Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 %*3&16##-*$" %0.&/*$" "(0450 /6.&30 %*4&(/0 %* "-5"/ $VMU -B DPQFSUJOB -F OPTUSF HVFSSF TFO[B FQJDB 4USBQBSMBOEP 'MFVS +BFHHZ i"NP JM WVPUPw .POEPWJTJPOJ " 4JOHBQPSF M&EFO Ò MBFSPQPSUP *O DBNNJOP EB 3PNB B #SJOEJTJ SJTDPQSFOEP USBUUJ EJNFOUJDBUJ -B OVPWB BWWFOUVSB EJ 1BPMP 3VNJ[ "MMB SJDFSDB 1"0-0 36.*; 2 UANDO, DOPO IL GUADO di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino. Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. Pa- EFMM"QQJB QFSEVUB trimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra dei padri. E noi questo cercavamo, non con la testa e forse nemmeno col cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti — parola orrenda — ma nobilissimi organi di senso. Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee. Ricordo che dopo giorni di cammino, non avevamo più bisogno di trovare noiose conferme nel selciato romano o nei marciapiedi chiamati crepidini. Ci bastava la potenza della direzione. 4&(6& /&--& 1"(*/& 46$$&44*7& "UUVBMJUË #PMU F J TVPJ GSBUFMMJ EFOUSP MB GBCCSJDB EFJ WFMPDJTUJ HJBNBJDBOJ -F JNNBHJOJ * MJCSJ EJ 8FJNBS DPTÖ EJTFHOBWBOP JM GVUVSP /FYU *M MVOB QBSL QSPTTJNP WFOUVSP -JODPOUSP /JDIPMBT 4QBSLT i4DSJWP TPMP QPMQFUUPOJ SPNBOUJDJ F BMMPSB w Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 -BDPQFSUJOB*MWJBHHJPEJ3VNJ[ i"UUFOUJDJ EJDFWBOPEPQPJ DPMMJ MBUSBDDJB TJQFSEFTBSË VOB GBUJDB USFNFOEB.B OPOQPUFWBNP SBTTFHOBSDJ BMMJEFBDIF QSPQSJPM*UBMJB OPOBWFTTFTUSBEFSPNBOF QFSDPSSJCJMJ GBUUFEJ QJFUSB TBOHVF F TVEPSFw $PNFMFHJPOBSJ 4&(6& %"--" $01&35*/" 1"0-0 36.*; & RA COME SE LA STRADA CHE DOVEVAMO raccontare non fosse quel- la riducibile alla sequenza dei monumenti e nemmeno quella annotata in fretta nel taccuino, ma l’idea di strada, la linea in sé, il filo rosso dell’altimetria, latitudine e longitudine, la direttrice che tagliava l’Appennino e fuori dalla quale ci sentivamo subito inquieti. La traccia che le nostre suole indovinavano, pestando un passo doppio ogni centoquarantotto centimetri, un millesimo di miglio romano, allo stesso ritmo delle legioni. In molti avevano cercato di dissuaderci. Attenti, dicevano, dopo i colli romani la traccia si perde. Troverete cemento e tangenziali, recinti privati e cani liberi. Sarà una fatica tremenda. Se proprio volete farvi una strada romana, andate sulla Claudia Augusta, dal Po al Danubio in Baviera, che è segnata a meraviglia. Ma noi non ci lasciavamo tentare. Non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili. Ci mandava in bestia che proprio la “Regina Viarum” si perdesse nel nulla. Più cercavano di farci desistere, e più ci convincevamo che l’idea era buona. Ma quelli non mollavano. Fate piuttosto il Cammino di Santiago, era il refrain, almeno troverete compagnia. Per noi era come una puntura di vespa. Ma come? Ci proponete una riserva indiana? A noi che si muore dalla voglia di attraversare il Paese fuori dai sentieri segnati? E poi, basta Santiago. Che noia. Possibile che non ci sia altro? Basta pellegrini, basta Francigene. Noi eravamo solo viandanti, e volevamo una strada laica, italiana e tutta nostra. Non una moda, un’invenzione del marketing, ma una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, apostoli e puttane, pecorai e carri armati, mercanti e carrettieri. Una linea che ci possedesse. E difatti, ora che l’abbiamo battuta metro per metro, ora che tutto è finito, non riusciamo a togliercela di testa. Sogniamo pale eoliche, serpenti nel grano, tarantole e istrici, il trillo delle rondini a Venosa e il canto dei sanniti negli antri fra Volturno e Ofanto. «L’Appia è una droga pesante» ghignava appena ieri uno dei compagni di viaggio con gli occhi arrossati dal computer dopo giorni di “Google street view”, a rifare a volo d’uccello la strada battuta a quota zero. Settimane dopo, ogni passo torna con nitidezza. La partenza da Roma con l’acqua a secchi giù da porta San Sebastiano, l’antico che diventa villa privata, orna- 26*/%*$&4*.0 "//0 $0.*/$*" 0((* 1&3 *- 26*/%*$&4*.0 "//0 *- 53"%*;*0/"-& 7*"((*0 &45*70 %* 1"0-0 36.*; $)& 0(/* "(0450 7*&/& 3"$$0/5"50 " 16/5"5& 46--& 1"(*/& %* i3&16##-*$"w -" 13*." %&--& 4&3*& &3" */5*50-"5" i53& 60.*/* */ #*$*w & 7&//& 16##-*$"5" /&- 40/0 4&(6*5& i4&$0/%" $-"44& i'6(" 46--& "-1* i-" 3055" 1&3 -&1"/50w i-" (&364"-&..& 1&3%65" i"11&//*/0 *- $603& 4&(3&50 i*- 3*503/0 %* "//*#"-&w i-"-53" &6301"w i-*5"-*" 405504013"w i$".*$*& 3044&w i-& $"4& %&(-* 41*3*5*w i*- 3*47&(-*0 %&- '*6.& 4&(3&50w i-" (3"/%& (6&33"w i*- (6"3%*"/0 %&- '"30w mento per feste di ricchi. La solitaria guerra di posizione della Soprintendenza, il fiato della Camorra sulla Capitale. E avanti, il taglio obliquo dei Colli Albani, la segnaletica che muore, lo scavalco di recinti abusivi, poi la fucilata di cinquanta chilometri fino a Terracina, il rettilineo più lungo d’Italia. E ancora Formia, e Mondragone, e Santa Maria Capua Vetere, dove i comitati “Appia Antica” non servono a difendere la via, ma a difendersi dalla via. Posti dove Roma abita in ogni giardino, ogni cantina e sottoscala, e dove l’archeologo — come lo Stato e le leggi — è più temuto della peste. Poi, la via che si smaterializza, sorvola le montagne irpine riducendosi a concetto astratto, ipotesi o puro fattore euclideo, avanti per una campagna che si è mangiata quasi tutto e dove da secoli la parola “riuso” è il primo comandamento dell’edilizia. Pezzi di lastricato romano graziosamente disposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali a segnare il confine tra poderi. Un saliscendi dove il tracciato s’immerge sempre più a lungo, solo per ritornare sporadicamente in superficie con gobba di capodoglio tra le convessità ondose dell’oceano. Nelle plaghe africane dell’Apulia, ecco la nostra marcia procedere verso il solstizio in una luce vitrea e rovente, con la Via Regina che per lunghi tratti diventa fatamorgana, si fa sogno e mitologia e sete, si perde tra uliveti, campi di papaveri e aglio selvatico, ma egualmente non ci molla, ci segue come un fantasma meridiano, in una stupefacente metamorfosi che ce la restituisce con nomi sempre diversi — paracarro, rudere, campo di frumento, strada provinciale, fontana, metanodotto, solco Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, pelle di serpente — solo per gettarsi nelle fauci infuocate del drago, l’altoforno dell’Ilva tarantina. Immagini. L’albergatore di Albano Laziale che ci vede arrivare fradici e chiede: «Ma chi ve l’ha inflitta questa galera?». Le mani grandi degli agricoltori campani, piene di fave fresche in regalo ai viandanti «nel nome del Padreterno». Il mitico “vaffa” di un pullmino di operai verso Latina, invidia di pendolari condannati alla galera dell’asfalto. Una macchina a San Giorgio Ionico, in piena controra, che rallenta in una rotonda e ci allunga una bottiglia di acqua fresca come al Tour de France. La tarantella dei campanacci al collo delle vacche di Itri che ci tagliano la strada all’inizio della transumanza. Un pastore dalle parti di Melfi che segue il gregge con un’auto sgangherata e chiede: «Ma chi vi paga?». Il canto degli assetati verso l’Adriatico, «Voglio ‘o maaaare», cui segue il grido «Jateme ‘a bbirra», fino all’arrivo col sole allo zenit, Brindisi trentasette all’ombra, e il tuffo vestiti ai piedi della colonna terminale. La malinconia della fine, la barba d’un mese, il sacco sfatto, l’attesa della sera in uno svolio di rondoni, ebbri di negramaro e finocchietto. Era aprile, ricordo. L’idea era già chiara in mente, e anche Alex il regista era d’accordo. Non esiste, diceva, copione migliore di una strada. Ero d’accordo anche come giornalista. Se non sai cosa scrivere, mi aveva insegnato anni fa Egisto Corradi, cammina e qualcosa troverai. E siccome alla mia storia mancava un grande viaggio a piedi, l’Appia sembrava perfetta. Ma sapevo che da solo non ce l’avrei fatta. Quel viaggio era roba tosta, esigeva un navigatore capace di decrittare ogni traccia e isoipsa. Uno l’avevo già conosciuto, si chiamava Riccardo Carnovalini, un ligure col radar sotto i piedi, un domatore di rovi e torrenti, forse il massimo camminatore italiano. Gli telefonai, e quello disse subito sì, perché l’Appia — quel nome come un do di petto — ti conquista già col nome. Una settimana dopo lo rividi per uno “studio di fattibilità” nella hall di un albergo davanti alla stazione di Bologna. Ci venne incontro con un sorriso mite ma pieno di orgoglio. «Io il viaggio l’ho già fatto», disse, ed estrasse dal tascapane una diavoleria simile a un citofono. Era il suo Gps. Spiegò che ci aveva pigiato dentro montagne di dati. Le carte antiche, la tracciatura dell’archeologo Lorenzo Quilici, le tavolette al 25 mila dell’Igm («La magnifica serie 25 V — disse — degli anni Cinquanta»), la viabilità attuale, le ortofoto satellitari del ministero dell’Ambiente, le notizie racimolate da un sito di esploratori del territorio chiamato “Open street map” e da www.straderomane.it. Accese lo schermo. «La strada è già tutta qui», fece indicando una linea rossa che tagliava strade, città, linee ferroviarie, elettrodotti, navigando