Naviglio Piccolo
Mercoledì 2 dicembre 2015 - ore 21.00
It’s a long way …
L’infinito cacciato dalla porta
... rientra dalla finestra
Lezione a cura di
Maria Cristina Fighetti e Pierluigi Boschetti
L’infinito è una delle idee più affascinanti che esistono nella teoria matematica, fisica e filosofica.
Sembra semplice da descrivere, in realtà non lo è per niente.
Con questa parola si intende tutto ciò che non ha limite in estensione, quantità, durata.
Il termine stesso lo ammette, così come avviene per molte lingue: in-finito, a-peiron, un-endlich…
dove il prefisso ha lo scopo di negare il significato della radice della parola che indica limite.
Come mai tante persone credono di avere un’opinione ben precisa sull’infinito? Infinito è
matematica, è la semiretta dei numeri ordinali che da un’origine parte ma non finisce.
Infinito è fisica, è la misura di una grandezza, di una quantità che può essere infinita.
Infinito è religione e teologia, è l’idea di Dio come essere infinitamente grande e potente.
Una distinzione aristotelica risalente al 350 a.C. distingue gli infiniti in due tipi: potenziali o attuali.
I potenziali sono gli infiniti che non conosciamo del tutto. Semplificando, sappiamo che i numeri
sono infiniti ma non possiamo verificarlo.
Gli infiniti attuali non esistono. O meglio, secondo Aristotele e gli scienziati moderni non devono
esistere. Quando infatti in fisica un risultato implica che una grandezza sia infinita, solitamente è
indizio di un errore nel calcolo o di una visione troppo semplicistica.
Ad esempio in un sistema fisico in cui si vuole calcolare la velocità di un corpo in moto accelerato
si potrebbe arrivare alla conclusione che accelerando sempre il corpo arriverà a una velocità
infinita. Questo calcolo però non prende in considerazione o l’attrito, che si oppone al corpo e lo
rallenta, o, escludendo l’attrito, la relatività, che pone come limite la velocità della luce.
Sembrano banalità ma lo studio dell’universo sta mettendo in discussione anche queste certezze.
La cosmologia infatti è una collezione di opinioni e teorie, ma rimane molto da spiegare. L’infinito
sembra essere una costante nello studio del cosmo. Ma questo pone interrogativi non da poco.
L’universo è sempre esistito oppure è finito nel tempo? È finito nello spazio? Si cade nel
paradosso secondo cui la parte visibile dell’universo è finita ma l’universo è solo la parte finita
oppure no?.
Oggi rappresentiamo l’infinito con
dall’inglese John Wallis nel XVII secolo
un
simbolo,
ideato
Mentre questo è il simbolo per M. C. Escher:
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Un greco del VI secolo A.C. si sta dedicando al suo lavoro nei campi. Esiodo ci
rappresenta i suoi pensieri:
Quando le Pleiadi sorgono, figlie di Atlante,
la mietitura incomincia; l'aratura al loro tramonto;
esse infatti quaranta notti e quaranta giorni
stanno nascoste, poi, volgendosi l'anno,
appaiono dapprima quando è il momento di affilare gli arnesi.
Questa dei campi è la legge, ...
Ma proprio nel VI secolo, in Grecia, non si pensa solo alla quotidianità, ma si sviluppa il
pensiero razionale e con questo l'infinito si affaccia prepotentemente con tutte le sue
domande alla mente dell'uomo. Il cielo sopra di noi è finito? Il conteggio degli oggetti,
animali o cose ha un limite? E che dire degli Dei?
Quando cerchiamo di rappresentarci l’infinito inevitabilmente ci confrontiamo con un
concetto che ha in sé un che di indefinito, come il superamento di un limite, qualcosa che
va al di là del definito e compiuto. Immaginiamo qualcosa di grande e poi più grande
ancora e l'infinito è qualcosa di più ancora. Il contraltare di questo concetto è
l'infinitamente piccolo, infinitesimo; pensiamo a qualcosa di piccolo e poi ancora più
piccolo, e poi ancora più piccolo, ma mai nullo.
La complessità e le implicazioni profonde del concetto di infinito sono ben illustrate da J.L.
Borges che introduce la sua breve biografia dell'Infinito in Otras Inquisiciones così: "C'è un
concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è
l'Etica; parlo dell'Infinito". La sua concezione dell'infinito, spesso dissimulato in idee ad
esso collegate, è di un assoluto male metafisico, operante nel cosmo come seme di
disordine e assurdità. Prosegue infatti "Non c'è nulla di più pericoloso della perdita del
limite e della misura: l'errore dell'infinito è la perdita del valore contenuto nella relativa
perfezione di ciò che è concretamente determinato e formalmente compiuto, ed induce
perciò a smarrirsi nel nulla o in un labirinto senza via d'uscita". Magari non sarà il male
assoluto di Borges, ma certo l'infinito ha conseguenze inaspettate e a volte sconvolgenti
sulla nostra logica. Infatti vedremo come l'uomo ha sempre tentato di renderlo inoffensivo,
di esorcizzarlo. Si potrebbe seguire un'esposizione storica del dibattito sull'infinito che
però ci obbligherebbe a cambiare continuamente il punto di vista, ma per comodità
proseguiremo per aree: lo spazio, la teologia, l'arte, la matematica, la fisica. Anche se
alcune aree sono trattate in maniera meno approfondita, vengono tuttavia esposte come
stimolo a vedere il concetto di infinito nelle diverse sfaccettature che presenta.
Infinito nello spazio
Il prototipo della visione presocratica del Mondo ci viene da Anassimandro da Mileto .
discepolo di Talete, del VI secolo A.C. Egli propone l'apeiron "l'infinito", come elemento
primo di tutte le cose. Se vogliamo rendere esplicita tutta la ricchezza del termine greco, si
può rendere anche con eterno, indeterminato, illimitato. Eterno perché è al di là di ogni
qualificazione temporale, il tempo essendo il connotato delle cose finite. Indeterminato per
qualità per il motivo sopra detto: nessun elemento particolare è legittimato a essere origine
della totalità e sembra più opportuno che il principio, per poter davvero essere tutto, non
sia nulla di troppo particolare. Quindi anche il cielo è infinito.
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Anassimandro è il primo a pensare la Terra come una roccia sospesa nel vuoto infinito.
Questa riflessione del filosofo nella sua semplicità è un vero trionfo della ragione e vale la
pena di riportarlo.
Quando vediamo una persona che si avvicina a una casa, continua a camminare e
scompare dietro la casa, ma dopo un po’ ricompare dall'altra parte, ne deduciamo che
esiste un passaggio dietro la casa. Allora, se vediamo il sole che tramonta e il mattino
dopo risorge dall'altra parte del mondo, ci deve essere un passaggio libero nello spazio
dietro alla Terra. Semplice vero? E tuttavia occorrono quasi sei secoli perché l'idea si
affermi in ambito astronomico con Tolomeo, e ancor di più perché divenga patrimonio
comune.
Ma la speculazione al riguardo dell'universo finito o infinito, non è univoca e determinata
una volta per tutte. Una corrente con Parmenide (circa 510 -450 A.C.) vede l'infinito in
senso negativo, perché è qualcosa che manca di confini e quindi è incompleto e nello
stesso tempo ha connotati di confusione e di complicazione che lo rendono "repulsivo" al
pensiero, mentre solo ciò che è finito è perfetto, come lo è la sfera. Naturale quindi,
arrivare alla conclusione che l'universo è finito.
Un'altra corrente con Anassagora ritiene invece che l'universo sia infinito: "Insieme erano
tutte le cose ... l'aria e l'etere si separano dal molto che li avvolge, e tale avvolgente è
illimite per quantità".
Per questa dottrina della mescolanza originaria e della separazione, Anassagora (508428 A.C.) che "non esitava a ridurre il divino a cause irrazionali" fu il primo "sapiente"
della storia ad essere accusato di empietà e di eresia. Però ebbe più fortuna di molti suoi
successori; avendo amici potenti, fra i quali Pericle, fu prosciolto e se la cavò con l'esilio
da Atene.
Con Platone (428- 347 A.C.) l'universo si ripropone finito, chiuso da una sfera ultima che
contiene le stelle. Il fondatore dell'Accademia svolgerà un ruolo essenziale nell'evoluzione
del pensiero astronomico, in quanto aveva insistito sul fatto che i "sapienti" non devono
accontentarsi della contemplazione degli astri, ma sono tenuti a utilizzare la geometria per
scoprire la vera natura dei corpi celesti e spiegarne i movimenti. Tutta l'astronomia greca,
da Eudosso e Aristotele fino a Tolomeo, che segna il coronamento di tutti questi concetti
cinque secoli dopo, si svilupperà a partire dal precetto platonico.
