2 3 INDICE Introduzione 1. Berselli e l‟Italia prima del ‟68 p. 6 8 1.1 Il contesto storico – sociale nel racconto di Edmondo Berselli 8 1.2 Musica in mutamento: Domenico Modugno, il rock‟n‟roll e il 14 pop italiano 1.3 L‟epoca dell‟impegno: il beat e i cantautori 2. Modelli di musica popolare secondo Berselli 27 37 2.1 Lucio Battisti come autore di riferimento 38 2.2 Max Pezzali e gli 883: un‟analisi controcorrente 48 3. Il ruolo della musica nella democratizzazione italiana 55 3.1 Sistema e anti-sistema nell‟industria discografica italiana 58 3.2 Una “terza via” per la musica italiana 62 Conclusioni 70 Bibliografia 74 4 5 6 INTRODUZIONE Nel seguente lavoro sull‟opera dello scrittore e intellettuale Edmondo Berselli (Campogalliano, 2 febbraio 1951 – Modena, 11 aprile 2010) ci concentreremo sulle sue analisi in merito al rapporto fra la società italiana contemporanea e le produzioni di musica popolare in Italia dal dopoguerra agli anni Duemila. Nel corso della sua attività come direttore editoriale della rivista Il Mulino, saggista, collaboratore dei maggiori quotidiani e periodici italiani, Berselli ha dedicato uno spazio considerevole alla trattazione della musica leggera nell‟ambito del racconto dell‟Italia, mediante gli strumenti che attengono all‟analisi sociologica e fenomenologica, mantenendo sempre quell‟approccio ironico che rappresenta la sua peculiare cifra stilistica, la cui onnipresenza deve pertanto indurre a non attribuire alle suddette analisi alcun carattere assertivo. Le vicende italiane sono state spesso rappresentate da Berselli attraverso le riflessioni sulla musica “pop”, che soprattutto in Canzoni. Storie dell‟Italia leggera è stata utilizzata come strumento privilegiato per intercettare gli slittamenti progressivi dell‟identità italiana. La musica di massa e i suoi autori, come avremo modo di vedere, hanno avuto in alcuni casi un ruolo che Berselli ritiene abbia travalicato la pura descrizione del cambiamento vissuto dal pubblico italiano. Il lavoro si propone di approfondire la tesi di fondo della riflessione musicologica di Berselli, oltre che per il valore e l‟importanza dell‟autore all‟interno del panorama culturale italiano, per l‟assoluta originalità delle sue argomentazioni in merito all‟incidenza della musica di massa sulla costruzione della società italiana. Vedremo come secondo Berselli vi siano stati esempi di cantanti e canzoni che hanno contribuito e talvolta determinato i cambiamenti di costume, introiettato pulsioni vitali e politiche, svolto un ruolo antipedagogico o pedagogico nell‟educazione sentimentale, civile e morale dei cittadini italiani. Dedicheremo la parte iniziale del primo capitolo alla contestualizzazione storicosociale dell‟Italia del dopoguerra, dalle contraddizioni del suo sviluppo economico a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta al periodo della contestazione del Sessantotto. A seguire si ripercorreranno, dal punto di vista di Berselli, le evoluzioni tecnologiche e compositive che dagli Stati Uniti d‟America e dall‟Inghilterra si imposero sul mercato discografico e sull‟immaginario collettivo del pubblico italiano, coadiuvando le rivoluzioni stilistiche approntate alla musica popolare 7 italiana innanzitutto da Domenico Modugno. La terza e ultima parte del primo capitolo sarà incentrata sulla dicotomia fra i complessi beat e i cantautori nei rispettivi atteggiamenti compositivi di fronte al clima contestatario del Sessantotto e l‟imposizione del tema della protesta e della rivoluzione all‟interno delle canzoni. Nel secondo capitolo si tratterà specificamente di due artisti paradigmatici del pensiero di Berselli sulle connessioni fra la musica “pop” e l‟Italia a partire dal periodo immediatamente