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IL “CONGRESSO EUCARISTICO DIOCESANO” DELLA CHIESA DI NUORO
E LA FESTA DEL"CORPUS DOMINI"
La Festa del “Santissimo Corpo e Sangue di Cristo” sarà nella Chiesa di Nuoro la pregustazione del “Congresso
Eucaristico Diocesano”, il grande avvenimento che celebreremo nell’ultima Domenica di Set- tembre, a
coronamento dell’“Anno Sacerdotale” che concluderemo a Roma con il Papa Benedetto XVI nella festa del
“Sacratissimo Cuore di Gesù”. Il Santo Padre ci ha esortato a vivere il nostro Battesimo e il nostro Sacerdozio
nello spirito del Santo Curato d’Ars “sostando come lui davanti all’Eucaristia” (Preghiera per l’Anno Sacerdotale).
Ascoltiamo il santo patrono dei sacerdoti, che diceva: “Se avessimo gli occhi degli angeli, vedendo Nostro Signore
Gesù Cristo presente sull’altare, che ci guarda, come lo ameremmo! Non vorremmo più separarcene, ma restare
sempre ai suoi piedi. Sarebbe come pregustare il Paradiso”. L’Eucaristia è la “Pasqua del Cristiano” e nel cuore
vivifica la fede. È la “Pasqua della Famiglia” e nella casa riaccende l’amore. È la “Pasqua della Chiesa” e nei
ministri dell’altare e nel popolo sacerdotale ravviva l’entusiasmo e la gratitudine. L’Eucaristia è il pane della vita e
il pane della carità. È il pane quotidiano che alimenta la gioia dello spirito. L’Eucaristia è “Dio con noi”: lo Spirito
Santo rende visibile l’amore del Padre nel suo Figlio Gesù, che nel mistero del pane ha offerto il suo corpo
per la vita degli uomini. La Chiesa nella festa del “Corpus Domini” pone sulle nostre labbra una mirabile
preghiera: “Dio fedele, che nutri il tuo popolo con amore di Padre, ravviva in noi il desiderio di Te, fonte
inesauribile di ogni bene, fa’ che, sostenuti dal Sacramento del Corpo e Sangue di Cristo, compiamo il viaggio
della nostra vita, fino ad entrare nella gioia dei Santi”. La festa liturgica del “Santissimo Corpo e Sangue di
Cristo” nacque nell’anno 1265 in seguito al miracolo eucaristico che nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena
guarì la incredulità del sacerdote sulla presenza di Cristo nel pane e nel vino, facendo grondare il suo sangue
sull’altare. Anche noi, dice il Santo Curato d’Ars, dinanzi al Pane dell’Eucaristia “siamo dei poveri ciechi, abbiamo
come un velo davanti agli occhi”. La “Festa del Corpus Domini” e il “Congresso Eucaristico Diocesano” saranno il
grande dono di Dio che ravviverà la nostra fede e aprirà i nostri occhi per vedere Gesù presente nella nostra
Chiesa, nella nostra famiglia, nella comunità degli uomini. I bambini della “Prima Comunione” sono
ammirevoli nel loro fervore per il “Pane di Gesù”. Noi dobbiamo trasmettere ai bambini e ai giovani la certezza
che “senza la divina Eucaristia non ci sarebbe felicità in questo mondo” (Santo Curato d’Ars).
Fratelli e Sorelle! Apriamo gli occhi del nostro cuore e - come i discepoli di Emmaus - riconosciamo Gesù
mentre “spezza il pane per noi”. Accogliamo il “Congresso Eucaristico Diocesano” come la grande grazia del
Signore per la nostra Chiesa e prepariamoci nella preghiera ogni giorno: nella famiglia, nella parrocchia, nei
gruppi ecclesiali, nelle comunità religiose, nei monasteri claustrali. Meditiamo sul mistero dell'Eucaristia come
fonte di concordia e di serenità per le nostre famiglie, perché l’amore dei genitori doni ai figli “gioia e speranza”
e l’amore dei figli doni ai genitori soddisfazione ed entusiasmo nella “missione educativa”.
Ricordiamo il messaggio del primo “Congresso Eucaristico Diocesano”, guidato oltre trent’anni fa nella Chiesa
di Nuoro dal vescovo Mons. Giovanni Melis, e facciamo tesoro della parola del Papa Benedetto XVI nella
Esortazione Apostolica “Sacramentum Caritatis”: “la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se
stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo”.
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A Maria, Regina della Famiglia, rivolgiamo la nostra preghiera con la voce del Papa: “Per intercessione della
Beata Vergine Maria, lo Spirito Santo rinnovi nella nostra vita lo stupore eucaristico per lo splendore e la bellezza
che rifulgono nel rito liturgico, segno efficace della stessa bellezza infinita del mistero santo di Dio”.
✢ Pietro Meloni
Vescovo di Nuoro
Nuoro, 6 giugno 2010: Festa del “Santissimo Corpo e Sangue di Cristo”
IL PANE DI DIO
FONTE DI UNITÀ NELLA FAMIGLIA E DI CONCORDIA NELLA COMUNITÀ
La Chiesa di Nuoro verso il “Congresso Eucaristico Diocesano”
Il “Congresso Eucaristico Diocesano” è vicino! Il Redentore, che abbiamo festeggiato con esultanza sul Monte
Ortobene, ci chiama a vivere questo mirabile avvenimento per gustare la dolcezza del “Pane di Dio”, che
sostiene e illumina il cammino della Chiesa e della Società.
Sacramentum caritatis: “Sacramento della carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso,
rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo” (Benedetto XVI).
L’Eucaristia è il centro della vita cristiana. È il pane della famiglia di Dio. Nella casa il cuore della famiglia è la
mensa del pane quotidiano: nella Chiesa il cuore della comunità è il pane spirituale di Cristo. Gesù, donando ai
suoi discepoli il pane della vita, ha trasmesso a noi il suo invito: “Fate questo in memoria di me”. “Quale stupore
deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale
meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero Eucaristico!” (Sacramentum caritatis 1).
I Congressi Eucaristici sono “segno di fede e di carità”, una “manifestazione tutta particolare del culto
eucaristico”, dice la voce del Magistero Ecclesiale: sono “una sosta di impegno e di preghiera, a cui una
comunità invita la Chiesa Universale o una Chiesa Locale … per approfondire insieme qualche aspetto del
mistero eucaristico e prestare ad esso un omaggio di pubblica venerazione, nel vincolo della carità e dell’unità”
(Rituale Romano, De Sacra Comunione 109). Lo ha confermato il Papa, mostrando che le “Processioni
Eucaristiche”, le “Quarant’Ore”, i “Congressi Eucaristici”, sono forme di devozione che “meritano di essere
anche oggi coltivate” (Sacramentum caritatis 68).
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La celebrazione eucaristica è “il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Accogliere l’Eucaristia significa
“porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo” per diventare “una cosa sola con Lui” e
pregustare “la bellezza della liturgia celeste” (Sacramentum caritatis 66). E c’è una “intima relazione” tra
“celebrazione eucaristica e adorazione”, come già aveva intuito Sant’Agostino dicendo che “nessuno mangia la
carne di Cristo senza prima adorarla” (Sermoni sui Salmi 98,9).
Il “pane quotidiano” che domandiamo al “Padre Nostro” risveglia nei credenti la responsabilità di compiere i
doveri della loro cittadinanza terrena, orientando “con profonda sapienza il comportamento dei cristiani di
fronte alle questioni sociali” e guidando tutti ad “operare responsabilmente per la salvaguardia del creato”
(Sacramentum caritatis 91-92).
La nostra Chiesa e la nostra Società hanno sete di “comunione”. L’Eucaristia “crea comunione e educa alla
comunione”, affermava il Papa Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia 40). L’Eucaristia “è il luogo privilegiato
dove la comunione è costantemente annunziata e coltivata.
Proprio attraverso la partecipazione eucaristica, il giorno del Signore diventa anche il giorno della Chiesa” (Novo
millennio ineunte 36). È il “giorno dell’uomo e della famiglia” e deve essere il “giorno dei bambini” e il “giorno
della gioventù”. Il nostro “Congresso Eucaristico” dovrà convocare i giovani alla festa della gioia, mentre il Papa
Benedetto XVI convoca i giovani e noi tutti per l’anno prossimo in Spagna alla “Giornata Mondiale della
Gioventù”.
Maria - dice il Papa - ci guida a Gesù Eucaristia. Lei è presente “in ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche”
(Sacramentum caritatis 57). Accogliendo l’invito di Gesù “Fate questo in memoria di me” noi obbediamo all’invito
di Maria alle nozze di Cana: “Fate quello che Gesù vi dirà” (Giovanni 2,5).
Arrivederci al “Congresso Eucaristico”!
✢ Pietro Meloni
Vescovo di Nuoro
Nuoro 29 agosto 2010 Festa del Redentore
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congresso
eucaristico
diocesi di nuoro
18-26 Settembre
2010
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L’EUCARISTIA “PANE DELLA VITA”
Primo giorno
INCONTRO CON LE FORZE DELL’ORDINE
MONS. GIUSEPPE MANI ARCIVESCOVO DI CAGLIARI
Nuoro, Chiesa di N.S. delle Grazie, 18 settembre
INTRODUZIONE DI MONS. PIETRO MELONI
Benvenuti! Grazie a voi per la vostra sensibilità verso la Chiesa e verso questo “Congresso Eucaristico Diocesano”,
che è un avvenimento significativo della storia cristiana e anche della storia sociale e civile della Diocesi e della
Provincia di Nuoro. Il “Congresso Eucaristico Diocesano” lo celebriamo a distanza di 31 anni dal primo Congresso
ideato ed animato dal vescovo Mons. Giovanni Melis, che ci ha lasciato solo un anno fa e lo ricordiamo con
gratitudine; e ricordiamo anche Mons. Giuseppe Melas nel 40° anniversario della sua morte.
Vi salutiamo e vi ringraziamo! E salutiamo con gratitudine, simpatia e affetto Mons. Giuseppe Mani,
Arcivescovo di Cagliari, che fu Ordinario Militare per tanti anni: molti di voi lo hanno conosciuto in quel tempo,
che lui ricorda sempre con grande rimpianto e simpatia. Lo ringraziamo per la sua presenza che è
qualificatissima proprio per questo incontro con il mondo della milizia. E ringraziamo tutte le forze dell’ordine
presenti e le autorità che le guidano. Prima della celebrazione della S. Messa pensiamo di fare una riflessione,
guidata proprio da Mons. Mani, sulla Eucaristia, sul “pane dello Spirito” nella vita cristiana e anche nel servizio
alla serenità e alla pace, che voi siete chiamati a svolgere, per un’azione che noi vogliamo ancora definire una
missione: la vostra è una missione nella storia del nostro paese e nella storia del mondo.
MONS. GIUSEPPE MANI
Grazie, Eccellenza. E un saluto a tutti! Io sono venuto molto volentieri, perché, come diceva il vostro vescovo,
io ho fatto per sette anni il vescovo dei militari e davvero ricordo quel tempo con grande simpatia e con grande
affetto: tante persone, ammiragli e generali, che passano a Cagliari vengono a trovarmi e siamo legati da tanta
amicizia con loro. Sono stato invitato a presiedere la Santa Messa del primo giorno del Congresso Eucaristico e
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ora mi viene chiesto di dire un pensiero: allora io ripesco da tutti i ricordi di quel bel periodo. Soprattutto un
ricordo importantissimo fu quando addirittura feci insieme ai militari il primo “Sinodo” di tutta la Chiesa
militare: pensate che non si era mai fatto un Sinodo negli ordinariati militari. Il Sinodo aveva un titolo molto
significativo. Noi militari siamo sempre stati visti in maniera un po’ originale, e noi nella Chiesa non abbiamo
avuto una vita facile, tanto è vero che nel III secolo Tertulliano, grandissimo cristiano e grandissimo teologo, ha
scritto un libro, il De corona, nel quale si pone una domanda: si può essere militari e cristiani? Un cristiano può
fare il militare? Questo perché un militare deve portare le armi. Allora c’è da aggiustare un po’ il tiro e da
vedere tante cose. Allora io in quei tempi, con i miei carissimi amici militari, feci il Sinodo, avendo come “arma
cruciale” il Vangelo.
Leggendo il Vangelo vedemmo che addirittura i militari fanno un figurone, e in particolare vedemmo le figure
dei centurioni. I centurioni erano bravi militari, messi a fare quello che fanno oggi i colonnelli: il capo di tutte
le truppe presenti in un territorio, era a capo di tutta la polizia romana. Ci sono tre centurioni nel Vangelo e sono
figure splendide.
Primo centurione: il centurione di Cafarnao. Era un romano, quindi un pagano, ma sentì dire, come un bravo
carabiniere, che c’era questo Maestro che faceva i miracoli in giro, e lui ha un servo carissimo che è malato.
Questo centurione prende coraggio e si avvicina, come fate voi, come fa la polizia o i carabinieri, agli amici di
Cristo e chiede: “Mi fate parlare con lui, presentatemelo un po’”. Loro vanno e dicono a Gesù: “Guarda, qui c’è
il centurione, è una gran brava persona: ha dato anche i soldi per restaurare la sinagoga”. Quindi è proprio
bravo. “Va bene”, dice Gesù, “fatelo venire”. Questo centurione va da Gesù e gli dice: “Senti, io ho il mio servo
che è ammalato a casa, vorrei che tu me lo guarissi”. E Gesù dice: “Va bene, vengo a casa e te lo guarisco”. E
lui: “No, non venire, basta che tu dica di qui 'sii guarito' e quello guarisce”. Gesù lo guardò: “Accidenti, non ho
mai trovato tanta fede in Israele e un pagano ha questa fede! Bravo, il tuo servo sia guarito”. Controllarono
l’orario in cui Gesù lo aveva detto e in quel momento il servo risultò che era guarito. Questo centurione
rimane davvero l’immagine bellissima e stupenda della fede: quanta fede tra i militari ho trovato io, quanti
centurioni ho trovato.
Secondo centurione: il centurione di Gerusalemme. Era anche lui a capo di una coorte, avevano fatto un giudizio,
era stato condannato a morte il condannato, che in questo caso era Gesù di Nazareth. Quel venerdì mattina il
centurione va a prendere ordini in caserma e gli dicono: “C’è da eseguire questa esecuzione”. “Va bene”,
risponde, “facciamo questa condanna a morte”. Il centurione si prende il picchetto, prendono il condannato a
morte e gli mettono sulle spalle il patibolo, come era previsto, e lo accompagnano verso il luogo della
crocifissione: quindi doveva fare il suo mestiere. Questo centurione assiste a tutta la scena, si fa la prima Via
Crucis e questo centurione vede la Madonna che si incontra con il Figlio, vede chi era il condannato a morte:
d’altra parte lui doveva eseguire gli ordini. Addirittura vede che non ce la fa più ed obbliga un passante: Dagli
una mano a portare la croce. Viene fuori Simone di Cirene. Vede le donne che si avvicinano a Gesù, vede la
Veronica che gli asciuga il volto, vede Gesù in quelle condizioni. Immaginate cos’è passato dentro il cuore di
quest’uomo nell’essere il più vicino di tutti a Gesù che porta la croce fin sul Calvario. Quando arriva sul Calvario
c’è da eseguire la condanna: “Avanti, crocifiggetelo”. Questo viene crocifisso e il centurione è lì. Alzano la
croce e il centurione è lì. Quando però il condannato morì, il centurione per primo, pensate, appena morto
Gesù, fa il primo atto di fede: “Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio”. È un centurione, un militare: una
figura stupenda.
Il terzo centurione: il centurione di Cesarea di Filippo; anche questa è una figura importante. Quando Gesù era
morto ed era risuscitato ed era partita la Chiesa, c’era un grosso problema: ma Gesù Cristo per chi è morto,
per gli ebrei o per tutti? La salvezza è per gli ebrei o per tutti? Nella Chiesa ci sono soltanto gli ebrei o ci stanno
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anche tutti i pagani? Lo risolse il Signore: mandò un angelo in visione a Pietro, il quale era a Giaffa e gli dice:
“Guarda, Pietro, vai a Cesarea, in casa del centurione”. “Io in casa del centurione? Quello è un pagano, io non
ci posso entrare perché sono ebreo”. “Tu vai a Cesarea in casa del centurione e fai come ti dico”.
Contemporaneamente appare una visione al centurione di Cesarea: “Guarda, verrà qui uno a trovarti: accoglilo!”.
Il povero Pietro va, parte da Giaffa e va a Cesarea, va nella casa che gli era stata indicata dall’angelo e lì trova la
famiglia del centurione: immaginate la famiglia di un carabiniere, di un poliziotto o di un finanziere, una delle
vostre belle famiglie. Il centurione lo accoglie in casa sua e Pietro vede che erano brave persone anche se erano
pagani. Allora Pietro cominciò a parlare di Gesù e a questo punto Pietro, per ordine di Dio, lo convertì e lo
battezzò. Pensate che il primo pagano battezzato è un militare, è un soldato. E si sa benissimo, e qui il vostro
vescovo potrebbe farvi delle precisazioni, che era della coorte Italica, quindi era un italiano ed era sicuramente
della coorte Italica del Veneto, perché venivano da lassù. Quindi il primo pagano che è stato battezzato è stato
un centurione, un militare italiano che era centurione a Cesarea Marittima. Pensate la bellezza di questa cosa.
A parte che san Luca ha una simpatia tutta particolare per i militari: forse aveva qualche parente militare e li
tratta sempre benissimo. Per cui nel Nuovo Testamento si nota che i militari sono vicinissimi a Cristo.
A questo punto potrei farvi una battuta. Quando io divenni vescovo dei militari la prima cosa che dissi fu
quello che ho detto a voi: quando il Papa mi ha detto di venire a fare il vescovo ho letto tutto il Vangelo per
trovare dove si parlava dei militari e ho trovato i tre centurioni e lo raccontai a loro, che erano attenti
nell’ascoltarmi. Finito il ricevimento mi si avvicinò l’ammiraglio Venturoni, che era il capo di stato maggiore della
Difesa e mi disse: “Guardi Eccellenza, lei il Vangelo l’ha letto poco bene perché se guarda il Vangelo, la Marina è
trattata molto meglio dell’Esercito”. Lì ovviamente erano tutti pescatori e marinai. Guardate però che i militari
sono presenti nel Vangelo e questo ci dice che uno può essere anche militare e anche cristiano, a una
condizione: che faccia il militare per amore e con amore, e lo faccia per la pace, non per la guerra. Come
dice infatti il Concilio Vaticano II quando ha parlato di noi militari dice che: Coloro che rispondono a questa
vocazione ricevono un munus, il compito di difendere, per cui collaborano validamente alla costruzione della
pace.
Qui si apre il problema della “guerra giusta” o “guerra ingiusta”. Quando si è fatto il Sinodo si parlava di questo
problema e poi si è trovata la giusta chiave: non esiste né “guerra giusta” né “guerra ingiusta”, esiste la “guerra
inevitabile”; quando per difendere i diritti di una persona bisogna usare la forza, allora può essere usata la
forza. E voi siete gli unici a cui la società affida la possibilità di difendere i valori con la forza: tutti gli altri hanno
il dovere di difendere i valori con la convinzione. Nessuno può usare la forza per convincere qualcuno: voi
soltanto potete usare la forza per difendere la giustizia e i valori dell’uomo. Quindi pensate quale delicatezza e
quale fiducia ha la società in voi. Qual è, allora, la virtù più grande per un militare? Non è la forza, perché
questa è bruta, la forza ce l’hanno anche gli animali. Dice San Tommaso nella Summa Theologiae II-II che la
forza, coniugata con la giustizia e con la temperanza, diventa la virtù della fortezza, cioè si può usare la forza
con misura e per motivi giusti: ma così non si usa più la forza, che altrimenti sarebbe violenza, ma la fortezza,
che è una virtù cristiana. Mi sembra di avervi riassunto in poche battute tutta quella che è stata la mia
passione di sette anni da militare: il resto ve lo dirò durante l’omelia della Messa.
In che cosa è necessaria l’Eucarestia per voi? Certamente si può essere militari e cristiani perché i militari
sono stati vicinissimi a Cristo e nel Vangelo sono stati super-trattati, a condizione che la virtù fondamentale
del militare sia la fortezza. Qui vorrei concludere con una memoria: io mi sono battuto,
e speriamo che ci arrivino, ad avere un santo militare: i santi militari ci sono, ma sono tutti degli inizi della
Chiesa e sono martiri. Noi vorremmo un santo di oggi e abbiamo in corsa Salvo d’Acquisto, che era un
giovane carabiniere che si è offerto per morire al posto della gente condannata dai tedeschi. Qual è stata la virtù
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di Salvo d’Acquisto? È stata la fortezza: è stato un uomo forte che ha saputo accettare ed affrontare la morte
per difendere i fratelli. Questa è la virtù dei nostri militari. Perché non ricordare anche i vigili del fuoco? Chissà
cosa hanno fatto i vigili del fuoco l’11 settembre. È morto lì anche il francescano padre Michael, il cappellano dei
vigili del fuoco di New York: anche lui si è buttato insieme ai suoi vigili per salvare ciò che poteva essere salvato
in quell’attentato e ci ha lasciato la vita. Cosa non hanno fatto le forze dell’ordine? Ognuno ha i suoi santi, per
cui con questi sentimenti introduciamoci nella celebrazione della Messa del Congresso Eucaristico per chiedere
al Signore la grazia di poter essere davvero soldati, militari e cristiani,forze dell’ordine e cristiani.
OMELIA ALLA SANTA MESSA DI MONS. GIUSEPPE MANI
Cari amici! Quello che ci siamo detti prima è molto impegnativo: abbiamo detto che si può essere militari e
cristiani. Per essere come militari si riceve da parte della società una grande responsabilità: quella di difendere i
valori con la forza. In che maniera allora un cristiano può svolgere questa missione che vi è stata affidata?
Quando si tratta di usare la forza, anche se poi è diventata una virtù che si chiama fortezza, le tentazioni sono
grosse: ci sono le tentazioni di esagerare, di intervenire personalmente, di prevaricare un po’ la legge. Come si fa
a mantenere sempre questa dignità di tutore della pace attraverso la forza, da esercitare con la virtù cristiana
della fortezza? Stando molto uniti a Dio, datore di ogni bene.
Ecco perché, all’inizio di questo Congresso Eucaristico, anche voi siete stati invitati, perché anche e
soprattutto voi avete bisogno, nella delicatezza del vostro compito, della Eucarestia che è la sorgente della
carità, la sorgente dell’amore. Non si può fare niente senza amore: non si può fare il poliziotto, il carabiniere, il
finanziere. Tutto deve essere fatto per amore e con amore. Io ho tanti episodi da raccontarvi molto belli: ve ne
racconto soltanto due che riguardano i carabinieri, sulla forza che un carabiniere ha nei confronti dei propri
figli e della propria famiglia quando svolge il suo compito con amore.
Ricordo che ero stato nominato da poco vescovo dei militari, e fui chiamato a S. Eufemia nell’Aspromonte perché
era stato ucciso il maresciallo di S. Eufemia. Non mi dimenticherò mai quella scena: accompagnato dal generale
Luigi Federici, a cui io sono legato da grande affetto e da grande amicizia, direi quasi da venerazione, perché è
stato il mio padre e mi ha educato lui su come si fa a fare il militare. Scendemmo a S. Eufemia e ci fu il funerale di
questo maresciallo e vedere i suoi colleghi che, di lato alla bara, piangevano, mi fece capire quanto bene si
vuole questa gente. Alla fine del funerale parlò la figlia maggiore, che quell’anno faceva la maturità classica al
liceo, e disse queste testuali parole: “Papà, tu sai quanto è duro essere figlia di un carabiniere, eppure io sono
orgogliosa di te”. Il padre che muore e che lascia la famiglia con quattro figli e la figlia maggiore riconosce
l’eroismo del padre: probabilmente aveva fatto sempre il carabiniere con amore, aveva esercitato sempre la
sua missione.
Un altro episodio, più simpatico, mi è capitato quando, visitando una caserma, vidi un maresciallo, di quelli
moderni, secco come un grissino, magrolino, giovane, che stava diritto, mentre un maresciallo dovrebbe
essere abbastanza corposo: mi veniva difficile chiamarlo “maresciallo”. Gli chiesi se ce la faceva a fare il
maresciallo, sembrava un ragazzino, e lui rideva. Gli ho chiesto: “Ti riesce a fare il maresciallo? Ma tu hai mai
sparato a qualcuno?”, e mi rispose: “No, ancora no”. “Ma le manette le hai messe a qualcuno?”. “Sì, quello sì.
Pensi che la prima volta che avevo messo le manette a qualcuno, dopo avergli messo le manette ho visto i
suoi documenti, e aveva la stessa età di mio padre”. “Tu cosa hai fatto?”. Disse: “Gli ho messo le manette, però
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gliele ho messe con amore”. Questa frase mi resterà impressa per tutta la vita. Fare il carabiniere, fare il
finanziere, fare il poliziotto con amore: questo è l’insegnamento. Per poter arrivare a tutto questo per amore ci
vuole molta comunione con Dio, ci vuole una grande pazienza, perché voi siete coloro che siete vicini all’uomo
più di qualsiasi altro. Stando vicini all’uomo e conoscendo l’uomo com’è, c’è un rischio gravissimo: quello di
perdere la fiducia nell’uomo e di diventare cattivi invece di essere buoni. Invece voi dovete essere buoni e per
essere buoni bisogna stare molto vicino a Dio.
Ecco non ho altro da dirvi, se non augurarvi che tutti i giorni non manchiate mai di raccomandarvi alla Madonna
con la preghiera, che tutte le domeniche non manchiate mai alla Messa, che nei momenti di difficoltà, magari
quando vi accorgete che il cuore si indurisce, allora è il momento di ricorrere alla preghiera, perché dovete
essere uomini, perché non si svolga la vostra missione senza la bontà.
INCONTRO CON I CATECHISTI
E I MINISTRI STRAORDINARI DELLA EUCARISTIA
MONS. GIOVANNI DETTORI VESCOVO DI ALES - TERRALBA
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 18 settembre
SALUTO DI MONS. PIETRO MELONI
Benvenuti, Ministri straordinari dell’Eucaristia e Catechisti della nostra Chiesa diocesana! Benvenuti al
Convegno Eucaristico della nostra diocesi di Nuoro e benvenuto tra noi Mons. Giovanni Dettori, Vescovo di
Ales-Terralba, una diocesi storica della Sardegna, che ci guiderà nella riflessione, dopo che avremo dedicato il
primo tempo all’Adorazione della Santissima Eucaristia, come il Papa Benedetto XVI ci raccomanda. Mons.
Giovanni Dettori ha preparato proprio in questi giorni la sua “Lettera Pastorale” per i suoi sacerdoti e gli
educatori, intitolata “Lasciamoci educare da Dio”. È una gioia per noi accoglierlo nella Chiesa Cattedrale di
Nuoro, mentre stamattina la celebrazione inaugurale del Congresso Eucaristico è stata ai piedi della Madonna
delle Grazie, per affidare a Lei il nostro affetto per la Santissima Eucaristia. Stamane erano presenti le
rappresentanze di tutti i militari delle diverse Armi che, come Mons. Giuseppe Mani ha ricordato, sono un
esercito al servizio della pace. Voi in questo pomeriggio sembrate un battaglione di ministri pronti a portare il
Pane dell’Eucaristia agli ammalati, agli anziani, alle persone deboli, perché tutti possano gustare il pane
dell’Eucaristia; e i catechisti sono pronti ad annunziare la Parola di Dio perché “non di solo pane vive l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Inizieremo con l’Adorazione Eucaristica poi Mons. Giovanni
Dettori ci guiderà nella riflessione sul rapporto tra “Parola e Pane” per il servizio della catechesi e
l’evangelizzazione.
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MONS. GIOVANNI DETTORI
Grazie dell’invito a Sua Eccellenza Mons. Pietro Meloni e a tutta la comunità diocesana di Nuoro, che in questi
giorni è chiamata a riflettere su questo grande dono che è l’Eucaristia.
Eucaristia, Pane della Vita! Siete contenti che l’Eucaristia è pane della vita? Sì, certo, e spero che in questa
riflessione non siano solo le mie parole a guidarci, ma la presenza di Gesù che noi abbiamo nel cuore e che
dobbiamo portare nella vita. Sappiamo benissimo che la celebrazione dell’Eucaristia è al centro della vita della
Chiesa e mi permetto di iniziare subito con un’immagine: alcuni mesi fa sono andato a trovare un sacerdote che
aveva necessità di cure, e prima di tornare abbiamo fatto un giro per la cittadina e siamo andati al centro, dove
abbiamo avuto la possibilità di visitare diverse chiese. Siamo entrati nella chiesa di Santa Chiara d’Assisi e
abbiamo detto: vogliamo vedere dove è collocata la Santissima Eucaristia. Che freddo! Che gelo! Che
disorientamento! Girando tutta la chiesa non siamo riusciti a trovare il Tabernacolo che conteneva l’Eucaristia.
Abbiamo pensato: sarà una chiesa protestante! Allora abbiamo cercato il sacrista e abbiamo chiesto: “dov’è il
tabernacolo che contiene l’Eucaristia?”. “Andate, c’è una cappella dietro l’altare e lì lo trovate”. Ma noi non
riuscivamo a trovarlo … Ecco, io penso questo: se l’Eucaristia è Pane della vita, deve essere facilmente
raggiungibile, perché tutti abbiamo bisogno di attingere a questa vita, con la comunione e anche prima con
l’adorazione.
Nel libretto che vi verrà distribuito vedete che la Chiesa e la società sono segno di comunione. È per questo
che vogliamo parlare di Eucaristia. È l’Eucaristia che crea la comunione e tende alla comunione. È l’Eucaristia il
modo privilegiato perché sia attuata e coltivata la comunione. Senza comunione non c’è Chiesa, senza
comunione non c’è Eucaristia.
Ora vediamo un po’ la situazione dei Ministri Straordinari della Comunione. Andate tutti d’accordo con il
Parroco? Andate tutti d’accordo con gli altri operatori pastorali della comunità, dove voi fate comunione, oppure
vi limitate a portare la Comunione? Al centro non c’è solo il “portare” la Comunione, ma c’è il “vivere” la
Comunione. Che grande mistero l’Eucaristia! Mistero della fede! Perché è soltanto attraverso il nutrimento
della Parola e di questo mistero della fede che noi possiamo raggiungere l’entusiasmo e lo stupore dinanzi al
grande mistero che il Signore ci consegna. Perché questo grande stupore? Perché “nella notte in cui fu tradito,
egli prese il pane”: Gesù dona se stesso mentre è tradito. È questo il mistero grande della fede: riconoscere
Gesù che si dona e diventa Pane. Certo questo è un grande mistero per la nostra vita: infatti mentre veniamo
traditi è difficile che ci doniamo, ma Gesù ci dona questo grande Mistero.
Vi dico una frase forte: vi prego, non rovinate la Chiesa, non rovinate la comunione, non rovinate l’Eucaristia,
non rovinate la Parola di Dio e la catechesi. Per evitare questo mi servo di un’immagine: nella Cattedrale di
Ozieri, vicino al telefono dell’ufficio parrocchiale, c’era una frase che penso abbiate sentito molte volte:
“Celebra questa Messa come se fosse la Prima Messa, celebra questa Messa come se fosse l’unica Messa,
celebra questa Messa come se fosse l’ultima Messa”. Cosa vuol dire? Quando noi parliamo dell’Eucaristia, la
nostra fede e la nostra devozione ci devono portare a un passo più grande. Io so che tante persone non hanno
avuto un grandissimo amore per Gesù, hanno fatto fatica ad adorare l’Eucaristia, e tutti facciamo fatica a
riconoscere questo grande Mistero per viverlo come se fosse la prima volta, l’unica volta, l’ultima volta. Quale
devozione ci viene chiesta! Quale amore ci viene chiesto!
Ora mi servo della testimonianza di una donna di grande spirito e di grande santità, che si faceva spesso una
domanda: “Scusa, Gesù, mi sento di rimproverarti: tu hai pensato troppo a te e meno a Maria. Hai pensato a te
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e non ti è bastato venire sulla terra, operare vari prodigi, diventare il centro di tutto l’universo, e sei voluto
rimanere nell’Eucaristia perché ti possiamo avere tutti i giorni. Scusami Gesù, perché non hai fatto altrettanto
con Maria? Perché non hai fatto in modo che noi potessimo venerarla, vederla?”. Dopo un momento di silenzio
questa donna sente un’ispirazione, è Gesù che le dice: “Maria io la voglio vedere in te”.
Mi permetto di aggiungere una cosa che mi sembra importante: tanti hanno difficoltà a vedere Gesù presente
nell’Eucaristia. Caro ministro straordinario! Moltissimi hanno l’unica possibilità di vedere Gesù soltanto
attraverso la tua vita. Ognuno di noi deve fare grande attenzione a scoprire tutte le presenze di Gesù, perché
tutte concorrono ad aiutarci a vivere l’Eucaristia. La presenza di Gesù nella comunità: “Dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18 ,19-20). Certo che in un paese non c’è una persona
sola, magari un solo catechista, un solo ministro straordinario, ma siete sempre più di uno. Allora vi prego: non
lamentatevi più se la Chiesa vi sembra fredda, perché se siete davvero in due a pregare, in due ad essere uniti
nel nome di Gesù, allora fuori ci può essere la tempesta, la neve (qui siamo a S. Maria della Neve), ma noi
dobbiamo essere “calore” in mezzo alla neve e al freddo. “Dove due o più”: ci dobbiamo impegnare a trovare
nella parrocchia e nel paese alcune persone con le quali possiamo rendere presente Gesù.
Poi c’è un’altra realtà nella quale noi scopriamo la presenza di Gesù: nella Parola proclamata nella Liturgia. Gesù
dice: “Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi disprezza me” (Luca 10,16): non esiste una chiesa in cui
l’Eucaristia non sia al centro e venga messa da parte la gerarchia. Devo perciò scoprire la presenza di Gesù nel
fratello che mi sta accanto. Tutto questo ci può aiutare perché tutto questo messo insieme aiuta il nostro
cuore a scoprire la presenza di Gesù in questo grande Mistero dell’Eucaristia. E giustamente i Padri della
Chiesa, in particolare Sant’Agostino, ci dicono che: “Nessuno mangia di questa carne, senza prima adorarla” (In
Ps. 98,9: PL 37, 1264). Adorazione, Comunione, Partecipazione.
Eucaristia Pane di vita! Siete davvero convinti che l’Eucaristia è Pane della vita? È vero che la vita senza
Eucaristia è morte? Bisogna essere convinti di questo e incoraggiare i ministri straordinari della Comunione e i
catechisti, tutti quelli che operano all’interno della comunità parrocchiale. Chiediamoci: com’è l’impressione
che avete delle vostre comunità? Quando la Liturgia attraverso il sacerdote dice: “Beati gli invitati alla Cena del
Signore”, è un invito a mangiare, a partecipare alla mensa? Quanti dei partecipanti alla Messa fanno la
Comunione? Forse alcuni rimangono indifferenti. Anche nelle Messe dove partecipa tanta gente, che
devozione e che spirito di fraternità c’è? Sapete quand’è che c’è più gente? Quando la popolazione sa che alla
fine della Messa, in fondo alla chiesa, ci sono molte ceste con le buste di pane che viene dato a tutti. Allora
tutti si portano via la busta con il pane, ma quanti si portano via nel cuore, e nella vita, sacramentalmente
l’Eucaristia Pane della vita? Io vi dico che occorre partecipare alla Messa in modo consapevole. Il sacerdote
inoltre continua: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Siete pronti tutti a fare la Comunione? Ci
siamo confessati? Da questo punto di vista io mi permetto di darvi un orientamento che serve per noi poveri
peccatori. Nell’Ave Maria diciamo: “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori”. È vero che nella
preghiera noi diciamo “prega per noi peccatori”, ma che relazione ha questo con l’Eucaristia? Uno degli
atteggiamenti più importanti è di dire veramente: “Signore, io non sono degno di partecipare, però ho bisogno
di te”. Questo non vuol dire che salto la Confessione e la mia preparazione, ma la mia partecipazione
all’Eucaristia non avviene perché sono bravo, perché ne sono degno, non è perché sono vescovo o suora o
ministro straordinario.
Non è che il ministro straordinario va a portare la Comunione ma prima di farlo non fa lui la Comunione? In
alcune celebrazioni infatti mi è capitato di vedere un ministro straordinario che va a dare la Comunione ma che
non la fa lui per primo. Noi siamo davvero convinti che l’Eucaristia è il Pane della vita? E allora non posso
farne a meno, ne ho bisogno. Però è sempre un grande mistero. Per comprenderlo meglio sarebbe bello
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leggere il capitolo 6 del Vangelo di San Giovanni, dove dopo la moltiplicazione dei pani tutti cercavano Gesù
perché dicevano che lui dava il pane “gratis”. Gesù ha attraversato il mare camminando sulle acque, ha fatto
un altro miracolo, e giunto all’altra parte guarda i discepoli, la folla, guarda anche noi sacerdoti, i ministri
straordinari, e dice: “Scusate, voi siete venuti non perché avete visto i segni, ma perché avete mangiato”.
Sarebbe davvero disgustoso se io andassi a Messa e non faccio la Comunione.
Se sono grande o piccolo, Gesù si presenta, se mi sento peccatore mi ama, mi ama e mi dona se stesso, e
se gli domando perdono durante la celebrazione Gesù mi dice: “Guarda, ti ricordi qualcuno nella comunità che
ha qualcosa nei tuoi confronti?”. Perdonare: l’Eucaristia è forza per il perdono, è forza per il cammino, è forza
nelle difficoltà. Mi sorprende sempre quando, in una comunità terapeutica, ci sono tanti colloqui con gli psicologi
e gli operatori: quando uno che è cristiano è giunto alla vocazione, all’Eucaristia, a sentire Dio che è Padre e
che lo ama anche nell’abisso in cui è caduto, lì mi viene da dire. “Ma se io non vivo dell’Eucaristia, forse è
perché non sono riuscito a capire in quale abisso Dio mi raggiunge”.
Nei “segni” Gesù ci educa all’Eucaristia: con il segno della moltiplicazione dei pani, con il segno dell’acqua
trasformata in vino, con il segno dei suoi miracoli. Ma è possibile che siamo così sordi e ciechi da non capire,
con la nostra intelligenza, che colui che ha sfamato le folle può trasformare il pane nel suo Corpo e il vino nel
suo sangue? Che lui ci dà davvero la vita? “Se non mangiate di questo pane, voi morirete?”. I discepoli dissero al
Signore: “Tu hai fatto tanti discorsi, ma su questo cambia registro”. Anche se alcuni se ne stavano andando,
Gesù non ha cambiato registro ma ha insistito: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.
Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non ha in sé la vita” (Giovanni 6,53). Poveri discepoli!
Erano tutti un po’ sconcertati e Gesù allora si rivolge agli apostoli: “Parliamoci chiaro: ve ne volete andare
anche voi?”. “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (6,68). Se ci fermassimo alle parole
umane, come hanno fatto i Giudei, non capiremmo ciò che vuol dire Gesù: “Nessuno può venire a me senza il
Padre, senza l’azione dello Spirito” (6,65). Se vogliamo capire qualcosa di più è necessario che noi stessi
doniamo la nostra vita perché il Signore ci illumini.
Per vivere è sempre necessario mangiare! Ecco la testimonianza che possiamo dare con la nostra vita,
perché la vita umana va considerata insieme in rapporto alla vita spirituale. Questo lo vediamo
nell’istituzione dei diaconi, al capitolo 6 degli Atti: gli apostoli non potevano dedicarsi al servizio delle mense
togliendo il tempo alla predicazione e allora hanno deciso di cercare “sette uomini di buona reputazione, pieni
di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al
ministero della parola” (Atti 6, 3-4). Quanti di voi, preti o laici, la domenica o in altri giorni andate a dare una
mano a chi ne ha bisogno? Quando voi ministri andate a portare la Comunione, il prete rimane in sagrestia o
viene con voi? Ricordatevi che nessun ministro straordinario può sostituire il sacerdote, anzi con semplicità, con
carità e con amore deve aiutare il sacerdote non solo nella distribuzione della Comunione, ma anche nella
celebrazione degli altri sacramenti e nel servizio a ciò che occorre al malato o all’anziano. Aiutate i malati nella
preparazione alla Comunione e nel ringraziamento, ed entrate nelle famiglie per pregare, aiutate coloro che
assistono i malati e non hanno tempo di partecipare alla celebrazione, perché servono Gesù nell’ammalato
presente nella propria casa, aiutateli a capire che anche loro possono raggiungere Gesù almeno quando il
ministro straordinario va dal malato. Aiutate la famiglia a gustare la presenza di Gesù.
Ed ora una parola ai Catechisti. Al centro di tutta l’azione della Catechesi e dei ministri straordinari sta la
comunità, cioè la Chiesa che vive dell’Eucaristia, la Chiesa che è fondata sull’Eucaristia, la Chiesa che celebra
l’Eucaristia. Qualche flash. Il primo: nella Liturgia aiutiamoci a fare gesti significativi. Vi faccio un esempio: durante
l’offertorio è normale per me la ricerca dei centesimi per fare l’offerta senza compromettermi e senza
scomodarmi troppo? In occasione della Giornata Missionaria Mondiale un bambino porta a casa la busta
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preparata dalla catechista e poi la riporta in chiesa. La catechista la apre e trova da cinque a quindici centesimi, e
brutalmente dice al bambino: “Di’ a tua mamma: gai ‘nde manighede! Che possa mangiare
solo quello!”. E continua: “Tu volevi aiutare un bambino che ha fame: se tu oggi avessi avuto fame e i tuoi
compagni ti avessero dato questi spiccioli, cosa avresti comprato?”. “Niente”. “E allora perché hai fatto così?
Ritorna a casa”. Il modo è sbagliato, la sostanza per noi è che non ci si deve fermare solo alla questua, ma questo
ci fa capire che tutti i gesti della Liturgia sono significativi e devono diventare patrimonio di tutta la comunità.
Un vescovo di questo mondo, durante le Cresime fa qualche domanda: “Cosa ci fanno i padrini nella Cresima?”.
I padrini iniziano ad essere un po’ disorientati e subito qualcuno prende coraggio e risponde: “Per dar
l’esempio”. Il vescovo si avvicina e gli domanda: “Quindi tu domenica prossima riaccompagni tuo figlioccio a
Messa?”. “No, non ho tempo”. Così la comunità ha capito che quel padrino non aveva un significato per quel
che stava facendo.
Se non è significativo, allora noi dobbiamo educare affinché tutti possiamo aiutarlo nel preparasi a ricevere un
sacramento. Quel ragazzo continuerà la vita cristiana? Che famiglia e che padrino trova? Che comunità trova, se
gli adulti non vanno a Messa, eccetto in alcune occasioni? E gli altri? Gli dicono: “Hai fatto la festa? Fai come
babbo e mamma, come tuo padrino, che non hanno tempo, fai tutto quello che fa la comunità”.
L’Eucaristia che fa la comunità non può essere una riunione. Comprendo le catechiste che tante volte si
chiedono: quanta fatica e a che cosa è servita? A questo riguardo io mi permetto di dire questo: voi
catechisti, voi ministri straordinari, insieme dovete essere costruttori della comunità, non voi da soli, ma voi
come “motori” e come persone che portate avanti la costruzione. Io vi invito a vivere la comunità: la tua vita
cristiana non è il risultato di tante azioni buone che tu puoi fare, ma è il dono dello Spirito che nell’Eucaristia ti
aiuta ad essere costruttore di comunità. E allora anche quella vita che sembra scomparire nell’oblio, nel nulla,
diventa seme, e appaiono quei segni per cui chi vuole può vedere, chi ha buona volontà può vedere. Forse mi
rendo conto di non essere meglio degli altri, ma è importante che io davvero purifichi il mio cuore per vedere
Gesù, per conoscere Gesù, per amare Gesù.
Questa mia riflessione conduce dall’Eucaristia alla comunità, a tutta la nostra vita e alla catechesi. Allora
l’Eucaristia sarà Pane della vita, Pane attraverso la Parola, Pane attraverso l’Eucaristia, Pane che nutre e mi
dà vita, Pane che mi riempie di speranza. Auguri e buon proseguimento del Congresso Eucaristico!
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INCONTRO CON IL MONDO DEL LAVORO
MONS. SEBASTIANO SANGUINETTI VESCOVO DI TEMPIO - AMPURIAS
Nuoro, Teatro delle Grazie, 18 settembre
Partiamo da una domanda, che ci porta subito al tema del nostro incontro: che relazione c’è tra Eucaristia e il
lavoro?
Per noi cristiani l’Eucaristia è il cuore e il motore della vita cristiana. Essa è memoria dell’evento centrale della
storia della salvezza: la Pasqua di morte e risurrezione di Cristo, prova suprema dell’amore di Dio per gli uomini.
Apre, quindi, la vita del credente all’amore, condensato da Cristo nel comandamento della carità. L’Eucaristia è la
sorgente dell’amore, dando all’amore umano la sua vera forma e il suo giusto orizzonte.
La CARITA’, a sua volta, è la legge che regola tutte le relazioni umane e consente di riconoscere e
promuovere la dignità di ogni persona umana, in un contesto di solidarietà e di equità sociale.
Dall’Eucaristia, perciò, per noi cristiani derivano gli elementi fondanti di una visione del lavoro umano come
spazio ordinario e ineliminabile della promozione integrale dell’uomo, inquadrando il lavoro stesso in una
dimensione non solo sociologica ed economica, ma intrinsecamente antropologica ed etica.
In questa luce, il lavoro va rivalutato nella sua essenza di valore etico, non solo sociale ed economico. Ed è
intorno a questo aspetto che tenterò di sviluppare alcune considerazioni, lasciando alla Vice Presidente Naz.le
delle Acli il compito di sviluppare contenuti più stringenti sul piano dell’attualità e della traduzione di questi
concetti nella organizzazione di un lavoro “decente”, come ha detto Giovanni Paolo II.
A questo riguardo è illuminante la parte introduttiva dell’enciclica sociale Caritas in veritate di Benedetto XVI,
dove appunto fa della carità coniugata con la verità, il fondamento ineliminabile della dottrina sociale, di cui il
lavoro è elemento inscindibile. Tre i nuclei portanti della riflessione del Pontefice.
Il primo ha come riferimento la persona stessa di Cristo. “L’amore – caritas – è una forza straordinaria, che
spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. In Cristo, la
carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella
verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (Gv 14,6)” (CiV 1).
Il secondo mira a cogliere la portata e l’estensione della carità nelle relazioni sociali. “Sono consapevole
–
afferma Benedetto XVI - degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con
il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta
valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale
pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il
bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della «veritas in
caritate» (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della «caritas in veritate». La verità va cercata,
trovata ed espressa nell’«economia» della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata
nella luce della verità (CiV 2).
Infine, il Papa mette in guardia dal pericolo di separare la carità dalla verità. “Solo nella verità la carità risplende e
può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità … Senza verità, la carità
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scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio
dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti,
una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un
emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed
universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio
biblico, che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Pa- rola” (CiV 3).
Alla luce di questi principi, il lavoro, visto come diritto fondamentale della persona umana, non solo in relazione
alla sua sopravvivenza economica, ma anche alla sua piena dignità ed espressività delle molteplici potenzialità
intellettive e creative, entra a buon diritto non solo nel novero di una generica giustizia sociale, bensì di una
giustizia nell’orizzonte della carità nella sua dimensione veritativa circa l’uomo e i suoi diritti fondamentali. La
dottrina sociale della Chiesa circa il lavoro trova in tale orizzonte la sua fonte ispiratrice e orientativa. È più facile
capire e inquadrare, così, quanto andrò a dire sul tema del nostro incontro.
LA CHIESA DENTRO I PROBLEMI DI OGGI, SOLIDALE CON IL MONDO DEL LAVORO
Il lavoro è sicuramente uno degli aspetti più drammatici dell’attuale crisi.
La Sardegna e il Nuorese in prima linea, ne portano il peso maggiore. La crisi della pastorizia e del mondo della
campagna in genere, la crisi dell’industria (fabbriche che chiudono e che licenziano), disoccupazione ai livelli più
alti, pongono interrogativi ed invocano soluzioni non più rinviabili. Quanto tempo perso, nel teatrino della
politica, in sterili e fuorvianti polemiche…!
Il fatto che la Chiesa di Nuoro nell’ambito del Congresso Eucaristico affronti l’argomento, non significa che essa
abbia il compito e tanto meno il potere di dare risposte. Ma sicuramente ha il dovere di svegliare le coscienze di
tutti, soprattutto di chi ha la responsabilità di porre atti concreti nel dare le risposte necessarie.
Non aspettatevi da me, pertanto, ricette o soluzioni. L’altra relatrice, la Vice Presidente Nazionale delle ACLI,
come esperta in materia, affronterà sicuramente questo versante. Io mi limiterò a presentare alcune linee di
pensiero del Magistero della Chiesa, attorno ad alcuni nuclei tematici, dai quali non si può prescindere
nell’individuare i percorsi per uscire dalla crisi.
Partiamo da una considerazione di fondo: l’attuale economia mondiale globalizzata e le leggi di mercato che la
governano, più che sull’economia “reale” fondata sulla produzione, sono prevalentemente orientate alla finanza
e alle operazioni o speculazioni da essa determinate. Forse sta qui il nucleo del discorso: nell’incontrollata ed
esasperata rincorsa agli utili. E se la finanza è la via più facile per ottenerli, perché non buttarsi su di essa?
Dentro un simile quadro, allora, si chiudono gli impianti e si mandano a casa i lavoratori, non perché, o almeno
non sempre, gli stessi siano improduttivi o non remunerativi, ma perché licenziando, o chiudendo gli impianti o
delocalizzandoli in posti più favorevoli, si può lucrare di più.
Ricordo un colloquio che ebbi oltre dieci anni fa con un professore della Bocconi. Questi mi disse che la società
mondiale viveva come sopra una polveriera, la cui miccia era in mano ad alcuni centri finanziari internazionali.
