I CRISTIANO-SIONISTI E LE TENDENZE MILLENARISTICHE
DELLA CULTURA POLITICA STATUNITENSE
di Luigi Copertino
(LEZIONE AL MASTER “ENRICO MATTEI” IN VICINO E MEDIO ORIENTE –
UNIVERSITA’ DI TERAMO – FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE – 14 MAGGIO 2010)
Premessa
Avendo pubblicato circa due anni fa un pamphlet sugli influssi del neoconservatorismo nella
destra cattolica italiana (1), mi sono imbattuto, quasi di conseguenza, nel fenomeno del
cosiddetto cristiano-sionismo, ultimo “parto” in ordine di tempo del protestantesimo
evangelicale americano e più in generale anglosassone. Nell’indagare sul neoconservatorismo
mi accorsi che negli Stati Uniti di George Bush si era realizzata una congiuntura politica tra la
raffinata cerchia di intellettuali neoconservatori, che guidavano dai posti chiave
l’amministrazione Bush, e le masse del fondamentalismo protestante, in particolare quelle della
cosiddetta “cintura della Bibbia” corrispondente pressappoco ai vecchi Stati confederati del
Sud. Una strana alleanza, a dire il vero, dal momento che i neocons, seguaci del filosofo ebreotedesco-americano Leo Strauss, per il quale le identità religiose e culturali in genere sono state
soltanto la geniale invenzione di saggi filosofi che ha permesso all’umanità di fuoriuscire dallo
“stato ferino”, sono quasi tutti atei, e non a caso negli Stati Uniti sono per lo più ritenuti “preti
atei”, in profonda assonanza con i nostri più provinciali “atei devoti”. Stranezza che tuttavia si
dissolve quando, come faremo, si va a fondo delle origini del fenomeno cristiano-sionista.
Indagine che ci costringe, però, ad allargare il nostro orizzonte molto indietro nel tempo, alla
ricerca delle radici di quella patologia spirituale che è il “millenarismo”, ossia l’idea della
realizzazione intra-storica ed intra-mondana del Regno di Dio.
L’eccezione abramitica
Unico caso, nella storia dell’umanità, di esperienza religiosa che nasce da una Rivelazione,
laddove le altre esperienze sono “mitico-immanenti”, la fede ebraica proclama un Dio che si fa
conoscere per la sua “eticità”. Il Dio d’Israele è un Dio “morale”, la cui suprema cura sono la
santità e la giustizia. Il comandamento della santità rivolto agli uomini è fondato sul
convincimento che Dio stesso è Santo. “Il Signore parlò a Mosé dicendo: ‘Parla a tutta
l’assemblea di Israele, dì loro: Siate santi, perché Io, il Signore, vostro Dio, sono Santo”
(Levitico, 19). Agli uomini è richiesto di essere giusti perché Dio stesso è Giustizia:“Smettete di
fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso” (Isaia, 1), “Il
santo Dio si mostra santo nella giustizia” (Isaia, 5). Così anche i Profeti veterotestamentari.
Amos (5, 21-24):“Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche
se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io
non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso
sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne.”. Osea
(6,6):“voglio la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.”.
Geremia (7,4-7):“Non confidate nelle parole menzognere di coloro che dicono: Tempio del
Signore, Tempio del Signore, Tempio del Signore è questo! (dove la triplice ripetizione è
un’ironia nei riguardi delle litanie levitiche, nda) Poiché, se veramente emenderete la vostra
condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo
avversario; se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue
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innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dèi, Io vi farò abitare in
questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre.”. Ancora Isaia
(5,8):“Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più
spazio e così restate soli ad abitare nel paese” (l’attualità di questa ammonizione di Isaia è
incredibilmente palpabile nel nostro quotidiano mediorientale). Fino a culminare, perché la
Bibbia è una Rivelazione progressiva, nella compiuta e definitiva rivelazione giovannea: “Dio è
Amore” (I Gv. 4,16). Il Cristianesimo, infatti, è l’universalizzazione dell’Ebraismo perché Cristo,
che si presenta come l’Incarnazione del Dio di Israele, supera l’esclusivismo ebraico, che
derivava dall’essere l’unico popolo portatore della Rivelazione Monoteista. In Cristo, come
afferma san Paolo, è abolita ogni distinzione, nella prospettiva di un piano salvifico universale,
tra giudeo e greco, tra ebreo e gentile. Il Dio di Abramo con Cristo diventa il Dio di tutti i popoli
e tutti i popoli in Cristo entrano nell’Alleanza del Dio di Abramo senza aver più bisogno di
assoggettarsi ai formalismi, come la circoncisione, della Legge (di essa nel Cristianesimo resta
l’essenziale, che Cristo dichiara di non essere venuto ad abolire ma a compiere, ossia l’amore
di Dio e del prossimo). Solo in Cristo è stato, infatti possibile, superare l’esclusivismo ebraico
che, in precedenza, impediva, a causa della non appartenenza carnale, al popolo ebreo ai
gentili di entrare a pieno titolo nell’Alleanza del Dio di Abramo: i non ebrei infatti non
potevano, come non possono neanche oggi, convertirsi alla fede ebraica ma solo tutt’al più
diventare meri proseliti, spiritualmente e ritualmente in posizione essenzialmente subordinata
agli israeliti.
Israele, sin dagli albori della sua storia, si presenta come un popolo unico, scelto da un
misterioso Dio trascendente, depositario di una Rivelazione assolutamente differente da ogni
altra forma di religiosità del tempo. Infatti, in un mondo di “magia” e di “panteismo”, Israele è
portatore della fede nel Dio unico ed è subito impegnato nella lotta, a tratti persino cruenta,
con i popoli circonvicini, dediti ai culti pagani della fertilità, non esenti da sacrifici umani, per
difendere il Monoteismo. Spesso, in questa tensione, Israele da segni di cedimento, ossia si
lascia contaminare sincretisticamente dai culti pagani, come ad esempio nel caso di Re
Salomone che introduce culti stranieri, ma prontamente si leva la possente voce di Dio per il
tramite dei profeti a richiamare, persino con la minaccia dell’abbandono del popolo eletto alla
mercé dei suoi nemici, Israele alla fedeltà al Dio di Abramo.
Alla luce dell’eccezionalità ed unicità della grande esperienza religiosa di Israele, scoprire
l’esistenza di un fondamentalismo ebraico, non meno sanguinario e feroce di altri
fondamentalismi, può lasciare interdetti, soprattutto se si rammentano le sofferenze del popolo
ebraico nella sua plurimillenaria storia.
Eppure anche l’ebraismo o, meglio, il giudaismo post-biblico conosce, come vedremo, forme
devianti e malate di religiosità. E queste forme sono direttamente connesse con l’oggetto
principale della nostra lezione di oggi: millenarismo, sionismo e cristiano-sionismo.
Doglie messianiche. L’Apocalisse secondo Condoleezza Rice.
Condoleezza Rice durante l’aggressione israeliana al Libano nel luglio 2006, in qualità di
segretario di Stato americano, ebbe a spiegare le vicende vicino-orientali di oggi nel modo
seguente:“Il mondo sta ascoltando ‘le doglie’ del nuovo Medio Oriente che nasce, e non
possiamo tornare indietro a quello vecchio” (2). “Doglie del parto” non è un’espressione
casuale né la Rice, pronunciandola, l’ha usata a caso. Essa è intrisa di una forte valenza
religiosa. Nel capitolo 12, 1-2 dell’Apocalisse è scritto:“Nel cielo apparve poi un segno
grandioso: una Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di
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dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto”. In questa immagine, la
Donna vestita di sole nel travaglio del parto, l’esegesi cattolica da sempre vede,
congiuntamente, la Chiesa e la Vergine Maria, che della Chiesa è il tipo, il modello di
perfezione. La Chiesa, come Maria Vergine, è sposa ed è Madre e, come Maria, porta, ecco il
travaglio del parto, Cristo all’umanità. San Paolo (Romani 8,19-22) ricorre alla stessa
immagine per dire che la creazione intera, sottomessa alla “schiavitù del peccato”, geme e
soffre nelle doglie del parto perché attente con impazienza la rivelazione dei figli di Dio per
partecipare essa pure alla salvezza che Cristo ha conseguito per l’umanità. Attraverso le doglie
della Chiesa e della creazione giungerà a maturazione il regno messianico, restaurazione della
primordiale comunione divino-umana, quel “regno” che Cristo dice essere già qui quando il
cuore degli uomini si apre allo Spirito d’Amore e che, però, l’esegesi cattolica, fedele
all’insegnamento del Divino Maestro, non ha mai inteso come un regno terreno ma sempre
come un regno oltre storico, post-storico, e dunque spirituale nella resurrezione gloriosa della
carne e nella glorificazione trasfiguratrice dell’intero cosmo. Il catechismo della Chiesa
cattolica, al numero 1042, insegna che solo “Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla
sua pienezza. Dopo il giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati
in anima e corpo, e lo stesso universo sarà rinnovato”. Il catechismo, qui, richiama
inequivocabilmente il capitolo 21,1 dell’Apocalisse:“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra,
perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più”. Appunto: il cielo e
la terra “di prima”, ossia quelli attuali, scompariranno ed al loro posto vi sarà un nuovo cielo e
una nuova terra trasfigurati nella Gerusalemme Celeste che scende dal Cielo a porre fine ai
tempi ossia a porre fine alla storia sacra profanata dal peccato di Adamo e redenta dalla Croce
di Cristo. Dio tornerà ad essere, come all’alba dei tempi, tutto in tutti soltanto alla fine della
storia e non nel tempo attuale. La comunione mistica di Dio con l’uomo ed il mondo redento
non saranno mai, neanche alla fine dei secoli, una teocrazia politica mondana. Ma la Rice,
nell’usare l’espressione apocalittica che abbiamo citato, non seguiva l’esegesi di Santa Romana
Chiesa.
Nelle inquietanti parole della Rice riecheggia piuttosto l’esegesi messianico-millenarista
elaborata in seno al giudaismo post-biblico. Il giudaismo post-biblico non ha in verità nulla a
che fare con l’autentico Ebraismo dal quale è germinato il Cristianesimo, che in effetti è il vero
Ebraismo adempiuto nella sua Universalità ancora in potenza nell’Antico Testamento. Il
giudaismo post-biblico è una interpretazione della Scrittura, assolutamente altra rispetto a
quella ebraico-cristiana, che affonda le proprie radici in tendenze spurie derivate dalla
commistione sincretistica con la religiosità panteista dei popoli pagani vicini di Israele,
sincretismo ampiamente attestato nell’Antico Testamento soprattutto dalla critica e dalla
condanna di esso da parte del profetismo, e che ha trovato la propria codificazione postcristiana nel Talmud e nel testo masoretico della Bibbia nonché nella cosiddetta corrente spuria
della mistica cabalista, chiaramente di matrice gnostica. L’esegesi giudaica messianicomillenarista, fatta propria dalla Rice, nega, ci dice rabbi Loew, qualsiasi: “ … continuità diretta
tra esilio e redenzione. Un periodo intermediario, cioè le doglie dell’era messianica, è una
necessità logica. Prima che il Messia si manifesti avrà luogo la soppressione dell’essere nel
mondo, poiché ogni nuovo essere è la rovina dell’essere che lo precedeva e soltanto allora, con
la rovina del vecchio, il nuovo essere inizierà” (3). Sussiste una differenza essenziale tra il
messianismo giudaico e quello cristiano. Da una prospettiva ebraica Gershom Scholem
definisce questa differenza come quella che corre tra una concezione messianica tutta interna
alla storia, propria del giudaismo, ed una concezione aperta allo spirituale ed alla
trascendenza, propria del Cristianesimo (4). Il messianismo intramondano è all’origine del
“millenarismo” o “chiliasmo” ossia di quell’escatologia ereticale che Augusto Del Noce ha
giustamente individuato nell’:“… idea della successione temporale della città della pace e della
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felicità universale a una città degenerata che ha raggiunto l’ultimo grado dell’ingiustizia e della
barbarie” (5).
Sorto da un’interpretazione rabbinica dei testi profetici a sfondo messianico, il millenarismo fu
accolto nei primi secoli anche da certi ambienti cristiani, influenzati dallo gnosticismo, sulla
base di un’interpretazione letterale della profezia riportata nell’Apocalisse di Giovanni al
capitolo 20, 1-5. I Padri della Chiesa, al contrario, respinsero unanimemente l’interpretazione
letterale del Regno millenario di cui al predetto capitolo dell’Apocalisse. Alcuni - tra i Padri ammettendone un’esegesi spirituale, per la quale il regno è realtà già in atto ma è realtà
eminentemente spirituale, altri identificando il millennium con la vita della Chiesa sulla terra
nella fase storica che va dalla Incarnazione alla Parusia. Sant’Agostino è esplicito, in tal ultimo
senso, nel capitolo XX del “De Civitate Dei”. In ogni caso, la Chiesa ha sempre respinto il
millenarismo sia nella sua forma cosiddetta “crassa”, per la quale durante il millennio la terra
sarà il “regno di bengodi” ossia una sorta di continua orgia sfrenata per gaudenti, sia nella sua
forma cosiddetta “mitigata”, che identifica il millennio con una “teocrazia politico sacrale” di
Cristo sulla terra in virga ferrea. Il millenarismo è per l’esegesi cattolica un’impostura pseudomessianica. Il catechismo della Chiesa cattolica ai numeri 675 e 676 è chiarissimo:“La
massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui
l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio … Questa impostura anti-cristica si delinea nel mondo
ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere
portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la
sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome
di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato
‘intrinsecamente perverso’. ”. In altri termini, nell’Apocalisse secondo il magistero cattolico è
descritto, simbolicamente ed archetipicamente, il dramma cosmico e storico del conflitto
originario tra Dio e satana che durerà, coinvolgendo quotidianamente il cuore di ciascun uomo,
fino alla fine dei tempi e che tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, come
diceva sant’Agostino, caratterizzerà il cammino storico della Chiesa fino alla Parusia. Non così,
come si è detto, per il giudaismo post-biblico.
Giudaismo post-biblico e millenarismo.
