredito Monsignor Ukmar
nella parte slovena, hanno ammazzato
Bulešić, quindi anche persone non
italiane. Certo, in Santin si univa la
massima espressione della Chiesa
locale con una persona italiana
istriana. Quindi, se l’espressione
può passare per una vicenda così
delicata, ‘due piccioni con una fava’.
Quindi ambedue gli aspetti. E quindi
da un lato la repressione religiosa, e
dall’altro scoraggiare la resistenza di
chi intendeva restare a Capodistria,
che sperava in un avvenire diverso e
cose di questo genere.
I sacerdoti erano comunque
un punto di riferimento per la
popolazione.
Sì. E in quei tempi più che non oggi.
Poi Santin venne scortato in camion
per il ritorno a Trieste, da dove poi
non tornerà più in Istria…
C’era la difficoltà di riuscire a
portarlo via. Più avanti racconto delle
perquisizioni nel seminario in cui sono
venuti alcuni della Difesa popolare
coi quali ho chiacchierato del più e
del meno. Loro mi raccontarono che
quando hanno formato un cordone di
polizia per permettere a Santin di uscire
la gente si è scatenata per davvero e
ha calpestato alcuni poliziotti. Cioè la
gente era stata così aizzata che non la
faceva per scherzo. Per portarlo via
hanno fatto accostare tre camion a
sponda bassa riempiti di agenti della
Difesa popolare. Su quello di mezzo
hanno fatto salire il vescovo con uno
dei preti del seminario, e via.
Questo episodio rompe un certo
equilibrio che, nonostante tutto, a
Capodistria ancora si manteneva.
Poi però venne chiuso il seminario.
Con quale motivazione?
Nel mio libro ho pubblicato tre
lettere, una del Comitato distrettuale,
cioè la Provincia, e due del Comitato
cittadino, cioè il Comune. La prima
diceva semplicemente che per
necessità militari dobbiamo requisire
il seminario. Punto e basta. Siccome
da parte del seminario c’è stato
un ricorso, probabilmente allora è
emersa l’idea. Apro una parentesi:
il rettore di allora Monsignor Labor,
39
La città
aveva da poco licenziato il portinaio
per motivi che non ho il bene di
sapere…un Nazario, detto Iaio,
guardacaso. E si dice che lui avesse
fatto la spia alla polizia che le suore
avevano accumulato tanti viveri. Cosa
comprensibile in momenti di crisi –
perchè c’era fame in quel tempo; però
si prestava certamente a un’accusa di
sabotaggio economico. Quando poi
di fatto è stato perquisito l’ambiente
e parecchi di questi viveri sono stati
trovati guasti, allora l’accusa di
sabotaggio economico evidentemente
era inevitabile. E quindi sì, si è rotto
l’equilibrio nel senso che ci sono stati
questi due ultimi passaggi – l’arresto
del rettore Mons. Labor, e la chiusura
del seminario – che hanno tolto
ulteriori presenze religiose e italiane
a Capodistria.
Vogliamo spendere due parole su
Mons. Marcello Labor, ex rettore
del seminario capodistriano. Un
ebreo convertito al cristianesimo
del quale è in atto il processo di
canonizzazione…
E’ interessante, lui era stato direttore
del seminario fino al ‘43-’44, e
dicevano i seminaristi di allora che
aveva il fervore del convertito. Era
un po’ rigido. Un giorno – e questo
me l’ha raccontato lui - sono venuti
da lui due soldati delle SS a offrirgli
del cianuro di potassio, in quanto
ebreo. Lui ha rifiutato dicendo che se
volevano ammazzarlo, lo facessero
pure, ma che il cianuro non lo
prendeva. Il vescovo l’ha saputo e l’ha
trasferito in un paesino della Bassa
veneta dove ha fatto il cappellano per
un paio d’anni. Ecco, chi lo conosceva
prima e chi lo ha visto dopo, l’ha
visto cambiato tanto. L’aver vissuto
due anni in una parrocchia lo aveva
messo a contatto con una realtà molto
più terra terra. E ricordo bene la
prima messa che ha celebrato al suo
ritorno, la festa di S.Pietro e Paolo del
‘45, appena arrivati i soldati di Tito.
E ricordo ancora una sua frase. La
lettura parlava che Pietro arrestato da
Erode venne liberato dall’angelo, e la
frase era questa: »Adesso ho capito
davvero che Dio ha mandato il suo
angelo e mi ha liberato dalle fauci di
40
Erode e dalle aspettative del popolo«.
Era sfuggito ai tedeschi e non sapeva
ancora che non sarebbe sfuggito ai
giudici di Tito. Comunque per due
anni è vissuto lì tranquillo, poi è stato
arrestato con questa accusa. E’ stato
condannato ad un anno se non sbaglio,
e poi condonato a metà pena, per cui
questo accadeva in agosto e durante le
vacanze di Natale è arrivato a Trieste.
Altra frase che mi sono segnato: »Un
fatto che per noi è stato una grossa
fregatura è stato questo: i comunisti
italiani erano prima comunisti
e poi italiani, cioè sinceramente
internazionalisti; mentre quelli
sloveni erano prima sloveni e poi
comunisti; e quindi si sono serviti
dei comunisti italiani che poi sono
stati cacciati a loro volta. Gli stessi
che costituivano le autorità politiche
dei primi giorni«.
Di questo ne son ben convinto. Per
cui quando Edoardo diceva di trovare
qualcuno dell’altra parte…questi
stessi ad un certo momento…non
dico che si siano convertiti…ma
han dovuto rinunciare a certe loro
posizioni per dati di fatto, insomma.
Infatti quei documenti che citavo
prima son tutti firmati da persone
italiane, Deste per il Distretto e Piva
per il Comune. Capodistria. All’epoca
l’autorità locale era fatta da italiani.
Don Lucio, nel ‘47 lei aveva 19 anni.
Poi è più tornato a Capodistria?
Direi che per almeno vent’anni no. Poi
è venuta a trovarci una nostra vecchia
amica, un’amica slovena che da
Decani si era traferita a Capodistria.
Poi sono andato io a trovarla. Erano
passati decenni perchè veramente il
dispiacere del ricordo, soprattutto deli
amici che avevano dovuto fuggire,
mi era rimasto sullo stomaco e non
riuscivo a superarlo. Queste persone
che poi tra l’altro, una volta venute
a Trieste, erano tutt’altro che trattate
bene, messe nei campi profughi.
Ha riannodato i contatti coi colleghi
seminaristi?
Con quelli che sono venuti a Trieste
sì. Nella mia classe c’erano solo due
croati che però nel ‘45 furono trasferiti
da Capodistria. C’erano tensioni
interne, per cui i vescovi hanno deciso
di tenere a Capodistria solamente i
seminaristi italiani e di mandare gli
sloveni a Gorizia e i croati a Pisino.
Anche con loro qualche volta ci siamo
sentiti.
Avendo collaborato con l’Opera
Figli del popolo avrà conosciuto il
capodistriano Don Marzari.
Certamente sì. L’ho avuto a Capodistria
per un trimestre, professore di
filosofia. Ed è stato, devo dire, in tanti
anni di studio, l’unico trimestre che
mi sono entusiasmato per la filosofia.
Peccato che era un semestre solo,
perchè subito dopo è stato arrestato
dai tedeschi e portato al Coroneo,
torturato come si sà, perchè presidente
del CLN (Comitato di liberazione
nazionale, ndr). L’ho rivisto molto
dopo quando oramai queste cose
erano tutte superate.
In visione futura, c’è un messaggio
che vorrebbe lanciare ai giovani,
sloveni e italiani, che ci leggeranno.
Senza dubbio. Di conoscere bene
la storia, non per motivo di ulteriori
rivendicazioni o vendette, ma per
rendersi conto che dalla dittatura,
dalla violenza, dalla prepotenza non
nasce mai nulla di costruttivo. Benchè
bambino, io ero vissuto parecchie
estati sul Carso e ho dei vaghi ricordi.
Un bel giorno è arrivata una grande
macchina nera a Tomaj per arrestare il
parroco, che poi è rimasto nostro amico
di famiglia. Lo portarono al Coroneo
solo perchè faceva catechismo in
sloveno. Questo è uno di quei ricordi
che mi sono rimasti. L’altro ricordo,
sul tram di Opicina c’erano spesso
due fascisti armati che controllavano
che la gente non parlasse sloveno.
Son quei vaghi ricordi di ragazzino
che però mi hanno fatto capire quello
che poi ho letto in maniera più seria
e più documentata, delle ingiustizie
precedenti, delle quali non sempre
si parla. Ora, la barbarie degli uni
non giustifica la barbarie dell’altro.
La vendetta non risolve i problemi.
Però per avere una visione pacata
della storia bisogna conoscere l’una
e l’altra cosa. Conoscerla, ripeto, non
per rinvangare; ma per dire che da
questo nascono solo digrazie.