Da un momento all’altro la polveriera poteva esplodere. Una finanza senza regole e senza controlli! Una finanza
sganciata dalla politica, se non padrona della politica!
Quando è scoppiata la crisi nella quale oggi siamo immersi, ho capito la fondatezza di quella previsione. E ho
capito ancor di più la conclusione che lo stesso economista ne traeva. Quella polveriera avrebbe continuato a
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sovrastare minacciosa e devastante sull’economia mondiale, finché la politica degli organismi internazionali e dei
governi non avesse avuto la forza di individuare e dettare un quadro generale di regole precise e condivise.
Se questo è l’orizzonte generale di riferimento e se davanti a ciascuno di noi è ben presente il quadro locale
della nostra Isola e le molteplici sofferenze economiche e sociali in essa presenti, con punte di
disoccupazione, di perdita del lavoro e di precarietà, sofferenze economiche e sociali che rimandano ad anni
lontani, sorgono spontanee alcune domande. Domande che stimolano un allargamento del discorso
strettamente economico ad un orizzonte più vasto di riferimento, che, poi, è lo specifico del mio intervento:
- La gravità della situazione è ben nota a tutti: la soluzione è solo di pertinenza meramente tecnicoeconomica? E, quindi, gli artefici-attori sono solo gli economisti e i finanzieri?
- Oppure: fermo restando il fatto che a loro spetta la soluzione tecnico-operativa del problema, non è forse
necessario che l’economia, parallelamente al necessario ruolo della politica, oltre alle regole loro proprie,
debbano avere anche ispirazione e riferimento a contenuti sociali, valoriali ed etici? Non sarebbe quindi il caso
che tra economia e politica si tornasse a un rapporto più virtuoso, e che entrambe, a loro volta,
recuperassero il concetto della centralità della persona umana, la sua dignità e i suoi diritti fondamentali?
- Infine, che cosa hanno da dire i cristiani su questo, che cosa dice la dottrina sociale della Chiesa e quale
apporto noi possiamo dare per superare la crisi e aprire prospettive di maggiore equità sociale e di occupazione
sostenibile?
La mia riflessione si muove sullo sfondo di queste tre domande, partendo da una convinzione di fondo: proprio
la globalizzazione dei processi di sviluppo economico, tecnologico, sociale e culturale, richiede un approccio
globale alla molteplicità dei contenuti e dei valori fondamentali che sono messi in gioco, dove non ci può
essere una sola dimensione - quella economica - che diventi prioritaria, e tanto meno egemone di tutte le
altre. Da qui la necessità di una verifica critica dei modelli di sviluppo sin qui perseguiti e lo sforzo di integrare
l’economia e lo sviluppo dentro un quadro armonico di valori e di equità sociale che rispettino l’assoluta
centralità della persona umana.
Per comprendere la situazione di crisi in cui versa l’odierna società non si possono ignorare alcuni fenomeni
che hanno segnato la storia degli ultimi decenni.
ALCUNI GRANDI FENOMENI DEGLI ULTIMI DECENNI
Un primo fenomeno è dato dalla supremazia e strapotere della tecnica. Le vecchie ideologie politiche che
avevano caratterizzato la storia moderna fino al 1989, con il crollo del muro di Berlino e la caduta dei due
blocchi contrapposti, che avevano anche fortemente influenzato i modelli di sviluppo, hanno lasciato il posto a
un’altra ideologia: quella della supremazia e strapotere della tecnica. Un potere che si estende a tutti i settori
della vita umana e sociale, arrivando ad intervenire prepotentemente sulla stessa identità biologica della
persona. La tecnica tende sempre più a liberarsi da ogni ipoteca sociale e morale e nutre il proprio arbitrio
assoluto con la cultura del relativismo etico, finendo anzi con l’alimentarlo.
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L’altro elemento è costituito dall’accentuazione dei fenomeni della globalizzazione, affacciatisi prepotentemente alla ribalta mondiale, favoriti dalla fine dei blocchi contrapposti e dalle smisurate opportunità
offerte dalla rete informatica e telematica mondiale. L’influenza della globalizzazione, naturalmente, attra- versa
l’economia e la finanza, l’ambiente e la famiglia, la mobilità umana e la comunicazione, la cultura e le religioni, le
migrazioni e il lavoro umano… Nato dentro i Paesi economicamente sviluppati, questo pro- cesso per sua natura
ha prodotto un coinvolgimento di tutte le economie. Esso è stato il principale motore per l’uscita dal
sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sè una grande opportunità.
Tuttavia, senza regole e senza una volontà forte di equità sociale, questa spinta planetaria può anche creare
rischi di danni sconosciuti finora e indurre nuove divisioni sociali e disequilibri tra i popoli e dentro le stesse
comunità nazionali (CiV 33) «La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne
faranno». Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un
processo contrassegnato anche da aspetti positivi.
I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande
ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti,
possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo.
Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e
fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o
addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci
temere. ..Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di
comunione e di condivisione (CiV 42).
Come diceva Giovanni Paolo II, la globalizzazione economica va accompagnata dalla globalizzazione dell’amore.
Un terzo elemento, che sta alla base delle più gravi distorsioni degli attuali processi socio-economici, è
l’enfatizzazione esasperata ed assoluta del profitto. A questo proposito già Paolo VI denunciava i gravi danni
sociali prodotti da un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la
concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto
assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale «liberalismo» senza freno conduceva alla dittatura,
a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell’«imperialismo internazionale del denaro» (Populorum
progressio 26). Tuttavia, Benedetto XVI, richiamando il concetto caro a Paolo VI che “l’economia è al servizio
dell’uomo” e che non può mai essere disgiunta dal suo fine ultimo che è il bene comune, riconosce che “Il
profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo
quanto sul come utilizzarlo” (CiV 21).
Da ultimo, vi è la comparsa sulla scena mondiale di nuovi paesi, che da una condizione di sottosviluppo stanno
passando al rango di grandi potenze economiche e politiche (Cina, India, Brasile…), da cui risultano
profondamente cambiati gli equilibri politici ed economici, con i relativi condizionamenti sull’economia mondiale
e sui rapporti di forza tra nazioni.
Nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI, l’idea centrale, già proposta da Paolo VI, è che lo sviluppo, per essere
autentico, deve avere come connotato e come obiettivo “lo sviluppo integrale dell’uomo”.
ALCUNI PRINCIPI ISPIRATORI DELLA DOTTRINA SOCIALE
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Centralità della persona umana. L’elemento che rende lo sviluppo socialmente equo e giusto è sicuramente
“il principio della centralità della persona umana”. La persona oltre che soggetto attivo di ogni processo, deve
essere anche il fine ultimo dello stesso. Pertanto, “L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di
vita delle persone concrete” (CiV 47). La persona, con i suoi diritti e doveri, non può essere relegata a una sorta
di “variabile indipendente” nel processo produttivo, ma ragione principale ed essenziale di ogni motore di
sviluppo e di crescita sociale. Non può essere usata strumentalmente come solo mezzo per fare profitto, da
mettere ai margini quando è considerata non più necessaria. La centralità della persona è la ragione e la sorgente
della dimensione etica dell’economia e della finanza. Da questo principio, su cui si fondano i concetti di giustizia
ed equità sociale, derivano alcune esigenze fondamentali: la lotta contro ogni ingiustificato ed eccessivo divario
nella distribuzione della ricchezza, e l’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti, come obiettivo
primario. Grave rischio contro questa priorità è, fra l’altro, la tendenza attuale a privilegiare un’economia del
breve, talora del brevissimo termine (cf CiV
32). Uguale cura dovrà essere prestata nella tutela delle “reti di sicurezza sociale”, talora sacrificate per la
ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, e nel far sì che “La mobilità lavorativa, associata
alla deregolamentazione generalizzata del lavoro” non si trasformi in “forme di instabilità psicologica, di
difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio” (CiV 25).
Logica mercantile e bene comune. I problemi sociali non si risolvono con la semplice estensione della logica
mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e
soprattutto la comunità politica. È causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetta produrre
ricchezza, da quello politico, a cui spetta il compito di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione. Alle leggi
di mercato, di per sé un motore importante dell’economia, va sempre affiancata una cultura della solidarietà
sociale, per far sì che lo sviluppo del mercato non comporti la morte dei rapporti autenticamente umani e
l’obiettivo della giustizia sociale. Benedetto XVI ricorda che “la gestione dell’impresa non puo` tenere conto
degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che
contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di
riferimento” (CiV 40).
Economia ed etica. Un terzo principio è l’inscindibile legame tra economia ed etica, non solo sul piano dei valori
astratti e della sola tutela dell’irrinunciabile equità sociale, ma anche per le sue innegabili positive ricadute sul
piano strettamente economico. L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non
di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona (CiV 45). Questo non è un tema caro solo alla dottrina
sociale della Chiesa, ma settori sempre più ampi dello steso mondo economico lo affronta.
Il Papa ricorda che si stanno moltiplicando nel mondo Centri di studio e percorsi formativi di business ethics;
così come si diffonde il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla
responsabilità sociale dell’impresa.
Le banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti «etici». Si sviluppa una «finanza etica»,
soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano apprezzamento
e meritano un ampio sostegno.
Accanto a questi percorsi si assiste anche a una lenta evoluzione del sistema produttivo. Tra le imprese
finalizzate al profitto (profit) e quelle non finalizzate al profitto (non profit) vengono affermandosi nuove
tipologie. Si tratta - ricorda il Papa – “di imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi
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arretrati; di fondazioni che sono espressione di singole imprese; di gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale;
del variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo
settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il
profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese
distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l’una o l’altra delle configurazioni previste dalle norme
giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per
raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società (CiV 46).
Prima di chiudere questa veloce carrellata sarebbe importante accennare ad altri due elementi che si
affacciano prepotentemente alla ribalta e con i quali il tema del Convegno ha forte attinenza: il fenomeno
migratorio e il rispetto della natura. All’uomo spetta il compito di esercitare un governo responsabile sulla natura
per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa
possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita (CiV 50). Ma in nome dello sviluppo, nessuno
può arrogarsi il diritto di depredarla, ferirla o deturparla.
Infine, circa il fenomeno delle migrazioni, deve essere chiaro a tutti che non ci potrà essere sviluppo vero se il
problema non verrà affrontato e risolto sul piano globale da “lungimirante politica di cooperazione
internazionale”, che coinvolga i paesi di origine e i paesi di arrivo, dentro un quadro normativo che salvaguardi
“le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo
degli stessi emigrati” (CiV 62). All’origine del sottosviluppo vi è una mancanza di fraternità (cf cap. III) “Senza
forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione
economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave”.
CONCLUSIONE
Possiamo chiudere con l’appello che Giovanni Paolo II lanciò nel 2000 in occasione del Giubileo dei Lavoratori,
per «una coalizione mondiale in favore del lavoro decente». In una sintesi che da sola può ben inquadrare il
tema e gli obiettivi del Convengo, Benedetto XVI spiega quali siano i caratteri di questa decenza.
È lavoro indecente quando ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), e quando
vengono svalutati « i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della
persona del lavoratore e della sua famiglia ».
È lavoro decente quando è “l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto
liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro
che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che
consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi
a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro
che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro
che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa” (CiV 63).
Quanto detto ci consente di sottolineare il valore etico del lavoro, perché direttamente riferito alla persona
umana, alla sua natura e ai suoi diritti fondamentali. Agganciarlo indissolubilmente all’etica significa
affrancarlo da obiettivi e ragionamenti di natura esclusivamente economica o di profitto. Se è vero che non ci
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può essere lavoro senza profitto e senza capitale, non è possibile immaginare che il profitto e il capitale non
vengano a loro volta utilizzati soprattutto per produrre lavoro e lavoro dignitoso per la persona umana.
Al centro del vivere sociale vi è la persona, non il profitto e il capitale. Questi devono essere strumenti a servizio
dell’uomo e di tutti gli uomini. Scardinare questo principio significa minare alle basi la pacifica convivenza
umana.
Perciò non è possibile lasciare il progresso e l’economia globale solo in mano ai finanzieri e alle multinazionali.
Serve un pensiero forte, una cultura che sappia coniugare sviluppo e diritti umani. Serve una politica che dia
regole e si faccia garante dei diritti di tutti, soprattutto delle fasce più deboli. Servono una politica e
un’economia fortemente agganciate all’etica.
In questo quadro il lavoro non può essere una variabile indipendente dallo sviluppo integrale, equo e
sostenibile.
INCONTRO CON GLI OPERAI, LAVORATORI, ALLEVATORI, AGRICOLTORI
PAOLA VACCHINA
VICE-PRESIDENTE NAZIONALE DELLE ACLI
Nuoro, Teatro delle Grazie, 18 settembre
Con grande gioia mi trovo oggi in questa splendida terra di Sardegna con voi. Vorrei ringraziare Mons. Pietro
Meloni che ha voluto le Acli a questo Congresso Eucaristico Diocesano, ed anche Mons. Sebastiano Sanguinetti,
Vescovo di Tempio-Ampurias, col quale condivido questo momento di riflessione. In particolare sono contenta di
essere qui con voi perché so che la vostra è una comunità coesa, che nel momento della difficoltà non si divide
in fazioni aggressive le une contro le altre: gli operai son solidali con gli agricoltori e gli allevatori, gli artigiani con
chi ha un impiego pubblico… insieme portate avanti le rivendicazioni e i progetti di un territorio consapevole del
fatto che si può crescere solo insieme.
Le forze negative contro cui combattiamo sono potenti e sfuggenti. Si chiamano “finanziarizzazione
dell’economia”, che vuol dire che la ricchezza non va più a remunerare il lavoro e nemmeno il capitale di chi
investe nella produzione e nello sviluppo del territorio, bensì la speculazione in borsa; “accentuazione delle
disuguaglianze economiche e sociali”, talvolta anche chi lavora tutto il giorno o usufruisce di ammortizzatori
sociali non riesce a tenere la propria famiglia fuori da una condizione di povertà; “mancanza di rispetto per la
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dignità umana”, in particolare del lavoratore e della lavoratrice, specie se precari, ancor più in alcune fasce di
età e verso gli stranieri…
Partecipare ad un “Congresso Eucaristico” è una grande gioia, perché consente di approfondire quello che è il
cuore della nostra vita di cristiani, di madri e padri, di lavoratori, mantenendo insieme la nostra esperienza di
fede e la nostra vita concreta, come è proprio del cristianesimo. Fare eucaristia è infatti un modo di essere che
informa tutta la nostra vita.
Vorrei articolare il mio intervento in tre parti: innanzitutto partire dal significato del termine eucaristia e da cosa
dice a noi come lavoratori e lavoratrici, come operai, agricoltori, allevatori, impiegati, insegnanti. Vorrei poi
soffermarmi su uno dei risvolti dell’atteggiamento eucaristico nella vita quotidiana e in particolare nella vita di
relazione, per finire con una breve riflessione sull’attuale crisi economica e industriale e le sue ricadute sul
mondo del lavoro. E terminare con un invito ed un augurio.
Eucaristia significa “rendimento di grazie”. Si tratta quindi di un modo di vivere caratterizzato dalla
gratitudine, dal riconoscersi figli di un padre provvidente. A volte la durezza del lavoro, la fatica di conquistarci il
pane, di garantire ai figli la possibilità di studiare, ci fanno credere che ogni cosa dipenda dalle nostre sole forze.
Ma il lavoro, anche nel suo aspetto di sussistenza, ci riconduce sempre ad una duplice appartenenza: al creato e
ai fratelli. È nel lavoro che ci scopriamo fratelli e scopriamo la gratitudine: chi lavora sa che il proprio
prodotto non è mai frutto soltanto del suo lavoro, ma c’è una realtà che lo precede e che ha ricevuto in dono;
così come sa che esiste una realtà ulteriore verso la quale il proprio lavoro è orientato. È qui il segreto legame
tra il lavoro e la gratitudine, legame che, per un credente, si fa gioia eucaristica, e tende alla domenica, al riposo,
alla festa. Essa si pone tra una settimana e un’altra, tra un vissuto che ha alle spalle impegno, lavoro e fatica e un
futuro che ha progetti di vita nuova e doni dello Spirito.
Il “lavoro” nel magistero della Chiesa non è stato sempre visto in maniera univoca, perché occorreva tenere
insieme due immagini fondanti: da un lato quella del lavoro che viene istituito da Dio dopo il peccato
originale e che quindi identifica nel sudore della fronte la condanna della disobbedienza, dall’altro Gesù, che
lavora, che utilizza i lavoratori che meglio conosceva, i pastori, per parlare di sé e del Padre, che identifica
quindi nel lavoro la partecipazione all’opera creatrice, ma anche redentrice di Dio stesso. Il lavoro contiene
dunque in sé elementi di ambivalenza: è benedizione e maledizione, è luogo della realizzazione umana e luogo
di grandi prevaricazioni. In questa ambivalenza si colloca anche la difficoltà, a volte, di tenere insieme noi stessi
sul lavoro e nella vita delle nostre parrocchie. Quanti di noi vivono in realtà una scissione tra il modo in cui sono
sul lavoro e come sono invece nella loro comunità cristiana.
Credo che un convegno eucaristico serva anche a rimettere a fuoco questo: la difficoltà con la quale l’essere
umano “governa se stesso”, come direbbe Caterina da Siena, ovvero come cerca di mantenere una
continuità tra ciò che dice e ciò che fa, tra ciò che crede e ciò che sceglie quotidianamente, tra l’eucaristia e
la sua vita feriale. Quanto la nostra vita è eucaristica? Cioè: è grata, coerente, felice? Abbiamo bisogno di porci
questa domanda, così come dobbiamo chiederci quanto riusciamo a portare nell’eucaristia domenicale della
nostra vita e del nostro lavoro.
Nell’eucaristia domenicale il lavoro ha uno spazio specifico nell’offerta dei doni, per i quali il lavoro è elemento
indispensabile: è necessario che ci siano «pane e vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della
donna» per celebrare l’Eucaristia. Il lavoro è presente ovunque, discreto ma essenziale, e tutti coloro che, in
qualche modo, hanno partecipato a costruire, a fabbricare, a organizzare, a scegliere, a impostare, a celebrare,
sono presenti e contribuiscono a rendere possibile la presenza del Signore: come il padrone dell’asinello del
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Vangelo ha collaborato, nel giorno delle Palme, alla breve gloria di Gesù in Gerusalemme o come il padrone
del Cenacolo che ha permesso la Cena Pasquale a Gesù. Sta anche a noi averne coscienza.
Un altro elemento dell’eucaristia ci tocca in modo particolare quando pensiamo al mondo del lavoro: il mondo
del lavoro è un mondo di relazioni, di relazioni spesso anche gerarchiche, asimmetriche, talvolta competitive fino
all’eccesso, relazioni malate che chiamiamo mobbing, bossing o con altre espressioni. Ebbene anche in questo
l’atteggiamento eucaristico ci viene in aiuto e ci rivela qualcosa di fondamentale, che un vecchio gesuita aveva
riassunto in una felice espressione: “non conta fare la comunione, ma essere in comunione”. Il nostro essere
cristiani e il nostro vivere l’eucaristia si esplica nel cercare la comunione, nell’essere elementi di unità e di
cooperazione all’interno dei nostri ambienti lavorativi. Nella liturgia il lavoratore si sente a casa propria e
continuamente rintraccia richiami per ciò che è avvenuto nella settimana e per ciò che svilupperà: un lavoro
fatto bene, una responsabilità comune, il coraggio di relazioni rispettose della dignità di tutti, l’impegno per
saper chiedere scusa, modificando i propri atteggiamenti, la ricerca della pace, la solidarietà con chi non è
valorizzato o è trattato ingiustamente.
Partecipare all’eucaristia domenicale perderebbe di consistenza se nella vita non cercassimo tutte le occasioni
per fare comunione, per portare unità. Qui si colloca anche il senso di un’associazione come le Acli,
un’associazione educativa e sociale di laici cristiani che, attraverso una rete di circoli, servizi, imprese, progetti
ed associazioni specifiche, si occupa da più di 60 anni di tessere legami tra le persone, favorendo forme di
partecipazione e di democrazia. Nella concretezza, nell’attenzione alla vita e ai bisogni quotidiani delle persone,
si fanno attività di patronato, di Caf, incontri pubblici, momenti formativi, ma anche con altre formule semplici
eppure importanti per far stare insieme le persone. E proprio a partire da questo, si può articolare una proposta
spirituale e liturgica che sia credibile e non scissa dalla vita quotidiana. Questa è la nostra modalità,
certamente molti di voi vivono questo nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali. Ciò che è essenziale è, credo,
cercare nella comunità sostegno per vivere in profondità e spiritualmente il proprio lavoro con le relazioni che
porta con sé.
Proviamo ora a guardare alla nostra società: come viene considerato il lavoro? Nella ricerca di una soluzione
ai tanti problemi economici, specie nella crisi che stiamo attraversando, la nostra società prende in
considerazione il fatto che dietro ogni lavoro c’è un uomo che lavora? E non per fare ideologia, ma per essere
davvero concreti. Le grandi crisi sono visibili in tutti i modi: i lavoratori salgono sulle gru, sui tetti, si recludono
nelle prigioni abbandonate, fanno scioperi della fame. Meno visibili si moltiplicano le micro crisi, le chiusure ed i
fallimenti di migliaia, decine di migliaia di piccole imprese soffocate dal crollo delle commesse e dei pagamenti
delle medie o grandi aziende a monte della filiera produttiva.
L’uomo, il lavoratore, sembra sparire, perdere di consistenza di fronte alle esigenze di un mercato che deve
riorganizzarsi dopo uno shock devastante. Questa situazione non può che preoccuparci, ma – alla luce della fede
– può essere anche un’occasione di cambiamento positivo. Nell’enciclica Caritas in veritate il Papa richiama ad un
processo di ri-orientamento dell’economia in un senso più integralmente umano, ci chiama ad essere sempre
più – come cristiani impegnati nel mondo produttivo – lievito nella pasta, a far fermentare un modo nuovo di
concepire lo sviluppo economico, che tenga conto del fatto che il profitto non è un male, ma non è neppure
un fine; è semplicemente uno strumento per vivere e far vivere. Il problema sorge quando il mezzo diventa
fine, perché quello è il principio dell’idolatria ed anche della crisi, mentre finché il mezzo resta tale è possibile
servirsene per l’unico vero fine che è la persona, e la persona eucaristica, cioè che rende grazie a Dio.
E c’è un imprescindibile senso che l’Eucaristia dà al lavoro ed è spesso sottovalutato: quello della festa. Una
festa non intesa prima di tutto e soprattutto come interruzione del lavoro, giorno di pausa e di tempo libero
(come non pensare, peraltro, a quanti, sempre più numerosi, sono oggi costretti a lavorare anche di domenica),
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ma come contentezza per il lavoro fatto, gioia per il lavoro prodotto con gli amici, rendimento di grazie per i
doni di Dio: un tempo di grazia per ‘ritrovare’ i fratelli, per ‘vedere’ Dio e incontrare il suo sguardo
misericordioso. Scriveva S. Ambrogio: “Ringrazio il Signore nostro Dio per aver compiuto un’opera tale da poter
trovare riposo in essa. Ha fatto i cieli, ma non ho letto che dopo abbia riposato. Ha fatto la terra, ma non ho
letto che dopo abbia riposato. Ha fatto il sole, la luna, le stelle, ma non leggo che abbia trovato riposo in essi.
Questo è ciò che leggo: egli creò l’uomo, e poi trovò riposo in colui i cui peccati avrebbe potuto perdonare”.
Ora, all’inizio di questo “Congresso Eucaristico Diocesano”, ecco il mio invito e il mio augurio. L’invito è quello ad
aiutarci tutti, lavoratori cristiani, a cercare e trovare in ciò che facciamo la nostra gioia e la gloria di Dio, nel
camminare con i fratelli, nel cercare insieme, nell’inventare modi per tessere legami tra noi, anche e soprattutto
nei momenti di difficoltà. L’associazionismo e le Acli sono state la strada che ho trovato io nella mia vita, ma
mille altre se ne possono trovare; l’essenziale è restituire a questo mondo del lavoro parcellizzato,
precarizzato e individualizzato, degli strumenti perché le persone tornino a sentirsi solidali tra loro. E
l’augurio viene di conseguenza: che l’esserci incontrati oggi rappresenti l’inizio di un cammino condiviso, che ci
sostenga tutti nel vivere la nostra quotidianità come veri rinati in Cristo, uomini e donne eucaristici.
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VENITE ALLA FESTA DEL PANE DI GESù
Secondo giorno
GIORNATA CON I BAMBINI E I RAGAZZI
MONS. PIETRO MELONI
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 19 settembre
Alleluia! Alleluia! Venite alla festa. Venite alla festa del Pane di Gesù!
Carissimi amici! È Gesù che vi chiama in questa giornata dei bambini e dei ragazzi nel “Congresso Eucaristico
Diocesano” della Chiesa di Nuoro. Venite alla festa! È la festa dell’amore, è la festa di Gesù, è la vostra festa, è
la festa della gioia. Che cosa avete cantato?… “La nostra festa non deve finire!”. È festa oggi, è festa ogni
giorno. Nella casa quando babbo e mamma vi preparano il pane della mensa è una gioia, è segno che vi
vogliono bene. Gesù vi invita nella sua casa alla mensa del Pane dell’Eucaristia. Il Vescovo vi domanda: Gesù
vuole bene ai bambini? Vuole bene ai ragazzi e anche ai giovani, alle mamme e ai papà? Sì! Gesù un giorno ha
detto ai più grandi: “Lasciate che i bambini vengano a me!” (Marco 10,14). Vicino a Gesù è sempre festa e la
nostra festa non deve finire.
I bambini chiedono sempre alla mamma: “acqua, acqua!”. Si può vivere senz’acqua? No! Gesù nell’acqua del
Battesimo ci ha dato la sua vita, ci ha fatto diventare suoi fratelli perché siamo figli di Dio. Ma un giorno
Gesù ha detto: “Voglio dare ai miei amici anche del pane”. C’era molta gente che aveva ascoltato la sua
Parola con attenzione, come voi oggi, erano tutti bravi nell’ascoltare la voce di Gesù. E Gesù vide che c’erano
cinquemila uomini con le loro famiglie, e dopo aver ascoltato la sua Parola avevano fame. Vi capita mai di avere
fame?
Gesù voleva fare il miracolo, la moltiplicazione dei pani per tanta gente, ma ha detto agli apostoli: “Date voi il
pane da mangiare a questa gente” (Marco 6,37). Gli apostoli si sono spaventati: “Ci sono migliaia di persone!”.
“Fateli sedere sull’erba” (Giovanni 6,9). “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani e anche due pesciolini” (6,10): è
generoso e li dà a Gesù, e Gesù li moltiplica e li dà a tutto il popolo. Raccolsero anche i pezzi di pane che non
erano riusciti a mangiare: voi conservate i pezzi di pane che avanzano dalla tavola? Li conservate per mangiarli la
sera? Il pane è prezioso, il pane è dono di Dio, il pane è segno dell’amore. Gesù, dopo aver saziato la gente che
aveva fame, la sera prima della sua morte invitò a cena gli apostoli, prese nelle sue mani il pane e disse:
“Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi” (Luca 22,19). Gesù sapeva che
il giorno dopo, per amore, avrebbe dato la sua vita. Voi avete scritto in un cartellone - e vi ringrazio per tutti i
vostri disegni - avete scritto la parola di Gesù: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici”. Un
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gruppo ha scritto anche: “l’Eucaristia è il sogno di Dio”. Non c’era scritto nel Vangelo, l’avete inventato voi ed è
una bella scoperta. L’Eucaristia, il Pane di Gesù, è il sogno di Dio, è il sogno dell’amore.
Dio vuol fare arrivare il pane anche a chi non ce l’ha. Oggi ci sono anche i gruppi missionari e i bambini missionari
tra voi; loro sanno che nel mondo ci sono tanti bambini che hanno fame, ma non hanno il pane. Il profeta, nella
prima lettura, ci ha detto: “Dobbiamo far arrivare il pane a tutti quelli che hanno fame”. È bene pensare a
qualche gesto di solidarietà perché la vostra generosità giunga ai bambini del mondo che non hanno il pane nella
casa e non vanno neanche a scuola. Voi siete più fortunati, tanto che qualcuno di voi prima ha detto che non
ha mai fame, perché grazie a Gesù nelle nostre famiglie, anche in questo tempo, i genitori lavorano e il pane
per voi lo trovano e ve lo offrono. Così è Gesù, che non vi fa mai mancare il Pane dell’Eucaristia, la Comunione,
il Pane dell’amore, il Pane della vita.
“Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Venite alla festa del Pane di
Gesù, perché la nostra festa non deve finire! E alla festa oggi sono presenti i ragazzi e i bambini con i genitori,
gli educatori e i sacerdoti, che a nome di Gesù consacrano il Pane dell’Eucaristia sull’altare, e anche gli amici
venuti da tutte le parrocchie di Nuoro: dalla Cattedrale, San Giuseppe, N.S. delle Grazie, N.S. del Rosario, la
Beata Maria Gabriella e dagli oratori delle parrocchie. Sono presenti i gruppi scout e i ragazzi missionari e
dell’ACR delle parrocchie di Olzai, Bitti, Orosei, Irgoli, Oliena, Siniscola, Orune, Mamoiada, Dorgali.
Grazie a voi! Per tutti questi amici che sono venuti dalle parrocchie della diocesi, per gli educatori e i
sacerdoti, diciamo “grazie” con un bell’applauso.
La nostra festa non deve finire e non finirà, perché la festa siamo noi!
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ORDINAZIONE DEL DIACONO DON ANDREA BIANCU
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 19 settembre
Sacramentum Caritatis: “Sacramento della Carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso
rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica 1).
Carissimi fratelli e sorelle, sacerdoti, diaconi, giovani del Seminario, genitori e familiari di Andrea, persone
consacrate e fedeli! La voce del Papa Benedetto XVI nella Esortazione Apostolica sulla Santissima Eucaristia
illumina il cammino del nostro “Congresso Eucaristico Diocesano”, che è un grande dono di Dio alla nostra Chiesa
e a tutta la comunità. “Fate questo in memoria di me”: Gesù ci chiede di corrispondere al suo dono e con queste
parole esprime il desiderio che la sua Chiesa, nata dal sacrificio della croce, accolga questo grande dono,
sviluppando sotto la guida dello Spirito Santo la forma liturgica del sacramento.
Gesù “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). “Con questa
espressione - dice il Papa - l’Evangelista introduce il gesto di infinita umiltà da lui compiuto: prima di morire
sulla croce per noi, messosi un asciugatoio attorno ai fianchi, Egli lava i piedi ai suoi discepoli. Allo stesso modo,
Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci fino alla fine, fino al dono del suo corpo e del suo
sangue” (Sacramentum Caritatis 1). Benedetto XVI, che oggi accompagniamo con la preghiera nella sua missione
in Gran Bretagna, esclama: “Quale stupore deve aver preso il cuore degli apostoli di fronte ai gesti e alle parole
del Signore durante quella cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il mistero
eucaristico!” (c. 1). È il nostro stupore oggi, nel vedere un giovane, nato in una nostra bella famiglia cristiana,
vissuto nella sua comunità parrocchiale a La Caletta e nella Chiesa diocesana, nel Seminario Vescovile e poi
nel Seminario Teologico, il nostro stupore nel vedere Andrea che accoglie l’invito di Gesù ad essere servitore,
cioè diacono nella Chiesa, diacono come Gesù che ora ci ha detto “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”
(Lc 22, 27). La voce autentica del Vangelo nella lingua greca è proprio διακονων.
Esulta la famiglia della Chiesa! L’Alleluia fa risuonare la nostra gratitudine a Dio e la nostra esultanza per
Andrea che, nella sua famiglia e nella sua casa, è stato educato alla bontà, alla finezza del cuore, alla semplicità
e all’amicizia con tutti. Siamo grati ai genitori che gli hanno dato la vita, Salvatore e Tonina, e salutiamo la sua
nonna Maria, qui presente, mentre da lassù ci guardano l’altra nonna, i nonni e i familiari tutti; salutiamo la zia
suora della Mercede Suor Gianfranca. Diciamo grazie alla comunità parrocchiale di Nostra Signora di Fatima de
La Caletta, il cui buon pastore, il parroco don Pasquale Pedes, ha rivolto al Vescovo la domanda liturgica per
l’accoglienza del diacono nella Chiesa, raccogliendo l’eredità di don Giuseppe Ruiu, il sacerdote che ha
orientato al seminario Andrea e anche il suo fratello Roberto, che ne segue l’esempio.
Nel Seminario Vescovile Andrea è cresciuto nel rapporto umano sempre rispettoso e accogliente verso gli
amici e nell’ascolto della voce dei sacerdoti animatori, che tutti ringraziamo. Il Vescovo lo incoraggiava anche a
cimentarsi nello sport, ma spesso Andrea preferiva la preghiera e lo studio, e quindi non ha raggiunto la fama
del suo illustre concittadino de La Caletta Salvatore Sirigu, che è diventato il portiere della nazionale italiana.
Andrea ha desiderato essere atleta del Vangelo, nell’ascolto delle magistrali lezioni di tutti i sacerdoti e poi dei
biblisti e teologi nella Facoltà Teologica della Sardegna, e delle meditazioni spirituali degli animatori del
Seminario Regionale, che ora è qui rappresentato dai sacerdoti della Diocesi di Nuoro che sono diventati
animatori e direttori spirituali.
Andrea ha alimentato la sua fede e la sua sete di conoscenza del mistero di Dio e del mistero
dell’Eucaristia. L’Eucaristia è il centro della vita cristiana. E in queste giornate è il cuore visibile e palpitante della
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nostra Chiesa che celebra il “Congresso Eucaristico Diocesano”. Ti ringraziamo, carissimo Andrea, per la tua
serenità, per la tua umiltà, che è la caratteristica propria del diacono, per il tuo entusiasmo, che hai alimentato
vedendo l’esempio di tanti ottimi sacerdoti e anche dei tanti diaconi permanenti nella nostra Chiesa. Il tuo
entusiasmo, nel tuo candore di fede e di preghiera, lo hai testimoniato nelle parrocchie dove hai svolto il servizio
pastorale: a S. Pio X a Cagliari, a Guasila (dove qualche giorno fa abbiamo ricordato che quella cittadina è la
patria del vescovo mons. Giuseppe Melas), nel tuo servizio ai deboli e agli ammalati nell’ospedale Brotzu a
Cagliari. Grazie per il tuo servizio e auguri per il futuro della tua missione,che avrà sempre come centro
l’Eucaristia.
Dice il Papa Benedetto XVI, che raccoglie anche la preziosa enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia:
“Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente per essere segno che, come strumento
docile nelle mani di Cristo, rimanda a lui” (Sacramentum Caritatis 23). Il sacerdote è “diacono” e tu accogliendo
oggi l’ordine del Diaconato, ti incammini verso l’altare del sacerdozio. Hai già prestato la tua promessa
impegnandoti a vivere la gioia e il dono del celibato per il Regno di Dio. Ricorda che il Papa ha confermato “la
bellezza e l’importanza di una vita sacerdotale è vissuta nel celibato come segno espressivo per l’attenzione
totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio” (c. 24). Mentre nel Diaconato ti incammini verso il
Sacerdozio, tutti ti guarderanno, anche i giovani. Dice il Papa che la testimonianza dei ministri dell’altare “deve
suscitare in altri il desiderio di corrispondere con generosità alla chiamata di Cristo” (c. 25).
Gesù ci sta svelando, proprio in queste prime giornate del “Congresso Eucaristico Diocesano”, la sua presenza
misteriosa e spiritualmente visibile in tutti gli incontri con il popolo credente. Questa mattina era uno spettacolo
meraviglioso la serietà e l’esultanza degli ottocento bambini e ragazzi, che hanno fatto festa nella Piazza dei
Giardinetti e celebrato l’Eucaristia nella Chiesa Cattedrale.
Andrea! Tu sei in cammino verso il sacerdozio di Cristo: oggi il vescovo, a nome di Cristo, imporrà le mani sul
tuo capo e ti affiderà il libro del Vangelo, che devi annunciare con la parola e con la vita. E domani, nel
Sacerdozio, il “Crisma” ti consacrerà pienamente in Gesù come sacerdote della sua Chiesa. Abbiamo desiderato
insieme che la liturgia della tua ordinazione diaconale avvenisse proprio nei giorni del “Congresso Eucaristico”,
durante il quale ci sarà anche la celebrazione dei Sacramenti della Cresima e del Matrimonio in queste
giornate di grazia.
Abbiamo ascoltato la Parola di Dio di questa domenica dal brano liturgico del profeta Amos che, in nome di
Dio, invita tutti ad essere al servizio dei poveri perché, al suo tempo oltre duemilacinquecento anni fa, i ricchi
diventavano sempre più ricchi e i poveri diventavano sempre più poveri. Noi vediamo che questo avviene
anche nel nostro tempo. Proprio ieri, nell’incontro con gli operai, i lavoratori, i pastori e gli agricoltori, abbiamo
toccato con mano la drammaticità di questa mancanza del pane e del lavoro, che fa mancare anche la serenità
e l’amore nella famiglia. Il profeta diceva che i ricchi non sanno come accumulare il grano nei loro depositi,
mentre i poveri vivono nella fame (Amos 8, 4-7).
Il diacono è al servizio dei poveri e sa che, come abbiamo proclamato nel salmo, “il Signore rialza il povero”
(Sal 112), lo sostiene attraverso la diaconia della carità, che è affidata a tutti i credenti e agli uomini di buona
volontà, ed è affidata in modo speciale ai diaconi e a noi sacerdoti e vescovi nella Chiesa. Tu Andrea hai scelto
un Vangelo che non è quello di questa domenica, ma è proprio il Vangelo dell’istituzione dell’Eucaristia, dopo
l’umile servizio della lavanda dei piedi fatto da Gesù agli apostoli, nel quale avviene la proclamazione, da parte
di Gesù, che “il più grande deve essere il più piccolo” e deve mettersi al servizio di tutti (Lc 22, 26).
Ora il Vescovo, nella liturgia, ha dovuto rivolgere ai sacerdoti e al popolo presente la domanda: “Siete certi che
Andrea sia degno di essere diacono e, domani, sacerdote di Cristo?”. La nostra testimonianza, pur nel
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riconoscimento dei limiti dell’umana debolezza, è che Andrea con l’aiuto di Dio è degno di essere servitore del
Vangelo. Nella preghiera di San Paolo in questa bellissima lettera al suo sacerdote Timoteo, l’anziano Paolo
esorta il giovanissimo pastore della Chiesa a vivere nella preghiera e a dare la vita, come ha fatto Gesù, con “le
mani alzate verso il cielo” (1 Tim 2, 1-8). Per questo invocheremo anche la protezione di Maria e dei Santi.
Maria è la prima “diacona” e tu Andrea nella tua parrocchia la veneri come N. S. di Fatima, perché è apparsa ai
piccoli pastorelli proprio per annunziare al mondo la preghiera, la penitenza e il perdono.
Maria ha detto all’angelo Gabriele, rispondendo a Dio Padre Onnipotente: “Eccomi!… Eccomi, sono l’ancella del
Signore, lui compia in me la sua volontà” (Lc 1, 38). E ora anche tu, Andrea, dirai: Eccomi! Il Vescovo compirà il
rito doveroso di domandare se, ricevendo l’ordine del Diaconato, sarai pronto a rispettarne gli impegni:
l’umiltà, la carità, il servizio a Dio e al popolo di Dio, la fede per annunziare le verità della salvezza con le parole e
con le opere, la grazia del celibato come dono sponsale per il Regno dei cieli. Il mondo, vedendo noi che
compiamo questa promessa, può esclamare che il cielo è sulla terra.
Ed ecco l’ultima domanda: “Vuoi conformare la tua vita a Cristo nella fedeltà e nell’obbedienza?”. Tu dirai: “Sì,
lo voglio. Sì, con l’aiuto di Dio lo voglio”. Il Vescovo confermerà a nome di Cristo la tua promessa chiedendo a Dio
che continui e porti a compimento l’opera che ha iniziato in te. Sarai rivestito degli abiti diaconali: la stola e la
dalmatica, che è una veste usata anticamente nella Dalmazia per incoronare i re di quella regione; è un abito
regale: il tuo re è Cristo! Il vescovo ti affiderà il libro del Vangelo, abilitandoti poi al ministero dei Sacramenti,
per amministrare il Battesimo, per portare ai malati l’Eucaristia e anche il Viatico ai morenti, per benedire il
Matrimonio cristiano, per accompagnare i morti all’ultima dimora. Confermerai soprattutto l’impegno a vivere
la carità, come i sette uomini pieni di Spirito Santo che gli Apostoli, nei primi giorni della Chiesa della
Pentecoste, scelsero proprio perché fossero al servizio dei poveri nelle mense, affinché i sacerdoti e gli apostoli
potessero dedicarsi maggiormente alla preghiera e all’annunzio della Parola di Dio.
Il Vescovo infine, con le parole della liturgia della Chiesa, ti raccomanderà, affidandoti il libro del Vangelo: “credi,
insegna, vivi”: “Credi quello che proclami, insegna quello che credi, vivi quello che insegni!”. Così sentirai nel
cuore la pace con l’abbraccio del Vescovo, che manifesta l’abbraccio di tutta la comunità cristiana,
l’abbraccio di Cristo, l’abbraccio di Maria “Nostra Signora di Fatima” e “Regina della Pace”.
Andrea, auguri e che Dio ti benedica!
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EUCARISTIA FONTE DI CONDIVISIONE E COMUNIONE
Terzo giorno
INCONTRO A BADU ’E CARROS
OMELIA DI MONS. PIETRO MELONI Nuoro, 20 settembre
“Fate questo in memoria di me!” (Lc 22, 19).
Amici carissimi che avete accolto l’invito a pregare insieme nel tempo del “Congresso Eucaristico” della Diocesi
di Nuoro! Gesù ci parla. Il sacerdote, consacrato da Dio per offrire a tutto il popolo il “pane della vita”, quando
pronunzia le parole: “Fate questo in memoria di me!” trema dentro di sé, perché queste parole sono di Gesù.
Solo Gesù poteva dire prendendo tra le sue mani il pane: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.
Fate questo in memoria di me!”. E noi diciamo grazie a Gesù, perché il suo pane è vita, è amore, è pace nel
cuore, pace nella famiglia, pace nel mondo.
Il mistero più grande, che ora l’apostolo San Paolo ci ha raccontato, è che Gesù “prese nelle sue mani il pane il
giorno in cui veniva tradito” (1Cor 11, 23). Veniva tradito dai suoi amici, da uno dei suoi dodici apostoli, e
proprio nella sera in cui fu tradito Gesù fece il dono più grande a quelli che gli volevano bene e a quelli che
stavano per metterlo in croce. L’Eucaristia è il pane del perdono, l’Eucaristia è la dolcezza dell’amore di Dio. Per
questo i cristiani fin dai tempi della Pentecoste, quando Gesù non era più con loro perché era tornato al Padre e
aveva mandato lo Spirito dell’Amore, i cristiani si radunavano nelle famiglie e pregavano nelle case che poi
diventarono chiese.
La casa di Dio è casa dei credenti. È la casa dove cresce l’amore nel segreto del pane. Il pane nella famiglia è
segno dell’amore dei genitori verso i figli. Quando il babbo e la mamma spezzano il pane nella mensa della
casa compiono un gesto simile a quello di Gesù nell’Ultima Cena: “Gesù, avendo amato i suoi, li amò sino alla
fine” (Gv 13, 1). Lui che aveva detto: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per le persone che ama” (Gv 15,
13).
Domandiamoci: siamo pronti a dare la nostra vita per le persone che ci vogliono bene? Gesù ha offerto la
propria vita anche per quelli che l’hanno fatto morire sulla croce. Pensiamo: quando i bambini hanno fame
chiedono alla mamma e al babbo: pane!... Quando sono molto più piccoli, ancora in braccio senza parlare,
domandano alla mamma il latte. Il latte è il primo “pane” dei bambini appena nati (e in questo tempo
soprattutto nella nostra Sardegna c’è il problema del latte, e per prepararlo si affaticano i pastori sulle
montagne, e anche le pecore sono generose, ma poi questo latte non è riconosciuto nel suo valore e non dà la
possibilità alla famiglia di vivere).
Gesù, che era amico dei pastori e ha detto: “Io sono il buon pastore”, conosceva e conosce ancora oggi tutti
i problemi della nostra società, della famiglia, della mancanza del lavoro. Gesù conosce il vostro cuore, carissimi
amici di Badu ’e Carros, conosce la vostra aspirazione alla libertà, il desiderio di una vita più bella, la sete di
amicizia e di amore verso i vostri cari familiari, che deve diventare amore verso tutti. Questa è la cosa bella
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della vita ed è il segreto del pane della Eucaristia. Gesù si è accorto che la gente che lo ascoltava, e vedeva
anche i suoi miracoli e le guarigioni degli ammalati, aveva fame. La gente aveva fame e gli apostoli, quelli che
erano più vicini a Gesù, gli hanno detto: “Mandali via, che se ne comprino!”. Forse avviene anche oggi, quando
noi diciamo in tante forme: “Si arrangino quelli che non hanno il pane!”.
Nel mondo ci sono i bambini della fame. In questi giorni anche il nostro cappellano don Giampaolo Muresu è
tornato nella sua terra di missione in Cile proprio per stare vicino a queste famiglie che non hanno il pane; e là
c’è stato anche il terremoto e i minatori sono sepolti nella miniera, proprio vicino alla città di Copiapó dove don
Muresu era missionario. Quei minatori attendono la libertà: la liberazione è un’aspirazione affidata a Dio ed
anche alla solidarietà degli uomini.
A Gesù gli apostoli hanno detto: “Ognuno si cerchi il pane come può”. Gesù ha detto: “No, date voi stessi il
pane da mangiare” (Mt 14, 16). Agli apostoli è venuta la tremarella: “ci sono cinquemila uomini, dove troveremo
tutto il pane per sfamare tanta gente?”. Gesù rispose: “Fateli sedere sull’erba!”. E si presentò un ragazzo che
aveva cinque pani e due pesciolini: la sua generosità diede modo a Gesù di fare il miracolo della moltiplicazione
dei pani. Quando le persone sono generose e rinunziano anche al loro pane per condividerlo con gli altri può
nascere il miracolo. È possibile ancora oggi. Il pane si moltiplicò e tutti ne mangiarono a sazietà, e ne avanzarono
dodici ceste.
I nostri antichi il pane non lo buttavano mai, neanche quello dei pezzi avanzati. Gesù ha fatto raccogliere i pezzi di
pane. Anche la stessa parola “pane” è segno dell’amore: quando una persona è buona si dice: “è un pezzo di
pane”. Il pane è prezioso, il pane è frutto del lavoro dell’uomo, il pane è segno dell’affetto nella famiglia, il pane è
dono di Dio. Ora nell’Eucaristia con le parole di Gesù diremo che il pane è “frutto della terra e del nostro
lavoro” e chiederemo a Gesù che lo trasformi nella sua presenza in mezzo a noi, nel suo Corpo, e il vino nel suo
Sangue. Gesù ha dato la vita per amore.
Carissimi amici! Grazie per la vostra vicinanza al “Congresso Eucaristico Diocesano” che ogni giorno –come
avrete visto nel programma – accoglie tutte le categorie ecclesiali e sociali. La vostra preghiera, in questa
celebrazione che abbiamo desiderato vivere insieme, è il segno che voi siete attenti all’amore di Gesù, che
offre il pane materiale a quelli che hanno fame attraverso la generosità degli uomini, e soprattutto offre a tutti
“il pane della vita” perché lui ha detto: “Non di solo pane vive l’uomo, ma della parola di Dio” (Mt 4, 4). La
Parola di Dio è Amore.
Carissimi amici, viviamo nell’amore e gustiamo anche il pane della Eucaristia che è pane di vita e di gioia sulla
terra, ed è pane di vita immortale nel cielo.
Grazie a voi tutti. Deus bo’ lu pachet!
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CELEBRAZIONE EUCARISTICA CON GLI AMMALATI E GLI ANZIANI
MONS. OTTORINO PIETRO ALBERTI ARCIVESCOVO EMERITO DI CAGLIARI
Nuoro, Chiesa di San Giovanni Battista, 20 settembre
Eccellenza Reverendissima, venerati confratelli nel Sacerdozio, e anche voi carissimi fratelli e sorelle ammalati e
anziani e quanti seguono questa nostra celebrazione attraverso Radio Barbagia! È con tanta commozione e gioia
che mi rivolgo prima di tutto a voi, cari fratelli ammalati e anziani, e rivolgo a voi il mio saluto per la vostra
partecipazione alla Messa, che è tra le prime che si celebra in occasione del “Congresso Eucaristico Diocesano”
nella nostra Diocesi di Nuoro. È vero che l’Eucaristia, grande mistero della fede, è sempre quotidianamente al
centro della vita della Chiesa, ma i Congressi Eucaristici sono straordinarie riunioni del clero e del popolo
cristiano, la cui finalità è quella di glorificare pubblicamente il Santissimo Sacramento e di chiamare i fedeli a
collaborare alla diffusione del Regno di Gesù Cristo nel mondo.
Nell’avviare la mia omelia voglio porre una domanda: qual è lo scopo di questa nostra particolare
celebrazione con voi ammalati e anziani? La risposta è impegnativa: noi vogliamo onorare il Mistero Eucaristico!
L’istituzione dell’Eucaristia è l’ultima tappa dell’itinerario di Gesù verso l’uomo e avviene nel momento in cui la
perfidia e la cattiveria umana tocca l’assurdo contro Dio. È la manifestazione di un amore che attua l’unità
perfetta tra Dio e l’uomo, tra colui che ama e coloro che sono amati. E non fu certamente per caso che Gesù
scelse per l’istituzione di questo sacramento il momento del distacco, cioè la sera del tradimento di Giuda, la
vigilia della passione e della morte, quasi a voler sottolineare, a mettere in evidenza per via di contrasto, come
sull’abbondanza tutta umana del peccato e dell’umanità si proiettava la sovrabbondanza tutta divina dell’amore,
della grazia e dell’unità tra Dio e l’uomo. Ha detto Gesù, in quella occasione: “Ho desiderato tanto mangiare
insieme con voi questa Pasqua”(Lc 22,15).