Nella storia del popolo ebreo vi è stata una profonda frattura in ordine all’esegesi della
Rivelazione di Dio ad Abramo ed agli altri Patriarchi. Questa frattura esegetica è stata la
conseguenza del dramma della diaspora. L’esegesi talmudica della Scrittura, dopo la catastrofe
della distruzione del Tempio nell’anno 70, ha finito per rinnegare la fede in un Messia
personale, già prima di Cristo mal intesa in alcuni settori dell’ebraismo nel senso di un messia
capo politico, sostituendola con quella nel ruolo messianico del popolo ebreo, in quanto tale,
che così è diventato, per il giudaismo post-biblico, il “messia collettivo”. Si tratta, con tutta
evidenza, di una auto-idolatria messianica che fa del popolo ebreo, disperso tra le genti, la
vittima sofferente, per la salvezza del mondo, il cui “sacrifico espiatorio”, a favore dell’umanità,
avrebbe raggiunto il suo inaudito culmine nel cosiddetto “olocausto”, che da mero, benché
tragico, ed innegabile, genocidio, purtroppo non unico nella storia dell’umanità né esclusivo
della storia ebraica, è stato fatto assurgere, in chiave religiosa e con fini di supporto politico
dello Stato di Israele, ad un “sacrificio salvifico” alternativo a quello di Cristo. Il “Servo
sofferente” profetizzato da Isaia (Is. 50,4-10; Is. 52,13-15; Is. 53), l’isaiano “uomo dei dolori”,
nel quale i Padri della Chiesa hanno visto l’annuncio profetico del Christus Patiens, nell’esegesi
del giudaismo post-biblico è stato identificato con il popolo ebreo inteso come “messia
collettivo”. Un noto esponente del giudaismo post-biblico, Dante Lattes, nella sua “Apologia
dell’ebraismo” lo conferma: “Il Messia-Uomo dei tempi eroici, l’uomo ideale del futuro, il Figlio
di David (quello, cioè, febbrilmente atteso nel primo secolo avanti Cristo, n.d.a.) diventa il
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popolo-Messia. Israele è il ‘servo di Dio’ che soffre per la salute del mondo, per la conversione
del mondo” (6). Lo conferma anche Ghersom Scholem, il grande studioso del messianismo
ebraico, già citato, quando, in un’opera sul messia gnostico Sabattai Zevi, scrive a proposito
dell’idea messianica nel giudaismo post-biblico:“ … l’aspetto più sorprendente (…) è la
debolezza della sua immagine del Messia (…) In questo processo il Messia di per sé gioca un
ruolo debole e insignificante (…) trasferendo a Israele, la nazione storica, gran parte del
compito di redenzione precedentemente assegnato al Messia: molte delle sue caratteristiche
personali distintive, quali figurano nella letteratura apocalittica erano ora cancellate” (7). Il
collettivismo messianico del giudaismo post-biblico ci è così descritto dall’ex rabbino capo di
Roma Elio Toaff: “Il Dio degli ebrei è il Padre, e il popolo di Israele è il Figlio. Questo Figlio ha il
compito di perpetuare il concetto dell’esistenza del Padre e della sua unità a tutti i popoli della
terra…Tutti sono figli di Dio. Il Messia è quella persona o quell’epoca che porterà la fraternità
universale…”(8). Ed ancora: “L’era messianica è un’aspirazione e vi si arriverà quando tutti si
saranno convinti che gli uomini sono fatti a immagine di Dio” (9). Questa concezione non è
nuova. Essa è l’essenza del giudaismo post-biblico che non conosce redenzione se non in
termini mondani, immanenti, millenaristici. Il rabbino Zevi Perez Chayes così nel 1918
entusiasticamente elogiava:“L’imperialismo giudaico, l’unico che arricchisce gli uomini non per
una maledizione ma per una benedizione, l’unico che non opprime, ma solleva, che non porta
schiavitù, ma liberazione, che non ferisce, ma cura, l’imperialismo giudaico, che trova la sua
più alta espressione nella parola della Bibbia: ‘Deve venire, verrà il tempo, in cui la nostra
concezione del mondo riempirà l’universo’; il nostro imperialismo è l’unico che possa
impunemente sfidare i millenni, l’unico che non abbia da temere alcuna decadenza e alcuna
sconfitta, che incrollabile e invincibile muova con passo graduale, ma fermo, verso la mèta”
(10). E’ innegabile, in effetti, che questa prospettiva mondanizzata è quella che ha prevalso
nei secoli moderni, quelli della decristianizzazione globale, contro l’escatologia cristiana di un
Regno che, pur essendo con Cristo già comparso nel mondo, è in realtà oltre il mondo, oltre la
storia. Ha notato Franco Volpi: “L’idea ebraica di un principio universale che abbraccia tutta
l’umanità (nell’aldiquà) ha trovato la sua incipiente realizzazione nell’era globale in cui il mondo
è effettivamente entrato” (11). Delle due interpretazioni della storia mondiale, che secondo
Carl Schmitt si contendono da sempre l’adesione dello spirito umano, l’ebraica post-cristiana,
che vede la redenzione nell’aldiquà, e la cattolica, che invece l’attende nell’aldilà, quella che
oggi sembra rivelarsi perdente è proprio la seconda. Mentre tutto fa attualmente pensare che il
Cattolicesimo romano sia destinato a declinare “vincente - afferma ancora Franco Volpi - …
sarebbe (l’interpretazione) ebraica (della storia): l’umanità in cammino progressivo verso il
‘regno di pace’ futuro, verso la nuova Gerusalemme, lontana nel tempo, ma situata
nell’aldiquà” (12). Secondo rabbi Golinkin, giovane rabbino americano, la fede giudaica : “…
non è una fede nell’altro mondo … Fra noi, c’è chi dice che quando il Messia arriverà, tutto sarà
come prima, salvo che non ci saranno più guerre” (13). Ed ancora Elio Toaff ribadisce:
“L’epoca messianica è … il contrario di quello che vuole il Cristianesimo: noi vogliamo riportare
Dio in terra e non l’uomo in Cielo. Noi non diamo il Regno dei Cieli agli uomini, ma vogliamo
che Dio torni a regnare in terra” (14). Da un punto di vista cristiano, la prospettiva giudaica
post-biblica configura una escatologia ambigua nella quale sembrano convergere tutte le
deviazioni pseudo-messianiche, chiliastiche, utopiche ed ideologiche partorite nel corso dei
secoli. Appare evidente, infatti, l’orizzonte immanentistico della visione giudaica. Nella
prospettiva mondana del messianismo giudaico post-biblico è chiaro che un Messia che dice “Il
mio Regno non è di questo mondo” (Gv. 18,36) non è accettabile. Per il giudaismo post-biblico
l’Alleanza fra Dio e il popolo eletto comporta sempre la promessa di un regno nell’aldiquà.
Il sionismo messianico.
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Questa esegesi riduce la Messianicità ad una dimensione del tutto mondana, in realtà
nonostante le apparenze chiusa alla Trascendenza. Questo tipo di messianicità mondana è
diventato il carattere distintivo ed esclusivo di Israele, inteso come popolo, ed il fondamento
del suo preteso primato mondiale spirituale. E’ evidente che il clima dei nostri tempi è
impregnato di questa esegesi giudaico-postbiblica. Ma è proprio questa “mondanizzazione”
della Messianicità a dare la stura, che lo vogliano o meno i Dantes Lattes e gli Elio Toaff, ad un
processo di eterogenesi dei fini, ossia al manifestarsi in concreto del rovescio oscuro della
medaglia, con cui la coscienza ebraica deve fare, ed al più presto, i conti. Come li ha fatti, a
suo tempo, Israel Zolli, il rabbino capo di Roma durante l’occupazione nazista, che abbandonò,
inorridito dalla protervia sionista, il giudaismo post-biblico protestando che l’autentico
Ebraismo, che egli ritrovò in Cristo, annuncia il “Regno” e non il “regno” ossia – intendeva dire
Zolli - il Cielo e non il focolaio nazionale sognato dai sionisti o il ritorno nella terra promessa
auspicato dai rabbini. Infatti, l’esegesi sostenuta dal giudaismo post-biblico, benché in
apparenza dotata di un presunto carattere rivelatorio e di una valenza salvifica universale in
modo da presentare il popolo ebreo come affidatario di una missione globale di salvezza, e per
questo votato alla sofferenza, in realtà si espone inevitabilmente a trasmodare con tutta
facilità, come di fatto è spesso avvenuto nel corso della storia del pensiero rabbinico postbiblico, in aberranti concezioni politiche elitarie che sfiorano il razzismo e che pongono non
pochi e seri dubbi sull’accettazione, da parte del giudaismo post-biblico, o perlomeno di alcune
sue non minoritarie correnti, del principio dell’unità di natura del genere umano, che è principio
intrinseco e fondamentale alla Rivelazione ebraico-cristiana. Vittorio Messori non esita
giustamente a puntualizzare:“In effetti questa è una questione reale: anche oggi, sarebbe
bene far chiarezza, … . Nella catastrofe del 70, con la distruzione del Tempio e la diaspora dei
sopravvissuti, scomparvero praticamente tutti i gruppi e le sette del giudaismo. Il quale, da
allora, fu contrassegnato quasi solo dal fariseismo. Furono i rabbini di quella corrente a creare i
due smisurati, complessi, labirintici commenti, discussioni, raccolte di episodi e di aneddoti che
formano i due Talmud, quello di Gerusalemme e quello di Babilonia … per molti (ebrei postbiblici), se non per la maggioranza, la Torah, la Legge e i Profeti, (sono) … in secondo piano
rispetto al Talmud. Per cui il loro, piuttosto che ebraismo biblico, (è) … rabbinismo talmudico.
Non si dimentichi che alcuni Maestri erano giunti a dire che la Scrittura era ‘acqua’ mentre il
Talmud era ‘vino’. E, dunque, era superiore …, il Talmud ha, per un non ebreo, aspetti
inquietanti, affermando la superiorità di Israele su ogni altro popolo e annunciando – per un
futuro indefinito ma certo – il trionfo mondiale dei figli circoncisi di Abramo, cui tutti gli altri
finiranno per versare tributo e prestare omaggio ... la prospettiva talmudica molto insiste sulla
pretesa ebraica di costituire una razza superiore, eletta, destinata a sottomettere le altre, a
utilizzarle,se necessario a umiliarle” (15). Certamente non tutti i rabbini, se “puri di cuore”,
leggono la distinzione tra ebrei e goym, presupposta dalla pretesa ebraica di un primato
spirituale collettivo, in chiave di discriminazione spirituale e tanto meno etnico-razziale.
Eppure, benché un certo rabbinato si sforzi ampiamente di sottolineare che il primato spirituale
di Israele, rivendicato dal giudaismo post-biblico, sarebbe da intendersi in senso, per l’appunto
spirituale, come servizio di sofferenza per la salvezza di tutti, è impossibile negare che il passo
dalla pretesa primazia spirituale di un popolo alla pretesa superiorità culturale, politica e
finanche razziale del medesimo è sin troppo facile, come la storia si è incaricata di dimostrare
più di una volta tra XIX e XX secolo.
Ora, che anche in ambito ebraico la ricaduta ideologica vi sia effettivamente stata, e con
conseguenze aberranti, è fin troppo evidente per chi si addentra nella storia della cultura e
della spiritualità ebraica, in particolare per quanto riguarda gli ultimi due secoli. Il sionismo pur
essendo in apparenza nato laico, come ideologia nazionalista laica, movimento di rinascita
nazionale ebraica di stampo romantico-illuminista, nel corso del XX secolo si è trasformato in
ideologia nazional-religiosa e, di converso, ha trasformato il giudaismo da pura fede religiosa
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nel sostegno teologico di quella ideologia. Ma se questo è potuto accadere lo si deve al fatto
che il sionismo nelle sue componenti sia di destra sia di sinistra, ha, segretamente, sin dai suoi
albori, profonde connessioni con la spiritualità del giudaismo post-biblico. Infatti, sotto tale
profilo, lo stesso carattere di “ideologia laica nazionale” del sionismo appare molto discutibile
ed anzi diventa evidente che, al contrario, il sionismo solo ad una prima superficiale disamina
può essere omologato ai movimenti liberal-nazionali o social-nazionali che sono stati i
protagonisti della storia europea tra XIX e XX secolo. E’ emblematica, in proposito, la polemica
che vide, a suo tempo, contrapposti Theodore Herzl, uno dei padri fondatori del sionismo, e gli
ebrei francesi, che ormai, da quando la Rivoluzione del 1789 aveva abolito i ghetti, non senza
preoccupazioni da parte del rabbinato che nel ghetto vedeva un luogo di sicuro rifugio e difesa
dell’identità etnico-religiosa ebraica (e di controllo “clericale” sul popolo), si erano andati a tal
punto integrandosi nella società nazionale francese, come altrove in quella tedesca, inglese o
italiana, da non sentirsi più parte estranea ma del tutto “intranea” alla nazione che li ospitava.
In sostanza quegli ebrei integratisi accusavano Herzl di voler riedificare, in forma nuova, il
ghetto per separare ancora una volta gli ebrei dai loro fratelli nazionali, o più in generale dai
loro fratelli in umanità. Questa fu la perentoria risposta di Herzl ai suoi detrattori ebrei “Io
credo pertanto - scrive Herzl – che crescerà dalla terra una generazione d’ebrei meravigliosi: i
Maccabei risorgeranno (…). Chi può, vuole ed è costretto a scomparire, scompaia pure. Ma la
personalità del popolo ebraico non vuole e non è costretta a scomparire (…). Interi rami
dell’ebraismo possono morire, cader giù; l’albero vive. Se dunque tutti o alcuni degli ebrei
francesi protestano contro il mio progetto, perché si sarebbero già ‘assimilati’, la mia risposta è
semplice: tutta la faccenda non li riguarda. Essi sono francesi israeliti: benissimo! Questo però
è un affare interno degli ebrei” (16).
Giorgio Galli, in chiusura della sua opera sull’esoterismo nazista (17), ricorda la meraviglia di
George Mosse, il massimo storico israelita del nazismo (autore di opere storiche fondamentali
come “La nazionalizzazione della masse” e “Le origini culturali del Terzo Reich”), nel constatare
la assoluta somiglianza tra il nazionalismo pangermanista ed il nazionalismo sionista e la loro
comune ispirazione religiosa di tipo nazional-messianica (la nazione eletta, il popolo-messia).
Somiglianze che, osserva Mosse, tentano lo storico a stabilire tra nazismo e sionismo una
correlazione (Mosse, tuttavia, respinge la tentazione) o, come osserva invece Galli, che
afferma la possibilità di un tale rapporto, anche sulla base di elementi suggeriti dallo stesso
Mosse, tentano a stabilire tra essi un rapporto speculare. In consonanza con le osservazioni di
Galli e di Mosse, Domenico Losurdo ha avuto modo di scrivere:“All’interno del fondamentalismo
ebraico, non mancano settori che continuano ad insistere sulla sostanziale differenza
qualitativa tra ebrei e ‘gojim’ e che tendono a de-umanizzare in modo particolare il popolo
palestinese: proprio per questo, essi vengono condannati da un prestigioso scrittore israeliano,
Leibovitz, come seguaci di un movimento ‘giudeo-nazista’” (18).
Secondo rabbi Neusner, il rabbino citato da Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazareth”, il
giudaismo post-biblico ha una prospettiva universalista e, pertanto, nient’affatto nazionalista.
In realtà, però, e questo sembra sfuggire al rabbino amico del Papa, questa prospettiva
universalista non è affatto disgiunta o contrapposta a quella nazionalista. Infatti, come si è
detto, secondo l’esegesi rabbinica è Israele il “servo sofferente” ossia il “messia collettivo” che
porta la salvezza a tutta l’umanità. Ora, proprio per questo, la prospettiva universalista
contemplata dal giudaismo post-biblico è intrinsecamente e fondamentalmente nazionalista.
Essa, facendo di Israele un messia collettivo, implica una superiorità, o perlomeno il rischio di
una superiorità, spirituale che, al di là di una sua interpretazione in termini di servizio, di
sofferenza, per la salvezza del mondo, inevitabilmente diventa, o tende a diventare,
affermazione di superiorità di natura (l’ebreo ed il goym sarebbero di natura sostanzialmente
diversa) e quindi anche politica, per non dire di peggio. Trattando dell’ideologia politico-
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(!
religiosa del “Gush Emunim”, il “Blocco dei fedeli”, un movimento di estrema destra israeliano,
Israel Shahak spiega il percorso della trasformazione del sionismo in ideologia nazionalreligiosa: “… il laico sionismo – egli scrive - che ha assegnato agli ebrei stessi il compito di
restaurare Israele, coincide paradossalmente proprio col misticismo … dei Gush Emunim le cui
origini teologico-politiche si basano sugli scritti di due rabbini, Abraham Itzhak ha-Cohen Kook,
il primo rabbino alla testa degli insediamenti ebraici in Israele, per il quale ‘i sionisti erano
senza saperlo i veri emissari di Dio’ e suo figlio Zvi Yehuda Kook. Per i seguaci del Gush
Emunim il sionismo secolare, di colorazione socialista, era un movimento che 'annunciava'
l’inizio della redenzione venuta dal cielo (...) il sionismo ha un ruolo nel piano messianico, è
essenziale e sacro. C’è una missione dell’ebraismo che soltanto il sionismo può assolvere. Ma
una volta compiuto il suo destino, sarà esaurito insieme al secolarismo, e apparirà la sua
religiosità latente” (19). Rabbi Avraham Kook è stato il fondatore di una yeshiva (scuola
rabbinica) denominata Torat Cohanim e fu tenace assertore dell’idea, chiaramente prometeica,
di “forzare la mano a Dio” costringendoLo a ristabilire il Patto con Israele mediante la
ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e la ripetizione del sacrificio pasquale dell’agnello.
Rabbi Kook è stato il maestro spirituale di Vladimir Z. Jabotinsky (1880-1940). Quest’ultimo fu
propugnatore, nell’ambito del movimento sionista, di un sionismo razzista che avrebbe dovuto
costituire la futura base dello Stato Nazional-Autoritario di Israele. I padri della patria
israeliana, Menachem Begin e Ytzak Shamir, furono seguaci spirituali di rabbi Kook e allievi
politici di Jabotinsky. Essi furono a capo delle organizzazioni terroristiche ebraiche, come la
Banda Stern e l’Irgun, che nell’immediato secondo dopo guerra, tra attentati anti-inglesi e
ferocissimi massacri degli arabi, comprese donne e bambini, colpevoli solo di risiedere da secoli
nella “terra promessa”, riuscirono nell’impresa di accelerare la fondazione dello Stato sionista
di Israele. Ancor oggi il nazionalismo millenarista e razzista di Jabotinsky è l’ideologia ufficiale,
alquanto stemperata nei moderati, del Likud, del Kadima e degli altri partiti nazional-religiosi
ultra-ortodossi della destra religiosa ebraica. Quello del sionismo è stato uno strano destino.