successivo al Sessantotto. Vedremo come Lucio Battisti rappresenti per Edmondo Berselli il campione perfetto, l‟autore e cantante di riferimento, il musicista che più di ogni altro ha saputo trattare la musica leggera secondo le modalità e i fini che Berselli ritiene auspicabili poiché fondative di un‟educazione estetica e morale dell‟ascoltatore. Successivamente vedremo come la produzione musicale di Max Pezzali, ritenuta dalla totalità della critica italiana un mero fenomeno di marketing, costituisca per Berselli un ulteriore modello di riferimento, nonché l‟unico artista che abbia saputo canonizzare il racconto della provincia italiana e la vita delle giovani generazioni degli anni Novanta. Il terzo e ultimo capitolo prenderà in esame tre saggi brevi scritti da Berselli tra il 1993 e il 1994: La democrazia infelice dell‟Italia moderna, La musica popolare italiana come genere di educazione politica e La cultura informale. Qui in particolare emergerà come il mercato discografico italiano abbia strutturato la produzione musicale sulla base dell‟opposizione fra sistema e anti-sistema, rivestendo un ruolo decisivo nella modernizzazione e democratizzazione dell‟Italia. Al termine del capitolo ci soffermeremo sul tentativo di Berselli di formalizzare i caratteri di una forma canzone alternativa e terza rispetto alle oscillazioni, diseducative e anti-democratiche, che avrebbero influito sulle capacità degli italiani di strutturare un‟identità individuale e collettiva. 8 1. Berselli e l‟Italia prima del „68 1.1 Il contesto storico – sociale nel racconto di Edmondo Berselli Edmondo Berselli nasce a Campogalliano, in provincia di Modena, nel 1951, da madre casalinga e padre operaio reduce da una prigionia in Inghilterra finita nel 19461. Innanzitutto va sottolineato come Berselli viva gli ultimi anni della sua pre-adolescenza nel pieno del “boom economico”, ovvero quella fase di grande crescita economica e di sviluppo che l‟Italia attraversa fra la seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta. La fiducia nel futuro, un accresciuto benessere, nuovi suoni e colori definiscono un decennio di cui Berselli, in Adulti con riserva – Com‟era allegra l‟Italia prima del ‟68, narra i connotati a suo dire non riproducibili. Qui, nelle prime pagine, Berselli scrive: <<Con il miracolo, con il boom, con la massima occupazione, con le esportazioni, con l‟industria, con l‟urbanizzazione, con gli immigrati, le cambiali e il Mottarello…Si era capito che, grazie al cielo, circolavano un po‟ di soldi e di allegria.>>2. Il boom dopo un decennio subisce un arresto dovuto a una grave congiuntura economica. In merito scrive, fra gli altri, lo storico Guido Crainz : <<Dalla fine degli anni cinquanta avevano preso avvio trasformazioni colossali nel modo di lavorare e di vivere, di produrre e di consumare, di pensare e di sognare degli italiani – ma, prosegue - tra il 1963 e il 1964 l‟Italia vedeva bruscamente cessare quel „miracolo economico‟ che l‟aveva scossa dalle fondamenta in pochi anni: essa lasciava il posto, si disse, alla „congiuntura‟, cioè a una crisi economica temporanea.>>3 Il „miracolo‟ cui Guido Crainz fa riferimento modifica le condizioni di vita, gli usi e i costumi dell‟Italia e degli italiani in un clima di entusiasmo generale. Tuttavia, dai dibattiti dell‟epoca emergono visioni contrastanti a riguardo. Il poeta e intellettuale Pier Paolo Pasolini critica negativamente i mutamenti sociali in atto, che a suo dire costituiscono i primi sintomi della “mutazione antropologica” degli italiani. Nel gennaio 1963, in un‟intervista allo scrittore Alberto Arbasino, Pier Paolo Pasolini afferma: <<Sa 1 Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Quel gran pezzo dell‟Italia, Milano, Mondadori, 2012, p. 911. Il volume intitolato Quel gran pezzo dell‟Italia, che raccoglie tutte le opere pubblicate da Edmondo Berselli tra il 1995 e il 2010, sarà d‟ora in poi indicato come Q.G.P.D.I. 2 Ivi, pp. 882-883. 