imperterrita verso Est-Sud-Est. Era lei, la fantastica diagonale d’Oriente, aperta ventiquattro secoli prima, che andava senza deflettere, incurante dei dislivelli con la ricerca maniacale del rettilineo tipica di quelle teste dure dei Romani. Era il sogno, o forse il delirio, di un cieco di nome Appio Claudio, l’uomo che a partire dal 312 avanti Cristo ne aveva tracciato la prima parte fino a Capua. In tutto, trecentosessanta miglia di ghiaia e possenti selciati, pari a cinquecentotrentatré chilometri, che però sarebbero diventati seicentoundici per noi, a causa dei numerosi ostacoli messi in mezzo dai tempi moderni. Capannoni, tangenziali, proprietà private. Riccardo aveva studiato tutto, anche le tappe, in base ai punti di sosta reperibili e ricalcando ove possibile le stazioni romane (NBOTJPOFT e TUBUJPOFT). Era fatta. Saremmo partiti in quattro, a piedi come immigrati. Quattro matti a piede libero, senza prenotazioni di alberghi e senza auto d’appoggio. Con noi anche Irene, veneta mezza austriaca, architetto con passione per l’ambiente, un tipo silenzioso capace di render lieve la trasferta alla più rissosa delle compagnie. A Bologna, le sessantanove carte che Alex aveva comprato all’Istituto geografico Militare di Firenze vennero aperte una per una, esplorate, annusate, numerate e ripiegate. Vecchie di sessant’anni, contenevano una pazzesca quantità di informazioni e toponimi utili alla traversata. Al loro confronto, le mappe contemporanee denunciavano tutta la banalizzazione dei territori e la distanza degli Italiani dal loro Paese. Celebrammo con un aperitivo, poi venne la notizia a ciel sereno. Un pezzo dell’antica via Emilia era stato appena ritrovato in via Ugo Bassi, proprio lì a Bologna, e corremmo a vedere. Sopra il basolato ancora sporco di fango, tra le benne, un gruppetto di politici e pubblici amministratori si faceva immortalare da un fotografo. Pensammo fosse per sancire una restituzione. Invece no: serviva solo a tombare a cuore più leggero la via appena ritrovata. Non seguì alcuna polemica. Bologna aveva una sola paura: che l’antico non bloccasse l’asfalto. Ricoprire, ricoprire in fretta. Era quello l’imperativo. Era già successo a Reggio Emilia, ci dissero. Anche per la sinistra l’antichità era un intralcio. Il Nord era come il Sud. Eravamo davanti all’amnesia di una nazione. Era esattamente ciò che non volevamo accadesse con l’Appia, e così, già prima di partire, giurammo che quella fatica non sarebbe rimasta senza esito. La nostra via era un giocattolo fantastico e bisognava a tutti i costi riaprirla ai viandanti. Lungo il cammino il proposito divenne ossessione: lasciare l’Appia in quello stato era un crimine. Per riattivarla bastava poco: un buon tagliaerba, qualche passerella, una segnaletica coerente e un coordinamento governativo che mettesse insieme i novanta comuni interessati. Era quanto bastava a far affluire centinaia se non migliaia di stranieri innamorati delle nostra storia. Il resto poteva arrivare anche dopo: ricupero come ospizi di caselli ferroviari e case cantoniere, monitoraggio, cartografia, restauro di cippi e monumenti, messa in sicurezza del basolato. L’importante era creare subito un flusso. Non so dire cosa mi resti più impresso di questa avventura. Non so decidermi fra le facce e i paesaggi, le cose viste e quelle assaggiate o solo annusate. Di certo so che questo è stato il più terreno e insieme il più visionario dei miei viaggi. Il cibo mediterraneo ha fatto il suo, per impastare passato e presente. Melanzane fritte e Federico di Svevia. Aglianico e canti ebraici di Oria. Freselle al pomodoro condite con le 4BUJSF di Orazio Flacco. Vino flegreo e i canti tribali di Vinicio Capossela con la sua Banda della Posta. Lampascioni e Simon Pietro in viaggio verso Roma. Perché il viaggio, insegna Calvino, passa anche tra le labbra e l’esofago. E chi, viaggiando, non cambia dieta, non ha capito nulla. DPOUJOVB ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" -" 4&3*& */ %7% 26&45" µ -" 13*." %&--& 16/5"5& 16##-*$"5& 5655* * (*03/* 46 i3&16##-*$"w %0.&/*$)& &4$-64& *- 4&55&.#3& 4"3® */ &%*$0-" *- 13*.0 %&* 53& %7% $0/ *7*%&03&1035"(& %* "-&44"/%30 4$*--*5"/* */ "-50 -" ."11" %&- 7*"((*0 3*&-"#03"5" %" "//"-*4" 7"3-055" 65*-& 1&3 4&(6*3& 5"11" %010 5"11" -"77&/563" %* 36.*; %0."/* */ 3&157 /&84 03& $"/"-& %&- %*(*5"-& & %* 4,: 1"0-0 36.*; */530%6$& *- 460 7*"((*0 %*4&(/0 %* 3*$$"3%0 ."//&--* la Repubblica %0.&/*$" "(0450 Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 *MSFQPSUBHF#PSOUPSVO 5SB WFOUJ HJPSOJ B 1FDIJOP JOJ[JBOP J NPOEJBMJ EJ BUMFUJDB #PMU Ò BODPSB #PMU *OUBOUP MB (JBNBJDB DPOUJOVB B GBCCSJDBSF GFOPNFOJ FDDP DPNF -JTPMB QJáWFMPDF EFMNPOEP 26*/0 1&5*5 % KINGSTON ONKEY! COSÌ VIENE CHIAMATO uno dei più autorevoli candida- ti al ruolo di successore di Usain Bolt: EPOLFZ, l’asino. Javon Donkey Francis, vent’anni, ha gambe nere, lunghe e nerborute. L’anno scorso ha stabilito il nuovo record nazionale sui 400 metri in 45”35, meno di Bolt nel 2003. Al traguardo, ha imitato il gesto della saetta con cui Bolt celebra le sue vittorie. Per il suo allenatore, Michael Clarke, il ragazzo è semplicemente un prodigio. «-FUT HP %POLFZ». Come tutte le sere durante i giorni feriali, Clarke impartisce direttive al suo pupillo e al resto della squadra in una pista adiacente allo stadio nazionale di Kingston, la capitale di quest’isola delle Grandi Antille. Con la camicia sbottonata fino all’addome per affrontare la calura soffocante, l’allenatore veterano con trent’anni di esperienza, responsabile del rinomato Calabar High School Team, rimane su una seggiolina da giardino al bordo della pista. Sotto un cielo plumbeo, giovani corridori di entrambi i sessi con anatomie da purosangue, escono di corsa in formazione, al ritmo scandito dalla voce grave e implacabile del signor Clarke. «Ai vostri posti… Via! Bene, bene, bene. Tempo?». La luce del sole comincia a spegnersi mentre Javon Donkey Francis, steso sopra un lettino, aspetta che un fisioterapista finisca di stiracchiare le sue estremità per potersi unire alle esplosive serie di sprint dei suoi compagni . «Fin da piccolo sognavo di diventare un velocista, non un calciatore», dice Donkey. «E sognavo di essere uno dei migliori. Ho organizzato la mia vita in vista di questo obiettivo. Penso che ci riuscirò. La disciplina è un fattore chiave. Voglio essere come Usain Bolt». Figlio di una guardia giurata e di una bambinaia, Donkey proviene da un’umile famiglia di cinque fratelli, che vive ancora a Bull Bay, nei pressi della capitale. Michael Clarke l’ha preso all’amo quando è passato dal liceo Calabar, e da allora lavora per affinare questo diamante grezzo. Il vero Usain Bolt si allena a pochi chilometri, sull’emblematica pista blu dell’Uwi Mona Stadium. Bolt sgobba tre ore ogni sera per undici mesi all’anno, qui nella sede del Racers Track Club, dentro il campus dell’Università delle Indie Occidentali (Uwi nell’acronimo inglese). La Puma, che paga scarpe e magliette a Donkey Francis, versa a Bolt 10 milioni di dollari l’anno fino al 2017, secondo 'PSCFT. Come molti altri grandi atleti giamaicani, Francis e Bolt sono di origini modeste. La superstar mondiale viene dalla William Knibb Memorial di Falmouth, nel Trelawny, dov’è nato, che AA 26"- µ *- 4&(3&50 %&--" /0453" 5&33" $)& 4'03/" 3&$03% .&%"(-*& & $".1*0/* %&--" $034" $0.& /&446/ "-530 10450 "--&/".&/5* 46--&3#" 53" -& $"13& #034& %* 456%*0 107&35® 26&45*0/& (&/&5*$" *- /04530 ;6$$)&30 & -" 1*(3*;*" "*65" " %04"3& -& &/&3(*& &% &41-0%&3& "- .0.&/50 (*6450 ." *- %01*/( 0((* .*/"$$*" "/$)& /0* $0-1" %&- 8&# conta conta 1.400 fra maschi e femmine (i ragazzi con divise color cachi e le ragazze con grembiule azzurro): le lezioni si tengono dentro casermoni poco illuminati e c’è una pista di atletica dove a metà mattinata può capitare di veder pascolare le capre. Yohan Blake, l’altra grande star del Racers Track Club agli ordini del celebre allenatore Glen Mills, arriva sgommando sulla sua Chrysler rossa, con musica dancehall a tutto volume. Dopo aver parcheggiato accanto alla pista blu ed essersi sottoposto a una breve sessione di stretching, Blake indossa occhiali da sole aerodinamici e prende a galoppare come un puledro selvaggio, agitando contro il vento le sue braccia erculee. Un cartello accanto alla guardiola di sicurezza avverte che questo è «il terreno dove si allenano le leggende». Sei volte campione olimpico e otto volte campione mondiale fra il 2008 e il 2013, Bolt non è nel momento migliore della sua folgorante traiettoria. Ha ventott’anni, la mezza età per un velocista: i mondiali dal 22 agosto a Pechino e l’appuntamento olimpico di Rio 2016 potrebbero essere le sue ultime grandi apparizioni. La Giamaica cerca già successori per la leggenda: non farà fatica a trovarne, fra la sua progenie. Ne è convinto Maurice Wilson, selezionatore della Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica %0.&/*$" "(0450 *- $0/'30/50 03* 0-*.1*$* /&--"5-&5*$" -&((&3" 64" 0(/* .*-" "#*5"/5* (*"."*$" 0(/* .*-" "#*5"/5* '6-.*/* /&--" '050 (3"/%& " 4*/*453" 6/ "--&/".