Fin quando rimase ideologia di tipo “laico” esso suscitò sovente diffidenze ed avversioni da
parte del rabbinato e del giudaismo religioso, perché si temeva che la sua impostazione laica
accelerasse il processo di assimilazione degli ebrei da parte delle società nazionali europee
mediante l’inoculazione nell’ambito ebraico degli stessi elementi illuministici che avevano
provocato la secolarizzazione del mondo cristiano. Per influsso di rabbi Kook, e dei rabbini a lui
vicini, esso è diventato lo strumento di Dio per l’adempimento delle promesse messianiche. Per
questa via, l’antico esclusivismo religioso ebraico ha finito per saldarsi con l’ideologia
nazionalista in una inedita miscela nazional-messianica che fa del preteso primato spirituale del
popolo ebreo, una volta letto dai rabbini in chiave teologica, un preteso primato politico e, in
certe frange estremiste, perfino razziale. Il rabbinato, salvo alcuni gruppi come i “Neturei
Karta” ed i “Rabbis for Human Right”, che resistono su posizioni tradizionaliste, è oggi
favorevole al sionismo ed ha abbandonato l’antica diffidenza, un tempo maggioritaria, verso di
esso. L’esegesi esclusivista rabbinica, attraverso il sionismo, ha prodotto un etnocentrismo
ebraico pseudo-messianico con pretese universalistiche (il primato mondiale di Israele) che da
Martin Buber è così descritto:“L’elezione divina consacra il popolo come la schiera che egli
(Dio) governa direttamente e la Terra come sua sede regale e li affida l’uno all’altra. Questa è
una categoria teopolitica della santità piuttosto che una categoria di culto. Che sia Dio colui che
associa questo popolo a questa Terra, non è una prospettiva storica posteriore: le schiere
erranti furono continuamente infiammate dalla promessa fatta ai padri, e i più accesi tra essi
videro Dio stesso procedere dinanzi al popolo nella sua Terra” (20). E’ questa “teologia
politica”, che nasce dal convergere dell’antico esclusivismo religioso e del nazionalismo laico,
per diventare tendenzialmente razzismo etnico-religioso e patologia fondamentalista, a
costituire oggi la cultura della classe dirigente religioso-politica dello Stato di Israele.
Una gnosi razziale.
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Gli studi di Shahak sulle correnti fondamentaliste dell’odierno giudaismo hanno consentito di
far luce sul riaffiorare, in queste moderne concezioni teologico-politiche, della dottrina
esoterica di Ytzak Luria, il più noto cabalista del XVI secolo (21). La concezione cabalista di
Luria si fondava sulla dottrina dello “zim-zum” divino. Secondo tale dottrina la creazione è “il
ritiro di Dio dal mondo”: il mondo si manifesta perché la divinità, che ne costituisce il prestrato panico, si ritira, si nasconde, si contrae. Alla contrazione seguirà poi una nuova
espansione di Dio (22). Benché vi siano cabalisti che leggono il “contrarsi” di Dio come un atto
di Amore creativo perché questo sacrificio della divinità consentirebbe l’apparizione della
creatura, ed in effetti questo tipo di esegesi è attestata in quelle correnti cabaliste che Julio
Meinvielle ritiene di radici pure ossia conformi alla Rivelazione ebraico-cristiana, nell’esegesi
gnostica luriana, in realtà, il cosmo che la contrazione divina ha generato è malvagio perché
privo della Luce divina e perché con la sua stessa presenza creaturale rende prigioniera, limita,
la Divinità. Per riscattarla l’uomo, anch’esso un risultato della contrazione divina, è destinato a
soffrire nell’oscurità del Mondo. Non, però, l’uomo in generale ma l’Ebreo. L’esilio di Israele è in
funzione della mirabile finalità della liberazione di Dio e della restaurazione della forma
originaria del cosmo che saranno possibili perché nella malignità del mondo continuano a
sussistere piccole scintille della primordiale luce divina. Queste scintille sono le anime degli
ebrei. In tal senso, gli ebrei sono gli unici veri uomini laddove i gojim costituiscono una
umanità di rango inferiore. Luria insegnava che:“Un ebreo non è stato creato come mezzo a
uno scopo: egli stesso è lo scopo, dal momento che tutta la sostanza dell’emanazione è stata
creata solo per servire gli ebrei” (23). Infatti, il cabalista rinascimentale aveva elaborato un
“esoterismo razziale” che contemplava la dualità tra la superiore razza ebraica e quelle inferiori
dei gentili. La razza ebraica, secondo tale dottrina esoterica, è la materia qualificata ad
incarnare le emanazioni divine nel mondo manifestato, mentre le razze gentili, prive di ogni
qualificazione spirituale, sono il risultato brutale della frammentazione del pleroma divino
originario. Per questo Luria sosteneva che:“le anime dei non ebrei sono malvagie e create
senza conoscenza” (24). Quando la restaurazione sarà compiuta, l’Esilio di Dio finirà, verrà il
Messia, ossia Israele, e si realizzerà la Redenzione, il Regno finale promesso ad Israele sul
Mondo. Un Regno, tutto nell’aldiquà, inteso in termini di coincidenza panteistica di Dio con il
mondo, riassorbito nella riespansione della Divinità finalmente liberata dal Messia/Israele. Un
Regno al quale i goym potranno prendere parte soltanto come adepti (servi?) noachici, ossia
come figli di Noé, essenzialmente distinti dai figli, carnali, di Abramo, questi ultimi
spiritualmente privilegiati da Dio. La dottrina cabalista della “contrazione-espansione” di Dio ha
profondamente influenzato il processo di trasformazione del sionismo da nazionalismo laico in
teologia politica. L’“esilio di Dio” dalla sua Terra è diventato, non a caso, il tema teopolitico che
regge la costruzione ideologica del sionismo, dietro la quale si nasconde, in forma laicizzata, la
teosofia cabalista. La mistica, spuria, giudaica ha concepito l’esilio di Israele come l’esilio
stesso di Dio dalla creazione, sicché l’Israele sionista realizza oggi, secondo questa prospettiva
gnostica, il ritorno di Dio dall’esilio, ma non in una forma immediatamente “mistica” bensì,
dietro fattezze apparentemente laiche, nella forma di una concreta realtà storico-politica: lo
Stato d’Israele. Tuttavia, pur mediata dalla forma apparentemente laica dell’ideologia sionista,
la “mistica gnostica” non tarda a rivelarsi come la spuria essenza spirituale del sionismo. Da
qui la pretesa della classe dirigente israeliana per la quale nulla è opponibile al primato dello
Stato di Israele fondato sul suo diritto “messianico” e “divino” al dominio, esclusivo e totale,
della Terra Santa. Quella fin qui esaminata è una gnosi messianica che ritroviamo parimenti
immutata nella dottrina della setta cabalista “Lubavitcher”. I raduni di preghiera dei
Lubavitcher sono molto frequentati dai neoconservatori americani, i quali (quasi tutti) sono di
origini ebraiche. L’influsso spirituale della setta Lubavitcher pare abbia avuto, a suo tempo, un
notevole peso nelle decisioni dell’Amministrazione Bush. Il defunto capo nonché “messia” di
questa setta rabbinica, Rabbi Schneerson, citando passi talmudici espliciti nell’affermare la
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superiorità spirituale di Israele, insegnava che: “La differenza tra un ebreo e un non-ebreo si
comprende alla luce della nota sentenza: differenziamoci (…). Dunque, non abbiamo qui solo il
caso di una persona che sia solo di livello superiore all’altra. Invece abbiamo qui il caso di un
‘differenziamoci’ tra specie totalmente diverse. Il corpo di un ebreo è di qualità totalmente
diversa dal corpo di ogni altro individuo delle nazioni (…) L’intera creazione esiste solo per il
bene degli ebrei” (25). E commentando Genesi 1,1, “In principio Dio creò il cielo e la terra”,
rabbi Schneerson affermava: “(questo versetto) significa che tutto fu creato per il bene degli
ebrei, che sono chiamati il ‘principio’. Ciò significa che tutto è vanità in confronto agli ebrei”
(26). Se rabbi Golinkin, sopra citato, cerca di rassicurare spiegando che secondo la fede
giudaica il conseguimento da parte del Messia-Israele del primato universale, cui sarebbe
divinamente destinato, segnerà l’avvento della Pace Universale, non si può non rimanere
interdetti quando questo “paradiso terrestre”, prospettatoci da rabbi Golinkin, nelle parole di
un altro rabbino, J. Immanuel Schochetal, sarà caratterizzato dalla “… beatitudine fisica e
spirituale. […] La vita sarà facile e piena di comodità. Altre persone si prenderanno cura dei
nostri bisogni materiali, secondo quanto è scritto: ci saranno degli stranieri che nutriranno i
vostri armenti, e dei forestieri che areranno i vostri campi e si cureranno delle vostre vigne
(Isaia 61,5). La terra sarà straordinariamente fertile e ogni specie produrrà in abbondanza,
mentre gli alberi daranno frutta ogni giorno. In quel tempo non ci sarà più né carestia né
guerra, né invidia né rivalità. Tutte le cose buone si troveranno in abbondanza e tutte le
delicatezze saranno facili a trovarsi come la polvere (Hilkhòt Melakhìm 12,5). Gli eventi e le
condizioni miracolose dell'era messianica oscureranno completamente tutti i miracoli accaduti
prima, compresi quelli avvenuti durante l'uscita dall'Egitto” (27). Inquieta certamente, in
questa descrizione, il fatto che “stranieri” e “forestieri” (chi sono?) lavoreranno per fare della
terra un paradiso messianico per il Messia collettivo.
Israele Britannico.
Il processo di de-ellenizzazione del Cristianesimo, per usare l’espressione di Benedetto XVI a
Ratisbona, un processo il cui esito finale è maturato ad Occidente, oltre Atlantico, nell’America
puritana, è iniziato con Lutero. In tal senso il protestantesimo è una sorta di “giudeizzazione”
del Cristianesimo, intendendo per “giudaismo” non la Fede di Abramo, quella che san Paolo
nella Lettera ai Romani (XI,16-24) chiama la radice santa e che era il Cristianesimo ante
litteram (“Prima che Abramo fosse, Io sono”, Gv. 8,58), né tanto meno la Legge di Mosé che
Cristo ha certamente abolito nelle sue formalità farisaiche, esclusivamente ebraiche, legate
all’economia dell’Antico Testamento, non però nella sua essenza ossia l’Amore di Dio e del
prossimo (Dt. 6,5; Lv. 19,18; Mt. 22,34-40) che Egli ha dichiarato permarrà fino alla fine del
mondo (Mt. 5,17-20), ma il giudaismo post-biblico ovvero l’esegesi che fa di Israele il Messia
Collettivo. Vi è, infatti, una stretta relazione tra il giudaismo post-biblico e quella che è stata
definita la “religione americana”: la relazione è data dall’aver la seconda ereditato, per una
sorta di osmosi spirituale, l’esegesi messianico-millenarista del primo. Essendo essa
espressione radicale delle istanze, nate dalla Riforma luterana, di “giudeizzazione”, nel senso
sopra detto, del Cristianesimo, nella religione americana si ha, semplicemente, la sostituzione
del “soggetto messianico” di riferimento: il “messia collettivo” non è il popolo ebreo ma la
“nazione americana”, il cui destino manifesto sarebbe il segno della benevolenza divina verso
l’America. Il trade union tra la Germania luterana e l’America puritana fu, però, l’Inghilterra
anglicana ed elisabettiana tra il XVI ed il XVII secolo. Dopo Lutero, è stato lo scisma anglicano
ad allargare la breccia per la quale l’esegesi giudaico-postbiblica è penetrata in ambito
cristiano. All’alba dell’età umanistica, in tutta Europa, gli influssi della mistica cabalista spuria
incrementarono il desiderio di una “nuova esegesi scritturistica”. Questa nuova esegesi ridava
fiato al millenarismo che fu già ereticale e gioachimita. Nel clima incandescente dell’Europa del
XVI secolo era fervente l’attesa di una nuova era messianica che inaugurasse un nuovo ordine
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mondano. Come ha dimostrato la Yates, questa esegesi ebbe un notevole peso spirituale in
Inghilterra durante il regno di Elisabetta. Questa nuova esegesi, nell’Inghilterra del XVI secolo,
rappresentò la giustificazione “teologica” di un progetto religioso-politico, dichiaratamente antiispanico ed anticattolico. La politica egemonica intercontinentale di Elisabetta aveva bisogno,
per scopi di propaganda, di una nuova cultura che giustificasse la sua inedita concezione
imperiale di tipo assolutista ed anti-tradizionale. Ha scritto in proposito Francis Yates: “… la
natura dell’imperialismo elisabettiano, … non riguardò soltanto l’espansione nazionale in senso
letterale, ma portò con sé le implicazioni religiose … della ‘riforma imperiale’, di una religione
purificata e riformata da esprimere e propagare attraverso un impero riformato, l’impero dei
Tudor con le connesse mitologie ‘britanniche’. La glorificazione della monarchia dei Tudor come
istituzione imperiale a carattere religioso si basava sul fatto che la riforma tudoriana aveva
eliminato il Papa e reso il monarca capo supremo sia della Chiesa sia dello Stato. Questo dato
politico di fondo era avvolto nella mistica dell’‘antica monarchia britannica’ … continuata dai
Tudor in quanto rappresentanti dell’antica stirpe britannica …” (28). E’ nell’imperialismo
religioso tudoriano che affonda le sue radici l’ideologia dei “British Israelites”. Questa ideologia
fa risalire la stirpe britannica alle dieci tribù perdute di Israele, facendo, in tal modo, di quello
inglese l’erede messianico delle promesse divine al popolo ebreo interpretate secondo l’esegesi
spuria rabbinica ossia come promessa di una egemonia spirituale e politica mondiale. Sir
Francis Drake, il noto corsaro al servizio della regina Elisabetta, in una lettera del 1587,
indirizzata a John Foxe, così si esprimeva:“Che Dio sia glorificato, la sua Chiesa e la sua Regina
preservate, i nemici della verità vinti e che possiamo avere ininterrotta pace in Israele” (29).
Israele, come è noto, in quanto Stato nasce soltanto nel 1948. Dunque a quale “Israele” si
riferiva Drake? L’augurio di pace rivolto dal corsaro inglese era riferito all’Inghilterra intesa,
secondo la criptica credenza esoterica “anglo-giudaica”, come Israele britannico.
Dal British Israel all’astro nascente degli States.
Nella mitologia del “British Israel”, lo abbiamo già accennato, i popoli anglosassoni, e quello
inglese in particolare, sono i discendenti delle “tribù disperse di Israele”, quelle del biblico
regno del Nord, che nell’VIII secolo avanti Cristo furono deportate dagli Assiri e delle quali, in
tutto dieci, si è persa ogni traccia perché assimilate culturalmente ed etnicamente dai popoli
conquistatori. La dottrina dell’anglo-israelismo, o anglo-giudaismo, sostiene che, per tale via
ereditaria, l’Inghilterra sia la nazione prediletta da Dio per l’avvento del futuro Regno
Messianico. Questa dottrina, le cui radici devono cercarsi nel clima politico-spirituale del regno
di Elisabetta, è stata alla base dell’imperialismo inglese fino al definitivo tramonto dell’impero
coloniale nel secondo dopoguerra. Infatti il convincimento che la monarchia inglese fosse
l’erede del regno di Israele consentiva di giustificare teologicamente l’imperialismo britannico.