La città
Premi della CAN, le motivazioni
A Matilde Crevatin, Nadia Vidovich e Lidia Colarich sono stati conferiti nel corso di una cerimonia solenne a
Palazzo Gravisi, i riconoscimenti istituiti dalla Comunità autogestita della Nazionalità Italiana. L'evento si è
svolto per la seconda volta, dopo il prologo dell’anno passato di quella che sembra destinata a diventare una
tradizione della CNI capodistriana.
Matilde Crevatin
La signora Matilde Crevatin è una instancabile attivista della CI di Crevatini. Figura positiva ed amata. Oltre a
partecipare alle molteplici manifestazioni della Comunità, a lei va il merito di aver saputo trasmettere ai giovani, con
rara sensibilità e amore, le tradizioni locali. Da Lei i giovani hanno imparato ad apprezzare e custodire. Ricorderemo
inoltre le lezioni di cucina che “nonna Elda” (come viene chiamata affettuosamente) tiene sia a scuola che in
Comunità.
Prof. Nadia Vidovich
L’impegno nel mondo della scuola della prof. Nadia Vidovich è sempre stato caratterizzato da professionalità e
serietà, condotto con discrezione e calore umano. Nata a Pola, dove ha frequentato l’Elementare e il Ginnasio
italiani, consegue la laurea in Romanistica all’Università di Zagabria. Nel 1960 si trasferisce a Capodistria dove
insegna al locale Ginnasio italiano del quale nel 1988 assume l’incarico di preside. Notevoli i suoi contributi anche
nel campo didattico, pedagogico e anche organizzativo. La prof. Vidovich è stata capace di trasmettere l’amore per la
lingua materna curandone tutti gli aspetti, sia quello linguistico che letterario.
Prof. Lidia Colarich
La figura dell’insegnante Lidia Colarich è una delle più significative della nostra Comunità nazionale. La sua attività
e partecipazione non si limitano soltanto al mondo della scuola ma anche in un ambito più vasto della Comunità
italiana. Nata a Fiume inizia la sua carriera scolastica nel 1958 impiegandosi presso la Scola elementare italiana di
Capodistria in qualità di insegnante di classe. Nel 1981 diventa direttrice della scuola. A Lei va senz’altro il merito
per l’apertura dell’asilo italiano di Crevatini nel 1982. Altro importante traguardo, nel 1990 la costruzione dello
stabile che ospita l’asilo “Delfino blu” nel centro storico. In Comunità si è sempre prodigata affinché vi sia un
costante collegamento tra la CI e il mondo scolastico.
Lidia Colarich, Matilde Crevatin, Nadia Vidovich ed il presidente della CAN Alberto Scheriani
41
La città
In Italia la Giornata del Ricordo dell’esodo, in Slovenia la Festa dell’annessione del Litorale alla Madrepatria.
Due ricorrenze in cui non c’è gran spazio per la riflessione. Da una parte e dall’altra del confine si tende ad
accusare gli altri. Muro contro muro. Pochi sono capaci di fare un discorso obiettivo che includa un minimo di
autocritica. Reputo tale il commento pubblicato dal Piccolo lo scorso 10 febbraio. (a.c.)
Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni
di Paolo Rumiz
A due settimane dal Giorno della Memoria, il 10 febbraio
- oggi - ritorna il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli
d’Istria e Dalmazia e ai morti nelle foibe. Torna con la sua
carica di emozioni forti e il suo seguito di dispetti
diplomatici fra Italia, Slovenia e Croazia. Ogni volta la
stessa storia. Quasi un tormentone a orologeria.
Come noto, per metterci una pietra sopra, Roma chiede a
Lubiana e Zagabria di concordare un atto simbolico di
omaggio ai due luoghi contrapposti della barbarie: le
foibe appunto, e la Risiera di Trieste, unico forno
crematorio nazista in terra italiana. Un doppio atto
catartico, si afferma. Una contrizione equanime e
simmetrica, come i due piatti di una bilancia.
Ma è qui il punto. So bene che molti non saranno
d’accordo, ma a mio avviso quella tra le foibe e il Lager
triestino è una falsa simmetria. Mi spiego. Noi chiediamo
ai nostri vicini di riconoscere una colpa loro, e in cambio
offriamo di dolerci di una colpa niente affatto nostra. La
Risiera è un simbolo pesante. Ma ha un difetto: venne
gestita da tedeschi, e Trieste era territorio del Reich.
È difficile che funzioni. È come saldare un debito con
moneta altrui. Perché non si cerca altro? Strano che
l’Italia antifascista non ci pensi. Di luoghi alternativi
ce n’è d’avanzo. Per esempio l’infame e italianissimo
campo di concentramento di Gonars in Friuli, dove civili
sloveni e croati furono fatti morire di fame; o il villaggio
di Podhum sopra Fiume, una Marzabotto firmata Italia del
‘42, con cento civili fucilati, incendio e deportazione dei
sopravvissuti.
Bambini nel campo di prigionia fascista di Arbe.
42
Sarebbe facile, ma temo che se le nostre controparti ci
dicessero davvero “offriteci un pentimento un po’ più
italiano”, saremmo colti da amnesia collettiva. Da troppi
anni il Paese evita il nodo del pentimento; si genuflette
ad Auschwitz ma sorvola sui delitti del Ventennio.
Squalifica i liberatori, li trasforma in occupatori,
minimizza quel regime che pure Fini ha dichiarato
“male assoluto”, e anziché chiedere scusa si limita a
costruire un’agiografia di “fascisti buoni” salvatori di
ebrei, o dedica strade a propagandisti del Ventennio.
Ma questo crea un rischio concreto: che il 10 febbraio
vada in collisione col 27 gennaio, o addirittura lo neghi.
L’equivalenza criminale tra foibe e lager triestino sembra
fatta per tirarsi dietro un’equivalenza politica:
nazifascismo=comunismo, mali assoluti entrambi. Ma
come possiamo sostenerlo senza negare proprio l’evento
fondativo del Giorno della Memoria, e cioè che il 27
gennaio a entrare ad Auschwitz fu l’Armata Rossa?
Non basta. Il 10 febbraio lascia intendere che pure noi
italiani abbiamo avuto la nostra Shoah. Le nostre vittime,
si dice, furono “martiri”. Ma il termine indica l’accettazione
della morte in nome di un’idea, cosa che non fu, tanto è
vero che non viene applicato nemmeno ai morti di
Auschwitz. Difendere questa parola non rischia di
sminuire l’orrore incommensurabile dell’Olocausto?
Da noi tutto è soggetto a lifting, dalla faccia dei primi
ministri alle leggi finanziarie: figurarsi il Ventennio. In
questa cosmesi Trieste ha una funzione-chiave. Qui i
liberatori dell’Est e dell’Ovest andarono a scontrarsi e la
ferocia vendicativa dei primi si scatenò come sappiamo.
Ciò ne fa una piazza irrinunciabile per la Destra. Il posto
ideale per equiparare i partigiani ai briganti e riciclare
i fascisti come difensori della frontiera minacciata dal
comunismo.
Ma se questo è il fine, allora il 10 febbraio e il 27
gennaio rischiano entrambi di svuotarsi di senso e
ridursi a un’autoassoluzione. In fondo la colpa dei forni
crematori è tedesca, quella delle foibe slava, e dunque
possiamo sempre concludere: innocenti noi, barbari loro.
Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti
di essere stati, ancora una volta, italiani “brava gente”.
Pensiamoci un attimo. Siamo l’unica nazione europea che
ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche
gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto
La città
per esigere scuse da altri. Ma allora a che serve questo
nostro 10 febbraio? A celebrare morti e confortare
profughi, come è doveroso, oppure ad assolvere gli
stessi squadristi che plaudirono alle leggi razziali?
L’Italia ignora che quelle leggi furono proclamate
settant’anni fa proprio a Trieste ed ebbero un tragico
preludio nella repressione contro sloveni e croati fin dal
1920, con diciotto (!) anni di anticipo sulla Notte dei
Cristalli. E pochi sanno che i “nostri” ebrei furono portati
a morire sulla base di liste tutte italiane, accuratamente
redatte nel ’39 dall’ufficio “anagrafe e razza”. Perché non
lo si dice chiaro?
Perché quel giorno infausto, di cui è appena trascorso il
settantesimo anniversario, è stato ricordato in tono minore?
Perché non s’è detto chiaro che quel tragico annuncio in
piazza Unità ebbe in risposta non un silenzio attonito ma
sette – ripeto, sette - ovazioni? C’è chi dice che le leggi
razziste dipesero dall’influenza tedesca, ma Mussolini
fu esemplarmente chiaro: “Coloro i quali credono che
noi abbiamo obbedito a imitazioni – disse - sono poveri
deficienti cui non sappiamo se dirigere disprezzo o pietà”.