&/50 /&--" 1*45" "$$"/50 "--0 45"%*0 /";*0/"-& %* ,*/(450/ 4013" "- $&/530 3"4)&&% %8:&3 030 /&* .&53* "* (*0$)* %&$0..0/8&"-5) 26* " -"50 6/0 %&* (*07"/* 5"-&/5* %&- +"."*$" $0--&(& 40550 64"*/ #0-5 *- 1*Ä (3"/%& 7&-0$*45" %* 5655* * 5&.1* .&%"(-*& & .&53* 60.*/* /&--& 6-5*.& 0-*.1*"%* 64" 0(/* .*-*0/* %* "#*5"/5* (*"."*$" 0(/* .*-" "#*5"/5* .&%"(-*& & .&53* /&(-* 6-5*.* $*/26& .0/%*"-* 64" 0(/* .*-*0/* %* "#*5"/5* ª $"5&3*/" #"3+"6 &%*$*0/&4 &- 1"*4 4- (*"."*$" 0(/* .*-" "#*5"/5* nazionale e allenatore capo del college di educazione fisica Gc Foster, che ha formato la maggior parte degli istruttori sguinzagliati nei college a caccia di promesse. Per il signor Wilson, l’equazione è semplice: «Ci sono quasi tremila atleti di alto livello su una popolazione che arriva appena a tre milioni di abitanti. Faccia i conti lei sul nostro talento competitivo». Come dice Edward Shakes, direttore del Gc Foster: «Quello che abbiamo fatto in questo Paese è prendere sul serio l’educazione fisica». E chiarisce: «Il nostro centro per la formazione di professori dipende dal ministero dell’Istruzione. Gli atleti possono accedere a un programma di borse di studio statali: così abbiamo evitato la fuga di talenti che in passato prendevano la strada di Stati Uniti e Inghilterra. Le grandi stelle oggi vivono qui. Il sistema che è stato introdotto fin dalle elementari, e prolungato fino all’università, è il segreto del nostro successo. A questo bisogna aggiungere che è sufficiente dare ai bambini un paio di scarpe e farli correre. Quasi tutti quelli che arrivano in alto, vengono da famiglie molto povere. I benestanti preferiscono golf o tennis». Insieme a turismo, musica, zucchero e bauxite, la produzione di velocisti è uno dei motori principali in questa nazione dove l’a- spettativa di vita supera i settant’anni, il reddito pro capite annuo si aggira intorno ai 3.800 euro e bisogna fare i conti con un indice di povertà che colpisce, fra alti livelli di criminalità, il 17 per cento della popolazione, composta per quattro quinti da neri e mulatti. Alle ultime Olimpiadi, Londra 2012, i giamaicani hanno portato a casa dodici medaglie, di cui quattro d’oro, nell’atletica leggera. «Vuole sapere qual è il nostro segreto?», dice l’allenatore capo del Gc Foster, Maurice Wilson. «Guardi dentro questa borsa». Testa pelata e rotonda come una palla da biliardo e quasi due metri di altezza, fasciati in una maglia con le insegne del college, scruta l’allenamento della sua squadra. I ragazzi si avvicinano, sudati e ansimanti, a una panca dove Wilson custodisce l’enigmatica borsa, contenente semplici barrette di canna da zucchero al naturale, che i giovani atleti mordicchiano prima di avviarsi verso casa. «Si è parlato molto dell’influenza del patrimonio genetico in questa specialità», dice Wilson. «Qui in Giamaica la maggioranza della popolazione è originaria dell’Africa occidentale e abbiamo un clima umido, non troppo freddo, che aiuta ad adattarsi alle competizioni. Gli alimenti freschi che consumiamo sono un altro fattore essenziale. Ma la cosa più impor- 3&$03% %&5&/65* /&--" 7&-0$*5® 64" 0(/* .*-*0/* %* "#*5"/5* (*"."*$" 0(/* .*-" "#*5"/5* .*(-*03* 13&45";*0/* "556"-* 46* .&53* 60.*/* (*"."*$" 64" tante è la struttura di ricerca e sviluppo di talenti. Come la Spagna, che ha un sistema rodato per scovare campioni di calcio fin da bambini, noi l’abbiamo per velocisti». La sede del Mvp Track & Field Club sta nei sobborghi di Kingston, nel campus dell’Università tecnologica della Giamaica (Utech). La sigla del club, Mvp, sta per NB YJNJTJOH WFMPDJUZ BOE QPXFS, massimizzare la velocità e la potenza. Il leader è un allenatore esperto dal ventre prominente e il vocione da orco, di nome Stephen Francis. Insieme a suo fratello Paul, Francis fondò questo club nel 1999. Nei periodi che precedono le gare, i fratelli Francis si concentrano sulla cinquantina di atleti migliori, combinando allenamenti serali sulla pista in erba con giornate di corse dalle primissime ore del mattino sulla pista adiacente allo stadio di Kingston. Qui è facile incontrare, alle sei del mattino, Shelly-Ann Fraser-Pryce, la donna più veloce della Terra. La duplice campionessa olimpica, specialista dei cento, ha ventotto anni, è alta appena un metro e mezzo e pesa cinquantasette chili. «Anche mia madre è stata un’atleta e ha sempre odiato perdere. È una cosa che ho ereditato da lei. È qualcosa di innato nel nostro Dna, almeno nei sobborghi dove ho passato la mia infanzia. I nostri genitori portano nel sangue la cultura dello sforzo. Ho studiato al liceo Wolmer dove ho cominciato a gareggiare. Grazie all’atletica, sono la prima della mia famiglia a essersi laureata. In psicologia, studiando fra le Olimpiadi del 2008 e quelle del 2012. Il mio sogno è diventare la prima donna a conquistare tre medaglie d’oro consecutive nei cento metri». Francis è convinto che Shelly-Ann può farcela. Ed è convinto anche che il ricambio generazionale è garantito. Un altro grande campione, Asafa Powell, implicato in uno scandalo di doping, non fa più parte del suo club. «Posso dirle solo che il suo abbandono non ha avuto nulla a che vedere con quello scandalo: è per il suo carattere che ho deciso che non volevo più essere il suo allenatore». Lei cerca di controllare il doping? «È difficile. Su internet c’è gente che ti consiglia di prendere questo o quest’altro. Io cerco di assicurarmi che i miei ragazzi si tengano alla larga dalle sostanze proibite. La mia responsabilità si ferma qui. Poi ci sono anche certi che credono di essere più bravi di quanto siano veramente e prendono decisioni sbagliate. Senza dimenticare l’indubbia pressione che è stata aggiunta dalle medaglie conquistate dagli atleti giamaicani negli ultimi anni». «Non permetteremo che tutto quello che abbiamo realizzato finisca per aria», proclama il ministro dello Sport, Natalie Neita Headley, nel suo ufficio situato nello stesso edificio di quello della premier socialdemocratica, Portia Simpson Miller. Il sorriso del ministro scompare quando menziono i casi di doping che hanno coinvolto Powell e Sherone Simpson – condannati entrambi a diciotto mesi – che hanno messo in dubbio l’onorabilità dei successi internazionali dell’armata dello sprint giamaicano. «Il controllo antidoping qui da noi esiste solo da cinque anni. Però oggi i nostri atleti sono i più testati e vigilati del mondo. L’impegno del nostro governo è assoluto. Stiamo parlando di un settore che ha fatto molto per lo sviluppo dell’economia locale e della nostra immagine nel mondo». Se vogliamo cercare una leggenda, l’architetto di questo sistema di formazione è Dennis Johnson. Si formò all’Università di San José, in California. Imparò bene la lezione e la mise in pratica una volta tornato in patria, diventando il promotore della famosa pista in erba ancora oggi utilizzata nel campus della Utech, e trasmettendo in seguito le sue conoscenze ai due allenatori più noti dell’isola, Francis e Mills. Con i suoi settantasei anni, Mister Johnson indica con orgoglio la pista in erba della Utech e riflette: «Nel 1971 non avevamo soldi per fare una pista in materiali sintetici e abbiamo optato per il prato. Oggi continuiamo a usare l’erba perché è più morbida per le gambe. Lo sprint non è semplicemente correre veloci, richiede la conoscenza di una tecnica che parte dall’energia come fonte. Bisogna imparare a massimizzare la meccanica, e al tempo stesso saperla allentare. Quando cerco un velocista opto sempre per il più pigro, perché sarà quello che riesce a dosare meglio lo sforzo e a farlo esplodere quando arriva l’ora della verità. Bilanciare è il segreto. E anche lo sviluppo cardiovascolare, perché questa specialità coinvolge tutti i muscoli del corpo. La cosa che ho fatto è stato contribuire a unificare un sistema complessivo, che coinvolge le strutture sportive e scolastiche. Secondo me abbiamo un rifornimento di velocisti garantito almeno per altri cinquant’anni». Scende la sera sopra la pista della Utech. Alcuni corridori si godono il fresco, dopo aver sfacchinato per ore. Un paio di bambini piccoli, figli di uno degli atleti, gironzolano sul prato e ci ruzzolano sopra come se fossero di gomma, ignari di ciò che il destino ha in serbo per loro. 5SBEV[JPOF EJ 'BCJP (BMJNCFSUJ ª&M 1BÓT-FOB -FBEJOH &VSPQFBO /FXTQBQFS "MMJBODF ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 -FJNNBHJOJ"WBOHVBSEJF Dal 1918 al 1933 la Germania repubblicana fu “il laboratorio della modernità”. Cinema, filosofia, drammaturgia, architettura, letteratura, giornalismo, grafica: una grande rivoluzione culturale ed estetica, testimoniata ora da un’antologia di copertine di quei libri. Che Hitler bruciò inutilmente "/(&-0 #0-"''* 1 è durata la Repubblica di Weimar. Eppure quanto accadde in Germania tra il 1918 e il 1933 fu una vera e propria rivoluzione culturale. Un evento che per radicalità e dimensioni non trova paragoni a parte il Rinascimento italiano. E ha trasformato quegli anni, “i ruggenti anni Venti”, in un mito che ancora oggi ci intriga e ci affascina almeno quanto ci riempie di sgomento il suo traumatico