La dottrina dell’anglo-israelismo non è cosa del passato. Essa è sopravvissuta al perduto
impero. Ancora nel 1934 Arnold Toynbee riferiva che:“Fra i protestanti di lingua inglese si
trovano … alcuni fondamentalisti che si reputano ‘il popolo eletto’ nel senso letterale del
termine, quale viene usato dal Vecchio Testamento. Questo ‘Israele Britannico’ fa
fiduciosamente risalire il suo ceppo fisico alle scomparse Dieci Tribù” (30). L’attuale vitalità
della dottrina anglo-giudaica è stata rilevata da Maurizio Blondet:“Nel 1991 – egli ha scritto –
mentre ero a Washington (infuriava la – prima – guerra del Golfo), mi capitò … di constatare
che i British Israelites esistono tuttora. Conservo un loro curioso libretto che pubblicarono
allora, ‘The Profhetic Expositor’, che è una summa delle loro credenze … Presto tornerà il
Messia e instaurerà il Regno di Dio, che sarà ‘un regno concreto e materiale, con territorio,
leggi, popolo e trono’. Sarà ovviamente la Casa Reale Britannica, ‘discendente da Davide’, a
occupare quel trono … l’ideologia che l’opuscolo ‘The Profhetic Expositor’ esprime (è) una sorta
di dottrina segreta coltivata nella cerchia interna dei fedelissimi alla Corona, e intimamente
legata alla religione di Stato britannica, l’Anglicanesimo … in tempi a noi vicinissimi (1952) Sir
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Oliver Cocker-Sampson, alto esponente conservatore … intervistato sui motivi della costante
politica inglese a favore del Sionismo e dello Stato d’Israele … rispose:‘Winston (Churchill),
Lloyd George, Balfour (quello della famosa dichiarazione del 1917 sul “focolaio nazionale
giudaico” da creare in Palestina) e io siamo stati allevati come protestanti integrali, credenti
nell’avvento di un nuovo Salvatore quando la Palestina ritornerà agli ebrei’. Di fatto, non è
facile spiegare razionalmente, in termini di Realpolitik, l’ostinazione della politica britannica a
favore del Sionismo ” (31). La setta dei “British Israelites” cova, come eredità dei tempi
tudoriani, un forte odio verso la Chiesa Cattolica. Lo storico britannico Hill, studioso del mondo
spirituale e culturale inglese tra cinquecento e seicento, ci informa che nel 1594 il matematico
inglese John Napier, l’inventore dei logaritmi, pubblicò nell’Inghilterra elisabettiana un’opera,
dal sintomatico titolo di “Chiara rivelazione dell’intera Apocalisse di San Giovanni”, nella quale
si invocava:“Il gran giorno, nel quale piacerà a Dio chiamare la vostra Maestà, o i vostri eredi o
gli altri principi riformati, a quella grande universale riforma e distruzione di quella città e di
quel trono anticristiano, Roma” (32). Anche Isaac Newton, lo scopritore della legge di gravità,
era convinto che il Papa fosse l’Anticristo. Il provvisorio cambio di regime, nel 1649, da
monarchico a repubblicano non costituì una rottura con la nascente ideologia dell’angloisraelismo, ma anzi si rivelò una radicalizzazione della stessa fino al delirio sterminatore al
quale pagarono il proprio tributo di sangue, insieme agli inglesi rimasti fedeli alla Chiesa di
Roma, anche i cattolici irlandesi. Nel discorso che Oliver Cromwell fece nel 1653 per
l’inaugurazione del parlamento, i motivi ispiratori dell’ideologia anglo-israelita trapelano con
tratti di evidente millenarismo:“… voi siete chiamati da Dio - disse il Lord Protettore ai
parlamentari - a governare con Lui e per Lui … la vostra è una chiamata dall’alto … possa
essere questa una porta aperta alle opere che Dio ha promesso e profetizzato … Noi
conosciamo coloro che saranno gli alleati dell’Agnello nella guerra contro i suoi nemici. Essi
devono essere un popolo chiamato, eletto e fedele … Io sono sicuro che qualcosa ci attende,
che ci troviamo su di una soglia … e qualcuno di noi ha pensato che fosse nostro dovere porci
su questa strada e non considerare invano quelle profezie di Daniele e dell’Apocalisse, ed il
regno non verrà affidato ad un’altra nazione” (33). La dottrina dell’“Israele Britannico”
continuò a prosperare oltremanica, più o meno segretamente. Nel XIX secolo essa ricompare
nelle opere di alcuni eruditi come John Wilson, il reverendo Glover, Edward Hein e George
Moore, accompagnandosi apertamente ad un millenarismo nutrito dell’attesa spasmodica
dell’imminente ritorno di Cristo per l’Armageddon finale e la restaurazione politica del regno
messianico, del quale nell’impero inglese si individuava l’antefatto. L’Hein, ad esempio,
assicurava che:“E’ del tutto impossibile che l’Inghilterra venga mai sconfitta … Armageddon si
profila in distanza. Sarà il tempo quando quasi l’intero mondo si radunerà in battaglia contro di
noi, e dobbiamo essere pronti” (34). L’aspetto razzista dell’ideologia anglo-israelita è
direttamente connesso con questo millenarismo, di sapore gnostico-talmudico, che proclama
apertamente la superiorità “metafisica” della razza inglese e, all’interno di essa, della casta
nobiliare, il “Vero Israele”, divinamente destinato per questo all’egemonia sul mondo intero.
Scrive in proposito Maurizio Blondet:“Lo storico dell’arte fabiano John Ruskin, alla fine dell’800,
entusiasmava la gioventù aristocratica predicando la superiorità anche razziale della casta
signorile britannica, a cui come ‘vero Israele’ era offerto il dominio del mondo: una missione
morale, poiché il mondo andava incivilito estendendo ad esso, volente o nolente, i benefici del
superiore umanesimo britannico” (35). Tale dottrina, accesamente anticattolica, ha nutrito e
tuttora nutre la convinzione di superiorità razziale coltivata dall’aristocrazia britannica. In nome
di tale dottrina, negli anni trenta del XX secolo, gli ambienti blasonati della corte inglese
strinsero intensi rapporti con il regime nazista, l’ideologia del quale, a sua volta, derivava il suo
“esoterismo” dai circoli teosofici protestanti che a suo tempo alimentarono l’elitarismo razziale
e nazionalista della Germania Guglielmina, trasposizione “ariosofica” della gnosi cabalista
razziale luriana. Durante l’età vittoriana, con l’imperialismo inglese trionfante su scala
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planetaria, la dottrina dell’“Israele Britannico” ebbe il suo momento di maggior peso anche
politico. Al momento dell’inizio del declino della potenza britannica la ragione addotta, dagli
anglo-israeliti, per spiegare tale crisi, fu l’allontanamento dell’Inghilterra dalla missione
salvifica affidatale da Dio. Fu a questo punto che molti anglo-israeliti costatando come al
declino inglese corrispondesse l’emergere della giovane potenza americana, nata dalle stesse
radici riformate dell’Inghilterra, giunsero alla conclusione che il favore di Dio si fosse spostato
verso gli Stati Uniti e che fossero questi ultimi la vera nazione erede delle dieci tribù
scomparse di Israele. Pertanto la funzione storica della madre patria inglese venne, da questi
anglo-israeliti, derubricata al ruolo di una sosta provvisoria, dell’eredità israelita, in terra
inglese necessaria in vista del suo definitivo passaggio verso il nuovo mondo, ancora di là
dall’essere scoperto ma, nel disegno messianico in corso di realizzazione, deputato a diventare
il luogo finale, la nuova terra promessa, dell’adempimento delle promesse bibliche. Romolo
Gobbi ha colto molto bene la filiazione anglo-israelita dell’ideologia puritana del “Popolo
Eletto”, della “Nazione Messianica”, in relazione all’identità messianico-protestante degli Stati
Uniti, e ricorda che, ad esempio, il colonnello David Humphreys, collaboratore del generale
Washington, premetteva al suo “Poema sulla Futura Gloria degli Stati Uniti d’America” questo
commento: “L’America, dopo essere stata nascosta per molti anni dal resto del mondo, fu
probabilmente scoperta, nella maturità del tempo, per diventare il teatro in cui rivelare i più
illustri disegni della Provvidenza, nei suoi doni alla razza umana” (36).
Il messianismo politico americano nel segno del “destino manifesto”.
Giuseppe Cosco, sulla scorta di un’osservazione di Maurizio Blondet, individua nella “translatio”
messianica del ruolo di “nazione redentrice”, di “vero Israele”, dall’Inghilterra agli Stati Uniti la
ragione per la quale:“Non è assurdo credere, a questo punto, che ‘Benjamin Franklin obbediva
alle stesse suggestioni quando, come membro del Triumvirato incaricato di disegnare il sigillo
degli USA, proponeva nel 1776 di raffigurarvi Mosé che divide il Mar Rosso mentre il Faraone e
i suoi armati sono sommersi dalle acque” (37). Il simbolo proposto da Franklin, sebbene poi
non ufficializzato, esprimeva molto bene l’isolazionismo elettivo americano, strettamente
connesso con un sentimento di separatismo di chiara matrice giudaica. Isolazionismo che,
insieme al suo rovescio interventista, è uno dei tratti peculiari anche politici del rapportarsi
degli Stati Uniti con il resto del mondo. Washington e Jefferson furono gli elaboratori della
dottrina, poi ufficialmente codificata nel XIX secolo dal presidente Monroe, con il nome del
quale è oggi nota agli storici, per la quale l’Occidente, qui identificato con il solo continente
americano, sarebbe la luminosa terra della libertà antagonisticamente divisa dall’Europa, terra,
al contrario, dell’oppressione. Dopo il primo abbozzo elaborato da Washington, fu, infatti,
Thomas Jefferson ad esprimere con estrema chiarezza questo sentimento americano di
avversione e distacco verso l’Europa e la conseguente necessità di tenere distinto ed opporre
l’emisfero occidentale, egemonizzato dagli U.S.A., alla vecchia Europa. Jefferson riteneva
provvidenziale il fatto che l’Oceano Atlantico separasse e proteggesse gli Stati Uniti dalla
contaminante corruzione europea. La visione jeffersoniana è ispirata, non a caso, ad una
prospettiva chiaramente millenarista, nella quale l’incontaminata purezza americana è presa ad
immagine della realizzazione mondana delle profezie bibliche sul futuro “regno di pace e
giustizia”. La necessità di evitare ogni contaminazione con l’Europa derivava, secondo
Jefferson, dal fatto che mentre il vecchio continente è il luogo delle monarchie, dove, testuale,
“le nazioni si sono divise in due classi, lupi e pecore”, l’America è il luogo della libertà e della
felicità (38). Nel discorso di insediamento all’atto di inaugurazione della sua presidenza,
Jefferson tornò sul provvidenziale fossato oceanico posto tra Stati Uniti ed Europa.
Successivamente, nel 1812 e nel 1820, egli riprese ripetutamente l’idea di un necessario
meridiano che divida gli Stati Uniti dall’Europa. L’America diventa in Jefferson, con evidente
richiamo ad un biblismo millenarista, l’emisfero nel quale “il leone e l’agnello vivranno in pace
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l’uno accanto all’altro”. Per il tramite dell’anglo-israelismo e dell’eredità puritana, questo
millenarismo messianico è tuttora vivo ed operante nella cultura e nella politica americana, in
particolare nella politica estera. Nel 1999, il senatore John Ashcroft, l’inventore del metodo
carcerario di Guantamano, alla Bob Jones University, dichiarava: “Unica tra le nazioni,
l'America ha riconosciuto che la fonte del nostro carattere è divino ed eterno, non civile e
temporale. E poiché sappiamo che la nostra fonte è eterna, l'America è diversa” (39). Jesse
Helms, senatore statunitense, in un discorso tenuto presso uno dei principali think tank della
destra neoconservatrice americana, la Heritage Foundation, ha esplicitamente dichiarato:“Noi
siamo al centro del mondo e intendiamo restarci […]. Gli Stati Uniti devono dirigere il mondo
portandovi la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza, e servire da esempio a
tutti i popoli” (40). Anche Ronald Reagan esprimeva convinzioni politiche ispirate ad un
millenarismo di retaggio evidentemente puritano quando affermava a proposito della Bibbia: “È
un fatto assolutamente inconfutabile che in questo unico libro si trovano le risposte a tutti i
complessi e spaventosi problemi che dobbiamo affrontare, sia in patria che all'estero”(41).
Non si creda, tuttavia, che queste tendenze apocalittico-millenariste siano un patrimonio
ideologico della sola destra repubblicana americana. Esse sono l’elemento essenziale
dell’identità stessa dell’America e dunque trapelano anche nella cultura politica dei democratici.
Il Presidente Clinton, ad esempio, ebbe a suo tempo modo di ribadire la funzione storicomessianica dell’America impegnandosi ad una politica tutta “… nella direzione di valorizzare il
ruolo guida degli Stati Uniti nel mondo” (42).
Anglo-giudaismo e rivoluzione puritana.
L’“anglogiudaismo”, al formarsi del quale contribuì, durante il suo soggiorno londinese, mentre
era dedito alle spiate anti-cattoliche, anche Giordano Bruno, fu il terreno di coltura della
rivoluzione puritana: l’idea millenarista pseudo-messianica emigrò sulla May Flowers verso le
sponde nordamericane. Eric Voegelin ha individuato nell’esperienza puritana, fondativa degli
Stati Uniti, un progetto gnostico volto alla trasposizione intramondana della Gerusalemme
celeste: il medesimo progetto che ha costituito, nella storia, il nocciolo duro di tutte le
esperienze rivoluzionarie anticristiane, dal giacobinismo, al comunismo, dal liberalismo al
nazismo. Il puritanesimo, infatti, è l’utopia religiosa dell’attuazione su questa terra della
società perfetta, della società cristiana ideale. Una utopia intrisa di millenarismo.
Nell’esperienza puritana il soggettivismo di origini luterane si trasforma in una ferrea tensione
volontarista rivolta alla costruzione del “mondo nuovo” nel quadro di un’esegesi apocalittica
che assegna un ruolo salvifico e messianico alla comunità egalitaria dei santi e dei puri, scelti
da Dio, con esclusione elitaria di tutti gli altri, per l’edificazione della Nuova Gerusalemme nella
Terra Promessa americana. Un volontarismo titanico di cui rimarrà traccia nella letteratura
americana: si pensi al “Moby Dick” di Melville nel quale è espressa tutta l’angoscia dello spirito
puritano di fronte al destino incombente sulla libertà del cristiano incatenata alla legge, al
“Leviatano” che si inabissa (un’immagine scritturale, quella del mostruoso, che già Lutero ed
Hobbes ripresero per indicare l’essenziale malvagità della natura umana e la “bontà” del potere
autoritario): la libertà soggettivista diventa qui soggezione assoluta ad una Legge di nuovo
interpretata come costringente legalismo farisaico. La religiosità puritana è non casualmente di
tipo biblico-talmudico: in essa la figura del “Cristo” non ha più il carattere del Logos, del Verbo,
ma assume un sapore “pneumatico”. Questo biblismo, che secolarizzandosi diventerà “biblismo
sociale” ossia etica degli affari, non deve ingannare. In ambito protestante, infatti, l’esaltazione
del Vecchio Testamento nasconde la falsificazione della fede attuata mediante un’esegesi
“giudaizzante” che, segretamente, connessa ad una matrice gnostica, riproduce, per tale via,
in ambito cristiano lo stesso fenomeno di concorrenza esegetica che ha già travagliato la storia
dell’Antico Israele nella quale, si veda ad esempio Ez. 8,5-13, influssi cultuali spuri hanno più
volte deformato la Fede di Abramo, ossia, come si è detto, la Radice Santa di cui parla San
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Paolo ovvero il Cristianesimo ante litteram (“Prima che Abramo fosse, Io Sono” Gv. 8,58),
contendendo alla Rivelazione divina l’egemonia spirituale (l’esegesi spuria della Scrittura era
diventata maggioritaria nel Sinedrio ai tempi di Cristo come sta a dimostrare il Suo scontro con
i sinedriti, da Lui esplicitamente accusati di tradire le fede di Abramo e Mosé).
Dai documenti, dai sermoni, dai decreti sinodali, lasciatici dai puritani traspare con evidenza
che il modello teorizzato e praticato è l’antico popolo di Israele del quale i puritani si
consideravano gli eredi. La letteratura religiosa puritana è un continuo citare passi
veterotestamentari letti secondo un’esegesi che fa del popolo d’Israele il soggetto messianico,
destinato a manifestare la divina volontà di fronte alle nazioni: soggetto che si perpetua negli
stessi termini di “messianismo collettivo” nella comunità puritana degli eletti, la “nuova Sion”,
chiamata da Dio a costruire, nel deserto dei selvaggi territori d’America, “la città posta sul
monte (The City upon a Hill)” secondo l’esortazione che uno dei leader tra i pilgrim fathers,
John Winthrop, rivolse ai puritani sulla May Flowers durante il viaggio verso l’America. Quella
città ideale, che Dio si sarebbe degnato di far rifulgere davanti a tutto il mondo, avrebbe
dimostrato che è possibile costruire la società cristiana perfetta: una città che, ammoniva
Cotton Mather, i santi e gli eletti avevano il sacro dovere di tenere, come “vigna del Signore”,
ben recintata e separata dal terreno incolto, il terreno del diavolo, ossia dal resto del mondo.