Aristotele (384-322 A.C.) nella sua Fisica introduce un concetto sul quale matematici e
fisici dibattono tuttora. Argomenta infatti che l'infinito "in atto" (attuale) non esiste, non
esiste cioè come forma compiuta. Quindi in particolare, come per Platone, l'universo non
può che essere finito, chiuso dall'"ultima" delle sfere celesti, all'esterno della quale non c'è
nulla. Concede però all'infinito, magari a malincuore, una necessità matematica, alla quale
potrebbe essere inevitabile ricorrere nelle dimostrazioni. L'infinito quindi esiste secondo
un'altra modalità, " in potenza" (potenziale). Si trova ad esempio nel numero, poiché
quest'ultimo può crescere sempre, non c'è un numero "ultimo", c'è sempre un numero che
segue qualsiasi numero grande fin che sì vuole.
I sostenitori dell'universo finito sono inciampati in una difficoltà fondamentale. Archita di
Taranto pitagorico del V secolo A.C. sembra essere stato il primo a enunciare un
paradosso inteso a dimostrare l'assurdità d'un bordo materiale che definisca la fine
dell'universo. Il suo argomento ha conosciuto considerevole fortuna in tutte le dispute sullo
spazio: se sono all'estremità del cielo e delle stelle fisse, posso allungare una mano o una
lancia? È assurdo che non lo possa fare; ma se lo posso, ciò che si trova al di là è un
corpo o lo spazio. Possiamo andare al di là di questi e così via.
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Un dipinto medioevale conservato al Deutsch Museum di Monaco (fig. 1) illustra bene il
concetto. È curiosa la spiegazione tipicamente medioevale per risolvere il paradosso:
figura 1
il bordo presenta un passaggio graduale dal Mondo fisico, dominio degli elementi
corruttibili, al Mondo spirituale, dominio degli elementi incorruttibili. Questa soluzione pare
risolvere il paradosso in due modi possibili: o la lancia, costituita da elementi terrestri,
ricade verso il suo luogo naturale, la Terra, oppure, se passa la frontiera, allora si tramuta
in un elemento incorruttibile, etereo....
Naturalmente il dibattito filosofico finito-infinito ha coinvolto molti scienziati e filosofi come
Avicenna, Cusano, Giordano Bruno, e la discussione non era solo una piacevole
discussione conviviale, come ben ha provato quest'ultimo sulla sua pelle.
Anche scienziati particolarmente acuti hanno avuto un timore riverente verso l'infinito.
Keplero considera la nozione di infinito puramente metafisica e quindi priva di significato
scientifico, in quanto non fondata sull'esperienza. Egli nega l'infinito in atto, mentre la
mente si rivolge all'infinito potenziale, con le sue parole "In verità, un corpo infinito non può
essere afferrato dal pensiero. Infatti, i significati della mente si riferiscono o al significato
della parola infinito o a ciò che eccede qualsivoglia misura numerica, visuale o tattile che
sia; ovvero, ciò che non è infinito in atto, dal momento che una misura infinita è
inconcepibile".
Sorvoliamo rapidamente sui campi coltivati dal genio di Newton, di Leibniz con qualche
piccola considerazione.
Il dibattito sullo sfuggente concetto di infinito e la dialettica tra mondo finito o infinito e tra
infinito potenziale o in atto prosegue.
Se i sostenitori del finito sono inciampati in qualche difficoltà, come abbiamo visto non se
la passavano meglio i partigiani dell'infinito. Un paradosso era alle porte anche per loro. Di
notte un cielo infinito uniformemente riempito di stelle dovrebbe essere luminoso come in
pieno giorno; in tal caso, infatti, in qualsiasi direzione si orienti lo sguardo, prima o poi si
dovrebbe incontrare una stella, non dissimilmente da come, in una grande foresta, in
qualsiasi direzione lo sguardo prima o poi incontra un tronco che chiude l'orizzonte. È
curioso che il primo a suggerire una soluzione a questo paradosso (noto come paradosso
di Olbers) non sia stato uno scienziato o un filosofo, ma sia stato il grande scrittore
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americano Edgar Allan Poe nel 1848. Nel suo poema in prosa Eureka, spiega: "Se la
successione di stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo ci presenterebbe una luminosità
uniforme poiché non vi sarebbe assolutamente neanche un punto in cui non esisterebbe
una stella. L'unico modo per comprendere, in tale condizione, i vuoti che il nostro
telescopio individua in innumerevoli direzioni sarebbe quello di supporre che la distanza
dello sfondo invisibile sia così immensa che mai nessun raggio di luce sia giunto sino a
noi.”
Brillante nevvero? Ha preceduto di più di un secolo la cosmologia moderna! Infatti questa
assegna all'universo le dimensioni della distanza percorsa dalla luce nel lasso di tempo
intercorso dall'istante del Big Bang.
Ma i paradossi non sono esauriti; l'infinito non cessa di suscitare paradossi che cercano di
negarlo a almeno di contenerlo. Un rivoluzionario francese dell'ottocento Louis Auguste
Blanqui (1805-1881) ha formulato il paradosso della duplicazione degli esseri in uno
spazio infinito. Blanqui trascorse più di trent'anni detenuto in questo o quel carcere ed è
nel corso di una delle sue detenzioni che scrisse, nel 1871, un opuscolo dal titolo
L'eternité par les astres: hypothèse astronomique in cui espone le meditazioni filosofiche
che gli vengono ispirate dall'infinità dell'Universo. Argomenta che i tipi di atomi che
costituiscono qualsiasi sistema materiale sono solo un centinaio, le loro diverse
combinazioni sono in numero enorme, ma pur sempre finito. Ne consegue che per
"riempire l'estensione infinita dello spazio", la natura deve necessariamente ripetere
ciascuna delle sue combinazioni originarie. Blanqui ne trae implacabilmente le
conseguenze logiche: in un Universo infinito devono esistere miliardi di sosia perfetti della
terra, ma anche delle persone e delle cose ... La considerazione è assolutamente
ineccepibile, l'unica osservazione che si possa fare al riguardo è che il fatto che una certa
collezione di oggetti sia possibile non implica necessariamente che si realizzi.
Ritornando per un attimo alla disputa attorno al bordo dell'universo, vogliamo credere che
sia ormai archiviata nella storia?
Ma quanti ancora oggi fanno fatica a capire nel modello del Big Bang che l'universo si
espande nel nulla? Cosa intendiamo dire?
È ormai un fatto accertato che le galassie si stanno allontanando, e che quindi ad un
tempo precedente si trovavano più vicine, e proseguendo a ritroso nel tempo si arriva ad
una situazione con tutta la materia dell'universo concentrata in un punto di densità e
temperatura altissime, inconcepibili, teoricamente infinite (eccolo che ricompare) e dove le
regole della fisica che conosciamo non sono applicabili.
Per ragioni non spiegate quel concentrato di energia e materia, a un certo momento (13,7
miliardi di anni fa) esplose proiettando ovunque la materia e creando così lo spazio e il
tempo, cioè l'universo. Osserviamo però fin da subito un grosso limite nell'uso della parola
"esplosione". Questo fa pensare alla proiezione di energia e materia in uno spazio
esterno, ma, anche se non molto intuitivo, l'universo è tutto nella zona che si sta
espandendo; ribadiamo, non c'è nulla al di fuori, lo spazio esterno non c'è!
Per sostegno alla nostra immaginazione immaginiamo il Big Bang come l'espansione
dell'impasto di un panettone con le uvette che cuoce nel forno. Le uvette rappresentano le
galassie e lo spazio è rappresentato dall'impasto, e non c'è nulla al di fuori di questo!
Al momento attuale quindi possiamo dire che l'universo è finito, è la distanza raggiunta
dall'espansione e cioè dal Big Bang; ma mai dire mai in fisica. La scienza oggi ha definito
dettagliatamente le condizioni di densità di materia e valore della costante cosmologica
per sapere se l'universo si espanderà all'infinito, se l'espansione si fermerà o retrocederà,
ma non ha ancora trovato le risposte.
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Infinito nella Teologia
Il concetto di infinito attuale non è semplice. Per gli Aristotelici, come per Aristotele, è
concepito per negazione, cioè come abbiamo già avuto occasione di dire, come qualcosa
di imperfetto, incompleto; e Dio non può avere un attributo negativo.
Ecco quindi che il dibattito sull’infinità di Dio trova un gran posto nella filosofia medioevale.
Ci limitiamo qui a citare solo Giovanni Duns Scoto (1265-1308) e San Tommaso (12251274). L’opera del primo è volta ad elaborare una teologia razionale, che includa la
complessa nozione di “ens infinitum”.
Scoto parlando di “ens infinitum” come del concetto più semplice, cerca di prospettare il
caso di un’entità più grande di quella ottenibile con concetti sia semplici, sia complessi che
possono essere definiti, ed è convinto che la compatibilità tra “infinito” ed “ente” è
qualcosa per cui l’uomo possiede una sorta di evidenza psicologica intuitiva, una
congenita aspirazione a un conoscere infinito e a un volere infinito. L’infinito risulta per
l’intelletto umano, un concetto astratto, al quale si arriva dalla nozione di finito; per
astrazione, dalla nozione di “sommo” o di “più alto” e da una sorta d’intuizione del dominio
della potenza come di un tutto, si arriva al concetto di infinito. Ci parla in qualche modo
con queste sue parole di infinito potenziale. Anche San Tommaso sarà risoluto
nell'escludere l'esistenza di un tale infinito in atto, ma naturalmente doveva
necessariamente accoglierlo come attributo di Dio e solo di Dio. È noto il suo
ragionamento delle 5 vie (modi) per dimostrare l'esistenza di Dio
Limitiamoci a considerare una delle vie. Essa parte dalla considerazione del movimento.