epilogo: «Non vi sono due Germanie — così Thomas Mann nel celebre discorso -B (FSNBOJB F J UFEF TDIJ tenuto alla Library of Congress di Washington nel 1945 interrogandosi sulle ragioni di quella catastrofe — l’una buona e l’altra malvagia, ma (...) vi è una Germania soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in male». Dunque Weimar: con una stupefacente rapidità che sorprese gli stessi protagonisti, la Germania guglielmina uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale e umiliata dalla pace “cartaginese” di Versailles si spogliò come d’incanto della sua vecchia cultura prussiana, militarista e filistea lasciando il passo a un alternativo “spirito del tempo” cosmopolita, liberale e illuministico. Cambiò tutto: valori, costumi, comportamenti. Per tantissimi, certo, ma non per tutti. Anzi i nemici di Weimar, nazionalisti e antisemiti, ma anche OCHISSIMI ANNI 8FJNBS 1SJNB EFMGVPDP la maggioranza silenziosa del popolo tedesco, da subito dichiararono guerra a quella che sprezzantemente venne bollata come KàEJT DIF 3FQVCMJL, “repubblica degli ebrei”. Una guerra condotta senza esclusione di colpi dal settimanale %FS 4UàSNFS diretto da Jülius Streicher poi fatto fuori nel 1934 nella Notte dei lunghi coltelli e dalla stampa nazional-tedesca dell’impero mediatico di Alfred Hugenberg. Ma anche i difensori della repubblica ebbero la loro stampa pubblicata da potentissimi gruppi editoriali progressisti. Veri e propri magnati come gli Ullstein la cui rivista #FSMJOFS *MMVTUSJFSUF fu il periodico del suo genere più letto in Europa. Sempre questo gruppo editoriale (che esiste ancora oggi) pubblicò un settimanale femminile come %JF %BNF o il mensile maschile di formato tascabile 6IV. Per le casalinghe il #MBUU EFS )BVTGSBV , i bambini si divertivano sfogliando la rivista )FJUFSF 'SJEPMJO e gli intellettuali potevano dire la loro sul 2VFSTDIOJUU, la rivista a essi dedicata. In fondo il grande paradosso della Repubblica di Weimar — così chiamata dal nome della bellissima città della Turingia nella quale venne scritta la prima costituzione democratica d’Europa — sta tutto qui: nonostante un’accanita opposizione nei suoi confronti e un feroce terrorismo di destra (tantissime le vittime eccellenti, da Rosa Luxemburg o Walther Rathenau per citare solo alcuni nomi) in quegli anni ebbe luogo la più intensa «esperienza della modernità» (Marshall Berman) dell’intero Novecento. E la Germania si trasformò in un vero e proprio laboratorio nel quale tutti i canoni della cultura tradizionale e i codici artistici precedenti vennero totalmente scompaginati. Nacque il teatro politico di Brecht, Piscator e Kurt Weill e il giornalismo di viaggio impegnato: ancora oggi i reportage, pubblicati a puntate sul 'SBOLGVSUFS ;FJUVOH, di Joseph Roth sulla Russia diventata Unione Sovietica, ma soprattutto quelli sull’Ucraina, si leggono che è un piacere. Sull’asse Dessau-Weimar -Berlino il Bauhaus sviluppò l’esperienza della moderna architettura, anche grazie alla diffusione dell’omonima rivista che nel 1919 pubblicò il manifesto del movimento di Walter Gropius. La /FVF 4BDIMJDILFJU definì i nuovi termini dell’estetica. Nel 1927 Rudolf Hilferding, il geniale ministro delle finanze socialdemocratico, elaborò la teoria (ancor attualissima) del “capitalismo organizzato”. E negli studi di Babelsberg, a metà strada tra Berlino e Potsdam, venne con .FUSPQPMJT celebrato l’espressionismo cinematografico. Due anni dopo, nel 1929, Erich Maria Remarque pubblicò /JFOUF EJ OVPWP TVM GSPOUF PDDJEFOUBMF, un grandioso monumento letterario dell’antimilitarismo: tradotto in cinquanta lingue vendette oltre venti milioni di copie nel mondo diventando il testo più letto dopo la Bibbia. Sempre nel 1929 Alfred Döblin innalzò con #FSMJO "MFYBOEFSQMBU[ un insuperato monumento a Berlino, che della Repubblica di Weimar fu non solo capitale politica ma anche spirituale. Leni von Riefenstahl aveva mostrato al mondo (ma, ahimé, anche a Hitler) l’enorme potenza mediatica della fotografia e John Heartfield si rivelò un geniale autore di fotomontaggi avendo intuito prima di tutti che «l’arte è un’arma», che le masse sono un potere e che per questo il potere ha bisogno delle masse. E i libri sono per questo uno strumento decisivo per l’emancipazione dell’umanità. Anche se proprio il fallimento di Weimar è forse la più clamorosa conferma che «la cultura non impedisce la barbarie» come ha scritto ormai qualche decennio or sono Cesare Cases nella introduzione all’edizione italiana della pionieristica ricerca -B DVMUVSB EJ 8FJNBS di Peter Gay apparsa nel 1968. I nazisti appena giunti al potere grazie al ricorso sistematico alla violenza, ma anche al sostegno delle masse e degli esponenti del “modernismo reazionario” (Jeffrey Herf) per prima cosa liquidarono come “degenerata e non tedesca” tutta la cultura weimariana. E inscenarono in tutte le città un rogo di libri — il più grande sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio del 1933 — «per eliminare» queste le parole di Goebbels «con le fiamme lo spirito maligno del passato». Fu il primo passo nella discesa agli inferi chiamata Shoah, secondo il terribile presentimento di Heinrich Heine: «Dovunque si bruciano libri, si finisce per bruciare anche gli uomini». Ma Weimar, che Ernst Bloch aveva definito «una nuova età di Pericle», nonostante tutto ha sopravvissuto al suo tragico fallimento. È stata più forte dei suoi nemici. L’ emigrazione in America della *O UFMMJHFO[ ebraico-tedesca (artisti, scrittori, filosofi, registi) ha avuto, infatti, come paradossale conseguenza, la più grande trasfusione che abbia mai avuto luogo nella storia delle scienze sociali e delle arti: una osmosi, una vera e propria ibridazione il cui esito, se così possiamo esprimerci, è stato la “germanizzazione” della cultura americana. Per formazione e cultura gli ebrei tedeschi che trovarono rifugio in America (oltre trecentomila) portarono nel loro bagaglio di profughi “visioni del mondo” caratterizzate da un profondo scetticismo nei confronti di ogni concezione unidimensionale del progresso e verso qualsiasi forma di fideismo scientista che, invece, era allora dominante nel mondo accademico americano. E questo ha provocato anche le risentite proteste dei sacerdoti dell’orto- -& *.."(*/* 4013" -" $01&35*/" %* i*$) %&3 )0$)45"1-&3w %* *(/"5; 453"44/0'' *--6453";*0/& %* (&03(& 4"-5&3 & "$$"/50 " %&453" -" -0$"/%*/" %&--" (3"/%& .0453" 46--"35& 3644" i&345& 3644*4$)& ,6/45"6445&--6/(w */"6(63"5" " #&3-*/0 /&--0550#3& %&- *--6453";*0/& %* &- -*44*5;,: 40550 i%3*55&- %&3 .&/4$))&*5w %&--0 4503*$0 "6453*"$0 0550 ./$)&/)&-'&/ $01&35*/" %* +"/ 54$)*$)0-% */ "-50 *- 30."/;0 1&3 3"(";;* i&.*-*0 & * %&5&$5*7&w %* &3*$) ,45/&3 $0/ -" $01&35*/" %*4&(/"5" %" 8"-5&3 53*&3 Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica %0.&/*$" "(0450 *- -*#30 -& *.."(*/* $)& *--6453"/0 26&45& 1"(*/& 40/0 53"55& %" i5)& #00, $07&3 */ 5)& 8&*."3 3&16#-*$w %* +Ã3(&/ )0-45&*/ &%*;*0/* 5"4$)&/ %*453*#6*50 */ *5"-*" %" -0(04 1"(*/& &630 "11&/" 64$*50 */ -*#3&3*" -& *.."(*/* dossia conservatrice intellettuale americana. Allan Bloom nel 1987 in -B DIJVTVSB EFMMB NFOUF BNFSJDBOB chiese agli americani «di liberarsi una volta per tutte dalle influenze nefaste della cultura tedesca» che avrebbe trasformato la cultura americana in una «versione alla Disneyland della Repubblica di Weimar». Per decenni la Repubblica di Weimar è stata raccontata come un modello paradigmatico di “autodissoluzione” di un sistema di democrazia parlamentare. Oggi l’esperienza di Weimar non viene più giudicata a partire solo dall’ottica del suo fallimento ma piuttosto valorizzata enfatizzando quella delle grandi innovazioni culturali e istituzionali che l’hanno caratterizzata. Non viene più esibita come un modello politico e costituzionale fallimentare bensì come un esperimento che ha letteralmente precorso i tempi. L’interesse della ricerca si è spostato dalle cause del suo tragico epilogo all’importanza come laboratorio della modernità culturale. Questa è la grande eredità di cui ha potuto fare tesoro prima la Repubblica di Bonn e poi, dopo la caduta del Muro, la Repubblica di Berlino. ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" " %&453" -" 3*7*45" i( ;&*54$)3*'5 'Ã3 &-&.&/5"3& (&45"-56/(w %* )"/4 3*$)5&3 -*--6453";*0/& $0/ -" (3"/%& i(w 3044" %* i(&45"-56/(w µ %* 1"6- -&/* */ "-50 " %&453" *- 30."