Oggi in Italia si bruciano barboni, le ronde vanno a caccia
di “musi neri”, nelle banlieues è scattata l’emergenza
etnica, la presidenza del consiglio invece di unire il Paese
lo spacca drammaticamente. Lo stesso Fini e parte della
Destra sono preoccupati. Ma non è proprio questo che li
dovrebbe obbligare a tener desta la memoria per evitare
derive balcaniche al Paese? I Balcani non sono forse una
tragedia etnica costruita sul cattivo uso della memoria?
Invece l’antislavismo resta un pregiudizio vivo a Nordest,
e Trieste continua a essere un tappo formidabile sulla
Ostpolitik italiana. Il Muro è caduto vent’anni fa, il
confine con la Slovenia è caduto, ma la “svendita
dell’italianità” è ancora il termine insultante con il quale
certa nostra imprenditoria, per invocare protezionismi,
bolla in nome della patria ogni tentativo di accordo di
frontiera, lasciando così in apnea il porto di Trieste.
Non si capisce una cosa ovvia. La potenza tedesca si
basa su un pilastro: l’aver chiesto scusa. È questo che ha
dato credibilità all’espansione economica di Berlino a
Oriente. Noi – che con tutta evidenza ci siamo macchiati
di colpe minori - non l’abbiamo fatto, con la conseguenza
che l’allargamento dell’Unione europea a Est va a due
velocità. A Nord arriva alle porte di Pietroburgo; a Sud
non arriva a Punta Salvore.
Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni! Non si dice
che nel ’19, dopo i bei Ragazzi del Novantanove, sulla
frontiera arrivarono uomini neri a portare arroganza,
sopraffazione e morte. Si omette che decine di migliaia
di austriaci se ne andarono da Trieste a guerra finita
perché l’Italia aveva chiuso le loro scuole, dopo
che Vienna aveva lasciato fiorire la lingua italiana.
Si dice che Trieste fu “redenta”, ma non aveva nulla da
cui redimersi. Il porto funzionava, Vienna investiva cifre
enormi nello sviluppo, la rete ferroviaria era al top. Il
fascismo invece castigò l’Adriatico: la flotta passò al
Tirreno e Genova con Napoli saldarano il conto della
sconfitta navale di Lissa, inflitta 50 anni prima dagli istrodalmati sotto il vessillo dell’aquila bicipite.
Perché oggi si dedicano discorsi persino ai papalini uccisi
a Porta Pia, ma non agli istriani, dalmati, goriziani e
triestini che morirono sul fronte russo per obbedire al loro
imperatore? Per essi nemmeno un fiore sui Carpazi. Vanno
dimenticati solo perché disturbano l’immagine di Trieste
italianissima? Quanta storia inghiottita da un buco nero.
Giampaolo Pansa fa le pulci alla Resistenza. Benissimo.
La storia va sviscerata senza paura. Il problema è che pochi
fanno le pulci al fascismo. Chi parla delle repressioni
nella Trieste operaia, degli assalti agli sloveni e della loro
lingua negata? Chi dei cognomi italianizzati in massa, o
dei lager del Duce dove tanti bambini stranieri morirono
di stenti tra il ’41 e il ’43? Silenzio indecente su tutto,
anche sui 300 criminali di guerra mai passati in giudicato,
o sugli squadristi riabilitati nel dopoguerra.
È dal ’45 che la Destra persegue coerentemente questa
rilettura. Ora ha in gran parte raggiunto il suo obiettivo.
A furia di insistere ha ottenuto di fissare il Giorno del
Ricordo al 10 febbraio, data del “tradimento” (il trattato
di pace che ha ceduto terre a Tito) che mi pare scelta
apposta per fomentare revanscismi. Nulla è più pertinace
della memoria dei Vinti.
Il risultato è che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe
evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana.
Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si
sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica.
Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito
sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa, e il
giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A
meno che non sia proprio questo che si vuole.
Inverno 1947. I polesani abbandonano la loro città.
43
La città
Freschi di stampa
Marco Apollonio con «L’altra parte del cielo»
si avventura nel mondo degli emarginati
“Lo scampo gigante”, la Collana della
nuova letteratura italiana dell’Istria e
del Quarnero (per i tipi dell’EDIT) si è
arricchita di un nuovo volume: “L’altra
parte del cielo”, di Marco Apollonio.
Nato a Capodistria nel 1964, Marco
Apollonio viene annoverato in
quel gruppo di autori apparsi nel
panorama istro-quarnerino della
nuova generazione, quella maturata
nella seconda metà degli Anni
Ottanta, autori provenienti dal
mondo giornalistico ed universitario.
Grazie alla loro solida preparazione
culturale, tendono a immergersi
nell’indagine personale e allargata
del mondo spaziando tra la tradizione
e l’innovazione, la conservazione
e la sperimentazione, la ricerca di
un’identità linguistica in una situazione
di radicali mutamenti, di transizione.
Ha pubblicato, per la “Firenze Libri”,
la “Breve antologia dello humor
nero”, mentre per i tipi dell’EDIT,
in collaborazione con la Durieux, i
racconti “Corpi / Tijela”, usciti in
edizione bilingue italiano/croato.
Diversi dei suoi racconti sono stati
pubblicati sulle pagine della rivista
di cultura e letteratura “La Battana”
(EDIT) e nelle “Antologie” delle
opere premiate al Concorso di arte e
cultura “Istria Nobilissima” dove si è
guadagnato sempre ottime critiche.
Nel volume “L’altra parte del
cielo” l’autore si confronta con
una realtà sociale costituita sempre
più da emarginati, profughi,
extracomunitari, emigrati, con destini
segnati da un malessere profondo
e da un’esistenza vissuta ai margini
della società. Sono quattro i racconti
proposti: “L’altra parte del cielo”,
“Tempo”, “L’ultimo viaggio”, “Notte,
all’inizio”. Il primo è ambientato nel
Capodistriano, un “classico” giallo
con morti, scomparsi, depistaggi, il
coinvolgimento di servizi segreti,
traffici loschi e, naturalmente, un
esito inaspettato. Anche “Tempo” è
un racconto inquietante, che prende
spunto dal radiodramma di Dimitrij
Kralj “L’ascensore”, in cui due
persone, causa un guasto tecnico,
rimangono chiuse in un ascensore.
Cercando di immaginare il loro
stato di terrore, Apollonio guida il
lettore in un immaginario quanto
allucinante viaggio nel tempo, in
quel breve ma lunghissimo intervallo
che deve trascorrere fino alla fine
dell’incubo, con pensieri legati alla
scienza, alla filosofia, alla storia, alla
religione, riflessioni che presuppone
La prof. Elis Deghenghi Olujić, Marco Apollonio e Gašper Malej.
44
possano passare per la mente di
una persona in simili difficoltà.
“L’ultimo viaggio” propone una storia
ormai, purtroppo, comune, basata
su problematici rapporti familiari e
affettivi, dove l’indifferenza emotiva,
la falsità e l’incomunicabilità
portano
immancabilmente
all’alienazione e all’insofferenza
verso il prossimo. Uno stile
linguistico sintetico, privo di attributi
superflui, espressioni graffianti
che riproducono la lingua parlata.
Il miniracconto “Notte, all’inizio”
vede protagonista un extracomunitario
che si trova a subire le conseguenze di
un’esistenza vissuta ai margini della
società, in un ambiente non disposto
ad accettare diversità di alcun genere,
dove un semplice gesto di cortesia può
venire considerato come un’ipotetica
insidia. A testimonianza che la società
in cui viviamo non lascia spazio alla
fiducia verso il prossimo, soprattutto
se questi non si include nei limiti del
nostro immaginario mondo perbenista.
Di Marco Apollonio viene rilevata la
capacità di assorbire le suggestioni che
derivano dal suo bagaglio culturale,
una tradizione di riferimento per
creare una linea narrativa propria.
Attingendo al passato dà vita a nuove
percezioni sensoriali e psicologiche,
associando la tradizione all’influsso
delle esperienze letterarie più
recenti. La prefazione del volume
è firmata da Elis Deghenghi Olujić
che, nell’analizzare il repertorio
dei racconti di Marco Apollonio
ne sottolinea il pathos multiforme
e metamorfico, una narrativa che
“non si offre ad alcuna ambigua
interpretazione, bensì testimonia
come l’appartenenza ad una cultura
e ad una comunità minoritaria
non possono in alcun modo essere
sinonimo di inferiorità”. (tratto da La
Voce del Popolo)
La città
Santuari Mariani dall’Adriatico alle Alpi
La pubblicazione è uscita in
accompagnamento
all’omonimo
video prodotto su iniziativa della
Federazione delle organizzazioni
slovene – Svet slovenskih organizacij
in collaborazione con enti e istituzioni
delle Comunità nazionali slovena e
italiana del Friuli Venezia Giulia e
della Slovenia. Vuole sottolineare
la continuità storico-culturale del
territorio a cavallo del confine ormai
cancellato che si manifesta con la
religiosità delle popolazioni locali
espressa nel culto dei Santuari mariani
sorti in varie epoche nell’area che va
dal mare ai monti. Nel libro si compie
un pellegrinaggio virtuale attraverso
i santuari, da quello di Strugnano,
passando per Semedella e Muggia
Vecchia, fino a Barbana sulla costa e,
salendo fino al Monte Lussari. L’opera
– realizzata con fondi del programma
europeo Interreg, testi redatti da David
Bandelj – vuole altresì contribuire
alla consapevolezza che la concordia
e la pace quali elementi del comune
patrimonio spirituale dei popoli che
qui si incontrano, possano essere i
valori fondamentali delle convivenza
reciproca.