Muovere, infatti, vuol dire trarre dalla potenza all'atto: ora una cosa non può essere portata
all'atto se non in virtù di un ente che sia già in atto ... Se, dunque, ciò da cui deriva il
mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch'esso sia mosso da un terzo, e
questo da un quarto. Ma in questo caso non si può procedere all'infinito ... Dunque è
necessario arrivare ad una prima ragione del mutamento che non muti affatto; è colui che
si intende per Dio
Un ragionamento, come si vede, basato su una catena di passaggi che si interrompe
perché presuppone l'esistenza "in atto" di un ultimo termine. Un po’ come se nella
successione degli interi ci fosse un numero più grande oltre il quale non si potesse andare.
Ed il concetto di infinito attuale si rafforza, dunque, si precisa positivamente nella filosofia
del XIII secolo, nel dibattito sugli attributi di Dio. Al punto che il vescovo di Parigi, Etienne
Tempier, nel 1277, stabilirà per decreto che l'infinito attuale è un attributo positivo di Dio e
della sua creazione. Dio, se lo vuole, pone l'infinito in atto anche nel mondo degli uomini;
ne è esempio l'attribuzione della Grazia Piena e Infinita anche a una donna, finita, Maria (il
rogo era pronto per chi non fosse stato d'accordo). Questa "posizione assiomatica" forte
contribuirà a consolidare il concetto di infinito, anche matematico, come si spiegherà, e le
sue distinzioni.
Opportunamente è stato sottolineata l'importanza di questo dibattito nella nascita di una
cosmologia dell'infinito che troverà la sua maturazione, anzitutto mistica, negli universi
infiniti e negli "infiniti mondi" di Nicola Cusano (1401-1464) e di Giordano Bruno (15481600).
Mi sembra interessante aggiungere a queste brevi note filosofiche, alcune considerazioni
di Gianfranco Ravasi, sull’infinito nella Bibbia.
Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore
di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In
uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola 'infinito' – come le parole 'Dio', 'spirito'
e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un'idea,
ma espressione dello sforzo verso quell'idea”, sottintendendo quindi un infinito potenziale.
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Per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e
l'esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un'idea
chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell'idea.
Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisogna
procedere per via simbolica, seguendo lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell'idea.
Innanzitutto, l'infinito viene visto come la negazione di un limite, di una frontiera.
Illuminante al riguardo è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di
ogni cosa perfetta ho visto il limite, ma la tua legge è estesa, senza limiti” (Sal 119,96).
La Bibbia per evocare il tema dell'infinito in maniera più congeniale alle culture antiche (ma
non solo), adotta il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale
e fisico, possono rimandare allusivamente a un'immensità innumerevole e a una
trascendenza illimitata. E', ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della
sabbia del litorale marino (cf. Gen 13,16), oppure quello delle stelle in cielo (cf. Gen 15,5).
Un'altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille” (l’ultimo simbolo per
indicare i numeri in ebraico): la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua
giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille
migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10) (miriade = 10000, usato come concetto ma espresso
come 10 volte mille).
Un altro ben noto paradigma simbolico per esprimere l'infinito è, invece, di taglio alfabetico
ed è caro all'Apocalisse: “Io sono l'Alfa e l'Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13)
Infinito nell'Arte
Il dibattito sull'infinito passa dall'ambito teologico a quello artistico acquisendo una
connotazione più "scientifica”. Questo passaggio si compie attraverso l'invenzione della
prospettiva nella pittura italiana. L'ambiente artistico dell'Italia all'inizio del XIV secolo è il
primo ad assorbire il dibattito teologico utilizzandolo per le sue proprie finalità.
Dalla fine del XIII secolo, il problema della rappresentazione dei luoghi nei quali distribuire
le figure della narrazione è al centro dell'attenzione dei pittori. Le "scatole" giottesche
("case di bambole", dicono gli esperti, prive di muro, aperte verso lo spettatore) sono
luoghi che hanno la finalità di contenere l'historia e di rendere comprensibile
l'insegnamento teologico in esse contenuto. Ma in Giotto non è ancora presente
un'organizzazione globale dello spazio, né ci sono linee e punti proiettivi che propongano
una prospettiva. La profondità dello spazio nella deposizione di Padova è costruita sul
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dolore umano; il peso dei corpi delle donne schiacciate dal lutto; il movimento delle braccia
dell'uomo al centro, la disperazione degli angeli .... La manifestazione corporea del dolore
impone una spazialità nuova (vedi fig. 2).
figura 2 Giotto, Padova, Cappella degli Scrovegni, 1303-1306
figura 3 Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione 1344
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Erwin Panofsky ha messo in evidenza come una pittura
di poco posteriore,
l'Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti (fig. 3), sia la prima costruzione geometrica che
esplicita una struttura globale dello spazio e lo rende "visibile". In essa, le linee di fuga, le
linee del pavimento, convergono, non però verso un unico punto, ma verso un asse
verticale ("dietro" la colonna che separa Gabriele da Maria). Daniel Arasse si è spinto oltre
nell'estendere questa analisi allo sviluppo, del tutto particolare, di costruzioni geometriche
complesse nelle scene dell'Annunciazione a Maria. Lorenzetti, prete e teologo, organizza
lo spazio, impone un'unità, una geometria, e lo fa mostrando una traccia di Dio, limite
infinito di ogni cosa: linea di convergenza di tutte le linee, un asse di fuga, non un punto.
Una colonna, fra l'Angelo e la Madonna, spesso presente nelle Annunciazioni come
simbolo del Cristo, colonna della Chiesa, è ben salda e concreta a terra, incarnata, mentre
si assottiglia verso l'alto, diviene un'ombra, che si confonde all'asse di fuga, all'infinito: un
esplicito riferimento a Dio, che è dietro il suo figliolo e, al limite, vi si identifica, identità una
e trina.
Ecco dunque la straordinaria novità, nel 1344: uno spazio proiettivo disegnato con rigore.
E di conseguenza, per effetto della geometria di questo pavimento che va dall'uomo
all’infinito di Dio, si dispiega un nuovo spazio: Dio vi ha il suo posto, nascosto,
inaccessibile, lontano, al limite infinito, ombra dell'infinito pur presente nella storia narrata.
Ma così, grazie a questa nuova forma simbolica del divino, la prospettiva, i personaggi,
l'Angelo, la Madonna acquisiscono un nuovo spessore umano: il loro corpo solido,
tridimensionale, accompagna l'espressione di un umanismo che viene delineandosi.
La prospettiva introduce Dio come infinito attuale, dietro quella colonna che si trasfigura
nell'ombra, nella traccia dell'infinito, arrivando a confondersi con il limite di uno spazio che
ingloba tutto, anche gli spazi umani che si rinnovano. I primi dipinti in «prospettiva» sono
quasi esclusivamente Annunciazioni, luogo primario dell’incontro infinito/finito e nelle
Annunciazioni molto a lungo la prospettiva verrà rappresentata con il massimo rigore: il
punto di convergenza all'infinito è mostrato con chiarezza, evidenza al finito dell'infinito in
atto di Dio.
L'argomentazione che abbiamo ripreso, di Daniel Arasse, ha un'indiscutibile pertinenza
per la nostra finalità: la particolare affinità che Arasse mette in evidenza, nel corso del XIV
e XV secolo, tra Annunciazione e prospettiva, è dovuta al fatto che, nella storia cristiana, il
momento in cui l'infinito entra nel finito è precisamente quello dell'avvento miracoloso del
figlio di Dio nella carne umana, con l'incontro tra Dio e la Madonna piena di Grazia,
l’infinito in atto entra nel quadro. Per suffragare ulteriormente la sua tesi, l'autore fa
riferimento a un sermone di san Bernardino da Siena, pronunciato sul Campo di Siena nel
1427: l'Annunciazione è il momento in cui "l'immensità viene nella misura... l'irraffigurabile
nella figura... l'inindividuabile nel luogo, l'invisibile nella visione... la lunghezza nella
brevità, la larghezza nell'angustia, l'altezza nella bassezza", paradossi concettuali, questi,
che sono all'origine dei paradossi spaziali dei pittori. Daniel Arasse mette altresì in rilevo
come i pittori della prospettiva più esperti si divertano a giocare con le regole della
geometria dove le tre dimensioni sono rappresentate con due sole, per mostrare il
paradossale avvento dell'infinito nel finito e il fine intreccio fra teologia e geometria.
Come si diceva, lo spazio matematico così inventato, fornisce al pittore il luogo dove
esprimere sia un discorso teologico sia la nuova umanità rinascimentale. La prospettiva
sperimentata da Filippo Brunelleschi nel 1417 e definita nel 1435 da Leon Battista Alberti,
è l'atto di una costruzione nella quale l'uomo è all'origine di ogni misura e l'infinito, punto di
convergenza delle ortogonali alla base del quadro, è contenuto, racchiuso, entro il quadro
della rappresentazione (si veda Alberti, De pictura, I, 19).