E questo desiderio è voglia struggente di comunicare non un dono qualsiasi, pur prezioso, ma di comunicare se
stesso, di unire la famiglia umana dispersa, cioè di unirsi e di unire tutti gli uomini come fratelli. L’Eucaristia,
proprio perché è il Sacramento dell’unità, è il cibo che rende i cristiani fortissimi dinanzi agli eventi, alle
persecuzioni che esistono ancora oggi, e in virtù di questo cibo i cristiani sono capaci di sopportare ogni
sofferenza, di guardare con serenità e speranza al futuro che ci attende.
Siamo qui, fratelli e sorelle carissimi, per adorare il Signore Gesù, che con la sua potenza creatrice è sempre
presente nella nostra vita. Siamo venuti qui per prendere sempre più coscienza che in Cristo presente
nell’Eucaristia “noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”, come leggiamo negli Atti degli Apostoli (Atti 17,28).
Nelle specie eucaristiche, sotto l’umile apparenza del pane e del vino, nel silenzio del tabernacolo, si nasconde
l’infinita potenza di Dio che ci aiuta nel cammino del Regno, e così sostenuti e illuminati dalla fede, la quale,
se è testimoniata con l’amore a Dio e ai fratelli, ci assicura non soltanto il premio riservato ai santi, ma la gioia
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del vivere, la speranza, la forza nell’affrontare ogni difficoltà, le sofferenze che sono legate alla nostra povertà
e sono la conseguenza del peccato originale.
Cari malati e cari anziani, desidero rivolgervi alcuni pensieri che possano infondere in voi coraggio e serenità, e
che ritengo di essenziale importanza per farvi comprendere che la fede cristiana ci apre prospettive nuove:
malattia e morte sono una sfida per il credente chiamato a partecipare al mistero pasquale di Cristo morto e
risorto. Nella croce voi trovate un cammino di santificazione, e potete essere non soltanto semplici fedeli, ma
annunziatori del Vangelo, come sofferenti, come crocifissi. A ragione San Giovanni della Croce diceva: ”quando
io soffro e sono inchiodato alla croce, quella croce non è la mia croce, è la stessa croce di Cristo”. Noi
dobbiamo essere annunciatori del Vangelo soprattutto in un tempo qual è il nostro dove è necessaria una nuova
evangelizzazione. È il compito primario della Chiesa che deve instancabilmente e coraggiosamente porre al centro
del suo annuncio la croce gloriosa di Cristo, che è il segno supremo della sua donazione di amore tra Dio e i
fratelli, che è vittoria della vita sulla sofferenza e sulla morte ed è fonte di speranza per ogni uomo.
Sappiate che nella Chiesa voi, cari ammalati, siete una porzione eletta del popolo di Dio, sì lo ripeto, una
porzione eletta del popolo di Dio, e lo siete perché le vostre sofferenze unite a quelle di Cristo sono sorgente e
fonte di speranza, di salvezza, di risurrezione, per voi ma anche per l’intera umanità. Con Giovanni Paolo II, di
venerata memoria, ripeterò ”col vostro dolore purificate la Chiesa”, e questo concetto è stato sviluppato nei
giorni scorsi dal Papa Benedetto XVI in Inghilterra.
Siamo qui riuniti per onorare il Mistero Eucaristico e quindi per collaborare alla realizzazione del Regno di
Cristo, Signore del mondo, prendendo l’impegno di far conoscere il messaggio cristiano sul dolore e sulla croce.
Tra Dio e l’uomo c’è uno straordinario patto di amicizia: Dio è padre di infinità bontà. Nel primo Libro della
Bibbia, la Genesi, si ricorda il Patto di Dio con noi, annuncio della Nuova Alleanza, il patto di amicizia tra Dio e
l’uomo. Dio non ha niente da farsi perdonare, eppure è Lui che compie il primo passo verso quella meta che
sarà raggiunta grazie all’opera redentiva di Gesù, “morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli
ingiusti”. E questo annuncio, fratelli e sorelle, passa attraverso un’esperienza di morte e di risurrezione, e non è
senza un alto significato teologico che Gesù si prepara all’inizio della sua predicazione con una lunga preghiera di
quaranta giorni nel deserto. Torna spesso il deserto nel libro dei Santi; e questo ampio momento dell’estrema
povertà, della solitudine e del dolore per la mancanza di tutto, è anche il momento che se lo vivi nella fede
dispone meglio ad un pieno, totale abbandono in Dio.
Cari ammalati! Voi vi trovate proprio nel deserto, deserto che per voi è il momento della sofferenza, ebbene
sappiatelo vivere non come esperienza di morte ma di risurrezione, come scoperta che si può ancora vivere
una vita nuova e più libera nella mancanza di molte cose che sembravano indispensabili. La libertà che si
ritrova nel deserto è proprio quella di chi non ha più nulla da perdere, e che diventa la condizione per
imparare la fedeltà assoluta per seguire Dio in piena conformità alla sua volontà.
Certo la vostra esistenza di persone ammalate o sole costituisce una grande prova, una difficile prova prima di
tutto per voi e anche per i vostri familiari, che vi vogliono bene e si domandano il perché di questa sofferenza
e non trovano risposta, e non la possono trovare se non alla luce della fede. La vostra, cari ammalati, è sì una
prova ma è anche un “mistero”. E pensiamo in questo momento a Gesù che incontrava i malati nella
Palestina e sapeva come rivolgersi ai sofferenti e malati nel corpo o nello spirito. Abbiamo letto nel Vangelo
che Gesù a tutti recava consolazione, apriva il cuore alla speranza e spesso
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offriva il dono della guarigione. Anche noi oggi dobbiamo rivolgerci a Gesù se vogliamo ricevere la luce che ci
aiuti a capire questo mistero, umanamente inspiegabile: il mistero della sofferenza e la grazia di saperla
accogliere pazientemente.
Il Signore non ci chiede di chiudere gli occhi davanti alla malattia, ma di guardare più in profondità, di credere
cioè che anche nei corpi sofferenti palpita non solo la vita umana con tutta la sua dignità e i suoi diritti, ma
anche, grazie al Battesimo, la stessa vita divina, cioè la vita di figli di Dio, cioè di un Padre che non abbandona,
che non può abbandonare i suoi figli. Se agli occhi degli uomini, cari ammalati, voi apparite deboli, infermi o
soli, dinanzi a Dio voi siete grandi nel vostro essere. Sarà allora possibile comprendere meglio il mistero del
dolore, scoprire il vero senso che ce lo rivela come un atto di amore. La Chiesa vede in voi una porzione
eletta del popolo di Dio in cammino sulle strade della storia verso la dimora beata del cielo.
È vero che la sofferenza è una caratteristica della vita umana, di ogni vita umana, e nessuna creatura può
avere la possibilità di non soffrire; il dolore del corpo e dello spirito nasce con l’uomo e lo accompagna per
sempre. Ma è anche vero che Gesù, con la sua testimonianza e con la sua Chiesa, ha santificato il dolore
elevandolo a strumento sovrannaturale per la nostra santificazione e anche per la santificazione degli altri, che
possono avvalersi della nostra testimonianza di impegno e di amore.
La sofferenza santificata diventa così mezzo per meglio comprendere il mistero di Dio e del suo amore, riscatta
la nostra condizione di peccatori davanti alla giustizia di Dio e ci introduce nella vita umana con un senso di
serenità, di fortezza e quindi di perseveranza nel seguire Cristo nella via dolorosa, e ci fa godere il possesso
dell’amicizia di Dio, amicizia che sarà finalmente felicità senza tramonto nel Paradiso.
Carissimi ammalati! Dice il Papa Giovanni Paolo II: “sappiate trovare, sì sappiate trovare nell’amore il senso
salvifico del vostro dolore, trovare risposte valide a tutte le vostre domande, a tutti i vostri interrogativi, e
allora potete comprendere che la sofferenza è una vocazione, una chiamata ad accettare il peso del dolore
per trasformarlo in sacrificio di purificazione e di pacificazione offerto al Padre in Cristo e con Cristo per la propria
e per l’altrui salvezza”.
Un grande filosofo francese Blaise Pascal, come tanti altri credenti, capì questa verità che lo portò a fare al
Signore questa preghiera: “Fate o mio Dio che io adori in silenzio l’ordine della vostra provvidenza adorabile sul
governo della vita … Fatemi la grazia di unire alle mie sofferenze le vostre consolazioni, affinché io soffra da
cristiano … ma proprio questa consolazione in nome dello Spirito …che si sviluppa e si trasforma fino a
diventare gioia del cuore, gioia spirituale”.
Potrà sembrare un’esagerazione e un paradosso una simile affermazione, eppure è una verità che non è
soltanto da accettare per fede, ma che ha avuto ed ha una sua verifica nell’esperienza da parte di una
innumerevole schiera di sofferenti che questa gioia l’hanno provata e se ne sono fatti testimoni. Sono coloro
che hanno capito che la malattia, per chi sa accettarla come un bene e sopportarla con amore, unisce
misticamente a Cristo, l’uomo dei dolori, e diventa spirito prezioso di salvezza per i fratelli. Del resto lo stesso
apostolo Paolo parla di questa gioia quando nella lettera ai Colossesi confiderà: “sono lieto delle sofferenze che
sopporto per voi” (Col 1,24).
Cari fratelli e sorelle, vi ho già detto che voi nella Chiesa siete una porzione eletta del popolo di Dio e lo siete
proprio perché la vostra sofferenza, unita a quella di Cristo, diventa sorgente di speranza, di salvezza, di
risurrezione sì per voi , ma anche per l’intera umanità. Questo merito deve esservi riconosciuto giacché con la
testimonianza della vostra sofferenza voi siete una continua, preziosa lezione sul come meglio vivere la vita
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per poter poi far comprendere agli altri, che sono fratelli, il bisogno del cuore di dare anch’essi una
testimonianza d’amore e quindi essere operatori di pace.
Cari ammalati e anziani! A voi l’augurio che lo Spirito Santo vi aiuti a credere sempre meglio che le sofferenze
dovute alla malattia e i limiti propri delle persone anziane, per chi sa accettarli con fede e sopportarli con
amore, uniscono misticamente a Cristo Redentore e sono fonte di speranza, salvezza e risurrezione per voi e
per tutta l’umanità.
E per l’intercessione della Vergine Maria Madre Addolorata, di tutto cuore benedico voi e tutte le persone
che vi assistono e tutti coloro che hanno voluto ascoltarci attraverso la radio. Così speriamo, fratelli e sorelle.
E così sia!
INCONTRO CON I CONSIGLI PASTORALI
MONS. PAOLO ATZEI ARCIVESCOVO DI SASSARI
Nuoro, Chiesa di San Giovanni Battista, 20 settembre
SALUTO DI MONS. PIETRO MELONI
Grazie a Gesù, che ci dona il Pane dell’Eucaristia “Sacramento della Carità”. Grazie a Mons. Paolo Atzei,
Arcivescovo di Sassari, già Vescovo di Tempio-Ampurias, che ha accolto il nostro invito a guidarci, nel “Congresso
Eucaristico Diocesano” di Nuoro, a riflettere sull’impegno e sull’importanza dei Consigli Pastorali Parrocchiali,
chiamati a collaborare con il Parroco buon pastore. Grazie per questa presenza della Chiesa sorella di Sassari,
che ci incoraggia nella comunicazione delle esperienze pastorali che sono per noi preziose. Grazie a voi tutti,
carissimi amici, al Vicario Generale e ai Sacerdoti, alle persone consacrate e a tutti voi membri dei Consigli
Pastorali delle Parrocchie, che siete i più vicini al sacerdote nella evangelizzazione.
Impareremo qualcosa che sarà preziosa per la nostra maturazione apostolica, ponendo al centro della vita, della
comunità e della famiglia, il Pane dell’Eucaristia: il “fiore di frumento”. Speriamo in queste giornate, con l’aiuto
dei musicisti, di imparare anche l’inno del “Congresso”, composto dal maestro di musica don Giuseppe Meloni,
e alla conclusione del nostro incontro potremo anche elevare a Dio la preghiera del Congresso Eucaristico.
Iniziamo questo incontro con la gioia per aver visto, in tutti gli incontri precedenti, quello dei bambini ieri,
quello degli ammalati un momento fa, la presenza di Gesù, che attira tutti a sé proprio nel Sacramento
dell’altare.
Grazie a Padre Paolo!
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MONS. PAOLO ATZEI
Saluto il Vescovo della Diocesi di Nuoro, Mons. Pietro Meloni, sassarese, saluto il Vicario Mons. Floris, don
Orunesu, i presbiteri, i diaconi, i consacrati, e in particolare voi membri dei “Consigli Pastorali Parrocchiali”
qui convenuti per una riflessione sull’organismo di comunione e partecipazione che è il Consiglio Parrocchiale
all’interno del Congresso Eucaristico Diocesano.
Il Congresso che state celebrando, che ho salutato con grande fede, amore, comunione con la diletta Chiesa
nuorese, manifesta la grazia dell’Eucaristia, il suo potere spirituale nella Chiesa: è Gesù stesso, vivo e presente
in mezzo a noi, fino alla fine del mondo, fondamento e centro di tutta l’attività della Chiesa: sull’Eucaristia
deve essere formata tutta la gioventù.
Il tema dell’Eucaristia nei Consigli Pastorali Parrocchiali cercherò di trattarlo in una relazione essenziale. Partirò
dalla visione del pane e del vino disceso dal cielo, quindi passerò in rassegna i quattro decenni dal Concilio
Vaticano II ad oggi circa l’esperienza dei Consigli Pastorali in Italia e in Sardegna. Infine, vi porterò, in base alla
mia esperienza, alcuni suggerimenti per i nostri Consigli Pastorali Parrocchiali, che il Congresso Eucaristico, mi
auguro, renderà più fruttuosi.
L’Eucaristia come mistero di amore trinitario è un atto rivelato da Cristo e accolto nella fede della Chiesa, la
quale sa che “Dio è amore”: Padre, Figlio, Spirito Santo. Una rivelazione anticipata dalle parole dell’Ultima Cena:
“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!”. È la conferma dell’amore trinitario: “Dio ha amato tanto il
mondo da dare il suo Figlio unigenito” (1 Gv 4,9). Nell’Eucaristia, dice Paolo: “Gesù non dà qualcosa, dà tutto se
stesso”; dice il Papa: “poteva darci qualcosa ma ha dato di più: il suo corpo e il suo sangue”.
La sua esistenza terrena è stata in favore di tutti. È inchiodato per noi, spogliato delle prerogative divine, vero
uomo in tutto simile a noi uomini, eccetto il peccato. Gesù dato nella vita quotidiana, nel silenzio, nel lavoro,
nella vita pubblica, con la missione evangelizzatrice manifestata nel cosiddetto “discorso eucaristico” di Giovanni
dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
“Il Padre mio dà il pane del cielo” (Gv 6,32). Ed è vero: il pane di Dio, è colui che discende dal cielo e dà vita al
mondo. E giunge alla moltiplicazione di se stesso, della propria carne, del proprio sangue. “Io sono il pane
vivo” dice Gesù nel Vangelo: “Se mangi di questo pane vivrai per sempre” (Gv 6,51). Nel sacramento
dell’Eucaristia Gesù ci mostra la verità dell’amore nella storia degli uomini. Contemplare l’eucaristia è
immergersi nella più drammatica delle storie. Mistero di comunione e di vita. Questo ci ricorda la
Sacramentum Caritatis di Papa Benedetto XVI su Gesù Eucaristia: “quanto più cresce la fede e la vita eucaristica
del popolo di Dio, tanto più è profonda la sua partecipazione alla vita ecclesiale mediante la convinta adesione
alla missione di Cristo”. Tutta la storia della Chiesa ne è una conferma.
Contemplare l’Eucaristia come cibo della verità nella vita e nella missione della Chiesa esige un
atteggiamento di fondo che dobbiamo avere nei confronti dell’Eucaristia, personalmente e negli organismi
ecclesiali. Il Signore è cibo e compagno dell’uomo affamato di libertà e di verità. Si interroga S. Agostino: “Che
cosa desidera l’anima più ardentemente della verità?”. Risponde: tutti abbiamo il desiderio insaziabile della verità
e la nostalgia di Dio. L’Eucaristia ci mostra che la verità deve essere eterna, che è l’identità stessa di Dio, e
deve essere in e con l’altro.
La verità dell’amore è la stessa essenza di Dio perché piena di umiltà, la verità può essere compresa nella sua
ricchezza di valori condivisa e comunicata. La verità è logos che crea il dialogo, la comunicazione e la comunione,
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la verità fa uscire dalla soggettività chiusa in se stessa, apre l’intelligenza, crea relazioni nuove e intense.
Credo che il “Consiglio Pastorale Parrocchiale” sia un luogo ideale di crescita e di sviluppo personale,
integrale, reale, non solo perché mette a confronto le persone, la loro fede, la loro cultura, le loro
competenze, i loro saperi e le attività operative, ma anche e soprattutto perché quel loro ”mettere insieme”
viene continuamente esercitato perché siano tutti testimoni umili di verità, di carità, di verità fatta carità. Un
sentirsi uniti e fedeli in Cristo senza interessi, se non quello della predicazione del suo Regno in tutti i cuori.
La spiegazione del mistero di “comunione e comunità” nella Chiesa, ci dice che quando diciamo
“comunione” pensiamo a quel prodotto dello Spirito per il quale l’uomo non è più solo e lontano da Dio, ma è
chiamato ad essere parte della stessa comunione che lega tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Lo
affermava un documento degli anni ’80. ’ chiaro che la comunione è primariamente dono all’altro, è dono dello
spirito di Dio. Nella Chiesa suscita un insieme di doveri, che diventa programma di vita. Noi dobbiamo vivere la
verità e costruire quella comunità che Gesù ha richiesto come condizione “perché il mondo creda”. Quando
parliamo di comunità ecclesiale pensiamo ad una comunità di battezzati che nei sacramenti vivono e ricevono il
dono della comunione. La comunità, infatti, si costituisce sulla base di rapporti visibili e stabili che legano tra
loro i credenti nella comune professione della fede in Dio incarnato e nostro Salvatore; a questo sono orientati
gli altri strumenti di carattere disciplinare, amministrativo, strumenti fisici, così come ci sono in questa bella
Chiesa.
La verità è il dono dello spirito nella Chiesa-comunione, perché è lo Spirito che ci ha resi figli di Dio, lo Spirito
Santo innalza i nostri cuori e ci rende partecipi della vita divina, figli dell’unico Padre, fratelli di Cristo, unigenito
e primogenito fra molti fratelli. In questa comunione mistica, spirituale e fraterna c’è un valore interessante:
ciò che ciascuno è e ciò che compie nella Chiesa fa parte di un insieme di doni e funzioni organiche all’unico
corpo; ed è lo Spirito che unisce, anima e sostiene le membra, e spinge la visione organizzatrice della comunità e
la puntuale testimonianza dell’uomo. Lo Spirito abbellisce la Chiesa, la dirige, la rinnova, la conduce ad unirsi con
lo Sposo e la spinge sulle vie della santità e dell’amore fino al pieno compimento, quando Dio sarà con noi.
La dottrina ecclesiale è la manifestazione storica dell’insieme dei battezzati che lo Spirito ha chiamato a quel
determinato luogo per essere segno visibile di unione con Dio e strumento di unificazione del genere umano.
Questa definizione è della Lumen Gentium. Lo Spirito continuamente ingrandisce, mettendo insieme e
integrando le persone, perché abbiano una identità, siano aperte al mistero di Dio, della grazia, aperte al dono,
aperte anche ai segni della storia. Ogni comunità cristiana vive la sua specificità, riguardo alla storia che viene
costituita col presente, col passato, col futuro. Come le prime comunità sorte con gli apostoli, anche oggi
ciascuno vive l’esperienza intensa di comunione, anche se non mancano mai tensioni e difficoltà, e deve rifarsi
continuamente alla Chiesa e alla storia, sapendo da dove viene e dove tende.
Ogni comunità è una attuazione del mistero di salvezza in un determinato luogo, nel contesto umano, nella
Chiesa universale che si costituisce a partire da Chiese particolari. Il Concilio ricorda che esiste una sola e
unica Chiesa perché siamo formati con quelle caratteristiche di universalità che devono essere essenzialmente
correlate con le altre. E dentro la Chiesa particolare la sua principale articolazione è nelle parrocchie, che sono
l’emanazione della Chiesa concreta, ossia la sua espressione storica in un determinato luogo con le persone che
vi esistono. “In un mondo che cambia”, dice una nota pastorale della CEI, “il volto missionario delle parrocchie”
manifesta l’identità dei cristiani.
È un’identità forte, precisa, che deve formarsi continuamente, essere sempre missionari negli ambienti e nelle
famiglie per risvegliare la fede dei cristiani “in sonno”, o di chi desidera cominciare un cammino per ridiventare
cristiano. Le attuali esigenze richiedono una profonda riflessione e una impostazione pastorale nuova, dato che
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nessuna parrocchia è autosufficiente; una pastorale integrale deve costruire il corpo del Signore nella sua
connessione e nel discernimento degli apostoli.
Introducendo in senso teologico, cristologico ed ecclesiologico, l’organismo del “Consiglio Pastorale
Parrocchiale” non possiamo non partire dall’apologo delle membra e del corpo usato da San Paolo in 1 Corinzi
12 e assai popolare nel mondo antico, perché si trova già negli Egizi e che Tito Livio rende celebre
attribuendolo a Menenio Agrippa. L’originalità di Paolo è di averlo accostato a Cristo, al suo corpo vivente dentro
la Chiesa: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte,
sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare
un solo corpo … Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra … Invece molte sono le
membra, ma uno solo è il corpo … Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte …
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo
luogo come maestri” (1 Cor 12,12-28). Poi ci sono gli operatori di carità, gli animatori, gli organizzatori, i
coordinatori.
In questo senso è più facile entrare dentro la teologia e dentro gli aspetti della disciplina canonica. Se
andiamo ad analizzare dove dal Concilio è stato auspicato il Consiglio Pastorale Parrocchiale, oltre al Consiglio
Presbiterale Diocesano, dove è auspicata la partecipazione responsabile di tutti i fedeli laici alla pastorale delle
parrocchie, capiamo perché è collocato nel secondo capitolo della Lumen Gentium nella parte della Chiesa e
del popolo di Dio. Il Consiglio Pastorale Parrocchiale e quello Diocesano offrono la possibilità stessa di
trasmettere la vita di grazia a tutte le membra, perché tutte funzionino, siano animate da vita. Da qui la
definizione di organismo di comunione e partecipazione nel senso di condivisione e corresponsabilità e
complementarietà. È quindi la continua integrazione che deve vigere in ogni parte del corpo ecclesiale,
massimamente dove si offre discernimento, studio, progettazione, programmazione, verifica della pastorale
parrocchiale.
Il Codice di Diritto Canonico del 1983 ha recuperato queste istanze conciliari ed ha stabilito che sia il
presbiterio ad istituire in ogni Parrocchia il Consiglio Pastorale Parrocchiale. Lo presiede il Parroco, il quale senza
escludere altri si serve di questo gruppo per promuovere l’azione pastorale nella parrocchia. La specificità del
Consiglio è che ha solamente voto consultivo ed è retto dalle norme stabilite dal Vescovo diocesano. Queste
norme statutarie sono comuni a tutti i Consigli Pastorali e sono sempre precedute da ampie premesse circa
l’approfondimento del mistero di comunione della Chiesa, espressa anche nella realtà degli organismi, per quanto
riguarda il rapporto con il parroco e i componenti, soprattutto in ordine ad una valutazione comune verso un più
alto senso di Chiesa, mistero di comunione e comunità: ecco la necessità della partecipazione, della preghiera e
della comune meditazione; è necessario “pensare in grande” con questa pazienza esercitata sempre
dimenticando i fastidi della storia, ma vedendosi, incontrandosi per la salvezza delle anime e anche della
propria.
In ogni statuto c’è questa prima definizione, quindi si parla della composizione del Consiglio, parte per elezione,
parte per convocazione diretta, parte per diritto. È importante che il parroco sia aperto, si senta libero, non
tema il confronto, metta sul tappeto tutte le questioni, tutte le volontà, prenda decisioni, aspetti, rispetti i tempi
di Dio sulle persone, sulle questioni e sulla storia della comunità. È un grande esemplare esercizio di autorità e
perciò di esperienza di Chiesa e di parroco, perché si impara moltissimo dal Consiglio Pastorale. Partire dalle
sedute, introdotte dalla preghiera, con l’ascolto della parola, l’interscambio, il portare le questioni preparate per
tempo e date per tempo, con il proprio contributo sereno, costruttivo, un dialogo pacifico, indicando qualche
consiglio ai gruppi di studio e alle commissioni, in modo che approfondiscano e rappresentino le questioni con
cognizione di causa, discutere le questioni senza scadere in atteggiamenti di tipo democratico parlamentare,
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specie se si tratta di cose
“eucaristico”.
discutibili,
quindi bisognerà avere la sapienza per inquadrare tutto in senso
Il Consiglio Pastorale è, dice un vescovo, un piccolo martirio incruento, una grande sofferenza, oggi soprattutto.
Il vero problema non è risolvere questioni di singoli, ma progettare e programmare, coinvolgere nella
programmazione tutta la comunità, infatti non è pensabile che alcuni pensino ed altri eseguano, ma tutti i
consiglieri devono essere i primi promotori e poi gli esecutori del programma, che è da vedere tutti insieme,
anche aperto alla comunità per una verifica e una riprogettazione. È doveroso partire dall’eucaristia per un
contesto di confronto, di condivisione, di orientamento e quindi di ricerca di una ragione vitale per la salvezza
piena di tutti in Cristo, dentro e nonostante la difficoltà della storia.
Un po’ di storia dei “Consigli”. La storia è sempre magistra vitae, una storia mai esplosa in tutte le parrocchie
in tutta Italia, una storia sempre faticosa, ma già significativa, una storia che in molte parrocchie non è
maturata ed è rimasta al puro instaurarsi dei gruppi. Suddivido l’esperienza dei Consigli Pastorali Parrocchiali
per decenni cercando di coglierne il profilo, a partire dal Concilio ad oggi, appunto del dopo Concilio.
Negli anni ’70 fin dai primi momenti ci fu un entusiasmo per l’istituzione dei Consigli Pastorali, grande curiosità
e qualche rischio di omologazione del fare tipico, quasi per mettere, in alcuni casi, in scacco il parroco,
cercando una naturale compensazione dai secoli di una Chiesa piramidale, tentando una piramide rovesciata.
Chi è al primo posto si metta all’ultimo posto! Grandi discussioni sulla natura consultiva, grandi discussioni su un
gruppo, talvolta a decremento degli altri, qualcuno in parrocchia vedeva il parroco stesso come avversario, ma
anche tante fertili esperienze. Non tutti cominciarono, alcuni vescovi pazientavano perplessi, altri spingevano
stabilendo che si iniziasse. Percentuali in Sardegna allora, si dice, dal 30 al 60 per cento del campione delle
parrocchie, ma soprattutto quelle funzionanti bene si dice fossero il 50 per cento di quel 60 per cento. Siamo
negli anni della “Evangelizzazione e Sacramenti” e della sperimentazione dei Catechismi, gli anni del primo
decennio della riforma del Concilio; io ricordo bene la prima esperienza per me ad Oristano nella Parrocchia che
aveva iniziato questa sperimentazione da un anno a San Paolo, tutto era bene, tutto era bello, tutto diventava
motivo di incontro a livello di presenza cristiana nel mondo.
Negli anni ’80, quelli di “Comunione e Comunità”, credo siano gli anni di più matura decantazione e anche con
maggiore chiarezza della natura e della disciplina interna dei Consigli Pastorali Parrocchiali e anche la loro prima
vera decantazione nei gruppi di lavoro, di affidamento di responsabilità ai laici nei vari settori, nel comune
sforzo di fare “Chiesa di comunione”. Ricordo la splendida esperienza a Cagliari nella Parrocchia di San
Francesco. Anni splendidi per la Consulta, altre Consulte della CEI e anche nella Chiesa Sarda, penso alla
Conferenza dei Superiori Maggiori: fu una grande crescita umana.
Negli anni ’90 vi fu una crescita in qualità, soprattutto una crescita della coscienza, nella maturazione
dell’importanza del volontariato, ricorderete gli anni ’90 e anche gli anni ’80 sono anche gli anni
dell’esplosione dell’organismo “Caritas” di tutte le adesioni in quel campo che gravitavano tra Caritas e
volontariato ecclesiale. Di quantità e qualità si parla nel documento della “Evangelizzazione e della
testimonianza della carità”, e quindi dei legami sociali della cultura, del volontariato, di una coscienza
missionaria totale, derivante dal Decreto sull’attività missionaria Ad Gentes, per pensare ad una più alta
qualità di vita cristiana.
Alla fine degli anni ’80 e degli anni ’90 l’opera è quella della identità dei laici, nella Christisfideles Laici, dei
presbiteri, nella Pastores dabo vobis, dei religiosi, nella Vita Consecrata. Ed ecco abbondantemente affiorare,
quasi all’improvviso, degli stessi valori cristiani in controtendenza, con l’onda di indifferentismo, agnosticismo,
relativismo, di cui hanno scritto moltissimo i vescovi e che il Papa ha abbondantemente combattuto.
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Nel primo decennio del 2000 il problema dell’evangelizzazione e dell’iniziazione cristiana ebbe nuovo
entusiasmo anche in campo civile, come in Sardegna, dove il volontariato reclutava dal bacino di precariato
persone che, pur di avere qualche centinaio di euro a fine mese, erano disponibili a tutto. Ed è l’impatto con la
crisi politico-economica, è il tempo delle minori certezze, dell’indebolimento della fede, e dei Consigli Pastorali
dove ci sono regole ancora alla deriva: si stanno evidenziando così tutte le difficoltà che possono sorgere
laddove c’è un esercizio di comunione nella comunità. Eppure si sviluppa anche una visione di Chiesa in parte
distaccata dalla gente. Il sacerdote sta acquisendo di nuovo la distinzione, forse anche una nuova distanza dalla
gente, perché urgenze e impegni sottraggono il tempo formativo ai nuovi sacerdoti, e manca quell’elemento di
tirocinio per conoscere le comunità e abbracciare quello che è il “globulo” della missione evangelizzatrice. Per
molti di loro il Consiglio Pastorale certamente ha minor valore.
Il Magistero della Chiesa, preparato prima della fase preparatoria del Codice di Diritto Canonico, poi emette
dei decreti dopo il Codice e anche prima del Codice. Il Magistero della Chiesa intende richiamare l’impegno di
definire e vedere l’attualità e, talvolta, di correggere l’orientamento e aiutare le caratteristiche inquadrando
tutti negli organismi necessari. Uno del 1974, nel primo decennio, della IV Assemblea del Sinodo dei Vescovi in
preparazione dell’Anno Santo del 1975, dice: “I Consigli Pastorali presenti in molte parrocchie, superata la fase
iniziale, si indebolirono sia per la poca fiducia che a volte riscuotono presso i sacerdoti, sia per la poca fiducia che
si ha nei laici”.
Nel documento del 1975 della Segreteria della CEI, dopo aver inquadrato il problema dei Consigli Pastorali
nell’Anno della Riconciliazione si dice: “Le strutture di comunione e partecipazione vanno seriamente
rilanciate con spirito di larga comprensione. Non è più il momento delle attese … partecipare e collaborare è
difficile e comporta una reale accettazione degli altri, per questo esige una disposizione interiore che lo
spirito dell’Anno Santo può rinnovare”
Negli anni ’80 il documento Eucaristia, comunione e comunità dice: “Educata in Consiglio Pastorale
all’Eucaristia, forma vitae, al dialogo, a donarsi e servire in gratuità al sacrificio incruento, tutta l’azione
pastorale deve essere pensata ed attuata come “eucaristica”, pertanto ogni iniziativa pastorale, così come ogni
partecipazione alla vita della Chiesa, deve essere ricondotta all’Eucaristia come al suo centro nevralgico e al suo
alveo naturale”.
Nel 1989 il documento “Comunione e Comunità”, raccomandando ancora la costruzione, la partecipazione viva
nei Consigli Pastorali Parrocchiali, come organo di studio e di progettazione, di coordinamento, afferma che dopo
le prime esperienze è subentrata la sfiducia e la fatica che ha indotto alcuni a frettolose delusioni, sia per la
consultività del voto, grande problema, sia per il predominio dell’autorità ecclesiastica, poi dice testualmente,
passo determinante questo per capire anche i decenni precedenti: “C’è chi è trattenuto da una concezione che
confonde la comunione con l’animismo e il paternalismo e mal sopporta il confronto aperto all’interno della
Chiesa e ricorre ad analisi. Il desiderio di contribuire ad una azione più matura e più efficace, evidenziano una
comunità ed un presbiterio che stentano a sentirsi rappresentati da questi organismi, e all’opposto troppo
comodamente lasciano ad essi ogni sforzo e programmazione”.
Nel documento della Caritas del 1999 viene ricordato che il Consiglio Pastorale deve rifarsi continuamente allo
stile della Chiesa come comunità, come nella Christifideles Laici viene detto, valorizzando tutte le risorse umane e
reali presenti nel Consiglio e nel territorio. La loro identità, il luogo deputato al discernimento manifesta una
cura della Chiesa comunione e devono diventare spazi di progettazione, di verifica, di promozione di tutto il
territorio.
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Concludo umilmente dando alcuni suggerimenti e con gli auspici che la parola di Dio unita alla preghiera ci ponga
di fronte al mistero eucaristico e al volto di Gesù. La preghiera è: “Signore, aumenta la nostra fede! Fa’ che si
mantenga la Chiesa nel suo atto fondativo, nella sua pasqualità, nei suoi criteri continui di morte e
risurrezione, che si valorizzino quei processi normativi e sistematici, che si cresca in quella consapevolezza della
vocazione battesimale dove uno è uguale all’altro e vive con tutta la comunità, che si educhino le nuove
generazioni ad una spiritualità eucaristica!”.
L’auspicio è che si viva nel suo ruolo e missione a livello generale dentro e al di là della sua partecipazione ai
Consigli Pastorali tra cui la partecipazione fondativa degli organismi dei settori ecclesiali, educando i laici al
rispetto della loro persona, del loro ruolo, della loro condizione secolare e della loro partecipazione di membri
della Chiesa. E che noi, i parroci quali pastori della Chiesa localizzata nella parrocchia, diamo il riconoscimento
della valorizzazione di tutti i doni che il Signore ha diffuso nella comunità e nel territorio, facendoli crescere tutti
insieme. Fermiamoci un po’ a pensare all’esercizio del nostro ministero, di quello ordinato, di quello costituito, di
quello riconosciuto all’interno di ogni territorio per custodire tutti nell’amore del Signore.
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EUCARISTIA FONTE DI UNITÀ NELLA MISSIONE
QuarTo giorno
INCONTRO CON IL MONDO DEL TURISMO E DELLO SPORT
MONS. CARLO MAZZA VESCOVO DI FIDENZA
Nuoro, Campo Scuola del Coni
Nuoro, Parrocchia del Sacro Cuore, 21 settembre
“Congregavit nos in unum Christi amor!” L’invocazione del celebre inno “Ubi caritas et amor Deus ibi est” dice
il senso originale ed unico dell’Eucaristia: l’amore di Cristo, reso presente e sensibile nel sacramento del corpo
e del sangue, sprigiona un’energia di unità di tale potenza da radunare i figli di Dio in una perfetta unità.
Davvero mirabile è questo evento di amore che attua ciò che appare impossibile agli occhi umani: l’unità dei
diversi. In realtà nell’Eucaristia si attua la comunione di tutti gli uomini nella divino-umanità del Cristo Signore:
la convocazione del genere umano nel Verbo eterno del Padre, nascosto sotto il segno sacramentale del pane e
del vino.
Contemplata la verità sublime dell’Eucaristia, ora il nostro compito consiste nell’impegnare la nostra fede
“ragionevole” riguardo al rapporto “Eucaristia-Sport”. Per ben comprendere la “sfida” di questa riflessione ci
poniamo alcune domande a modo di introduzione, per meglio riflettere sul “mistero” eucaristico nel vissuto
“sportivo”. Ci domandiamo: La prospettiva di fede eucaristica porta un “guadagno” allo Sport? Collegare
Eucaristia e Sport non pare sia un accostamento proibitivo, ardito e anomalo? Non offre la possibilità di
confusione? Come può coniugarsi l’Eucaristia con il “mondo” dello Sport, con la pratica sportiva, con lo sport
educativo che paiono “realtà” così distanti?
Gesù vero uomo e vero Dio
La nostra riflessione prende inizio da uno sguardo. È lo sguardo di uno “sportivo” che fissa un volto, quello di
Gesù risorto, con i segni della passione e della crocifissione, che sta davanti ai nostri occhi colmi di stupore,
di compassione e di comunione. Il nostro sguardo è attraversato da un intenso desiderio di incontro, di vedere
quel corpo trafitto e trasfigurato dalla gloria della risurrezione e di sentirsi attirati dall’unico e supremo Amore.
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Gesù non è un fantasma, un gioco funambolico di immagini e di colori avvincenti, e pure evanescenti, che
compare sulla scena di uno spettacolo e poi svanisce come una bolla di sapone, come un sogno, come un
miraggio. Gesù è una persona viva che ha assunto pienamente la nostra umanità per “divinizzarla”. In tale
prospettiva si decide il rapporto tra Eucaristia e Sport, come attività umana che viene “esaltata” dalla presenza
sacramentale di Gesù.
La storia di Gesù del resto non è un racconto di un personaggio antico rappresentato in una sorta di fiction,
dove la fantasia sopravanza la storia e la storia diventa irraggiungibile tanto la figura si perde in una
ripresentazione ad uso di spettatori curiosi per nulla più interessati alla sua vera vicenda storica. Gesù è una
persona autentica che è vissuta in un tempo storicamente dimostrabile ed ha lasciato un “testamento” che
perdura nel tempo. Questo testamento è lui stesso, che incredibilmente si è consegnato a noi nelle parole
“Fate questo in memoria di me”. E noi possiamo riviverle nella celebrazione del mistero dell’eucaristia: “il dono
che Cristo fa di se stesso rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo” (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum
caritatis 1).
L’Eucaristia è il “Corpo di Cristo” che alimenta il nostro corpo-persona e diventa parte di noi. Per un atleta il
“corpo” è di grande rilevanza. Nel segno sacramentale del pane e del vino, Cristo è presente nella pienezza della
sua persona: corpo, sangue, anima e divinità, vivo e glorioso. Pare dunque evidenziarsi un rapporto intrinseco
nella linea di una convergenza simbolica e pratica da attuare nella coscienza e nella vita interiore.
Che significa questo? Anzitutto siamo chiamati ad applicarci al mistero. “Il mistero è mistero”, scrive il vostro
vescovo Pietro. E prosegue: “Il mistero manifesta il dono di Cristo. Il mistero è il ringraziamento dell’uomo al
Signore che viene ad abitare nel mondo. La fede è vita. Il nostro «amen» nell’accogliere il pane della vita è il
segno che desideriamo accogliere Gesù nella casa del cuore” ( Fate questo in memoria di me, 2010, p. 3).
Sì, Gesù nell’Eucaristia è mistero che sprona alla conoscenza di Dio e dell’uomo. Ci domandiamo: Come possiamo
incontrarlo? Come possiamo farne esperienza indimenticabile? Come possiamo conoscerlo per viverlo nella vita
di ogni giorno, secondo le nostre vicende personali, le nostre professionalità, le nostre vocazioni, la nostra
missione nel “mondo dello sport”?
La risposta è una sola: vedere Gesù come uomo e come Dio che, mediante il “corpo”, condivide la nostra
fatica di essere “uomini veri” nella vita come nello sport, secondo un’immagine della forza spirituale che
scaturisce da una coscienza pura in comunione con Gesù e si trasmette nella persona umana. Gesù uomo si è
presentato in Palestina e i contemporanei l’hanno visto, sentito, toccato, conosciuto. Gesù è il vero uomo che ha
assunto in sé tutto l’uomo. Nella sua umanità è rappresentata la nostra umanità, eccetto la perversità del
peccato. Così il mio uomo è identico al suo e lui si è preso in sé tutto me stesso. Questa assimilazione appare
fondamentale se vogliamo capire l’eucaristia per noi: nel suo corpo, il nostro corpo rivive; nel suo sangue, il
nostro sangue rigurgita di vitalità.
Ora non dimentichiamo la divinità di Gesù. Non è immaginabile, perché falso, separare l’umanità di Gesù dalla
sua divinità: lui è “intero” e indivisibile. Con tutto se stesso si presenta e si ripresenta a noi velato nel mistero
dell’Eucaristia. Se ci accostiamo a lui, vediamo la sua umanità, nella quale ci siamo, e la sua divinità alla quale ci
eleviamo. In realtà nell’attività sportiva, dove il corpo-persona assume una valenza simbolica eppure molto
realistica, la fisicità si sposa con la trascendenza del gesto che riproduce la bellezza e la potenza di Dio. Proprio
nello sport l’uomo incontra la sublimità di Dio, vivendola nella dimensione di un’esperienza concreta, ludica e
insieme impegnativa.
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Gesù è uno
Fissiamo gli occhi dell’anima su Gesù Cristo. In lui sussiste un’unità inscindibile tra umanità e divinità. Questa
unità si manifesta nell’io che lo abita costituendolo persona, che si evidenzia come “l’io di Cristo”, coscienza
purissima del suo essere uomo-Dio, non sottoposto alla divisione e alla molteplicità. In Gesù abita la pienezza
di Dio ( Col 1, 19; 2, 9) e la pienezza dell’uomo ( Ef 4, 13), in un’armonia assoluta, in una volontà di sommo bene,
in una vita che si realizza totalmente nel suo fine, senza incrinature e deviazioni. A motivo di tale perfetta
identità e unità, Gesù non è sottoposto alla doppiezza che produce il peccato e la menzogna, ma in lui vi è
integrità e trasparenza di verità che rifugge da ogni dualismo.
Cristo è persona vivente che si presenta a noi sotto il segno del pane e del vino perché, accostandoci a lui e
assumendolo nell’Eucaristia, possiamo essere a lui assimilati attraverso un processo spirituale e mistico di
divinizzazione. Questo misterioso incontro tra la sua persona e la nostra, produce una nuova e inedita unità:
Cristo uno ci rende uno con lui e con i fratelli di fede. L’essere uniti in Cristo nel fare sport significa prendere su
di noi la sua vita e la sua missione, unificare le diverse dimensioni proprie della persona e proiettarle nell’atto
sportivo. Questa attitudine produce un grande equilibrio interiore ed esteriore, una profonda unità tra le varie
parti del corpo-spirito-anima ricondotte in un dinamismo integrante proprio nell’unità della persona umana.
Inviati in missione
I cristiani sono chiamati a diventare la presenza di Cristo nel tempo, nella storia, nella società. Se ciò vale per
ogni cristiano di qualsiasi condizione, vale anche per gli sportivi, anche se l’affermazione può apparire grande e
sproporzionata rispetto alla nostra piccolezza e inadeguatezza. È vero! Tuttavia non dobbiamo avere paura, né
coltivare complessi di incapacità, perché è Gesù stesso che ci invia a rappresentarlo e dunque a testimoniarlo.
Nel mondo dello sport e per chi fa sport, missione e testimonianza appartengono al dono della fede scaturita
dalla Pasqua del Signore. D’altra parte a ben vedere sussiste un profondo legame tra Eucaristia e missione nel
mondo dello sport, in quanto l’intrinseca unità del credente con Gesù esige un’altrettanta identificazione con lui
come Figlio del Padre inviato nel mondo per la salvezza dell’umanità. L’Inviato di Dio trasforma gli sportivi in
suoi inviati, in forza dell’unica missione che unisce Gesù a noi. Di fatto non si è cristiani per se stessi. Dove si è
inviati e per quale missione? Ecco la domanda che delinea e insieme delimita il campo di apostolato. La vostra
missione si svolge in un campo molto originale e complicato. È un “campo” del tutto espressivo della modernità
nella quale il fenomeno dello Sport accentua le caratteristiche proprie della nostra epoca, tanto tormentata e
fascinosa. La posta in gioco, in questo ambito di vita, consiste nella capacità di essere cristiani con tutto quello
che ne consegue: perseverando nella fede e testimoniando la fede; rendendosi protagonisti con coraggio,
competenza, pacatezza, esercitando la propria professionalità e la dedizione di volontariato nella logica del dono
e della responsabilità.
Essere “eucaristia” nello Sport
Al fine di meglio specificare l’intenzione che guida la riflessione vanno considerate alcune avvertenze specifiche,
se si intende “agire” da cristiani nello sport, nel senso cioè di dare seguito all’Eucaristia e alla Missione a
partire da Gesù Cristo, il Signore. In primo luogo anche nello sport come fenomeno sociale val bene seguire la
Dottrina Sociale della Chiesa e gli Insegnamenti del Magistero largamente elaborati lungo questi decenni in
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riferimento alla centralità della persona, alla solidarietà e al bene comune. Ciò consente una formazione
personale e specialistica, una visione cristiana delle culture soggiacenti al fenomeno dello Sport e una proposta
coerente di sport secondo principi cristiani. Così si eleva la persona a una qualità di azione che rispecchia i
valori cristiani sia nella responsabilità formativa degli atleti e sia nell’attività sportiva. Occorre crescere nelle
competenze sportive ed esercitarle nello sport come strumento educativo.
In secondo luogo, essendo lo sport fenomeno aggregativo, attraverso il dono della comunione si riscoprono i
valori connessi al tempo libero, che sono di carattere spirituale, antropologico, culturale, sociale, economico.
Essi si sperimentano come idonei a educare-formare la persona, ad avviare le relazioni significative, ad allargare
gli orizzonti della vita individuale e comunitaria. Di fatto avviene che se i valori esprimono un’etica e consolidano
una cultura, lo sport può incrementarli e renderli praticabili nella gradualità e costanza della pratica sportiva
sia a livello dei ragazzi come dei giovani e degli adulti.
In terzo luogo il fare sport in modo sano e ludico promuove la forma associativa del vivere insieme attraverso
la società sportiva. Essa diventa un felice esperimento nel quale si mettono insieme le diverse soggettività, la
creatività, il talento, la solidarietà, le capacità organizzative. Ciò implica una disponibilità a fare-gruppo, a farerete, a coordinare aspettative e a sostenere la cittadinanza rispettosa e pacifica. Nella società sportiva si
imparano la responsabilità, la disciplina, i codici di comportamento, le tecniche adeguate.
In quarto luogo lo sport non può che collocare al centro la persona (di ogni età), la famiglia, la comunità di
vita, in un dinamismo virtuoso e corresponsabile. Le tre “polarizzazioni” vanno considerate in modo interagente e
secondo il principio della comunione solidale e della sussidiarietà. In tal modo lo sport facilita la vera
“comunione” e l’attuazione della fraternità eucaristica. Certamente è necessario “allenarsi” alla fatica e al
sacrificio, accogliere le regole del gioco, dominare le passioni, diventare “altruisti”.
Conclusione
Lo sport è palestra di vita, tempo di orientamento e di dedizione, occasione per stringere legami di amicizia e
sentirsi fratelli. Da questo punto di vista appare più semplice l’impegno di coniugare vitalmente Eucaristia,
Missione e Sport. Di fatto se bene osserviamo, lo Sport alla luce del mistero dell’Eucaristia diventa
espressione di comunione, di aggregazione, fattore di amicizia e di riconciliazione, strumento di perfezione. E da
uno sport ben fatto non può che scaturire un impegno di missione, teso a imprimere alle diverse prospettive
delle attività un significato nuovo, produttore di sensibilità e di valori tali da rendere la vita migliore, più libera,
più degna di Dio Creatore, più gioiosa per la condivisione dell’Eucaristia.
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INCONTRO CON I MEMBRI DEI “GRUPPI ECCLESIALI”
SILVANA VERONESI MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 21 settembre
È una vera gioia per me partecipare al vostro “Congresso Eucaristico”, trovarmi qui oggi a parlare, o meglio, a
conversare con persone qualificate appartenenti ai gruppi ecclesiali che collaborano per la vita e la crescita di
questa diocesi di Nuoro. È una gioia speciale perché, dopo l’indimenticabile vigilia della Pentecoste ’98 col Santo
Padre Giovanni Paolo II, in Piazza San Pietro, anche il Papa attuale Benedetto XVI desidera che i Movimenti
Ecclesiali si conoscano e siano in comunione di spirito tra loro.
È con questi sentimenti che mi accingo a venire incontro al desiderio espressomi dal vostro amato Vescovo,
Mons. Pietro Meloni, di parlare su: “L’Eucarestia fonte di unità nella missione”. E offrirò una mia testimonianza
su come possiamo vivere l’unità, su come il carisma dell’unità, tipico del Movimento dei Focolari, si è
manifestato a noi prime focolarine.
Ho conosciuto la fondatrice Chiara Lubich quando avevo 15 anni. Frequentavo a Trento la Va classe del Liceo
Prati, quando venne un nuovo insegnante di religione, un giovane Cappuccino, Padre Casimiro, che alcuni anni
dopo venne in Sardegna. Verso la fine dell’anno scolastico - nel mese di maggio del 1945– quando lui mi chiese
se amavo Gesù, alla mia risposta:“non lo conosco”, mi disse:“ti presenterò una signorina che te Lo farà
conoscere”. Mi accompagnò in Piazza Cappuccini, suonò al n°2, la porta del primo focolare, mi presentò a Chiara
come una sua studentessa. Chiara mi parlò di Dio, di Dio che è Amore. Mi disse che lei ed alcune sue amiche
avevano constatato come nella vita tutto passa e avendo una vita sola meritava spenderla per qualcosa di
grande per cui valesse la pena. Queste parole attrassero subito il mio interesse perché, pur quindicenne, cercavo
un senso alla vita, cercavo qualcosa che non passa; spinta penso anche dalle circostanze in cui si viveva per la
guerra.