La Madonna di Strugnano
Sergio Settomini e Corrado Cimador, due degli
interpreti della compagnia capodistriana »'Cademia
Castel Leon«, all'incontro dei gruppi filodrammatici
delle Comunità degli italiani dell’Istria e di Fiume
svoltosi, quest’anno a Rovigno.
I genitori dei bambini dell'asilo »Delfino Blu« hanno
portato quest'anno in scena la favola di »Cappuccetto
rosso«. Lo spettacolo si è svolto venerdì 12 giugno al
cospetto di un folto pubblico di bambini, parenti e amici.
45
La città
Lettere dal Siam
Bangkok, 24 Aprile 2009
Dalle Bocche di Cattaro a Ulcinj
Viaggio, tra passato e presente, in terra montenegrina
Caro Alberto,
prima de tornar al caldo del Siam,
l’altro ano, go volesto, anca a seguito
de la tua bela serie televisiva su la
Dalmassia che ti ga fato insieme
a Damian Fischer (a proposito
complimenti a duti do!), andar a
riveder quele località che vevo visto
tante volte nei ani passai, ma che no
vedevo più da l’epoca dela Jugoslavia.
L’ultima volta no la posso dismentigar
quando con un marco ti vevi 2 milioni
de dinari! Jerimo duti milionari! Pecà
solo che per un gelatin ti dovevi
sborsarghene un intiero milion. Po’
xe andà anca pezo, ma la storia dei
due milioni per un marco, me ven in
mente ogni volta che penso a quel
paese, che par lontan, ma che al xe sai
vissin! Naturalmente per rivarghe go
fato, pian pian, duta la Dalmazia, ma
quel xe un altro discorso. Volevo solo
ricordar, a proposito de Dalmazia,
che un giorno ‘vevo sentì a Udine
una conferenza de un che ‘veva scrito
libri su Ragusa (Dubrovnik), ma che
nol saveva che esisti el corridoio de
Neum, che interrompi la Croazia (e
da secoli!), e tanto meno el perché
de quel corridoio. E che invesse al
ricordava solo el “ben” che se voleva
Ragusei e Venessiani. Per Ragusa,
mejo ver per confinanti i Turchi che
i Venessiani.
Insoma, lassemo la Croazia, subito
dopo traversà la Neretva, passemo
Neum, l’unico sboco al mar de la
Bosnia (grazie a Ragusa/Dubrovnik),
tornemo in Croazia, passemo sora
Dubrovnik e subito dopo, confin!!
Un confin no tanto semplice de
passar, ma a noi la ne va ben e se
fermemo subito dopo in un grande
albergo,
evidentemente
costruì
secondo i canoni del vecio regime,
ma ben tignù e vissin a un bel bosco
dove in mezo jera una villa de Tito.
L’albergo Igalo, in origine, serviva
evidentemente come alloggio per i
sui ospiti. Anche perché al se trova
in zona termale. Semo in un soborgo
de Herceg-Novi, proprio all’inizio de
Il Museo »Biljarda« di Cetinje.
46
le Boche de Cattaro. Za la sera, con
el sol che tramontava sull’Adriatico,
e con una iluminasion particolare,
le Boche le se presentava in modo
sai acativante. Prometteva ben per
i giorni che doveva rivar. Proprio
davanti a la finestra dela camera,
‘vevo el boschetto che scondeva la
vila de Tito, la Galeb (come el nome
del suo yacht).
Sula ponta del promontorio, che
praticamente xe l’inizio dele Boche,
riva anca el confin con la Croazia,
per cui dute le Boche le se trova in
teritorio montenegrin. Anche HercegNovi comunque no xe più quela de
una volta. Xe sta costruì quartieri novi
anca per ospitar un saco de novi rivai,
in general profughi serbi, rivai da la
Croazia e da la Bosnia per le vicende
de la guera 1992-95. La cità vecia
xe rimasta uguale, con la sua Torre
del Orologio (Sahat Kula) del 1667,
ma el resto gnanca de confrontar coi
tempi andai. Questo per quel che se
pol veder. Ma go paura che presto
cambiarà duto e sai de più de quel che
xe cambià fin desso.
Ve ricordarè de sicuro che da almeno
do secoli, la Russia ga sempre
sercà de meter el “zampin” in
Mediterraneo, sia che fussi la Russia
zarista, sia l’Unione Sovietica e sia
anca, per ultima fin adesso, la Russia
post-comunista. I Inglesi che proprio
mediterranei noi xe (come del resto
i Russi) ga sempre sercà de oporse.
El Mediterraneo jera un mar che lori
veva praticamente serà, col possesso
de Gibilterra a Ovest e de Suez a Est.
Po’ i veva Cipro, po’ i se jera afretai
a rivar a Malta, prima dei altri e anca
sensa andarghe direttamente, i ‘veva
ajutà Garibaldi a sbarcar in Sicilia,
proteto apunto dale navi inglesi, ma
i Russi no molava e la loro presensa
La città
la jera sempre preoccupante (per i
altri), tanto che dopo el teremoto de
Messina (1908), le prime navi che xe
atracade nel porto de Messina, jera
quele de una flota russa. Se tratava
de le navi “Makaroff”, “Giljak”,
“Korec”, “Slava”, “Tzésarévitch”
(secondo la traslitterazion del
Comune de Messina) al comando
del amiraglio Ponomareff, che al
‘veva praticamente preso in mano
la direzione dei socorsi, fasendo
adiritura fusilar duti i “sciacalli” che
andava a robar nele case teremotate.
Ma imediatamente dopo, come
un’ombra eco rivar la flota inglese,
mentre quela italiana xe rivada tanto
in ritardo che i ga dovesto ancorarse
nel porto, in tersa fila. Durante la
guerra ecco che i eredi del Zar, la
Unione Sovietica, ga sercà in duti i
modi de ripeter quel tentativo, sia con
la Jugoslavia (e Tito ghe se ga messo
de traverso), con l’Albania (dove
Mao ghe ‘veva subito dopo sbarà la
strada, ma anche in Grecia dove la
rivolta comunista de Markos la jera
stada stroncada sempre con l’aiuto
dei Inglesi. Insoma ancora una volta
la ghe jera andada mal ai Russi in
Mediterraneo. Ma adesso le robe le
sta cambiando e la prima roba che i
m’à contà, ciacolando con i locali, xe
che la mafia russa la xe rivada con
valige de soldi e che i compra duto.
Par che duti i terreni delle Boche i
xe ormai in man de la mafia russa. I
me ga anca indicà chi, ma no avendo
controprove, resto sule generali.
D’altra parte esisti a Budva l’Albergo
Splendid, che ga, fra le sue offerte,
quela de una suite (“presidenziale” i
la ciama) a 7000 Euro per note. No
la xe certo destinada ai lavoratori
montenegrini che i fa fadiga a meter
insieme el pranzo con la sena. Ma
evidentemente i clienti ghe xe!
Insoma, quel che i Russi no veva rivà
a far con la flota, i lo ga fato con la
valige (de schei).
A proposito de schei, in Montenegro,
la moneda uficial xe l’Euro, anca se
el Montenegro xe ben lontan de entrar
nela comunità europea. Prima ancora
i veva el marco tedesco (ancora in
uso in Bosnia dove i lo ciama però
“Bosanska Marka” o “Konvertibilna
Marka” e che ga el stesso valor
che ‘veva el marco tedesco). I
montenegrini i voleva anca far
risusitar la moneda che i’ veva adotà
quando che se ga formà, liberadisi dai
Turchi, el primo stato montenegrin
(solo nell’interno), cioè el “perper”
(nel 1906), ma po’, memori del
passato anche recente, i ga finì per
adotar una moneda straniera, prima
el marco e po’ l’euro.
Prima discussion linguistica (ma ghe
ne xe più de una): la parola italiana
“sperperare” deriva da perper,
“sperperare” cioè “butar via i perperi”,
ma se i perperi jera stai adotai solo
nel 1906, mentre la parola italiana
xe sai più vecia? Cussì da qualche
veloce ricerca (no son de sicuro un
numismatico e de perperi no vevo
mai sentì parlar) go scoperto che a
parte un non antichissimo uso del
perpero in Serbia, el primo perpero
xe sta conià dal Imperador Bizantin
Alessio I nel 1092 (perper voleva
dir “raffinado”). E da là el nome
xe rivà nela lingua italiana tramite
i venesiani ma forse anche tramite
i genovesi, dato che duti do i ‘veva
basi comerciali, apunto, a Bisanzio.