Elisa Buzzi, nota studiosa del puritanesimo, a proposito dei frutti dell’albero puritano ha
osservato: “Ma a un certo punto questo straordinario impeto creativo, questa energia umana e
religiosa si è esaurita, anzi si è rivoltata contro la vita. Già alla fine del ‘700 si può dire che il
puritanesimo come fenomeno religioso e sociale, nella sua matrice originaria, non esiste più
(…)” e si è chiesta: “Che cosa è accaduto perché questo popolo si chiudesse in se stesso,
diventasse così simile alla descrizione che Tacito dà dell’antico popolo ebraico: ‘Amicissimi tra
di loro, ma nemici di tutti gli altri?’. Anzi, spesso, anche nemici di se stessi, persecutori di altri
gruppi religiosi, sterminatori di indiani? Come è potuto accadere?”. La nota studiosa da la sua
risposta, che condividiamo, in questi più che chiari ed espliciti termini: “… la risposta va
cercata … nel cuore della loro esperienza religiosa. Il loro concetto del rapporto con Dio
mancava di Gesù. Paradossalmente la loro grandezza era anche il loro limite, perché nel
rapporto con Dio seguivano un metodo, una strada che … dopo Cristo, per dei cristiani, non è
… accettabile, non è … quella che Dio stesso ha scelto. La posizione dei puritani conteneva una
debolezza radicale: cercavano di rendere contemporaneo Cristo, di sperimentarlo, ma non
ammettevano che Cristo fosse una presenza che continua nella storia … tutta la tensione
religiosa è diretta e concentrata su Cristo, per avere ‘esperienza diretta di Cristo’ (experiential
piety). Ma è proprio in questo termine, ‘esperienza’, che si nasconde l’equivoco, perché è
un’esperienza che rifiuta le modalità, il metodo scelto da Dio in Cristo, cioè l’incarnazione e la
permanenza di Cristo nella Chiesa, nei sacramenti e attraverso il Magistero. Questo rifiuto, nei
grandi come Cotton o Edwards, genera il tentativo tragico, tormentoso, di mantenere
all’esperienza un significato veramente e puramente religioso (…). Negli altri, nei più, decade
immediatamente nell’irrazionalismo degli ‘illuminati’ e ‘entusiasti’ (anabattisti, antinomiani,
quaccheri) oppure nel moralismo legalista e iperrazionalista, l’ipocrisia, il peccato sommo per i
puritani, che a un certo punto deve essere accettato perché inevitabile, anzi socialmente utile”.
La Buzzi conclude osservando che: “Se la sorgente del puritanesimo si è inaridita, la cultura e
la mentalità americane ci appaiono ancora oggi disseminate di ‘ideali’ puritani. Il puritanesimo
è finito, ma sussiste una eredità, una tradizione puritana. Anzitutto il senso di un destino
particolare, di una promessa, di una missione di salvezza e rigenerazione per tutto il genere
umano. ‘Questa terra è stata posta qui per essere scoperta da un popolo speciale, da una
nuova genia di esseri umani chiamati gli Americani … (destinati) a rifare il mondo dall’inizio e a
costruire per tutta l’umanità una luminosa città posta sul monte’. Non è una citazione da un
discorso di Winthrop o da un Sermone di Edwards, ma dal Closing Statement, cioè dal Discorso
Finale della campagna elettorale di Ronald Reagan nel 1980. Ma anche l’idea della New Frontier
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kennediana, rivalutata oggi dai democratici, non è estranea all’idea di una rigenerazione e di
una missione” (43). L’idea di un’elezione divina degli Stati Uniti è stata ripresa da Samuel
Huntington, il teorico, di recente scomparso, dello scontro di civiltà, nella sua ultima opera “La
Nuova America”, come il tratto caratterizzante ed irrinunciabile dell’autentica identità wasp
americana: un elemento essenziale, a suo dire, che la politica dei neoconservatori dovrebbe
proporsi di salvaguardare, a tutti i costi, dall’inquinamento delle altre culture e componenti
etniche immigrate negli States. Questa idea pseudo-messianica è stata alla base anche
dell’ossessione di George W. Bush per l’esportazione globale ed unilaterale della democrazia. Il
messianismo millenarista, proprio della mentalità puritana, è tornato, non a caso, anche nelle
dichiarazioni bushiste sull’America in apocalittica e titanica lotta, la “guerra al terrore”, contro
l’“Impero del Male”. In un breakfast di preghiera, nel 2002, ad esempio, Bush jr. affermò che:
“Dalla fondazione dell’America, la preghiera ci rassicura che la mano di Dio guida gli affari di
questa Nazione”. La “religione americana” è in sostanza una spiritualità intimistica
caratterizzata dall’assenza di dogmi definiti e dall’esperienza solipsista di Dio (o del proprio “io”
confuso con l’alterità di Dio). Questa spiritualità ambigua è l’essenza della “religione civile”,
patriottica ed interconfessionale, alla quale aderiscono gli americani nella loro messianica
convinzione di essere depositari, per elezione e volontà divina, di una missione escatologica.
Sarebbe infatti sbagliato credere che il destino nazional-imperiale che essi si attribuiscono sia
dagli americani identificato con la sola esportazione globale del modello americano o, per stare
a slogan recenti, della democrazia. La vocazione missionaria che, da un secolo a questa parte,
ha spinto gli americani a rovesciare il proprio isolazionismo elettivo nell’interventismo
“purificatore” è il retaggio dell’esaltazione puritana, di matrice veterotestamentaria,
dell’America come la “Città di luce sulla collina”, benedetta da Dio per illuminare l’oscurità
tenebrosa di questo mondo totalmente impuro e peccaminoso. Una convinzione messianica che
accomuna gli americani, eredi dei puritani, ai giacobini ed ai marxisti, che, come loro, erano
preda del delirio totalitario per l’esportazione mondiale della Rivoluzione. Gli americani nutrono
di religiosità spuria ed immanente il proprio patriottismo (in altre parole bestemmiano Dio allo
stesso modo in cui lo bestemmiava il nazionalismo nazista con il suo “Gott mit üns”) nella
cromwelliana convinzione che Dio abbia affidato all’America un mandato per la salvezza
dell’intera umanità dalle insidie del Male che, di volta in volta, è stato identificato
nell’oscurantismo della vecchia Europa del papismo e del falso protestantesimo (questa
l’accusa all’Europa lanciata dai primi coloni puritani emigrati in America), nel fascismo, nel
comunismo, nell’islam. L’isolazionismo originario dei “perfetti cristiani” che, in quanto tali,
dovevano tenersi lontano da qualsiasi non strettamente necessaria relazione con il resto del
mondo, di per sé “impuro” e sgradito a Dio, diventa, rovesciandosi, la giustificazione teologica
della missione di “purificazione” dell’intero pianeta:“ ... è coi ‘puritani’ - scrive Ennio Innocenti
- che la rivoluzione dimostra il suo già perfetto modello, la volontà di costruire nella storia una
Nuova Gerusalemme fatta di uomini nuovi, puri, santi, autorizzati a compiere stragi in nome –
così affermava Cromwell – della misericordia (tale volontà continua ai giorni nostri negli eredi
americani del calvinismo puritano che schiacciano con l’oppressione in nome della libertà). I
vecchi maghi paracelsiani del ‘500 sognavano l’uomo nuovo nell’alambicco, ma i nuovi gnostici
del ‘600 puritano selezionano l’uomo nuovo con la spada” (44). Questo tipo di religiosità, con
tutte le sue chiliastiche e pericolose implicazioni fondamentaliste, accomuna tutti gli americani
siano essi liberal che conservatori. Infatti, come osserva Sebastian Fath: “Da questa
concezione discende una convinzione profonda, sinceramente condivisa tanto dai repubblicani
che dai democratici: gli Stati Uniti, nazione prospera e potente non restano passivi quando
tanti Paesi al mondo si trovano lontani dai valori che hanno a cuore”(45). Se poi gli altri popoli
vogliano o meno godere di quei “valori americani” è domanda che gli americani neanche si
pongono ritenendola del tutto superflua, perché laddove vi è opposizione a quei valori lì vi è il
“Male” ossia il nemico da debellare anche a costo dell’intervento militare. La civiltà americana,
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sempre “giusta” e sempre “devota”, fedele alla sua missione salvifica, è però la stessa nella
quale i contenuti dottrinali si dissolvono in innumerevoli religioni “fai-da-te”. E Fath conclude:
“per la maggioranza degli americani la bandiera a stelle e strisce insieme al modo di vivere che
essa rappresenta ha preso il posto di Gesù Cristo come figura escatologica di un millennio di
felicità. Ed è innanzitutto per quel dio che si battono”(46). Dal millenarismo ereticale delle
sette medioevali e moderne si passa al millenarismo patriottico, nazional-imperiale, della
“santa” nazione americana. “Santa” non in senso cristiano ma nel senso dell’interpretazione
rabbinica del Vecchio Testamento, nel senso, cioè, di un soggetto collettivo che pretende per
sé un ruolo ed una funzione messianica che esiste soltanto nei sogni millenaristi dei capi
religiosi e politici di quel soggetto autoreferenziale. Il protestantesimo, compreso quello
puritano, da Lutero in poi, e nonostante lo spiccato “antigiudaismo” dell’ex monaco Martino, è
stato il cavallo di Troia della penetrazione in ambito cristiano dell’esegesi giudaizzante, che
legge la Promessa divina nei termini della realizzazione mondana del Regno mediante un
soggetto messianico collettivo (la nazione americana per gli eredi statunitensi del puritanesimo
del XVII secolo, il popolo, ed oggi anche lo Stato, di Israele per il giudaismo rabbinico postbiblico). Il che spiega molto bene la odierna convergenza, che tende a diventare anche politica,
tra il protestantesimo millenarista ed evangelicale americano, che ha costituito la base di
massa della Presidenza Reagan prima e di quella dei Bush poi, e la destra religiosa
fondamentalista israeliana. Thomas Molnar descrivendo l’ideologia americana ha osservato: “…
abbiamo a che fare con una ‘escatologia laica’. (…) è un cristianesimo secolarizzato ad
autorizzare l’arroganza (americana)… Hitler, in fondo, con il suo Terzo Reich che doveva durare
mille anni, non ragionava diversamente. Ciò che soprattutto ci interessa è che (in America) il
millenarismo gode di buona salute …” (47).
Il sionismo cristiano.
Il cosiddetto “sionismo cristiano” o “cristiano-sionismo” è l’ultima, in ordine di tempo, delle
devianze teologiche partorite dall’evangelicalismo neo-protestante americano, alla cui galassia
appartiene anche il passato presidente degli Stati Uniti, G. W. Bush. Il sionismo cristiano ha
origini dalla corrente “dispensazionalista” dell’anglo-israelismo. Il dispensazionalismo si nutre
di una lettura apocalittica della storia, suddivisa in età o dispensazioni, nella quale l’intera
epoca costantiniana, quella cioè corrispondente all’egemonia della Chiesa di Roma, che per i
dispensazionalisti è la Prostituta o la Babilonia di cui parla l’Apocalisse, è identificata con l’età
dell’Anticristo ormai prossima a tramontare nei bagliori tragici dell’Armageddon finale.
L’esegesi cristiano-sionista è radicalmente letteralista e pone al centro soprattutto l’Antico
Testamento mediante la de contestualizzazione, esegeticamente illegittima, delle profezie
veterotestamentarie che vengono così applicate al presente ed al futuro prossimo nonché al
ruolo politico, ritenuto messianico, dello Stato di Israele in Terra Santa. Per i cristiano-sionisti,
infatti, il ritorno in massa degli ebrei nella Terra Promessa sarebbe l’adempimento delle
profezie veterotestamentarie le quali, secondo questa esegesi, annuncerebbero l’instaurazione
del Regno messianico di Israele nell’al di qua, alla fine, ormai prossima, dei tempi. Israele
ricostruirà il Tempio, per instaurare a Gerusalemme il culto mondiale dell’imminente nuova era
messianica. In appoggio ad Israele la provvidenza divina ha suscitato i “cristiani rinati”, ossia i
sionisti cristiani, il cui dovere è quello di guidare l’ “America cristiana” ad adempiere la volontà
di Dio ossia a difendere da ogni minaccia lo Stato di Israele, germe del regno messianico
futuro. L’esegesi cristiano-sionista ritiene che il popolo ebreo abbia tuttora il favore ed il
sostegno di Dio, sicché lo Stato di Israele è l’opera maestra di Dio nel dispiegamento della Sua
volontà in questi “ultimi giorni”. E’ a questa esegesi che si ispirava Ronald Reagan quando, da
Presidente degli Stati Uniti, sollecitava le pulsioni messianiche dei suoi sostenitori
proclamando:“Tutte le altre profezie che si dovevano realizzare prima di Armageddon sono
avvenute. Nel trentesimo capitolo del profeta Ezechiele si dice che Dio raccoglierà i figli
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dispersi di Israele dalle lande pagane dove sono stati dispersi per riunirli di nuovo nella terra
promessa. Dopo 2000 anni, questo momento è finalmente giunto. Per la prima volta nei tempi,
ogni cosa è pronta per la battaglia di Armageddon e il secondo avvento di Cristo” (48). E’
evidentemente una esegesi sostanzialmente priva di un’autentica prospettiva cristologica. I
cristiano-sionisti partono dalla convinzione, come afferma un loro teologo, che “il Nuovo
Testamento è un patto fatto con la nazione ebraica” (49). Nell’esegesi tradizionale dei Padri
della Chiesa, sulla scorta del magistero apostolico, Il Verbo/Logos, pur essendosi incarnato
storicamente nell’ebreo Gesù di Nazareth, ha assunto, con l’Incarnazione, innanzitutto la
“Natura Umana” ossia ha preso su di Sé l’essenza stessa della creatura, dell’essere umano. E’
ciò che la fede cristiana apostolica esprime nella formula “vero Dio e vero Uomo”. In questo
senso gli Apostoli e i Padri della Chiesa hanno riconosciuto in Cristo l’Archetipo messianico
dell’Uomo Universale, del Figlio dell’Uomo, del Secondo Adamo, del Sacerdote in Eterno al
modo di Melchisedeq. Cristo, per i Padri, pur appartenendo storicamente al popolo ebreo,
travalica e trascende, senza tuttavia negarla, tale appartenenza nell’Universalità del Logos
Incarnato. Nel sionismo cristiano, invece, Cristo non è più il Logos giovanneo ma è innanzitutto
ed essenzialmente un “ebreo”, mediante il quale il Dio dell’Antico Testamento, che non ha mai
allontanato da sé, neanche momentaneamente, il popolo ebreo, stringe un’Alleanza anche con
i gentili, parallela a quella precedentemente stretta con gli Israeliti il cui primato è tuttavia
confermato, e sarebbe ancora sussistente, proprio perché quella con i pagani è, nel piano
divino, un’Alleanza secondaria. Vi è, in altri termini, nell’esegesi cristiano-sionista una
tendenziale ed inconfessata, ma evidente, riduzione “umanitaria” di Cristo ed in questa
riduzione si può cogliere il frutto maturo, benché velenoso, della de-ellenizzazione della Fede
denunciata da Benedetto XVI a Ratisbona (50). I sionisti cristiani fanno del Cristianesimo, che
è l’adempimento della Rivelazione adamitica primordiale, una fede di derivazione giudaica in
guisa che Cristo lungi da essere “Prima di Abramo” (Gv. 8,58) diventa “figlio di Abramo”, in
senso etnico-culturale. Cristo non è “cristiano”, direbbero Augias e Pesce, in questo
inconsapevoli compagni di strada del sionismo cristiano, ma “ebreo” nel senso proprio del
giudaismo rabbinico. In tale quadro, nell’esegesi cristiano-sionista, la diaspora del popolo
ebreo è stato un evento necessario affinché, mediante l’“aggancio” ad essi offerto dall’ebreo
Gesù, alcuni gentili, i “cristiani rinati”, e solo essi, i soli puri ed i soli eletti, secondo una visione
tipicamente settaria, potessero avere parte del futuro Regno millenario di Israele. Questo
spiega perché per il sionismo cristiano “il Nuovo Testamento è un patto con la nazione
ebraica”, sicché il futuro degli “eletti tra i noachici”, ossia tra i figli di Noé distinti da quelli di
Abramo, è appeso alla sorte dello Stato di Israele, che è la “luce del mondo”. Il sionismo
cristiano è la prova evidente della pericolosità di un’esegesi dell’Antico Testamento, anzi
dell’intera Scrittura, priva di prospettiva cristologica e de-ellenizzata. Senza la chiave
ermeneutica cristologica, infatti, non è più la Chiesa cattolica a costituire il “Nuovo Israele”
della Nuova Alleanza aperta a tutte le genti, continuazione/adempimento, ed al tempo stesso
superamento, del Vecchio Israele e della Vecchia Alleanza, ma altre realtà, del tutto
immanenti, siano esse la nazione americana oppure il popolo ebraico. La Tradizione apostolica
e patristica, sulla scorta dell’insegnamento di Cristo in Persona (Mt. 23,37-39; Lc. 13,34-35) e
del magistero di san Paolo (Lettera ai Romani), guarda agli israeliti odierni come a “rami
(momentaneamente) recisi” dall’Olivo di Israele, ossia dall’Albero della Vita, dalla Rivelazione.