3 Guido Crainz, Il Paese mancato, Roma, Donzelli Editore, 2003, p. 3. 9 cosa mi sembra l‟Italia? Un tugurio i cui proprierari sono riusciti a comprarsi la televisione>>4. Il giudizio espresso da Pier Paolo Pasolini nel 1963, come ampiamente riportato dallo storico Ernesto Galli della Loggia, sarebbe divenuto un luogo comune, <<largamente condiviso dall‟opinione colta del paese, dagli osservatori più preparati, da larga parte del ceto politico>>, a certificare <<l‟incapacità/impossibilità per l‟Italia di essere un paese davvero moderno. La modernità italiana non è capace né di superare né di risolvere in sé il passato, ma si sovrappone semplicemente ad esso, vi si mischia goffamente producendo solo incongruenze e inefficienze.>>5 La crisi economica, a partire dal 1964, chiude un decennio caratterizzato da un significativo mutamento delle condizioni di vita degli italiani. A una diminuzione del 15% dell‟occupazione nel settore agricolo, quantificabile in tre milioni di unità, corrispondeva un incremento occupazionale dell‟8% nell‟industria e del 7% nei servizi. Il dato statistico sull‟aumento del reddito nazionale netto ne rivela l‟incremento, dai 17.000 miliardi di lire del 1954 ai 30.000 miliardi del 1964.6 A tale mutamento va ascritto il progressivo svuotamento delle campagne, determinato da uno sviluppo industriale senza precedenti che interessa in primis le grandi città del Nord Italia, come Milano. L‟arte e la letteratura subiscono l‟influenza del modello americano, che si impone sulla realtà quotidiana nel suo complesso. Il nuovo modello di cittadino italiano osserva e contribuisce a mutare il proprio habitat, così da riproporre quello che il giornalista Giorgio Bocca, sulla “Nuova frontiera di Milano”, nel 1965, definsce il “crogiuolo americano”. L‟italiano americanizzato matura un‟inedita idiosincrasia per il passato, adattandosi a un ambiente circostante completamente nuovo, dove la sempre crescente cementificazione e il ramificarsi di uno stile di vita assunto in toto dal modello statunitense attorniano un “cittadino senza città”. Quest‟ultimo, a dispetto di una condizione alienata prossima a manifestarsi, nella sua moderna operosità metropolitana riesce a costruire la propria emancipazione individuale.7 Degli Stati Uniti d‟America e dalla Gran Bretagna, in particolare da Londra, vengono importati in Italia nuovi stili di vita, mode e modelli di consumo. Ispirandovisi 4 Pier Paolo Pasolini, Interviste corsare sulla politica e sulla vita, 1955-1975, a cura di M. Gulinucci, Roma, Liberal Atlantide Editoriale, 1995, pp. 57-58. 5 Ernesto Galli della Loggia, L‟identità italiana, Bologna, Editore il Mulino, 1998, pp. 139-140. 6 Cfr. Guido Crainz, op.cit., p. 13. 7 Cfr. Giorgio Bocca, Fratelli Coltelli, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2010, pp. 136-139. 10 dichiaratamente, nell‟arco del decennio 1954-1964, il giovane costruisce su di sé il ruolo di protagonista del cambiamento. L‟allegria, come evidenzia Berselli nel sottotitolo al suo Adulti con riserva – Com‟era allegra l‟Italia prima del ‟68, definisce un Paese che acquisisce gran parte della cultura popolare anglofona, particolarmente inglese, rielaborandola secondo i propri stilemi. La musica inglese costituisce una forte attrattiva per i giovani italiani. Dall‟Inghilterra si impongono i nuovi esponenti del rock‟n‟roll nato negli Stati Uniti d‟America, presto oggetto di idolatria dei teenagers europei. Fra questi, i Beatles e i Rolling Stones ottengono i successi