Le Boche le se trova in una classica
zona mediterranea, con clima
mite, palme lungo le rive (come a
Capodistria), ma basta alzar la testa, se
vedi una corona de monti spettacolosi,
ma inquietanti, una completa
anteprima de quel che trovaremo
nell’interno. Ma intanto femo el giro
dele Boche. No me ricordavo gnente,
a parte la piassa de Cattaro, co’ la
tore del orologio. Voi savé duti che
le Boche le penetra profondamente
nella terra ferma formando una specie
de fiordo, sai articolà. Se costeggia
prima el Golfo de Tivat, se riva a la
strozzatura de Verige, che xe el punto
più streto de le Boche, quel che le
rendeva praticamente inespugnabili
per le marine de setanta ani fa. Infati
l’Austria ne gaveva fato el porto
militare più importante per la sua
flota e altrettanto veva fato prima
Venesia. Nissuna nave nemiga ga mai
podù penetrar nele sue acque. Passada
sta strossadura (el canal ga solo 300
metri de larghezza), dove ghe xe anca
el traghetto che, in un quarto d’ora de
tragitto, te fa risparmiar de far duto el
giro dele Boche se ga una magnifica
vision dei bacini interni. Ma a noi ne
interessa veder le Boche e continuemo
oltre la strossadura entrando subito
nel Risanski zaljev. Un poco sula
destra, all’inizio del Kotorski
zaljev, vedemo de lontan, la famosa
cità de Perasto/Perast, che ne farà
parlar de un altro argomento che ga
passionà quei che se interessa de robe
“nostre”. Ma intanto proprio in mezo
fra i due golfi, quel de Cattaro e quel
de Risan, vedemo do isolete con su
ogniduna una ciesa. Vignimo a saver
che se trata de una ciesa ortodossa,
sull’isola de San Giorgio, che xe
un’isola naturale, e de la ciesa della
Gospa od Škrpjela, ciamada spesso
in italian Chiesa della Madonna dello
Scarpello, che però xe costruida su
una isola artificiale. Anca questa xe
una storia interessante, ma longa.
Sercaremo de contarla brevemente.
Una volta, in quel preciso posto,
Madonna dello Scalpello a Perasto.
47
La città
Scorcio di Cattaro.
esisteva una sola roccia che vigniva
fora del mar. Qualchidun conta desso
che la veva la forma de un scalpel,
dal qual derivaria el nome italian de
Madonna dello Scalpello. Un giorno
ven trovado vissin a la rocia un
quadro de una Madona che galegiava.
Subito ven fato un voto e cioè quel
de costruir sul posto una ciesa. Ma
la rocia jera tropo picia e alora i se
decidi de butar intorno a quela rocia,
altre piere, afondando anca barche,
in modo de formar una piataforma
bastansa granda de costruirghe sora
la ciesa. Un lavoro lunghissimo che
ga durà oltre un secolo e ancora ogi i
perastini, per ricordar quel grandioso
lavor, i usa far, el 22 luglio, una
procession de barche, ligade una
all’altra come in un fascio (e infati la
procession se ciama la “fassinàda”) e
i va a butar una piera atorno all’isola.
Quela roccia, che i disi la sia stada
a forma de scalpel, la xe stada
inglobada nela ciesa, costruida sora.
Mi la go vista, ciesa e roccia, ma no
go visto assolutamente somiglianze
col scalpel. In inglese sta ciesa (Gospa
od Škrpjela, Госпа од шкрпјела in
croato e montenegrin), la xe ciamada
Church of “Our Lady of the Rocks”
e in tedesco “Unsere Liebe Frau vom
Riff” che, evidentemente ga a che far
con la roccia, ma no col scalpel. E
alora se presenta la seconda discussion
linguistica. Vegno a saver che la gente
del posto la rocia i la ciama škrpjela,
48
ma anca questo no vol dir gnente dato
che el termine local per rocia saria
podù derivar dal nome dela ciesa e no
viceversa. Infati in nissun altro posto,
che mi sapia, la rocia ven ciamada
škrpjela o con un termine simile. Go
invesse sentì un’altra version e che
el nome škrpjela saria sta dado a la
ciesa, in omagio a la località greca
(del resto non definida), da dove el
quadro saria rivà. Qua podesimo
continuar a l’infinito. Fermemose, se
no qualchidun se stufa.
A Perasto, incontremo la Dolores,
una perastina, che sarà la nostra guida
in Montenegro. La parla (quasi)
perfetamente italian, ma no la fa parte
de la Comunità italiana. La disi che la
comunità la xe bastansa ativa, anca se
non numerosa, ma per gran parte se
trata de gente rivada in tempi bastansa
recenti, quindi sensa radici profonde
sul teritorio. Anca se la lingua
italiana la xe conossuda da parecchia
gente, non necessariamente de etnia
italiana, per lo più atraverso l’ascolto
de la TV, se trata de una conossensa
abbastanza superficiale, tanto xe
vero che anca quei italiani, diventai
montenegrini de seconda generasion,
oramai no i parla più l’italian in casa,
per cui i fa comunque difficoltà a
parlarlo, pena pena per farse capir.
No jera cussì una volta, anche a
seguito dela apartenensa dele Boche
a la repubblica de Venessia dal 1420
al 1797, quasi 380 ani. In quei ani
el venessian al jera la lingua franca,
come ogi l’inglese nel mondo, e duti i
lo parlava o comunque i lo conosseva,
anca se no i jera venessiani. Anzi,
quando xe finida la Serenissima (23
Agosto del 1797), xe sta proprio
a Perasto che xe stado amainado
l’ultimo gonfalon Venessian. Ancora
ogi la comunità italiana, ricorda
quel avenimento, famoso per el
giuramento a la repubblica, fato dal
capitano conte Viscovich a nome de
tutti i Bochesi e conossù per el suo “ti
con nu e nu con ti”.
E alora ecco che se presenta la terza
discussion linguistica. In che lingua
xe sta fato el giuramento? Una
volta se conosseva solo la version
in venessian, ma dopo xe saltà fora
el testo, che i disi original, in croato,
e che xe sta publicà nel 1898 ne la
“Storia di Perasto” da un nevodo
(Francesco) del capitano Viscovich in
persona. Ma xe proprio quel l’original?
Altra discussion che podaria no finir
mai! Qualchedun infati se dimanda:
“perché el testo croato xe saltà fora
solo tanto dopo quel in venessian?” E
subito otien la risposta: “e perché la
“Stele de Rosetta” la xe stada trovada
solo 1995 ani dopo che la jera stada
scrita?”
Curiosità: la più monumentale,
completa e aggiornata storia del
Montenegro (edita nel 2006) la xe
stada scrita originariamente in italian
(no la xe tradota) da un Bochese,
Antun Sbutega, de etnia croata, nato
a Cattaro nel 1949 ma emigrà a Roma
nel 1991 a seguito de la guera. La xe
scrita anca in bon italian, ance se
no perfeto, e adesso el suo autor al
xe Ambassador de la Republica de
Montenegro presso el Vatican.
Xe un picio stato, el Montenegro,
un stato novo, ma tanto complicà
per storia, geografia, cultura, che se
ne podaria parlar tanto ma manca el
spassio e semo ancora a le Boche,
una picia parte de questa realtà. No
vemo parlà dele etnie minoritarie (i
Montenegrini xe meno del 50% de
la popolasion). No andaremo verso
l’Albania (la capitale se trova a soli 25
chilometri dal confin albanese e mi la
go conossuda come Titograd e fasso
fadiga desso a ciamarla Podgorica anca
se quel jera el suo nome precedente,
ma no el suo primo, che jera Ribnica).
Ma anca se no gavemo podù parlar
de Cattaro, Budva o Ulcinj, ne toca
lassar sto paradiso e inoltrarse verso
le montagne che circonda le Boche;
qualche volta le par protettive,
qualche altra minacciose. Comunque
le se alsa subito su da la costa, come
capita in duta la costa dalmata (salvo
la foce de la Neretva), da Fiume fin
zo a Ulcinj.
Lassemo la costa a Budva e in pochi
chilometri se riva a 1200 metri de
altitudine, da dove se ga un panorama
“mozzafiato” su la costa, sull’isola-
La città
albergo de Sv. Stefan e sull’altra isola
più picia, Sv. Nikola, proprio davanti
a Budva e adesso messa all’asta per
un prezzo base de solo 21 milioni
de Euro. Con un picio (miga tanto)
collegamento col Siam, de dove che
scrivo, visto che l’ex primo ministro
Tailandese, ora condannato e
ricercato, ma sempre amato da molti,
al concorri all’asta per crompar l’isola.
Paese molto ospitale, el Montenegro,
visto che a lui el Montenegro ghe ga
anca rilascià el passaporto dopo che
quel tailandese ghe jera sta revocà.