Per i Padri della Chiesa gli israeliti sono oggi un popolo la cui “casa”, ossia il Tempio distrutto
nell’anno 70, è stata, secondo le profezie, abbandonata dalla Sekinah (Presenza Gloriosa) di
Dio allorquando il Vero Tempio, la Persona Divino-Umana di Cristo, dopo essere stato distrutto,
ovvero immolato nel Sacrificio Perpetuo sulla Croce, è stato ricostruito, è risorto, in tre giorni
(Gv. 2,18-22). Il rifiuto di Cristo da parte dell’antico Israele è stato permesso, nel
provvidenziale disegno salvifico di Dio, affinché i popolo pagani entrassero, in Cristo, non
dunque in Israele, nell’Alleanza con Abramo e con Mosé, che pur confermando da parte di Dio
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quelle universali con Adamo e Noé, poi venute meno da parte degli uomini, era solo
potenzialmente universale perché senza Cristo non poteva diventarlo anche in senso attuale.
Quindi - insegnano i Padri della Chiesa - l’abbandono degli israeliti, da parte di Dio, è solo
momentaneo e non si tratta di un ripudio definitivo, né di una dimenticanza ossia di un oblio
degli israeliti ai Suoi occhi, perché essi, come dice san Paolo sono amati per i meriti dei loro
padri (e nostri, ossia dei cristiani, padri nella fede). In tal modo, i Padri della Chiesa spiegano
la sopravvivenza di Israele come popolo, un tempo teologale, in vista della loro futura
riammissione nell’Alleanza, del loro reinnesto nell’Olivo Santo di Israele, che avverrà, però,
solo quando essi riconosceranno la Divino-Umanità messianica di Cristo e, lungi dal tornare in
massa in Palestina (‘ché anzi un tale evento era dai Padri pre-sentito come ambiguo, funesto,
luciferino, foriero di apostasia), entreranno in massa nella Chiesa, il Nuovo e Vero Israele.
Come si vede la prospettiva dei Padri è del tutto differente, e contraria, a quella proclamata dai
cristiano-sionisti per i quali al contrario il ritorno di Cristo coinciderà con l’avvento del Regno
mondano di Israele, di cui Cristo sarà re, al quale saranno ammessi soltanto alcuni gentili,
ovvero i cristiano-sionisti stessi, come adepti noachici, e quindi in posizione subordinata al
primato israelita. Questa esegesi “acristica” (anticristica?) diventa infatti esplosiva proprio a
proposito del discorso escatologico di Cristo, riportato nei Vangeli, e dell’ultimo libro della
Bibbia. Essendo nel mondo protestante del tutto assente un’Autorità spirituale depositaria della
Rivelazione e garante dell’autenticità esegetica della stessa, l’interpretazione soggettivista dei
dati scritturali consente all’americano medio, in preda alle proprie pulsioni messianiche, di
esibirsi in fantasiose auto-indagini circa l’identificazione dell'Anticristo o circa la data della
grande battaglia apocalittica. Confortati, nella loro esegesi, dalla nascita nel 1948 dello Stato di
Israele e dall’occupazione israeliana nel 1967 di Gerusalemme, i sionisti cristiani cooperano
alacremente nella raccolta dei mezzi necessari per la ricostruzione del Tempio che segnerà il
trionfo messianico del popolo ebreo, il ritorno di Cristo e l’inaugurazione del Regno di Israele
apportatore di Pace Perpetua ed Universale. L’escatologia cristiano-sionista è nient’altro che la
versione “talmudica” dell’antica eresia millenarista, che pone nell’immanenza storica la
realizzazione del Regno messianico. Alla ricostruzione del Tempio da parte di Israele
seguiranno o saranno contestuali tutta una serie di avvenimenti apocalittici: l’avvento
dell’Anticristo, Armageddon ossia l’ultima apocalittica battaglia tra Bene e male, la “grande
tribolazione” cui tutta l’umanità sarà sottoposta a punizione dei suoi peccati e dalla quale solo i
“cristiani rinati”, ovvero i sionisti cristiani, saranno risparmiati tramite la miracolosa “rapture”
(il rapimento in Cielo) incontro a Cristo che ritorna. Spesso si commette l’errore di ritenere che
la convinzione cristiano-sionista per la quale, dopo tutti gli apocalittici avvenimenti sopra
descritti, Cristo sarà riconosciuto dagli ebrei come Re messianico d’Israele sia fondata sul
magistero paolino circa la finale conversione degli ebrei a Cristo. In realtà, san Paolo nella
Lettera ai Romani insegna, come già si è detto, che il popolo ebreo, attualmente divelto dalla
Radice Santa, ossia dalla Rivelazione abramitica continuata ed adempiuta dal Cristianesimo,
perché Cristo essendo Dio precede Abramo, sarà reinnestato in quella Radice ossia, in altri
termini, si convertirà alla fede cristiana ed in tal modo tornerà alla vera fede dei padri e dei
profeti. Il sionismo cristiano, per il quale, come si è visto, ciò che conta non è tanto la divinoumanità ma la ebraicità, in senso etnico-religioso, di Cristo, afferma, al contrario, che al suo
ritorno, dato per imminente, Cristo confermerà gli ebrei nella convinzione, talmudica, della loro
essenziale diversità dai goijm e si farà da essi riconoscere come loro re. Per il sionismo
cristiano ciò che è essenziale in Cristo è, appunto, l’“ebraicità”, intesa come elemento etnicoreligioso tale da giustificare l’inaugurazione del dominio di Israele sulle nazioni. Al contrario,
nel Cattolicesimo l’ebraicità di Cristo è certamente un elemento storico fondamentale e
fondante ma in senso esclusivamente teologale, e non perché discriminante in senso etnicoreligioso, essendo, invece, essenziale in Cristo l’Umanità assunta dalla Divinità del
Verbo/Logos. Sempre nell’esegesi cristiano-sionista, la conferma del primato di Israele da
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parte del Cristo parusico permetterà finalmente agli ebrei di riconoscerlo come loro Re per
governare, con scettro di ferro, alla loro testa, sul mondo intero inaugurando il Millennio
apocalittico al quale i cristiano-sionisti, i “rinati”, i “ferventi delle nazioni”, prenderanno parte
accentando di sottoporsi al primato spirituale e politico di Israele come buoni sudditi
“noachici”. La “Nuova Era”, annunciata alle masse americane dal fanatismo accesamente
apocalittico dei telepredicatori cristiano-sionisti, che aprirà il millennio annunciato nel capitolo
20 dell’Apocalisse, sarà la teocrazia messianica di Israele sulla terra instaurata da Cristo
insieme al risorto Davide. Gli ebrei, guidati da Davide e Cristo, domineranno il mondo ‘con
verghe di ferro’, trionfando contro tutti i nemici di questa millenaria teocrazia messianica: "Il
Messia - urla un telepredicatore cristiano sionista, Lewis David Allen - regnerà dal trono
ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo.
Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I Cristiani rinati si
uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nell'amministrare il regno di Dio sulla terra. Siamo in
marcia verso Sion!" (51). Due americani su cinque aderiscono all’escatologia cristiano-sionista
per un totale di circa 70 milioni di protestanti fondamentalisti. Questo successo si spiega con
fatto che il cristiano-sionismo fa leva sulle medesime radici della cultura statunitense: l’autoidentificazione americana, ereditata dai fondatori puritani, con il "popolo eletto" ad immagine
degli ebrei del Vecchio Testamento. Sono questi milioni di americani a costituire la base di
massa elettorale del partito repubblicano e sono essi, quando è loro permesso come è stato
con le amministrazioni Reagan e Bush, a spingere l’America ad agire in politica secondo la
delirante prospettiva apocalittica della loro folle escatologia. Questa massa fondamentalista,
infiammata dai telepredicatori ed organizzata da abili managers della religione mediatica,
sostiene finanziariamente, con enormi raccolte di fondi, lo Stato di Israele e le organizzazioni
sioniste, allo scopo di “accelerare” la fine dei tempi: quanto prima Israele debellerà l’Islam e
quanto prima gli ebrei ricostruiranno il Tempio, tanto prima si adempierà il ritorno di Cristo ed
avrà inizio il millennio di pace e felicità universale. I “cristiani rinati” costituiscono la massa dei
fedeli delle “chiese televisive” gestite dai telepredicatori e non appartengono ad alcuna
denominazione storica della galassia protestante americana ma le attraversano tutte.
Nell’aberrante escatologia del cristiano-sionismo chi si oppone alla politica di Israele, chi
denuncia ed accusa l’inumanità del sionismo, e rifiuta aiuto al “popolo di Dio”, ossia agli ebrei,
verrà escluso dal regno di Dio e condotto al castigo eterno. Uno tra i più famosi telepredicatori,
Jerry Falwell, scomparso di recente, ha sostenuto:“Mettersi contro Israele è mettersi contro
Dio. Noi crediamo che la storia e la scrittura dimostrano che Dio tratta le nazioni secondo come
esse trattano Israele”(52). Ogni critica ad Israele è associata alle persecuzioni degli ebrei e
implicitamente alla cosiddetta shoah. Appartengono al novero dei critici sospetti di
antisemitismo anche coloro che pongono in dubbio l’estensione biblica delle frontiere dello
Stato di Israele, che dovrebbero essere tali da comprendere un territorio che va dall’Egitto
all’Iraq incluso. Una geografia politica fondata sull’esegesi talmudica di Israel Ariel, un rabbino
molto citato dai telepredicatori cristiano-sionisti, fondatore dell’“Istituto del Tempio”, una
fondazione che ha lo scopo di consentire la ricostruzione del Tempio. Secondo il Martinez, per
rabbi Ariel: “… le frontiere originarie della terra promessa ad Abramo si estendono da ovest ad
est da un punto nei pressi attuale canale di Suez fino al Golfo Persico, e da nord a sud dal nord
della Siria lungo il fiume Eufrate fino a una linea di frontiera che va da Eilat sul Mar Rosso fino
al confine con la Persia. Entro queste frontiere ricadono oggi i paesi dell’Egitto, della Giordania,
della Siria e porzioni dell’Iraq e dell’Arabia Saudita. Secondo Ariel, quando il Tempio sarà
ricostruito e tutti coloro che si trovano fuori dalla terra di Israele faranno ritorno, queste terre
forniranno lo spazio necessario per l'aumentata popolazione”(53). I telepredicatori
fondamentalisti non dimenticano mai, durante i loro show tele-religiosi, di invitare gli
evangelici americani a pregare per la difesa di Israele nelle “frontiere bibliche stabilite da Dio”.
Lo Stato di Israele ha riconosciuto ufficialmente il sionismo cristiano consentendo l’apertura nel
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1980, a Gerusalemme, di una “Ambasciata cristiana internazionale”, con il compito di
conquistare l’appoggio delle chiese cristiane ad Israele nonché di raccogliere fondi per la
ricostruzione del Tempio e per l’insediamento, a scapito dei palestinesi, dei coloni ebrei in
Cisgiordania. Benyamin Netanyahu nel 1995 di fronte ad una assemblea di sionisti cristiani
affermò: “(la creazione di Israele) semplicemente non avrebbe avuto luogo senza il sostegno e
gli incessanti sforzi dei cristiano-sionisti durante l’ultimo secolo e questo. È stato questo
sodalizio che ha reso possibile lo Stato di Israele e una Gerusalemme unificata” (54).
Il regno millenario.
Senza rendersene conto i sionisti cristiani, che si sentono gli epigoni dei “crociati” nella lotta
contro il “fascismo islamico”, hanno fatto proprio il sogno nazista del Reich millenario. Il
millenarismo è da sempre un elemento essenziale del fondamentalismo religioso statunitense.
Nella religiosità americana riemerge, come un fiume carsico, il chiliasmo di Gioacchino da Fiore
o degli anabattisti di Münster. L’interpretazione estremamente letterale dell’Antico Testamento
si spinge nel caso del sionismo cristiano a ripudiare, a differenza di altre sette fondamentaliste,
ogni identificazione escatologica, anche metaforica, con Israele, nella convinzione che solo gli
ebrei sono l’autentico Israele messianico. In questa prospettiva è solo agli ebrei che si
riferirebbero le profezie bibliche. Negli accadimenti mediorientali i sionisti cristiani leggono, per
l’appunto, la realizzazione di tali profezie che, secondo la loro esegesi spuria,
preannuncerebbero l’imminente avvento del Regno millenario di Israele, con il suo seguito di
accoliti “noachici” costituito da quei goym, in sostanza dai soli “cristiani rinati”, che riconoscono
il primato escatologico del popolo ebreo, inteso come soggetto messianico collettivo la cui
sofferenza e la cui lotta contro il “satana islamico” consentirà il raduno di tutti gli ebrei sparsi
per il mondo in un unico punto geografico, ovvero la Terra Santa, come conditio sine qua non
del ritorno glorioso di Cristo ad inaugurare in gloria e potenza il millennio mediante
l’instaurazione del Regno messianico di Israele sul mondo. E’, come si è detto, la versione
talmudica dell’eresia millenarista che interpreta il “millennio” di Ap. 20,4-6 come annuncio di
un regno politico e temporale: secondo questa versione durante il millennio Cristo governerà
con scettro di ferro tutte le nazioni sottomesse alla “nazione santa degli eletti”, ossia ad
Israele. Per i sionisti cristiani, la politica mediorientale degli Stati Uniti deve essere guidata dal
convincimento che sia nel disegno di Dio che l’America “cristiana” si schieri senza indugio dalla
parte dello Stato di Israele. L’esegesi cristiano-sionista, che attualizza decontestualizzando le
profezie veterotestamentarie, è in sostanza una sorta di decalco “pseudo-cristiano” dell’esegesi
talmudica dell’Antico Testamento. I cristiano-sionisti - sostiene il biblista Paolo Sacchi - usano i
brani biblici assolutamente fuori contesto e fanno delle profezie veterotestamentarie, che
l’esegesi dei Padri della Chiesa hanno sempre interpretato in riferimento all’Incarnazione del
Verbo Divino in Gesù Cristo, eventi attuali o in atto e prossimi a realizzarsi nel trionfo
messianico di Israele (55). Questa esegesi decontestualizzata del Vecchio Testamento è stata
usata, ad esempio, dai sionisti cristiani per giustificare l’aggressione americana all’Iraq, nel
2003. Alcuni telepredicatori hanno all’epoca infuocato le folle del pentecostalismo mediatico
citando, a sostegno della politica di Bush, Geremia 59,45: “Ascoltate il disegno che l’Eterno ha
concepito contro Babilonia e le decisioni che ha preso contro il paese dei Caldei”. Babilonia
ossia l’Iraq baathista, secondo i telepredicatori cristiano-sionisti, doveva essere ridotta ad una
“desolazione senza abitanti” (Geremia 51,29) perché era colpevole di aver attaccato “i figli di
Israele” riguardo ai quali, in Zaccaria 2,8, sta scritto che “chi vi tocca, tocca la pupilla del mio
occhio”. La maggioranza degli americani, secondo recenti sondaggi, indipendentemente dalla
loro appartenenza a qualche setta fondamentalista, ritiene che la nascita dello Stato d'Israele
abbia segnato l’inizio della realizzazione delle profezie bibliche (56). In questo clima di folle
eccitazione millenaristica non è strano che un Presidente degli Stati Uniti possa affermare:“Dio
mi ha detto di colpire al Qaeda, e io li ho colpiti, poi mi ha ordinato di colpire Saddam, e l’ho
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fatto, e adesso sono deciso a risolvere il problema mediorientale”(57). L’esegesi talmudica
della Bibbia porta i sionisti cristiani all’esaltazione della biblica violenza sterminatrice con la
quale la “spada di Dio” affidata all’America sradicherà il male, ossia chiunque, uomo o donna,
bambino o vecchio, singolo o popolo, si opponga o possa opporsi all’adempimento del Regno
messianico. Jerry Falwell, il telepredicatore apocalittico recentemente scomparso, gran
consigliere di Reagan e grande elettore di G.W. Bush, era solito accendere il “sacro fuoco” delle
sue messianiche folle mediatiche con frasi di tal fatta:“Ad Armageddon ci saranno circa
quattrocento milioni di uomini che faranno corona all'olocausto finale dell'umanità! Proprio per
questo non dobbiamo mai dimenticare com'è bello essere cristiani! Noi abbiamo un futuro
meraviglioso davanti a noi!” (58). Il carattere inquietante dell’esegesi cristiano-sionista è
confermata dalle affermazioni spiritual-razziste, di evidente sapore gnostico (monismo
dualistico “carne-spirito”), di Ramon Bennett, uno dei più noti sionisti cristiani, il quale
identifica i nephilim biblici con gli arabi: “I nephilim - egli afferma - erano … i sottoprodotti
fisici dell'unione tra carne e spirito. E come una prova che gli spiriti di questi esseri continuano
a vivere sulla terra, vorrei dire che io, personalmente, conosco un arabo musulmano che è
nato con sei dita su ciascuna mano. Anche suo figlio è nato con sei dita, e così suo padre e i
padri di suo padre prima di lui. Ora considerate quanto segue: ‘Ci fu di nuovo guerra a Gath,
dove c'era un uomo di alta statura, che aveva sei dita su ciascuna mano e sei dita su ciascun
piede, ventiquattro di numero; ed anche egli era figlio di un gigante (2 Samuele 21,20)’… Si, il
conflitto è spirituale, e gli spiriti che si oppongono sono potenti e malvagi” (59). Gli ha fatto
eco il predicatore David Allen Lewis il quale sostiene che: “Se il sionismo è razzismo, allora Dio
è razzista perché Egli è l'autore del sionismo”(60).