più considerevoli, influenzando i comportamenti dei giovani che ne assimilano conformisticamente l‟abbigliamento, le movenze e il taglio di capelli, alimentando simboli che certifichino la loro volontà di superare i valori della società patriarcale. Berselli focalizza la sua descrizione sul graduale allungamento dei capelli degli adolescenti italiani in alcuni fra i passaggi più caratteristici della sua auto-ironia e comicità. I capelli sintetizzano il manifesto individuale di una rivoluzione collettiva volta a sovvertire i costumi tradizionali, soprattutto nell‟ambito sessuale, al fine di impostare in modo esplicito un discorso amoroso con l‟universo femminile: <<L‟idea di fondo era che le ragazze dovessero riscontrare immediatamente un certo nonsoché, e rimanere ammaliate, notare quel centimetro in più e dire a se stesse: ma quello lì, quelllo lì assomiglia a uno di quelli là, come si chiamano, i Beatles!>>8. Conformarsi allo stile dei Beatles significa, per i teenagers come Berselli, tentare di emularne il riscontro presso il pubblico femminile. Berselli ripercorre con la consueta ironia le difficoltà di adattamento adolescenziale alle imposizioni della modernità, decretandone il fallimento sia generazionale, sia personale, nell‟idolatria femminile esplosa nel corso del primo concerto italiano dei Beatles al velodromo Vigorelli di Milano in data 24 giugno 1965: <<… quell‟innamoramento collettivo implicava un tradimento. A priori, senza avere mai avuto l‟occasione di apprezzare il nostro humour e il nostro stile modernissimo, quelle si erano buttate mentalmente fra le braccia dei fighetti inglesi>>9. L‟allungamento programmatico dei capelli, cui Berselli conferisce la qualifica di “rivoluzione”10, culmina nella nascita, e conseguente proliferazione in tutta Europa, dei cosiddetti “capelloni”. Pier Paolo Pasolini ne avrebbe fornito una fenomenologia nel “Discorso dei capelli” apparso il 7 gennaio 1973 sul Corriere della Sera, affermando 8 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 920-921. Cfr. Ivi, pp. 923-924. 10 Cfr. Ivi, p. 921. 9 11 che il giovane, principale attore sociale della seconda metà degli anni Sessanta, aveva realizzato lo strappo culturale rispetto alle generazioni precedenti secondo modalità controproducenti. I giovani, secondo Pasolini, avevano mancato l‟auspicato superamento dei padri, ottenendo un arretramento rispetto alle loro conquiste. Tale situazione aveva generato un conformismo dal quale poterono scaturire due sottoculture, l‟una di sinistra e l‟altra di destra, omologate al punto da risultare assimilabili l‟una all‟altra: <<Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossessivo linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le „cose‟ della televisione>>.11 ll televisore conosce in Italia una diffusione considerevole a partire dagli ultimi anni Cinquanta: tra il 1960 e il 1975 le famiglie che possiedono un apparecchio televisivo aumentano sino all‟85%. In undici anni, tra il 1954 e il 1965, gli italiani abbonati alla televisione sono sei milioni. Tali cifre rivelano una diffusione del mezzo televisivo tale per cui esso diventa <<il perno di una modificazione radicale del sistema dei media che non si limita a coinvolgere – e a stravolgere – il ruolo di cinema e radio […] ma riguarda anche le forme tradizionali della cultura>>.12 Oltre al televisore altri due simboli del boom diventano parte integrante della vita quotidiana del Paese: la motocicletta e l‟automobile. Sempre lo storico Guido Crainz segnala come in particolare la motocicletta inizi a non essere più mero mezzo di locomozione prediletto dalle famiglie meno abbienti, bensì divenga già nei primi anni Sessanta un “elemento aggiuntivo”, pressoché uno