Questo incontro con Chiara fu subito una folgorazione. Seduta stante decisi di scegliere anch’io con lei Dio,
come Ideale per la mia vita: Dio che è Amore, che ama me e, come me, ama ciascuno, ama tutti. Quando
Chiara mi accompagnò alla porta, nel cielo spuntavano ormai le prime stelle e lei, facendomi osservare la
volta celeste, mi disse: “Vedi, Silvanella, se le nostre anime fossero come stelle, noi vorremmo fare una
costellazione, dove ogni stella è più bella, perché è insieme alle altre”. In realtà qui c’era già il preannuncio di
una spiritualità da vivere insieme, che il carisma dell’unità di Chiara avrebbe poi sviluppato. Da quel momento
Dio Amore illuminò la mia vita, in ogni circostanza lieta o triste. Ed è stata da subito un’avventura meravigliosa.
Il mattino successivo mi svegliai prima del solito e senza che Chiara me ne avesse parlato, mi sentii spinta ad
andare a ricevere Gesù Eucaristia. Pensai dove avrei potuto trovarlo e mi venne subito l’idea giusta per poter
arrivare a scuola, puntuale alle 8 meno 10. E da quel giorno non ho più lasciato quell’appuntamento con Lui, che
divenne essenziale. Come i bambini appena nati si nutrono al seno materno istintivamente senza sapere quello
che fanno, così sin dall’inizio del Movimento si è notato che chi si avvicinava e scopriva Dio Amore, sentiva
l’esigenza di ricevere Gesù Eucarestia ogni giorno.
“Eucarestia fonte di unità nella missione” è il titolo di questo giorno del Congresso. Ci chiediamo: che cosa
opera l’Eucarestia in noi? Nell’Eucaristia è Gesù stesso che viene in noi. E che cosa fa Gesù in noi? Ci trasforma
in Sé. L’Eucarestia ci fa Gesù. È una cosa straordinaria, ma è così!
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Sentite in che modo esprime questo S. Tommaso:
L’effetto proprio dell’Eucaristia è la trasformazione dell’uomo in Dio: la sua divinizzazione
(Sent. ıv, dist.12, q.2, a1).
S. Alberto Magno utilizza un’immagine molto eloquente: Ogni volta che due cose si uniscono in modo che una si
deve trasformare in tutto il resto, allora ciò che è più potente trasforma in sé ciò che è debole. Perciò, siccome
questo cibo possiede una forza più potente di coloro che ne mangiano, questo cibo, l’Eucarestia, trasforma in se
stessa coloro che la mangiano (De Euch. 3,1,5).
La Lumen Gentium, con la sua autorità di magistero, definisce così l’Eucaristia: La partecipazione al Corpo e al
Sangue di Cristo, altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che prendiamo (c. 26).
Noi non trasformiamo Gesù in noi, come accade per il cibo nella nostra vita quotidiana, ma per l’Eucaristia
siamo noi trasformati in Lui. L’Eucaristia fa la Chiesa. Gesù mediante l’Eucaristia unisce i cristiani a Se stesso e
tra loro in un unico corpo, e così dà vita alla Chiesa, nella sua essenza più profonda, cioè essere Corpo di Cristo,
fraternità, unità, vita, comunione con Dio. L’Eucaristia quindi non produce solo la trasformazione di ogni singolo
cristiano in Cristo, ma, da vero sacramento d’unità, produce anche l’unità fra gli uomini, la comunione tra i
fratelli. Essa fa la famiglia dei figli di Dio.(C. Lubich, L’Eucarestia fa la Chiesa, la Chiesa fa l’Eucarestia, Frascati, 2
maggio 1982).
Vorrei leggervi una pagina che Chiara aveva scritto per noi, per prepararci a capire meglio il fine per il quale è
stata istituita l’Eucaristia. Aveva il timore che in noi ci fosse una pietà eucaristica, ma non una vera
comprensione dell’Eucaristia e dunque non sfruttassimo quell’azione che l’Eucaristia è destinata a fare. Diceva:
“rimarranno delle persone che fanno la visita a Gesù, che Gli parlano, che hanno confidenza con Lui, che si
rivolgono a Lui quando hanno difficoltà, che Lo sanno amare, che si cibano tutti i giorni, rimarranno dei pietisti
dell’Eucaristia, ma non delle persone che hanno compreso il dono di Dio e che Lo sfruttano per il progresso
della Chiesa, che sempre deve andare avanti” (20 ottobre 1976).
E scrive ancora in quella pagina:
L’Eucaristia non è che porti soltanto frutti belli, buoni, di santità, d’amore … Sì anche questo. Ma il compito
dell’Eucaristia è un altro. L’Eucaristia ha come fine: farci Dio (per partecipazione). Mescolando le carni vivificate
dallo Spirito Santo e vivificanti del Cristo con le nostre, ci divinizza nell’anima e nel corpo. Ci fa Dio dunque. Ora
Dio non può stare che in Dio. Ecco perché l’Eucaristia fa entrare l’uomo, che se ne è cibato degnamente, nel
seno del Padre, colloca l’uomo, o meglio il cristiano, perché bisogna essere cristiani per avere l’Eucaristia - colloca
l’uomo nella Trinità. Nello stesso tempo l’Eucaristia non fa questo di un uomo soltanto, ma di molti, i quali,
essendo tutti Dio, non sono più molti, ma uno…Ora questa realtà, che opera l’Eucaristia, è la Chiesa. Che cos’è la
Chiesa? È l’uno provocato dall’amore reciproco dei cristiani e dall’Eucaristia. Vorrei fermami qui per vedere con
voi quali sono le condizioni necessarie perché l’Eucaristia produca gli effetti desiderati.
Noi e l’Eucaristia: l’amore al fratello
Conosciamo bene, come la Chiesa ci insegna, che le condizioni fondamentali siano: credere nella dottrina di
Cristo; essere battezzati; vivere secondo gli insegnamenti di Cristo; pentirsi e confessare i propri peccati;
riconciliarsi con i fratelli coi quali non si fosse nella pace; essere in unità con la Chiesa, col Vescovo; avere il
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desiderio di quell’unione con Cristo e con i fratelli che l’Eucaristia realizza. Nella nostra esperienza, fin
dall’inizio l’accento è stato messo in particolare sul rapporto con il fratello. Ricordo con quale premura ancor
dai primissimi giorni ci preparavamo al mattino alla comunione, accertandoci che tra noi ci fosse la piena carità e
come eravamo pronti a lasciare l’Eucaristia se ciò non si verificava: Se tuo fratello ha qualcosa contro di te aveva detto Gesù - lascia l’offerta all’altare e va a riconciliarti con lui ( Mt 5, 23-24).
Lo Spirito Santo radicava in noi la convinzione che nessuna penitenza, nessun sacrificio superava quello del
vivere l’amore ai fratelli, così come Gesù nel Vangelo ci insegnava.
L’Eucaristia e l’Unità
Noi eravamo così prese dall’idea che Dio è Amore che per rispondere al Suo Amore cercavamo nel Vangelo
cosa Lui aveva detto, cosa voleva da noi. E così, poiché Gesù è sempre fedele alle sue Parole, si è realizzato
per noi questa sua promessa: “A chi mi ama mi manifesterò” . È stata una comprensione avvenuta agli albori
del Movimento:
C’era la guerra e quando suonavano gli allarmi correvamo nei rifugi portando con noi nient’altro che il
Vangelo. L’aprivamo. E quelle parole sentite tante volte s’illuminavano come se una luce s’accendesse sotto.
Le capivamo e ci sentivamo spinte a metterle in pratica.
Un giorno Chiara e noi sue prime compagne leggiamo al lume di candela il Testamento di Gesù, la preghiera
per l’unità. Lo scorriamo tutto. Quelle parole difficili sembrano illuminarsi, ad una a una. Abbiamo
l’impressione di comprenderle. Avvertiamo, soprattutto, la certezza che quella è la “magna charta” della nostra
nuova vita e di tutto ciò che sta per nascere attorno a noi: “l’unità è ciò che Gesù vuole da noi. Noi viviamo per
essere uno con Lui e uno fra noi e con tutti. Questa splendida vocazione ci lega al Cielo e ci immerge nella
fraternità universale” (La dottrina spirituale, p.58).
Dio si rivelava a noi Padre che sta nei Cieli e si cura di noi. E noi ci sentivamo sue figlie.E subito, compreso in
maniera nuova Dio, come Amore, ci siamo sentite spinte a contraccambiare il suo amore col nostro. Così,
desiderando conoscere il vero modo di amare Dio, ci siamo ricordate che sta scritto nel Vangelo: “Non chiunque
mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”
(Mt 7,21).
Fare la volontà di Dio, dunque, era la grande possibilità che avevamo d’amare Dio. Non si trattava di
sentimentalismi o ragionamenti, ma di “fare”. E vi ci siamo impegnate con tutto il cuore. Nel Vangelo leggiamo:
“Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Chi è il prossimo? “Era lì accanto a noi, era quella vecchietta che a mala pena, trascinandosi, raggiungeva ogni
volta il rifugio. Occorreva amarla come sé: aiutarla, ogni volta, sorreggendola. Il prossimo era lì in quei cinque
bambini spaventati accanto alla loro mamma. Occorreva prenderseli in braccio e riaccompagnarli a casa. Il
prossimo era quell’infermo bloccato a casa, senza possibilità di ripararsi, bisognoso di cure. Occorreva
avvicinarlo, procurargli delle medicine.
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Gesù non ci lasciava soli in questo impegno. Il Vangelo assicurava: “Chiedete e vi sarà dato”. Se avevamo bisogno
di qualche cosa lo chiedevamo con fede, anche le piccole esigenze quotidiane e si era ogni volta riempiti d’ogni
ben di Dio: pane, latte in polvere, marmellata, legna, vestiario..., che poi portavamo a chi ne aveva bisogno.
“Date e vi sarà dato” e immancabilmente la risposta di Dio arrivava.
L’arte di amare
Già in quei primissimi tempi, in cui le circostanze sono servite da sfondo a questa luce che poco a poco
illuminava i nostri cuori, scoprivano nuove dimensioni di quell’amore che Gesù intendeva insegnarci per costruire
l’unità per la quale Lui aveva pregato. L’abbiamo chiamata: arte di amare, che ci sembra poter riassumere in
alcuni aspetti fondamentali:
“Amare tutti”: Gesù, che è morto per ogni uomo, ci insegna che il vero amore va indirizzato a tutti. E per
realizzare questo, si tratta d’amare il fratello che ci passa vicino nel momento presente della vita. “Amare per
primi”: non aspettare di essere amati. No, l’amore vero prende l’iniziativa, come ha fatto il Padre quando,
essendo noi ancora peccatori, ha mandato il Figlio per salvarci. “Farsi uno” con gli altri, che significa far nostri i
loro pesi, condividere le loro sofferenze, le loro gioie. È la strada percorsa da Dio per manifestarci il Suo Amore.
Egli si è fatto uomo come noi per mettersi al livello di tutti, si è fatto veramente “debole con i deboli”. Gesù ha
esemplificato, in maniera stupenda, questo modo di fare, proprio istituendo l’Eucaristia, dove ama tutti, ama
per primo, si fa addirittura pane, si fa mangiabile per farsi uno con tutti, per servire, per amare tutti. Anche
noi dovevamo ‘farci uno’ fino a lasciarci mangiare, dunque!
E ancora: l’amore vero vede Gesù in ogni prossimo: credere che in ogni fratello c’è Gesù, perché Egli ritiene
fatto a Sé il bene e il male fatti al prossimo. Vedere il volto di Gesù nel volto di ogni fratello e amarlo. Sempre
abbiamo questa favolosa possibilità, e possiamo essere certi che Egli ad ogni momento ci dice: “L’hai fatto a
me”. Un amore forte quello cristiano, che arriva persino a chiedere di amare il nemico, fargli del bene,
pregare per lui. Questa è l’arte d’amare che Gesù ci chiede, naturalmente secondo le nostre possibilità, e che ci
fa più adatti a ricevere Lui stesso nell’Eucarestia.
Il comandamento nuovo
Nella nostra esperienza dei primissimi tempi con Chiara, imperversando ancora la guerra eravamo sempre
esposte alla morte; un giorno ci siamo chieste: ma ci sarà una volontà di Dio che piace particolarmente a Lui? Se
morissimo, vorremmo aver messo in pratica, almeno negli ultimi istanti, proprio quella. Vi è una Parola di Gesù,
un modo di praticare l’amore a cui Egli tiene particolarmente? Vorremmo attuare proprio quella prima di
incontrarci con Lui.
Nel Vangelo abbiamo trovato: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. È questo un comando che Gesù dice
“mio” e “nuovo”.
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Abbiamo compreso allora che se, fino a quel momento, l’insegnamento di Gesù ci aveva spinte ad amare i
prossimi e soprattutto i poveri, ora dovevamo rivolgere l’attenzione proprio a tutti anche l’una verso l’altra ed
amarci come Gesù aveva detto: fino ad esser pronte a morire l’una per l’altra. In genere non ci è chiesto proprio
questo. Ma sotto ogni atto d’amore verso l’altra deve esserci tale disposizione.
Abbiamo cercato di vivere questo comandamento nuovo, anzi, lo abbiamo espresso in un patto. Ci siamo
dette reciprocamente: Io sono pronta a morire per te. Io per te. Tutte per ciascuna. Da questa promessa, le mille
esigenze quotidiane dell’amore fraterno prendono il via. Non sempre ci è chiesto di morire l’una per l’altra, ma
intanto possiamo condividere ogni cosa: le preoccupazioni, le gioie, i dolori, i poveri beni, le piccole ricchezze
spirituali...
Gesù in mezzo
E la nostra vita da quel momento è cambiata, ha fatto un balzo di qualità: Qualcuno, silenziosamente, si era
introdotto nel nostro gruppo, un Fratello invisibile, che donava sicurezza, una gioia mai sperimentata, una pace
nuova, una pienezza di vita, una luce inconfondibile. È Gesù che realizzava fra noi le sue parole: “Dove sono due
o tre riuniti nel mio nome - che vuol dire nel Suo amore - Io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Gesù nel Vangelo
dice che se c’è Lui nell’unità coi fratelli, il mondo crede. Egli aveva detto: “Siano anch’essi in noi una sola cosa,
perché il mondo creda...”.
Così è successo attorno a noi. Si sono moltiplicati i cambiamenti radicali di tante persone, le conversioni più varie,
si sono salvate vocazioni che si stavano perdendo, ne sono nate di nuove. Il nostro sforzo era tutto nell’amarci,
ma una grazia, che non poteva venire che dal Cielo, ci faceva sperimentare l’unità. È stato Dio attraverso
l’Eucarestia ad intervenire nella nostra storia. Chiamate come eravamo all’Ideale dell’unità, è stato Lui a renderlo
possibile. Rimanere nell’amore reciproco, fino ad ottenere per l’Eucaristia il dono dell’unità, era l’impegno di noi
prime focolarine.
Non sempre però riuscivamo a vivere in pienezza l’amore reciproco. Alle volte piccoli difetti dell’una o dell’altra,
o altri avvenimenti lo infrangevano, e con ciò veniva meno lo splendore dell’unità. Ecco, allora, avvertire
nell’anima sgomento, delusione, buio, in una parola: dolore. Allora però non ci si arrendeva. Quando tutto
sembrava crollare ecco che Gesù nel Vangelo ci insegnava ad affrontare e superare anche questi momenti. Ed
è stato soprattutto in seguito ad una scoperta.
Gesù abbandonato
In una circostanza - prevista, pensiamo, da Dio – ci è stato detto che Gesù aveva sofferto il suo più grande
dolore quando in croce, coperto dai peccati degli uomini che voleva salvare, sperimentando l’abbandono del
Padre, aveva gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Siamo state colpite da questo grido. E la
giovane età, l’entusiasmo, ma soprattutto la grazia di Dio, hanno spinto noi a voler seguire nella nostra vita Gesù
proprio nel Suo abbandono, riconoscendo in questo il vertice del Suo Amore per noi. Da quel momento
abbiamo scoperto il Suo volto nei più vari dolori, quelli che ci facevano soffrire per la disunità della nostra
anima con Dio, oppure dei fratelli con Dio; nei dolori delle nostre comunità non sempre compatte; nelle
divisioni in seno alla Chiesa o nella cristianità, nel mondo dove vivevamo. Di fronte a ogni dolore cercavamo
di andare in fondo al cuore per scoprire ed amare Gesù abbandonato.Poi ci lanciavamo a ricostruire l’unità
fra noi e a continuare ad amare. E, in genere, l’unità pian piano si ricomponeva e tornava la gioia.
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Gesù vivo
E ricordo come sin dai primi giorni, dopo esserci riuniti alla Messa, ci si spargeva per i luoghi più vari, dalle case,
alle scuole, agli uffici, a portare l’annuncio di Cristo, del suo comandamento nuovo, del suo Vangelo,
raccontando l’esperienza della nostra nuova vita. Chi ci era attorno, di fronte a quella testimonianza d’amore e
d’unità, ravvivava la sua fede e tornava a credere o credeva per la prima volta. E chi s’imbatteva in questa nuova
realtà ecclesiale, che stava nascendo, non trovava anzitutto un Movimento, e nemmeno solo una comunità, chi
la incontrava s’imbatteva in Gesù vivo fra noi, fedele alle sue promesse. Così la cerchia delle persone attorno a
noi si allargava. E l’Opera di Maria è arrivata, dopo più di 60 anni, a portare la spiritualità dell’unità a persone di
tutti i continenti. Amare e amarci, perché l’Eucaristia che riceviamo abbia il suo pieno effetto, e attiri la grazia
dell’unità, della Presenza di Gesù Risorto fra noi.
A conclusione vorrei leggere con voi uno scritto di quei primi tempi nei quali lo Spirito Santo ci faceva scoprire
come vivere l’unità.
Chiara si rivolge a Gesù Eucarestia, con una richiesta che ora anche noi potremmo fare tutti assieme:
“Tu sempre solo nel Tabernacolo.
Noi per strada, a casa, a scuola, in ufficio.
Sei fra noi, eppure sembri separato: separato dal nostro poco amore che non Ti comprende.
Eppure se quello che hai comandato fosse vita tra i fratelli Tuoi, essi non avvertirebbero di lasciarti quando
escono di Chiesa; e strade e tabernacoli avrebbero un unico sbocco: il Regno di Dio fra gli uomini.
“Nutrici, Signore, ogni mattina della Tua carne, ma rendici docili affinché si affretti l’ora in cui puoi nutrire gli
istanti tutti della nostra vita della tua Presenza in mezzo a noi”
(Bologna, Congresso Eucaristico Nazionale, 26 settembre 1997, Pensieri,1961).
Alla Madonna, che qui a Nuoro si onora con il titolo di Nostra Signora della Neve, chiediamo che si serva anche
di noi per portare la Presenza di Gesù in tutti gli ambienti della società dove viviamo, e suscitare qui una Chiesa
locale così viva, che si possa dire a molti: “Venite e vedete”, come ai tempi dei primi cristiani! “Io sono con
voi”: dobbiamo chiedere insieme questa grazia dell’Unità che l’Eucaristia ci porta, per la gloria di Dio e per la
vostra gioia.
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OMELIA DI DON GIOVANNI DELOGU
NUORO, Chiesa Cattedrale, 21 settembre
“Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: Seguimi! Ed egli si alzò e lo
seguì” (Mt 9,9). Noi dobbiamo essere esperti di Cristo, noi siamo chiamati a seguire Gesù Cristo come San
Matteo apostolo, nella cui festa stiamo vivendo questo giorno eucaristico dedicato alle “Aggregazioni Laicali”. E
dobbiamo avere una viva esperienza di conoscenza e di amicizia con Gesù Cristo; questo è il midollo
dell’apostolato dei laici: dire e dare e testimoniare con trasparenza nella vita Gesù Cristo. Il Vangelo racconta lo
sguardo di questo laico Matteo seduto al banco delle imposte e lo sguardo di Gesù Cristo su di lui, e anche il suo
imperativo di seguirlo.
“Gesù vide un uomo chiamato Matteo”, abbiamo proclamato, e gli disse: “Seguimi !”. Ed egli si alzò e lo seguì.
Uno sguardo e un imperativo che provocano l’immediato alzarsi e la sequela decisa e definitiva di questo laico,
che era impegnato in una attività singolarmente redditizia, il banco delle imposte. Pensate a quante volte noi,
all’invito di un impegno al servizio della parrocchia, rispondiamo: ”non ho tempo”. Per seguire Gesù Cristo è
difficile trovare il tempo. Matteo, in questo “Congresso Eucaristico”, ha questo da dirci: ciascuno si decida, anche
se siamo sempre nella libertà. Dobbiamo lasciarci affascinare dallo sguardo di Gesù, avvertire nelle viscere che il
suo imperativo a seguirlo non dà spazio ad incertezze di sorta.
Una fede viva e profetica! Questa è la molla che fa scattare la vostra decisione per Cristo. Ma sappiamo tutti
che a questa fede viva si arriva con una vita spirituale di intimità con Cristo, seria e ininterrotta, una vita
nutrita di parola di Dio, una vita nutrita di dottrina teologica seria, di catechesi sistematiche per adulti in ogni
parrocchia, di preghiera, di cuore e di meditazione, non di formule biascicate per abitudine. Vita di preghiera
profonda e sistematica portano a maturità gli adulti e i responsabili, i fideles laici, nella fedeltà a Cristo, senza
guardare se c’è questo prete o se c’è questo vescovo. Prima di tutto Cristo nella Chiesa, per una testimonianza
credibile nel mondo.
Gli evangelisti, raccontando l’esperienza del primo incontro di Gesù con i primi amici, pongono l’accento sulla
“chiamata” a stare con Cristo. ”Li chiamò per stare con lui” questo è essere apostoli: se uno non sta con Cristo
non può essere apostolo. Appartenere a Cristo, stare con Lui, una chiamata a lasciarsi abitare da Cristo. Matteo si
alza e segue Cristo. È tale e tanta la gioia che sperimenta, che offre subito a Cristo e agli amici un grande
banchetto per dire che la sequela porta alla gioia. Il credente non fa parte di un gruppo e non fonda un gruppo
sentendosi preoccupato dell’identità del gruppo, ma preoccupato di Cristo. Cristo ha un nome: comunione,
collaborazione, condivisione. E dialogo e scambio di vita. Dialogo non vuol dire scambio solo di parole, ma di vita:
io ti do la mia vita e tu dai la tua vita.
Dialogos! Se c’è silenzio e non si parla, non c’è dialogo, non c’è comunione, il nome della comunione è il dialogo
sincero, non le cose bisbigliate e giudicate e condannate. La sequela porta alla gioia e a una vita piena e
gratificata. La sequela porta alla missione, che è annunzio di salvezza di Cristo venuto per i peccatori. Alla
mormorazione dei Farisei, bigotti e presuntuosi, Gesù risponde: “non sono i sani che hanno bisogno del
medico, ma i malati” (Mt 9,12). C’è tanto malessere, care sorelle e cari fratelli, c’è tanto malessere nel giorno
di oggi: l’iniquità della disoccupazione, le lacrime delle famiglie allo sfascio, l’insignificanza della nostra
testimonianza.
Ecco, a voi laici, a voi laici adulti e responsabili riuniti insieme nel Cristo, come dice ancora la Gaudium et Spes, a
voi guidati dallo Spirito Santo nel vostro pellegrinaggio verso il Padre, a voi che avete ricevuto un messaggio di
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salvezza da proporre a tutti, a voi laici adulti che siete nel mondo per evangelizzare gli ambienti dove chi ha il
ministero del presbiterato o dell’episcopato non può arrivare, a voi laici spetta il compito di santificare il
temporale e portare nel mondo il buon annunzio di salvezza.
Dovete vivere con la trasparenza credibile della testimonianza, con l’esempio, con il coraggio della vostra
identità. Allora potete dire di appartenere alla Chiesa e di essere educati in un gruppo, in un movimento, non per
parlare del movimento, non per cercare adepti al movimento, ma per dare la testimonianza di quel che il
movimento a cui appartenete vi fa vivere. Gesù, in questo “Congresso Eucaristico”, affida a voi la missione di
portare la sua salvezza: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).
Il Vangelo di Matteo è il Vangelo delle Beatitudini, il Vangelo del Discorso della Montagna. Con questo Vangelo io
vi propongo di vivere l’Eucaristia: “Voi siete il sale della terra, ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo
si potrà rendere salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce
del mondo. Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per
metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro
Padre che è nei cieli” (Mt 5,13-16).
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EUCARISTIA FONTE DI SPIRITUALITÀ E DI SERVIZIO
QuinTo giorno
INCONTRO CON LE RELIGIOSE E LE PERSONE CONSACRATE
SUOR ENRICA ROSANNA
SEGRETARIA DELLA PONTIFICIA CONGREGAZIONE PER LA VITA CONSACRATA
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 22 settembre
Gustare l’Eucaristia è gustare un pezzo di cielo
L’Eucaristia è la meraviglia della mia vita.
Mi cibo ogni giorno del Corpo del Signore
che ha scelto le mani di una creatura per cambiare il pane nel suo Corpo Santo. Nutrita di Lui
vivo ogni giornata come liturgia e ogni liturgia come ingresso nella santità di Dio.
Conclusa la celebrazione eucaristica la continuo nella vita, quando ascolto,
quando parlo,
in aereo, in macchina, in metro, a piedi.
Per la Sua grazia
a qualsiasi ora sono pronto ad ascoltare
e a dire a chi mi cerca: “Eccomi”.
Per la Sua presenza
so trovare la parola o il silenzio per chi non è in pace
per vivere povero tra gli uomini per non smarrirmi
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quando sperimento la debolezza e aprirgli le braccia e il cuore
per fare spazio alla Sua infinita misericordia.
Per la tua forza sono disponibile
ad aiutare chi ha perso la speranza,
a insegnare tacendo che la sofferenza passa, ma l’aver sofferto resta.
Per la sua umiltà
imparo a gustare la gioia di servire, a comprendere che solo il tempo, l’esperienza e tanta preghiera
sono la strada per arrivare alla sapienza del cuore. Grazie, Gesù, per questi doni. Come vorrei
che di tutti noi che ci nutriamo di te la gente possa dire:
“È un pezzo di cielo”
Preghiera di Ernesto Olivero, in Sogno che fra cent’anni…, Cantalupa (To) 2008, p. 124-127.
Gustare l’Eucaristia è gustare un pezzo di cielo, perché l’Eucaristia è “l’incontro sconvolgente con
l’inconcepibile grandezza di un Dio che si è abbassato fino al punto … di darsi come cibo sull’altare”. Sono parole
di Papa Benedetto. Parole che dovrebbero spingerci a fermarci e a pregare, a contemplare il mistero: ad
adorarlo. Parole che dovrebbero portare alle nostre labbra un canto di ringraziamento; rendere il nostro cuore
traboccante di gioia, di giubilo; i nostri pensieri miti e festosi, perché questa è la certezza nel giorno di Pasqua, la
festa delle feste, perché Cristo è risorto, primizia di coloro che sono morti, primizia per tutti noi; perché la vita
regna definitivamente e in ogni creatura è iniziato un processo segreto ma reale di redenzione, di
trasfigurazione.
Io non morirò più, solo il mio corpo sarà affidato temporaneamente alla madre terra. Questa realtà, in cui credo
fermamente, mi dà gioia e pace.
Il filosofo scettico David Hume, una delle figure più importanti dell’illuminismo scozzese, parlando
dell’Eucaristia, purtroppo, derideva la fede nella presenza reale di Gesù nelle specie eucaristiche. Diceva: “lo
credo che in tutto il paganesimo non si trovi nessuna credenza che dia così chiaramente luogo al ridicolo come
questa della presenza reale: essa è così assurda da sfuggire ad ogni argomentazione ... A queste dottrine
siamo così abituati che non ce ne stupiamo mai, anche se in un’epoca futura sarà difficile persuadere la gente
che qualche umana bipede creatura abbia abbracciato siffatti principi”.
Sono parole spietate, sarcastiche, che fanno male al cuore; devono però essere un monito: l’Eucaristia è un dono
inestimabile, ineffabile. Dinanzi ad essa è necessario sostare con timore e tremore per entrare nel mistero
dell’Amore che si dona. Abito indispensabile per accostarsi ad essa è l’umiltà. Prima di avvicinarci, come Mosè
sul monte, dobbiamo togliere i calzari ai piedi, perché quello che avviene ogni qualvolta celebriamo l’Eucaristia
è il miracolo più clamoroso e “assurdo” cui continuamente assistiamo, il miracolo in cui Cristo Signore si fa
presente - come leggiamo nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica- “in modo unico e
incomparabile. È presente infatti in modo vero, reale, sostanziale: con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua
Anima e la sua Divinità. In essa è quindi presente in modo sacramentale, e cioè sotto le specie eucaristiche del
pane e del vino, Cristo tutto intero: Dio e uomo”.
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Quod non capis, quod non vides, animosa firmat fides. “Quel che non comprendi quel che non vedi, te lo
conferma l’intrepida fede”: sono parole della splendida sequenza Lauda Sion Salvatorem, nella quale San
Tommaso d’Aquino cantava il dono della Divina Eucaristia.
L’atteggiamento con il quale dobbiamo accostarci all’Eucaristia è quello umile di Maria, vera donna- eucaristica,
che accoglie, magnifica e rende grazie, esplode nel canto di gioia e, nel silenzio, medita nel suo cuore. Penso a
Maria, ostensorio vivente, che cammina sollecita verso Ain Karim, portando nel suo seno l’Autore della vita e
mi commuove sempre l’esplosione gioiosa del suo Magnificat!
Quod non capis, quod non vides, animosa firmat fides . “Animosa firmat fides”. La nostra fede dev’essere
animosa, intrepida, per permetterci di entrare in questo Mistero, come quella di Maria di Magdala che, dopo
l’incontro col Risorto, tornò di corsa a Gerusalemme per annunciare agli apostoli “Ho visto il Signore”. Una fede
umile e intrepida. “L’Eucaristia esige e cimenta la fede in grado supremo, anche se, a un tempo, la custodisce, la
purifica, la nutre. L’Eucaristia è la punta della fede del cristiano e della Chiesa”. Per questo dobbiamo con umiltà
implorare: Signore aumenta la nostra fede! (Lc 17, 5). Dammi quella fede grande come un granello di senape,
non per fare miracoli, non per spostare le montagne, ma per vivere in modo straordinario l’ordinario (la “misura
alta” della santità quotidiana). Santità -ha detto il Monaco Mosconi al Convegno della Chiesa Italiana a Verona significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna guardando il Figlio. Il compito profetico di
ciascuno di noi, oggi, è ridipingere l’icona di Dio, ridisegnare la sua immagine, ritrovare i tratti del suo volto,
quella bellezza e quella forza che i profeti avevano intuito… Apro una parentesi sui miracoli e precisamente su
un miracolo che mi ha molto impressionato e che riguarda proprio l’Eucaristia. Portiamoci ad Haiti, una terra
lontana, ma ormai molto vicina, percossa da una tragedia immane, anche se da molti ormai dimenticata; una
terra troppo vicina tanto da farci tremare il cuore di dolore e di compassione. In questa terra provata da
grande miseria e fatica (terra amara, la chiamerebbe Ignazio Silone) si è abbattuta una sventura che ci ha
lasciato attoniti e smarriti. Ha ben scritto Davide Rondoni sul quotidiano “Avvenire”, dopo la tragedia de
L’Aquila (Avvenire, 14 gennaio 2010): “Anche il cuore più sordo sente il grido di questa sventura. Anche il cuore
più duro si rompe davanti alla morte che domina così apertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non
sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe”.
“Quando il mistero del dolore e della morte ci sovrasta, dalle labbra di chi crede esce un solo grande grido:
Signore, tienili nelle tue braccia. Tienili nel tuo cuore … Stringili forte a te, perché oggi è troppo difficile sperare”.
Orbene, proprio ad Haiti, in questa terra percossa duramente, sono successi i miracoli. Uno, tra i tanti, segno
tangibile di amore grande, è il ritrovamento del corpo senza vita, sotto le macerie della cattedrale di Port-auPrince, del vicario generale della Diocesi. Quando venne dissepolto stringeva nelle mani la pisside con le ostie
consacrate. È chiaro che il sacerdote, prima di cercare la propria salvezza fuggendo, pensò di portare in salvo
quello che gli era più caro: il corpo di Cristo custodito nel tabernacolo. Cercò di salvare il Dio della vita e della
speranza mentre le macerie lo seppellivano ... Il corpo di Cristo: la speranza, in persona. Il corpo di Cristo,
l’amore incarnato. Il corpo di Cristo: il più bello tra i figli dell’uomo.
Dinanzi al “sacramento dell’amore di Dio”, dobbiamo soltanto ringraziare, inchinarci, con tutta la nostra
piccolezza, con tutta la nostra difficoltà a capire, per entrare nel Mistero con gli occhi e la mente rivolti al
Signore presente e vivente nella Santa Eucaristia, per lasciare che il cuore riposi in Lui. In questa società
dell’affanno, che ignora la fecondità del momento presente, l’Eucaristia è il riposo e la pace. “Se l’Eucaristia è un
grande mistero, che la mente non comprende -sono parole di Paolo VI -possiamo almeno capire l’amore, che
vi risplende con una fiamma segreta, consumante. Possiamo riflettere all’intimità che Gesùvuol avere con
ognuno di noi”.
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L’Eucaristia: amore che si dona
Gesù è venuto per rivelarci l’amore del Padre, perché “l’uomo senza amore non può vivere”. L’amore è, infatti,
l’esperienza fondamentale di ogni essere umano, ciò che dà significato al vivere quotidiano. Nutriti dall’Eucaristia
anche noi, sull’esempio di Cristo, viviamo per Lui, per essere testimoni dell’amore. Nutrendoci del Corpo di Cristo
noi accogliamo la vita di Dio e impariamo a guardare la realtà con i suoi occhi, abbandonando la logica del mondo
per seguire quella divina del dono e della gratuità: sono parole del Santo Padre al recente Convegno Ecclesiale
della Diocesi di Roma sull’Eucaristia domenicale e la testimonianza della Carità.
Sant’Agostino nelle Confessioni solennemente prega: “O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio
Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere
come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere; respingesti il mio sguardo malfermo
col tuo raggio folgorante, e io tutto tremai d’amore e timore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile,
ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per
questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me”.
“L’amore umano – dice un certosino – desidera tre cose: la presenza, il possesso, l’unione completa. Ecco, Gesù
soddisfa tutte e tre queste cose, le quali sono iscritte nella persona in quanto tale, in quanto capace di amore.
Gabriel Marcel afferma: Quando uno ama qualcuno è come se gli dicesse implicitamente tu non morirai, tu non
puoi morire perché ti amo, qualcosa di più forte mi dice che il tuo valore è eterno”, ed è quello che ci dice Gesù
nell’Eucaristia. Il suo amore è tale che ci dice: Tu non morirai perché io ti amo e ti trasformo e ti do la mia divinità,
tu non morirai, ce lo ha detto il Vangelo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita eterna”.
L’Eucaristia è il mistero d’amore di un Dio che non soltanto si è fatto simile a noi per riscattarci dalla morte del
peccato, ma ha voluto, in un gesto estremo di tenerezza, rimanere con gli uomini, restare con noi, ascoltando
le nostre richieste e rafforzandoci nelle nostre tribolazioni, diventando pane dei figli, l’alimento dei forti, la
passione dei santi. La passione dei santi: Tommaso d’Aquino, Thomas Merton, Teresa di Gesù Bambino, S.
Caterina da Siena, il Santo Curato d’Ars, Teresa di Calcutta, don Bosco, Giovanni Paolo II, Mons. Tonino Bello,
e tanti altri...
“L’Ora santa passata in adorazione davanti all’Eucaristia, conduce all’ora santa con i poveri” (Beata Teresa di
Calcutta).
“L’Eucaristia è un dono d’amore e la sorgente inesauribile dell’amore. In essa è scritto e radicato il nuovo
comandamento: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13,34) (Giovanni Paolo II).
“O fuoco d’amore, / non ti bastava forse di averci creati / imprimendo in noi la tua stessa / immagine e
somiglianza, / e di averci ricreati alla grazia / nel sangue del tuo Figliuolo? / No, non ti è bastato, / ma hai voluto
darci in cibo / tutto te stesso, / Dio, essenza divina. / Chi ti ha costretto? / Null’altro se non la tua carità, /perché
tu sei pazzo d’amore” (S. Caterina da Siena).
“Non potrò mai esprimere la mia grande gioia: ogni giorno, con tre gocce di vino e una goccia d’acqua nel palmo
della mano, ho celebrato la Messa. Era questo il mio altare ed era questa la mia cattedrale! Era la mia medicina
dell’anima e del corpo ... Erano le più belle messe della mia vita” (Card. F. X. Nguyen Van Thuan).
Apro una parentesi su questo grande santo martire dei nostri giorni che trasse dall’Eucaristia quotidiana la
forza per vivere lunghi anni di carcere. Arrestato il 5 agosto 1975 stette in carcere per vent’anni.
Interrogato dai carcerieri (non cattolici) sul motivo del suo arresto, sulle ragioni della sua serenità e
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speranza rispondeva: sono stato arrestato perché ho abbandonato ogni cosa per seguire Gesù. Ho seguito Gesù
perché amo i suoi difetti Primo difetto: Gesù non ha buona memoria.
Sulla croce, durante la sua agonia, Gesù udì la voce del ladrone alla sua destra ... Avrebbe potuto ricordargli
i suoi crimini e dargli la punizione... e invece gli disse: “Oggi sarai con me nel paradiso”. Egli dimentica tutti i
peccati di quell’uomo ... Analoga cosa avviene con la peccatrice che gli ha cosparso di profumo i piedi e con la
donna adultera e con il figlio prodigo... Gesù non ha una memoria come la mia; non solo perdona, e perdona
ogni persona, ma dimentica pure che ha perdonato.
Secondo difetto: Gesù non conosce la matematica.
Se Gesù avesse sostenuto un esame di matematica forse sarebbe stato bocciato. Lo dimostra la parabola della
pecorella smarrita ... Per Gesù 1 equivale a 99 ... Quando si tratta di salvare una pecora smarrita Gesù non si
lascia scoraggiare da nessuna fatica ... Come al pozzo con la samaritana e come con il pubblicano Zaccheo ...
Terzo difetto: Gesù non conosce la logica.
Una donna perde una dramma e quando la trova chiama le amiche, fa una festa ... e spende ben più di una
dramma... E quando spiega la parabola svela la strana logica del suo cuore: “C’è gioia davanti a Dio per un
solo peccatore che si converte”. Penso alla gioia del perdono ricevuto nel sacramento della riconciliazione e a
quella del perdono dato (o ricevuto) a una sorella o a un fratello.
Quarto difetto: Gesù è un avventuriero
Chi cura la pubblicità di una compagnia o si presenta come candidato alle elezioni prepara un programma ben
preciso, con molte promesse. Nulla di simile per Gesù. La sua propaganda, giudicata con l’occhio umano, è
votata al fallimento. Egli promette, a chi lo segue, processi e persecuzioni .. Agli apostoli, che hanno lasciato ogni
cosa per lui, non assicura né vitto né alloggio. A uno scriba, desideroso di arruolarsi tra i suoi, dice: Le volpi hanno
le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Il brano evangelico
delle beatitudini, vero autoritratto di Gesù, avventuriero dell’amore del Padre e dei fratelli, è dall’inizio alla fine
un paradosso ... Beati i poveri ... i perseguitati ... gli afflitti.
Quinto difetto: Gesù non si intende né di finanze né di economia.
Ricordiamo la parabola degli operai della vigna ... Gli ultimi arrivati al lavoro vengono retribuiti come i primi ...
Se Gesù fosse nominato direttore di un’impresa, questa fallirebbe e andrebbe in bancarotta...E dopo aver
presentato questi difetti, il Cardinale si domanda: perché Gesù ha questi difetti? Perché è amore e l’amore non
misura. Dalla Trinità ha portato un amore infinito che mette in crisi le nostre misure umane.
Ho appena citato Mons. Tonino Bello, vescovo appassionato del pane eucaristico. Rivolgendosi a Santa Maria,
donna del pane, così la invoca: “Facci capire che il pane non è tutto, che non di solo pane vive l’uomo (Deut 8,3)
... e quando ci vedi brancolare insoddisfatti attorno alle nostre mense stracolme di beni, muoviti a compassione di
noi . .. e torna a deporre nella mangiatoia, come quella notte facesti a Betlemme, il pane vivo disceso dal cielo (Gv
6,51) perché solo chi mangia di quel pane non avrà più fame in eterno”.
L’Eucaristia: è questo il misterioso miracolo che siamo invitati a celebrare soprattutto ogni domenica, nella
comunità ecclesiale, spezzando l’unico pane, che -come afferma Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, morto
martire a Roma nel 107 d.C. - “è farmaco d’immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere in Gesù Cristo
per sempre”. Dunque, l’Eucaristia, Sacramentum Caritatis, fa entrare nel mistero dell’amore del Padre per il
Figlio nello Spirito Santo, e del Figlio per ciascuno di noi. L’Eucaristia urla al nostro cuore che Dio è Amore, come
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ci ha ricordato Papa Benedetto con la sua prima enciclica. Dunque Dio ci ama. Dio ama ogni uomo e il mondo
per il quale ha dato il Figlio. Dio mi ama.
Orbene, vivere da cristiani, e da persone consacrate, è vivere euristicamente, come il Figlio dato per noi: lo
stesso amore totale, che non fa preferenza di persone, che serve tutti senza distinzione; quell’amore che,
giorno per giorno, diventa parola di fiducia, gesto di misericordia, atteggiamento di attenzione e di gratuità,
impegno di condivisione dell’inquietudine e della ricerca di senso e di libertà di tanti fratelli e sorelle di oggi;
quell’amore che ci apre l’accesso alla vita definitiva oltre la morte.
L’Eucaristia: mistero d’amore per Dio e per i fratelli
Leggiamo nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis: il pane che io darò è la mia carne per la vita del
mondo (Gv 6,51). Con queste parole il Signore rivela il vero significato del dono della propria vita per tutti gli
uomini. Egli esprime … l’intenzione salvifica di Dio per ogni uomo, affinché raggiunga la vita vera ... Al tempo
stesso, nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così
intorno al mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo, che consiste appunto nel fatto
che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Ma questo può realizzarsi
solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a
toccare il sentimento. Allora imparo a guardare gli altri - i fratelli e le sorelle - non più soltanto con i miei occhi e
con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. In tal modo riconosco, nelle persone che
avvicino, fratelli e sorelle per i quali il Signore ha dato la sua vita amandoli “fino alla fine” (Gv 13, 1).
Grazie, Signore, per questo dono! Grazie, per i fratelli e le sorelle che tu mi doni.
Con questi occhi ti vedo, Signore.
Ti tocco
con queste mani
Ti ascolto
con questi orecchi. Ti amo con questo cuore. Amore mio,
lasciati guardare in un volto di purezza; lasciati toccare in un corpo di dolore;
lasciati ascoltare in parole di misericordia; lasciati amare in un cuore di carne.
Mi sei familiare, Bellezza infinita, e grido di gioia riconoscendoti
quando il Tuo volto ha il nome di un fratello.
Di conseguenza, le nostre comunità, quando celebrano l’Eucaristia, devono prendere sempre più coscienza
che il sacrificio di Cristo è per tutti e pertanto l’Eucaristia spinge ogni credente in Lui a farsi “pane spezzato” per
gli altri, e dunque ad impegnarsi per un mondo più giusto e fraterno. Nell’Eucaristia l’amore di Dio in Cristo non
resta perciò qualcosa di astratto, ma si fa realtà concreta. In Essa troviamo la sintesi perfetta
dell’insegnamento di san Giovanni, l’Apostolo che Gesù amava: “Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua,
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ma con fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). E proprio questa “verità” diventa per noi possibilità di partecipare al dono
di Cristo, al suo amore presente e operante nell’Eucaristia.
Nella preghiera eucaristica Va diciamo queste parole: “Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le
sofferenze dei fratelli ...”. Chiediamo a Lui “occhi nuovi”. Molte povertà sono “provocate” proprio dalla
mancanza di occhi nuovi, occhi profetici colmi di speranza, che sappiano vedere, occhi che guardino il mondo e
la storia come Lui. Gli occhi che abbiamo sono troppo miopi. Sofferenti. Appesantiti. Resi strabici dall’egoismo.
Spesso sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente, sui bisogni dei poveri. Sono
avvezzi a catturare più che a donare. Si sono abituati a non sentire il grido dei poveri: “Avevo fame e ho ancora
fame. Avevo sete e resto assetato. Ero straniero e non trovo una terra amica. Ero carcerato e nessuno mi ha
liberato. Ero nudo e continuo a vestirmi di freddo. Ero malato e muoio solo. Avevo dubbi e nessuno mi aiuta a
capire. Ero angosciato e nessuno mi dà speranza. Ero bambino di strada e solo la strada con le sue violenze mi
accoglie”. Di qui, la necessità di implorare “occhi nuovi”, anche per ciascuno di noi consacrato o consacrata, per
entrare nel “roveto ardente” della carità di Dio.
“Sapete cos’è la fede? -si domanda Jean Vanier -uno di quei santi che lasciano un segno nella vita di coloro che
lo incontrano: La fede è vedere il mondo, gli altri, l’universo, la Chiesa, come Dio li vede. Questo è il mistero
della fede. È la trasformazione dei nostri occhi, in modo da vedere l’altro come lo vede Dio. Vedere il nemico
come Dio lo vede, vedere il povero come Dio lo vede, è una trasformazione, perché io non veda il mondo, la
gente, la Chiesa partendo dalle mie fragilità, dai miei bisogni, dalle mie ferite. Devo guardare gli altri con occhi di
libertà. Questo vuol dire essere libero. Guardare gli altri, il mondo, l’universo, la storia dell’universo come Dio li
vede, attraverso una trasformazione”.
Trasformarsi in Lui per trasformare la storia Quando riceviamo Cristo, l’amore di Dio si espande nel nostro
intimo, modifica radicalmente il nostro cuore e ci rende capaci di gesti che, per la forza diffusiva del bene,
possono trasformare la vita di coloro che ci sono accanto. La carità è in grado di generare un cambiamento
autentico e permanente della società, agendo nei cuori e nelle menti degli uomini, e quando è vissuta nella verità
“è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (Caritas in veritate 1).
La testimonianza della carità per il discepolo di Gesù non è un sentimento passeggero, ma al contrario è ciò che
plasma la vita in ogni circostanza”.
La nostra fede nell’Eucaristia, il nostro nutrirci del Corpo e Sangue di Cristo, vivo e vero, deve farci rispondere
come «un grande ostensorio agli occhi di tutti gli uomini di buona volontà e quindi, col far sentire il suo influsso
vivificante, proprio perché silenziosissimo e pieno di mitezza e di rispetto sulla città dell’uomo”.
“Quanti partecipiamo all’Eucaristia, siamo chiamati a scoprire, mediante questo sacramento, il senso profondo
della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace,· e a ricevere da esso le energie per impegnarci
sempre più generosamente, sull’esempio di Cristo che in questo Sacramento dà la vita per i suoi amici. Come
quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale impegno non sarà inutile, ma certamente fecondo”.
Per essere “presenza eucaristica”, per essere un “grande ostensorio” dobbiamo incarnarci e quasi impastarci
nella realtà degli uomini. Cristo assume la forma, il sapore, il colore e tutte le proprietà naturali del pane e del
vino. Lo fa per rimanere presente in mezzo a noi. È un Dio vicino, che condivide la nostra storia e la orienta verso
il Regno di Dio. Dunque, a imitazione del Cristo eucaristico, il nostro atteggiamento deve essere quello di
impastarci nella storia, di condividere la sorte dell’umanità, di immedesimarci nei problemi, nelle sofferenze,
nelle speranze degli uomini. Senza privilegi e senza discriminazioni.
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Come Cristo assume il sapore e lo spessore del pane e del vino, così noi dobbiamo assumere con
atteggiamento costruttivo i problemi che maggiormente ci interpellano: da quelli della famiglia, della difesa della
vita umana dall’inizio fino al suo naturale compimento, dell’educazione dei giovani, a quelli dei poveri e degli
anziani, a quelli della pace e dell’equilibrio del pianeta, della povertà in tutte le sue forme..., in rispondenza al
nostro carisma.
A immagine del Cristo dell’Eucaristia, che per amore si fa dono totale e gratuito per l’intera umanità, siamo
chiamati a introdurre nella storia una corrente di generosa gratuità e di dono, di servizio disinteressato ai fini
della promozione umana, di solidarietà con tutti, ma specialmente con gli “ultimi” della terra, che Cristo predilige
e con i quali si identifica (cfr. Mt 25, 34-45). Sono solenni le parole di Sant’Agostino: “O sacramento dell’amore di
Dio! Chi vuole vivere ha dove vivere, ha di chi vivere. Si accosti, creda, sia unito al corpo per divenire vivo”. Noi
portiamo all’altare il pane e il vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, e riceviamo indietro lo stesso pane
e lo stesso vino, ma consacrati. Allo stesso modo siamo chiamati a portare all’altare le nostre vite, così come
sono, e a riceverle “nuove” dalle mani di Dio. È nella concretezza di quel pane e di quel vino il segreto per
trasformare sia la nostra vita personale sia quella della storia umana. Accostarci al banchetto eucaristico ci
trasforma a immagine di Cristo Signore; come il pane e il vino vengono transustanziati anche le nostre vite
devono trasformarsi in lui. Sì, trasformarsi in Lui per trasformare la storia.
L’Eucaristia, prolungando nel tempo la logica dell’incarnazione, ci insegna che, per trasformare la storia e
rinnovare la società, occorre condividere, trasformare, unire.
Condividere. Presenza eucaristica significa incarnarsi e quasi impastarsi nella realtà della storia, condividere
la sorte dell’umanità, immedesimarsi nei problemi, nelle sofferenze, nelle speranze degli uomini e delle donne.
Senza privilegi e senza discriminazioni. Come potremmo, noi consacrati/e, chiamati a essere con Cristo
“eucaristia del mondo”, rimanere spettatori passivi? La nostra condivisione non deve conoscere limiti, come la
presenza eucaristica di Cristo è senza limiti di tempo e di spazio.