Sionismo cristiano e destra religiosa americana.
L’ossessione del dispensazionalismo, la matrice ottocentesca dell’odierno sionismo cristiano,
per la nascita di uno Stato ebraico in Terra Santa è precedente la nascita ufficiale dello stesso
sionismo. A metà del XIX secolo, Nelson Darby, dispensazionalista inglese, scriveva:“La prima
cosa, quindi, che farà il Signore sarà di purificare la Sua terra (la terra che appartiene agli
ebrei) dai Tiri, dai Filistei, dai Sidoni - in breve da tutti i malvagi - dal Nilo all'Eufrate” (61).
Osservava, durante il decennio bushista 1998-2008, Maurizio Blondet:“E’ la (cattiva) teologia
che guida – più di quanto si creda in Europa – l’attuale discutibile politica internazionale
americana. Dove confluiscono tutti gli abusi conseguenti al luterano ‘libero esame delle
Scritture’, letture basse dell’Apocalisse come ‘predizioni’ di cui si aspetta l’avverarsi nella
cronaca, ‘ispirazioni’ pentecostali e carismatiche, millenarismi impauriti e messianismi confusi.
Questa pseudo-teologia affonda le radici nel ‘dispensazionalismo’ del tardo ’800, una
interpretazione delle Scritture come ‘predizioni della fine imminente’. Già in questo ambiente si
sosteneva il diritto ‘biblico’ degli ebrei alla Palestina. Non stupirà sapere che parteciparono al
dispensazionalismo filosionista i più discutibili capitalisti americani: nel 1891 su tutti i giornali
degli Stati Uniti fu pubblicato un grande annuncio a pagamento, che invitava il presidente di
allora, Benjamin Harrison, a favorire gli insediamenti ebraici in Palestina; lo firmavano, fra altri
finanzieri di fama, John D. Rockefeller e il banchiere J. P. Morgan” (62). Ancora alla fine degli
anni ’70 del secolo scorso, la presenza “dispensazionalista”, ormai nota nella nuova
denominazione di sionismo cristiano, si faceva sentire sui media americani in occasione delle
presidenziali che videro la sconfitta di Jimmy Carter e l’ascesa, “pre-neoconservatrice”, di
Ronald Reagan, determinata, quest’ultima, dall’appoggio che diede all’Old Party, al partito
repubblicano, l’elettorato protestante del “vecchio sud”, fino ad allora da sempre più vicino ai
democratici. Questo elettorato, erede del sud rurale sconfitto durante la guerra civile del 18611865, e per questo sempre avverso al partito repubblicano visto come il rappresentante dei
ceti finanziario-industriali del nord vincitore, da qui anche il populismo razzista di tale
elettorato protestante, abbandonò il presidente uscente Carter, che aveva nelle precedenti
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elezioni contribuito a premiare perché molto vicino religiosamente ai millenaristi cristiani di
“sinistra”, ossia progressisti ed umanitari. Carter si era reso colpevole, agli occhi della galassia
cristiano-sionista ormai egemone nella cosiddetta “cintura della Bibbia”, di una politica troppo
aperta verso i diritti dei palestinesi. In quell’occasione due teologi protestanti, Kenneth Kantzer
e John Walvoord, firmarono un manifesto, pubblicato sui principali quotidiani statunitensi, per
ammonire che:“Per i cristiani evangelici è venuto il tempo di affermare con i fatti la loro fede
nella profezia biblica e nel diritto divino di Israele alla sua terra … Affermiamo che la nostra
credenza nella terra promessa per gli ebrei è evangelica … Vediamo con grave allarme ogni
sforzo di ricavare dalla patria ebraica un’altra nazione od entità politica” (63). Quel manifesto
fu la condanna elettorale di Carter. A tale appello seguì immediatamente, sulla stessa linea
“teologica”, l’inizio di un’intensa “catechizzazione” delle masse per mezzo delle assembleari
liturgie show messe in scena dai telepredicatori. Questi eventi segnarono la svolta epocale
negli orientamenti elettorali delle masse millenariste americane. Le trasformazioni della politica
americana tuttavia non spiegano da sole le giravolte delle masse fondamentaliste americane.
Infatti dietro l’appello mediatico lanciato dai teologi filo-sionisti si nascondeva una intensa
campagna promossa dall’AIPAC (American Israeli Publical Affairs Committe), una delle più
potenti organizzazioni lobbistiche ebraiche. Non a caso, nello stesso periodo dell’ascesa di
Reagan, in Israele i laburisti erano stati rimpiazzati dal Likud guidato da Menachem Begin,
alleato ai piccoli ma determinanti partiti rabbinici della destra religiosa israeliana. Con il Likud
al potere iniziò immediatamente la politica governativa di sostegno alle illegittime occupazioni
da parte dei coloni ebrei delle terre arabe, sul presupposto “teologico” di un presunto diritto,
divinamente sancito, del popolo ebreo al possesso esclusivo della Palestina (che è in realtà,
non dimentichiamolo mai, “terra santa” anche per cristiani ed islamici). Una delle prime
iniziative strategiche di Begin fu quella di un viaggio negli U.S.A. per stringere un accordo
politico-religioso con i telepredicatori millenaristi al fine di convincerli “biblicamente” delle
ragioni di Israele ed ottenere il sostegno della “destra cristiana” contro il tergiversante Carter
ed in favore di quel sicuro amico di Israele che era Reagan. In quella occasione Begin regalò
un jet privato a Jerry Falwell, il più noto tra i telepredicatori. Il sionismo cristiano, di origine
dispensazionalista, trovò così la strada spianata per la conquista politico-religiosa delle masse
fondamentaliste protestanti statunitensi. Ma, al di là degli appoggi lobbistici e politici, il
sionismo cristiano ha potuto conquistare le masse protestanti perché ha rianimato le mai
sopite pulsioni pseudo-messianiche presenti in America sin dai tempi puritani. Una sorta di
copione è ormai, da decenni, abilmente recitato dai leader cristiano-sionisti: a decorrere dagli
anni ottanta del secolo scorso, ogni volta che lo Stato di Israele decide l’attuazione di una
qualche politica che gli potrebbe alienare le simpatie della comunità internazionale, i
telepredicatori chiamano in suo soccorso le vaste masse fondamentaliste americane, in modo
da condizionare l’opinione pubblica e la Casa Bianca in senso favorevole alla politica israeliana.
Ariel Sharon in persona si recò nel 1982 in America per spiegare ai millenaristi cristiani che
l’invasione israeliana del Libano attuava una delle “profezie della Scrittura” (64). La cosa si è
ripetuta durante la più recente aggressione israeliana al Libano nel 2006: anche in questo caso
i millenaristi americani si sono schierati unanimemente con Israele giustificando
“teologicamente”, sulla base delle “profezie bibliche”, l’aggressione israeliana contro un Paese,
multiconfessionale (quindi anche cristiano), inerme ed indifeso. Non meraviglia, pertanto, che
il citato Jerry Falwell abbia potuto affermare:“Il futuro dello Stato d’Israele è più importante di
ogni altra questione politica” (65). Nella versione classica, ossia puritana, del millenarismo
missionario statunitense, l’America, ad imitazione delle gesta veterotestamentarie del popolo
ebreo, prima ha conquistato la sua Nuova Terra Promessa, sterminando, come fecero gli
antichi ebrei con i cananei, le tribù pellerossa (i nuovi cananei) e, successivamente, ossia oggi,
va adempiendo il suo incomparabile e manifesto destino (la “divina promessa”) nell’espansione
della propria egemonia purificatrice sul mondo intero. A questa teologia della storia,
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chiaramente luciferina nel suo intento parodistico della storia della salvezza, il sionismo
cristiano aggiunge un elemento decisivo: lo scopo finale della missione da Dio affidata
all’America sarebbe quello di preparare il terreno per la proclamazione universale del Regno
messianico d’Israele, dell’unico vero Israele, quello giudaico, e per il trionfo globale della
teocrazia millenaria giudaica. L’esegesi cristiano-sionista si differenzia dalle precedenti teologie
della storia di matrice puritana, già di per sé ampiamente giudaizzanti, per il fatto che
l’America viene ora derubricata da “nazione messianica” a “nazione profetica” a servizio del
Messia collettivo israeliano, essendole stato affidato da Dio un ruolo, per l’appunto, meramente
preparatorio del trionfo messianico di Israele. Una parodia, a ben riflettere, del ruolo che ebbe
a svolgere San Giovanni Battista nei confronti di Cristo. James Inhofe, senatore repubblicano,
in un discorso del 2002 al Senato statunitense dichiarò che il vero e fondamentale motivo che
legittima Israele all’occupazione di tutta la Palestina sta nel mandato biblico concesso, in tal
senso, da Dio al popolo ebreo: “La Bibbia – così egli apostrofò l’assemblea – afferma che
Abramo ha spostato le sue tende, e si è stabilito nella pianura di Mamre, e cioè ad Hebron, e lì
ha costruito un altare a Dio. Hebron è nella Cisgiordania. E’ un luogo nel quale Dio è apparso
ad Abramo e gli ha detto: ‘Io ti do questa terra” – la Cisgiordania, appunto’.(…).Quella del
Medio Oriente non è una battaglia politica. E’ il contesto nel quale si chiarisce se la parola di
Dio è vera o no” (66). In altre parole, secondo Inhofe, Dio legittimerebbe gli espropri, le
guerre, gli abusi, le stragi, le sopraffazioni di Israele contro i palestinesi e poco importa che
una parte di essi sia cristiana. Ad Inhofe ha fatto eco Gary Bauer, politico repubblicano ed
attuale presidente di una delle più influenti organizzazione della destra religiosa americana,
l’American Values, il quale, sul New York Times del 21/04/2002, ha affermato:“Come
evangelico, io credo che la Bibbia sia assolutamente chiara riguardo al fatto che quella terra è
la terra del patto che Dio ha fatto con gli ebrei per cui quella terra sarebbe stata la loro terra”
(67). Se si pensa che simili teologie sono propagandate in Medio Oriente come "verità
cristiane" dalle radio e TV evangeliche, finanziate dalle lobbies transoceaniche, si possono ben
immaginare a quali terribili conseguenze esse stanno esponendo i cristiani vicino-orientali,
cattolici, caldei, ortodossi, armeni, di origine apostolica e l’intera umanità. L’assurda devozione
dei cristiano-sionisti per Israele ha spinto persino molti evangelici, gaudenti del loro “noachico”
servilismo, ad offrirsi come volontari nelle retrovie dell’esercito israeliano per sollevare i soldati
ebrei da tutte quelle mansioni che impedirebbero loro il massimo impegno contro arabi e
palestinesi. Negli Stati Uniti migliaia di chiese evangeliche vengono coinvolte in entusiastici
raduni di preghiera per Israele, raduni nei quali si raccolgono ingenti finanziamenti. A riprova
dell’influsso della lobby ebraica nella società e nella politica americana, va notato, infine, che
questo entusiasmo messianico per Israele non coinvolge soltanto la destra repubblicana
statunitense. La paranoia millenarista è così radicata nella religiosità americana che è presente
ben al di là dell’area del fondamentalismo propriamente detto e della galassia cristianosionista. Al Gore, vicepresidente democratico degli Stati Uniti, durante l’Amministrazione
Clinton, dunque espressione di uno schieramento di “centro-sinistra”, ebbe modo, mentre
celebrava davanti ai rappresentanti della lobby ebraica americana il cinquantesimo
anniversario dell'indipendenza di Israele, di affermare: “Mentre stasera alzo gli occhi e vedo
l'intera casa di Israele, vi riconosco. Mi ricordo della profezia di Ezechiele, che Dio vi avrebbe
innalzati, che ogni osso si sarebbe congiunto a ogni osso, ogni muscolo a ogni muscolo, e che
Egli avrebbe soffiato vita nelle vostre carni e vi avrebbe restaurati alla vostra terra. Noi
americani sentiamo che i nostri legami con Israele sono eterni” (68). Questa “dotta” esegesi
del vice di Clinton, è un esempio tipico del processo di decontestualizzazione talmudica del
testo veterotestamentario (69). Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente Bill Clinton ed attuale
segretario di Stato dell’amministrazione democratica di Obama, dal canto suo, sul proprio sito
web, ricorda come: “Nel nostro primo viaggio in Israele nel 1982, siamo andati con il pastore
di Bill. Mio marito mi ha spesso raccontato di ciò che gli disse il suo pastore: non doveva mai
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tradire Israele, altrimenti Dio non lo avrebbe mai perdonato. Io mi sono sempre ricordata di
queste parole e ho cercato di applicarle” (70).
LUIGI COPERTINO
NOTE
1) Luigi Copertino “Spaghetticons – la deriva neoconservatrice della destra cattolica
italiana”, Il Cerchio, Rimini, 2008. Cit. in M. Blondet “La filosofia dell’Occidente.
Dall’aristotelismo al cretinismo” in www.effedieffe.com 23/07/2007.
2) Cfr. Domenico Savino “Doglie Messianiche”, in www.effedieffe.com del 27/07/2006.
3) Cfr. D. Savino “Sabettay Sevi, ‘il satana della santità’ ”, in www.effedieffe.com del
08/09/2006.
4) Cfr. Gershom Scholem “The Messianic Idea in Judaism” Schocken, New York 1978, p. 1
5) Cfr. Augusto Del Noce “L’epoca della secolarizzazione”, Giuffrè, Milano, 1970, p. 96.
6) Citato in Vittorio Messori “Ipotesi su Gesù”, SEI, Torino, 1976, pp. 98-99. Va tuttavia
ricordato anche che l’identificazione del “servo sofferente” con il popolo ebraico rivela
radici propriamente cabaliste laddove, spesso, il giudaismo haggadico preferisce
identificare il popolo-messia con il “vittorioso Figlio di Davide”, che, al contrario,
nell’esegesi patristica cristiana è un’altra prefigurazione tipologica messianica di Gesù
Cristo.
7) Cfr. G. Scholem , “Ŝabettay Sevi – Il Messia Mistico”, Einaudi, 2001, p. 60.
8) Cfr. Elio Toaff con Alain Elkann, “Il Messia e gli Ebrei”, Bompiani, Milano 2002, p. 26 e
seguenti.
9) Cfr. E.Toaff con A. Elkann, “Il Messia …” op. cit., p. 83.
10)
Cfr. Zevi Peres Chayes, “L’ufficio di Rabbino, discorso salendo alla Cattedra
Rabbinica di Vienna il 3 agosto 1918”, in “La Rassegna Mensile di Israel” – Tebheth
5688 – 19 gennaio 1928, vol. III n. 4 – anno XIII n. 16, Dantes Lattes e Alfonso Pacifici
Editori, Livorno – Firenze.
11)
Cfr. Franco Volpi “Il Nichilismo”, Laterza, 1997, p.90.
12)
Cfr. F. Volpi op. cit., p. 90.
13)
Citato in Maurizio Blondet “La politica mondiale e l’Anticristo” in Il Timone n.
14/2001.