status symbol a uso e consumo del membro familiare più giovane. Il 23 aprile 1946 la ditta Piaggio deposita il brevetto dello scooter “Vespa”, reclamizzandolo nel 1950 con uno storico manifesto pubblicitario recante la scritta: “Vespizzatevi”. Berselli ricorda come, dal 1953, lo straordinario successo di pubblico della commedia “Vacanze romane” di William Wylder, in cui gli attori Gregory Peck e Audrey Hepburn giravano per la città di Roma sulla Vespa, avesse contribuito al fascino planetario del prodotto Piaggio, nonché al rilancio dell‟industria italiana nel Mondo: <<Adesso, con quella coppia di semidei, Gregory e Audrey, l‟intimazione pubblicitaria aveva trovato anche la sua mitologia>>13. 11 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, Roma, Garzanti Editore S.p.A., 2008, pp. 5-11. Cfr. Guido Crainz, op.cit., pp. 14-15. 13 Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 873-874. 12 12 Se da una parte si manifestano segnali positivi di sviluppo e ammodernamento, resi possibili anche dalla mediazione di nuovi simboli – il televisore, la motocicletta, l‟automobile, l‟aereo - , dall‟altra occorre evidenziare come il miracolo economico tenda ad ampliare quel divario sociale che inizialmente si prefiggeva di ridurre. A conferma del declino occorso della seconda metà degli anni Sessanta, Guido Crainz riporta alcuni numeri significativi in merito alla sperequazione sociale in atto nel Paese. Nel biennio 1964-65 , pur aumentando la produttività del 15%, si verifica un aumento dei salari pari a meno del 7,5%, mentre il monte-salari complessivo diminuisce del 4%. Inoltre, l‟ENEL riporta che agli inizi del 1965 gli italiani privi di illuminazione elettrica domestica sono ancora due milioni14. Il passaggio improvviso dal cosiddetto ”euforico quinquennio” alla fase di contrazione del mercato conduce all‟annichilimento delle prospettive del Paese: <<Si sa che purtroppo anche le migliori storie durano poco, come i bei giochi. Avevamo appena cominciato a respirare, a farci qualche regalino, a guardare con timido ottimismo all‟avvenire… – scrive Berselli - Quando all‟improvviso, com‟è come non è, comincia a risuonare una parola minacciosa, una voce sinistra: „congiuntura‟… Eravamo stati troppo ottimisti, troppo canterini, troppo svitati >>15. Alla congiuntura economica si oppongono riduzioni dell‟orario di lavoro e licenziamenti, spesso decisi sulla base del ricatto. Lo Stato si rivela inadeguato a fronteggiare le nuove diseguaglianze sociali, mentre è oramai inarrestabile la fascinazione degli italiani per quello che Guido Crainz definisce il “modello acquisitivo individuale”, generato dalla rivoluzione dei consumi in cui si ramifica la “dittatura del mercato” teorizzata da Pasolini. Il suddetto modello, unitamente alle diverse e innumerevoli opportunità alimentate dal boom, veniva secondo Crainz a <<enfatizzare propensioni già largamente diffuse e indifferenze ai valori collettivi che non nascevano allora: esse alimentavano a dismisura rincorse all‟ascesa sociale di gruppi e ceti specifici, in reciproca concorrenza>>.16 Emergono, in definitiva, fattori destabilizzanti per l‟intera società italiana, covati da quella rivoluzione nel cui successo veniva riposta ogni speranza di modernità. In tale bacino di insoddisfazione nascono le proteste e gli slanci di rivalsa dei giovani protagonisti delle contestazioni del Sessantotto. Il cantautore Francesco Guccini, considerato con Fabrizio De André fra gli ispiratori dei movimenti studenteschi, molti 14 Guido Crainz, op. cit. , p. 17. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 891 – 892. 16 Cfr. Guido Crainz, op. cit. , pp.16-19. 