La prospettiva entra definitivamente nell'arte con Piero della Francesca (1420-1492).
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Egli è universalmente noto come eccelso pittore, meno nota forse è la sua attività di
matematico, il più grande della sua epoca secondo il Vasari. Scrisse tre opere
matematiche: il Trattato d'abaco, il De corporibus regolaribus e il De prospectiva pingendi
che testimoniano un lavoro intenso ed originale sui vari aspetti della matematica
rinascimentale.
Nella sua opera più importante De perspectiva pingendi in tre libri, sviluppa le concezioni
dell'Alberti secondo un rigoroso procedimento matematico, logico-deduttivo, proponendo
una serie di situazioni via via più complesse, tutte però accompagnate da illustrazioni e
disegni: la pubblicazione del suo lavoro, intorno al 1475, fu un vero successo per i pittori
che volevano iniziarsi all'arte di rappresentare il vero! Piero ordina ed espone il suo studio
secondo il pensiero di Euclide e infatti i vari principi vengono presentati sotto forma di
teoremi. Nei teoremi XIV e XV viene ripreso e ridefinito il tema della quadrettatura del
piano (un pavimento prospettico secondo una scansione geometrica a quadrati), nel XXIII
teorema accenna al punto della distanza e nel XXX teorema affronta infine le ampiezze
del cono ottico (non superiore a 45°!) con i ragionamenti relativi alla distanza più
conveniente da adottare per collocare il punto di vista rispetto al quadro. È ancora Piero
della Francesca che, nel secondo libro, accenna alla scala delle altezze, affrontando il
disegno di solidi e figure complesse. Con il suo lavoro la prospettiva dei pittori diventa una
dottrina scientifica, funzionale per gli artisti ma che esce dal ristretto ambito artistico, per
comporre, per la prima volta, sull'esempio degli Elementi di Euclide, un trattato geometrico
formato da una serie completa di proposizioni, ognuna con una propria dimostrazione,
concatenate logicamente tra loro per dar vita alla prospettiva come "vera scientia".
Con la prospettiva di Piero della Francesca, i nuovi criteri di rappresentazione del reale
sostituiscono le immagini statiche della pittura duecentesca e ricercano nella geometria
delle forme e dei rapporti prospettici il rapporto con le cose.
Possiamo ritenere Piero della Francesca, oltre che pittore eccellentissimo, anche un
matematico di notevole validità; tuttavia quella eccezionale cultura matematica non fu mai
di disturbo nella realizzazione artistica giacché se ne avvaleva fin tanto che gli era utile ed
era pronto a lasciarla quando stava per mutarsi in una presenza gravosa.
Piero rappresenta senza dubbio e più di ogni altro quella straordinaria commistione tra
arte e matematica che se in Leonardo si diffonde come un nuovo pensiero su ogni
frammento della scienza, della tecnica e dell'arte, in Piero diventa consapevole oggetto di
studio, fondamento teorico della propria vicenda culturale. Tuttavia il tentativo di Piero non
è ancora completamente svincolato dalla cultura medievale, con veri e propri errori di
ragionamento, con una logica spesso discutibile, senza un chiaro quadro metodologico di
tipo deduttivo caratteristico della scienza ellenista e del pensiero scientifico in generale.
In conseguenza delle nuove tecniche pittoriche si svilupparono anche metodi meccanici
per dipingere in prospettiva.
Nelle due figure successive alcuni interessanti metodi di Dürer (1471-1528)
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figura 4
figura 5
È bene osservare che in tutti questi casi l'infinito matematico è uno strumento per rendere
intelligibile il mondo. Nella pittura rinascimentale la geometria proiettiva - scelta mistica organizza lo spazio degli uomini per un'umanità più piena. Da Cartesio fino all'infinito
attuale di Newton e Leibniz, è per mezzo dall'analisi infinitesimale che la fisica-matematica
rende il movimento intelligibile al finito dal quale siamo circondati.
Dobbiamo citare un artista che ha realizzato alcune immagini tra le più stimolanti di.
sempre: Escher, un grafico olandese. Nelle figure 5 e 6 vediamo immagini nelle quali c'è
un sottile profumo d'infinito che compare qui in una forma diversa, non più attraverso un
discorso prospettico, ma attraverso un inganno visivo che porta a cicli continui e senza
fine. C'è infinito nella ripetizione, ma anche nello spiazzamento di un'immagine che non si
spiega.
Nella fig. 5 un corteo di uomini, sale una scala, ma dopo che li abbiamo seguiti salire per
un giro completo, li ritroviamo in basso a punto di partenza
Un altro corteo ne ridiscende ma ancora una volta il nostro occhio seguendoli scendere
per un giro completo li ritrova in alto al punto di partenza
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figura 6
Nella fig. 7 analogamente, l'acqua cade
percorso e la ritrova ancora in alto.
dall'alto, ma il nostro sguardo la segue nel
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figura 7
Concludiamo questo excursus con un stretto parallelismo dei cicli infiniti di Escher, in
campo musicale. Nella primavera del 1747 il vecchio Bach – aveva allora 62 anni – si recò
in Prussia accompagnato dal primogenito Wilhelm Friedemann, per visitare il più giovane
Carl Philipp Emanuel, clavicembalista di Federico il Grande, e rispondere all’invito a corte
del sovrano. La sera, circa al momento in cui era abitudine eseguire musica negli
Appartamenti reali, fu annunciato a Sua Maestà che il Maestro di Cappella Bach era
arrivato a Potsdam e si trovava nella Sua anticamera, nell’attesa della Sua graziosa
autorizzazione a poter ascoltare la musica. Sua Maestà ordinò di farlo entrare, ed
essendosi messo allo strumento chiamato forte e piano, ebbe la bontà di suonare egli
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stesso, senza alcuna preparazione, un tema (thema regium) sul quale il Maestro di
Cappella Bach fu chiesto di improvvisare una fuga. Bach non si accontentò di una sola
fuga, ma sviluppò il tema in una raccolta consistente in due ricercari, nove canoni, una
fuga e una sonata in trio suddivisa in quattro movimenti, che chiamò Offerta Musicale
(intesa al re di Prussia).
La raccolta, insieme a L'arte della fuga, è riconosciuta come una delle opere più articolate
e complesse mai composte, e viene universalmente considerata uno dei vertici più alti mai
raggiunti nella storia della musica. Uno dei canoni è particolarmente interessante per il
nostro argomento, il Canon perpetuus super thema regium. È un canone a tre voci, la
voce più alta esegue una variazione del tema, mentre sotto di essa due voci forniscono
una armonizzazione a canone basata su un secondo tema. Al termine della prima
esposizione il canone si riprodurrà al grado superiore alla distanza di un tono, l’ultima
esposizione dopo sei modulazioni, tornerà quindi al tono principale all’ottava alta. Il
canone avrà un andamento modulare circolare. Si può pensare che l’intenzione di Bach
fosse di terminarlo qui, ma non c’è dubbio che a Bach piacesse anche l’idea che tale
processo potesse andare avanti ad infinitum. Lo stesso Bach pensava ad un canone
perpetuus, scrivendo: Ascendenteque Modulatione ascendat gloria Regis – ascenda la
gloria del Re con l’ascendere della modulazione.
Infinito nella matematica
Accostare Infinito e Matematica può sembrare collegamento azzardato. L'Infinito, come
pure il suo corrispondente temporale, l'Eterno, è tema adeguato per Religione, Filosofia o
Letteratura, ma forse non per la scienza positiva. Meno che mai per la più positiva delle
scienze e cioè la Matematica. Del resto, l'Infinito (in-definito, in-determinato) è, per sua
stessa etimologia e natura, ed anche per la comune opinione, ciò che sfugge ad ogni
possibile classificazione e misura, mentre la Matematica tende a classificare e misurare
ogni oggetto che esamina. Dunque, l'Infinito non sarebbe argomento da Matematica.
Secondo una visione che risale ai tempi dell'antica Grecia e che si è mantenuta radicata
nei secoli fin quasi ai nostri giorni, la Matematica è la scienza dei numeri naturali 0, 1, 2,
..., semmai allargata a quegli insiemi numerici - gli interi, i razionali - che ai naturali sono
direttamente collegati. Pitagora sosteneva che il numero (naturale) è la base di tutto. Oltre
due millenni dopo, Kronecker (1832-1891) ribadiva che gli interi positivi sono i soli numeri
creati da Dio quasi a voler significare che trattare altri contesti non standard, come quello
dei numeri reali, fosse quasi sacrilego. Dunque la Matematica va a combaciare, in questa
prospettiva, con l'Aritmetica dei numeri 0, 1, 2, ...: tutti rigorosamente finiti per natura e
rappresentazione (a differenza dei reali, che scomodano allineamenti decimali senza
limiti).
Si confermerebbe così che non c'è spazio comune per Matematica e Infinito. Eppure, a
smentire tutte queste pur ragionevoli premesse, va detto che la Matematica è stata capace
nella sua storia più recente di intuire, accarezzare ed anche misurare l'Infinito, fin quasi a
sognare di dominarlo completamente. Questo è il tema che vogliamo trattare.