Ve sembrarà strano, ma proprio a
Cetinje, me vegnarà in mente un altro
colegamento con la Tailandia. Ma ne
parlaremo dopo.
Cetinje xe una picia cità, ma tempo fa
la iera la capitale (Prijestonica). La
nassi quando la dinastia dei Crnojević,
che iera sovrani del stato medioevale
de Zeta, decidi de stabilirse in un
posto sicuro dai atachi dei Turchi
e fonda un Monastero. Posto tanto
sicuro no iera, ma comunque per 200
e passa ani, i Turchi no i se veva fato
veder. Ma po’ el pasha de Scutari,
ga pensà ben de vignir quassù, in
vacansa a respirar aria bona, ma tanto
per confermar l’opinion che la gente
veva quela volta dei Turchi (ammazza
li Turchi!), al ga anca ben pensà de
distrugger la città completamente.
Circa un ventennio ga doperà i
Montenegrini per rimetterla in sesto,
ma poco ga doperà invesse el Visir
turco de la Bosnia, per tornar a farla
sparir de la carta geografica. Insoma
fra Turchi e Venessiani; xe quindi
solo a partir dal 1697, soto la dinastia
dei Petrović che la cità se ga ripreso.
No vemo de sicuro de perder tempo
a sercar case vecie, qua a Cetinje.
Sai poco xe restà e duto risali, grosso
modo, ai primi del 1800 (1838 per
l’esatessa) soto la guida de Petar II
Petrović Njegoš. Xe durante el suo
periodo che la località se trasforma
in cità e in quel ano incomincia la
costrusion del “Palazzo Reale”,
che al vegnarà ciamà la Biljarda.
Comico nome per un palazzo real
(al par una casa normale), ma al xe
dovudo al fato che in una de le sue
sale, jera sta instalà el primo tavolo
de biliardo, mai arivà in zona. Solo
nel 1878, comunque, col Congresso
de Berlin, xe sta riconossuda la
piena indipendenza del Montenegro
e xe stada fissada la capitale apunto
a Cetinje, che xe rimasta capitale
quando el Montenegro xe diventà
un regno (nel 1910), anche se la iera
calcolada la più picia capitale del
mondo, in quanto la gaveva, alora,
solo 5895 abitanti. La xe restada
capitale ancora per poco, perché za
nel 1918, el Montenegro xe entrà a
far parte del regno dei Serbi, Croati
e Sloveni, diventà subito dopo
Jugoslavia.
Perché tante parole per contar sta
storia? Ma perché el discendente de
Petar II, Nikola I Mirkov PetrovićNjegoš, oltre a esser sta l’unico re
montenegrin, al xe sta anca un grande
poeta, l’autore de la Balkanska Carica
e del popolar ino montenegrin Onamo,
‘namo! che secondo qualchidun
varia dovù diventar l’ino nassional
montenegrin.
Nikola I xe sta el pare de la principessa
Elena/Jelena Petrović-Njegoš, che
ga sposà el principe de Napoli, quel
che saria diventà re d’Italia. Cussì la
Elena/Jelena xe diventada “Regina
d’Italia, d’Albania e Imperatrice
d’Etiopia”. Ma prima de ver duti
sti titoli, quando ancora la jera solo
Principessa de Napoli, la xe stada
incontrada dal re del Siam (1897),
che alora jera Rama V. Go tradoto in
italian le letere che Rama V ga scrito
a la moglie principale, durante el suo
viagio in Europa e al parla anca de la
nostra “Jelena” in un modo no tanto
lusinghiero, ma comunque simpatico,
e per forsa me son dovesto ricordar
de lui durante la salida a Cetinje. La
lettera xe datada 7 Giugno 1897 e
la parti da Roma. Prima parla de la
Duchessa d’Aosta e disi che nol veva
mai visto “una donna bella come lei.
La Principessa di Napoli (la nostra
Jelena), invece, appare molto più
bella nella fotografia che dal vero.
È nota solo per i begli occhi e le
sopracciglia. Guardando più in basso,
sembra un uomo, con le braccia
magre, muscolose e pelose.”
Ghe xe su de ela anche ipotesi molto
poco piacevoli, quando la ga spinto
Benito Mussolini a crear el stato
fascista del Montenegro, nel 1941.
La voleva meter sul trono de Cetinje
el nevodo Mihajlo, ma questo se ga
rifiutà e i tedeschi lo ga subito sbatù in
galera insieme a la moglie Geneviève.
Vista la mala parada, la Jelena che
evidentemente la veva ancora tanta
influensa sui tedeschi, la xe rivada a
farli vignir fora duti do de la galera
tedesca. Picio stato, picia capitale,
picio palasso real, ma tanta storia,
tanti ricordi, tanti incrosi. Insoma una
bela esperiensa anca se tropo curta.
Programemo, un aprofondimento?
Se qualchiudun ghe interessa, me
pol contatar per posta eletronica a
[email protected]
Lucio Nalesini
Souvenir montenegrini
49
La città
In luglio torna Folkest
Cari lettori, anche quest’estate appuntamento tradizionale con Folkest, che si ferma da noi per per
offrirci tre serate di musica etno. I concerti si svolgeranno in luglio, uno all’estivo della Comunità degli Italiani
di Crevatini e due in Piazza Carpaccio a Capodistria. La manifestazione è patrocinata come sempre dalla locale
Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana. Il calendario completo di Folkest è ricchissimo e si articola
per tutto il mese di luglio in una lunga serie di concerti nel Friuli - Venezia Giulia, in Istria (Slovenia e Croazia)
e in Austria. Nelle tre serate di Crevatini e Capodistria avremo l’occasione di ascoltare musiche sempre vive e
coinvolgenti.
Cominceremo con Crevatini, dove
all’estivo della locale Comunità
degli Italiani ospiteremo un gruppo
proveniente da Malta, i NAFRA. Dal
1999 il compositore Ruben Zahra
è impegnato nella valorozzazione
di strumenti tradizionali maltesi, in
particolare la zampogna maltese:
iz-Zaqq. Il gruppo è costituito da
musicisti di formazione classica,
preparati ad affrontare ed eseguire
strutture musicali complesse, così,
partendo da materiale tradizionale
elaborata trame contemporanee di
rara efficacia. La musica dei NAFRA
esplora un suono che per millenni ha
fatto da crocevia del Mediterraneo.
Ruben Zahra - strumenti tradizionali a
fiato maltesi; Nadine Galea - violino;
Andrew Micallef – fisarmonica;
Godfrey Mifsud - clarinetto basso;
Luke Baldacchino - batteria e
percussione
Il giorno dopo, Piazza Carpaccio
ospiterà uno dei grandi nomi della
musica tradizionale inglese: ALLAN
TAYLOR. Consumato intrattenitore,
ma anche tessitore di storie nelle
quali la grazia trobadorica si fonde
con racconti di vita vissuta, di eroi
sconosciuti e di esistenze bruciate,
Allan Taylor continua a riproporsi al
pubblico di tutto il mondo con la sua
caratteristica voce, immediatamente
riconsocibile, dolcissima e scura,
e il suo stile chitarristico intricato e
dettagliato. Nel 1978 il suo album
The Traveller vinse il Grand Prix
du Disque de Montreaux come
miglior disco europeo dell’anno,
Fanfara Tirana (Albania)
50
mentre nel 2001 Colour to the
Moon ebbe unanimi consensi per
la grande maturità compositiva, a
testimonianza dell’altissima qualità
che ha caratterizzato e continua a
segnare l’intera carriera di questo
grande artista. Leaving at Dawn,
uscita nell’aprile del 2009, ci presenta
un ritorno a un modo compositivo e di
suonare la chitarra molto vicino allo
stile folk sviluppato da Allan Taylor
negli anni Sessanta e Settanta e per
i quali è un maestro riconosciuto.
L’artista si esibirà con un trio di
eccezionaliu musicisti britannici,
la TOM McCONVILLE BAND.
All’inizio di ogni suo concerto Allan
fa un semplice invito: Sit back and
enjoy the journey. Cosi sarà anche in
Piazza Carpaccio: andateci, sedetevi
e godetevi il viaggio.
Allan Taylor – chitarra e voce; Tom
McConville – violino; David Newey –
chitarra; Joss Elliott - contrabbasso
La terza e ultima serata di Folkest a
Capodistria sarà all’insegna di “tutti
in piedi” per seguire i ritmi scatenati
degli albanesi FANFARA TIRANA.
E’un’esaltante novità nella compagine
delle fanfare balcaniche, dalle quali si
distingue per il linguaggio musicale
ben articolato su un percorso
melodico trascinante e incalzante. La
melodia, affidata a sax alto, clarinetto,
tromba e sax tenore, esprime i tipici
chiaroscuri di pura improvvisazione
chiamati kaba, gazel, e taksim. Canto
tipico del sud dell’Albania il primo,
dell’area di Tirana e zone limitrofe
gli altri due: carichi di vitalità,
d’impossibili tempi dispari, mescolati
a frenetici brani del nord del Paese e
del Kosovo. Ogni canto rappresenta
La città
Nafra (Malta)
una sorta di connubio e di transito:
vita – morte, piacere – dolore. Un
repertorio nel quale i temi tradizionali
delle feste nuziali si sovrappongono
alle ammalianti atmosfere balcaniche
e orientali.