/;0 %* "-'3&% %½#-*/ i#&3-*/ "-&9"/%&31-"5;w $0/ -" $01&35*/" %* (&03( 4"-5&3 & 40550 '050.0/5"((*0 %* 1&8"4 1&3 6/ 0164$0-0 46 4"$$0 & 7"/;&55* Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 4QFUUBDPMJ%BO[BOUJ *i#BMMFUT$EF MB#w EFMHFOJBMF SFHJTUB CFMHBTPOP DPOTJEFSBUJ HMJFSFEJEJ1JOB #BVTDI*O TDFOBQPSUBOP VODBMFJEPTDPQJP EJHFOUFDPNVOF i*TQJSBUPEBJ NBFTUSJ EFMDJOFNB JUBMJBOPw (*"/ -6$" '"7&550 - GAND A PRIMA VOLTA CHE LIEVEN INCONTRA ALAIN e vede quello che fa gli dice: «Cos’è questa roba? Una stronzata!». E Alain, imperturbabile: «Davvero? Forse hai ragione, come posso migliorarla secondo te?». È l’autunno del 1983. Sono a casa di Alain, a Gand, Belgio fiammingo. L’appartamento è piccolo, senza riscaldamento, ma la sala è abbastanza grande per ospitare una dozzina di giovani. Davanti a loro, Alain, sua sorella Pascal e due amici stanno provando le scene di uno spettacolo che vorrebbero montare, prima o poi. Hanno venticinque, ventisei anni. Sono un gruppo di amici che si ritrovano tutte le notti, bevono, fumano, discutono, sognano di cambiare il mondo. Lieven ama Bob Dylan e Neil Young, è estroverso, ironico, ha un sorriso accattivante; dopo la laurea in biologia, si guadagna da vivere vendendo assicurazioni. Alain è alto, magro e gentile, con una gran massa di capelli, ama Bach e si diverte a improvvisare teatro; di giorno lavora come ortopedagogo con i portatori di handicap, soprattutto giovani. L’incontro fra l’assicuratore e l’ortopedagogo è decisivo. Due più diversi, non si possono immaginare. Ma da allora Lieven Thyrion, il manager, l’organizzatore ingegnoso e spavaldo, e Alain Platel, la mente artistica, l’esploratore d’anime, il costruttore di quadri con corpi e pensieri in movimento, non si sono più lasciati. Hanno lavorato a fianco a fianco, alter ego l’uno dell’altro, creando quel prodigioso fenomeno che sono i Ballets C de la B. Nel cuore delle Fiandre Orientali, a metà anni Ottanta, hanno scelto un nome francese: un gesto di ribellione contro l’estenuante rivalità tra valloni e fiamminghi. Per intero sarebbe Les Ballets de la Compagnie de la Belgique. «Ma Compagnie de la Belgique era lungo e suonava pretenzioso! Mi vergognavo, non riuscivo a pronunciarlo davanti agli organizzatori. Così lo tagliavo e mi limitavo alle iniziali». Questo è Alain Platel, ti- "MBJO1MBUFM 'BDDJP CBMMBSF 'FMMJOJ F 1BTPMJOJ mido, discreto e riflessivo. Come regista, è un architetto di corpi e di energie. In trent’anni, spettacolo dopo spettacolo, e sono ormai quasi sessanta, ha condotto i suoi Ballets a essere il teatro danza più seguito in Europa, i veri eredi di Pina Bausch, maestra e icona inarrivabile delle coreografie teatrali nell’ultimo mezzo secolo. «Eh», sospira con gli occhi che brillano, «guardavi $BGÒ .àMMFS, il suo capolavoro, e capivi che, se sei una persona capace di trovare un linguaggio che arriva a espressioni così alte, allora merita fare questo lavoro». Pina Bausch ha rivelato un genere, i Ballets C de la B lo hanno reinterpretato. Così è nata la loro danza “che è per il mondo”, dice Platel. Nel senso anche che ci va, per il mondo: parte dall’antico monastero sede dell’Accademia di Gand, dagli spazi severi e luminosi della School of Arts, dove hanno la loro sede, e diventa la danza di tutti. Il viaggio comincia con 4UBCBU .BUFS nell’inverno del 1984 al Newport Theatre di Gand, che oggi si chiama Campo. Sembra ancora un magazzino di mattoni rossi. «Era un gioco per noi e abbiamo incontrato il nostro pubblico», racconta Platel. «Allora si poteva sperimentare senza pensare di diventare per forza professionisti. Non avevamo grandi ambizioni, volevamo solo divertirci e vivere. Io non pensavo di lasciare il mio lavoro di ortopedagogo e però volevo fare teatro. Con gli anni mi sono reso conto che ho continuato a farlo in teatro, l’ortopedagogo». Sono subito usciti dal Belgio. Prima tournée, Olanda. Poi, Scozia, Francia, Spagna, Inghilterra. Dopo dieci anni e dieci spettacoli, il primo grande successo che attira su di loro gli occhi del teatro e della danza internazionali è #POKPVS .BEBNF. Porta Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica %0.&/*$" "(0450 *- '&45*7"- menti: un po’ come il telefono senza fili, fatto con i gesti e il corpo invece che con le parole. Così è nata #FSOBEFUKF, pièce mitica, cruda, coinvolgente, ambientata in un luna park, sull’autoscontro, dedicata all’adolescenza. Anche 0VU PG DPOUFYU, il cui tema è l’incontro, con nove danzatori, dotati tutti di coperta rossa, che vivono in scena. E (BS EFOJB, una nostalgia dolente costruita attorno a un transessuale anziano. E $PVQ GB UBM, ispirato ai viaggi in Congo e in Palestina di Platel, dove il vero meticciato nasce attraverso la musica, fondendo il mondo europeo e quello congolese. L’ultimo lavoro con cui i Ballets C de la B arrivano in Italia a fine settembre, al Festival Torinodanza, si intitola &O BWBOU NBS DIF Lo spunto viene da un libro fotografico di Stephan Vanfleteren su fanfare e majorette. È un contrasto tra fierezza e mostruosità. Utilizza una vera banda, una quarantina di musicisti più quattro attori. La scena ricorda 1SPWB EPSDIFTUSB di fellini. È una prova per morire. E parte proprio dalla registrazione di una prova d’orchestra di Leonard Bernstein, con Mahler e Beethoven. Inizia con un convolvolo di parole in italiano, prese in prestito da Pirandello, dal suo 6PNP EBM GJPSF JO CPDDB: «La morte è passata e ha messo un fiore nella mia bocca e mi ha detto: prenditi cura di questo fiore, io ripasso fra otto, dieci mesi». «Per me è uno spettacolo molto italiano, sia come atmosfera, sia come colori», confessa Platel. «A quattordici anni, mia madre mi portava a vedere i film di Fellini, * DMP XOT, 3PNB, 4BUZSJDPO: una meraviglia! L’altro mio grande incontro è stato con Pasolini, con la sua arte e la sua personalità, il suo discorso politico. Il %FDBNFSPO e 4BMÛ sono film giganteschi che possono riempirti la vita». Pasolini e Fellini a passo di danza e di musica. Di questo è fatto il nuovo teatro europeo che viene dal Belgio. ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" '050 +"7*&3 %&- 3&"- -& *.."(*/* 40550 /&--" '050 (3"/%& 6/" 4$&/" %"--0 41&55"$0-0 i$) 0&634w 26* 4013" */ "-50 i$061 '"5"-w */ #"440 " 4*/*453" i&/ "7"/5 ."3$)&w & " %&453" i065 0' $0/5&95w /&--" 1"(*/" %* 4*/*453" */ "-50 *- 3&(*45" $03&0(3"'0 "-"*/ 1-"5&- '050 $)3*4 7"/ %&3 #63()5 '050 1)*-& %&13&; l’Art Brut nella danza, l’energia grezza. «La mia storia è un caso», sorride Platel. «Se non avessimo creato la C de la B, io non sarei mai uscito da Gand, al massimo sarei arrivato al mare, a Ostenda, non troppo lontano». E invece il suo passaporto racconta una vita ininterrotta di tournée, dal Brasile al Libano, dal Cile al Congo, Russia, Vietnam, Giappone, Stati Uniti, e tutta l’Europa naturalmente. «Non potevamo fare teatro, perché non parlavamo bene, non avevamo la dizione, non eravamo attori. Non potevamo nemmeno fare danza, negli anni Ottanta in Belgio la danza era solo Béjart. Dovevamo trovare una terza strada. Pina Bausch l’ha indicata, ispirandosi alla personalità degli uomini e delle donne con cui lavorava. Anche noi lavoravamo con gente normale, sfruttando le loro caratteristiche fisiche. L’idea era di condividere tutto in modo democratico, senza un capo che prendesse le decisioni. Però c’era bisogno di avere uno sguardo da fuori, ed è toccato a me». Racconta: «Prima di #POKPVS .BEBNF avevo idee più precise su cosa volevo dire e quali immagini volevo costruire. Poi è scattato qualcosa. #POKPVS, che affronta il tema della povertà, è stata la prima volta in cui ho lavorato con professionisti e amatori insieme, vecchi e bambini, danzatori classici e ballerini da discoteca. Non sapevo come farli interagire. Alla fine, con l’aiuto di tutti, ho messo a punto un sistema che si ritrova in tutti i lavori successivi». Questo è il metodo C de la B. Platel invita a improvvisare brevi sequenze fisiche, e ciascuno le crea in base alla propria storia personale. Poi lui chiede di insegnare la sequenza a un altro, che deve adattarla alla propria persona e al proprio stile. In questo modo si crea un passa parola dei movi- '050 $)3*4 7"/ %&3 #63()5 -0 41&55"$0-0 %* "-"*/ 1-"5&- i&/ "7"/5 ."3$)&w 4"3® 13&4&/5"50 */ 13*." *5"-*"/" "- '&45*7"- 503*/0%"/;" 7&/&3%¹ "--& 03& & 4"#"50 4&55&.#3& "--& 03& 13&440 -& '0/%&3*& -*.0/& %* .0/$"-*&3* "-"*/ 1-"5&- */$0/53" *- 16##-*$0 *- 4&55&.#3& " 1"35*3& %"--& 13&440 -" 4"-" (*0$0 %&- $*3$0-0 %&* -&5503* 503*/0%"/;" %"- 4&55&.#3& "- /07&.#3& μ 03("/*;;"50 %"- 5&"530 45"#*-& %* 503*/0 5&"530 /";*0/"-& $0/ -" %*3&;*0/& "35*45*$" %* (*(* $3*450'03&55* Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 /FYU"MMBDDJBUFMFDJOUVSF 5BOUFBUUSB[JPOJ EBCSJWJEPDFSUBNFOUF NBTPQSBUUVUUPUBOUJTDIFSNJBWWPMHFOUJ F JNNBHJOJ JO, *OWPMPTVMMB $BMJGPSOJB $JSDP 40"3*/ 07&3 $"-*'03/*" "- %*4/&: $"-*'03/*" "%7&/563& %* "/")&*. μ 6/" .0/5"(/" 3644" %07& 4* 3*."/& '&3.* 4&%65* 46 4&%*-* $)& 4* .6070/0 (3";*& " 1*450/* *%3"6-*$* 6/0 4$)&3.0 130*&55" *.."(*/* %&--" $"-*'03/*" " (3"%* %"/%0 -*.13&44*0/& %* 70-"3& 46 6/ "-*"/5& -"553";*0/& 4"3® 3*//07"5" $0/ *.."(*/* */ 6-53" )% & 4*45&.* 1&3 4136;;"3& "$26" & 0%03* 1&3 3&/%&3& -&41&3*&/;" "/$03" 1*Ä 3&"-*45*$" 6/0 41&55"$0-0 *5*/&3"/5& $0.10450 %" "553";*0/* "% "-5" 5&$/0-0(*" %&%*$"5& "(-* "."/5* %&* 461&3 &30* %&--" ."37&- -"/$*"50 -0 4$0340 %*$&.#3& /&(-* 45"5* 6/*5* ."37&&91&3*&/$& μ *- 13*.0 5&/5"5*70 %* $3&"3& 6/ 1"3$0 %*7&35*.&/5* 7*"((*"/5& %* "-50 -*7&--0 6/" 41&$*& %* $*3$0 $)& 4*.6-" -" 7*5" %* 6/" 3&$-65" %&--"(&/;*" 4&(3&5" 4)*&-% 1&3 $0*/70-(&3& 4&.13& %* 1*Ä * 3"(";;* /&- .0/%0 ."37&- 4&3(*0 1&//"$$)*/* *O *UBMJB 40/0 * 1"3$)* %*7&35*.&/50 " 5&." */ *5"-*" .*-*0/* *- (*30 %"''"3* */503/0 "* 1"3$)* " 5&." 0(/* "//0 .*-*0/* * 7*4*5"503* /&- */ $"-0 %&- 46- .