15 13 anni dopo parlerà di “illusioni”. Rievocando le sensazioni provate molti anni addietro alla notizia della morte, il 9 ottobre 1967, del rivoluzionario Ernesto “Che” Guevara – un‟icona mondiale dell‟azione anti-sistemica - nel 2000 Guccini canta: “Erano gli anni fatati / di miti cantati e di contestazioni / erano i giorni passati / a discutere e a tessere le belle illusioni”17. Il Sessantotto, secondo alcuni osservatori, presenta contraddizioni significative. Giorgio Bocca nel 2010 ricorda le vicende dell‟epoca: <<Il Sessantotto. Una tempesta politica, un mutamento rapido e imprevisto. Il Sessantotto come spallata, come repulisti di quanto vi era di morto, di ipocrita nella Repubblica antifascista, lo capivo, ma il Sessantotto come rivoluzione no.>>18 Sempre su tale promessa di rivoluzione contro il sistema, alcuni anni dopo, nel marzo 1974, sul Dramma, Pasolini riassume l‟esperienza del Sessantotto in questi termini: Oggi è chiaro che tutto ciò era prodotto di disperazione e di inconscio sentimento di impotenza. Nel momento in cui si delineava in Europa una nuova forma di civiltà e un lungo futuro di „sviluppo‟ programmato dal Capitale - che realizzava così una propria rivoluzione interna: la rivoluzione della Scienza Applicata, pari per importanza alla Prima Seminagione, su cui si è fondata la millenaria civiltà contadina – si è sentito che ogni speranza di Rivoluzione operaia stava andando perduta. È per questo che si è tanto gridato il nome delle rivoluzione. Non solo, ma ormai era chiara non tanto l‟impossibilità di una dialectica, quanto addirittura l‟impossibilità di una commensurabilità, tra capitalismo teconologico e marxismo umanistico.19 Secondo Berselli il Sessantotto fu <<una cosa micidiale e collettivista, che mischiava la ribellione… con la compattezza da testuggine della Falce e martello>>, il sigillo di un decennio reso improduttivo dai “sessantottusi”20 che proponevano <<una visione deludente di futuro>>, caratterizzata dalla fine dello sviluppo borghese e dall‟imposizione di una povertà condivisa. Su tali basi Berselli matura la propria adesione all‟europeismo, al riformismo e all‟eclettismo tipico del “decennio breve” terminato con il Sessantotto, e al contempo la diffidenza verso i movimenti collettivi rivoluzionari: <<Non mi avrete. Non verrò alle assemblee, non verrò alle riunioni, non 17 18 Francesco Guccini, Stagioni, in Stagioni, CD, Ed. EMI Italiana, 2000. Giorgio Bocca, op.cit., p.159. Pier Paolo Pasolini, op.cit., pp.26-27. 20 Cfr. Riccardo Chiaberge, Caro Berselli, non è una bella società, in “Il Sole 24 Ore”, 17 aprile 2010. 19 14 verrò alle manifestazioni. Non aderirò alle mozioni, non firmerò le petizioni… voglio continuare ad avere una speranza… Perché anch‟io sono un bambino degli anni Sessanta. Perché anch‟io sono un eclettico>>.21 L‟Italia da lui amata e rimpianta sarebbe rimasto il Paese della ricostruzione post-bellica e degli slanci di allegria. L‟Italia leggera dei Rokes e degli Equipe 84, figli di una stagione tanto breve quanto indimenticabile, che il giornalista Andrea Scanzi ha così sintetizzato: <<Berselli vedeva nel beat una sorta di brodo primordiale non ancora contaminato dall'ideologia. Un Eden affatto deludente, in cui sognare non costava nulla>>22. 