Nel mare delle civiltà antiche comparve in Grecia un'isola di razionalità intesa in senso
moderno. Le civiltà sumeriche e la civiltà egiziana, ad esempio, conoscevano già il
teorema di Pitagora, ma lo usavano caso per caso, applicato ai singoli triangoli rettangoli
che si trovavano a dover usare. Invece i greci sentirono l'esigenza di "verificare" se la
proprietà fosse vera per tutti i triangoli rettangoli, inventarono cioè la dimostrazione dei
teoremi matematici: da un insieme di proprietà date, che chiamiamo ipotesi, un
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procedimento logico rigoroso deduce la proprietà che chiamiamo tesi. Venne così
dimostrato che il teorema di Pitagora è vero per tutti i triangoli rettangoli!
Nella geometria greca non c'è una chiara definizione di piano e di spazio e tuttavia li si
usa. In Euclide, il piano è un apeiron, senza limiti, senza confini, luogo di una pratica
scientifica: la costruzione geometrica. Si tracciano delle linee con la riga e il compasso, si
costruiscono figure senza dare una descrizione a priori del loro contenitore infinito.: così si
prolunga il segmento finito in una retta senza limite, oppure si costruisce la successione
dei numeri naturali aggiungendo sempre un'unità ad ogni numero grande a piacere,
ottenendo una successione senza limite; l'infinito compare come illimite.
Aristotele descrive questa situazione affermando che l'infinito non è quell'aldilà oltre il
quale non vi è nulla, ma è quell'aldilà oltre il quale vi è sempre qualcosa. E' un divenire.
Questo infinito è chiamato da Aristotele "potenziale" riconoscendone la necessità
matematica; tuttavia nega qualsiasi esistenza fisica all'infinito; nega cioè l'esistenza
dell'infinito "attuale"..
Il netto rifiuto dell'infinito attuale nasce dal fatto che i greci ritenevano conoscibile solo ciò
che è determinato e finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è
quindi da rifiutare al punto che, non solo viene respinta l'idea dell'infinito attuale, ma si
accetta l'infinito potenziale solo come processo di iterazione, cioè, come abbiamo detto più
sopra, come possibilità di procedere sempre oltre, procedendo un passo alla volta,
ottenendo ad ogni passo quantità sempre più grandi, ma comunque finite.
Una curiosa attenzione meritano in questo contesto i numeri molto grandi. Innanzitutto
ricordiamo che nelle popolazioni antiche la numerazione si arrestava abbastanza presto.
Nella Grecia antica 10000 era già considerato un numero molto grande, chiamato murias
da cui il nostro miriade. Anche presso i romani o gli ebrei mancavano simboli che
descrivessero numeri superiori a mille.
Nell'Arenario Archimede sviluppa metodi per esprimere numeri molti grandi arrivando fino
a 10800000, che giudica superiore al numero di granelli di sabbia che possono riempire
l'universo conosciuto, stimato a sua volta in 10 63. Una curiosità: il numero 10100, detto
googol, ha dato nome al celebre motore di ricerca Google, che si vanta di esplorare milioni
di pagine web in meno di un secondo.
Pitagora e i segmenti incommensurabili
Uno dei dogmi del pitagorismo era stata la concezione secondo cui i corpi fossero costituiti
da corpuscoli tutti uguali tra loro e disposti in forme geometriche. Questa convinzione
portava a ritenere che i punti avessero una estensione, sia pur piccolissima.
Da ciò essi deducevano che un segmento dovesse essere formato da un numero finito di
punti . Questo implica che tutti i segmenti siano tra loro commensurabili, cioè che esiste
una grandezza a loro omogenea che è contenuta un numero intero di volte in ciascuno di
essi, grandezza che è il punto e che risulta quindi essere un sottomultiplo comune a tutti i
segmenti.
I pitagorici però scoprirono poi che esistevano segmenti incommensurabili, cioè senza
sottomultipli comuni, come il lato e la diagonale del quadrato.
Come conseguenza della loro scoperta, dovettero ammettere che un segmento era
costituito da infiniti punti di dimensione nulla, contrariamente a quanto avevano sin lì
ritenuto. Infatti se ogni segmento fosse costituito da un numero finito di punti ne
risulterebbe che, poiché sia il lato del quadrato che la diagonale contengono un numero
intero di punti, avrebbero il punto come sottomultiplo comune, e non sarebbero più
incommensurabili, come invece era stato scoperto.
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L'incommensurabilità e la conseguente comparsa dei numeri irrazionali fa comparire in
incognito l'infinito. Infatti un numero irrazionale, quelli che noi scriviamo, ad esempio, col
familiare simbolo di radice come √2 , è un numero con infiniti decimali. La dimostrazione è
semplice, ma la tralasciamo.
Ma l'infinito doveva in tutti i modi essere esorcizzato. Ancora nel 1831 (di nuovo, due
millenni dopo Aristotele), uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, e cioè Gauss, si
esprimeva quasi negli stessi termini del suo illustre predecessore Aristotele. In una lettera
al suo allievo Schumacher, scriveva: io devo protestare veementemente contro l'uso
dell'infinito come qualcosa di definito: questo non è permesso in Matematica. L'infinito è
solo un modo di dire, ed intende un limite cui certi rapporti possono approssimarsi vicino
quanto vogliono.
Accettare tranquillamente l'infinito ha conseguenze sconvolgenti sulla nostra logica,
scardinando concetti ben acquisiti. Poco sopra era comparsa la stranezza che un'infinità di
punti ciascuno di dimensione "zero" danno la lunghezza del segmento diversa da "zero".
Ancora più strano: la parte non è necessariamente più piccola del tutto.
Infatti menti autorevoli avevano tentato di avventurarsi nella zona proibita dell'infinito
attuale, avvertendone però le anomalie e concludendo che forse era il caso di lasciar
perdere. È questo il caso di Galileo Galilei e di alcune sue riflessioni contenute nell'opera
del 1638 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
Salv - […] Se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser più
che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è così?
Simp - Non si può dir altrimenti.
Salv - Interrogando io di poi, quanti siano i numeri quadrati, si può con verità rispondere,
loro esser tanti quante sono le proprie radici, avvenga che ogni quadrato ha la sua radice,
ogni radice il suo quadrato, né quadrato alcuno ha più d'una sola radice, né radice alcuna
più d'un quadrato solo.
Simp - Così sta.
Salv - Ma se io domanderò, quante siano le radici, non si può negare che elle non siano
quante tutti i numeri, ...
Galileo conclude: io non veggo che ad altra decisione si possa venire che a dire infiniti
essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, ... né la moltitudine de' quadrati essere minore di
quella di tutti numeri, né questa essere maggiore di quella, ed, in ultima conclusione, gli
attributi di eguale, maggiore e minore non aver luogo negl'infiniti ma solo nelle quantità
terminate, ed aggiunge: queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi
facciamo col nostro intelletto finito intorno all'infinito, dandogli quegli attributi che noi diamo
alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente.
Anche lo scienziato Galileo, come Keplero e molti altri scienziati quindi, fu molto
circospetto riguardo al concetto d'infinito: "E non sapete Voi ch'è ancora indeciso (e credo
che sarà sempre tra le scienze umane) se l'Universo sia finito o pure infinito?"
Al di là di questa conclusione, le riflessioni di Galileo contengono, suggerimenti stimolanti
su come potremmo pretendere di misurare l'infinito. In effetti, non possiamo contare né i
numeri naturali, né i loro quadrati (infiniti sono gli uni, infiniti sono gli altri); pur tuttavia,
possiamo confrontarli e stabilire rigorosamente che gli uni sono tanti quanti gli altri, perché
c'è una corrispondenza biunivoca tra i loro insiemi.
Per chiarire il concetto di corrispondenza biunivoca, facciamo un esempio. Un impresario
vuole verificare il successo del suo spettacolo. Potrebbe contare i biglietti venduti e, se
sono uguali alla capienza della sala, dichiarare compiaciuto il tutto esaurito. Oppure,
potrebbe controllare se ogni spettatore ha una poltrona e tutte le poltrone hanno uno
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spettatore, cioè, per dirla appunto in termini matematici, se c'è una corrispondenza
biunivoca tra l'insieme delle poltrone e quello degli spettatori. Nell'esempio di Galileo
l'infinità degli insiemi, non consente di contare tutti i numeri e i loro quadrati. Possiamo
tuttavia ancora confrontare i due insiemi coinvolti, stabilendo una corrispondenza
biunivoca tra ogni numero e il suo quadrato e dedurre che hanno lo "stesso numero" di
elementi. È esattamente quel che Galileo fa nella sua trattazione.
Dunque, all'infinito possiamo confrontare e decidere se due insiemi sono o no ugualmente
numerosi, anche se non li possiamo contare.