Trasformare. A immagine del Cristo nell’Eucaristia, che per amore si fa dono totale e gratuito per l’intera
umanità, dobbiamo anche noi introdurre nella storia una corrente di generosa gratuità e di dono, di servizio
disinteressato, soprattutto a favore degli “ultimi” della terra.
Unire. Il Signore mediante l’Eucaristia ci unisce a sé e ci unisce tra di noi con un vincolo più forte di ogni unione
naturale, e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere,
dell’amore di Dio. Ci rende, alla scuola del maestro, capaci di comunione e di servizio.
O tu che credi, vivi l’Eucaristia
come un incontro “a tu per tu”
con il Signore, per essere in due
ad accogliere il fratello in cerca di ristoro.
Tieni aperto il tuo cuore perché sia
come fontana d’acqua fresca sulla piazza del villaggio
dove ogni viandante, povero e ricco, forestiero e nativo, giovane e vecchio, possa dissetarsi, trovare riparo,
ristoro, conforto, senso della vita.
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Fascia di cure ogni ammalato nel corpo e nel cuore,
gli ultimi falli sentire primi. Anziani soli, disabili, bambini, giovani, immigrati, disperati, carcerati , poveri, siano i
più amati.
L’amore di Gesù è fatto di cose vere.
Sii testimone di questo amore e insegna con la vita
che nessuno è escluso dalla tenerezza di Dio.
L’Eucaristia: mistero di perdono
“Gesù nella notte in cui fu tradito prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse:
prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi” (1 Cor 11,23-24).
“Nella notte”, nel momento più oscuro e tenebroso, “in cui fu tradito” quando fu consegnato alla morte, che
è divisione umana, separazione dai suoi e perdita di ogni relazione con loro, “prese il pane”, li convocò alla sua
mensa, li riconciliò, li radunò in stretta comunione intorno a sé, pane che unisce e dà la vita, “rese grazie” al
Padre, grato di essere Figlio e di fare la sua volontà, di riconoscersi suo dono che si dona, “lo spezzò”, lo stesso
amore che spezzò alla mensa il pane che dà la vita, sulla Croce spezzò il suo corpo, la sua vita terrena, “lo
diede ai suoi discepoli” lo consegnò ai suoi, la vita che riceve dal Padre la dona ai fratelli perché vivano, “e disse”
alitò su di loro la Parola che salva, “prendete e mangiatene tutti”, indistintamente, immeritatamente,
gratuitamente, nutritevi del mio amore, “questo è il mio Corpo offerto in sacrificio” questo pane che voi vedete
è il mio corpo che vedrete in Croce, donato per evitarvi la morte e la separazione, “per voi” sono morto al vostro
posto perché voi abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza, mi sono caricato dei vostri peccati perché il mio amore
potesse sconfiggere definitivamente la morte che era destinata a voi. Nella notte in cui fu tradito ci fece il dono
più grande, ci insegnò la fecondità del perdono.
Il perdono ... Leggo due testimonianze.
Dal libro “Il canto del pane”, di Ermes Ronchi:
“Roberto era un esule uruguayano, venne a vivere nella nostra comunità per alcuni mesi tra il ‘75 e il ‘76. Aveva
28 anni, era segnato per sempre nel corpo e nella psiche dalle torture spaventose inflittegli durante cinque
anni di prigionia politica. Lavorava nella biblioteca dell’università, non aveva mai fatto politica, fu arrestato per
caso o per errore e attraversò l’inferno. Roberto raccontava che nelle celle comuni i prigionieri facevano
programmi sul futuro assetto della nazione, sognavano rivincite, si interrogavano su quale pena infliggere ai
loro torturatori. Si parlava di ergastolo, di lavori forzati, di mutilazioni, di eliminazione o di esilio. Unico, Roberto
diceva: io non farò loro niente, non vorrei mai essere come loro. Voglio essere uomo”.
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Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, donna innamorata di Dio, tutta dedicata ai poveri. Le ultime tre
parole della sua vita terrena furono: “Perdono, perdono, perdono”, suggello di una vita fatta di dedizione e di
donazione fra i poveri. Una vita che ha trovato il suo compimento nel martirio, ma che si
è snocciolata in una storia di passione, intessuta di fili di umanità, con la consacrazione a Cristo Signore
e ai poveri e la competenza alla sua attività di infermiera, ostetrica e caposala, prima in Kenya e poi a
Mogadiscio in Somalia, dove Sr. Leonella si occupava della Scuola Infermieri.
Con le parole: perdono, perdono, perdono, Sr Leonella concluse il suo pellegrinaggio terreno.
Queste sue ultime parole sono state il ponte che ha attraversato per giungere alla casa del Padre, in una
domenica, proprio quando la liturgia della Parola risuonava così nelle comunità cristiane: “Chi vorrà salvare la
propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà”.
Sr. Leonella ha svolto con competenza e amore la sua missione per i più poveri. È stata uccisa a Mogadiscio,
all’uscita del Centro SOS, da diversi colpi d’arma da fuoco. Le armi hanno segnato la conclusione della tappa della
sua vita, ma non hanno spento la parola che ha continuato a riecheggiare in lei fino all’ultimo, quale sintesi
di un Vangelo creduto, amato, vissuto: perdono, perdono, perdono ... Tre parole chiave, cuore del
cristianesimo, cuore della missione, della missione di pace e di giustizia di ogni persona che si consacra a Dio.
Conclusione
Jean Vanier, raccontando la visita di Giovanni Paolo II ad Haiti, riportò queste parole pronunciate dal Papa. “Per
capire l’Eucaristia bisogna capire la lavanda dei piedi. C’è un legame intimo tra l’Eucaristia e la lavanda dei
piedi. La lavanda dei piedi ... Consacrandoci al Signore ci consacriamo a questa umile, splendida missione.
Dobbiamo esserne grati e fieri. Mangiando il Corpo di Gesù diventiamo Gesù e siamo inviati ad annunciare la
Buona Novella ai poveri. E che cos’è questa Buona Novella? Annunciare la Buona Novella ai poveri per dire loro:
Sei amato”.
Ho iniziato con una provocazione, il sarcasmo dei filosofi verso la presenza dell’Eucaristia. Vorrei chiudere
con una testimonianza amara, e con una preghiera. La testimonianza è di un “prete dei lebbrosi”: un grido che
sale al cielo e che dovrebbe far tremare i nostri cuori. È un po’ lunga. Ho pensato molto se inserirla o meno in
questa nostra riflessione; ho deciso che dobbiamo lasciarla risuonare nei nostri cuori, portarla nella nostra
preghiera, soprattutto nel nostro esame di coscienza, personale e comunitario.
“Vivo in un lebbrosario assieme a 500 lebbrosi, abbandonati a se stessi, in piena foresta, a 30 Km dal centro più
vicino. Siamo separati dal mondo da un filo spinato, circondati da guardie pronte a sparare se qualcuno tenta di
fuggire … Ti pare giusto tutto questo? I miei lebbrosi vivono sotto i bananeti, esposti al sole tropicale, senz’alcun
riparo. È uguaglianza questa? Non ci sono medici, né infermieri, non hanno medicine. Sono costretti a vedere,
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giorno dopo giorno, la loro carne che va in disfacimento, staccandosi poco alla volta. Molti sono nudi,
letteralmente nudi, perché non hanno vestiti, neppure uno straccio per coprirsi, ma ti assicuro che hanno
anch’essi il loro pudore, forse più di noi; invece sono costretti a mostrarsi in quello stato, con il corpo coperto di
piaghe orrende. Le prime volte vomitavo guardandoli. È amore questo? Tutti fanno la fame, tanti muoiono di
fame, ma nessuno si preoccupa di dare loro un po’ di cibo.
.. Forse molti sono contenti che muoiano presto per liberare la società da questa piaga, da questo schifo! Scrivo
con il cuore gonfio di amarezza. Ricevo tante lettere di ammirazione, di lode per quello che faccio, qualcuno
perfino mi invidia. Sono parole, solo parole e intanto i miei lebbrosi continuano a vivere come prima: nudi,
ammalati, affamati … Quindici giorni fa ho trovato un giovane sotto una pianta di banane: si era ricoperto con le
sue foglie secche e si era dato fuoco. Dio, che orrore! Mi sono tolto la camicia per soffocare le fiamme e
strapparlo alla morte. Mi sono anche ustionato, ma sono riuscito a salvarlo. Mentre lo sollevavo mi sono accorto
che pesava sì e no trenta chili. Gli ho chiesto quanti anni aveva. ‘Venti’: mi rispose gemendo per il dolore. La
fame, la lebbra, la tubercolosi, lo avevano ridotto in quello stato. Mi supplicava di lasciarlo morire. ‘Meglio subito,
che morire lentamente di fame’.
Mi sono caricato sulle spalle quel rifiuto di umanità e ho percorso trenta chilometri a piedi, fino al centro della
missione. Sono andato in cucina e ho preso dalla pentola un pezzo di carne e gliela ho data, ma era troppo
denutrito per poter mangiare: da un mese non mangiava quasi nulla.
Morì tre ore dopo tra le mie braccia, coprendomi di sangue e pus che uscivano dalle sue piaghe ulcerose. Ero solo:
gli altri erano fuggiti tutti per paura del contagio.
Prima che morisse l’ho chiamato ‘Giustizia’, nome che porterà per tutta l’eternità. Poi ho preso una coperta, vi
ho avvolto quel misero scheletro e, dato che era domenica, l’ho portato in chiesa, alla Messa celebrata dal
vescovo.
Sono entrato con quel cadavere puzzolente tra le braccia, l’ho deposto ai piedi dell’altare, poi afferrato il
microfono, ho gridato con tutta la forza dei miei polmoni: ‘Assassini! Siamo tutti assassini! Abbiamo ucciso un
nostro fratello! Il suo sangue ricada su di NOI. Ho continuato a gridare a tutti il nostro delitto: Lo abbiamo ucciso
noi, con il nostro egoismo, con la nostra indifferenza, con la nostra paura del contagio’.
Poi non ricordo più nulla. Sono svenuto. mi sono ripreso due ore dopo: ero sdraiato sul divano del vescovo, con la
febbre che mi durò otto giorni.
Non credere che io sia un eroe, sono più meschino degli altri. Ma dimmi, cosa fate voi per i miei lebbrosi? Non
avete il coraggio di darmi qualcosa della vostra biancheria, dei vostri indumenti: maglie, camicie, pantaloni … un
po’ del vostro denaro? Che facile cristianesimo ci siamo formati! Ci sentiamo a posto perché osserviamo i
Comandamenti di Dio ... ma e l’amore del prossimo? È cristianesimo il mio, il vostro? Dimmelo tu!”.
(Padre Battista, prete dei lebbrosi)
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INCONTRO CON I GIOVANI
Nuoro, Chiesa di N. S. delle Grazie, 22 Settembre
SALUTO DI MONS. PIETRO MELONI
Nel “Congresso Eucaristico” oggi viviamo l’incontro della gioventù con la bellissima partecipazione di tutti i gruppi,
che ringrazio di cuore. Il congresso si concluderà all’anfiteatro di Nuoro domenica prossima alla presenza di tutti
i Vescovi e del Cardinale Salvatore De Giorgi. Oggi parla ai giovani l’Arcivescovo di Ancona Monsignor Edoardo
Menichelli, che ha trascorso tutta la sua vita con la gioventù e nelle “Giornate Mondiali della Gioventù” ha
affascinato i giovani che si preparavano ad ascoltare la voce del Papa, prima di Giovanni Paolo II e ora di
Benedetto XVI. Il Papa ci attende tutti a Madrid tra un anno, nell’agosto 2011. Grazie al Vescovo Edoardo! A lui la
parola e poi anche a voi: tutti dovete portare la vostra esperienza e il vostro entusiasmo.
MONS. EDOARDO MENICHELLI
Carissimi tutti e cara Eccellenza, grazie dell’invito: saluto tutti voi cordialmente. Vi dirò che mi trovo un po’ in
difficoltà perché è la prima volta che ci si vede. E subito vorrei mettervi davanti ad una cosa seria. Noi siamo in
Chiesa e voi avete accettato l’invito in una circostanza particolare, il Congresso Eucaristico che la vostra Diocesi
vive. Vi ha invitato il Vescovo e vi parla un sacerdote che da tempo ha stabilito con i giovani un bel rapporto.
Io desidero che questo sia per me e per voi un incontro serio, possibilmente anche di dialogo.
Per questo è necessario che ci diamo insieme una mano per approfondire qualche idea, ed è per questo, cari
ragazzi, che vi chiedo di metterci insieme al cospetto di Gesù Cristo. Sì, cari ragazzi, questo è il punto di fondo,
la mia parola conta poco, le parole che tutti voi ascoltate da altre persone contano poco, perché non sono mai
parole risolutive. Io vorrei aiutarvi stasera a mettervi al cospetto di Gesù Cristo, di questa persona che per noi
è il Figlio di Dio, che da duemila anni sta al centro della storia, che è una persona viva in mezzo a noi. Ecco: il
Sacramento dell’Eucaristia ci dice una parola che è sempre significativa per l’uomo.
Se io domandassi: siete cristiani? La risposta qual è? Siete cristiani sì o no? Non vi sembri semplice la
domanda. Adesso facciamo una seconda domanda: vi sentite di dire che siete cristiani credenti? Sì o no? Se
fate voi a me questa stessa domanda, io rispondo: “mi sforzo di essere cristiano”. Non è la stessa cosa, cari
ragazzi. Per essere cristiani non ci vuole nulla. Da piccolini il papà e la mamma hanno preso questo bambino,
l’hanno portato in chiesa dove per il “battesimo” c’è un po’ d’acqua. Il sacerdote vestito di bianco con la stola al
collo ha fatto un po’ di preghiere, un po’ di segni, che anche noi sempre facciamo. Poi ha detto: “Io ti battezzo
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Che cosa è successo in quel momento? Sono diventato
cristiano! Avete capito qualcosa? Siamo entrati in un modo e usciamo in un altro modo. Siamo entrati creature,
peccatori, morti spiritualmente, siamo entrati senza identità religiosa, siamo entrati senza compagnia. Come
usciamo? Usciamo “figli di Dio”, usciamo santi, usciamo risorti, usciamo cristiani e fratelli. E siccome siamo
fratelli di Gesù Cristo e Gesù Cristo è figlio di Dio siamo anche suoi discepoli.
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A questo punto c’è un’altra domanda: “quel che è successo quel giorno che fine ha fatto?” Questa è la
questione. E corrisponde alla domanda: “Edoardo, sei cristiano?”. Sì. “Sei cristiano credente?”. Chi è il cristiano
credente? È colui che stabilmente, con tutto se stesso, fa il discepolo. Gesù prima di fare i sacerdoti, gli
apostoli, i Vescovi, ha chiamato i suoi “discepoli”.
Chi è il discepolo? Il discepolo è uno che mette in atto tre o quattro verbi. Il primo è: “ascoltare la parola”.
Andate a scuola voi? Nell’aula che c’è? C’è una cattedra. E in cattedra si siede il professore. Poi ci sono i banchi
e si siedono gli alunni. Che rapporto c’è tra il professore e l’alunno? Trasportate questa immagine qua, fate finta
che questa sia una cattedra. Che c’è qui? Non ci sono io. Sulla cattedra del Vangelo per il discepolo c’è il
“Maestro”. Non un maestro, ma “il Maestro”. E ha un nome: si chiama Gesù Cristo. Se parla Gesù Cristo, chi
siamo noi tutti? Siamo discepoli, cioè coloro che vanno a imparare. Che cosa? La
matematica? Dio, non vi interrogherà su questo. Noi siamo discepoli, anche noi Vescovi siamo discepoli, se
vogliamo poi diventare apostoli, cioè maestri che ripetano le parole di Gesù. Il discepolo che fa? Deve mettere
in pratica quattro verbi.
Primo verbo: ascolta! Perché il discepolo è uno che non sa. Vi ricordate nel Vangelo quel giovane che va da
Gesù e gli dice: “Che devo fare per avere la vita eterna?” Lui non lo sa, mentre il Maestro sa tutto, perché è la
Verità, e dà la sua risposta. Il discepolo deve ascoltare.
Secondo verbo: Seguimi! Chi? Il Maestro: “chi vuol essere mio discepolo venga dietro a me”. Ci ha provato un
giorno Pietro a mettersi davanti. Bellissima questa scena, io la immagino. Gesù che dice: io vado a
Gerusalemme, dove il Figlio dell’uomo sarà messo a morte. Pietro, che stava con gli altri ascoltando, gli si mette
davanti: “Signore, questo no, questo non ti succederà mai, questo proprio no. A Gerusalemme a morire? Ma
come? Hai fatto i miracoli agli storpi, ai ciechi… Signore, proprio no”. Che gli dice Gesù ? “Satana” , lo chiama
“Satana” (Mt 16,23). Se voi leggete il Vangelo, questo avvenimento avviene poco dopo che Gesù aveva detto a
Pietro “Ti faccio Papa”. Pietro, sei satana! Sei d’inciampo, se vuoi rimanere mio discepolo cammina dietro di
me.
Terzo verbo: Vivere nel Maestro. Cari ragazzetti e ragazzette, che vuol dire amare? Che vuol dire? L’amore
immedesima, l’amore non crea distanze, l’amore mette dentro il cuore; per Gesù questo amore diventa
ancora più essenziale: “Se non vivete di me non mi capite”. Anzi lui dice: “chi non mangia di me è morto”.
Il Quarto verbo: Fare quello che dice il Maestro: “Sarete miei discepoli se farete ciò che io vi comando”. Cosa vi
comanda? “Amatevi come io vi ho amato” (Gv 15,12).
Torniamo un po’ alla domanda iniziale: “Siete cristiani?”. “Siete cristiani credenti?” Adesso sono convinto che
non risponderete più “sì”, ma direte come me: “ci provo”. Cioè mi sforzo, ogni giorno faccio un passo, faccio
un passo di fedeltà. Sentiamo ora il Vangelo di San Giovanni, al capitolo VI. La gente andava ad ascoltare Gesù.
Andava ad ascoltarlo non tanto perché gli piacevano le parole, ma perché la gente aspettava il miracolo. E
voi sapete cos’è successo: alla fine della giornata per mangiare non hanno nulla. Gli apostoli a Gesù dicono:
“Senti, mandiamoli a casa perché essi si comprino il pane”. Gesù dice: “dategli voi stessi da mangiare”. Filippo,
così racconta l’evangelista, dice : “Qua c’è un ragazzino che ha cinque pani e due pesci”; poi si vergogna di
averlo detto, perché dice: che sono cinque pani e due pesci per cinquemila persone? (Mc 6,34-44).
Voi sapete la storia: Gesù fa il miracolo. Poi che fa Gesù? Di nascosto se ne va e la gente dice: “dov’è andato?”
Gesù sale su una barca e fa il giro del lago e gli chiedono: “Maestro, quando sei venuto qua?”. Gesù risponde:
“voi mi cercate non perché volete ascoltarmi, ma perché avete mangiato gratis”. E comincia il discorso: “C’è un
altro pane, quest’altro pane sono io! E chi mangia di me vive, chi non mangia di me non vive” (Gv 6,25-58).
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In quel punto di questo discorso, che è un discorso illogico, molti se ne vanno. E Gesù: “chi mangia di me ha la
vita eterna, non come i vostri padri che hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti” (Gv 6,49). Il
gruppetto dei più vicini dicono: questo discorso per noi è duro, ce ne andiamo. Resta Gesù e i dodici. Che avrei
fatto io? Io mi domando: ma perché sono andati via questi? Forse il discorso è stato cattivo? No, non gli
interessava. Gesù che dice? Gesù dice: “Se volete andarvene, andatevene anche voi” (Gv 6,67). Per essere
discepoli, quindi “cristiani credenti”, è necessario accettare questa parola che l’evangelista descrive come dura.
Perché la parola di Gesù è dura? Perché è una parola senza logica umana: “Se amate solo quelli che vi amano,
che merito ne avete? Amate piuttosto i vostri nemici”. Questa è una parola senza logica umana. Lui dice
“amate i vostri nemici”. E poi dice un’altra frase: “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde
l’anima?” L’anima? Ragazzi, ce l’avete l’anima?
Adesso sentiamo un’altra parola di Gesù: “Accumulate tesori per il cielo, perché ai tesori della terra ci
arrivano i ladri e le tarme”. Che dice questa parola? Questa parola è senza logica umana. Tocca a voi, ragazzi,
assumere una dignità nuova, perché è stato dato a voi il pane della vita e il pane dell’amore. Il problema della
giustizia sociale sta nelle vostre mani, è una questione eucaristica! Il banchetto di questo giardino che è il
mondo creato, per chi è? Lo chiede Dio Creatore: è per i paesi benestanti o è anche per i paesi dell’Africa? Sta
nelle nostre mani!
La questione del creato è un fatto eucaristico! Il creato è il grande altare dove l’umanità celebra il suo
ringraziamento a Dio e poi trova nell’Eucaristia e in Gesù Cristo la forma più alta. Il problema della giustizia
tocca a voi. Non abbiate una fede sognante, abbiate il coraggio di sporcarvi le mani dentro la storia, perché
questo deve fare il discepolo di Gesù. Gesù si è fatto inchiodare le mani. La questione della fame, la
condivisione, la solidarietà, è frutto della fede e della carità.
Io sono cresciuto, non mi vergogno a dirlo, in un tempo in cui se cadeva a terra un pezzo di pane, la mamma me
lo faceva raccogliere, e pulire, mi faceva dare un bacio a quel pezzo di pane e io lo mangiavo. Oppure tornavo da
scuola, a piedi ero in 4ª o 5ª elementare, prima e seconda professionale, poi il papà e la mamma sono morti
all’improvviso e ho abbandonato la scuola. Prima quando tornavo a casa di pomeriggio, la mamma mi
presentava un piatto di minestra: “non mi va!”. “Edoardo, non ti preoccupare, vai a dormire, domani la trovi
qua”. “Questo non mi piace, il pane è duro …”.
Voi andate alla messa della domenica? A che vi serve? Se invece voi a casa vi educaste insieme ai vostri genitori
alla solidarietà, che non vuol dire alla miseria, la questione della fame non sarebbe vera?
Poco fa abbiamo cantato il “Padre Nostro”. Ci avete pensato a quanto abbiamo detto? Intanto non abbiamo
detto “Padre Mio”, perché nessuno può dire a Dio Padre mio soltanto. Dio non è proprietà di nessuno. Ma
poi ci sono da chiedere alcune cose. C’è da chiedere: “Dacci oggi il pane quotidiano”. Quale pane? Se Gesù non
fosse il Figlio di Dio, lo amerei lo stesso, è di una intelligenza paurosa. Se tu dici “dammi”, lui non ti ascolta: “
dacci oggi il nostro pane”, quello che spetta a me e spetta anche a lui. Parti uguali! Come l’eucarestia, parti
uguali! Questa società in cui viviamo si sta disabituando a questa condivisione. Oggi c’è in giro la cosiddetta
cultura della immortalità. E invece la vita è nelle mani di Dio. Tu non sei proprietario della tua vita.
Mettetevelo in testa, ragazzi, non accettate questa cultura della onnipotenza: la vita è la mia e faccio quello che
mi pare. Questo è un gran peccato. La mia vita non è così. E anche la vita di Simone non la posso buttare.
Dacci “oggi”. Se mi fai il dono della vita mi devi dare anche un pezzo di pane. Io ti do il giardino, io ti do l’acqua, il
sole. E tu ?
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Carissimi, siate gli uomini e le donne dei cinque pani e dei due pesci. Fate che nessun povero passi davanti a
voi senza aver ricevuto niente da voi. Un giorno il Papa San Gregorio Magno decise di chiudere una chiesa,
perché davanti a quella chiesa aveva visto un povero, e un povero che non ha un pezzo di pane è una vergogna
sociale.
Il Papa Benedetto XVI quando è venuto a Cagliari ha detto: “C’è bisogno di una nuova generazione di uomini
politici”. Giovani, amate la politica, entrate nella politica soprattutto voi diciannovenni e ventenni; e voi più
piccoli preparatevi a questo. Nessuno di noi può delegare nella storia quello che spetta a lui. Noi non siamo un
popolo di piagnoni e invocatori di diritti, dobbiamo essere un popolo che fa la giustizia. Entrate nella storia! Voi
che fate parte dei gruppi parrocchiali, di che parlate? Riprendete queste cose, fate delle domande serie,
entrate nel mistero di Gesù Cristo con coraggio. Qualcuno dice: la politica è sporca. È sporca? La coscienza
dell’uomo si sporca, non la politica. Assumete la responsabilità della storia!
Gesù agli apostoli disse: “Date voi stessi il pane da mangiare” (Mc 6,37). E c’è una bella immagine nel
Vangelo. Gesù mentre promette l’Eucarestia nell’Ultima Cena, che cosa fa? Si toglie la veste, mette il
grembiule, prende una catinella d’acqua e lava i piedi ai discepoli. Vorrei che voi foste pronti al servizio come
Gesù. Lo avete un po’ di tempo libero anche voi, sì o no? Quanto tempo date per fare il servizio alla Caritas?
Date il vostro tempo, non dite mai: non ho tempo.
Un’altra questione voglio porvi. Oggi nel mondo non c’è nessuno che dice “Dio non c’è”. Però tutti vorrebbero
un Dio creato da loro. Come è possibile? Siate credenti in Gesù Cristo. Oggi esistono molti “battezzati non
credenti”. Gesù Cristo, se non lo conosci non lo segui, e se non lo segui non lo ami, e prima o poi gli dici:
“ciao”. Se invece lo ami, dopo due secondi ti spacca il cuore e non lo lasci più.
Adesso un’altra questione che parla di vita: la questione del “linguaggio duro”. E qui voglio dire un’altra
cosa: la parola di verità che è Gesù, la parola di salvezza che è Gesù, non è modificabile, non è
commercializzabile, non è oggetto di patteggiamento. Gesù Cristo non è come un arancio diviso a spicchi: o lo
pigli tutto o lo butti via.
Eucaristia è la parola che si fa cibo per voi. Dio è presente nel pane di Gesù. Io domando a voi ragazzi: avete più
paura dell’assenza di Dio, o della presenza di Dio? Il mondo di fuori certe domande non se le fa più, perché
ormai vive nell’assenza di Dio. Ed ha paura. Ecco la domanda: Che cos’è l’Eucarestia? È Dio che si dona a noi, si
dona così tanto che poi dice: Mangiami e bevi! L’Eucarestia, ragazzi, è una questione d’amore. Siete caduti in
un tranello, ragazzi, siete caduti in un tranello che non avete inventato voi; il tranello è quando alla tua
persona amata tu dici: “sto con te finché mi piaci e quindi mi allontano da te quando c’è uno che mi piace più di
te”.
Cari giovani, l’Eucarestia ci insegna che Dio si è donato totalmente. Abbandonate l’emozione dei piaceri ed
entrate nel vero amore. Gesù forse ci ha detto: quanto mi piacete!... Lui ha detto: “questo calice passi da me,
ma sia fata la tua volontà, o Padre!”. E a noi ha detto: “Io vi amo”. Il pane dell’Eucaristia è il dono di Gesù, è il
segno che Dio ci
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EUCARISTIA “FONTE E CULMINE” DEL MINISTERO
SeSTo giorno
INCONTRO CON I SACERDOTI E I DIACONI
MONS. EDOARDO MENICHELLI ARCIVESCOVO DI ANCONA
PRESIDENTE DEL “CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE” DEL 2011
Galanoli, 23 settembre
SALUTO DI MONS. PIETRO MELONI
Il “Congresso Eucaristico Diocesano” è il cuore del nostro cammino pastorale nella Chiesa di Nuoro. La giornata
sacerdotale nel “Congresso Eucaristico” è il cuore della nostra evangelizzazione. L’Eucaristia è fonte e culmine del
nostro ministero. Grazie a voi tutti sacerdoti e diaconi, tra i quali c’è una primizia nel diacono Andrea ordinato
qualche giorno fa, grazie a Don Luigino e alla Casa di Galanoli che ci accoglie. E grazie con tutto il cuore a Mons.
Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona, già Arcivescovo di Chieti, che ci fa il dono della sua presenza e della
sua parola proprio come Presidente del “Congresso Eucaristico Nazionale” che si svolgerà ad Ancona, la sua
Diocesi, tra un anno nel settembre del 2011, e penso che lui stesso ci dirà che siamo tutti invitati.
“Nel servizio ecclesiale del ministro ordinato”, dice il Papa Benedetto XVI nella esortazione Sacramentum
Caritatis, “è Cristo stesso che è presente alla sua Chiesa, in quanto Capo del suo Corpo (Sacramentun Caritatis
23)”. Il ministero eucaristico è un umile servizio a Cristo e alla sua Chiesa. Il Vescovo vi ringrazia perché avete
infiammato di entusiasmo anche tutta la nostra popolazione cristiana per la partecipazione alle giornate del
“Congresso Eucaristico”, che avrà la sua conclusione nell’anfiteatro domenica con tutti i vescovi e il Cardinale
Salvatore De Giorgi.
La conformazione a Gesù Sacerdote conferma “la bellezza e l’importanza di una vita sacerdotale vissuta nel
celibato come segno espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio”
(Sacramentum Caritatis 24). La testimonianza dei sacerdoti deve suscitare in altri il desiderio di corrispondere
con generosità alla chiamata di Cristo.
Con questi sentimenti ascoltiamo con simpatia, attenzione e gratitudine la voce di Mons. Edoardo Menichelli.
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DISCORSO DI MONS. EDOARDO MENICHELLI
Grazie a voi presbiteri per la vostra partecipazione! Grazie a te confratello Pietro per l’invito che mi hai fatto.
Permettete che vi dica con molta semplicità che questo invito mi onora molto e mi arricchisce molto. Devo
compiere un atto di onestà che è molto semplice: io non sono un grande teologo, da sempre nella mia vita ho
cercato di dire quello che credo e di dire, possibilmente, quello che vivo; così vi parlerò.
Il tema è delicato, perché tocca l’identità della nostra vita. Noi non esistiamo se non per l’Eucaristia e in nome
dell’Eucaristia. Senza l’Eucaristia saremmo inutili, come l’Eucaristia senza di noi non ci sarebbe. Le mie parole
vogliono essere, innanzitutto, con voi un atto di fede in Gesù Cristo per ringraziarlo della fiducia che ha avuto in
tutti noi convocandoci in quella stanza superiore dove Lui ha anticipato la sua Pasqua, dove ha costituito quella
che a me piace chiamare una sua “incarnazione continua, una contemporaneità all’uomo” e dove per dare un
senso unitario al tutto ha fatto nascere la Chiesa. Giusto giovedì scorso, nel pomeriggio, insieme a un gruppo di
centoventi persone, con una fortuna che mai mi è successa nelle altre volte che sono andato in Terra Santa,
ho visitato quella che viene oggi indicata la stanza superiore, proprietà dei nostri fratelli Ebrei.
Nel Cenacolo abbiamo meditato in silenzio e lì mi sono sentito risuonare alcune parole, delle quali poi io vi
parlerò, poi abbiamo celebrato in quello che oggi viene chiamato il Cenacolino nella Chiesa tenuta dai Minori
spagnoli. E vi dico, non essendo poi la prima volta ma la diciottesima che andavo in Terra Santa, che ho provato
una grande emozione spirituale e ho cercato anche di domandarmi la verità: se il Buon Dio poteva o non poteva
fidarsi ancora di me. Ora quello che io vi dirò vuole essere una meditazione ma
anche un coinvolgimento; le mie parole non vogliono essere di giudizio su nessuno se non per me stesso, però
credo che davanti all’Eucaristia tutti noi, un qualche atto di verifica sulla nostra identità dobbiamo pur farlo. Mi
faccio illuminare da tre citazioni.
La prima è quella biblica dal Vangelo di Luca al Capitolo 22, 19-20: Gesù “preso un pane, rese grazie, lo spezzò e
lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo che è dato per voi: fate questo in memoria di me. Allo stesso modo,
dopo aver cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato
per voi”. Da sottolineare l’espressione, perché di questo oggi voglio parlare: fate questo in memoria di me!
La teologia ci ha insegnato che noi agiamo in persona Christi, che è una potestà, come diceva Paolo VI, la
strabiliante potestà di consacrare, che non è una vanità ma è un affidamento, un atto di fiducia da parte di Gesù
Cristo, un coinvolgimento diretto in questo suo ministero di salvezza.
La seconda citazione che forse abbiamo dimenticato, poiché quella del Vangelo non la dimentichiamo e la
ripetiamo tutti i giorni celebrando “fate questo in memoria di me”, è un’espressione che forse abbiamo
dimenticato, quantomeno parlo per me e, poiché con Pietro siamo amici, parlo anche per lui. Quando siamo
stati ordinati sacerdoti, alla fine del tutto ci è stata consegnata quella che io chiamo la strumentazione, sarebbe
ciò che serve per il mestiere, dopo che le nostre mani profumavano del crisma che richiama le consacrazioni
bibliche, ci è stato detto dandoci in mano il calice e la patena con dentro il vino e con sopra un pezzo di pane:
“Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico”. E poi: “Renditi conto di ciò che farai, vivi il mistero
che è posto nelle tue mani e sii imitatore del Cristo immolato per noi”. In queste parole “renditi conto” è tutta
quella potestà che ci è stata data e che noi dobbiamo esercitare. Renditi conto di ciò che farai, vivi il mistero che
è stato posto nelle tue mani, sii imitatore di Cristo che si è immolato per noi: quasi a dire che la formula
eucaristica che pronunciamo deve diventare una formula di vita.
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Questo potrebbe essere il tema di un corso di esercizi spirituali. A me fa molta impressione questa parola
della Chiesa che ci avverte alla fine della consacrazione e ci dice: “questa è la formula eucaristica, ma ricordati
che questa formula eucaristica deve diventare la formula della tua vita”. L’Eucaristia sarebbe come a dire
“l’icona di Gesù”, ma vi è in più l’icona di colui che questa eucaristia celebra, che questa eucaristia tiene nelle
mani, attenti vi prego: in questa eucaristia Dio in Gesù mi obbedisce. Ci avete mai pensato per quella formula
che Dio in Gesù mi obbedisce, cioè si fa presente, io lo chiamo e lui viene, a prescindere dalla mia persona santa
o meno santa.
C’è una terza citazione che prendo dalla Pastores dabo vobis, altro documento da riprendere in mano, vi prego
non fate la meditazione su quei libruncoli sentimentali, rimeditiamo i documenti del Concilio e questa lettera
del Papa che è di una ricchezza strabiliante: “Mediante la consacrazione sacramentale, il sacerdote è
configurato a Gesù Cristo in quanto Capo e Pastore della Chiesa e riceve in dono un « potere spirituale » che è
partecipazione all’autorità con la quale Gesù Cristo mediante il suo Spirito guida la Chiesa” (c. 21). Noi non
dobbiamo mai dimenticare che siamo prestatori di voce alla potenza dello Spirito.
Noi siamo posti davanti a queste tre citazioni che si arricchiscono tra loro, ma qui carissimi nasce un
problema ed è questo che mi preme affidarvi, il problema qual è? È quello che Benedetto XVI cita nella
Sacramentum Caritatis, lettera del Papa che il vostro Vescovo ha riassunto brillantemente in questo opuscolo
che ha preparato, là dove dice: “i sacerdoti abbiano coscienza che tutto il loro ministero non deve mai mettere
in primo piano loro stessi e le loro opinioni, ma Gesù Cristo”. Voglio farvi giocare su due parole. Una l’abbiamo già
sentita. La Pastores dabo vobis dice che mediante la consacrazione il sacerdote è configurato, è fatto sulla
“figura cristica”, modellato lì e riceve attraverso questa configurazione quella potestà, quella meravigliosa
potestà di consacrare e di perdonare. Ma questo carissimi sacerdoti non basta, la configurazione avviene per
grazia non per meriti. Quante volte nelle nostre prediche diciamo: “perché il Signore ha scelto proprio me che
non ero il migliore in seminario? Signore perché hai scelto me?”. E ci mettiamo a misurare qual è la figura più
adatta: Pietro, Paolo, Giuda, Bartolomeo
La configurazione è grazia, ma accanto a questa parola configurazione ce n’è una seconda che è tutto quello che
viene dopo l’ordinazione, cioè quello che noi chiamiamo il ministero ed è la conformazione.
La configurazione è per grazia sacramentale e dall’altra parte la conformazione che è il celebrare nel miglior
modo possibile, di modo che al dono di grazia corrisponda la mia forma vitae. Se la nostra forma vitae non la
mettiamo in parallelo con tutto quello che noi dobbiamo essere, c’è sempre uno stridore: questo è il punto di
fondo, più la mia identità si avvicina all’identità di Cristo che per grazia mi ha scelto, più io sono conforme a Lui.
La conformazione dipende dal mio impegno e anche dalla grazia di Dio che passa per le mie mani. Mettere in
rete, come si dice oggi, la configurazione con la conformazione io la chiamo questione di identità.
Io sono convinto che per quell’amore ripetitivo, quasi monotono, come avviene nei matrimoni, può avvenire
anche in noi che se ci abituiamo al mestiere, siamo dentro una specie di circuito ministeriale che, senza farci
qualche volta respirare, ci fa fare tante cose e spesso dimentichiamo ciò che è sostanziale rispetto a quella
configurazione a Cristo. Io vorrei che ci domandassimo “chi sono io?” Perché qui a forza di dare le leggi agli altri,
a forza di dire come devono essere gli altri, noi rischiamo di dimenticare come dobbiamo essere noi. Noi siamo
capaci di dire quale è la morale degli altri, ma siamo capaci di dirci quale è l’etica per noi? Quali sono i peccati
dove io sto, se il mio servizio di vescovo lo faccio in coscienza bene, se il mio servizio di sacerdote lo faccio bene.
Quali sono le finalità che mi muovono, quale la motivazione di fondo? Questo dobbiamo tener vivo, è quello
che diciamo spesso agli sposi: “mi raccomando tenete fresco l’amore, coltivatelo”. Qual è la nostra identità?
Chi sono io? Chi sono io? Cari confratelli, ci pensiamo … io ho un potere terribile, io perdono in nome di Dio.
Possiamo farlo come spesso lo facciamo? Io celebro il mistero pasquale, ci ricordiamo che cos’è il mistero
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pasquale? È uno che sta inchiodato, morto, inchiodato sulla croce, che muore per me e per l’umanità e che poi
risorge ed è contemporaneo a me, è vivente, è la mia compagnia, il mio amore stabile. Io ho questo potere, se
non è cambio di identità questo chi altri lo può fare al mondo? Il pretarello più semplice che poco ha studiato,
il Santo Curato d’Ars che l’hanno mandato poverello perchè più di quello non alzava, abbiamo corso noi a
venerarlo, con i miei sacerdoti sono andato perchè lui aveva un’identità così forte da fare quelle cose che
nessun altro al mondo potente poteva fare. Se non è cambio di identità questo dove è il cambio di identità? Se
questo è vero mi devo domandare anche come devo essere io. Se questa è la mia carta di identità, se sulla mia
carta di identità spirituale c’è scritto nato a etc. etc. e poi c’è scritto figlio di Dio, poi c’è scritto prete, come devo
essere io allora?
Qui c’è il problema della esemplarità. Perché San Giovanni, che è l’apostolo più intimo a Gesù, quello a cui Lui
consegna la madre, perché non racconta l’istituzione dell’eucaristia? Giovanni racconta l’annuncio ma non
racconta l’eucaristia, però racconta un’altra cosa, cosa racconta? Racconta la lavanda dei piedi avvenuta in
quel contesto, lì, quasi a dire che l’eucaristia è legata strettamente al catino dell’acqua e al grembiule, cioè a
quella parola che noi diciamo … servizio. L’esemplarità è collegare l’eucaristia con questa imitazione di Cristo
Signore. Ma c’è di più: perché Gesù sta sulla croce? Perché Gesù risorge? Quello che lui fa, tutta la sua vita, ma
diciamo dall’ultima cena fino a quando ascende su, la Pasqua diciamo, che cos’è per lui? È un atto di obbedienza
al Padre. Lui fa questo per obbedire al Padre, certo non è un’obbedienza asettica, è un’obbedienza tribolata,
perché dice: “se è possibile passi da me questo calice”. L’umanità di Cristo sente il peso dei chiodi e avverte
l’ingratitudine dell’umanità, ha conosciuto già i miei peccati in anticipo ma è piena di amore, è un atto di
obbedienza. Si consegna al Padre. L’eucaristia per me che la celebro è un riassunto della mia storia attraverso la
quale io mi faccio obbediente a quella parola, a quel santo mistero, a quella santa Chiesa?
Cos’è, cos’è per noi questa obbedienza? A chi dobbiamo rendere conto noi? Dove sta la nostra obbedienza
se non entra in questo mistero? Che significato ha la nostra obbedienza se non entra dentro questa
eucaristia? La mia obbedienza è faticosa, ad esempio lo spostamento di diocesi per noi vescovi, per i sacerdoti da
una parrocchia a un’altra, se questo spostamento non lo mettiamo nello Spirito eucaristico, cari fratelli cosa
andiamo a fare? Se questo qui non lo mettiamo nello Spirito Eucaristico con i fratelli, che roba è?. Faccio un
parallelismo, quando io benedico le nozze una cosa che dico è “da oggi tra voi Giovanni e Francesca chi
comanda?”. Tu aspetti la risposta: il marito per essere buono “mia moglie” e la moglie per non dispiacere il
marito dice “tutti e due”; ma io dico: “no, da oggi chi comanda è il Signore e voi, insieme dovete entrare dentro il
progetto che Dio vi ha affidato, che noi chiamiamo grazia, vocazione, ministero”.
Cari confratelli, non vi sembra che la stessa cosa possa valere per me e per voi? Dal giorno della
ordinazione chi comanda la nostra vita, brutto dire comanda, giusto per intenderci, chi è che dovrebbe dare la
misura del comandamento? Questo è il secondo punto dell’esemplarità. Ma c’è un altro punto, un elemento
veramente fondamentale sul quale forse pensiamo troppo poco. Ma tutto questo dove lo vivo? Dove sto io?
Confratelli dobbiamo dirlo con gioia, perché questa è la nostra abitazione: tutto questo io lo vivo nel mistero
della Chiesa. San Giovanni dice: “Dio nessuno lo ha visto, ma Gesù Cristo ha affidato il mistero alla Chiesa. E
allora la mia identità è riconoscibile ed è visibile nel mistero della Chiesa.
Tutto quello che noi diciamo e facciamo non ci appartiene, noi non siamo proprietari di nulla, ed è per questo
che la nostra non è una professione, perché se noi fossimo dei professionisti, cioè se vendessimo un nostro
prodotto, io farei in modo che il mio fosse migliore del suo, o no ? e lui migliore del mio in modo
che si venda di più. In realtà quello che noi facciamo non è nostro. È nostra la parola di Dio? La parola di Dio
dobbiamo conoscere, quella dobbiamo servire, quella non dobbiamo manipolare, perché non è una parola
commerciabile, è parola di Dio. È per noi una parola dura e questa parola dura noi dobbiamo annunciare, quella
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parola che è profetica perché è per tutte la stagioni della vita, lì c’è tutta la verità che poi noi dobbiamo aiutare
a calare nella storia, ma senza manipolarla. L’eucaristia è nostra? No. La misericordia è nostra? No. Io perdono a
nome di un altro, trasmetto la misericordia di Dio, cioè la sacramentalizzo, la faccio diventare un segno.
Ecco i tre aspetti dell’identità nostra: Chi sono? Come devo essere? Dove sto? Sollecitano me a crearmi un
corredo utile sia sul versante umano che sul versante spirituale. Sul versante umano è tutta la formazione che
noi abbiamo, sul versante spirituale è quel conformarci a Cristo, servo umile, obbediente, casto, povero ecc.
ecc. . Questo è un punto fondamentale. Confratelli facciamoci una domanda: noi siamo cosi? La nostra identità
è in rapporto a lui e in rapporto alla Chiesa? Io ho visto che accanto alla bellezza di essere sacerdote, accanto
alla santità di alcuni sacerdoti che è una santità strabiliante, qualche volta viene fuori un’immagine di sacerdote
che uno si domanda: ma questo chi è? Se non ricordo male la lettera del Papa per l’Anno Sacerdotale propone
tre indicazioni sull’identità: fede, santità, visibilità, parla anche della visibilità. Oggi c’è questa sorta di
mimetizzazione e spesso tu vedi qualche sacerdote che lo avverti subito che è senza convincimenti che non ha
consapevoli radici: sapete qual è questo sacerdote? Quello che dice “compio dei riti”; uno che compie dei riti
va a celebrare la Messa come si trova. perché non pensa a quello che fa.
Io non voglio essere esagerato come lo erano in seminario; in seminario qualche volta erano esagerati, un quarto
d’ora prima e un quarto d’ora dopo, e senza vedere nessuno, il prete prima della Messa e dopo la Messa doveva
cominciare a pensare a quello che faceva e a quello che aveva fatto. Però è vero che qualche volta non si pensa
a quello che si fa. Spesso incontriamo questa identità particolare in quel prete che io chiamo black & decker,
cioè tu puoi non saper fare il muratore, il falegname, l’idraulico, ma se hai il black & decker basta cambiare un
pezzo e quello buca, trapana, ecc. ecc., quindi sei capace di fare tutto, sei il cosiddetto “fai da te”; e talvolta
facciamo le cose così; quello che noi facciamo non è nostro, ma è visibile. E chi lo vede? La comunità!
Questo è importante, noi dobbiamo renderci conto che tutto quello che facciamo non è nostro, non lo facciamo
da soli, agiamo a nome di una comunità, io non mi posso inventare le cose. Noi non dobbiamo costruire la
comunità sulla nostra somiglianza, certo diamo il nostro timbro, siamo fatti di carne e di ossa, uno sarà più
allegro, l’altro meno allegro, quello dialogante l’altro meno, uno più mistico, l’altro meno, ma questo è
normale.
Un’altra cosa importante, che si nota anche nell’eucaristia, è che a quel sacerdote manca il grembo della
maternità della Chiesa, cioè gli manca la relazione. Questo famoso presbiterio cos’è, cos’è questo presbiterio?
Il presbiterio siamo noi, il presbiterio ci obbliga ad un amore, un amore non scelto. Io dico ai miei preti: io non
ho scelto voi e voi non avete scelto me, però io devo amare voi e voi dovete amare me, perché Gesù ha detto
“Amatevi come io vi ho amato”. Se questo è vero e noi abbiamo in mano l’eucaristia, l’eucaristia deve diventare
forma della nostra spiritualità; alla luce di questa eucaristia dobbiamo formarci una spiritualità che tocca la
vita e la nostra vita deve essere celebrata nella gratitudine. Dobbiamo trovare una forma di vita in cui la
gratitudine sia al centro del nostro pensiero.
Tutto quello che abbiamo è un dono di Dio: la vita è un dono, la vocazione è un dono, la figliolanza divina è un
dono. E allora diventa necessario che, alla luce dell’eucaristia, la nostra vita appaia come un dono di grazia. La
riconoscenza deve stare alla base del nome stesso dell’eucaristia in cui confluisce tutta la spiritualità di
quello che noi chiamiamo “le meraviglie di Dio”. Dobbiamo vivere un’esistenza grata anche se, nel tempo in
cui viviamo, la gratitudine non è di moda. Oggi c’è un’esaltazione dei diritti e un’omissione dei doveri. Tutti
pretendono qualcosa, abbiamo tolto alla nostra categoria umana ciò che è problematico, ma siamo tutti
sottoposti alla fragilità. Abituiamoci a dire ”grazie”, a celebrare l’eucaristia come atteggiamento e godimento di
questa meraviglia di Dio.
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Gesù dice: “Prendete e mangiate, prendete e bevete”. E poi c’è questo famoso verbo spezzare. Questa parola
spezzare dobbiamo farla diventare vita. Cosa vuol dire “spezzare l’eucaristia”, leggendola alla luce della mia
esistenza? Vuol dire che la mia esistenza o è donata o non è cristiana. Gesù si dona e raggiunge l’espressione
massima di questo dono nel sacrificio della croce di cui l’ultima cena è l’anticipazione sacramentale. Non è
possibile ripetere le stesse parole di Gesù senza sentirsi coinvolti in questo movimento spirituale. La nostra vita
ha un senso se sappiamo farci dono, mettendoci a disposizione della comunità e al servizio di chi ne ha bisogno.
Su questo si può fare l’esempio del matrimonio, a me piace molto la Pastorale familiare: invitate gli sposi, e
questo vale anche per noi, a chiedersi cosa vuol dire offrirsi, cosa vuol dire consacrarsi, cosa vuol dire
comunicarsi. Nel Sacramento Nuziale l’offerta dice all’uomo “ti doni alla tua donna” e alla donna “ti doni al
tuo uomo”, e allora tutti e due si offrono a Dio che li accoglie e li consacra. Cosa vuol dire li consacra? Cambia
la loro identità, sono un uomo e una donna, ma attraverso il matrimonio diventano sposi: ecco la sponsalità. E
cosa vuol dire comunicarsi? Dio diventa intimo a me, Gesù dice: Prendete il mio corpo, mangiate la mia persona,
Io divento voi e voi diventate Me. Lo sposo diventa unito alla moglie e viceversa. Questo vale anche per noi
sacerdoti.
Tu ti devi donare a quelli che ti ascoltano e a quelli che non ti ascoltano, a quelli che ti amano e a quelli che ti
criticano. Non chiedete mai la carta d’identità alle persone che avete davanti, amatele e ascoltatele chiunque
esse siano. Ascoltate e accogliete tutti in nome dell’eucaristia. Gesù si dona, si spezza, anche tu spèzzati! E il
nostro spezzarsi è sentire le persone, accoglierle con molta pazienza, quello è separato, risposato, vuol fare da
padrino… se non li accetti non è che li mandi via, ma che sono loro che sono andati via, che hanno fatto una
scelta non evangelica e perciò non li possiamo dispensare se non cambiano vita.