Hysni (Niko) Zela – canto; Fatbardh
Capi - sax/clarinetto; Gezim Haxhiaj
-sax/clarinetto; Xhemal Muraj tromba; Gazmor Halilaj - tromba;
Agim Sako - sax tenore/clarinetto;
Roland Shaqja - sax baritono; Mark
Luca - flic baritono; Pellumb Xhepi
- flic baritono; Artan Mucollari - flic
baritono; Luan Ruci - basso tuba;
Kujtim Hoxha - batteria; Mario
Grassi - darbouka.
Programma FOLKEST 2009 a
Capodistria
Organizzatore: AIAS Capodistria
Patrocinatore: Comunità
Autogestita della Nazionalità
Italiana di Capodistria
Domenica, 12 luglio 2009
Crevatini – Estivo della
Comunità degli Italiani
di Crevatini
Ore 21,30
Concerto: NAFRA (Malta)
Ingresso libero
Lunedì, 13 luglio 2009
Capodistria – Piazza Carpaccio
Ore 21,30
Concerto: ALLAN TAYLOR
& TOM McCONVILLE
TRIO (Gran Bretagna)
Ingresso libero
Martedì, 14 luglio2009
Capodistria – Piazza Carpaccio
Ore 21,30
Concerto: FANFARA
TIRANA (Albania)
Ingresso libero
Allan Taylor (Gran Bretagna)
51
La città
Repertorio italiano di corrispondenza
alle voci dialettali capodistriane
Tratto dall’appendice al Dizionario storico fraseologico
etimologico del dialetto di Capodistria di Giulio Manzini
M
Macchia – macia; (veg.) graia
Macchina fotografica – aparato
Macchiolina – màcola
Macellaio – bechèr
Macellare – copàr, massàr
Macelleria – becarìa
Macello – massel
Macigno – scòio, grota
Macina – mola
Macinare – masenar
Madia – albol: credensa
Madonna – Madona, Mamabela
Madre – mare
Madrina – santola
Maestra (mar.) – maìstra
Maestrale – maìstro
Maestro – mestro, (artig.) mistro
Maggio – maio
Maggiolino – torciòn
Maggiore – major, più grando
Magia – strigarìa
Magnifico – ‘saibel
Magro – magro, sutìl
Maiale – porco, porsèl
Mais – formenton
Malaticcio – maladisso, debolo
Malattia – mal
Malfattore – ludro
Malignità – cativeria
Maligno – cativo
Malinconico – passionà, saturno
Malmenare – scagnàr
Malora – malora; (alla m.) a remengo
Malumore – poca voia, luna
Malvolere – pica, in pica
Mammella – teta, nena
Manaccia – sàta
Mancia – bonaman
Manciata – manela, granpa, branca
Mancino – sanchìn
Mandorla – màndola
52
Mandorlo – mandolèr
Mangereccio – bon, bon per magnar
Mangiucchiare – becolàr, slichignàr
Mannaia – manèra
Manovella – manìssa
Mansueto – giopo, bonato
Marea – (alta) colma, (bassa) seca
Maretta – mareta, gaiola
Margine – orlo, oro
Marinaio – marinèr
Marinare – (il pesce) far in savòr
Marna (roccia) – tassèl
Martedì - màrti
Marza (agr.) – incalmela
Massaia – massera, dona de casa
Masseria – cortivo
Materassaio – stramasser
Matita – àpis
Matrimonio – sposalissio
Mattacchione – mattaràn
Mattonella – tavèla
Maturare – madurìr
Mazza – bastòn, massòca, massòcola
Mediatore – sensàl
Medico – medego
Meditare – pensar
Mela – pomo
Melagrana – pomo ingranà
Mela lazzeruola – pomo sariòl
Melma – plòcio, (fondo marino) velma
Melone – melon, baciro, sàta
Mensola – scansìa
Mentire – flociàr, dar d’intender
Mentitore – busiàro, falso
Mento – barbùs
Mentre – intanto che, come che
Mercato – mercà, marcà
Merce – roba
Mercoledì – mèrcore, merco
Merenda – merenda, rebechin
Meretrice – slòndra
Meridione – ostro
Merluzzo – bacalà
Mescolanza – missiansa
Mescolare – missiar
La città
Mestiere – arte, mistier
Meticoloso – pipignoso
Mettere – meter, logar, ficar
Mettere a soqquadro – desbaretàr
Mezzadro – colono
Mezzanino – mesà
Miagolare – sgnaolàr
Mietere – siegar, siesolar
Migliaio – mièr, miàr
Mille – mila (plur. mile)
Millepiedi - zentogambe
Mimosa (veg.) – gasìa
Minestra – manestra; (povera) boba
Miope – cisbo
Miscuglio – missioto, missmas
Mitilo – pedocio
Moglie – mojèr
Molestare – secar, tavanar
Molla – susta
Mollare – molar, lascar, desligar
Molle (agg.) – molo, molisìn, tenero, fiapo
Mollica – molèna
Molo – mol, banchina, porporela
Molti – tantiduni
Molto – tanto, (a)sai
Monaca – monega
»Capodistria per sempre…« è il titolo della ricerca
storica svolta e presentata in Comunità dagli alunni
della SEI “Pier Paolo Vergerio il Vecchio”.
Il quiz
Monaco – frate
Monco – sònfo
Montato – montà, caregà
Montone – molton
Morale (agg.) – onesto
Morbillo – sturago
Mordere – morsegar
Mormorare – barbotar, brontolar
Mormorazione – ciacola
Mormorio – sunsùro
Morso – morsegon, rosegon
Moscio – fiàpo, molo
Mossa – moto
Mozzare – zoncàr
Mozzicone – cica
Mozzo – mosso, mali
Mucchio – mucio, grumo, tàsa
Muggine (pesce) – bòsega
Mugnaio - muliner
Mungere – smolzer, monzer
Municipio – (la) comun
Muricciolo – mureta, revelìn
Murice (mollusco) – garùsa
Muro a mare – banchina, galta
Mustacchio – mostacio
Mutamento – ganbiamento
Il coro “Porporella” costituito all’inizio dell’anno in
seno alla CI, diretto da Emil Zonta. Obiettivo: recupero
delle canzoni tradizionali di Capodistria.
Lo scorso 25 marzo si è tenuto a Umago il Torneo di
calcetto per le scuole elementari della CNI. Dodici
le squadre in lizza. Ha vinto Capodistria battendo
in finale i fiumani della “Belvedere”. Nella foto,
ripresa dal mensile “Arcobaleno”, la nostra squadra
(Jan, Patrik, Bernard, Daniele, Martin e Nicola) con
gli insegnanti Roberto Ponis e Giancarlo Galasso.
Indovina il risultato della finale, mandaci la risposta
tramite lettera e VINCI UN LIBRO!
a
2:1
b
3:0
c
4:3
53
La città
In Memoriam
Lidia Kozlovich. Personaggio simbolo di quella che viene definita
cultura di frontiera, per la coesistenza in lei di due anime, di due culture,
oltre che per la perfetta conoscenza delle lingue italiana e slovena, è stata
interprete per i programmi radiofonici di prosa della Rai di oltre 150 ruoli
del repertorio teatrale, narrativo, poetico e storico. Ampia e qualificata
anche la collaborazione sostenuta con i programmi di Radio Capodistria
nell’arco della sua carriera. Dopo essersi diplomata all’Accademia d’arte
drammatica di Lubiana nel 1965, inizia a Trieste un’intensa attività teatrale
radiofonica, sia in lingua italiana che in lingua slovena. Scritturata da subito
dal Teatro stabile sloveno di Trieste instaura un rapporto di collaborazione
che è proseguito in tutti questi anni portandola ad interpretare oltre 60
personaggi del teatro classico e contemporaneo. Ha lavorato anche con il
Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia e la Contrada di Trieste. Tra il 1989
e il ‘90 lavora con il teatro Eliseo di Roma e con lo Stabile di Torino accanto
a Luca Ronconi e Umberto Orsini. Ha partecipato più volte al Mittelfest di
Cividale e al Festival dell’Operetta di Trieste; degna di nota anche la sua
collaborazione con il Cinema: una ventina i film d’autore in cui ha avuto
una parte, accanto ad attori del calibro di Ben Kingsley, Tony Musante,
Klaus Maria Brandauer, Omero Antonutti. Da alcuni anni si dedicava
all’insegnamento, collaborando con l’Accademia teatrale »Nico Pepe« di Udine e con l’Accademia teatrale Città di
Trieste. Oltre che per i svariati ruoli sostenuti nel corso di 40 anni carriera, Lidia Kozlovich verrà ricordata con affetto
dai suoi ammiratori per i recenti ruoli sostenuti in »Sariandole« di Roberto Curci con la Compagnia della Contrada
e per la regia di Francesco Macedonio in »La rigenerazione«, produzione dello Stabile regionale con la regia di
Antonio Calenda nel monologo »Nora« scritto da Renzo Crivelli e diretto da Marko Sosič. Sono solo alcune, le ultime
interpretazioni memorabili di un’attrice dalla straordinaria personalità e bravura.