L'idea è brillante e sottile ed induce alla tentazione di approfondire. Pur tuttavia, c'è una
obiezione che sorge abbastanza spontaneamente: ne vale realmente la pena? In effetti, si
potrebbe sostenere che gli insiemi infiniti sono tutti, appunto, infiniti, e come tali hanno
forzatamente lo stesso numero (infinito) di elementi. È dunque inutile soffermarsi in questo
genere di confronti, l'infinito appiattisce tutto. L'esempio dei numeri e dei quadrati (i
secondi apparentemente molto minori dei primi) sembra confermarlo.
C'è un altro famoso argomento che corrobora questa impressione di infinito che è infinito e
basta e va sotto il nome di albergo di Hilbert. Si tratta, infatti, di un esempio che David
Hilbert (1862-1943) adoperava per divulgare presso i non addetti ai lavori le sottigliezze di
questa analisi dell'infinito. Lo ricordiamo brevemente. In un albergo completo, in cui ogni
stanza ha già il suo ospite, se ad un'ora della notte arriva un nuovo cliente, il portiere
dovrà dichiarargli con rammarico di non poterlo ospitare ed indirizzarlo altrove. Ma
ammettiamo per un attimo di essere nell'albergo di Hilbert con un numero infinito di
stanze: ci direbbe il portiere "Non preoccupatevi" , sistemiamo l'ospite 0 nella camera 1,
l'ospite 1 nella camera 2, ... l'ospite N nella camera N+1, ... e vi liberiamo la camera 0". Il
nuovo ospite trova così il suo posto. Ovvio che lo stesso trattamento si può ripetere
all'arrivo di ogni nuovo ospite e che infiniti nuovi ospiti possono trovare posto.
Per vedere qualche esempio geometrico, il segmento 0 - 1 "ha lo stesso numero" di punti
del segmento 0 - 2 com' è evidenziato nella figura 8 dalla corrispondenza individuata dalla
retta PA di ogni punto a con uno e un solo punto A, nonostante che il segmento 0-1 sia
con tutta evidenza più piccolo del segmento 0-2.
figura 8
Anche due circonferenze di diverse dimensioni hanno lo stesso numero di punti, infatti
nella figura 9 si vede che ad ogni punto A della circonferenza interna corrisponde un punto
B sulla circonferenza esterna, anche se questa è manifestamente più grande.
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figura 9
Ancora di più: qualsiasi segmento, pur essendo di misura finita, ha lo stesso numero di
punti dell'intera retta infinita (vedi figura 10).
figura 10
Nella figura si vede facilmente come si può stabilire una corrispondenza biunivoca tra tutti i
punti del segmento PQ, con l'intera retta RS. Basta tracciare le parallele PM e NQ alla
retta RS e individuati i due punti M ed N si vede che si può stabilire una corrispondenza tra
i punti del segmento PQ e della retta RS tracciando da M e da N i segmenti che
intercettano PQ e RS nei punti della corrispondenza.
Scherzi dell'infinito.
Abbiamo osservato che spesso l'infinito gioca brutti scherzi, vediamone un altro, se
possibile ancora più scioccante.
Consideriamo un triangolo rettangolo isoscele, con due cateti uguali, e proponiamoci di
calcolare l'ipotenusa. Allo scopo dividiamo i cateti in due parti, poi in tre,
figura 11
poi in quattro e in cinque costruendo le spezzate come nelle figure 11 e 12.
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figura 12
È del tutto evidente che la lunghezza totale della spezzata esterna al triangolo è sempre
uguale alla somma delle lunghezze dei due cateti ed è maggiore della lunghezza
dell'ipotenusa. Ma cosa succede proseguendo il processo all'infinito?
- la lunghezza di ciascun segmento della spezzata tende a zero
- la somma di questi infiniti zeri dà un risultato diverso da zero, uguagliando la lunghezza
dell'ipotenusa. Non solo, ma può dare un risultato qualunque. Infatti nel nostro caso
uguaglia la lunghezza dell'ipotenusa, qualunque ne sia la lunghezza.
-la somma di infiniti zeri non si può ottenere con le solite regole dell'aritmetica, perché la
lunghezza dell'ipotenusa (risultato del processo infinito) è minore della somma dei due
cateti (risultato al finito).
Ma chi diede la svolta fondamentale e decisiva all'intera questione fu Georg Cantor (18451918). Citiamo, quasi distrattamente, per non addentrarci in complicazioni matematiche la
teoria di Cantor dei numeri transfiniti..
Nel 1874, Cantor dimostrò che, al contrario di quel che tutti gli esempi precedenti lasciano
presagire, non tutti gli infiniti sono uguali e ci sono più possibili modi di essere "infinito",
aprendo la strada all'infinito in atto con la capacità di confrontare e di classificare gli infiniti.
In particolare, confrontando gli infiniti punti della retta reale R con i numeri naturali N, si
scopre che i due infiniti non sono uguali, non c'è corrispondenza biunivoca possibile tra i
due insiemi.
figura 13
La dimostrazione è semplice, ma per i nostri scopi possiamo ometterla. Cantor, nel XIX
secolo riesce a costruire una gerarchia di infiniti ai quali associa simboli, li maneggia
algebricamente, ne fa somme e prodotti, ne costruisce così un'infinità fino a inventare
un'aritmetica di questi infiniti, detti poi "numeri transfiniti", scrivendo limiti di limiti, ed
operando su essi.
Come si può facilmente immaginare, studiare l'infinito attuale, toccarlo, maneggiarlo,
misurarlo non poteva essere esercizio tranquillo ed indolore. Intanto, la questione aveva
risvolti religiosi. Come accennavamo all'inizio, l'Infinito sembra argomento più da teologi e
filosofi che da matematici. Cantor, che era buon credente e si occupava pure di teologia,
cercò di approfondire la questione, dedicandovisi tra il 1885 e 1888 e giungendo a
distinguere due possibili infiniti attuali: nella sua visione il primo, che chiamò Assoluto, è
un infinito con la I maiuscola, si applica solo a Dio, è tema della religione e non può essere
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umanamente percepito e accostato per via scientifica; l'altro, che battezzò Transfinito per
sottolinearne la differenza rispetto al precedente e tenerlo alla dovuta distanza, è appunto
l'infinito della Matematica, l'oggetto delle sue ricerche, sul quale si può lavorare e
disquisire senza con questo pretendere di misurare il Paradiso con i suoi angeli. Ma,
risolta per questa via (ed anzi con il Nulla Osta delle autorità religiose di Roma) la
questione teologica, Cantor doveva superare la diffidenza della comunità scientifica
rispetto alle sue nuove teorie matematiche. La sua opera cozzava infatti chiaramente
contro il dettato aristotelico e, quel che è forse peggio, contro il parere di matematici
illustri, contemporanei o poco precedenti. Abbiamo già citato l'opinione di Gauss
sull'infinito attuale in Matematica (da vietare categoricamente). Anche Kronecker, che pure
era stato il maestro di Cantor durante i suoi studi universitari a Berlino, ne rifiutò le
scoperte: "il lavoro di Cantor sui numeri transfiniti e sulla teoria degli insiemi non è
Matematica, ma misticismo" ed aggiungeva, come già ricordato, che "i numeri interi
positivi sono i soli creati di Dio; tutto il resto è opera dell'uomo e quindi sospetto". Pur
tuttavia, la vita di Cantor dopo la scoperta dell'infinito non fu un paradiso (neppure
matematico) ma piuttosto uno di quegli inferni che gli scienziati sanno ben costruire
(quando vogliono) per i loro colleghi, lastricato di invidie, polemiche, ostracismi, dispetti.
Dunque Cantor non ebbe possibilità di carriera universitaria e rimase confinato nella
piccola sede di Halle. Chi di infinito colpisce ... purtroppo l'ostracismo che incontrò gli
provocò progressive crisi di depressione, fu ricoverato in clinica psichiatrica e lì, nel 1918,
morì.
Altri grandi matematici tuttavia apprezzarono l'opera di Cantor e la accolsero con
entusiasmo. Del resto, Cantor aveva - per così dire - dischiuso all'uomo l'infinito degli
angeli, un paradiso lungamente nascosto e ritenuto inaccessibile per millenni. Così
Bertrand Russell scriveva nel 1910: "la soluzione delle difficoltà che in passato
circondavano l'infinito matematico è probabilmente la massima conquista che la nostra
epoca ha da vantare" e David Hilbert definiva la teoria dei cardinali "un prodotto
sbalorditivo del pensiero umano" e commentava: "nessuno riuscirà mai a cacciarci dal
paradiso che Cantor ha creato per noi", non serpenti, né peccati originali, né tentazioni
matematiche.