È necessario che celebrando l’eucaristia noi facciamo della nostra vita un’esistenza memore, dobbiamo
ricordarci: “fate questo in memoria di me”. Il contesto in cui sono state pronunciate queste parole era quello
dell’ultima cena pasquale, che per gli ebrei era un “memoriale”, e anche per noi cristiani l’eucaristia è un
memoriale, non è ricordo soltanto, ma una attualizzazione. Anche attraverso l’eucaristia che consacro, la mia
vita, la mia esistenza deve essere una realtà consacrata, sull’altare è presente realmente e sostanzialmente il
Cristo risorto e io devo, con la mia vita, realizzare questa presenza.
E infine chiudiamo dicendo che un’esistenza eucaristica la imparo alla scuola di Maria. Maria “donna
eucaristica” deve essere la nostra guida. E io credo che se la nostra spiritualità diventasse più mariana
sarebbe, ad un tempo stesso, mariana e sacerdotale, perché la grandezza di Maria sta solo in una parola:
“Eccomi”. E quell’eccomi è stato illuminato dalla domanda che Maria ha fatto: “come può avvenire questo?”,
ma è stato arricchito dallo Spirito Santo. Lo auguro per me e lo auguro per voi cari fratelli. Grazie. E vi
attendo al “Congresso Eucaristico Nazionale”, il cui tema è “Signore da chi andremo? L’Eucaristia per la vita
quotidiana”.
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RINGRAZIAMENTO DI MONS. PIETRO MELONI
Grazie! Credo che sia il grazie che sgorga dal cuore di tutti i nostri confratelli sacerdoti, diaconi e seminaristi,
per Mons. Edoardo che ci ha fatto un po’ sorridere e un po’ piangere, ma ci ha orientato sulla strada di quella
conversione perenne che è il ritrovare la gioia del nostro ministero eucaristico. Ringraziamo ancora don Edoardo
che sa ancora sorridere, ma è molto seria la prospettiva che ci ha aperto e conferma lo stile del ”Congresso
Eucaristico Nazionale”, che è lo stile degli apostoli, è lo stile del Signore”: Signore da chi andremo? Ed ora che
siamo nel “Congresso Eucaristico di Nuoro” viviamolo con immensa gratitudine al Signore, perché nelle sue
giornate già vissute si sta manifestando una grande grazia del Signore, con l’entusiasmo che voi avete infuso
nella vostra gente, anche nei giovani e nei bambini. E ci prepariamo al “Congresso Eucaristico Nazionale”
intensificando la preghiera e la meditazione su quei preziosi documenti che la Chiesa ci ha offerto in questi
anni, soprattutto l’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis del Papa Benedetto XVI.
INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA E DELLA SCUOLA
MONS. IGNAZIO SANNA ARCIVESCOVO DI ORISTANO
Nuoro, Teatro delle Grazie, 23 settembre
SALUTO DI MONS. PIETRO MELONI
Benvenuti! Grazie per la vostra presenza a questo incontro, che è fondamentale nel cammino del
“Congresso Eucaristico Diocesano”. E benvenuto il nostro ospite che è di famiglia, Mons. Ignazio Sanna,
arcivescovo di Oristano, delegato dai Vescovi della Sardegna per la “Pastorale della Cultura”, che è stato Pro
Rettore della prestigiosa Pontificia Università del Laterano ed è membro della Commissione Teologica
Internazionale. Lo ringraziamo per la sua partecipazione al nostro “Congresso Eucaristico” e per la parola
illuminante che ci offrirà.
Ringrazio voi tutti, sacerdoti, persone della Scuola,
dell’Università, della cultura,
dell’arte, della
comunicazione sociale, come dice l’invito con il programma del “Congresso Eucaristico”, che oggi ha per titolo:
L’Eucaristia fonte e culmine del ministero. Questa mattina c’è stato l’incontro dei sacerdoti e dei diaconi. Il
pane dell’Eucaristia è “fonte e culmine” della vita cristiana per noi tutti credenti e apostoli del Vangelo. Oggi è
chiamata la scuola e l’università a questa riflessione, e poi tutti quelli che si riconoscono nel cammino della
cultura e della comunicazione sociale, per meditare sul rapporto tra Eucaristia e vita, eucaristia e presenza nel
mondo, eucaristia e missione, ognuno nella sua strada di servizio alla società. L’eucaristia, dice il Papa
Benedetto XVI, è mistero da offrire al mondo per la restaurazione della giustizia, per la riconciliazione e il
perdono, e diventa nella vita ciò che essa significa nella celebrazione. Al termine di questo incontro, verrà
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consegnato anche il piccolo libriccino che raccoglie l’essenza della bellissima esortazione apostolica del Papa
Sacramentum Caritatis, e c’è anche la preghiera del nostro Congresso Eucaristico.
Grazie a Mons. Ignazio Sanna, e grazie a Don Francesco Mariani che guiderà la riflessione comunitaria.
SALUTO DI DON FRANCESCO MARIANI
Grazie a sua Eccellenza Mons. Pietro Meloni per queste bellissime parole di introduzione. Il momento di
stasera è particolarmente delicato e importante: far sì che il “pane del cielo” diventi “pane sulla terra” e
diventi nostro modo di ragionare, di pensare, di comportarci, questa è la rivoluzione, il cambiamento e la
conversione che ogni giorno ci viene chiesta, e questo probabilmente è anche il terreno dove il confronto, lo
scontro, il dissenso, può essere più abituale per capire come Dio, il suo pane, la sua parola, possano diventare il
nostro modo di parlare, il nostro modo di ragionare, il nostro modo di essere. È la scommessa quotidiana. E la
Chiesa queste scommesse ogni giorno le fa. Il Congresso Eucaristico è questa grande occasione. Adesso la
parola a Mons. Ignazio Sanna. Io provo un po’ d’imbarazzo nel chiamarlo “monsignore”, visto che sono stato
chierichetto quando lui è stato ordinato prete in quel di Orune.
MONS. IGNAZIO SANNA
Saluto anch’io con viva cordialità il Vescovo Pietro Meloni e l’amico Don Francesco, saluto cordialmente anche
tutti voi e vengo subito a precisare il tema che svolgerò in questo incontro. Il titolo è: “Promuovere un’esistenza
eucaristica”. Lo svolgerò in due momenti. In un primo momento dirò in che cosa consiste questa esistenza
eucaristica e in un secondo momento esplorerò il confronto tra questa realtà che vuol dire gratitudine, che
vuol dire riconoscenza, serenità e gioia, e il problema della sofferenza, il problema del male. La domanda è se è
possibile fare Eucaristia a partire da una esperienza di dolore.
Ecco la prima parte: che cosa significa oggi vivere e promuovere una esistenza eucaristica. Sant’Agostino,
contemplando il mistero eucaristico, esclamava davanti ai suoi fedeli: “O Sacramento di bontà, o segno di
umanità, o vincolo di carità, chi vuol vivere ha qui dove vivere, ha qui dove attingere la vita”. Il Cardinale
Giacomo Lercaro, predicando un corso di esercizi spirituali nell’estate del 1965, affermava: “l’antichità
cristiana non ha conosciuto altre cose, aveva la Messa alla Domenica e creava con quella i martiri, i
confessori, i vergini, gli apostoli”. L’Eucaristia non può rimanere un semplice rito, una semplice celebrazione,
deve diventare uno stile di vita, un modo di essere e di agire; bisogna perciò passare dall’eucaristia celebrata
alla Eucaristia vissuta, ossia dalla celebrazione del rito alla celebrazione della vita.
La celebrazione del rito si serve di simboli universali quali sono il pane e il vino, che in ultima analisi
rappresentano il cibo. In effetti l’Eucaristia è anche cibo, è nutrimento, ma il cibo dell’uomo non è solo il pane.
L’uomo infatti non è solo biologia, è soprattutto biografia, è libertà, e oltre che di mezzi ha bisogno di significati,
perché non si vive di solo pane, ma di “ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Una visione solo materialistica
della vita, preoccupata esclusivamente del benessere fisico, riduce il nutrimento alla sola gratificazione dei
bisogni e degli stimoli dell’organismo. Una visione spirituale della vita invece, aperta ai bisogni dell’anima,
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considera il nutrimento umano come una risposta sincera alla domanda di senso e di interiorità e di
spiritualità!
Il filosofo e sociologo Edgar Morin sostiene che la concezione antropologica di Marx era unidimensionale.
L’immaginario e il mito non facevano parte della realtà umana. L’essere umano era solo materia, senza
interiorità, senza spiritualità. Sappiamo invece, come hanno mostrato Pascal e Dostoevskij, che l’homo
sapiens è un essere complesso e multiplo, che porta con sé un cosmo di sogni e di fantasmi.
Se l’Eucaristia è uno stile di vita, un modo di essere e di agire, allora dobbiamo capire bene: primo che cosa sia
in concreto questo stile di vita, secondo come esso debba essere vissuto, terzo a chi esso debba essere
testimoniato. Prima di tutto, per rispondere alla domanda su che cosa sia lo stile di una esistenza eucaristica,
uno stile acquisito dalla celebrazione del rito, vorrei partire dall’affermazione di Sant’Ignazio di Antiochia, per il
quale il cristiano è colui che “vive la domenica”, ossia colui che alimenta la sua fede alla fonte dell’Eucaristia.
L’esistenza del cristiano alimentata dall’Eucaristia è in primo luogo un’esistenza contrassegnata dalla gratuità e
dal dono. In un’epoca di antropologia materialista in cui molti negano la dimensione spirituale e propongono
miraggi di felicità e di benessere, l’esistenza eucaristica propone un valore aggiunto, ed è il valore della
gratuità, del dono, di quei beni che non si possono acquistare con il denaro. Uno può avere miliardi, ma se non
ha una persona che gli dica “ti voglio bene” è la persona più povera del mondo. L’uomo è un essere di
relazione prima che di produzione.
Nel corso della Visita Pastorale ad una parrocchia sono andato a trovare un malato di sla, e questi quando ha
saputo che sarebbe arrivato il Vescovo ha chiesto che i vicini di casa esponessero i tappeti ai balconi e alle
finestre e che la strada antistante la sua casa fosse seminata di petali di rose. Considerava la visita del vescovo
un grande dono e desiderava mostrare la sua gratitudine per questo rapporto di amicizia, per questa visita che
lo faceva sentire ancora una persona degna di essere visitata. La malattia gli aveva affinato l’interiorità e la
spiritualità, lo aveva reso capace di gesti e sentimenti che solo la fede può rendere possibili. Finché nella nostra
società ci sono uomini che guardano le vicende della vita con simile coraggio, potranno verificarsi anche le
peggiori crisi economiche, ma si potrà sperare che la bellezza dell’anima salverà il mondo.
Nel mondo la domanda di senso e di interiorità cresce sempre di più, e la si sente quando si va al lavoro, quando
si fanno gli acquisti, quando si sta in famiglia, quando si va allo stadio, quando si ama e quando si odia. Se è
vero che la società delle immagini e dell’apparire non ha seppellito la necessità del pensiero, è anche vero che
essa non salvaguarda la dimensione trascendente dell’uomo, la sua origine trascendente, ossia la sua
creaturalità che fa riferimento a Dio creatore, che è messa in pericolo da una concezione materialistica della
natura dell’uomo. La negazione del trascendente infatti non è che un preliminare, che alla fine conduce a
una proposizione sull’uomo tutta basata sull’immanenza, sul materialismo, sul consumismo.
Quando si incontra una persona si dice: coma va? come stai? hai dormito, hai mangiato, stai bene? Sono
domande importantissime. Però non è solamente questo che costituisce l’essenza di una vita di libertà, di una
vita di relazione, di una vita spesa nei rapporti umani e nella dimensione dell’amicizia. Invece con la
promozione della gratuità e del dono, l’esistenza eucaristica è chiamata a contrastare la logica del mercato, che
con la sua mano invisibile mercifica tutti i rapporti sociali e anche la stessa natura dell’uomo. Una tale logica
ha contribuito ad annullare la fondamentale differenza antropologica e che è alla base della verità cristiana,
per cui è l’uomo, dice il Concilio, l’unica creatura che Dio ha voluto per se stesso. Anche secondo l’antropologia
kantiana ciò che non ammette un’equivalente pari alla dignità dell’uomo, non può essere compensato con altro,
non è interscambiabile. Secondo l’antropologia cristiana da sempre la dignità dell’uomo non appare compatibile
con il mercato totale, che commerciando persino le parti del corpo umano espande la forza dei forti e la
debolezza dei deboli.
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La logica del mercato ha promosso l’antropologia dell’avere, che è alla base dell’uomo degli affari, e ha
penalizzato l’antropologia dell’essere, che è alla base dell’uomo dei principi; ha mercificato la trascendenza degli
ideali e dei costumi, perché ha reso tutto mercantile e valuta anche i sentimenti dell’anima secondo la logica
dei costi e dei ricavi. La logica del mercato ha messo in vendita gli stessi stili di vita. Insieme ad una casa,
ad un abbigliamento, ad un’automobile, si acquista anche un modello di vita. L’esistenza eucaristica deve
impedire che l’organizzazione della società avvenga solo attraverso il mercato e provochi inevitabilmente un
impoverimento simbolico della vita comune. Con il prevalere della logica mercantile i criteri di valore alla base
dei comportamenti personali e sociali perdono quella sostanza etica che sola può trasformare gli uomini di affari
in uomini di principi.
All’origine di tanti processi di degrado della civiltà occidentale c’è la prevalenza del principio del mercato. Per
fortuna questo principio è contrastato da molte scelte di gratuità e di generosità, che si riscontrano in tanti
uomini e tante donne che senza fare i calcoli di costi e benefici, per semplice idealità umanitaria, assistono i
malati negli ospedali, si prendono cura dei profughi e dei senza famiglia, accorrono con sollecitudine nei luoghi
colpiti da gravi calamità naturali, alleviano pazientemente la solitudine dei carcerati, degli anziani, degli
emarginati. Tali forme di volontariato e di altruismo, ispirate da onesti sentimenti umanitari, sono degne di
ogni lode e di ogni sostegno; i cristiani non possono non condividere questi comportamenti e prestare la loro
collaborazione, contenti che ciò che è autenticamente umano è autenticamente cristiano, e ciò che è
autenticamente cristiano è anche autenticamente umano. Essi devono prestare attenzione tuttavia a non
ridurre l’esercizio del cristianesimo ad una sorta di religione civile, alla sola difesa dei valori umani, al solo
esercizio del volontariato umanitario. Le opere di carità mantengono una chiara e profonda motivazione
evangelica e testimoniano sempre la presenza trascendente e misteriosa di Cristo nel volto di ogni uomo che
soffre.
Penso che spesso ci sia il tentativo di riduzione del cristianesimo e della vita cristiana a una forma di
promozione sociale. L’altro giorno ho ricevuto una lista di firme di giovani che dicono di un prete: questo non si
tocca. Doveva essere trasferito e questi giovani fanno questa lista di firme ed elencano ciò che questo
sacerdote ha fatto: calcetto, assistenza ai senza tetto, serate in allegria, grigliate di pesce e così via. Ma possibile
che in questa parrocchia dove ci sono 150 giovani che firmano non ce ne sia uno che venga a Messa, che
partecipi alle iniziative della diocesi? Che cosa fa il prete? C’è il rischio di ridurre la vera spiritualità e la vera
interiorità ad un ammortizzatore sociale. Il prete è qualcosa di più! E il cristianesimo è ancora qualcosa di più,
però di fatto vengono promossi dalla stampa coloro che si presentano come benefattori dell’umanità. Noi
siamo chiamati ad annunciare il Vangelo, a dare un messaggio di salvezza che spesso contrasta con i messaggi
che provengono dalla opinione pubblica corrente, dai luoghi comuni, dalle mode culturali. È difficile andare
controcorrente, ma è necessario se vogliamo conservare la vera specificità e originalità del messaggio
cristiano.
Secondo punto. Per capire come dev’essere vissuta un’esistenza eucaristica, ci viene incontro il simbolo del
pellicano, un uccello che vive in Europa orientale, in Asia sud occidentale e in Africa, al quale si attribuisce un
importante significato allegorico. San Tommaso utilizzò l’allegoria del pellicano per descrivere l’efficacia del
sacrificio di Cristo. Conosciamo tutti: Pie pellicane Jesu Domine! Dante la cita in riferimento all’episodio
dell’ultima cena, in cui l’apostolo Giovanni reclinò il capo sul petto di Gesù, e nel cantico 25˚ del Paradiso dice
cosi: “Questi è colui che giacque sopra il petto del nostro pellicano e questi fue in sulla croce al grande ufficio
eletto”. Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro piccoli i pesci che
trasportano nella sacca, ha indotto la credenza che i genitori si lacerino il torace per nutrire i figli col proprio
sangue. E questo è diventato un emblema, un simbolo di carità. Pertanto il pellicano è assunto a simbolo della
abnegazione con cui si amano i figli. Per questa ragione l’iconografia cristiana ne ha fatto l’allegoria del
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supremo sacrificio di Cristo salito sulla croce e trafitto al costato, da cui sgorgano il sangue e l’acqua, fonte di
vita per gli uomini.
Questa allegoria sta ad indicare che la vera esistenza eucaristica nell’esercizio dell’amore di Dio e del
prossimo consiste nel dare se stessi, la propria esperienza, il proprio corpo. Si può certamente dare qualcosa di
noi, delle nostre sostanze, dei nostri beni, del nostro superfluo, con generosità e con grande manifestazione di
amore. E si può anche dare tutto se stessi secondo la logica evangelistica dell’obolo della vedova, e questa forma
di generosità è la manifestazione suprema dell’amore.
Benedetto XVI ha scritto che nell’offerta che Gesù fa di se stesso troviamo tutta la novità del culto cristiano.
Nell’antichità gli uomini offrivano in sacrificio alle divinità gli animali o le primizie della terra, Gesù invece offre se
stesso, il suo corpo e l’intera sua esistenza. Egli stesso in persona diventa quel sacrificio che la liturgia offre nella
Santa Messa. È dunque fondamentale, dice il Papa, che negli itinerari di educazione alla fede dei bambini, degli
adolescenti e dei giovani, come pure nei centri di ascolto della parola di Dio, si sottolinei che nel Sacramento
dell’Eucaristia Cristo è veramente, realmente e sostanzialmente presente.
È necessario che si diffonda l’impegno ad annunciare la fede eucaristica e che ogni uomo incontri Gesù Cristo
che ci ha rivelato il Dio vicino, amico dell’umanità e di testimoniarla con una eloquente vita di carità. Non va
dimenticato che la comunione con Cristo, specifica Benedetto XVI, è sempre anche comunione con il suo corpo
che è la Chiesa. Come ricorda l’apostolo Paolo dicendo: “il pane che noi spezziamo non è forse comunione con
il corpo di Cristo? Perché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo, tutti infatti partecipano
all’unico Pane”. È infatti l’eucaristia che trasforma un semplice gruppo di persone in comunità ecclesiale, ed
ancora di più anche in comunione. Comunità è frutto di una iniziativa umana, comunione è frutto di un dono
divino, di un dono dall’alto. E si è veramente destinati e impegnati a superare i limiti di ogni forma di comunità
umana ed arrivare a una forma sublime di comunione eucaristica, perché allora veramente c’è la possibilità di
essere in un rapporto di totale gratuità, di totale reciprocità. L’eucaristia fa la Chiesa! È dunque fondamentale
che la celebrazione della Santa Messa sia effettivamente il culmine e la struttura portante della vita di ogni
comunità parrocchiale.
Terzo riguarda il fine. A quali persone dobbiamo testimoniare l’esistenza eucaristica? La vita e la fede ci offrono
una indicazione molto chiara. È Cristo stesso che ogni giorno nei poveri ci chiede di essere sfamato e
dissetato, visitato negli ospedali e nelle carceri, accolto e vestito. È significativo, per esempio, che molte volte i
ministri straordinari dell’Eucaristia, alla fine della celebrazione dell’Eucaristia domenicale, escano e vadano a
portare la comunione ai malati nelle loro case. Non è un semplice rito, ma è un momento di condivisione, un
momento di solidarietà, nel quale veramente l’Eucaristia diventa compagnia, diventa generosità, diventa anche
la capacità e la possibilità di vivere quella esperienza con sentimenti di gratitudine. L’Eucaristia celebrata ci
impone, e al tempo stesso ci rende capaci, di diventare a nostra volta “pane spezzato per i fratelli”, venendo
incontro alle loro esigenze e donando a loro noi stessi. Per questo una celebrazione eucaristica che non
conduce ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffrono, per portare loro l’amore di Dio, non
manifesta la verità che racchiude.
Per essere fedeli al ministero che si celebra sugli altari, dobbiamo, come ci esorta l’apostolo Paolo, offrire i
nostri corpi, noi stessi in sacrificio spirituale gradito a Dio, in quelle circostanze che richiedono di far morire il
nostro io e costituiscono il nostro altare quotidiano. I gesti di condivisione creano comunione, rinnovano il
tessuto delle relazioni interpersonali improntandole alla gratuità e al dono, permettono la costruzione della
civiltà dell’amore. In un tempo come il presente di crisi economica e sociale dobbiamo essere solidali con coloro
che vivono nell’indigenza per offrire a tutti la speranza di un domani migliore e degno dell’uomo.
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E vengo alla seconda parte: l’esistenza Eucaristica e la croce. Secondo il teologo Carlo Rahner vivere è lodare,
quindi è Eucaristia; lodare e non lodare si contrappongono come vivere e morire. In questa prospettiva tutti i
momenti della vita sono celebrazioni di lode e di riconoscenza. San Francesco ha dato veste poetica nel
Cantico delle creature a questa lode al Signore:
Altissimu onnipotente bon Signore tue son le laudi la gloria e l’onore e omne benedizione.
A te solo Altissimu se confano
e nullu homo ene dignu te mentovare.
Ci sono però momenti, come quelli descritti dal salmo 136 ed immortalati dal genio musicale del Verdi, nei
quali è difficile cantare inni e cantare canti del Signore nella terra straniera. Il dolore fisico e morale ci opprime
e produce solitudine e sconforto. L’esperienza del male del mondo e il rimorso della propria colpa tolgono la
fiducia del presente e la speranza del futuro; eppure, nonostante tutto, bisogna trovare il coraggio di lodare il
Signore anche nel momento della prova, compresa quella suprema della morte.
Se viviamo con Gesù nessuna sofferenza è inutile tanto da dover essere eliminata, neppure la sofferenza della
morte. La sofferenza della morte va vissuta integralmente. Gesù Cristo è diventato solidale con tutti gli uomini
che soffrono e anelano alla liberazione e alla salvezza. Sul Golgota, accanto a Gesù, sono state crocefisse altre
due persone. Gesù non è morto da solo, come tutti gli uomini e tutte le donne, sia cristiani che non cristiani. I
ladroni avevano due cose in comune, i loro corpi e le loro sofferenze. Si può differire da Gesù per lingua, cultura
e periodo storico, ma ognuno di noi ha un corpo e delle sofferenze, e questo crea una radicale solidarietà tra lui
e tutti gli esseri umani. La storia del mondo è una storia di sofferenze umane, da quelle molto intime per
tradimenti e delusioni, a quelle pubbliche di milioni di uomini che soffrono per sfruttamenti e ingiustizie di vario
genere, da quelle dei luoghi di cura, di pena, dei ghetti di popolazioni emarginate, a quelle dei drogati che
vogliono scappare da un mondo terribile e disumano.
Gesù, come dice la Lettera agli Ebrei, ha sofferto fuori dalla porta e la sua passione lo ha reso parte di quella
storia totale di sofferenza ordinaria e straordinaria sopportata da uomini e donne nella loro vita di ogni giorno. I
due ladroni crocifissi con Gesù rappresentano quell’intera storia di sofferenza che si estende dagli inizi fino alla
fine, quando “Dio asciugherà ogni lacrima e non vi sarà più né morte, né lutto né grida di dolore”, come ci
prospetta l’Apocalisse. Gesù Cristo è presente nel mondo non solo attraverso i “segni del verbo” sparsi nelle
culture di tutti i tempi, ma anche e soprattutto nel volto degli esseri umani crocifissi.
Coloro che soffrono sono portatori privilegiati della presenza di Cristo, e allora le domande non sono sulla
ortodossia e sulla fede, ma sono sulla carità. Come la croce è il contrassegno della vita di Gesù, tanto che lo si
conosce veramente come “il Crocefisso”, così anche la vita del cristiano, unita a lui mediante la grazia, è
contrassegnata dalla croce. Il dolore che coglie il cristiano non dev’essere considerato da lui come una disgrazia
naturale, il destino comune ad ogni uomo, bensì la conseguenza e l’espressione dell’unione a Cristo mediante la
grazia, la preparazione necessaria per essere glorificato insieme con lui. Questo vuol dire che noi “completiamo
ciò che manca alla passione di Cristo”, vivendo ciò che Cristo ha vissuto, e in questo noi siamo solidali con lui
mentre Lui è solidale con noi e trasforma ogni momento di sofferenza in momento di grazia e di speranza.
La sofferenza e la morte sono segno distintivo essenziale dell’esistenza cristiana in quanto espressioni vitali
della nostra unione con Cristo per la grazia. Questa unione con Cristo fa sì che il cristiano assuma un
atteggiamento particolare, tra virgolette “diverso”, di fronte alla sofferenza della vita, e abbia una
motivazione in più per affrontarle con serenità. Esiste infatti un “plus” nel dolore e nella contingenza anche
nella nostra vita, un plus che non può essere dominato solo da un atteggiamento di freddezza e di eroismo.
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Dio non ha bisogno di eroi, ha bisogno di santi. E gli uomini sono santi nella misura in cui rispondono con
generosità alla sua grazia e fanno la sua volontà in tutti i momenti della loro esistenza. Se Gesù, autore della
nostra salvezza, giunse alla perfezione per mezzo di sofferenze, il cristiano che si è rivestito di Lui nel
Battesimo non può pretendere di arrivarvi per vie diverse. La sequela di Gesù è anche la sequela del Crocefisso,
prima di arrivare alla resurrezione.
La morte in senso teologico si verifica nel corso di tutta la vita e solo alla fine raggiunge il suo
compimento. E la pietà cristiana ha agito in maniera oggettivamente legittima quando in tutta la sua storia ha
cercato di realizzare la sequela del Crocefisso nella vita cristiana nell’accettazione di tutto quello che il
linguaggio cristiano continua a chiamare anche oggi la croce. Nelle esperienze della fragilità dell’uomo, della
malattia, dei disinganni, delle aspettative andate deluse, l’uomo muore un poco e i beni tangibili della vita si
diradano. Se in queste circostanze abbandoniamo con tranquillità quanto ci viene tolto, accettiamo il crepuscolo
come la promessa di un natale eterno, pieno di luce, valutiamo le piccole scomparse come eventi della grazia,
prendiamo su di noi la croce quotidiana, allora facciamo un passo avanti nella sequela del Crocifisso, allora
esercitiamo la fede e la speranza piena di amore in cui la morte viene accettata come evento della vita eterna e
la sequela di Gesù Crocefisso giunge alla sua perfezione.
In ultima analisi per la sequela del Crocifisso bisogna avere la cultura della sofferenza illuminata dalla sapienza
della croce. Gli uomini di oggi vogliono rimuovere il dolore e la sofferenza a tutti i costi, e perciò chiedono alla
medicina di inventare tutti i possibili farmaci per combattere le cause e gli effetti. Oggi c’è la speranza di
prolungare la vita. In dialetto diciamo: “a chent’annos”, ma bisogna dire a “chentuvint’annos”.
I limiti comunque ci sono e manca una giusta antropologia del limite: si pensa di superare tutti i limiti, si dilata
il desiderio, e talvolta alla cultura dei bisogni si sovrappone la cultura dei desideri. Si desidera tutto senza
aver bisogno di niente, poi un desiderio non gratificato produce la depressione, la malattia del secolo, la grande
delusione alla quale sembra non ci sia rimedio.
Agli uomini la “sapienza della croce”, senza nulla togliere ad ogni doverosa e possibile ricerca di cura della
malattia, insegna che è possibile vivere il dolore, vivere la sofferenza. Il male, sia esso fisico che morale, non
sconfigge la fede, ma la provoca. L’esistenza di Dio sembra complicare la soluzione del problema del male,
perché non si capisce come mai Egli lo permetta e non lo vinca o non lo elimini. Se Dio non esiste, il problema del
male non si pone e si può incolpare delle proprie disgrazie il destino, il destino avverso. Ma se Dio esiste
bisogna avere il coraggio di lodarlo e ringraziarlo non solo nella buona sorte, ma anche nella cattiva sorte, perché
Egli, segna le vie della Providenza celebrate dal Manzoni “non toglie mai la gioia dei suoi figli se non per
prepararne loro una più grande”.
Concludo il mio intervento permettendomi di ricordarvi che se la croce senza l’amore è troppo pesante, l’amore
senza la croce è troppo vuoto. Dobbiamo disporre di forza e pazienza per sentire di meno il peso della croce e
di più il peso dell’amore. Grazie.
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EUCARISTIA E SOLIDARIETÀ
Settimo giorno
CELEBRAZIONE EUCARISTICA A MAMONE
MONS. PIETRO MELONI
24 settembre
“Mistero della fede!”. Noi cristiani diciamo così quando Gesù ci offre il “pane” e ci dice: “Il pane è la mia vita! È il
dono del mio amore”. Amici carissimi! Voi siete credenti di religioni diverse. Grazie per il dono della vostra
presenza in questa preghiera per il “Congresso Eucaristico Diocesano” della Chiesa di Nuoro. Grazie di cuore al
direttore Francesco Cocco, al comandante Bruno Mulas, grazie al nostro amatissimo cappellano don Nicola
Porcu, circondato oggi da tanti sacerdoti che vogliono conoscervi. Grazie a tutti i vostri angeli custodi, gli agenti
della vigilanza, grazie agli amici del canto e del volontariato. Grazie in modo speciale a voi, ospiti di questa
Colonia di Mamone, che conoscete il dolore, la solitudine, la mancanza della libertà, e nella preghiera dite a
Dio: “speriamo di tornare presto alla nostra casa, alla nostra terra, per vivere nell’amore e nella pace”. Grazie
e benvenuti alla mensa del pane dei cristiani. Alcuni di voi sono musulmani, amici dei cristiani, e ascoltano la
parola del libro di Muhamad: il Corano. Noi tutti sentiamo che la vita ce l’ha donata Dio, un solo Dio! Salam
alech! Alechum salam!
Dio è uno solo! E noi siamo suoi figli. Siamo figli di Dio e siamo fratelli. La famiglia degli uomini, come la famiglia
nella propria casa, vive nella gioia dell’amore alla mensa del pane. Il pane in tutto il mondo è il segno della vita
che cresce. La vita è dono di Dio! Il pane fa crescere la persona. Dio ha detto che il pane è l’amore: “non di solo
pane fatto dalla farina e dal grano vive l’uomo”. L’uomo ha fame di un pane per lo spirito: il pane dell’amore, il
pane della fratellanza, il pane della pace. È questo pane che noi ora celebriamo e consacriamo nell’altare, che è
una mensa come la tavola nella famiglia. Noi crediamo che in questa mensa il pane ce lo dà il Figlio di Dio,
Gesù il nostro amico.
Nella prima lettura, che voi avete letto, si parla di Abramo. Abramo è presente nel Corano come nella Bibbia,
Abramo è chiamato da Dio che gli dice: “Esci dalla tua terra e va’” (Gen 12, 1). Abramo parte e incontra un
uomo misterioso che sembra un sacerdote e gli offre il pane. Abramo dà il suo pane a questo ospite. Il pane è
segno dell’amicizia. Gesù un giorno ha detto: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per le persone che ama”
(Gv 15, 13). E quando si vuole bene si è pronti a dare la vita: tra lo sposo e la sposa, tra genitori e figli, e anche
tra gli amici.
Gesù ha dato la vita: è morto sulla croce. E la sera prima della sua morte ha invitato gli amici alla cena a
condividere il pane, ha preso il pane nelle sue mani e ha detto: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per
voi”. Gesù dice: “Io sto per offrire me stesso per amore a tutti voi”. E noi, che ripetiamo le parole di Gesù dinanzi
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al pane e al calice del vino, esclamiamo: “Mistero della fede!”. “Mistero” vuol dire che non comprendiamo tutta
la grandezza del dono di Dio, ma diciamo grazie!
Grazie, perché sei in mezzo a noi. Sei il nostro Dio, il Dio dell’amore, e ci dai il tuo pane che è pane di amicizia,
pane di pace, pane di vita immortale. Se Gesù non fosse morto sulla croce sarebbe ancora tra noi. Lui non è
visibilmente tra noi perché è morto ed è risorto ed è tornato al cielo. È presente perché ci ha lasciato la sua
presenza nel pane: mistero, mistero della fede! E noi vogliamo dire a Lui: grazie!
La vostra presenza, oggi, è il più bel grazie a Dio: grazie per la vita, grazie per l’amore, grazie per il pane. Oggi
voi pensate alle vostre famiglie, al babbo e alla mamma i più giovani, ai vostri fratelli e sorelle, alla sposa e ai
figli quelli che già hanno una loro famiglia, pensate a tutti gli amici vicini e lontani, e vivete tra voi nella
simpatia, nella amicizia, nella gioia. La preghiera e la fede debbono far nascere nel cuore la gioia, anche se non
abbiamo la libertà, perché aspiriamo a tornare un giorno nella nostra casa e nella nostra patria per vivere
nell’amicizia e costruire nel mondo la pace. Con l’aiuto di Dio, che ci dà il suo amore e la sua vita.
Grazie a voi tutti e buona festa!
INCONTRO CON I MEDICI E GLI OPERATORI SANITARI
MONS. SEBASTIANO SANGUINETTI VESCOVO DI TEMPIO - AMPURIAS
Nuoro, Ospedale San Francesco, 24 settembre
Premessa
La relazione che intercorre tra i due termini del tema proposto – Eucaristia e solidarietà – è evidente per la
natura stessa del sacramento dell’Eucaristia, che è il sacramento dell’amore di Dio per l’uomo, nonché la
sorgente ispiratrice di ogni forma ed espressione della carità fraterna. Non è un caso che Cristo nell’istituzione di
questo sacramento, nel contesto dell’Ultima Cena, abbia voluto collegare la sua Eucaristia al gesto della lavanda
dei piedi. La celebrazione dell’Eucaristia non è autentica ed efficace se non porta il credente a farsi prossimo dei
fratelli, mettendosi al loro servizio, rendendo la propria vita un dono agli altri, a partire da coloro che portano
sul proprio corpo e nella propria anima qualunque forma di sofferenza. Il termine “solidarietà”, molto usato nei
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nostri tempi, altro non è che una delle forme con cui si coniuga il comandamento cristiano della carità, intesa
anche come condivisione, come servizio, come farsi carico gli uni dei pesi degli altri…
È evidente che questo tema trova nell’ambito ospedaliero un suo peculiare campo di verifica e di attuazione.
Ed è su questo che vorrei soffermarmi nel mio intervento.
In una recente intervista, Eugenia Tognotti, docente di storia della medicina e scienze umane all’Università di
Sassari, a commento del tanto discusso test di ammissione alla Facoltà di Medicina, ha detto: “Una volta,
durante un esame ho chiesto a uno studente perché volesse fare il medico. La risposta è stata: perché si tratta
di un lavoro con cui si guadagna molto. Per questo – prosegue la Tognotti – oltre ai quiz bisognerebbe sottoporre
i ragazzi che hanno deciso di iscriversi in Medicina a colloqui psico-attitudinali … Il colloquio dovrebbe accertare
la vocazione e la predisposizione dello studente a fare il medico, che resta uno dei mestieri più delicati e difficili
perché richiede un confronto quotidiano con il dolore, con persone che soffrono”.
Le affermazioni così espresse potrebbero sembrare piuttosto ovvie, quasi banali. Eppure, proprio nella loro
ovvietà, mi pare che contengano alcuni elementi che meritano di essere sottolineati e che non sono così
facilmente assimilabili. Nell’intervista vengono sottolineati tre termini - il tema del dolore, la centralità della
persona che soffre, la professione medica come vocazione – i quali fanno da sfondo e da contenuto centrale
della riflessione che mi accingo a svolgere.
Sono termini che, a ben guardare, costituiscono la ragione portante della dimensione etica della professione
medica e di chiunque svolga, a qualunque titolo e responsabilità, il suo servizio in questo settore.
Non voglio arrivare a dire che la vostra professione è la più importante, rispetto a quella dell’insegnante,
dell’educatore o altro … Sicuramente, però, per la sua peculiarità, è unica e ha bisogno di un approccio, non
solo scientifico-professionale, ma anche antropologico, culturale, umano ed etico-morale da cui non può
prescindere.
Dolore, malattia, persona che soffre, rappresentano una delle questioni più delicate e determinanti per la
società. Ne deriva che la salute, come l’istruzione e il diritto al lavoro, non possono essere affrontati solo in
termini di costi – anche se è necessaria una gestione economica oculata, contro ogni inutile spreco – ma sono
diritti fondamentali che in ogni società civile e in uno stato di diritto vanno tutelati e garantiti con tutti i mezzi
necessari e con determinazione.
I
Un lUogo comUne da sfatare: Il crIstIanesImo relIgIone della sofferenza?
Non è raro sentire da più parti un’interpretazione distorta delle beatitudini: “Beati quelli che soffrono a causa
della giustizia”; “Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”. Molti, soprattutto estranei alla vita di fede
e a una corretta comprensione della parola evangelica, traggono la conclusione che quella cristiana sia una
religione che esalta il dolore umano e la sofferenza, quasi come cosa buona e necessaria per avere la
ricompensa eterna.
Il discorso delle “beatitudinini” dice invece un’altra cosa. La beatitudine non consiste nella sofferenza in sé, ma
nel fatto che coloro che “soffrono” e “piangono” sono oggetto dell’attenzione e della consolazione di Dio. Cioè
non sono lasciati soli nel loro dolore, ma trovano in Dio, e in coloro che si fanno suoi strumenti e testimoni,
sostegno, consolazione, liberazione. E quando il dolore è umanamente invincibile, portato con Cristo diviene più
sopportabile e meno pesante.
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La parola di Cristo ci dice che la beatitudine consiste nel praticare la giustizia e nella consolazione di Dio che si
manifesta attraverso quella dei fratelli.
D’altronde Cristo stesso nei momenti che precedettero la sua morte in croce elevò al Padre celeste la nota
invocazione: “Padre, se è possibile, passi da me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà sia fatta!”. Se
anche per Cristo la morte e la sofferenza fossero state “cosa buona”, non avrebbe fatto certamente tale
preghiera. E proprio nel primo libro della Sacra Scrittura, la Genesi, con la fede e il linguaggio semplice
dell’israelita credente, vi è chiara l’affermazione che il dolore, la sofferenza e la morte non appartengono alla
volontà creatrice iniziale di Dio, ma sono dovute alla fragilità umana, conseguenza del peccato originale
dell’uomo.
Riassumendo questo concetto, possiamo dire che, nella visione cristiana, la morte e la sofferenza sono una
realtà ineludibile, appartengono alla natura fragile e mortale dell’uomo, ma in Cristo sono diventate spazio
dell’azione di Dio: “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, io vi ristorerò”. In Cristo risorto “la morte
non avrà più potere sull’uomo”, perché Egli ha vinto la morte e, con essa, anche il peccato che è la causa della
morte dell’anima. L’azione di Dio, però, passa necessariamente attraverso la carità e la solidarietà fraterna. Per
questo Gesù ha lasciato ai credenti e agli uomini tutti il comandamento della carità. Lenire e combattere il male
e il dolore, rendere serena e dignitosa la vita di ogni persona umana è “opera di misericordia corporale e
spirituale”.
II
Il dolore e la morte nell’ esperIenza Umana e nella cultura
Il dolore e la morte suscitano domande di senso e anche scorciatoie soggettivistiche. Già il filosofo greco Platone
diceva: “Nello Stato stabilirai una disciplina e un diritto che si limiti a occuparsi dei cittadini sani nel corpo e
nell’anima; si lasceranno morire quelli non sani nel corpo” (De Repubblica, III). Ben diversa la posizione di
Ippocrate (430 a.C.) espressa nel suo famoso giuramento “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei
malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario”.
Molti psichiatri sono concordi nel sostenere che chi tenta il suicidio non cerca veramente la morte, ma
piuttosto vuole, per mezzo di un gesto estremo, riportare su di sé l’attenzione e il sostegno delle persone vicine.
In modo analogo, il paziente che chiede che gli venga provocata la morte (“la dolce morte” = eutanasia) è una
persona che si sente abbandonata e non vede altra via di uscita dalla sua triste situazione che la morte stessa.
Il dolore e la morte sono generalmente accompagnati da una condizione psicologica di estrema vulnerabilità.
Al decadimento fisico, infatti, si accompagna una estrema fragilità emotiva e psicologica. Ed è in questo
contesto che s’innesta anche il senso di solitudine nella sofferenza. Nessun’altra esperienza umana fa sentire
così soli, impotenti, incapaci di fronteggiare una situazione decisamente forte e talora devastante. Ed è la
solitudine dettata, in molti casi, dal bisogno di nascondere i propri dubbi e le proprie paure, per non aumentare
il disagio dei propri cari. È quel silenzio “complice” del malato che non manifesta ai familiari le proprie paure, e
quello dei familiari che pensano di aiutare l’ammalato non facendogli pesare la realtà.
È chiaro che la risposta, al riguardo, non può essere solo medico-tecnica, ma anche umano-affettiva.
L’ammalato ha bisogno di un clima di accoglienza, affettivamente ricco, come risposta al forte bisogno di
“compagnia”, di rassicurazione, di sostegno.
Va aggiunto, inoltre, che la sofferenza è mistero dell’uomo, mistero per l’uomo: ne accompagna l’esistenza,
in apparente contrasto con l’innato spirito di sopravvivenza. L’uomo, infatti, ha la vocazione
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fondamentale alla vita, allo “star bene”, eppure la malattia è sua frequente compagna e la morte è l’esito
finale di ogni esistenza umana. La morte, e il tempo immediatamente precedente che ad essa conduce, è
l’espressione somma della sofferenza.
Qualcuno ha scritto che la società attuale ha paura folle della morte perché ha paura della vita, perché ha
paura di avere figli, di impegnarsi, ha paura del sacrificio. E per questo, in famiglia, la si nasconde ai figli,
perché fa paura, perché non la si vuole, perché è qualcosa di perverso, di ostile all’uomo… Credo, al riguardo, che
una delle radici malate della società sia proprio la sua incapacità di dare un senso al dolore e alla morte.
Forse nasce qui una tendenza sempre più diffusa e radicata nel nostro tempo. Ne faccio qualche esempio.
C’è una cultura di fondo, che si ispira alla domanda di benessere individuale e può divenire edonismo. Una
domanda di per sé normale, che si estende ad ambiti prima non così percepiti (per esempio, non solo la
cura, ma anche la prevenzione, e la riabilitazione…), che, se esasperata, fa ritenere la salute come il bene ultimo
e totale.
Oggi ha preso piede quella che viene chiamata la “cultura dei desideri”. Dopo la fase di “soddisfacimento dei
bisogni” (pane, casa, lavoro, cura della malattia), si sviluppa anche la “medicina dei desideri”, che si ripercuote
specialmente su alcuni settori della vita privata e familiare, quali: il controllo non solo responsabile, ma
anche voluttuario, dei processi di procreazione (contraccezione, sterilizzazione, aborto contraccettivo, il figlio ad
ogni costo, uteri in affitto…); lo sviluppo della medicina estetica e di garanzie delle prestazioni fisiche; l’incapacità
di concepire la salute come “bene penultimo” e il conseguente diffuso rifiuto della sofferenza, dell’handicap,
della morte e del morente; la diffusione della mentalità a favore dell’eutanasia, come un “diritto civile”.
Sono segnali che ci dicono come l’orizzonte del tema “salute” si sia enormemente ampliato e amplificato a
settori e dimensioni prima inimmaginabili. E se l’orizzonte si è così ampliato, è facile intuire come sia diventato
complicato dare risposte esaurienti a tutto. E soprattutto come sia indispensabile coniugare le prestazioni
mediche necessarie e possibili, con nodi etici che vanno a interessare la natura e l’identità profonda della
persona umana.
E riandando alla visione edonistica della vita, a cui abbiamo prima accennato, che da una parte coltiva il
desiderio dell’effimero e dall’altra rifiuta la malattia e la morte, sorgono impellenti alcune domande:
* Tutto ciò che rientra nell’ambito del desiderio personale è anche buono e lecito?
* Se la malattia e la morte sono nemici da combattere, è lecito qualunque mezzo o scorciatoia per ostacolarle?
Qui entra in gioco un approccio articolato di ragionamenti e di interventi, soprattutto sul piano culturale e
morale. Faccio un esempio: il problema dell’assistenza agli ammalati e, in specie, a quelli terminali, va affrontato
non solo con un accompagnamento e un sostegno umani nella sofferenza, ma anche ricostruendo, per quanto
possibile, atteggiamenti diversi rispetto al dolore e alla morte. Qui entra in gioco la cultura e l’educazione.
È chiaro che la struttura sanitaria e il personale che vi opera non possono farsi carico del complesso articolarsi
di questo fenomeno. Ma è anche vero che un più puntuale approccio culturale, mentale, etico e professionale al
complesso mondo interiore della persona che soffre, da parte di coloro che si prendono cura degli ammalati
(dal medico, all’infermiere, alla famiglia, al vasto mondo del volontariato sociale), favorirebbe una più efficace
umanizzazione della stessa prestazione professionale.
Per questo, credo, si renderebbe più che mai necessario un rapporto di alleanza e di convergente impegno
sotto i diversi fronti tra struttura sanitaria, famiglia, istituzioni e società civile. Dove anche il tema del sostegno
psicologico e dell’assistenza religiosa trovano una ragione precisa: inquadrare l’esperienza della malattia, a
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qualunque stadio, in una visione della vita che accanto agli elementi umano-affettivi, sia anche in grado di
offrire prospettive razionali e prospettive di fede che comprendano in un unico progetto la salute e la malattia,
la vita e la morte.
III
UmanIzzazIone delle strutture ospedaliere
L’ospedale è il “luogo” – nel senso “ambientale” ampio e profondo, spaziale e insieme umano – nel quale le
questioni sinora poste, nella loro dimensione etica più autentica trovano risposta. Anzi l’ospedale, nelle sue
strutture e nel suo funzionamento, si pone come “condizione” che può facilitare o ostacolare la retta soluzione
dei molteplici problemi che riguardano la salute e la malattia, la vita e la morte nei loro molteplici aspetti
scientifici, umani e morali.
Ospedali più umani! è una sorta di slogan che ricorre sempre più spesso sia tra gli utenti, sia tra gli stessi
operatori e responsabili delle strutture ospedaliere. L’istanza di umanizzazione si presenta come specifica
dimensione etica. È un problema tipicamente morale, se è vero che la morale per sua natura fa riferimento
all’uomo in quanto uomo, e che per sua funzione è chiamata a discernere e a proporre i diritti e i doveri
dell’uomo secondo la sua dignità personale, in ogni fase della sua esistenza, compresa quella della malattia,
nelle sue più svariate forme.
La prima esigenza morale è quella della “giustizia”, cioè, del “dare a ciascuno il suo”, dove il primo e
fondamentale “suo” è la “dignità personale”. Qualcuno, mutuando una nota frase evangelica sulla “legge”, ha
detto: “Non è l’uomo per l’ospedale, ma l’ospedale per l’uomo”.
Jean Ziegler, relatore speciale dell’ONU per il diritto all’alimentazione, in un suo volume ha scritto: “ Varcata la
soglia dell’ospedale, la persona … diviene l’oggetto di una prassi e di una razionalità che le sono totalmente
estranee … Una nuova razionalità che non è quella della sua vita … si impadronisce di lui e gli impone un codice di
comportamento inedito” (J. Ziegler, I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paese capitalisti).
L’ospedale è umano quando riesce a ribaltare questa immagine. Quando riesce a non far sentire estraneo ed
estraniato il paziente, nei rapporti umani, nel modo di accoglierlo e di trattarlo, nel modo di curarlo… L’uomo
nella sua “dignità personale” non può essere “strumentalizzato” per nessuna ragione. Diversamente sarebbe
derubato della sua soggettività e declassato a rango di “oggetto”.
Per noi cristiani, ciò deriva dall’essere l’uomo “creato a immagine e somiglianza di Dio”. Ma lo stesso filosofo E.
Kant ha fatto di questo uno degli imperativi categorici: l’uomo è sempre e solo “fine” e mai “mezzo”. Si tratta,
quindi, di “riconoscere la dignità personale di ogni malato, anche nelle situazioni più gravi e umilianti”.
Certo l’umanizzazione dell’ospedale è opera articolata e complessa, che si fonda sul principio di una diffusa e
condivisa coscienza morale, che ha diversi livelli di applicazione:
- quello delle persone e dei loro rapporti (il rapporto medico-infermiere-paziente): qui sarebbe auspicabile una
formazione specifica e permanente di tutti gli operatori sanitari.
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- Quello riguardante le attività e i servizi destinati al malato e al recupero della salute: attività, servizi e il loro
adeguato coordinamento, sia all’interno delle strutture ospedaliere, sia in rapporto al territorio. Umanizzazione
significa che “le potenzialità e le possibilità della tecnica devono essere utilizzate per uno scopo specifico che è il
servizio dell’uomo, evitando tutte quelle tentazioni di potenza e di interventismo a oltranza che portano
all’accanimento terapeutico, alla manipolazione dell’uomo. La tecnica permette l’accanimento
e la
manipolazione, l’etica deve porre i confini” (E. Tresalti, Ospedale, strutture e umanizzazione, in “Medicina e
Morale”, 3, 1989).
- Il terzo, infine, coinvolge l’ospedale come struttura spaziale e in qualche modo abitativa, come edificio, come
struttura architettonica. È ben comprensibile il rapporto che c’è tra il benessere personale e l’ambiente anche
spaziale e fisico dove si vive. Perciò:
· l’ospedale come edificio va utilizzato quando è necessario e nella misura in cui è necessario
· La struttura dovrebbe assicurare non solo il migliore espletamento della medicina nei suoi aspetti tecnici, ma
anche una degenza del malato rispettosa il più possibile delle esigenze umane fondamentali.