*-*0/* -" 41&4" 53" #*(-*&55* & $0/46.";*0/* " UN PRIMO DISTRATTO SGUARDO può sembra- re una torre panoramica, una di quelle con il ristorante in cima come lo Space Needle di Seattle, negli Stati Uniti. Invece la torre di centocinquanta metri d’altezza che sorgerà entro il 2017 nello Skyplex, nuovo parco divertimenti in costruzione a Orlando, in Florida, è in realtà una montagna russa. Certo, ci sarà anche il ristorante, ma mentre tranquille famiglie pranzeranno con un panorama mozzafiato, altri scenderanno giù in picchiata tra giri della morte e accelerazioni degne di un jet da combattimento, con velocità di oltre cento chilometri orari. Si chiama Skyscraper e, quando sarà completata, sarà la montagna russa più alta del mondo. Si salirà a spirale, attorno alla colonna portante della torre, per poi scendere su binari che la avvolgono come una rete e che disegnano acrobazie impossibili, voli rovesciati, giri della morte. Il tutto a centocinquanta metri di altezza. «Ma l’altezza non è l’unico record che vogliamo battere», racconta Bill Kitchen, l’ingegnere responsabile del design di Skyscraper. «L’attrazione sarà anche molto efficiente e potrà gestire mille passeggeri ogni sessanta minuti». Quella che nascerà a Orlando sarà la montagna russa più alta, ma non la più veloce: il record spetta a Formula Rossa del Ferrari World di Abu Dhabi capace di raggiungere l’incredibile velocità di circa duecentoquaranta chilometri orari, anche se ad altezze nettamente inferiori. Se da una parte c’è chi è convinto che il luna park del futuro significhi costruire attrazioni sempre più incredibili ed esagerate, dall’altra c’è chi pensa che basti utilizzare la tecnologia per ingannare il pubblico e fargli vivere emozioni fantastiche. «Oggi siamo in grado di poter utilizzare strumenti come la realtà virtuale o le immagini in 4K (con una risoluzione quattro volte superiore al Full Hd dei nostri televisori) per creare esperienze estremamente realistiche». Bei Yang è uno dei creativi del laboratorio Disney Imagineering, uno studio dove il colosso americano sperimenta nuove tecnologie e mette a punto le attrazioni dei suoi parchi a tema sparsi per il mondo. «Possiamo ingannare lo spettatore e convincerlo che sta volando sopra il Golden Gate, facendolo rimanere fermo sul posto», racconta Yang. Il riferimento è all’attrazione Soa- rin Over California a Disneyland, vicino Los Angeles. Il pubblico viene fatto sedere su poltrone dotate di pistoni idraulici e sospese nel vuoto. Tutto intorno diversi proiettori 4K, recentemente installati, disegnano paesaggi e immagini della California, a trecentosessanta gradi, dando la sensazione di volare sopra l’America a bordo di un aliante. È come la realtà virtuale, solo che invece di infilare un casco in testa, si entra dentro una specie di caverna dove ogni parete è uno schermo. Una soluzione perfetta per contenere costi e ingombri. Oggi si possono creare “montagne russe” anche in poco spazio. Marvel Experience, per esempio, è un parco giochi itinerante che sta facendo il tour degli Stati Uniti e che simula la vita di una recluta dell’agenzia S.h.i.e.l.d. Tra le tante attrazioni, anche una montagna russa virtuale, realizzata con schermi che avvolgono gli utenti a trecentosessanta gradi. Ci sono anche diverse postazioni dove è possibile interagire con voce e gesti, per coin- 'VUVSMBOE .POUBHOF SVTTF BMUJTTJNF PMPHSBNNJ F CSBDDJBMFUUJ NBHJDJ *M EJWFSUJNFOUP Ò B HSBEJ Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica %0.&/*$" "(0450 "MMVOBQBSLEJ EPNBOJBODIF MFFNP[JPOJ QJá GPSUJTBSBOOPWJSUVBMJMJNQPSUBOUFÒ FTBHFSBSF 1BSDPHJPDIJTVM EJWBOP #SBDDJBMFTNBSU 6/" 45"/;" %07& 1"7*.&/50 & 1"3&5* 40/0 4$)&3.* 46 $6* μ 1044*#*-& 130*&55"3& 26"-4*"4* '*-."50 1&3 .&55&3& -0 41&55"503& "- $&/530 %* .0/%* 7*356"-* -" %*(*5"- *..&34*7& 4)08300. 3*$03%" *- '".040 10/5& 0-0(3"..* %* 45"3 53&, %*4/&: -" 65*-*;;" /&--" 4&%& %* (-&/%"-& 1&3 5&45"3& -& 46& *%&& ." 13&450 26&45" 5&$/0-0(*" 1053&##& "33*7"3& "- (3"/%& 16##-*$0 $0/ /607& "553";*0/* %* 3&"-5® 7*356"-& "50. 6/*7&34& μ *- 13*.0 -6/" 1"3, */5&3".&/5& 7*356"-& %" &41-03"3& -*#&3".&/5& (3";*& " 6/ 7*403& 1&3 -" 3&"-5® 7*356"-& $0.& 0$6-64 0 130+&$5 .031)&64 %* 40/: $* 40/0 %&$*/& %* "553";*0/* %*7&34& %" 1307"3& & 1&34*/0 40-%* 7*356"-* %" 41&/%&3& *- 56550 3*."/&/%0 $0.0%".&/5& 4&%65* 46- %*7"/0 4&.#3" $)& "/$)& %*4/&: 70(-*" 3&"-*;;"3& 6/" 7&34*0/& %&* 460* 1"3$)* %&%*$"5" "--" 3&"-5® 7*356"-& 6/ #3"$$*"-& 4."35 $)& 1&3.&55& %* "$$&%&3& "--& "553";*0/* "$26*45"3& $*#0 & ("%(&5 4"-5"3& -& '*-& %*4/&: )" %&$*40 %* .*(-*03"3& *- 130(&550 ."(*$ #"/% $0/ 6/ */7&45*.&/50 %* 6/ .*-*"3%0 %* %0--"3* 13&450 4"13® */'"55* 3*$0/04$&3& * /0453* (645* 1&3 &4&.1*0 03%*/"/%0 *- /04530 $*#0 13&'&3*50 "- 3*4503"/5& & $* */7*&3® -& '050 %&--" 7"$"/;" %*3&55".&/5& 46- 5&-&'0/0 */'0(3"'*$" "//"-*4" 7"3-055" 5VUUPJO VOBTUBO[B volgere ancora di più i ragazzi nel mondo Marvel. Un’idea, quella dell’interazione, che sembra prendere sempre più piede: agli Universal Studios di Orlando è possibile acquistare la bacchetta magica di Harry Potter (per soli 45 dollari) e lanciare incantesimi mentre si esplora il castello di Hogwarts. «Sono circa venticinque anni che Disney sperimenta la realtà virtuale. Difficile dire quali saranno gli sviluppi futuri, ma una cosa è certa: noi saremo i primi a metterli in pratica», spiega Yang. Per dare uno sguardo a come potrebbe essere il futuro dell’intrattenimento basta andare a Glendale, nella sede di Disney, ed entrare nella Digital Immersive Showroom. È qui che Yang e soci testano le nuove attrazioni dei parchi, dal negozio di gadget di Topolino all’ultima montagna russa. Si tratta di una stanza dove, in maniera simile al famoso ponte ologrammi di Star Trek, si entra dentro ambienti virtuali, disegnati su pareti e pavimento grazie a speciali proiettori. Ci sono sensori che riconoscono il movimento e i gesti, permettendo di esplorare l’ambiente proiettato. «Si può rivivere l’esperienza di un intero parco giochi in una stanza grande pochi metri quadrati», afferma Yang. Insomma, la realtà virtuale sembra essere il prossimo step, la tecnologia a cui si guarda con maggiore interesse. Non a caso alcune voci sostengono che la stessa Disney stia preparando una serie di applicazioni per Oculus Rift, per permettere al pubblico di provare le attrazioni dei suoi parchi giochi direttamente da casa: una specie di anteprima, una pubblicità interattiva per convincere a visitare i suoi parchi a tema. C’è anche chi, come il team inglese Atom Republic, vuole realizzare il primo parco giochi interamente virtuale. Si chiamerà Atom Universe e funzionerà per tutti i visori di realtà virtuale in arrivo, da Oculus Rift a Project Morpheus, il visore che Sony sta sviluppando per la PlayStation 4 e che debutterà a inizio 2016. Ma l’avanzamento tecnologico può essere utile anche per migliorare i servizi. Un esempio è il Magic Band di alcuni parchi americani. Poche settimane fa Disney ha annunciato che investirà un miliardo di dollari per migliorare questo bracciale smart, che oggi serve a saltare le file e che domani potrà offrire servizi su misura per il cliente. Si potrà, per esempio, usare il bracciale per pagare cibi e bevande, che arriveranno al tavolo senza nemmeno dover ordinare: sarà il Magic Band a riconoscere i nostri gusti e fare le ordinazioni per noi. Oppure usarlo come chiave per la stanza dell’albergo o, ancora, per ricevere le foto scattate durante la vacanza direttamente sul telefono. È tutto connesso, un servizio unico non solo per migliorare la vita del cliente, ma anche per migliorare la gestione del parco. Grazie al Magic Band, sostiene Disney, si diminuiscono i tempi d’attesa, permettendo così di servire più persone. Aumentando incassi e fatturato. Questa sì che è magia. ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" AA 1053&.0 65*-*;;"3& 4536.&/5* $0.& -" 3&"-5® 7*356"-& 0 -& *.."(*/* */ , 1&3 $3&"3& &41&3*&/;& &453&.".&/5& 3&"-*45*$)& 1&3 &4&.1*0 1053&.0 */("//"3& -0 41&55"503& & $0/7*/$&3-0 $)& 45" 70-"/%0 4013" *- (0-%&/ ("5& '"$&/%0-0 3*."/&3& */7&$& '&3.0 46- 10450 B E I Y $3&"5*70 A N G%*4/&: Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 4BQPSJ#BMOFBSJ ."/(*"3& %"7"/5* " 6/ 03*;;0/5& %" $"350-*/" '" #&/& "- $603& 0-53& $)& "--0 450."$0 " 1"550 $)& *- 1&4$& 4*" '3&4$)*44*.0 %" $".0(-* " 4&/*("--*" %" *4$)*" " 4"-*/" -& /0453& $045& 16--6-"/0 %* 055*.