14)
Cfr. E. Toaff – A. Elkann “Essere ebreo”, Bompiani, 1994, p. 40.
15)
Cfr. V. Messori nella rubrica “Vivaio” della rivista Il Timone, anno 2004.
16)
La citazione di Herzl è in Bidussa 1993, p. 122 e p. 74 ora in Domenico Losurdo
“Che cosa è il fondamentalismo” in Avallon, Rimini, n. 54, 2005.
17)
Cfr. Giorgio Galli “Hitler ed il nazismo magico – le componenti esoteriche del
Reich millenario”, Bur Rizzoli, Milano, 1994, pp. 283-288.
18)
Cfr. Domenico Losurdo “Che cos’è il fondamentalismo” in Avallon – l’uomo e il
sacro, numero 54, Rimini 2005, p. 55.
19)
Cfr. Israel Shahak, “Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni”, CLS,
Verrua Savoia (TO), 1997, p. 70.
20)
Cfr. Martin Buber “Sion,Storia di un’idea”, Genova 1987, pp. 5-7.
21)
Qui corre l’obbligo di una precisazione. Solitamente, sulla scorta di un’errata
prospettiva guenoniana, si pensa che il talmudismo ed il cabalismo siano,
rispettivamente, il momento essoterico, devozionale, e quello esoterico, iniziatico,
nell’ambito della medesima Tradizione Ebraica. Questa distinzione, in realtà, non regge.
Sebbene la Cabala sia nient’altro che una forma di “mistica apofatica”, e quindi di gnosi
spuria, essa non è avulsa dal talmudismo come quest’ultimo non è affatto alieno dal
cabalismo. E comunque, in ordine alla concezione della messianicità collettiva di Israele,
ed al conseguente millenarismo, cabalismo e talmudismo condividono, pur in senso
!
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prevalentemente mistico l’uno ed in senso prevalentemente storico-teologico l’altro, la
medesima prospettiva escatologicamente chiliastica.
22)
Si noti che in questa concezione, di chiara impronta gnostica, la “creazione” non
è un atto d’Amore di Dio che, comunicando per partecipazione l’essere, crea dal nulla le
creature ma una conseguenza, quasi involontaria, della contrazione della insondabile ed
oscura sostanza divina, che permea panteisticamente tutto lo spazio cosmico.
L’esistenza degli esseri è resa possibile soltanto a causa della negazione che la Divinità
fa di sé: sicché dove c’è Dio non potrebbero esserci le creature e dove ci sono le
creature non può esserci Dio. Ne consegue che la creazione non è un “valore” ma un
“disvalore” ed è destinata ad essere riassorbita, annientata, dalla riespansione divina.
In questa prospettiva cabalista, Dio è l’antiuomo e l’uomo è l’antidio. Viene negato, in
altri termini, il rapporto di analogicità tra Dio e uomo (uomo come immagine e
somiglianza di Dio secondo la Rivelazione ebraico-cristiana) che la teologia cattolica ha
preso a base del proprio pensare mutuandone i presupposti logico-razionali sia dalla
Scrittura sia dal pensiero ellenistico provvidenzialmente incontratosi, come ha ricordato
Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006, con la fede ebraica.
23)
Citato in M. Blondet “Il mondo come lo vuole Giuda” in www.effedieffe.com.
24)
Cfr. M. Blondet “Il mondo …” op. cit.
25)
Citato da M. Blondet “Scritture d’attualità” in www.effedieffe.com; cfr. anche I.
Shahak “Jewish fundamentalism in Israel”, Londra, 1999.
26)
Citato in M. Blondet “Il mondo …” op. cit.
27)
Citato in D. Savino “Anime gnostiche” in www.effedieffe.com.!
28)
Citato da Ennio Innocenti “La gnosi spuria – I dalle origini al seicento, Sacra
Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2003, p. 208.!
29)
Citato in Giuseppe Cosco “Le radici del fondamentalismo protestante: l’Israele
Britannico” in Avallon – l’uomo e il sacro, numero 54, Rimini, 2005, p. 85.
30)
Cfr. Arnold Toynbee “Panorami della storia”, II, Milano, p. 53.
31)
Cfr. M. Blondet “Complotti – i fili invisibili del mondo – 1. Stati Uniti, Gran
Bretagna”, Il Minotauro, Milano, 1995, pp. 87-92.
32)
Cfr. C. Hill “L’Anticristo nel Seicento inglese”, Milano, 1990, p. 25.
33)
Citato in G. Cosco “Le radici …”, op. cit., p. 85.
34)
Citato in G. Cosco “Le radici …”, op. cit., p. 87.
35)
Cfr. M. Blondet “Complotti …”, op. cit. p. 49.
36)
Cfr. Romolo Gobbi “Figli dell’Apocalisse”, Milano, 1993, pp. 220-221.
37)
Cfr. G. Cosco “Le radici …”, op. cit., p. 89.
38)
Jefferson espose la sua dottrina nelle corrispondenze parigine del 13 agosto
1786 e del 16 gennaio 1787. Dobbiamo la loro citazione al testo pro-manuscripto,
messosi gentilmente a disposizione, del testo di una lezione universitaria di Claudio
Finzi, docente di storia delle dottrine politiche presso l’Università di Perugia.
39)
Citato da Miguel Martinez in www.kelebek.it.
40)
Citato da Miguel Martinez in www.kelebek.it che trae da Ziegler, p. 36.
41)
Citato da Roberto Giammanco “L’immaginario al potere: religione, media e
politica nell’America reaganiana”, Antonio Pellicani editore, Roma, 1990, p. 191.
42)
Citato da G. Cosco “Le radici …”, op. cit., p. 90.
43)
Per tutte le citazioni della Buzzi si veda della stessa autrice “Verso la terra
promessa – L’esperienza del popolo nel puritanesimo americano” supplemento a
Litterae Communionis Tracce, settembre 1994, Milano, pp. 14-17.
44)
Cfr. E. Innocenti “La gnosi spuria – II Il Seicento (Dall’Atlantico agli Urali), Sacra
Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2005, pp. 47-48.
45)
Cfr. S. Fath “Dio benedica l’America...”, op. cit.
46)
Cfr. S. Fath “Dio benedica l’America …”, op. cit.
47)
Cfr. Thomas Molnar “L’Americanologia”, Settimo Sigillo, Roma, 2005, pp. 69-70.
48)
Citato da M. Valcarenghi – I. Porta “Operazione Socrate”, Firenze, 1995, pp.
101-102; ora anche in G. Cosco “Le radici …”, op. cit., p. 89. In realtà nel trentesimo
capitolo di Ezechiele, come in altre parti di tale libro della Bibbia, si parla dei conflitti tra
le potenze mediorientali – Babilonia ed Egitto – del VI secolo a. Cr.. Di un ritorno degli
israeliti in Palestina si fa menzione piuttosto nel capitolo 28, 24-26 dello stesso libro di
Ezechiele ma con chiaro riferimento alla promessa del ritorno del popolo ebreo dalla
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cattività babilonese. Ezechiele, infatti, esercitò il suo ministero profetico proprio tra gli
Israeliti deportati a Babilonia, sostenendone la fede nella promessa divina di liberazione
e ritorno alla terra dei padri: quello dell’uso decontestualizzato dell’Antico Testamento è
– come vedremo - una caratteristica tipica dell’esegesi cristiano-sionista. In verità, gli
israeliti, a causa del rifiuto di Cristo, per la “durezza del loro cuore”, sono attualmente
“rami recisi” – come dice san Paolo nel capitolo XI della Lettera ai Romani – dall’”Olivo
Santo” ossia dalla Fede di Abramo intesa come Cristianesimo ante litteram e perciò
dall’Albero della Vita che è la Croce di Cristo. Ed in tale equivoca situazione essi
rimarranno fino alla fine dei tempi allorché saranno, ma solo allora, reinnestati
nell’Olivo Santo della Rivelazione divina. Fino a quel reinnesto, pertanto, essi
svolgeranno un ruolo ambiguo ed equivoco, nel piano della salvezza, preparando, come
ritenevano unanimi i Padri della Chiesa, la strada all’Impostore, al falso messia
anticristico. Solo dopo averlo servito, sostengono i Padri della Chiesa, essi, in quanto
ancora amati per la fede genuina dei loro padri e non certamente per la loro attuale
fede talmudica, saranno graziati dalla Misericordia di Dio che finalmente aprirà loro gli
occhi permettendo ad essi di smascherare l’Impostore e di riconoscere la DivinoUmanità messianica di Gesù Cristo.
49)
Cfr. Kenneth Wuest “Gli Ebrei nel Nuovo Testamento”, Greco, 1974, p. 14.
50)
Va, purtroppo, notato che questa ambigua esegesi, in una versione che postula
un doppio soggetto messianico e due vie parallele di salvezza, Cristo per i gentili ed
Israele per gli ebrei, si è fatta strada anche all’interno della Chiesa cattolica
subentrando, nella prima metà del XX secolo silenziosamente e dopo il Vaticano II
ormai apertamente, alla tradizionale teologia impropriamente detta della “sostituzione”,
facendo leva su una inattendibile interpretazione della Lettera ai Romani di san Paolo.
In realtà, come si diceva alla nota n. 48, che precede, in essa, l’Apostolo delle genti,
pur ribadendo a proposito dei suoi ex-correligionari che “l’elezione e le promesse di Dio
sono irrevocabili”, afferma chiaramente che gli ebrei sono, al momento, sradicati
dall’Olivo Santo, ossia dalla Fede di Abramo e dunque dall’Alleanza da Dio conclusa con
l’antico Patriarca ed adempiutasi in Cristo. San Paolo fa chiaramente intendere che il
popolo ebreo, per l’indurimento del cuore, si è collocato fuori dall’Alleanza la quale è sì
unica, benché in due Testamenti, e pertanto, come ha avuto modo di dire Giovanni
Paolo II in diverse occasioni, non revocata, ma trova, per l’appunto, adempimento e
continuità soltanto in Cristo e nell’adesione a Lui. Avendo respinto Cristo, il popolo
ebreo ha respinto anche l’Alleanza abramitica. Benché, aggiunge poi l’Apostolo, per la
Misericordia di Dio, che non ha dimenticato le promesse fatte al suo antico popolo,
anche gli ebrei, ma solo alla fine dei tempi, saranno riammessi nell’Alleanza con il
riconoscimento da parte loro della Divino-Umanità Messianica di Cristo. Solo in questo
senso paolino è possibile, a nostro giudizio, interpretare, senza incorrere in
contraddizione con la Tradizione ed il Magistero dei suoi processori, la definizione che,
come si ricordava, Giovanni Paolo II ha dato del popolo ebreo come “popolo
dell’Alleanza non revocata”: l’Antica Alleanza è non revocata in quanto adempiuta e
continuata, quindi anche superata, dalla Nuova, e però il popolo ebreo, che fu un tempo
il popolo di quell’antica “Alleanza non revocata” ma oggi adempiuta in Cristo, non è più
attualmente all’interno di questa Alleanza sostanzialmente unitaria nei suoi due
Testamenti.
51)
Cfr. Lewis David Allen “Can Israel Survive in a Hostile World?”, New Leaf Press,
Green Forest, AR, USA 1994, p. 150; ora anche in M. Martinez “Il cristianosionismo” in
Movimenti
Religiosi
Alternativi
n.
29
reperibile
su
http://www.kelebekler.com/christianzionism-it.html.
52)
Citato dal sito www.kelebek.it.
53)
Cfr. M. Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit., che cita da Thornas Ice e Randalli
Price “Ready to Rebuild”, Harvest House Publishers, Eugene, OR, USA 1992, pp. 105106.
54)
Citato in M. Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit.
55)
Argomentando sulla scorta di un vecchio libro del 1989, “Israele tra profezia e
storia”, di Marco Quarantini, allievo di Giorgio La Pira, ma sostanzialmente tradendo la
visione cusaniana ma sicuramente cristocentrica di La Pira stesso, Antonio Socci, ex
ciellino oggi catto-cons di Libero, in un articolo su Il Giornale del 27/07/2005, “Israele e
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la Chiesa”, riprodotto sul sito di Radio Maria, un tempo benemerita emittente mariana
ed oggi “voce dell’America Cristianosionista”, utilizza anch’egli, nascondendosi dietro il
documento della Pontificia Commissione Biblica “Il popolo ebraico e le sue sacre
scritture nella Bibbia Cristiana” che non afferma in realtà ciò che lui ritiene (basta anche
solo leggere bene tra le righe della interlocutoria prefazione dell’allora cardinal
Ratzinger), la decontestualizzazione delle profezie veterotestamentarie per affermare,
da posizioni “cattoliche”, l’adempimento in atto di quelle profezie, che in verità si
riferivano a fatti precedenti Cristo. Socci, ponendosi così in consonanza con l’esegesi
talmudica del rabbinato post-biblico, evidenzia, a causa di una islamofobia viscerale e
ben poco cattolica, tutta l’ingenuità del “noachita” ignaro del suo inconsapevole
“cristiano-sionismo”. Proprio lui, di cui comunque condividiamo la sincera devozione
mariana, che, da ciellino, ha scritto libri sulla dittatura liberale risorgimentale anticattolica ed è stato in prima fila in campagne giornalistiche anti-protestanti ed antimassoniche. Il fatto è che l’antico strabismo anti-comunista, che prima del 1989 faceva
cadere molti cattolici nell’errore di ritenere il comunismo l’unico o il principale male, per
cui il liberalismo e l’America erano considerati un male minore e pertanto accettabile, è
stato sostituito da un altrettanto strabico anti-islamismo filo-occidentale.
56)
Così secondo Lawrence Wright “Letter from Jerusalem: Forcing the End” in The
New Yorker del 20 luglio 1998; ora anche in M. Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit..
57)
George W. Bush avrebbe fatto queste affermazioni durante l’incontro di Sharm
al-Shaykh con le autorità palestinesi nell’estate del 2003. La fonte è il quotidiano
israeliano Ha’aretz (Arnon Regular “Road map is a life saver for us”) ora anche in M.
Martinez “Il cristianosionismo” op. cit..
58)
Cfr. Jerry Falwell “Old-Time Gospel Hour”, 2 dicembre 1984, ora anche in M.
Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit..
59)
Cfr. Ramon Bennett “Philistine: The Great Deception, Arm of Salvation”,
Jerusalem 1995, p. 270; ora anche in M. Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit..
60)
Cfr. D. A. Lewis “Can Israel Survive …” op. cit., p. 151; ora anche in M. Martinez
“Il cristianosionismo”, op. cit..
61)
Cfr. Nelson Darby “Hopes of the Church”, citato in Paul Boyer “When Time Shall
Be No More: Prophecy Belief in Modern American Culture”, Cambridge, MS, Harvard
University Press, 1992, p. 200; ora anche in www.kelebek.it.
62)
Cfr. M. Blondet “E’ il messianismo fondamentalista che detta la linea”, in Alfa e
Omega n. 3 marzo/aprile 2005, pp. 32.
63)
Cfr. M. Blondet “E’ il messianismo fondamentalista …”, op. cit., pp. 32-33.
64)
Antonio Socci, visto quel che pensa sul significato teologico della nascita dello
Stato di Israele (vedi precedente nota n. 53), sarebbe stato, probabilmente, tra gli
entusiasti seguaci della dotta esegesi sharoniana.
65)
Citato da M. Blondet in “E’ il messianismo fondamentalista …”, op. cit., pp. 3132.
66)
Cfr. J. Inhofe, intervento al Senato USA del 04/07/2002, citato da Paolo Naso in
“I crociati dell’Apocalisse. Geopolitica dei fondamentalisti evangelici americani” in
Avallon – l’uomo e il sacro, numero 54, Rimini, anno 2005, p. 91.
67)
Citato da Paolo Naso in “I crociati dell’Apocalisse...”, op. cit., pp. 91-92.
68)
Cfr. Thomas W. Lippman in Washington Post del 02/05/1998; ora anche in M.
Martinez “Il cristianosionismo”, op. cit..
69)
Al contrario, l’esegesi cattolica, da sempre attenta a non tradire l’unità di Vecchio
e Nuovo Testamento nonché l’unità dello svelarsi, pur graduale, della Rivelazione di Dio
agli uomini, legge nella profezia di Ezechiele (Ez. 37, 1-14), citata da Al Gore, che
segue altre profezie, e ne precede altrettante, dello stesso genere, contenute, sin dal
Genesi, nella Scrittura, un’anticipazione della definitiva Promessa neotestamentaria
della “resurrezione della carne”: Promessa fatta non ai soli ebrei ma a tutta l’umanità.
70)
Citato da M. Martinez in www.kelebek.it.
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