Una piccola conclusione s'impone qui. Il ricorso all'infinito è chiaramente una necessità
matematica che persino Aristotele era disposto a riconoscere, anche se lui accettava solo
l'infinito potenziale. E oggi? L'idea di infinito ha invaso tutte le branche della matematica,
fino, ad esempio, a introdurre spazi a un numero infinito di dimensioni. Ma l'accettazione
dell'infinito in atto è tutt’altro che risolta. Al riguardo si sono costituiti alcuni movimenti che
hanno fatto delle scelte di campo nella filosofia della matematica. Esiste un movimento
"finitista", che ritiene privo di senso il ricorso all'infinito, dal momento che gli oggetti che
fanno appello alla nozione di infinito, non sono reali. Ora, se e vero che l'infinito non ha ma
rappresentazione intuitiva, bisogna anche riconoscere, con Bertrand Russell, che la
matematica non si occupa dell'esistenza di oggetti, ma della loro possibilità di esistenza. Il
movimento "formalista", nella linea di Hilbert, ritiene che, se la supposta esistenza degli
infiniti di entrambi i tipi non ha prodotto contraddizioni fino ad oggi, bisognerebbe però
dimostrare che non potrà mai produrre contraddizioni. Accettano pertanto il concetto
d'infinito, ma soggetto a ben definite condizioni. Da ultimo la scuola degli "intuizionisti",
creata dal logico e matematico Brouwer, considera la percezione come estranea alla vita,
un'illusione, che agisce nella vita come una torre di Babele con la sua confusione delle
lingue. Gli intuizionisti cosi escludono le operazioni con totalità infinite, pur non
respingendo le successioni infinite e la nozione di limite. Tutta la controversia può essere
riassunta dal poeta e filosofo Paul Valery (un intellettuale che più di ogni altro ha lottato
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per abolire le divisioni del mondo della cultura, e che incontreremo più sotto) "C'è in noi
una sensazione finita dell'infinito. Non è prova di alcunché".
Al di là di Euclide: Frattali
Galileo Galilei, che è universalmente considerato il padre del metodo scientifico,
sintetizzava magistralmente il suo pensiero sull’importanza della matematica nello studio
della natura:
“Il libro della natura è scritto in lingua matematica ed i suoi caratteri sono triangoli, cerchi
ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente
parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” (Opere)
A più di tre secoli di distanza Benoit Mandelbrot estende le considerazioni di Galileo:
“La geometria euclidea è incapace di descrivere la natura nella sua complessità, in quanto
si limita a descrivere tutto ciò che è regolare. Tutti gli oggetti che hanno una forma
perfettamente sferica, oppure… mentre osservando la natura vediamo che le montagne
non sono dei coni, le nuvole non sono delle sfere, le coste non sono dei cerchi, ma sono
oggetti geometricamente molto complessi.” (da Les objects fractals 1975”)
Mandelbrot introduce così una grande evoluzione nella geometria con la teoria dei frattali
(dal latino frangere cioè spezzare), una geometria cioè che non si limita più a studiare le
figure semplici della geometria euclidea, triangoli, quadrati, cerchi …, ma si estende alle
figure complesse che si ritrovano in natura: alberi, montagne, coste, vene e arterie, ..
Questa evoluzione è stata resa possibile dalla disponibilità dei computer e della loro
enorme capacità di calcolo, perché i frattali sono algoritmi, processi iterativi, (ecco che
compare l’infinito), che possono essere trasformati in forme e strutture solo con l’aiuto di
un computer. Il tipico processo iterativo è quello in cui il calcolo su un dato fornisce un
risultato che rientra come dato nel passo successivo e così via senza fine. Il processo è
cioè simile a un investimento a interesse composto, in cui il capitale più l’interesse che
viene raggiunto a un certo momento è il nuovo capitale su cui calcolare l’interesse per il
periodo successivo.
Questo tipo di calcoli fornisce modelli atti ad imprigionare in formule matematiche quelle
forme della natura come fiori, alberi, fulmini, fiocchi di neve, cristalli, che non erano state
considerate riproducibili con regole matematiche. Ne risultano forme geometriche
“autosomiglianti”, che si ripetono indefinitamente, a ogni scala di grandezza e a ogni
singolo segmento di curva, e che svolgono il ruolo essenziale di supporto matematico
nella modellizzazione dell’evoluzione caotica di un fenomeno, come in figura
Frattale di Mandelbrot: la figura a) si ritrova, autosimile a se stessa nei successivi
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ingrandimenti; addirittura ingrandendo la sottile linea orizzontale contenuta nelle prime tre
immagini, già in d) si percepisce un piccolo nodo, che, ingrandito ancora, diventa
l’immagine f), la quale contiene ancora l’immagine a), eccetera.
Vediamo un altro esempio: Curva di Koch o curva a fiocco di neve (Helge von Koch 18701924), così costruita: si parte da un triangolo equilatero e si sostituisce il terzo centrale di
ogni lato con due lati di un triangolo equilatero (si hanno per ogni lato 4 segmenti uguali)
si sostituisce ciascuno di questi quattro segmenti con quattro sotto-segmenti della stessa
forma. Si continua sempre allo stesso modo…e si ottiene la figura finale:
Si tratta di una curva e come tale è di area nulla, e che contorna una superficie limitata,
dal momento che è tutta contenuta in un cerchio, ma di lunghezza infinita; infatti ogni
passo della sua costruzione aumenta la lunghezza totale nel rapporto di 4/3, quindi la
curva di Koch ha una lunghezza infinita.
Per soli matematici: essa è continua, ma al limite in tutti i suoi punti non ammette la retta
tangente; è un “essere” geometrico vicino ad una funzione continua senza derivata.
Lo scopo dell’immagine seguente è di illustrare ulteriormente il concetto di
autosomiglianza, evidenziando che ogni forma si ripete simile a se stessa a scala ridotta
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In natura una simile autosomiglianza si trova ad esempio nei broccoli:
Un frattale è quindi una figura geometrica o un oggetto naturale che si ripete a scala
differente con una forma irregolare interrotta e frammentata a qualsiasi scala.
Con i frattali nasce un ampliamento del concetto di dimensione geometrica: per esempio,
come può una linea avere area? Nella figura che segue sono riportati i passi che portano
alla costruzione della curva di Hilbert, una curva che ricopre esattamente e fittamente
l’area di un quadrato.
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Infinito in fisica
Finora abbiamo sempre parlato dell'infinito dando per scontato che si parlasse del
"grande", ma è ovvio che il processo iterativo può rivolgersi anche al "piccolo". Questo è il
caso quando si tratta della materia o del movimento.
Il problema dell’infinito ha sotteso la storia della cinematica e della dinamica; da
Archimede fino a Galileo sono stati numerosi i tentativi di spiegare il Mondo con la
matematica. Però ci si doveva confrontare con il problema degli infinitesimi. Come
interpretare somme infinite di parti infinitamente piccole con una formulazione matematica
rigorosa?
Già Zenone nel V secolo A.C. aveva evidenziato, attraverso i suoi celebri paradossi,
pervenutici grazie ad Aristotele, che un utilizzo men che attento del concetto di infinito
poteva avere ripercussioni inaspettate, come l’impossibilità di una freccia, lanciata
dall’arco, di volare per raggiungere il bersaglio. Dello stesso tipo, ma certamente più noto,
è il paradosso di Achille e la tartaruga. Riguardo a questo paradosso, Borges scrive:
"non conosco migliore qualifica per il paradosso di Achille, tanto indifferente alle decisive
confutazioni che da più di ventitré secoli l'aboliscono, che ormai possiamo salutarlo
immortale. ... Viviamolo ancora una volta, anche se solo per vincerci di perplessità e di
intimo arcano. Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di
lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di
vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre
quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la
tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga un
millimetro; Achille il millimetro, la tartaruga un decimo di millimetro, e così all'infinito; di
modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla".
Fin qui, il paradosso immortale, richiamato anche dai poeti del Novecento
Zenone! Crudele Zenone! Zenone d'Elea!
Mi hai trafitto con questa
Freccia alata,
Che vibra vola e tuttavia
Non vola!
Il suono mi dà vita
E la freccia mi uccide!
Ah! Il sole
Come ombra di tartaruga
Per l'anima come
Achille immobile dai grandi passi!
Paul Valery Le cimitière marin
Non è difficile immaginare che anche un greco, ignaro dei rudimenti del calcolo
infinitesimale, "vedesse" altrettanto bene la "soluzione" del paradosso. Infatti si può
visualizzare con la geometria che la somma di infiniti termini può essere finita.
Prendiamo un segmento, dividiamolo a metà e teniamo la metà di sinistra. Ad essa
aggiungiamo la metà della parte a destra. Alla somma ottenuta aggiungiamo di nuovo la
metà della parte a destra e così via. Le parti che avanzano a destra sono sempre più
piccole, ma si possono sempre dimezzare e sommare alla parte sinistra. Il processo è
infinito ma la somma è finita, pari alla lunghezza del segmento di partenza (vedi figura 14).
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figura 14
I paradossi in realtà, se correttamente intesi, non possono essere confutati. Essi non
mirano a confutare il moto in sé, ma la sua formalizzazione matematica per la descrizione
della realtà fisica (il tempo e lo spazio).