* 3*4503"/5* 46--" 41*"((*" &$$0/& "-$6/* SJDFUUF SJTUPSBOUJ *OTBMBUB EJ #BSCB [JP 1VJO 1JFETEBOTMFBV 2VBOEPJMNBSF OPOÒTPMP EFOUSPBMQJBUUP *M QSBO[P EFJ QFTDBUPSJ HFOPWFTJ UPNCBSFMMP QBSFOUF TUSFUUP EFM UPOOP TPUUPMJP NFTDPMBUP DPO GBHJPMJOJ QFTUP VPWB F 4BO .BS[BOP OFMMJODBOUP EJ 1VOUB $IJBQQB %P 4QBEJO 7JB 4BO /JDPMÛ $BQPEJNPOUF $BNPHMJ (F 5FM 3JDDJPMB CVSSP F TBMWJB -FHHFSNFOUF TDPUUBUB DPOEJUB DPNF J SBWJPMJ BMMVTP EJ 3PNBHOB BDDPNQBHOBUB EB TQJOBDJ F QBUBUF DSFNPTF 4PUUP MB UFSSB[[B EFM SJTUPSBOUF MP TUBCJMJNFOUP CBMOFBSF *M QSFNJP .BSÏ $VDJOB4QJBHHJB .PMP EJ -FWBOUF $FTFOBUJDP '$ 5FM 5SB J QSFNJBUJ EFMMB HVJEB EFJ SJTUPSBOUJ EFM i(JPSOBMF EJ 4JDJMJBw QSFTFOUBUB JO TFUUJNBOB JM SJTUPSBOUF i$BQQFSPw B 7VMDBOP EPWF JM DVPDP TUFMMBUP $SFTDFO[P 4DPUUJ EFMJ[JB HMJ PTQJUJ DPO JM TVQQPSUP EJ VOB WJTUB TQFUUBDPMBSF TVMMF &PMJF 4QBHIFUUJ GSFEEJ $POEJUJ DPO GSVUUJ EJ NBSF QPNPEPSP GSFTDP DBSQBDDJP EJ QFTDF F CPUUBSHB EJ NVHHJOF -B TBCCJB GJOJTTJNB TJ GFSNB BMMB QPSUB EFM SJTUPSBOUF EBWBOUJ BMM"SDJQFMBHP 5PTDBOP -B 1JOFUB 7JB $BWBMMFHHFSJ /PSE .BSJOB EJ #JCCPOB -J 5FM %FDMJOB[JPOF EJ TFQQJB *M SJTUPSBOUF "EBHJBUP TVMMB TQJBHHJB EJ GSPOUF BMMJTPMB EJ 5BWPMBSB JM iw PGGSF VO QBOPSBNB USB J QJá TQFUUBDPMBSJ EFMMB 4BSEFHOB DPO DFOUP TGVNBUVSF EB DPMB[JPOF B DFOB (JPWFEÖ TFSBUB JO CJBODP DPO NVTJDB DJCP DPDLUBJM EBM USBNPOUP BMMBMCB 0NBHHJP BM GPUPHSBGP .BSJP (JBDPNFMMJ GPHMJP TPUUJMF EJ TFQQJB DPO JM OFSP F JM TVP GFHBUP 4PUUP UBDDPMF F BTQBSBHJ %B HVTUBSF JO VOP EFJ UBWPMJ TVMMB TQJBHHJB ª(*07"//* ()*"/%0/* 6MJBTTJ #BODIJOB EJ -FWBOUF 4FOJHBMMJB "O 5FM -BQQVOUBNFOUP 4J JOBVHVSB WFOFSEÖ B 3JNJOJ i-&NJMJB3PNBHOB JO WJBHHJP WFSTP &YQPw DPO JUJOFSBSJ EBMM"ESJBUJDP B .JMBOP JO CJDJ B QJFEJ P TVM 1P DPO EVF NPUPOBWJ DIF PTQJUFSBOOP DFOF iTVMMBDRVBw B DVSB EFHMJ DIFG TUFMMBUJ FNJMJBOJ F SPNBHOPMJ 4VTDJ #BS $MBOEFTUJOP #BJB EJ 1PSUPOPWP "ODPOB 5FM *TQJSBUP BM #SVDBMJGGP HVTUP EB QJDDPMJ DPO NBOUFDBUP EJ CBDDBMË F MBUUF JO QPMWFSF EB HSBOEJ DPO CBDDBMË DSVEP F TBMTB QJDDBOUF 4V VOB EVOB EFMMB 3JWJFSB EFM $POFSP ª'3"/$&4$0 4$*1*0/* ª#3".#*--" 4&33"/* "MJDF OFM QBFTF EFMMF NFSBWJHMJF -*$*" (3"/&--0 i6 N RISTORANTE BONO L’ATTROVÒ nei parag- gi di Capo Russello. Stava proprio sulla spiaggia, le pietanze erano cosa civile e non si pagava assà. Il problema era che tra andare, mangiare e tornare ci volevano minimo minimo tri ori e lui tutto questo tempo non sempre ce l’aviva”. Ne *M HJSP EJ CPB, il commissario Montalbano, orfano della trattoria San Calogero, trova provvisorio conforto gastronomico in riva al mare. Perché anche l’occhio vuole la sua parte, almeno quanto il palato. E mangiare davanti a un orizzonte da cartolina fa bene al cuore, prima che allo stomaco. Così, se il mare d’inverno induce ad azzardare pranzi in spiaggia nelle sole giornate scaldate dal sole (mentre la cena è resa impossibile dall’umidità incombente), l’estate divide equamente le frequentazioni culinarie QJFETEBOTMFBV: pranzi brevi tra un bagno e una lettura sotto l’ombrellone, cene rilassate, compiute, golose. Certo, esistono e resistono gli irriducibili del fritto, gli habitué della calamarata, quelli che non rinuncerebbero mai a pranzare con la linguina alle vongole. Capaci di sfidare il solleone che trasforma la sabbia in supplizio, inseguendo i bagnanti fin sotto il tendone del ristorante. Perfino la qualità spesso precaria dei piatti non riesce a inficiare il rituale: un boccone e un sorso di bianco freddo rendono inequivoca- Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica %0.&/*$" "(0450 "EEJP HPM B QPSUB WVPUB TF MB DFOFUUB OPO IB JM XJGJ $P[[F BMMB HSJHMJB 4QFOOFMMBUF JO DPUUVSB DPO VOB DJUSPOFUUF EJ FYUSBWFSHJOF DBNQBOP MJNPOF JTDIJUBOP FE FSCF TFMWBUJDIF TFSWJUF B VO QBTTP EBM NBSF DPO WJTUB TVM TVQFSCP DBTUFMMP "SBHPOFTF (JBSEJOP &EFO 7JB /VPWB $BSUBSPNBOB *TDIJB /B 5FM 5VCFUUPOJ EJ (SBHOBOP 4QBEFMMBUJ DPO TBMTB EJ UFTUB QPMQB F MJTDIF EJ TDPSGBOP JO PMJP BHMJP QFQFSPODJOP F QPNPEPSJ 4PQSB J GJMFUUJ NBSJOBUJ 1FS MPDBUJPO VOB DBTB EJ QFTDBUPSJ SJTUSVUUVSBUB 5BWFSOB EFM $BQJUBOP 1JB[[B EFMMF 4JSFOF /FSBOP /B 5FM $SVEP EJ UPOOP SPTTP "SSJWB EBJ QFTDIFSFDDJ QVHMJFTJ JM QFTDF UBHMJBUP B DBSQBDDJP DPO GSVUUP EFMMB QBTTJPOF F BSBODJB TFSWJUP OFMMB EFQFOEBODF NBSJOB EFMMB .BTTFSJB 5PSSF $PDDBSP $PDDBSP #FBDI $POUSBEB 1BOUBOFMMJ 4BWFMMFUSJ EJ 'BTBOP #S 5FM 4BSEF JO JOTBMBUB bilmente il senso della vacanza. Ma la sera, la sera è tutto diverso. Che di giorno i morsi della fame siano stati soddisfatti da un pasto quasi regolare o placati da tranci di focaccia, insalatone e gelati, la cena rappresenta il momento in cui godere davvero del cibo, e possibilmente anche del resto. Liberati dalla salsedine, incremati e (ri)vestiti, comincia la ricerca di un posto che piaccia a tutto tondo: prima scelta, la vicinanza al mare, da sfiorare con le mani o per tuffarci lo sguardo. Il fascino della location spesso trae in inganno: incantati da un tavolino con annesso malandrino lume di candela, ingoiamo gamberetti pescati chissà quando e rigenerati chissà come, spaghetti insipidi e una grigliata così stopposa che per ammorbidirla occorre triplicare le dosi della vinaigrette. Del resto, in estate la richiesta di pesce è tale, che il ricorso agli stoccaggi in freezer diventa pratica quotidiana: a fare la differenza, in questo caso, la qualità del pesce e l’abilità del cuoco. Altri guai sono legati allo sviluppo di istamine per cattiva conservazione del pesce fresco — è appena passata una norma che prescrive gli zero gradi nei frigoriferi industriali — ma anche l’aggiunta di conservanti, solforosa in primis, capaci di scatenare intolleranze e allergie. Per fortuna, le coste pullulano di piccoli grandi ristoranti col mare dentro e fuori, dove regalarsi un NBHJD NPNFOU che delizi cuore e palato. Sono ristoranti pluri-stellati come la Torre del Saracino sulla spiaggia di Vico Equense e piccole trattorie come la Cooperativa dei Pescatori sul molo della Marina di Ravenna, fanno cucina di mercato come La Baia di Fregene e servono solo pesce locale come La Barca, sulla riviera di Trieste. Prenotato il locale che più vi stuzzica, non lasciatevi avvincere dalla pigrizia tardo-pomeridiana: raggiungete il ristorante all’ora del tramonto, scegliete una buona bottiglia e regalatevi un aperitivo sulla battigia. Astenersi se carnivori. ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" 'SFTDIJTTJNF EBM NBS *POJP NBSJOBUF BMMBDFUP EJ MBNQPOJ BDDPNQBHOBUF EB JOTBMBUB EJ GSVUUB F WFSEVSF EFMMPSUP * UBWPMJ BQQPHHJBOP TV VOB QFEBOB EFMMP TUBCJMNFOUP CBMOFBSF /PWF[FSPEVF 7JBMF (SBNTDJ $SPUPOF 5FM (BNCFSJ DSVEJ "QQPHHJBUJ TV VOB DSFNB UJFQJEB B CBTF EJ DBWPMP USVO[V QSFTJEJP 4MPX 'PPE DPMUJWBUP OFMMB DBNQBHOB EJ "DJSFBMF EB HVTUBSF HPEFOEPTJ JM QBOPSBNB EFMMF &PMJF USB MF WJHOF F JM NBSF $BQPGBSP .BMWBTJB 3FTPSU WJB 'BSP .BMGB EJ 4BMJOB .F 5FM '*-*110 7&/563* % A CHE MONDO È MONDO, da che corteggiamento è corteggiamento, da che homo è homo, la cenetta romantica sul mare aveva sempre avuto un esito scontato, come un’equazione dal risultato certo, un VOP fisso in schedina, un rigore da calciare a porta vuota, forte e centrale. A colpo sicuro. Era sufficiente rispettare semplici accortezze, l’abc del primo incontro: camicia pulita, portafoglio pieno per ripararsi da eventuali figuracce, attenzione ai dettagli. Tipo: farla accomodare, concederle la scelta del vino, fingere familiarità col ristoratore o caposala (“Qui a me danno il pesciolino che ha appena portato il pescatore, mica quello che rifiliano ai turisti...”), evitare il risucchio coi gusci di vongole e patelle o colluttazioni con i crostacei, non strafogarsi, interessarsi ai suoi discorsi come se stesse svelando la teoria della relatività. Insomma, bastava rimanere rilassati, decenti, falsi come una frittura surgelata e, soprattutto, concentrati sull’obiettivo, per avere ottime probabilità di finire la serata avvinghiati nella sabbia dietro al moscone. Guarda che luna, guarda che mare e zàcchete. La cenetta sulla spiaggia era un luogo comune, una capitale inespugnabile nella geografia dell’anima, del cuore (e anche d’altro). Era. Oggi, anche se è vero che a essere nostalgici è più la fatica del gusto, non ci si può esimere dal notare che perfino un caposaldo all’apparenza indistruttibile come questo, vacilla di fronte ai recenti stravolgimenti sociali. Gli eventi non preventivabili di una cena a lume di candela, oggi come oggi, sono troppi. Troppe le distrazioni. Per esempio, si può incappare in un partner compulsivo che tagga, twitta, chatta, posta la fotina del piatto, guarda la recensioncina su Trip, sbircia il risultato della partita. Ho visto coppie andarsene perché non funzionava il wi-fi del ristorante, altro che epilogo sicuro. Ho visto ragazze fotografare il proprio compagno con la luna sullo sfondo che rifletteva a picco sul mare e le stelle tutte quante che illuminavano il cielo, ma in realtà no, non stavano inquadrando lui: era un selfie solitario da mandare alle amiche. Ho visto clienti abituati da sempre a un piatto di lenticchie improvvisarsi chef stellati dopo un inverno di trasmissioni culinarie di ogni genere. Ho sentito cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. “Buono il gelato, peccato un po’ freddo”; “Mi dia una brunetta di Montalcino”; “Il mio branzino lo vorrei al dente”; “La panna cotta mi raccomando ben cotta”. Ho visto donne scappare raccapricciate. Ho visto uomini tirarsi indietro all’ultimo, perché forse non si erano depilati il petto o l’interno coscia. Eh sì, oggi è più difficile. Come ogni cosa, del resto. L’autore è ristoratore e scrittore Il suo ultimo romanzo è Un giorno come un altro (Pendragon) ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5" Copia di 195a20a0dab7e0107b2215df3ef0cf95 la Repubblica -" %0.&/*$" %0.&/*$" "(0450 -JODPOUSP.VMUJOB[JPOBMJ AA /0/ 40/0 6/ */(&/60 & .