IV
la professIone medIca tra scienza, limite, attesa o pretesa di onnipotenza
Jean Bernard, accademico di Francia, in un volume da lui pubblicato circa 20 anni fa, ha scritto che la medicina
ha progredito più negli ultimi 50 anni che nei precedenti 50 secoli, conferendo all’uomo il potere, non solo di
sconfiggere numerose malattie, ma addirittura di determinare se stesso (J. Bernard, De la biologie à l’éthique,
1990) .
La manipolazione del mondo è sfociata sempre più nella manipolazione dell’uomo da parte dell’uomo, una
manipolazione scesa al livello delle stesse sorgenti della vita umana (diagnosi intrauterina delle malattie
genetiche, controllo o addirittura determinazione del sesso, interventi genetici a scopo sia di terapia, sia di
ricerca, sia di eugenetica, fecondazione in vitro ed embryo transfer, trapianti dei geni e
forme di sperimentazione sull’uomo…). L’uomo diventa non solo fine della ricerca, ma strumento-oggetto da
manipolare e trasformare…
Tale sviluppo è esposto a una drammatica ambivalenza: potrebbe porsi al servizio di una più radicale
valorizzazione della vita umana, o potrebbe spingersi verso un’orgogliosa e pericolosa strumentalizzazione
dell’essere umano.
Giovanni Paolo II aveva ammonito che lo sviluppo della tecnica e della civiltà del nostro tempo, contrassegnato
dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale sviluppo della vita morale e dell’etica… La prima
inquietudine riguarda la questione fondamentale ed essenziale: “questo progresso, il cui autore e fautore è
l’uomo, rende la vita umana, in ogni suo aspetto, più “umana”, la rende “più degna dell’uomo”?
È il grande interrogativo, difficilmente eludibile da alcuno, al di là delle concezioni filosofiche o religiose di
ciascuno. La grossa questione è che l’uomo è sempre più artefice, costruttore, manipolatore del suo mondo e
di se stesso, sganciato da ogni vincolo etico basato sulla dignità e integrità della persona umana.
Mi pare interessante riportare a questo riguardo la testimonianza di un grande studioso e ricercatore, su un
ambito specifico della sperimentazione scientifica, che può essere ben applicata a qualunque campo della
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scienza e della tecnica medica. Ancor più mi pare degna di considerazione, perché si tratta di approccio al
tema non confessionale, ma strettamente scientifico. Ecco quanto affermò Orazio Piccinni, ginecologo di Bari
ed esperto di fecondazione artificiale, uno dei primi ad aver praticato la FIVET a un convegno su “Procreazione
assistita: problemi e prospettive” (Accademia dei Lincei, 31 gennaio 2005).
“Penso che la legge n° 40, che regolamenta la fecondazione assistita, debba essere difesa ma
preferibilmente non usata, perché finalmente si riconosce la dignità di persona all’embrione ma rimane una
procedura offensiva della coppia e della vita degli embrioni. Non sempre tutto ciò che è tecnicamente possibile è
anche eticamente ammissibile. Il bene morale è di gran lunga superiore al bene materiale. Il problema che più di
tutti ha provocato accesi dibattiti nei vari contesti etici, politici, legislativi, e socio economici è la definizione
della sterilità come malattia o disagio e il riconoscimento della persona-paziente fin dal concepimento. C’è un
momento della vita in cui si dovrebbe avere il coraggio di fermarsi, se si ha il dubbio che quello che si sta
facendo non è corretto, almeno nel metodo, quantunque il fine sia buono. Mi riferisco alla FIVET, da me
fondata nella clinica Santa Maria di Bari, col compianto Prof. Vincenzo Traina nel 1989. Quando ho avuto la
possibilità di riprodurre la vita in laboratorio, mi sono sentito molto potente, pervaso da quel delirio di
onnipotenza che gli operatori del settore conoscono bene specialmente quando si annuncia ad una coppia
sterile l’esito positivo. Un po’ più tardi, però, la mia potenza si è trasformata in angoscia dovuta
all’impossibilità di realizzare fino in fondo il progetto di vita per la gran parte degli embrioni prodotti (90 su 100).
Mi sono convinto allora che l’amore vero comincia quando il figlio è concepito secondo i giusti canoni della
dignità umana, nel matrimonio e in un rapporto unitivo e procreativo. Se si considera il feto come paziente, si
deve anche rispettare l’embrione, suo precursore, come persona e paziente nella procreazione assistita. Tale
rispetto dovuto, non è solo appannaggio dei cattolici, ma di tutti i laici e dello stato laico, fondato su nobili principi
a tutela della vita fin dal concepimento. Lo afferma perfino la legge 194/’78”.
V
Il medIco e l’InfermIere dI fronte alla sofferenza e alla morte
Senza addentrarmi nelle varie scuole di pensiero circa l’evoluzione del rapporto tra medico e paziente, tra
medicina e visione della vita e della morte, vorrei soltanto richiamare uno dei nodi principali del dibattito
odierno su questo tema.
In un recente volume intitolato “Scelte sulla vita”, che raccoglie i risultati di una ricerca, guidata da Guido
Bertolini, tra medici e infermieri di reparti di terapia intensiva sulle decisioni da prendere relativamente alla
fine della vita, un medico intervistato dice: “io in certi momenti non riesco a capire bene
… se facciamo del bene”.
L’incertezza è duplice: una di ordine pratico: “facciamo del bene? Cioè: è un bene per l’ammalato usare tutto il
potenziale di cui oggi dispone la medicina intensiva o non si rischia di infrangere l’imperativo di Ippocrate del
“primum non nocere”?
La seconda è di ordine cognitivo: “non riesco a capire bene”. Cioè: non è facile tracciare il confine tra
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ciò che è moralmente lecito e ciò che è censurabile, tra il lecito e l’illecito giuridico, tra la vita e la morte.
Questo dubbio è acuito da un fatto statistico sempre più evidente: studi recenti condotti anche in Italia
dimostrano che il quando e il come della morte dipendono sempre più dalla scelta di attivare o sospendere
determinate procedure mediche. Un decesso su quattro si può dire condizionato da decisioni di “fine vita”. È
quanto emerge in un articolo apparso in “La professione”, “Come si muore in Italia”, a cura di Eugenio Paci e
Guido Miccinesi. La morte non è più solo un fatto naturale, ma è sempre più spesso legata alle decisioni umane.
Sulla base di questi dati, secondo un filone di pensiero sempre più diffuso, occorre aver ben chiaro che cosa
significhi il concetto di “morte naturale”. Se è vero, infatti, secondo costoro, che la morte è conseguenza
della natura, la nostra è pur tuttavia una natura “umanizzata”, cioè, rivestita di valori, di cultura, di etica e di
libere decisioni. Morte naturale, perciò, non è sinonimo di “lasciar fare alla natura”.
Ciò vuol dire che per orientarci sul confine tra la vita e la morte si ha bisogno di legare la medicina a tutto
questo complesso “umano”. Compito non facile, proprio perché la scienza medica, che pure ha fatto straordinari
progressi, deve fare i conti con un contesto culturale dove l’approccio al tema del dolore e della morte è
fortemente influenzato da sensibilità e visioni della vita molto differenziate e soggettive.
Fra le tante questioni aperte, ve n’è una che mi pare di fondamentale importanza e portata. Se fino a ieri era
centrale una domanda di senso: ”perché bisogna morire?” – quindi una domanda di ordine metafisico
– oggi la domanda si è spostata soprattutto sul versante etico-metodologico: “come morire?”.
La prima domanda, se mai, si è trasformata in una sorta di desiderio diffuso di immortalità. L’aspirazione
generalizzata è “non voglio, non devo morire!”. E quando la medicina non risponde a tale desiderio è sempre
più frequente il ricorso anche ai tribunali per averne ragione. Ma di fronte all’ineluttabilità della morte, la
domanda verte su come gestire quello “scomodo confine oltre la vita, al di qua della morte”. “Come
morire?”.
“Bisogna rispettare la libertà del paziente”, si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia. La
richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico; suo
compito è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essere arbitro della sua vita e
della sua morte. Ben chiaro era questo limite ne Il giuramento di Ippocrate di Cos (ca. 460-377 a. C.), in cui si
legge: “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio”.
Questo impegno a favore della vita e contro la morte è ribadito anche nel Codice di Deontologia Medica
- approvato dal consiglio nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli
Odontoiatri il 24 giugno 1995 - all’articolo 35: “Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare
trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte”. Il
“no” all’eutanasia è ulteriormente ribadito all’articolo 17 del nuovo Codice deontologico del
16 dicembre 2006”: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti
finalizzati a provocarne la morte” né “può abbandonare il malato ritenuto inguaribile”.
“La medicina - ha detto il prof. Cortesini - ha fatto passi da gigante nella terapia contro il dolore e tende
sempre più a vedere superato il legame tra trattamento analgesico e accorciamento della vita … Ma i farmaci aggiunge - non risolvono tutto. Il malato in condizioni critiche o in fase terminale ha bisogno di un appoggio
umano e psicologico per superare lo scoramento e la solitudine che deve frequentemente affrontare ... La
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soluzione ideale consisterebbe nel far sì che l’infermo trascorra a casa la fase conclusiva della malattia, con la
garanzia di un’assistenza medica a domicilio adeguata al suo caso clinico”.
VI
la centralItà della persona
Desidero chiudere il mio intervento proponendo una sottolineatura che, per evidenti ragioni, meriterebbe ben più
ampia e articolata riflessione. Non posso eluderla, perché fa da perno centrale rispetto a quanto ci siamo finora
detti. E non posso dilungarmi perché il tempo non ce lo consente. Inoltre mi rifaccio ancora una volta, non a
documenti della dottrina sociale della Chiesa, ma a principi che sono entrati nella cultura e nelle linee ispiratrici
della deontologia medica, sancite in vari documenti ufficiali. Si tratta della “centralità della persona”, quale
principio etico ineliminabile e sorgente di ogni approccio etico alle tematiche legate alla salute.
Il nuovo Codice deontologico, approvato il 16 dicembre 2006, afferma che il “dovere del medico è la tutela della
vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità
della persona umana”.
All’articolo 11 si legge: “In nessun caso il medico dovrà accedere a richieste del paziente in contrasto con i princìpi
di scienza e coscienza allo scopo di compiacerlo, sottraendolo alle sperimentate ed efficaci cure disponibili”.
All’articolo 16, è invece scritto che il medico, “tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve
astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un
beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”.
Appare chiaro che affermare il primato della persona e il valore dell’etica come criterio di giudizio di ogni
azione e intervento umano, non significa negare il valore della scienza, della tecnica e della ricerca. Tutt’altro!
Significa, tuttavia, che la scienza e la tecnica non devono essere totalmente autonome e autoreferenziali, ma
sono chiamate a rispondere ad almeno tre requisiti di fondo.
Il primo riguarda la domanda: perché l’uomo interviene? Serve, cioè, un’adeguata valutazione delle finalità
perseguite. La finalità è buona quando è tesa alla difesa e promozione della vita umana, della persona nelle sua
integrità, fisica, psichica, spirituale e morale, senza stravolgerla o strumentalizzarla per fini solo scientifici o
economico estetici.
Il secondo riguarda la domanda: come l’uomo interviene? Qui occorre tener presenti due criteri: cioè, la
sperimentazione deve essere rispettosa del soggetto umano sul quale interviene; e, inoltre, essa deve inserirsi
nella linea della struttura costitutiva e dei significati intrinseci della vita umana come tale.
Il terzo, infine, riguarda le conseguenze dell’intervento, la valutazione dei rischi che devono essere
ragionevoli, e mai oltre i limiti della ragionevolezza, non solo circa gli aspetti fisiologici, ma anche circa quelli
psicologici, culturali e sociali.
Riconoscere la centralità della persona umana, tutelarne e promuoverne sempre l’inviolabile dignità. Non può
che essere questa la stella polare di ogni intervento dell’uomo sull’uomo. Anche il filosofo E. Kant si era fatto
interprete di tale principio assoluto, evidenziando l’esigenza di considerare l’uomo “elevato al di sopra di ogni
prezzo, perché come tale egli deve essere riguardato non come mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno
i suoi propri, ma come un fine in sé; vale a dire egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto), per mezzo
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della quale costringe al rispetto di se stesso tutte le altre creature ragionevoli del mondo ed è questa dignità che
gli permette di misurarsi con ognuna di loro e di stimarsi loro uguale” (E. Kant, in Fondazione della metafisica dei
costumi, paragrafo sulla Dottrina della virtù).
Un principio sancito, anche se sempre più diffusamente disatteso, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo: “I popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella
dignità e nel valore della persona umana” (n. 5).
INCONTRO CON GLI AMMINISTRATORI E POLITICI
MONS. ARRIGO MIGLIO VESCOVO DI IVREA
PRESIDENTE DELLE “SETTIMANE SOCIALI” DEI CATTOLICI
Nuoro, Teatro delle Grazie, 24 settembre
Cattolici nell’Italia di oggi! Nel documento preparatorio per la prossima “Settimana Sociale” è stata fatta una
scelta, quella di rischiare la scrittura di un’agenda, e infatti il sottotitolo dice: “Un’agenda di speranza per il
futuro del paese”. Nella Settimana Sociale di tre anni fa si parlava del “bene comune”: “un impegno che viene
da lontano”. Si voleva sottolineare il contributo che i cattolici italiani hanno dato in questa lunga e variegata
stagione del XX secolo, il contributo che è stato dato nella ricerca e nella costruzione del bene comune del
paese. E vogliamo ricordare almeno la Settimana Sociale dell’ottobre 1945 a Firenze, dove il tema era
“Costituzione e Costituente”: fu certamente un lavoro dove vennero messi dei semi importanti e fecondi per
l’azione politica nel nostro paese.
Quest’anno 2010, per non lasciar cadere il tema del “bene comune”, che ha suscitato un buon interesse nella
passata Settimana Sociale, abbiamo sentito il bisogno di provare a declinare l’idea di “bene comune” su alcuni
problemi specifici; ed ecco l’idea di provare a scrivere “un’agenda”, un’agenda che è il frutto di una serie di
incontri e di consultazioni dai primi mesi del 2009 fino ad oggi. Per circa un anno e mezzo abbiamo provato a
fare un lavoro di discernimento con le Aggregazioni Ecclesiali, associazioni, movimenti, diocesi, gruppi e tavoli di
persone impegnate nella finanza, nel lavoro, nella politica, ma anche al di fuori del mondo cattolico. Abbiamo
incontrato un bel gruppo di parlamentari in incontri molto discreti ma molto schietti, che sono culminati
nell’incontro che abbiamo avuto nella sede del Senato il 20 luglio scorso, con la presenza del presidente
Schifani e con i rappresentanti dei principali gruppi parlamentari, per valutare il lavoro e anche questo
documento e per provare a lanciare ancora una volta un ponte di collaborazione e di lavoro comune e di intesa
per la ricerca del bene comune.
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L’agenda comprende dodici punti specifici che sono raggruppati in cinque aree fondamentali. La prima è l’area
dell’impresa e del lavoro, dove abbiamo messo a fuoco alcuni problemi che sono prioritari per rimettere in
movimento la crescita e la ripresa del lavoro. Una seconda area è quella dedicata all’educazione e all’emergenza
educativa. Una terza area è quella dell’inclusione delle nuove presenze soprattutto degli immigrati. Una
quarta area è quella dedicata alla mobilità sociale, che riguarda soprattutto l’Università e l’accesso agli ordini
professionali. La quinta area è dedicata al completamento della transizione istituzionale, cioè alle riforme di cui si
parla da tanto tempo, iniziate e lasciate a metà, compreso il tema del federalismo di cui tanto si discute e sul
quale anche i vescovi italiani hanno già avuto modo di esprimere la loro opinione nel documento del febbraio
scorso, intitolato: “Chiesa italiana e Mezzogiorno per un paese solidale”.
Questa è l’agenda che noi porteremo a Reggio Calabria e che sarà sottoposta alla discussione dei gruppi. Ci
saranno due mezze giornate dedicate per aree alla discussine dei punti dell’agenda. Questi problemi non sono da
affrontare in maniera programmatica. La loro soluzione ha bisogno di un orientamento, perché non qualsiasi
soluzione è compatibile con la visione cristiana del “bene comune” e soprattutto quest’agenda non vuole portarci
fuori dall’impegno di evangelizzazione della Chiesa. L’agenda vuole mettere in evidenza le radici dell’impegno
sociale dei cristiani e tutta la Dottrina Sociale della Chiesa, che affondano le radici nel cuore del messaggio
cristiano. E nel cuore del messaggio evangelico e della vita della Chiesa c’è l’Eucaristia. Ecco perché il contesto
del Congresso Eucaristico Diocesano mi pare estremamente interessante. Noi abbiamo dedicato l’ultimo
capitolo del documento preparatorio proprio al tema: “Eucaristia e Città”.
L’impegno sociale e politico dei cristiani ha le sue radici nel cuore del messaggio evangelico e anzitutto
nell’Eucaristia. La dottrina sociale della Chiesa nasce di lì, non è qualche cosa di sovraggiunto al messaggio
cristiano. Se capissimo questo, come cristiani e cattolici italiani, forse avremmo gia risolto molti nostri
problemi. Per troppa gente, parlo dei praticanti e anche di noi clero, l’impegno sociale e politico è qualche cosa
di aggiunto, una sovrastruttura all’annuncio cristiano, all’impegno cristiano, qualche cosa che va bene per chi
ha questo tipo di vocazione. Una buona vita cristiana si può vivere bene, qualcuno pensa, se non andiamo a
sporcarci le mani nell’impegno sociale e politico.
Già Don Luigi Sturzo più di cento anni fa se la prendeva con chi parlava della politica come di qualche cosa di
sporco. Questo è un modo di vedere e pensare che ancora circola. Evidentemente noi usiamo il termine
“Politica” con la “P maiuscola”, prescindendo dalle situazioni concrete e guardando a questo tipo di impegno e
di servizio che come cristiani non possiamo eludere. Nell’ultima assemblea della CEI a maggio scorso Papa
Benedetto XVI diceva ai vescovi italiani proprio queste parole: “Alla Chiesa italiana sta a cuore il bene comune
del Paese e tutta la Chiesa deve essere impegnata a servizio del bene comune del paese”. Certo l’impegno
diretto in campo politico è dei laici, è una vocazione dei laici, ma l’impegno politico non esaurisce l’impegno e il
servizio al bene comune.
Tutti siamo chiamati a portare il nostro contributo e a metterci al servizio del bene comune. E tutto questo
nasce dall’Eucaristia. Partecipando all’Eucaristia siamo abilitati e invitati a vivere tutta la nostra vita secondo il
progetto di vita personale e sociale di Gesù, siamo esortati a offrire i nostri corpi, come dice San Paolo, come
“sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rom 12,1). Il vero culto spirituale, il culto “in spirito e verità”, come
dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, non è il culto dei riti; certo i riti sono uno strumento, se poi sono riti
sacramentali sono il canale attraverso cui ci giunge la grazia dello Spirito, ma debbono abilitarci a vivere il culto
della vita, a offrire i nostri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio.
L’Eucaristia svela che la carità è l’orientamento di coloro che si sono lasciati attrarre da Cristo. Ciò significa
anche comprendere e servire il bene comune in qualsiasi condizione, tempo e frangente, secondo l’esortazione
del Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est. E la Caritas in veritate che è l’ultima uscita è
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strettamente legata alla Deus caritas est che parla della “mistica del sacramento eucaristico”, il quale sempre
“ha un carattere sociale” (c.14)
Gesù non è venuto a salvare solo le anime, anzi ha cominciato dai corpi, certo per salvare tutto l’uomo,
non solo l’uomo nel tempo presente, ma nell’orizzonte del suo destino futuro, della sua vocazione all’eternità. È
il discorso della speranza cristiana, che ritroviamo nella Gaudium et Spes del Vaticano II e nella Spe salvi di
Papa Benedetto. L’orizzonte della grande speranza della vita futura non solo non ci aliena e non ci esonera
dall’impegno di dare speranza al mondo presente, ma ci impegna ancora di più a lavorare nell’oggi del mondo
presente, perché i “cieli nuovi e la terra nuova” saranno il frutto anche del lavoro delle nostre mani, che l’opera
di Dio viene a completare. Ecco la radice eucaristica dell’impegno sociale dei cristiani. E questo è un tema che
sta a cuore a Papa Benedetto XVI, che parla sempre sui temi della dottrina sociale della Chiesa. Nella prima
enciclica tutta la seconda parte, e in modo particolare il paragrafo 28, è davvero una “magna charta” nella quale
Papa Benedetto delinea l’impegno sociale e politico dei cristiani, dei cattolici e di tutta la Chiesa, pur con le
diverse competenze e le diverse vocazioni.
Vorrei ricordare anche il messaggio che il Papa aveva mandato alla precedente “Settimana Sociale” dell’anno
2007 a Pistoia-Pisa, richiamandoci alla globalizzazione e ricordandoci che oggi non si può parlare di bene comune
solo a livello nazionale. Se vogliamo davvero parlare di bene comune, come lo intende la Chiesa, dobbiamo
parlare di un bonum commune universale, perché nel mondo globalizzato il discorso del bene comune riguarda
tutti.
Papa Benedetto ha trovato una Chiesa molto impegnata sul sociale e sul politico, ha avuto un predecessore che si
è buttato con un coraggio da leone su tanti problemi del mondo, com’era nel suo stile, e quindi il Papa attuale
si preoccupa di aiutarci a capire perché dobbiamo farlo, a capire le motivazioni. Nella Caritas in veritate, nel
capitolo dedicato ai quarant’anni della Populorum progressio di Paolo VI, Papa Benedetto ci dice delle cose
interessanti proprio riprendendo il concetto di “sviluppo” e chiedendosi come mai non è andato avanti questo
sviluppo. Il mondo è cambiato e si è trasformato, ma forse l’insegnamento di Paolo VI non è stato capito
appieno.
Per capire la Populorum Progressio e la visione di sviluppo che Paolo VI ci ha dato, dice la Caritas in veritate, è
necessario tenere presente almeno altri due documenti di Paolo VI: la Humanae Vitae dell’anno
1968, e qui qualcuno della mia generazione ricorda le contestazioni di allora, che durano anche oggi. Forse non
tutti o forse pochi avevano capito che la Humanae Vitae non è soltanto un documento che tocca temi etici, ma
tocca temi che hanno una profonda valenza sociale. L’altro documento di Paolo VI è la Evangelii nuntiandi del
1975, dove il Papa ripresentava una visione completa della “Evangelizzazione”, nella quale la “Promozione
Umana” fa già parte dell’evangelizzazione; dice Papa Benedetto: “Per capire veramente l’insegnamento sociale
di Paolo VI è indispensabile tenere presenti questi altri due documenti perché ci aiutano a capire come la
questione sociale in questi decenni si è sviluppata”.
Questo vale anche per il magistero di Giovanni Paolo II, per il quale non possiamo fermarci soltanto alla
Laborem exercens, alla Sollicitudo rei socialis o alla Centesimus annus, le tre grandi encicliche sociali, ma
dobbiamo tenere presente anche la Veritatis splendor e la Evangelium vitae, due encicliche pubblicate nel corso
degli anni `90, dove il Papa Giovanni Paolo II dice che la questione antropologica è la nuova frontiera della
dottrina sociale della Chiesa.
E ora Benedetto XVI presentandoci la caritas - l’agàpe - ci aiuta a capire le radici dell’impegno sociale e della
dottrina sociale della Chiesa, nella prima enciclica Deus Caritas est e in modo particolare nell’enciclica Caritas in
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Veritate, che ci aiuta a recuperare tutta la pregnanza del termine caritas, segnalando la interpretazione
riduttiva che molte volte diamo alla parola Caritas.
Il Papa parla di una insignificanza a cui è ridotta la parola carità, che è divenuta marginale quando si tratta di
problemi sociali, giuridici, culturali, politici ed economici. Parla di una carità ridotta spesso ad un guscio vuoto
da riempire arbitrariamente, una riserva di buoni sentimenti utili per la convivenza sociale, marginali, non in
grado di intervenire quando si tratta di risolvere o di fare dei progetti nell’ambito sociale, giuridico, culturale,
politico ed economico.
Credo proprio che ci sia bisogno di un riscatto della parola Caritas-Agape, che non può essere confinata negli
ambiti pur importanti dell’elemosina, degli interventi nelle emergenze, dove siamo bravi come cattolici
italiani. Quando c’è qualche emergenza viene fuori il cuore, viene fuori tutta la generosità, poi però quando si
tratta di valutare i progetti in ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, lì la carità pare che non
c’entri.
Uno dei problemi di fondo dei cattolici italiani impegnati al servizio del bene comune del paese è anzitutto un
problema culturale. Molte volte si parla della divisione ed è vero che fra i cattolici c’è una dispersione, una
diaspora dei cattolici impegnati politicamente, ma c’è anche una divisione che è la debolezza del mondo
cattolico in Italia in questa radice culturale; c’è quindi una visione riduttiva del messaggio evangelico, una
visione riduttiva della caritas-agape, che invece è il cuore del nuovo testamento, è dunque una visione riduttiva
anche dell’impegno cristiano e della vita cristiana.
Il Papa dedica molto spazio nelle due encicliche a farci recuperare il senso vero della parola amore- caritasagape, il termine chiave che il Papa utilizza per introdurci nel cuore della dottrina sociale della Chiesa.
Perché? Perché “caritas” è il nome di Dio nel Nuovo Testamento! Non è solo l’ufficio della Diocesi che
distribuisce gli indumenti, che aiuta i bisognosi: la caritas è il nome di Dio e il nome nella Bibbia indica la
natura di Dio: Dio è amore. Conosciamo questa frase della prima lettera di Giovanni ma è un messaggio che
attraversa tutto il Nuovo Testamento; e allora quando parliamo di caritas dobbiamo anzitutto metterci a
contemplare la caritas che discende, che è dono, Dio che si fa dono, e si fa dono in Gesù Cristo e attraverso la
comunicazione dello Spirito Santo diventa la nostra vita. Vivere la carità è anzitutto vivere nello stile di Dio,
vivere la vita di Dio, che abbiamo avuto rivelata in Cristo e nel suo donarsi per tutti.
La carità si allarga a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, ma non è certo solo guscio di buoni sentimenti o una
riserva di emozioni che scattano in qualche momento, ma poi dopo tornano nel loro angolino perché poi c’è la
vita. I buoni sentimenti devono cedere il passo al realismo della vita. No . La caritas è anzitutto questo ricevere
dall’alto, e qui certo c’è una dimensione di fede. Ed anche nella nostra visione cristiana di bene comune il
fondamento è la visione di fede. Il valore della persona umana, di tutto l’uomo e di ogni uomo, che è il perno di
tutta la dottrina sociale della Chiesa, ha senso nella misura in cui crediamo in un Dio creatore e Padre. Il valore
della persona umana nasce dall’esistenza di Dio, perché dove viene negato, viene eliminata questa presenza di
Dio nella dimensione pubblica della vita, abbiamo le situazioni nelle quali la persona umana viene schiacciata,
viene annullata, perché la prima garanzia del rispetto della persona umana, della dignità della persona umana è
proprio lo spazio di Dio nella vita pubblica e non soltanto nell’intimo delle coscienze.
Il nostro impegno sociale e politico non può prescindere dalla nostra fede e dalla dimensione religiosa della vita,
perché la visione di bene comune che deriva da questa caritas discendente è il nostro impegno per gli altri, non
è qualcos’altro rispetto alla caritas che riceviamo da Dio. La nostra non è soltanto filantropia, non è soltanto
buona volontà umana. È positivo che ci siano persone che coltivano la filantropia, la buona volontà, la
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solidarietà. Ma come cristiani non possiamo non partire dalla prima solidarietà che è quella di Dio verso di noi
e che diventa il fondamento della solidarietà verso il prossimo, verso i fratelli .
Nella Caritas in Veritate Papa Benedetto nei tre paragrafi dal 56 al 58 spiega perchè è importante il ruolo
pubblico della religione; dove viene negato questo ruolo pubblico viene messa in questione anche la laicità vera,
proprio perché la laicità è stata una faticosa conquista che ha al suo centro il rispetto della persona umana. E
tutte le volte che la laicità è diventata laicismo, il primo rischio è quello di cominciare a distinguere tra uomo e
uomo, tra chi conta e chi non conta, tra chi ha e chi non ha, tra chi riesce a faremolto e chi non riesce a fare
nulla.
Ma questa non è la nostra visione antropologica come cristiani. Quando noi parliamo di dimensione pubblica
della religione, di spazio che la religione deve avere anche nella vita pubblica, noi sappiamo che dipende dalla
visione di Dio la visione di uomo. Il discorso della laicità da queste premesse diventa un discorso stimolante che
ci fa riflettere. Nel nostro mondo cattolico italiano dobbiamo intenderci su che cos’è la laicità, a che cosa
serve, che cosa comporta, senza ritenerci troppo al sicuro dal rischio del fondamentalismo. Oggi è piuttosto in
altre aree religiose che noi vediamo il fondamentalismo, ma questo è un rischio che è sempre in agguato per
tutti. Le considerazioni che il Papa fa nel difendere la presenza della religione nella vita pubblica non sono
questioni di bandiera; il ruolo che la dimensione religiosa deve avere nello spazio pubblico non è una difesa
confessionale, ma è una difesa dell’uomo.
Dietro queste affermazioni della Caritas in veritate c’è anche la sfida della libertà. Vi sono molti equivoci
intorno alla parola libertà: da una parte un liberalismo totalmente individuale che è fatto quasi
esclusivamente di diritti, dall’altra una libertà non dell’individuo ma della persona, e la persona è un nodo di
relazioni sociali, la libertà fa crescere una comunità e tutta la società. Sono due visioni molto diverse, opposte,
che portano a visioni diverse del “bene comune”.
Il capitolo V della Caritas in Veritate è dedicato proprio a dirci la natura della dottrina sociale della Chiesa, che
è la risposta al dinamismo dell’agape, della caritas, così come ne parla il Nuovo Testamento. Ecco il “bene
comune” verso cui vogliamo andare con il documento preparatorio della prossima “Settimana Sociale”. E
abbiamo provato a mettere a fuoco alcune condizioni perché si possa parlare davvero di bene comune, come
nella precedente settimana sociale a Pistoia-Pisa; e già nel “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”
veniva messa in evidenza la differenza tra “bene comune” e “bene totale”. “Bene comune” è il bene di tutti e
di ciascuno e di tutto l’uomo, ed è anche un bene costruito da tutti, in cui tutti hanno qualche ruolo, persone e
gruppi e corpi intermedi. Non è un compito affidato soltanto alla politica, che ha un suo ruolo fondamentale,
ma non ha l’esclusiva nella costituzione del bene comune. “Bene totale” è invece un bene che guarda ai
risultati e prescinde dai prezzi che sono stati pagati, dai morti e dai feriti lasciati lungo la strada per
raggiungere un determinato risultato; questo sarebbe un bene collettivo che non è il vero bene comune.
Neanche il bene pubblico corrisponde alla visione di bene comune che ci propone la dottrina sociale della
Chiesa.
Oggi si dice che la crisi è in fase di superamento, però se noi guardiamo le imprese che restano ferme, che son
morte perché nella crisi le strette creditizie non hanno permesso loro di vivere, se guardiamo a quanti restano
senza lavoro, potremmo uscire dalla crisi avendo più disoccupati, più gente senza lavoro. Non potremo parlare
allora di bene comune, semplicemente perchè alcuni dati economici finanziari stanno migliorando. Se vogliamo
parlare di bene comune la questione lavoro è imprescindibile. Certo è scomoda per alcune categorie, per alcuni
gruppi, per alcuni ambienti, ma noi non possiamo ragionare così se vogliamo metterci davvero al servizio del
bene comune.
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Nel documento preparatorio abbiamo segnalato alcune linee perché si possa parlare di bene comune. La prima
tiene conto del processo di globalizzazione in maniera solo pessimistica e negativa. La Caritas in Veritate 21 dice
che la crisi che stiamo vivendo non è da vedere soltanto come una sofferenza e una povertà, ma deve
diventare anche l’occasione per riprendere a pensare, per progettare in modo nuovo, per uscire dalla crisi non per
tornare alle situazioni precedenti, peraltro credo irraggiungibili, ma per progettare in maniera nuova, per
mettere in moto il pensiero.
Il processo di globalizzazione non mina la possibilità di continuare a pensare per seguire lo sviluppo umano in
tutte le sue dimensioni, con una portata sempre più inclusiva, anzi offre condizioni favorevoli che rendono più
stringente la responsabilità di spenderci in questa direzione. E questa è una direzione perché il bene comune
sia autentico. Questo vuol dire che dobbiamo aprirci alle popolazioni più povere, guardare alle ingiustizie del
mondo, senza chiuderci in una torre di avorio. Non può chiudersi in una torre di avorio nessuna regione del
nostro paese, questo è un altro aspetto che trattiamo nel documento preparatorio, perché guardando al
mondo globalizzato dobbiamo ragionare con una visione unitaria del paese. E qui ci viene in soccorso, l’ho già
ricordato prima, il documento dei vescovi italiani del febbraio scorso Per un paese solidale, che offre una
visione unitaria del paese, una visione unitaria che non nega gli sviluppi di tipo federalistico, se si tratta di un
federalismo che sia davvero solidale e sussidiario, stimoli la responsabilità e non trascuri la dimensione della
solidarietà. E su questo aspetto abbiamo avuto nel maggio scorso a Genova un seminario preparatorio alla
“Settimana Sociale”, voluto proprio dal presidente della CEI, cardinale Bagnasco, che già più volte si è espresso
in questi termini.
È una ricchezza mantenere una visione unitaria del paese. In questo contesto occuparsi dell’Italia e
discernere il bene comune a partire dal paese intero richiede valide ragioni, non basta uno slogan. Per un
verso il processo di globalizzazione procederà o invertirà il suo cammino anche senza attendere il contributo
del nostro paese e magari anche grazie ai contributi di sue singole espressioni locali o di interesse, tuttavia ciò
non esclude che l’Italia unita in questo passaggio possa giocare un ruolo che nessuna sua singola parte
potrebbe svolgere da sola.
È utile un richiamo agli inizi della nostra storia repubblicana, quando la società italiana versava in non minori
difficoltà. Allora sapemmo dare un contributo essenziale all’evolversi delle relazioni internazionali a partire dallo
scacchiere europeo. E in questo momento è ancora una volta urgente riscoprire e sviluppare l’eredità della
grande politica estera ed europea dell’Italia del secondo dopoguerra, dell’intuizione che fu alla base della
“Comunità Europea del carbone e dell’acciaio” e ispirò la proposta di una “Comunità Europea di Difesa”, una
politica e una cultura che guardavano con realismo oltre lo stato nazionale.
Celebriamo i 150 anni dello stato unitario, ma l’unità della nazione ha radici più antiche, e ha motivazioni molto
più antiche di tipo culturale e religioso, ed anche geografico, che hanno posto le basi per poter parlare di una
nazione italiana molto prima che esistesse uno stato unitario.
Un altro aspetto in questa direzione mi pare importante: la generazione che oggi porta le maggiori
responsabilità nel nostro paese è in grado, per motivi anagrafici, di ricordare, di fare confronti con la
celebrazione del primo centenario dell’unità d’Italia, 1961. Eravamo nel boom economico, con una certa
euforia, con tanta voglia di crescere, voglia che grazie a Dio non è venuta meno, con un forte movimento
migratorio interno, da sud a nord e da est a ovest, non c’era soltanto l’immigrazione dal sud. Dobbiamo
guardare realisticamente ai 50 anni trascorsi con occhio critico e libero, per cogliere le maggiori opportunità del
nostro tempo e per valutare con verità quelle scelte che non ci hanno permesso di crescere quanto sarebbe
stato possibile.
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Un po’ come ci invita a fare la Caritas in Veritate nella sua valutazione dei quarant’anni della Populorum
progressio. La direzione del bene comune è quella in cui cresce la realtà e il valore della vita umana, delle sue
relazioni e delle sue differenze, persino delle fragilità, come avevamo detto nel Convegno Ecclesiale di Verona.
La Chiesa propone con forza il collegamento tra l’etica della vita e l’etica sociale, nella consapevolezza che non
può avere solide basi una società che afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia, la pace, la
salvaguardia del creato, e poi si contraddice accettando le più diverse forme di violazione della vita umana
soprattutto se debole o emarginata.
L’Italia merita qualcosa di più di quello che le stiamo dando, merita l’impegno di un numero maggiore di
cattolici laici, che ricordino che la vocazione del laico cattolico non è solo intra ecclesiale, pur sempre
preziosissima, ma la prima vocazione del laico cattolico è quella di mettersi a servizio dell’uomo e
dell’umanità in tutti gli ambiti della vita sociale e della vita pubblica.
Il Papa Benedetto XVI ha lanciato con forza a Cagliari il suo appello il 7 settembre 2008, a Bonaria: è la necessità di
far sorgere una nuova generazione di cattolici laici impegnati in politica. Appello che il Papa ha ripetuto a
Viterbo l’anno dopo, e lo ritroviamo nella Deus caritas est, dove una delle prime caratteristiche perché si possa
parlare di una nuova generazione ed una generazione di cattolici laici impegnati in politica è anzitutto quella di
capire il legame tra dottrina sociale della Chiesa e la ragione umana. Nella Deus Caritas est il Papa dice che lo
scopo della dottrina sociale della Chiesa è quello di aiutare la ragione a essere critica, a essere libera, a
valutare quali sono le ragioni più giuste in questo momento politicamente realizzabili. Il laico cattolico
impegnato politicamente è chiamato a valorizzare la ragione, e dunque nelle scelte che fa portare delle ragioni.
Il terreno più semplice mi pare oggi quello dell’ecologia. Le ragioni per capire che si tratta di un bene comune
sono abbastanza evidenti. Nessuno pensa che quando noi cattolici difendiamo la salvaguardia del creato
difendiamo un valore confessionale; ma deve essere così anche in tutti gli altri ambiti. Un altro terreno oggi è
quello demografico. Purtroppo siamo in grande ritardo, e c’è già una “catastrofe demografica”; e dell’onda del
calo demografico ce ne siamo accorti quando era già molto lunga, e questo comporterà dei cambiamenti
profondi nel nostro paese, con difficoltà di ogni ordine, compreso l’ordine economico. Dobbiamo portare delle
ragioni , ragioni umane più che confessionali.
Noi vogliamo difendere la vita dal primo istante sino all’ultimo, quello della sua morte naturale, o difendere
un bene com’è la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, senza disprezzare nessuno, senza
emarginare nessuno. L’istituzione familiare ha una sua valenza sociale, economica, giuridica, umana, culturale,
anche al di fuori del “Sacramento del matrimonio”. È necessario che i cattolici laici si impegnino per giocare
di più con la ragione portando delle ragioni nel terreno del dibattito politico. Per questo è fondamentale la
testimonianza di vita, la testimonianza della competenza. Per far crescere una nuova generazione di laici
cattolici impegnati in politica, bisogna ritrovare la capacità di convergere su alcuni punti essenziali
fondamentali. Nessuno oggi mette in discussione la diversità delle scelte partitiche e delle appartenenze, e mi
pare che non ci siano nostalgie di questo tipo guardando indietro; ma se guardiamo in avanti ci sono dei
punti fondamentali su cui è importante che come cattolici impariamo a convergere, anzitutto su una visione
comune dell’antropologia cristiana.
È indispensabile avere una visione unitaria e completa dei principi irrinunciabili: la giustizia, la pace, la
salvaguardia del creato, hanno principi non negoziabili e irrinunciabili, che sono intrinsecamente connessi anche
agli altri principi. La salvaguardia della vita e la famiglia formano un tutt’uno: o stanno su insieme o cadono
insieme. È un’illusione difendere solo l’uno o l’altro. Molte volte lo spettacolo che abbiamo dato come cattolici
è stato proprio questo. Il problema non è fare bella figura nel dare un’immagine unitaria, il problema non è la
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facciata, il problema è la sostanza culturale, è capire l’interconnessione profonda tra tutti i principi, perché
insieme ci danno quella visione di uomo che ci viene dalla rivelazione biblica e dalla tradizione cristiana. E anche i
rapporti interpersonali hanno la loro importanza e fanno la differenza, nel modo di trattarsi tra cattolici
impegnati su diversi schieramenti; si devono trattare bene tutti, ma innanzitutto i fratelli di fede.
Gesù diceva nell’Ultima Cena: “I capi delle nazioni si comportano da padroni, ma tra voi non sarà così”. Ecco ,
quel “tra voi non sia così” dovrebbe essere un ritornello che ci fa fare l’esame di coscienza e ci aiuta a
individuare una direzione di marcia per una presenza più efficace e incisiva. Questo è l’obiettivo, per poter
incidere sulla società senza complessi e senza paure. Cerchiamo di essere più incisivi nella vita politica del
paese. Noi non difendiamo bandiere confessionali, ma difendiamo i valori di tutti; quando difendiamo l’aria
pulita e l’acqua non inquinata, è per tutti non è solo per i cattolici, e così anche gli altri punti fondamentali sono a
vantaggio di tutti.
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EUCARISTIA, FAMIGLIA E LAVORO
Ottavo giorno
CELEBRAZIONE DELLE SANTE CRESIME
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 25 settembre 2010
Carissimi amici!
È il giorno della vostra Cresima. È un giorno bellissimo della vostra vita. È festa in questo tempo del
“Congresso Eucaristico Diocesano”. È la festa dell’amore.
Dio ha comunicato al vostro cuore il suo Spirito Santo perché possiate costruire concordia e pace nella famiglia e
nel mondo. È un dono la Santa Cresima! È una meraviglia il pane dell’Eucaristia! Nella casa i genitori preparano
il pane ai figli per manifestare il loro amore. Gesù ha invitato alla cena i suoi amici e spezzando per loro il pane
ha detto: “Questo è il mio corpo offerto per voi. Fate questo in memoria di me”. È così bello! E noi siamo i
bambini di Dio e i fratelli di Gesù. Gesù uomo come noi ci manifesta il vero amore di Dio.
Il Sacramento della Confermazione è la conferma dell’Amore che Dio vi ha comunicato nel Sacramento del
Battesimo. I bambini domandano alla mamma l’acqua!... Ed è vero che senza l’acqua non si può vivere. Per
questo Gesù è sceso dal fiume Giordano e ha detto a Giovanni il Battista: “Battezza anche me, non per
liberarmi dal peccato che io non ho, ma per mostrare che l’acqua è la vita di Dio, è il suo amore”. Gesù nel
Sacramento del Battesimo ci ha donato l’acqua della vita. Ora la Cresima è la “Confermazione” dello Spirito del
Battesimo.
Cari genitori, padrini e madrine! I bambini guardano a voi: ai genitori, ai padrini e madrine, a tutti i loro
familiari. E questi bambini che vi guardano un giorno vorranno imitare la vostra fede, la vostra preghiera, il
vostro coraggio: il coraggio di dire a tutti che siete amici di Dio. È l’amicizia più bella. È l’amicizia fondata sul
Sacramento del Battesimo e della Confermazione, che ci fa gustare il pane dell’Eucaristia.
Carissimi ragazzi! Nel giorno della vostra nascita i vostri genitori vi hanno dato la vita: la vostra famiglia era in
festa. Nel “Sacramento del Battesimo” Dio vi ha donato il suo amore: è stata una festa per tutta la Chiesa.
Oggi il “Sacramento della Cresima”, che è la “confermazione” del dono del Battesimo, vi chiama a vivere per
sempre nell’amore. Voi avete promesso di consacrare la vostra vita al Vangelo di Gesù. Lo Spirito Santo vi
guiderà a mantenere la promessa se ascolterete sempre la parola di Dio e gusterete il pane della sua Eucaristia.
Vivrete nella gioia se vi metterete al servizio di Dio e dei fratelli. Voi dovete diffondere l’amore e la pace nella
famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella parrocchia, nella società.
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Annunziate il Vangelo con la vita! E considerate un tesoro prezioso l’amicizia con Cristo che vi ha donato la sua
vita perché desidera che voi siate felici.
Non mancate mai all’appuntamento con Gesù. Sarà sempre festa come ora nel “Congresso
Eucaristico”: festa del pane, festa dell’Eucaristia!
Auguri.
Vivete la Cresima ogni giorno per tutta la vita!
Il vostro vescovo
✢ Pietro Meloni
CELEBRAZIONE DELLE NOZZE ALESSANDRO E SIMONA
MONS. PIETRO MELONI
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 25 settembre
Alessandro e Simona carissimi, benediciamo insieme il nome del Signore! Voi oggi nella gioia del Sacramento
del Matrimonio, voi genitori, familiari, amici, e noi insieme a voi benediciamo il nome del Signore!
Diciamo grazie a Dio, perché ha donato a voi e a tutti i suoi figli la grazia dell’amore e vi chiama come sposi
cristiani a comunicare ai vostri figli la gioia dell’amore di Dio. Siete missionari dell’amore. Gesù vi ha parlato nel
Vangelo, scritto da un suo discepolo al quale ha cambiato la vita: San Matteo. Gli ha cambiato anche il nome, si
chiamava Levi e faceva il piccolo banchiere, gli piacevano le monete d’argento e d’oro, Gesù lo ha chiamato
Matteo e gli ha detto: “Vieni con me, seguimi!”(Marco 2,14). Era come se dicesse: “Non devi lasciare il tuo
lavoro nel mondo, ma io ti do una moneta più preziosa: l’Amore. Ti affido il Vangelo che tu devi annunziare
con la tua vita”. Matteo, alzatosi, seguì Gesù e poi scrisse anche la storia di Gesù. È il primo Vangelo. È il primo
racconto di un uomo straordinario che Matteo aveva conosciuto e aveva sentito la bellezza del suo amore. Un
giorno, lo racconta San Matteo nel suo Vangelo, a Gesù i farisei fecero una domanda: “È lecito ad un uomo
che si è sposato mandare via la moglie?” (Matteo 19,3). Mosè aveva detto infatti che, se c’era un motivo,
qualche volta si poteva fare. Gesù ha risposto: “Mosè lo ha consentito perché vedeva che il vostro cuore era
duro e incapace di amare, ma all’inizio, nel giorno della creazione, non era così. All’inizio Dio disse: l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa e non saranno più due, ma una carne sola, uno spirito solo.
L’uomo non può separare ciò che Dio ha unito” (cf. Matteo 19,4-8).
102
Carissimi Alessandro e Simona! Gesù ci dice che cos’è il matrimonio: è l’amore che Dio ha unito. È il
sacramento dinanzi all’altare. È una scoperta profonda per voi cristiani. Dio vi ha scelto per essere sposi e
diventare genitori e trasmettere un amore che arde nel vostro cuore, riconoscendo che la sua sorgente è in
Dio, perché “Dio è amore” (1 Giovanni 4,8). L’abbiamo sentito dal Papa Benedetto XVI: “Dio è amore!”. Questo
lo ha detto per la prima volta l’Apostolo San Giovanni, che nell’Ultima Cena ha posato il suo capo sul cuore di
Gesù : Dio è amore! (1 Giovanni 4,8).
Dio vi ha creato a sua immagine e somiglianza! Alessandro è immagine di Dio, Simona è immagine di Dio.
L’immagine è nell’amore: se sarete fedeli, in Dio il vostro amore vivrà per sempre. Vi scambierete un anello che
la gente chiama “fede”. All’altare l’anello lo portano i bambini: è bello questo, perché i bambini sentono che
c’è Gesù nel sacramento del matrimonio e nel pane dell’altare. La “fede” è d’oro, ma vale molto più dell’oro.
Spesso si dice delle persone, quando sono buone, che hanno “un cuore d’oro”. Se fosse veramente d’oro non
vivrebbero. Il cuore è molto più prezioso dell’oro e più prezioso
è l’amore. Gesù oggi nel Vangelo dice: “Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la
volontà del Padre mio che è nei Cieli” (Matteo 7,21).
La volontà di Dio è la vostra fedeltà alla promessa. Non chi dice: Signore, Signore, ma chi ascolta le sue parole e
le mette in pratica, è simile all’uomo saggio che “ha costruito la sua casa sulla roccia”; chi non le ascolta e non
le mette in pratica è un uomo che “ha costruito la casa sulla sabbia” e quando viene il vento e la tempesta la
casa crolla; invece l’uomo saggio costruisce la casa sulla roccia. Può cadere la pioggia, possono straripare i
fiumi, soffiare i venti, e la casa non cade perché è fondata sulla roccia (Matteo 19,24-27). Quando Gesù
termina questo discorso tutti rimangono meravigliati. Meravigliati perché? Ha detto semplicemente che la
casa deve avere le fondamenta sulla roccia per rimanere stabile. Tutti i muratori del tempo di Gesù lo
sapevano, anche perché le case erano ad un piano, al massimo c’era una stanza sopra, e nella stanza di sopra
Gesù, nel Cenacolo, ha celebrato l’Ultima Cena.
Perché la gente era meravigliata delle cose che diceva Gesù? Lui diceva quel che sapevano tutti. La gente
capiva che parlando della casa Gesù parlava della famiglia. La casa è il simbolo della famiglia, senza una casa la
famiglia rischia di non nascere, la famiglia può morire senza una casa. Gesù parlava della roccia di fondamento
della famiglia. La roccia è l’amore. La roccia è la parola di Dio, perché Dio è amore. Chi ascolta le sue parole e le
mette in pratica costruisce la casa sulla roccia, costruisce la famiglia su una roccia che non crolla. Conoscete
qualche famiglia che è crollata? Forse avevano fatto la promessa di fedeltà all’altare. Il dispiacere è sempre
grande tra i familiari e gli amici. E c’è un segreto perché la famiglia non crolli: è l’ascolto della parola di Dio, è la
fedeltà alla promessa dell’amore. Ecco: l’anello significa fedeltà! La famiglia deve vivere nella fedeltà al reciproco
amore. I figli devono vedere che il babbo e la mamma si vogliono bene, non solo che danno loro il pane, i
buoni consigli e qualche sgridata, devono vedere l’amore tra il babbo e la mamma; se vedono nei genitori
l’amore vero, sincero, profondo, vedono Dio. Voi siete missionari dell’amore perché lo potete far vedere ai figli,
ai familiari e agli amici.