Lo scioglimento delle difficoltà con lo sviluppo dell’analisi infinitesimale nel XVII e XVIII
secolo ha permesso di sviluppare su basi nuove la fisica, portando a una teoria
soddisfacente del movimento, dell’elettromagnetismo e in genere di tutta la fisica che
chiamiamo classica. Così, fino alla fine dell'Ottocento la situazione concettuale della fisica
era ben definita: la materia e la radiazione potevano essere infinitamente suddivisibili
mantenendo le proprie caratteristiche, e le traiettorie dei corpi potevano essere
rappresentate da infiniti tratti di dimensioni piccolissime, infinitesime. Se l’adozione
graduale dell’infinitamente piccolo in matematica consente la nascita della fisica
matematica, si è ancora lontani da una genuina teoria dell’infinito. Per due secoli
matematici e fisici hanno messo a punto con successo tecniche di calcolo trattando infiniti
e infinitesimi pur contestandone i fondamenti filosofici. La vera crisi della fisica
concernente materia, radiazione e movimento venne nei primi decenni del Novecento con
la scoperta della Meccanica Quantistica.
Dicevamo che la materia e lo spazio erano considerati infinitamente divisibili, e questo
aveva permesso lo sviluppo del movimento dei corpi rigidi, la meccanica dei fluidi, la
termodinamica,…
Ma con l’inizio del Novecento e le nuove scoperte della fisica, il quadro concettuale si
complicò notevolmente. La scoperta del decadimento radioattivo, delle particelle alfa e
degli spettri atomici, ha suggerito che la materia sembrava costituita da a-tomi, cioè nondivisibili, fino a trovare una nuova teoria soddisfacente della materia e del movimento nella
Meccanica Quantistica. Anche la luce, che era pensata come energia continua e
infinitamente divisibile, risulta poi suddivisa in pacchetti di energia, quanti, che si scoprono
necessari a spiegare i collegamenti tra radiazione e materia. Inoltre, l’idea di una luce con
propagazione istantanea, velocità infinita, deve sostituirsi con quella di un valore finito,
molto grande e adatto ai grandi spazi del cosmo, e per giunta universale, ossia
indipendente da come si muove chi lo misura.
L'infinito rientra in maniera più profonda a cominciare dalle particelle, che sono descritte
da una funzione d'onda, "potenzialmente" distribuita su tutto lo spazio infinito.
Una caratteristica particolare di questa funzione è che un’osservazione sperimentale della
posizione dell'elettrone fa immediatamente "collassare": la funzione d’onda: dall’essere
diffusa su tutto lo spazio diventa non nulla solo nella zona in cui si è trovato l'elettrone e
dove assume il valore "1", ossia il 100% di probabilità.
Di seguito riportiamo alcuni argomenti di attualità a scopo informativo generale, senza
entrare nel merito per la difficoltà dell’argomento.
Effetto Zenone quantistico
Il paradosso di Zenone è stato utile per sviluppare molti concetti alla base della
matematica e della fisica moderne, e non si dovrebbe liquidarlo banalmente. Persino nella
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meccanica quantistica riecheggia il nome di Zenone nel cosiddetto "effetto Zenone
quantistico", che, riprendendo metaforicamente il paradosso della freccia, afferma che un
sistema, che decadrebbe spontaneamente, è inibito o addirittura non decade affatto se
sottoposto ad una serie" infinita" di osservazioni (o misure).
Di recente vari esperimenti:
l'esperimento di Itano et al.(1990), basatosi su un'idea di Cook (1988), quello di Kwiat et
al. (1995) sulla polarizzazione dei fotoni, e quello di Fischer et al. (2001), hanno dato
verifica sperimentale di questo effetto.
Teoria dei campi quantizzati
Nella teoria quantistica l'interazione tra particelle diverse ciascuna con la sua funzione
d'onda, è chiamata teoria dei campi quantizzati: in particolare si chiama elettrodinamica
quantistica quella parte che riguarda l'interazione tra elettroni e fotoni.
L'elettrodinamica quantistica è probabilmente la teoria più precisa che sia mai stata
formulata. Un esempio dei suoi successi viene dal lavoro di Toichiro Kinoshita, un fisico
della Cornell University che negli ultimi trent'anni del novecento ha sondato ogni aspetto
della teoria per calcolare certe proprietà speciali degli elettroni. I suoi calcoli riempiono
migliaia di pagine e hanno richiesto l'intervento dei computer più potenti al mondo per
essere completati. Ma ne è valsa la pena: le previsioni teoriche fornite dal suo lavoro sono
state verificate sperimentalmente con una precisione di una parte su un miliardo.
Ma, come tutta la storia ci ha insegnato, l'infinito che si è cercato in tutti i modi di espellere
o quanto meno di esorcizzare, qui rientra dalla finestra e finora tutti gli innumerevoli sforzi
dei fisici più illustri per eliminarlo non sono approdati a nulla.
La fisica quantistica descrive sotto forma di un campo, la funzione d'onda, qualunque
sostanza e quindi elettroni, protoni, fotoni, .... Le proprietà di questi campi sono molto
diverse dagli oggetti trattati dalla fisica classica. Anzitutto un campo quantistico si estende
necessariamente in tutto lo spazio infinito e non si può concepire diversamente, (anche
un singolo elettrone o fotone è diffuso su tutta l'infinità dello spazio). E poi è definito dal
suo "stato". Può avere, ad esempio, stati con energia più o meno grande, stati con più o
meno particelle, stati più o meno localizzati. La novità fondamentale è che anche in uno
stato perfettamente determinato, il numero di particelle non è definito. C'è una incessante
attività di creazione di coppie "virtuali" particella-antiparticella, che non possono essere
rilevate (per questo si chiamano "virtuali"), ma che tuttavia con la loro presenza perturbano
il vuoto agendo di rimando sulle particelle "reali". L'esempio più semplice è quello di due
elettroni che si scambiano un fotone (l'interazione elettromagnetica). Il fotone può dar
luogo a una coppia elettrone-positrone, questi a loro volta possono emettere un fotone che
può a sua volta dar luogo a una nuova coppia ... senza fine. La gamma delle possibilità è
infinita. Scambi sempre più aggrovigliati tra differenti tipi di particelle che appaiono e
scompaiono: l'infinita complessità della situazione comporta grossi problemi di calcolo e di
comprensione. Il calcolo diretto dell'energia dell'elettrone avviluppato da questo "velo" di
energia risulta infinito e questo è un problema. Se teniamo presente la relazione E= mc2
all'energia infinita corrisponde una massa infinita, e qui in effetti l'infinito entra a "gamba
tesa", diremmo con una metafora calcistica; e questo non è un problema, è un grave
problema. Una soluzione logicamente coerente non è stata trovata, si è trovata solo una
scappatoia che è di prendere come riferimento l'energia dello stato di vuoto. Cioè
considerare l'energia dell'elettrone come differenza tra lo stato di campo dell'elettrone
(infinita!) e l'energia del vuoto (che risulta pure infinita). Il trattamento delle equazioni della
teoria quantistica dei campi fa dunque comparire degli infiniti. I fisici non sono riusciti a
risolvere il problema, ma l'hanno per così dire scavalcato: si chiama rinormalizzazione
questa procedura di "eliminazione" dell'infinito. Non si saprà mai cosa sia veramente
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l'energia o la massa di un elettrone; ma non si cercherà mai di saperlo, e ci si contenterà
di una procedura che permetta di calcolare la sua massa rinormalizzata. Con questa
ricetta la teoria consente di calcolare qualsiasi quantità misurabile con un eccellente
accordo sperimentale
Conclusione
Abbiamo esaminato alcune riflessioni che l’uomo ha fatto sul concetto di infinito. Filosofi,
scienziati, teologi si sono affacciati a un palcoscenico dove lo spettacolo non voleva
seguire il copione preparato. Si sono sforzati di accendere i riflettori sul palcoscenico,
ciascuno dal suo punto di vista, ma il soggetto dello spettacolo non si lascia a tutt’oggi
illuminare completamente. Abbiamo anche visto che l’unanimità non si è raggiunta
neanche nell’ambito della scienza che più si può ritenere una costruzione dell’uomo, la
matematica.
Vogliamo concludere con un piccolo quesito.
In un paese c’è un solo barbiere che rade tutte e solo le persone che non si radono
da sé; chi rade il barbiere?
Se non risolvete l’indovinello, guardate a pagina seguente
Alcuni riferimenti:
Jean-Pierre Luminet, Marc Lachièze-Rey Finito o infinito Ed. Le Scienze
Giuseppe Longo L'infinito matematico “in prospettiva” e gli spazi dei possibili (da internet)
Università Bocconi La matematica dell'infinito (da internet)
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Soluzione (?) del quesito
Il barbiere non può radersi da sé
per definizione rade solo coloro che non si radono da sé.
d’altra parte non può non radersi
per definizione deve radere tutti quelli che non si radono da sé.
Il quesito non è risolubile nella nostra logica che è quella aristotelica-scolastica del “tertium
non datur” (dal latino: non è ammessa una terza possibilità), cioè: un’affermazione è o
vera o falsa. Ciò non si può applicare in questo caso.
Questo quesito è una semplificazione divulgativa di un’antinomia di B.Russell sulla teoria
degli insiemi, dove l’infinito è di casa. Se volete, nessuno vi impedisce di approfondire…
Quota di partecipazione € 3,00
Viale Monza 140
Informazioni: www.navigliopiccolo.it
(M1 Gorla - Turro)
email [email protected]
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PDF | It`s a long way L`infinito cacciato dalla