* 1*"$$*0/0 "/$)& -& 53".& %"3, ." )0 -& .*& 3&(0-& $&3$0 %* 7"3*"3& %* &44&3& 03*(*/"-& & 4& $* %&7& &44&3& 7*0-&/;" /0/ %&7& ."* &44&3& (3"56*5" Diciassette bestseller pubblicati in tutto il mondo, dieci kolossal hollywoodiani (ed è in arrivo l’undicesimo) tratti dai suoi romanzi che raccontano passioni travolgenti, malattie, guerre. Poi i musical, la tv, le tournée promozionali: “In Brasile devo girare con la scorta, ma anche in Italia”. Insomma: un’industria. E quando lo trova il tempo per scrivere, allora? “Cinque pagine al giorno, anche in limousine”. Gli ingredienti, sempre quelli: “Chi mi compra sa che troverà una dappertutto: in aereo, sulla limousine, in una stanza d’albergo. Come dicevo, riuscire a scrivere qualcosa tutti i giorni, facendo “mucchietti” di qualità da stipare con un ritmo costante. Anche quando le distrazioni sono parecchie. storia d’amore ambientata nel basta Viaggiare così tanto, come mi capita a periodi alterni, stanca parecchio». Eh, la vitaccia della star... «È difficile davvero per me viaggiare in Brasile senza del corpo — sorride — o nelle Filippine, in Germania, Inghilterra, e anNorth Carolina e una giovane guardie che in Italia! In Islanda mi adorano. Sono uno degli autori più piratati in Iran! Traducono i miei libri di nascosto e li vendono fregandosene del copyright. Un abbiamo commesso l’errore di intimare loro di levarli da internet, l’adonna in cui immedesimarsi. So- giorno vessimo mai fatto... Se la sono presa parecchio a male, diciamo così, e abbiamo subito fatto marcia indietro: “Ma no, dicevamo così per dire, fate quello che voE giù a ridere di nuovo. Come se lo spiega tutto questo successo planelo il finale è a sorpresa: happy lete...”». tario? «Dò innanzitutto molto merito ai film e ai bravi attori che hanno recitato le mie parole: Hollywood mi ha introdotto nel mondo. Ho avuto fortuna. Però sono anche convinto che le mie storie siano belle e siano comprensibili in end o tragedia?” ogni cultura e linguaggio: sono storie universali, storie d’amore senza frontie- /JDIPMBT 4QBSLT 4*-7*" #*;*0 ) NEW YORK A PIÙ L’ASPETTO DI UN ATTORE o di un fascinoso amministratore de- legato che non di uno scrittore, quando si presenta nella hall del Ritz Carlton. Cinquant’anni, nativo di Omaha nel Nebraska, arriva dal North Carolina dove vive: Nicholas Sparks è un vero BMM BNFSJDBO CPZ. Autore di ben diciassette bestseller tradotti in tutto il mondo, di cui una decina sono diventati anche film hollywoodiani dai grandi incassi, Sparks è una celebrità e un uomo ricchissimo. I suoi sono romanzoni pop densi di sentimenti tutti con la esse maiuscola, tutti travolgenti, impetuosi: amore, fede, destino, passione. Titoli come -F QBHJOF EFMMB OPTUSB WJUB, col quale fece il primo exploit nel 1996, seguito da -F QBSPMF DIF OPO UJ IP EFUUP e $PNF VO VSBHBOP suonano famigliari anche a chi non ne ha mai letto una riga. Sparks scrive storie di amori impossibili, malattie terminali, passioni al tempo della guerra, incontri che grondano di karma e destino (felici/infelici con finale catartico), e le sue ambientazioni sono in genere bucoliche: praterie, laghi, montagne, purché lontano dalle metropoli. Sparks ricorda qualche eroe romantico dei suoi libri: non sfigurerebbe accanto, per esempio, a Kevin Costner, una delle star che hanno dato carne ai suoi personaggi melodrammatici. A proposito di grandi amori, Sparks si è da poco separato dalla moglie Kathy, da cui ha avuto cinque figli. Emana energia, pare che riesca comunque a dormire pacificamente otto ore a notte, e oltre alla scrittura, mestiere da lui svolto con ferrea disciplina («Basta scrivere cin- AA 13&/%0 416/50 %"--" .*" 7*5" .*" 403&--" .035" 26*/%*$* "//* '" μ -" +".*& %& i* 1"44* %&--".03&w i-& 1"(*/& %&--" /0453" 7*5"w μ *41*3"50 "* /0//* %* .*" .0(-*& & .*0 $0(/"50 μ 6/ $08#0: $0.& *- -6,& %* i-" 3*41045" μ /&--& 45&--&w que pagine tutti i giorni, ma proprio tutti i giorni, e fai il conto delle pagine che hai scritto alla fine dell’anno», dice con pragmatismo da contabile della letteratura), si dedica a svariate attività. È produttore cinematografico (dei film tratti dai suoi romanzi: ora è in preparazione l’undicesimo da -B TDFMUB), sta allestendo un musical a Broadway tratto da -F QBHJOF EFMMB OPTUSB WJUB, sta sviluppando quattro progetti televisivi e si dà da fare per promuovere la lettura nelle scuole. Un’industria, praticamente. Chissà allora dove lo trova poi il tempo per quelle famose cinque pagine da buttar giù ogni giorno, per alimentare costantemente la sua multinazionale delle parole, per evitare che l’altoforno dei sentimenti non si spenga mai: «Il bello è che puoi scrivere ra. In questo senso mi attribuisco dei meriti». La formula Sparks, insomma, è oramai collaudata, anzi brevettata (e accettata anche dalla critica). «A scrivere un romanzo impiego sei mesi. Il resto del tempo lo passo a promuovere quello che ho scritto e a riflettere cercando il tema e l’idea per il successivo, il feeling. Perché il feeling secondo me è tutto. Quando becco quello giusto scrivo di getto. Non chiedetemi di rallentare e magari scrivere meglio: non potrei mai funzionare che non sull’onda del momento». Non ha mai fatto nient’altro che scrivere nella vita? «Ho fatto un po’ di tutto, ma scrivere è il lavoro senza dubbio più difficile» risponde. «Anche dopo diciassette romanzi pubblicati, lo trovo ancora difficile. Ogni tanto mi capita di spendere un’intera giornata, intendo letteralmente ventiquattro ore, a correggere una singola pagina. Voglio dire, scrivere un romanzo rimane tuttora per me una sfida titanica. Sì, ci sono momenti in cui vado veloce e fluido. Ma anche altri in cui per mettere giù due paragrafi mi viene l’ulcera. Se uno mi chiede come funziona il processo creativo e di scrittura, ancora non so rispondere. È un mistero. Non sono un teorico. Scrivo partendo dalla pancia, come dicevo prima, dalla convinzione di aver trovato l’onda giusta su cui surfare». A quali scrittori s’ispira di più? «In termini professionali a Stephen King, che non so come faccia, ma non soffre mai quando scrive: per me è un marziano. Ammiro la sua facilità di scrittura e la sua disciplina pazzesca, che gli viene comunque senza grandi sforzi. Mi piace Pat Conroy, e leggo tantissimo Hemingway, seguendo la sua scuola di pensiero. Hemingway diceva: “Dietro una lettura facile c’è sempre una scrittura dannatamente difficile”. Diceva anche che la prima stesura è sempre una cagata. E io mi ci riconosco. Tutto quello che sembra facile è in realtà il risultato di uno sforzo enorme, da ernia del cervello e delle dita sulla tastiera. Solo Stephen King non fa fatica, e scrive una marea di cose». Una volta aveva anche tentato di incontrare il suo idolo, era il 1996 e stava facendo un tour promozionale nel Maine, dove vive King.«Mi sono fatto dare l’indirizzo di casa sua, sono andato e ho bussato alla porta» ricorda. «Anche se sulla porta c’era un grosso cartello che diceva: “Il signore e la si- AA *- .*0 *%0-0 μ 45&1)&/ ,*/( 6/ ."3;*"/0 4$3*7& 6/" ."3&" %* $04& 4&/;" 4'03;0 " 70-5& 1&3 %6& 1"3"(3"'* " .& 7*&/& -6-$&3" 5&.10 '" 40/0 "/%"50 " $"4" 46" 1&3 $0/04$&3-0 /0/ .* )" "1&350 gnora King non ricevono visitatori non annunciati”. Fatto sta che non è venuto nessuno ad aprirmi. Magari erano lì dentro che mi guardavano. Dopo un paio di minuti gli ho lasciato una copia del mio libro e me ne sono andato. Non ci siamo mai incontrati». Eppure, nonostante tutta questa fatica che dice di fare, Sparks riesce anche a lavorare su due libri contemporaneamente. Al momento ne ha quasi finito uno, mentre è a metà di un altro. Nicholas Sparks dà l’impressione di essere nato col dono della grazia che emerge nei momenti di massima pressione. Un cowboy della letteratura, dal grilletto veloce, l’uomo da marciapiede della letteratura pop americana. O meglio ancora il NJEOJHIU NBO, con i suoi lati oscuri: «Non sono un ingenuo, e mi piace ogni tipo di storia. Anche quelle con personaggi dark, come %FYUFS del serial tv, l’assassino dalla doppia vita: fantastico. Mi è piaciuto *M TJMFO[JP EFHMJ JOOPDFOUJ, uno dei più bei film che abbia visto. Ma ho le mie regole: deve essere originale e se c’è violenza non deve essere gratuita». Tanta ispirazione dice di trarla dalla sua vita. A cominciare da un dramma famigliare. «La mia adorata sorella, che è morta quindici fa, era la Jamie di * QBTTJ EFMMBNPSF. -F QBHJOF EFMMB OPTUSB WJUB è ispirato ai nonni di Kathy, mia moglie, e mio cognato è un cowboy che cavalca tori come Luke in -B SJTQPTUB Ò OFMMF TUFMMF. Cerco di variare, ma i miei lettori sanno che se comprano un mio libro ci sarà una storia d’amore, sanno che sarà ambientato quasi sicuramente in una piccola cittadina del North Carolina, sanno che ci saranno personaggi cui voler bene. Ma non sanno se ci sarà l’happy end o una tragedia. Mi volete considerare uno scrittore romantico? Va benissimo, mica è un’offesa. E siccome so che tante mie lettrici sono giovani donne, potete star sicuri che ci sarà sempre anche un personaggio con cui si potranno identificare». ª3*130%6;*0/& 3*4&37"5"