Il noto artista Fedele Zvest Apollonio è mancato il 25
marzo. Nato a Bertocchi si era diplomato nel 1960
all’Accademia di belle arti di Lubiana, dove quattro anni
dopo ottenne la specializzazione nella classe del prof.
Stupica. Dal 1973 al 1989 era stato a sua volta insegnante
e responsabile del dipartimento di grafica della stessa
scuola. Nel corso della sua carriera, Apollonio, ha allestito
oltre 300 mostre tra personali e collettive, esprimendosi
con varie tecniche, dalla pittura alla scultura, cimentandosi
anche come designer. Traeva ispirazioni dai suoi frequenti
viaggi che lo portavano spesso in Italia, Francia, Spagna
e Olanda. Ma nelle sue opere avevano un posto d’onore
i motivi e le tradizioni istriane. Era sempre presente alle
pricipali manifestazioni culturali nel Capodistriano ed era
anche in prima fila anche nelle iniziative umanitarie. Non era raro incontrarlo per le vie di Capodistria. La foto di
Gianni Katonar lo ritrae nel luglio del 2007, in Via Fronte di liberazione, ad una mostra improvvisata all’aperto per il
ventennale dell’Associazione degli artisti »Insula«.
La Comunità degli italiani »Santorio Santorio« di Capodistria esprime il più profondo cordoglio per la scomparsa
del concittadino Nazario Norbedo di Giusterna e si associa al dolore dei famigliari. Le esequie si sono svolte il 28
gennaio al cimitero di San Canziano.
Un tragico incidente in montagna, a fine febbraio, è costato la vita a Gregor Abram, 34.enne di Premanzano. Membro
attivo della Comunità degli italiani di Crevatini, Abram è stato anche rappresentante della minoranza e vicepresidente
della Comunità locale di Crevatini-Ancarano. Lo ricordiamo con grande affetto.
54
La città
La maestra Giuliana Verardo
nel ricordo delle colleghe di lavoro
Lo scorso dicembre è mancata la signora Giuliana Verardo; una vita passata tra i banchi della Scuola
elementare italiana di Capodistria. Abbiamo chiesto a due ex insegnanti, come la ricordano.
Ecco cosa ci ha raccontato Lidia
Colarich: »Io sono arrivata nel
febbraio del 1959 per il secondo
semestre e la signora Verardo, la
signora Mandič, Olivieri, la signora
Bevk ecc. Erano già tutti a scuola.
Noi allora giovani insegnanti
eravamo venute a febbraio e
settembre. Dovevano prendere il posto di quelle insegnanti
che non erano di nazionalità italiana e che la legge slovena
di quel periodo non permetteva più che insegnassero nella
scuola italiana. La Mandič e la Verardo erano i pilastri della
scuola italiana di Capodistria di allora.
Cosa ricorda della signora Verardo?
La signora Verardo sempre piccola, elegante, corretta,
sincera, discreta, riservata, sempre a dire una parola gentile,
se avevi bisogno ti dava un suggerimento disinteressato.
Si distingueva per la sua grande signorilità, era una vera
signora. E poi: sempre presente. Se io ricordo bene, la
signora Verardo non è stata mai assente per malattia ne per
qualsiasi altro bisogno.
Ha sempre insegnato alla Seconda classe?
No, una volta si portava avanti i ragazzi dalla Prima alla
Quinta. Poi è cambiata la legge e allora il nostro preside ha
assegnato alla signora Verardo la Seconda. Lei ha trovato
negli alunni e nei loro genitori tutta la stima che merita
un’insegnante così gentile così retta, presente. Ed infatti
lei è ricordata affettuosamente da molti di questi alunni
come »la mia maestra della Seconda«. Parecchie alunne le
venivano a far visita a casa, per le feste e anche nella casa di
riposo di Isola. È stata veramente un’insegnante modello.
Qualche aneddoto?
Lei ci ha lasciato in silenzio nel mese di dicembre. E questo
mese di dicembre per lei era importante. Non siamo riusciti
a farle ne’ gli auguri di Buon Natale ne’ di Buon compleanno
perchè lei è nata proprio il 25 di dicembre. Fatto sta che
nel periodo della Jugoslavia, quando noi per il giorno di
Natale si lavorava, la signora Verardo ci portava sempre
il panettone e lo spumante. Noi quella volta avevamo
l’aula magna insieme con la scuola economica slovena…e
arrivava la signora Verardo col suo panettone e noi durante
il grande riposo, la ricreazione lunga, si festeggiava. I
colleghi sloveni ci guardavano, loro pensavano che noi
stessimo festeggiando il Natale, invece festeggiavamo il
compleanno della signora Verardo. E dopo si tornava in
classe la quarta ora a continuare il nostro lavoro.
Un personaggio, la signora Verardo, di cui resta a tutti
noi un bel ricordo.
In bella memoria di tutti noi. Tutti noi, penso, le auguriamo
un riposo sereno in questa terra che l’ha stimata come
insegnante e come donna. Non è stata la sua terra, ma penso
che sicuramente con gli anni lo sia diventata.
Ecco invece come viene ricordata la maestra Verardo da
Isabella Flego: »Era una persona che ha fatto capire a molti
di noi l’importanza della parole, ma anche l’importanza
del silenzio. In occasioni di attrito, in seguito a qualche
riunione, non ha mai alzato la voce. Con una pacca sulla
spalla ti faceva capire che aveva capito tutto e che non c’era
bisogno di alterarsi. E poi, le dirò, la sua influenza come
insegnante parlante sempre una bella lingua italiana. Ha
dato a tutte noi maestre un input a usare a scuola la lingua
e meno il dialetto; non che a lei il dialetto non interessasse
– anzi, lo apprezzava – ma a scuola era importante parlare
correttamente visto che fuori l’italiano si andava perdendo.
Stiamo parlando della fine degli anni ‘50 quando Capodistria
si svuotava e quindi sentivamo parlare l’italiano soprattutto
a scuola. E lei che era vissuta a Capodistria già da qualche
anno prima, forse sentiva questo peso«.
Che rapporto aveva con gli alunni?
»Lei ha saputo inculcare nei ragazzi l’entusiasmo non solo
per lo studio, ma per la vita; anche quando le difficoltà
le avrebbero potuto impedire questo senso. Ha sempre
affrontato i bambini col sorriso. Ha cominciato a lavorare
quando le difficolta nelle nostre istituzioni erano enormi.
Non avevamo riscaldamento, non avevamo materiale
didattico, mancavano libri…e immaginate la signora
Verardo proveniente da Asti che all’inizio non conosceva
la lingua slovena, ha dovuto superare delle enormi
difficoltà«.
Ci sembra doveroso ricordare
anche la figura di Giorgina Pulić
che ci ha lasciati nei mesi scorsi.
Abitava in uno dei blocchi sulla
salita del Belvedere. Personaggio
legato alle nostre scuole, la
signora Giorgina fu per molti anni
segretaria del Ginnasio italiano
di Capodistria e, dagli anni ’70
fino alla pensione, ne è stata la
bibliotecaria. Le piacevano i libri
e l’ordine. Spesso soleva dire:
“Conosso ogni canton dela scola,
e ogni canton ghe voio ben”.
55
Si sono svolte nella nostra Comunità le premiazioni del
Settimo concorso letterario Mailing List Histria. Nella
foto Gianclaudio de Angelini assegna il riconoscimento
alla rovignese Sara Gržinić.
Pamela Vincoletto si è laureata il 2 marzo 2009 con una
tesi di laurea in letteratura francese presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in lingue e culture
straniere moderne all’Università degli studi di Trieste.
Titolo della tesi: L’ironia nell’opera di Fouad Laroui.
Voto: 110 e lode.
Emilia e Giovanni Pellizer, sposi da cinquant'anni.
L'ex europarlamentare triestino Giorgio Rossetti
intervistato in piazza dal giornalista di radio
Capodistria, Miro Dellore, a margine dell'ultima
edizione del Forum Tomizza.
Una bella domenica di maggio allo stadio comunale di
Pirano. Foto di gruppo prima dell’ormai tradizionale
incontro di calcio tra le squadre dei giornalisti del
Capodistriano e quelli del Veneto.
Un momento della gita dei soci della CI nell'Istria
centrale preceduta dalla presentazione di Dean Krmac.
La sosta al convento paolino di S. Pietro in Selve.
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Foglio della comunità italiana di Capodistria