La casa costruita sulla roccia è il Sacramento del Matrimonio. È una luce sacra. Voi già vi volete bene, ma oggi il
vostro amore diventa sacro per la vostra promessa e per la grazia di Dio. Celebrate il Matrimonio e l’Eucaristia in
questo tempo nel quale noi stiamo vivendo nella Chiesa di Nuoro il “Congresso Eucaristico Diocesano”. È la
riscoperta della bellezza del pane di Gesù, “mistero della fede” perché Gesù è in quel Pane e vi vuole
comunicare il suo amore. Lui che ha detto: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama”
103
(Giovanni 15,13). Lui ha dato la vita ed è risorto. L’amore diventa immortale. La vita sulla terra muore, ma
l’amore non può morire. L’amore è eterno.
Per questo “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa”(Matteo 19,5). Quando avviene
questo miracolo bellissimo che l’uomo e la donna lasciano il padre e la madre, qualche lacrima compare negli
occhi dei genitori. Simona oggi sente che il papà Pietro è vivo lassù nel cielo nell’amore eterno e una lacrima
è negli occhi della sua mamma e negli occhi dei genitori di Alessandro. Le lacrime di commozione diventano
nella fede lacrime di gioia perché nasce un nuovo amore, una famiglia nuova, una famiglia cristiana chiamata
alla concordia e alla preghiera.
L’apostolo Paolo ha detto: “Nella famiglia rivestitevi di sentimenti di tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine,
magnanimità” (Colossesi 3,12). Rileggete spesso la parola di San Paolo e vivete nell’amore “sopportandovi a
vicenda e perdonandovi gli uni gli altri” (3,13). Nella famiglia bisogna sopportarsi e perdonarsi. Il perdono è il pane
indispensabile quando l’amore viene a mancare, perché se ci fosse l’amore
sempre non ci sarebbe bisogno di perdono. Il perdono sembra più difficile dell’amore. San Pietro ha chiesto a
Gesù: “quante volte devo perdonare, sette volte?”(Matteo 18,21). Sette volte pensava che fossero già tante ...
“Settantasette volte sette” ha risposto Gesù, che voleva dire “sempre”(18,22). La famiglia rinasce nel perdono:
lo sposo alla sposa, la sposa allo sposo, i genitori ai figli, i figli ai genitori.
I bambini sono speciali perché dicono: “Noi litighiamo, ma poi facciamo subito la pace”. È una lezione per i
grandi che la pace non sempre la fanno. “Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma soprattutto
rivestitevi della carità … E la pace di Cristo regni nei vostri cuori!”(3,14-15). Ecco: la pace è conquista, la pace è
una battaglia senza lance e spade, la pace è frutto di un amore nuovo.
Gesù ha partecipato ad una festa nuziale a Cana di Galilea, invitato insieme a sua madre Maria, regina della
famiglia. Gesù è sempre presente alle nozze cristiane. Il miracolo per gli sposi di Cana era che Gesù era
presente. Questo miracolo avviene per voi oggi! Gesù rimarrà sempre nella vostra casa, nella vostra famiglia,
con i vostri figli, se sarete fedeli alla promessa dell’amore.
Questa è la preghiera, questo è l’augurio. A kent’annos!
104
INCONTRO CON LE FAMIGLIE E GLI ANIMATORI
VESCOVO DI IGLESIAS MONS. GIOVANNI PAOLO ZEDDA
Nuoro, Chiesa Cattedrale, 25 settembre
Anche se non vi conosco personalmente, penso che siate venuti qui portando nel cuore la vostra esperienza
di famiglia, per rafforzare il vostro impegno e la vostra testimonianza, e avete voluto esser presenti come
sposi e come famiglie a questo “Congresso Eucaristico Diocesano”, per manifestare i vostri interrogativi e le
vostre attese, e per trovare risposte più profonde su cui fondare il vostro futuro.
Sono sicuro che avete nel vostro animo di sposi due convinzioni: l’importanza del Matrimonio e
l’importanza dell’Eucaristia. E credo che siate convinti che questi due sacramenti sono in relazione tra loro,
hanno a che fare l’uno con l’altro, perché l’Eucaristia non riguarda solo ognuno di voi singolarmente nel vostro
rapporto con Dio, ma riguarda voi come coppia, come marito e moglie insieme, proprio in quanto sposi.
Può capitare che un solo coniuge sia cristiano. Non si perda d’animo, dice San Paolo: “Il marito non credente
viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (1Cor
7,14). Nel 1969 Igino Giordani, uno scrittore e parlamentare cristiano, dice nel suo libro “Famiglia, comunità
d’amore”: “Il sacramento del Matrimonio è connesso con l’Eucaristia con un legame di particolare intimità. Si
può dire che Eucaristia e Matrimonio sono i due sacramenti dell’amore: uno dell’amore divino, l’altro dell’amore
umano, entrambi fatti per unirci a Dio”.
Se questa intuizione corrisponde a verità, la Chiesa ha il dovere di approfondire la dimensione eucaristica del
Matrimonio e la dimensione nuziale dell’Eucaristia. Se ci incamminiamo in questa ricerca avremo modo di
scoprire con maggiore chiarezza, in particolare voi sposi cristiani, e sarà una scoperta importante per il bene
di tutta la Chiesa, la grandezza dell’amore divino: Dio ha voluto riversarlo su tutta l’umanità nella Pasqua di
Cristo e l’Amore di Dio santifica l’amore umano.
Negli ultimi decenni l’insegnamento della Chiesa ha sottolineato questa verità. Giovanni Paolo II – Familiaris
consortio 57:
“Il compito di santificazione della famiglia cristiana ha la sua prima radice nel Battesimo e la sua massima
espressione nell’Eucaristia, alla quale è intimamente legato il Matrimonio cristiano. L’Eucaristia è la fonte stessa
del Matrimonio cristiano”.
Benedetto XVI – Sacramentum caritatis 27:
“L’Eucaristia, sacramento della carità, mostra un particolare rapporto con l’amore tra l’uomo e la donna, uniti nel
Matrimonio”.
Approfondire questo legame è una necessità propria del nostro tempo. Il Papa Giovanni Paolo II ha avuto più
volte l’occasione di affermare il carattere sponsale dell’Eucaristia e il suo rapporto peculiare con il sacramento
105
del Matrimonio: “L’Eucaristia è il sacramento della nostra redenzione. È il sacramento dello Sposo (Cristo) e
della Sposa (la Chiesa)”. Del resto “tutta la vita cristiana porta il segno dell’amore sponsale di Cristo e della
Chiesa. Già il battesimo, che introduce nel popolo di Dio, è un mistero nuziale: è, per così dire, il lavacro delle
nozze che precede il banchetto delle nozze, l’Eucaristia”.
L’Eucaristia non è un’idea. Noi sappiamo che l’Eucaristia si identifica con Cristo stesso, il suo corpo e il suo
sangue, nella sua integrità concreta e personale, nella sua realtà di Figlio di Dio che, come vero Sposo, dà
tutto se stesso a noi sua Chiesa, sua Sposa, perché possiamo vivere della sua vita. Voi che vivete nella vostra
carne l’esperienza del Matrimonio, potete capire e vivere meglio questa realtà “nuziale” dell’Eucaristia e,
insieme, vivendo con maggiore attenzione l’Eucaristia, potete davvero fare delle vostrenozze umane una
esperienza “divina”.
A. LA VOSTRA ESPERIENZA DI SPOSI E DI GENITORI VI AIUTA A CAPIRE MEGLIO IL MISTERO DELL’EUCARISTIA.
Come cristiani sappiamo che la nostra esperienza umana, pur segnata dal peccato e quindi imperfetta, mantiene
comunque tutto il suo valore, legato al progetto di Dio nella creazione. I nostri sentimenti, la nostra intelligenza,
le nostre stesse passioni, la nostra capacità di amare, la nostra volontà, tutto ciò che noi siamo, ci rimanda alla
realtà di Dio, poiché siamo creati “a sua immagine”.
Non sempre teniamo presente questa verità. Non sempre troviamo l’equilibrio nel dare valore alle realtà
spirituali e a quelle materiali, anche noi che pure diciamo di credere che Dio “si è fatto carne” in Gesù. Nella
redenzione la nostra natura umana non viene annullata, ma integrata e valorizzata appieno nella vita spirituale.
È importante cogliere continuamente e in modo sempre rinnovato il legame tra i sacramenti e la vita concreta.
• L’Eucaristia non può essere vissuta in modo staccato dalla vita. Dobbiamo avvicinarci ad essa portando tutta la
nostra realtà quotidiana, la nostra gioia e la nostra fatica, il nostro impegno e anche le nostre debolezze, per
lasciarci trasformare da Cristo, per diventare il suo Corpo, per lasciare che Lui sia presente nella nostra vita.
• Il Matrimonio cristiano non si esaurisce nella sua celebrazione rituale. Inizia nella celebrazione liturgica,
ma deve essere vissuto giorno dopo giorno, coinvolgendo tutti i sentimenti, i gesti, le parole, le scelte della vita
quotidiana, l’affettività, la sessualità, la volontà, tutta la realtà dei due sposi .
Gesù, facendosi “carne” e diventando uomo come noi, ha vissuto in pienezza questa realtà. Nella istituzione
dell’Eucaristia egli si è espresso in tutta la pienezza del suo essere uomo. I Vangeli ci descrivono:
• la sua attenzione a preparare con estrema cura, fin nei minimi particolari, l’ultima cena con la sua comunità
apostolica (Mc 14, 12-16);
• la sua disponibilità al servizio: lava i piedi agli apostoli (Gv 13,2-22);
• l’annuncio della pienezza della gioia: “la vostra tristezza si cambierà in gioia; voi ora siete nel dolore, ma vi vedrò
di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,20-22);
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• la sua accettazione degli apostoli in tutta la loro realtà, fatta di generosità, di slanci di entusiasmo, ma anche di
debolezza, di paura, e perfino di peccato e anche di tradimento;
• la sua dedizione agli apostoli e alla Chiesa fino al sacrificio totale di sé, fino a lasciarsi “mangiare” dai suoi,
anticipando sacramentalmente la sua morte in croce;
• nell’ultima cena esprime gli atteggiamenti propri del vero Sposo, preannunciati nel “primo segno” alle nozze
di Cana, e i sentimenti della paternità maternità “Chi ha visto me ha visto il Padre”; “La donna, quando
partorisce, è nel dolore…”.
Voi sposi, vivendo l’Eucaristia, potete trasferire in essa la vostra esperienza umana di sposi e di genitori, perché,
lasciando che Cristo vi unisca a sé, la vostra vita quotidiana ne venga trasformata. E dovete portare con voi e
offrire al Signore:
• l’esperienza del condividere il pane, il pasto, la vita;
• l’esperienza della gioia nel servizio reciproco e verso i figli, anche quando tutto questo è faticoso;
• l’esperienza dell’accettazione delle debolezze reciproche e della disponibilità al sacrificio, non solo subito, ma
accolto con amore: l’esperienza di amare fino a lasciarsi mangiare;
• l’esperienza della coniugalità e della paternità/maternità come dono totale e gratuito di voi stessi.
B. L’ESPERIENZA SEMPRE PIU' PROFONDA DELL’EUCARISTIA VI AIUTERÀ A COMPRENDERE E VIVERE MEGLIO LA
VOSTRA REALTÀ DI SPOSI E DI GENITORI.
Nell’Eucaristia Gesù non agisce solo come uomo, ma è presente anche nella sua realtà divina e apre a chi si
unisce a Lui la possibilità di vivere della sua stessa vita, di inserirsi nella vita trinitaria di Dio. Non dimentichiamo
le parole del Vangelo di Giovanni: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui, colui
che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,22-68). Con la forza dell’Eucaristia scoprirete di essere chiamati a vivere
come Cristo e avrete la forza del suo Spirito per riuscirci ogni giorno di più. Scoprirete di essere chiamati ogni
giorno:
- a diventare “una sola carne”: è l’espressione del libro della Genesi, ripreso più volte da Gesù e dagli apostoli.
Riflettere su questa espressione vi aiuta a comprendere in profondità la vocazione che il Signore vi ha affidato
nel Matrimonio.
- a crescere ogni giorno nell’amore, dando la vostra vita.
Non si tratta tanto di provare sempre tra voi un amore-sentimento, ma di scegliere di vivere secondo la verità e
la logica evangelica: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama” (Gv 15,13).
Questa è la logica; non ce n’è di più alta e di più grande:è suprema e, dunque, è universale. Essa vive e vige
107
• in ambito intratrinitario nelle relazioni tra le divine Persone;
• in ambito economico, in cui tutta la Trinità dona e si dona alla e per l’umanità;
• in ambito eucaristico in cui Cristo si consegna totalmente e fino all’ultimo alla sua comunità/Sposa;
• in ambito nuziale in cui gli sposi sono chiamati a donarsi l’un l’altro in modo totale;
• in ambito ecclesiale/comunitario in cui ogni credente in Cristo è chiamato a far suo e a vivere in prima
persona il gesto e l’atto di Cristo Signore: “Fate questo in memoria di me”; “Come io vi ho amato, così amatevi gli
uni gli altri”. Dovete amare Dio anche più di voi stessi e più del vostro sposo/a e dei vostri figli. Dio, che fin
dall’inizio ha voluto l’unione dell’uomo e della donna, desidera però avere il primo posto nel vostro amore.
Da una parte l’amore coniugale esige che ciascuno dei due veda l’altro come il volto dell’amore di Dio a cui
si è disposti a donare tutto. Non è accettabile una religiosità anche esteriormente perfetta, magari anche
impegnata nel volontariato a favore della comunità o dei poveri, se contemporaneamente gli sposi vivono
nell’indifferenza o nella non sopportazione reciproca!
D’altra parte però la Sacra Scrittura mette in guardia da una unità solo orizzontale, che mette il coniuge, o i figli,
o chiunque altro, al primo posto davanti a Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il
suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore” (Ger 17,4).
Per questo Gesù dichiara apertamente: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre,
la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26).
Non è una pretesa assurda né contraddittoria: quello stesso Dio che si nasconde nel prossimo, come nel pane
eucaristico, interviene come un Dio “geloso” a ricordarvi il suo primato. Lo fa per il vostro bene.
Riconoscendo a Dio il primo posto nella vostra vita di coppia, riuscirete ad abbandonare tutti gli altri “idoli” sui
quali molte volte viene fondato il matrimonio: l’attrazione del corpo, il fascino della persona, la buona famiglia
di provenienza, l’amore romantico, la sensibilità, la dote, la posizione sociale… Il perno dell’unità della coppia
non può essere l’altro, né l’io, né l’istituzione, che non possono di per sé costituire il fondamento del
matrimonio. La vera “roccia” è Dio.
Solo in Lui tutto il resto può acquistare senso. Solo nel Signore voi potrete conoscervi e amarvi veramente, senza
rischiare di appoggiarvi l’uno all’altro, e senza annullarvi l’un l’altro. Dovete scoprire la necessità di avere “fame e
sete” di Dio; l’esperienza dell’Eucaristia aiuta gli sposi a comprendere che con le sole loro forze non
riusciranno ad affrontare la debolezza umana. Si rafforzeranno nell’umiltà, trovando energie sempre nuove nel
nutrirsi di Cristo, “fino alla sua venuta”.
Spero di avervi aiutato con queste mie piccole riflessioni a comprendere meglio ciò che la Parola di Dio ci ha
rivelato attraverso le parole di Paolo nella sua lettera agli Efesini, quando ci parla del “grande
mistero”dell’amore di Gesù per la Chiesa: “Voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato
la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante
la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma
santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la
propria moglie ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche
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Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e
si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a
Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5,21-23).
In queste
parole, l’esperienza umana delle nozze diventa simbolo dell’amore di Gesù per noi. Ma
contemporaneamente l’amore sponsale di Cristo diventa normativo per la vita dell’uomo e della donna che si
sposano “nel Signore”. Era un messaggio già presente nell’Antico Testamento in tante espressioni dei profeti.
Ce lo ricorda la Familiaris Consortio:
“La parola centrale della rivelazione “Dio ama il suo popolo”, viene pronunciata anche attraverso le parole vive e
concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale. Il loro vincolo di amore diventa l’immagine e
il simbolo dell’alleanza che unisce Dio e il suo popolo. E lo stesso peccato, che può ferire il patto coniugale,
diventa immagine dell’infedeltà del popolo al suo Dio… L’amore sempre fedele di Dio si pone come esemplare
delle relazioni di amore fedele che devono esistere tra gli sposi” (c. 12).
L’amore degli sposi parla di Dio e l’amore di Dio traccia agli sposi le strade autentiche dell’amore. Questo
simbolismo è assunto da Gesù, che versa il suo sangue – e anticipa e perpetua questa realtà nell’Eucaristia – è
il sangue “della nuova ed eterna alleanza” per santificare la Chiesa. Così, da una parte scopriamo come il
Signore ha voluto vivere in pienezza l’umanità da Lui stesso creata, vivendone in modo profondo tutta la
complessità degli affetti, dei sentimenti, delle passioni, in quell’equilibrio che Lui aveva progettato prima che
nel mondo entrasse il peccato. D’altra parte scopriamo che Lui con la sua incarnazione ha voluto redimerci e
ridare a tutti noi la possibilità di superare il nostro peccato e vivere pienamente il suo progetto: ci riporta in
qualche modo “all’inizio”.
Questo vale anche per l’esperienza nuziale e per le sue esigenze di fedeltà, di relazione oblativa, di unità in
“una sola carne”. Gesù lo ha insegnato espressamente: “Per la durezza del vostro cuore egli (Mosè) scrisse per
voi questa norma (del ripudio). Ma all’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola”. E voi lo avete anche vissuto
– in modo spirituale ma non per questo meno reale – in un costante atteggiamento d’amore totale, fedele,
oblativo, come in una relazione nuziale verso la sua Sposa, la Chiesa
– e non dimentichiamo che il suo desiderio è che l’intera umanità entri a farne parte – fino all’intera sua
donazione sul talamo, sul letto nuziale della croce, come si esprimono i Padri della Chiesa.
Questo atteggiamento di Cristo è presente e reale nel segno sacramentale dell’Eucaristia. Mediante
l’Eucaristia Cristo vuole nutrirci di se stesso perché impariamo a vivere come Lui. Nessuno di noi può
imparare ad amare come Lui se non ci nutriamo di Lui. Nessuna coppia di sposi e nessuna famiglia può
arrivare ad essere ciò che deve essere, senza lasciare spazio a Lui nella propria vita e senza nutrirsi di Lui.
Nel vivere bene i sacramenti dell’Eucaristia e del Matrimonio, abbiamo la possibilità di volgere il nostro
sguardo e di trovare consolazione in Maria, Vergine, Sposa, Madre, vera “donna eucaristica”. Il Vangelo ce la
presenta nella sua dedizione totale alla volontà di Dio, prima e perfetta discepola di Gesù. Per capire in
profondità il suo ruolo e per chiedere di saperla imitare, tenetela presente soprattutto in due pagine del
Vangelo:
• le nozze di Cana: con la sua sensibilità nel comprendere la crisi della festa e con la sua fiducia totale
nell’insistere perché Gesù anticipi la sua “ora”. La “Donna” diventa simbolo della Chiesa-Sposa;
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• in piedi sotto la croce di Gesù: Gesù la chiama donna perché è pienamente unita al sacrificio d’amore del Figlio,
disposta a “perdere” il Figlio e disponibile a diventare Madre della Chiesa, simbolo della Chiesa- Madre.
Permettetemi di concludere con un’altra frase di Igino Giordani, ancora nel suo libro “Famiglia comunità
d’amore”: “Se la famiglia partecipa in unità al divino sacrificio, agisce da piccola Chiesa che si unisce a formare la
grande Chiesa. La famiglia che torna dalla Messa ha quasi inorbitato in sé Dio: fa la sua contemplazione (cumtemplum) e cioè fa della sua casa un tempio. Può essere uno stambugio, una capanna, una grotta, come a
Betlemme, ma c’è Cristo: e dunque vale quanto una cattedrale.
Nella comunione culmina l’amore dei Dio per noi, ché dopo essersi dato per noi, si dona a noi: ci fa lui. In essa
noi diventiamo consanguinei di Cristo: fratelli di sangue. E quindi consanguinei fra noi anche
come famiglia di Cristo. Siamo difatti fratelli di sangue di Gesù, quindi figli di Dio e di Maria”.
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CONGRESSO EUCARISTICO DIOCESANO
nono giorno
CELEBRAZIONE EUCARISTICA ALL’ANFITEATRO SALUTO DEL SINDACO DI NUORO SANDRO BIANCHI
Nuoro, 26 settembre
Eminenza Card. Salvatore De Giorgi, Eccellenze Reverendissime della Sardegna,
caro Mons. Pietro Meloni, Autorità, carissimi ospiti della città, cari concittadini.
Personalmente e a nome degli amministratori nuoresi, porgo a voi il più caro benvenuto. Nuoro è onorata di
aver ospitato il Congresso Eucaristico Diocesano che rappresenta un momento di grande importanza non
per la sola comunità dei credenti, ma per l’intero territorio. È dunque doveroso esprimere, a nome del
capoluogo che rappresento, gratitudine per il fatto che un evento di tale rilevanza si sia tenuto a Nuoro e allo
stesso tempo esprimo fiducia sugli esiti di queste giornate di impegno, di lavoro e anche di festa per voi tutti.
Il ringraziamento per questo congresso si aggiunge alla riconoscenza per la Chiesa e per i suoi testimoni nei vari
settori della vita civile. Siamo consapevoli della necessità di un aiuto, anche spirituale, di un più grande respiro
dell’anima, per vincere le emergenze ed incertezze del nostro tempo, in un tessuto sociale purtroppo ancora
lacerato e profondamente segnato dall’egoismo e dall’individualismo. Le emergenze dei nostri giorni: la casa, il
lavoro, le estreme povertà, sono drammi quotidiani che rimettono in discussione il nostro ruolo di
amministratori. L’agire nel gestire la cosa pubblica è fortemente condizionato dall’esigenza di far fronte a
condizioni di vita precarie, che interessano purtroppo ampie fette di popolazione che fino a pochi anni fa viveva
in una situazione di tranquillità. È in una fase sociale così difficile che emergono i limiti delle amministrazioni a
gestire criticità così importanti e diffuse e soprattutto ciò emerge in maniera più cruda alla luce degli interventi
dello Stato, che limitando i trasferimenti di fondi agli enti locali, mette gli stessi nelle condizioni di tagliare una
parte dei servizi ai cittadini o comunque di poterli sostenere in maniera non adeguata. È dunque in uno
scenario come questo, anche di vuoto dell’iniziativa pubblica, che l’azione della Chiesa nel sociale diviene
importante e insostituibile nel suo manifestarsi come missione a vantaggio dei più deboli.
Ogni comunità cresce con l’apporto di ciascuno dei suoi membri e l’occasione del Congresso Eucaristico è
richiamo e stimolo per questa stagione di partecipazione e condivisione, per la necessità di una stagione di
solidarietà. E Nuoro è una città in cui gli amministratori devono essere votati all’ascolto delle voci della comunità,
il cui primo riferimento è spesso la Parrocchia rispetto a cui riteniamo indispensabile la costante interlocuzione e
il confronto.
Sono convinto che questo Congresso Eucaristico, evento ricco di fascino e germe di azioni virtuose e solidali,
saprà costituire un alto momento di riflessione e di indirizzo morale ed etico non solo per la Città che lo ha
ospitato ma per la Sardegna intera.
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SALUTO DEL VESCOVO DI NUORO MONS. PIETRO MELONI
Nuoro, 26 settembre
“Sacramento della carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore
infinito di Dio per ogni uomo” (Parola di Dio e Parola del Papa Benedetto XVI: Sacramentum caritatis 1). Fior di
Frumento, 1’Eucaristia è il pane della famiglia di Dio. Il “Congresso Eucaristico Diocesano” è il grande dono che il
Figlio di Dio ha fatto alla nostra Chiesa di Nuoro in questo nostro tempo, trentun anni dopo il Congresso
Eucaristico guidato dal Vescovo Mons. Giovanni Melis nel mese di settembre dell’anno 1979. Siano rese grazie a
Dio! Magnificat! diciamo alla Madre di Dio, la Vergine Maria Nostra Signora della Neve, patrona della Chiesa
Diocesana di Nuoro.
Grazie di cuore al Card. Salvatore De Giorgi, che ci porta la benedizione del Papa Benedetto XVI e presiede la
Santa Eucaristia in questo ultimo giorno del Congresso Eucaristico. È stato arcivescovo di Oria, Foggia,
Bovino, Taranto e Palermo, Assistente Nazionale dell’Azione Cattolica, eletto cardinale dal Papa Giovanni
Paolo Il nell’anno 1998. Grazie agli arcivescovi e vescovi della Sardegna e a tutti i sacerdoti concelebranti, con
una speciale gratitudine a Mons. Salvatore Floris, don Giuseppe Mattana e don Giuseppe Cheri, a tutti i maestri
di spiritualità delle giornate del Congresso, grazie con simpatia al Sindaco di Nuoro Sandro Bianchi, ai Sindaci e
a tutte le Autorità del territorio, alle persone consacrate e ai fedeli, alle famiglie, ai giovani e ai bambini, agli
ammalati e agli anziani, ai detenuti di Mamone e Badu’e Carros, alle monache di clausura che pregano nel
silenzio e alle Figlie della Chiesa adoratrici dell’Eucaristia.
Obbedienti all’invito di Gesù che dice a noi credenti “Fate questo un memoria di me”, noi accogliamo da Lui il
pane della vita, il pane dell’amore, il pane della pace e della vita immortale.
Il Card. Salvatore De Giorgi, che ha incontrato qualche giorno fa il Papa e gli ha annunziato la sua venuta in
Sardegna, ha ottenuto da Benedetto XVI il dono speciale dell’indulgenza plenaria per i partecipanti alla presente
celebrazione e per tutti quelli che vi parteciperanno dalle loro case attraverso la Radio e nello spirito dell’unità e
della comunione.
Il pane che noi mangiamo è la comunione con Cristo e con i fratelli, che farà crescere la concordia nella nostra
comunità e potrà edificare il progresso umano e la pace nella nostra terra, che in questi giorni di rinnovata
violenza è assetata di pace. Il Congresso Eucaristico è affidato ora a tutti voi per il tempo futuro.
A voi tutti l’augurio della Chiesa e la benedizione di Dio!
112
OMELIA DEL CARDINALE SALVATORE DE GIORGI
ARCIVESCOVO EMERITO DI PALERMO
Nuoro, Anfiteatro, 26 settembre
Venerati confratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, cari Diaconi e Ministri istituiti,
Religiosi e religiose,
distinte Autorità civili e militari,
carissimi fratelli e sorelle della Santa Chiesa di Nuoro amati dal Signore!
Sono immensamente grato a S. E. Mons. Pietro Meloni per avermi invitato a vivere con voi questo momento
di grazia, che è la Conclusione del “Congresso Eucaristico Diocesano”. Per oltre una settimana tutta la vostra
Chiesa nelle sue diverse articolazioni, dai bambini agli anziani, dai militari ai lavoratori, dai detenuti agli
ammalati, dai giovani agli sportivi, dai Religiosi alle Religiose, dai Presbiteri ai Diaconi, dal mondo della
cultura a quello della sanità, dagli amministratori ai politici, ha vissuto unita in un cuor solo e un’anima sola,
davanti al massimo Sacramento della fede, della speranza e della carità. Con la guida di esimi Pastori e Maestri
avete contemplato l’Eucaristia come il pane della vita, sorgente di gioia e di festa, fonte di comunione e di
missione, di spiritualità e di servizio, di solidarietà e di condivisione, fondamento della famiglia, anima del
lavoro, sorgente e culmine di ogni ministero.
Dalla prima domenica di Quaresima vi siete preparati a questo incontro col Signore nella predicazione e nella
preghiera, per conoscere più profondamente il Mistero della fede, celebrarlo più fedelmente, adorarlo più
devotamente, viverlo più interiormente, annunziarlo più coraggiosamente, testimoniarlo più coerentemente,
accogliendo il suo invito, tema anche del Congresso: “Fate questo in memoria di me”. Alla luce della Parola di
Dio che abbiamo ascoltato, disponiamoci ora a dare la risposta al messaggio eucaristico perenne ma che risuona
sempre nuovo in ogni celebrazione, come a Cafarnao, come nel Cenacolo, e oggi in questo anfiteatro.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci è stata presentata la più antica figura di Cristo sacerdote,
Melchisedek, re di Salem e sacerdote di Dio altissimo, che, in ringraziamento per la vittoria ottenuta da
Abramo, offre un sacrificio di pane e vino, simbolo dell’Eucaristia. Di questo personaggio misterioso, del quale
la Bibbia non dà alcuna indicazione né intorno alla sua origine né intorno alla sua morte, l’Autore della Lettera
agli Ebrei scrive: “rassomigliato al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno”. Melchisedek è detto “sacerdote in
eterno” perché di lui non si conosce né principio né fine. A maggior ragione tale titolo conviene a Cristo, il cui
sacerdozio non ha origine umana ma divina, e quindi è eterno nel senso più assoluto. Così lo abbiamo
acclamato nel salmo responsoriale: “Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedek”. E in realtà nel
Nuovo Testamento, cessato il sacerdozio levitico, c’è solo quello eterno di Cristo che si prolunga nel tempo
attraverso il sacerdozio cattolico, istituito insieme all’Eucaristia.
Nella seconda lettura San Paolo ci ha presentato Gesù sacerdote nell’atto di istituire l’Eucaristia. Il racconto
è quello trasmesso dall’Apostolo secondo la Tradizione e quanto egli stesso ha ricevuto dal
Signore. Come Melchisedek, Gesù offre pane e vino. Ma la sua benedizione compie il grande miracolo: “Questo
è il mio corpo che è per voi” e il pane diventa il suo Corpo. “Questo calice è la nuova alleanza nel mio Sangue”, e
il vino diventa il suo Sangue. Anticipa così nell’Eucaristia il sacrificio che compirà una volta per tutte il giorno
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dopo sulla Croce nelle sue membra straziate, nel suo Corpo immolato e nel suo Sangue versato, e
anticipandolo, lo lascia, come dono sponsale e testamento d’amore senza fine, a tutti noi, quale memoriale
perenne della sua Passione: “Fate questo in memoria di me”. Perciò, conclude S. Paolo: “Ogni volta, infatti, che
voi mangiate questo pane e bevete al calice, annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. La medesima
realtà viene offerta ai fedeli di tutti i tempi perché possano unirsi al sacrificio di Cristo e nutrirsi del suo Corpo e
del suo Sangue in attesa della sua venuta.
San Luca nel Vangelo ci ha parlato dell’Eucaristia sotto la figura trasparente della moltiplicazione dei pani. Qui non
c’è soltanto il lontano simbolismo del pane e del vino offerti da Melchisedek, ma c’è l’azione di Gesù che
anticipa quanto farà nell’ultima Cena. Gesù, infatti, compie gli stessi gesti che farà allora: prende i pani, eleva gli
occhi al cielo, li benedice, li spezza e li distribuisce. Ma non ci sfugga un particolare: i pani si moltiplicano nelle
sue mani e da queste passano in quelle dei discepoli che li distribuiscono alla folla.
Ciò significa che sarà sempre lui a compiere il miracolo eucaristico. Tuttavia si servirà dei suoi sacerdoti che,
in forza dell’Ordinazione, ne saranno i ministri e i tesorieri.
L’Eucaristia è il “mistero della fede”. Per questo la Chiesa, che vive del Cristo eucaristico, illuminata dalla sua
Parola e nutrita dal suo Corpo, la circonda del più grande rispetto e della massima adorazione. Infatti è
l’Eucaristia che edifica la Chiesa come popolo della Nuova Alleanza, la fa crescere nella santità, la plasma nella
comunione e nell’unità, la rinvigorisce nella missione e nel servizio. Dalle tre letture risultano evidenti i tre
inscindibili aspetti del Mistero eucaristico sacrificio, presenza, convito -che coinvolgono la vita di tutta la Chiesa
e di ciascuno di noi.
L’Eucaristia è un vero sacrificio, perché rende attuale nel tempo l’unico e definitivo sacrificio redentore con il
quale Gesù ha offerto al Padre se stesso sulla croce. Ma c’è questa differenza: sulla croce l’unico sacerdote
e l’unica vittima era lui, mentre nel sacrificio eucaristico egli associa a sé la Chiesa sua sposa e quindi tutti noi.
Quando partecipiamo alla Messa, sorelle e fratelli carissimi, dobbiamo essere consapevoli che non assistiamo a
un semplice rito come estranei o muti spettatori, non compiamo un semplice atto di devozione personale, ma,
come popolo sacerdotale e come assemblea santa, ci uniamo al sacrificio di Gesù, offrendo con lui al Padre noi
stessi, le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre speranze e le nostre delusioni, le sofferenze fisiche e quelle
spirituali, i problemi che travagliano la nostra esistenza personale, familiare e sociale. È così che la nostra vita
diventa sacrificio spirituale, santo e gradito a Dio. Nella Messa noi annunciamo la morte del Signore. Ma poiché
egli è risorto, proclamiamo anche la sua risurrezione, che ha coronato il sacrificio della Croce ed è garanzia
della nostra risurrezione.
L’Eucaristia è il memoriale della Pasqua. E poiché la “Domenica” è la “Pasqua settimanale”, si comprende non
solo il dovere ma, prima ancora, l’esigenza, la necessità di partecipare alla Messa domenicale, della quale
non possiamo fare a meno se vogliamo vivere da cristiani. E purtroppo la frequenza in Italia si abbassa.
È un sacrificio, la Messa, ed è anche convito, un vero banchetto. È il banchetto pasquale nel quale Gesù, morto e
risorto, si siede a tavola con noi e nei segni del pane e del vino ci dona in nutrimento il suo corpo immolato e il
suo sangue versato, pegno e anticipazione del convito eterno nella gloria futura. Per questo, attraverso la voce
del sacerdote, che presiede la celebrazione di tutta l’assemblea in suo nome e
nella sua persona, come capo e sposo della Chiesa, Gesù ci dice: “Prendete e mangiatene tutti ... Prendete e
bevetene tutti” (Mt 26, 26). È un invito di amore che non possiamo non accettare. Tanto più che Il sacrificio
eucaristico, è di per sé orientato alla nostra più intima unione con Gesù attraverso la comunione: è allora che la
sua efficacia salvifica si realizza in pienezza.
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Che cosa meravigliosa! Non dovrebbe mai finire di stupirci! Quando facciamo la comunione, noi riceviamo
Gesù che sulla Croce si è immolato per noi, il suo corpo che ha offerto per noi, il suo sangue che ha versato
per noi in remissione dei peccati. Ci nutriamo di lui, diventiamo come lui, pregustiamo il paradiso. Nutrirci di lui,
per noi cristiani, è condizione perché possiamo vivere, conservare e far crescere la vita divina che abbiamo
ricevuto nel Battesimo. Anche su questo Gesù è stato molto chiaro: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate
la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (Gv 6,53).
Ma c’è di più. Attraverso la comunione del suo Corpo e del suo Sangue Gesù ci unisce al Padre e ci dona la
pienezza dello Spirito Santo, che fa di noi “un solo corpo e un solo spirito”. È così che l’Eucaristia manifesta e
edifica incessantemente la Chiesa, che a sua volta incessantemente la celebra e la dona. L’Eucaristia
manifesta e costruisce la comunione della Chiesa terrestre, col Papa, col proprio vescovo, col collegio episcopale,
con i presbiteri, i diaconi e tutti i fedeli, ma esprime e rinsalda anche la comunione con la Chiesa celeste -la
Vergine, gli Angeli, gli Apostoli, i gloriosi Martiri e tutti i Santi -, e ci mette in comunione con tutti i defunti:
un’esperienza viva e sempre nuova del mistero della Comunione dei Santi che professiamo nel Credo.
Alla mensa eucaristica dobbiamo accostarci con fede, pienamente consapevoli di chi andiamo a ricevere e
perciò col cuore puro, senza peccati gravi sulla coscienza, in pace con Dio e con il prossimo: diversamente -come
scrive S. Paolo ai Corinzi -mangeremmo la nostra condanna. La presenza di Gesù nella Eucaristia è la presenza
reale per antonomasia: è presente Gesù tutto intero, vero Dio e vero uomo, una presenza personale che
permane anche dopo la celebrazione della Messa e sempre in riferimento ad essa. Per questo l’Eucaristia è
conservata con la massima diligenza nei Tabernacoli delle nostre Chiese dai quali Gesù ci ripete: “Venite a me,
voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28). È un invito che non possiamo disattendere.
Quanta consolazione, quanta forza, quanto sostegno, noi avremo se lo accoglieremo con fiducia, soprattutto
quando si è tentati di trovare illusoriamente conforto altrove, perfino nella superstizione e nella magia.
Carissimi fratelli e sorelle amati dal Signore. Nello smarrimento e nella confusione in cui sembra brancolare
una società che va perdendo il senso della vita e diventa sempre più povera di speranza perché delusa dalle
promesse illusorie dei tanti falsi messia e insicura per l’esplodere di violenze e di terrorismi senza fine,
l’Eucaristia, mistero della fede, è fonte della nostra speranza perché è la presenza di Gesù, nostra unica
salvezza. Non c’è giorno che le cronache dei mass-media non registrino segni sempre più deprimenti di
esasperazione, di frustrazione, di disperazione, rivelatori di un malessere sociale sempre più diffuso,
particolarmente tra le nuove generazioni, incerte sul significato della vita e senza fiducia nel loro futuro,
soprattutto per mancanza di lavoro. Ma non può, non deve morire la speranza! L’Eucaristia è il sacramento
della speranza, perché è Dio con noi, Dio divenuto in Gesù Cristo uno di noi, un nostro compagno di viaggio, che
non ci abbandona e non ci lascia soli nei momenti bui e insignificanti della vita, che è accanto a noi soprattutto
nel dolore e nella prova.
Nell’Eucaristia la Chiesa raccoglie la speranza degli uomini, in essa legge il senso della storia e trova la forza
per attraversarla con coraggio, per riconciliarla e consacrarla a Dio, per ricreare un tessuto di comunione nel
territorio, nelle famiglie, nella scuola, nel mondo del lavoro, in ogni ambito della vita e dell’impegno sociale.
Da qui la scelta di ripartire dagli ultimi e con gli ultimi, con i nuovi poveri, che la società continua a produrre e
poi ignora ed emargina, ma che sono un segno drammatico della crisi che attraversa il nostro paese: da essa
non sarà possibile uscire senza l’impegno di un rinnovamento autentico, il quale, prima di essere sociale,
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economico, politico, deve essere religioso, morale, culturale, e trovare la sua espressione più vera nella
solidarietà.
Sorelle e fratelli carissimi! Il “Congresso Eucaristico” vi è stato offerto da Gesù come il tempo favorevole per
ridestare la fede in lui, con rinnovato “stupore” e più decisi impegni. L’Eucaristia vi invita alla coerenza della vita
cristiana in un cammino perseverante di conversione al Vangelo e di tensione alla santità alla quale tutti siamo
chiamati nelle ordinarie condizioni e situazioni di vita. La partecipazione all’Eucaristia infatti esige una limpida
vita di fede, assolutamente incompatibile con l’adorazione degli idoli di un paganesimo risorgente – consumismo,
edonismo, sesso, potere, possesso – e con l’adesione a organizzazioni malavitose che sono la negazione del
Vangelo.
L’Eucaristia vi sollecita a una più convinta appartenenza ecclesiale e a una più solida comunione fraterna, sia
all’interno di ogni comunità cristiana, sia tra le diverse realtà diocesane, sotto la guida del Vescovo e sempre in
filiale adesione al Magistero del Papa, che ha avuto il mandato di confermare tutti nella fede. L’Eucaristia vi
esorta a una più salda concordia sociale, a cominciare dalla famiglia, oggi fortemente in crisi: al suo interno a
causa del degrado dei valori fondamentali dell’amore coniugale, come l’unità, l’indissolubilità, la fedeltà, la
procreazione e l’educazione della prole, al suo esterno per le aggressioni culturali, sociali e politiche che
vorrebbero scardinarla dal suo fondamento naturale, il matrimonio, ossia l’unione stabile di un uomo e di una
donna come sorgente di vita e di amore.
L’Eucaristia, Sacramento della carità, esige apertura, accoglienza, collaborazione, solidarietà, rispetto, altruismo,
stima, comprensione, sopportazione e perdono scambievoli, secondo il comandamento nuovo che Gesù col
segno della lavanda dei piedi ci ha lasciato come unica tessera di identità dei suoi seguaci: “Amatevi gli uni gli
altri, come io ho amato voi” (Gv 15,17).
L’Eucaristia, infine, vi sprona alla testimonianza pubblica e coraggiosa della fede e a un rinnovato impegno
missionario, a cominciare dal vostro territorio, oggi più necessario che mai, come risposta al processo di
scristianizzazione in atto, ma anche per contribuire con la luce del Vangelo alla edificazione di una società più
giusta fondata sulla civiltà dell’amore. Verso questi “ideali eucaristici” riparte dopo il Congresso il cammino
pastorale della vostra Chiesa, come popolo profetico, sacerdotale e regale, che dall’Eucaristia nasce e
dell’Eucaristia si nutre e vive.
È questo il fervido augurio che vi rivolgo con cuore di fratello e di amico, avvalorato dalla Benedizione del
Santo Padre, Benedetto XVI, al quale mercoledì scorso ho parlato del vostro Congresso e che ringrazio per
avermi concesso la facoltà di impartirvela con annessa l’indulgenza plenaria in suo nome. È un augurio che
depongo su questo altare tra le offerte che saranno fra poco presentate per il sacrificio. Lo depongo
attraverso le mani di Maria, “Donna tutta Eucaristica”, e lo esprimo con quello del Papa: “Auguriamoci
vicendevolmente di andare colmi di gioia e di meraviglia all’incontro con la Santa Eucaristia, per sperimentare e
annunciare agli altri la verità della parola con cui Gesù si è congedato dai suoi discepoli:
Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Amen.
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IL PANE DELL’EUCARISTIA “SACRAMENTO DELLA CARITÀ”
Ad maiorem Dei gloriam!
Il “Congresso Eucaristico Diocesano” nella sua splendente bellezza è un inno di “gloria a Dio”. A Dio Padre, e a
Gesù Eucaristia, onore e gloria, adorazione e gratitudine! “Sacramento della Carità, la Santissima Eucaristia è il
dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo” (Benedetto XVI). Lo
Spirito Santo è il vento dell’amore divino che ha donato alla celebrazione eucaristica nell’anfiteatro di Nuoro un
fulgido sole e ha illuminato di gioia il cuore della nostra comunità.
Dio è Amore. Il “Pane dell’Eucaristia” è il “Sacramento dell’Amore”. Era visibile la gioia dell’amore nella grande
festa del nostro popolo, nel “giorno del Signore” che coronava il “Congresso Eucaristico Diocesano”. Era
visibile l’esultanza del Cardinale Salvatore De Giorgi, che abbracciava paternamente la nostra gente effondendo
la benedizione del Papa Benedetto XVI. Era visibile la felicità dei Vescovi e dei Sacerdoti concelebranti, dei
diaconi e dei seminaristi, dei cantori e dei ministranti. Era visibile la gratitudine delle autorità civili e dei custodi
della pace, il giubilo delle persone consacrate e dei fedeli, il tripudio dei giovani e dei bambini. E aleggiava
misteriosamente sull’altare la contentezza degli ammalati e degli anziani, delle monache di clausura e delle suore
adoratrici, come anche dei fratelli detenuti, che partecipavano alla festa attraverso le onde della radio.
Il “Congresso Eucaristico” è stato “un momento di grande importanza non per la sola comunità dei credenti,
ma per l’intero territorio”, ha detto il Sindaco di Nuoro Sandro Bianchi, nel suo saluto a nome di tutti i
responsabili della società, manifestando la riconoscenza unanime “per la Chiesa e per i suoi testimoni” nella
preziosa “missione a vantaggio dei più deboli”.
Noi siamo lieti e obbedienti all’invito di Gesù che dice ai suoi discepoli: Fate questo in memoria di me ! È stato
questo il pensiero del mio saluto all’assemblea liturgica, per confermare che noi credenti promettiamo di fare
del pane della vita un pane d’amore, un pane di pace, un pane di fratellanza e solidarietà.
Il Cardinale Salvatore De Giorgi ha infiammato i cuori all’amore per l’Eucaristia, che è Gesù presente in mezzo a
noi ogni giorno, invitandoci a “conoscere più profondamente il mistero della fede, celebrarlo più fedelmente,
adorarlo più devotamente, viverlo più interiormente, annunziarlo più coraggiosamente, testimoniarlo più
coerentemente”. Nutrirci di Cristo “per noi cristiani condizione perché possiamo vivere”. L’Eucaristia “è fonte
della nostra speranza”: “Nell’Eucaristia la Chiesa raccoglie la speranza degli uomini, in essa legge il senso della
storia e trova la forza per attraversarla con coraggio, per riconciliarla e consacrarla a Dio, per ricreare un tessuto
di comunione nel territorio, nelle famiglie, nella scuola, nel lavoro, in ogni ambito della vita e dell’impegno
sociale”.
Grazie, Signore Gesù! Grazie diciamo oggi al Papa Benedetto XVI, nel vivo ricordo della visita a Nuoro di
Giovanni Paolo II venticinque anni fa. Grazie di cuore al Cardinale, ai Vescovi, a tutto il popolo sacerdotale. Il
“Congresso Eucaristico” ha suscitato la partecipazione e la collaborazione unanime dei sacerdoti e dei fedeli:
siano tutti ringraziati dalla Chiesa e benedetti da Dio.
Il “Congresso Eucaristico” si apre al futuro! Il “Pane di Dio” guiderà la nostra Chiesa alla “comunione” e la
nostra Società alla “civiltà dell’amore”. Maria, Regina della Famiglia e Regina della Pace, ci condurrà
all’incontro con Gesù: “da Lei dobbiamo imparare a diventare persone eucaristiche ed ecclesiali” (Benedetto XVI).
Nostra Signora della Neve ci protegga! Dio ci benedica!
✢ Pietro Meloni- Vescovo
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ECC. MO MONS. PIETRO MELONI VESCOVO DI NUORO PIAZZA SANTA MARIA 1 - 08100 NUORO
OCCASIONE SOLENNE CONCLUSIONE CONGRESSO EUCARISTICO DIOCESI DI NUORO SOMMO PONTEFICE RIVOLGE
CORDIALE SALUTO AT VOSTRA ECCELLENZA ET CONFRATELLI VESCOVI DI SARDEGNA CONCELEBRANTI CON
EM.MO CARDINALE SALVATORE DE GIORGI ET MENTRE AUSPICA CHE COMUNE FERVORE DI FEDE IN PRESENZA
REALE CRISTO SIGNORE IN MEZZO AT SUO POPOLO ANIMI RINNOVATA LUCE DI SPERANZA ET GENEROSA CARITÀ
FRATERNA INVOCA CELESTE INTERCESSIONE BEATA VERGINE MARIA ET SANTI PATRONI ET INVIA DI CUORE AT
PASTORI ET FEDELI IMPLORATA BENEDIZIONE APOSTOLICA
Dal Vaticano, 25.IX.2010
118
INDICE
Il “Congresso Eucaristico Diocesano” della Chiesa di Nuoro e la Festa del “Corpus Domini”
Il Pane di Dio fonte di unità nella Famiglia e di Concordia nella Comunità
Pag. 2
“
3
"
4
L’Eucaristia “Pane della Vita” - Primo giorno
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5
Incontro con le Forze dell’Ordine, Chiesa di N.S. delle Grazie, 18 settembre
“
6
Incontro con i Catechisti e i Ministri Straordinari della Eucaristia
“
10
Incontro con il Mondo del Lavoro
“
15
Incontro con gli Operai, Lavoratori, Allevatori, Agricoltori
“
21
Venite alla Festa del Pane di Gesù - Secondo giorno
“
25
Giornata con i bambini e i ragazzi
“
25
Ordinazione del diacono don Andrea Biancu
“
27
Eucaristia Fonte di condivisione e comunione - Terzo giorno
“ 29
Incontro a Badu ‘e Carros
“ 29
Celebrazione Eucaristica con gli ammalati e gli anziani
“
32
Incontro con i Consigli pastorali
“
35
Eucaristia Fonte di unità nella missione - Quarto giorno
“
42
Incontro con il mondo del Turismo e dello Sport
“
42
Incontro con i membri dei “Gruppi ecclesiali”
“
46
Omelia di don Giovanni Delogu
“
52
CONGRESSO EUCARISTICO-DIOCESI DI NUORO
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Eucaristia Fonte di spiritualità e di servizio - Quinto giorno
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54
Incontro con religiose e le persone consacrate
“
54
Incontro con i giovani
“
64
Eucaristia Fonte e culmine del Ministero - Sesto giorno
“
69
Incontro con i sacerdoti e i diaconi
“
69
Incontro con il mondo della Cultura e della Scuola
“
75
Eucaristia e Solidarietà - Settimo giorno
“
82
Celebrazione eucaristica a Mamone
“
82
Incontro con i medici e gli operatori sanitari
“
83
Incontro con gli amministratori e politici
“
92
Eucaristia, Famiglia e Lavoro - Ottavo giorno
“
100
Celebrazione delle Sante Cresime, Chiesa Cattedrale, 25 settembre
“
100
Celebrazione delle nozze di Alessandro e Simona
"
101
Incontro con le famiglie e gli animatori
“
103
Congresso Eucaristico Diocesano - Nono giorno
“
110
Celebrazione Eucaristica all’Anfiteatro
“
110
Saluto del Sindaco di Nuoro Dottor Alessandro Bianchi
"
110
Saluto del Vescovo di Nuoro Mons. Pietro Meloni
“
111
Omelia del Cardinale Salvatore De Giorgi
“
112
Il Pane dell’Eucaristia “Sacramento della Carità”
“
116
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congresso revised - Famiglia Scuola Educazione