1.2 Musica in mutamento: Domenico Modugno, il rock‟n‟roll e il pop italiano La canzone all‟italiana, dopo aver registrato una diaspora fra gli ascoltatori italiani del secondo dopoguerra a causa del proprio ancoraggio a una tradizione ritenuta desueta e incapace di soddisfare i gusti del pubblico italiano, oramai orientato alle produzioni straniere, riacquista importanza nel 1951 con la prima edizione del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, ideato da Amilcare Rambaldi, a sua volta futuro fondatore del Club Tenco, rassegna della canzone d‟autore.23 Berselli, nel ricordare come sin dalla prima trasmissione radiofonica del 29 gennaio 1951 il Festival di Sanremo <<avrebbe segnato la data d‟inizio di un‟epoca>> e successivamente <<sarebbe stato interpretato come un‟autobiografia, secondaria ma non troppo, della nazione>>, ironizza sul <<deprimente registro jettatorio>> delle canzoni in gara nelle edizioni precedenti alla rivoluzione di Domenico Modugno del 1958, <<tristemente affollate di colombe, campanari e campane>>, che testimoniavano il grigiore dell‟Italia in attesa della modernizzazione e del boom economico.24 Nei decenni che seguono la prima edizione del Festival di Sanremo, la produzione musicale italiana registra numerosi cambiamenti. Questi avvengono congiuntamente ai mutamenti sociali del tempo, talvolta in un biunivoco scambio di impulsi, e talvolta fungendo, in alcuni casi e grazie a particolari interpreti, da motori degli sconvolgimenti in atto. Per dirla con Lucio Spaziante, la musica <<è stata veicolo di costituzione 21 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 992-995. Andrea Scanzi, Seduti in quel caffè tutti pensano a te, in “La Stampa”, 29 settembre 2010. 23 Cfr. Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Roma, Editori Laterza, 1° ed. 1985, pp. 124-125. 24 Cfr. Edmondo Berselli, A Sanremo un‟autobiografia della nazione, in “Il Sole 24 Ore”, 27 febbraio 2000. 22 15 identitaria, non mero riflesso della cultura, si è comportata come un vero e proprio attore del cambiamento sociale a tutti gli effetti>>25. Il progressivo mutamento della forma - canzone si accompagna e adegua all‟evoluzione dei mezzi tecnici che ne permettono una sempre maggiore facilità di registrazione, riproduzione e fruizione. La rivoluzione tecnologica e gli stravolgimenti stilistici nella composizione e nelle tematiche trattate nei brani di musica popolare partono dagli Stati Uniti d‟America. Nel 1949 la Rca, Radio Corporation of America, crea il disco 45 giri, che sostituisce il precedente disco 78 giri. Rispetto a quest‟ultimo formato, il 45 giri presenta diverse peculiarità tali da renderlo più appetibile sul mercato discografico americano – e successivamente europeo e italiano - sul quale si imporranno a partire dal periodo compreso tra il 1954 e il 1956: <<è molto più leggero, maneggevole, resistente; si stampa più facilmente…si può spedire per via aerea; e, infine, è più facile da mettere sul giradischi>>26. La multinazionale Rca, inoltre, nel 1953 apre una fase nuova della discografia italiana, insediando un proprio stabilimento a Roma. Tale approdo risulta fondamentale perché, come spiega ancora Gianni Borgna, determina nell‟industria dicografica italiana un radicale mutamento di prospettiva, dove <<il marketing assume un‟importanza sconosciuta e dove la filosofia americana del business si affianca alla ricerca nella produzione artistica>>.27 La televisione nasce ufficialmente il 3 gennaio 1954. Berselli ne ricorda la sconvolgente comparsa in questi termini: <<Non si è capito subito che era successo qualcosa di importante, o di decisivo, con l‟arrivo della televisione… Ma il colpo di grazia, dal punto di vista sociologico, fu assestato quando una sera le ragazze pretesero di giocare al “Musichiere”>>28. Il 7 dicembre 1957 la Rai trasmette la prima puntata di un programma intitolato “Il Musichiere”, un gioco a premi i cui concorrenti devono dimostrare la propria cultura musicale tentando di indovinare i titoli delle canzoni proposte, secondo l‟idea originale dalla trasmissione televisiva americana “Name this tune”. Nella trasposizione domestica del gioco, le serate si sviluppano davanti al televisore <<sparando titoli a casaccio, finché la luna è alta e non viene l‟ora di andare 25 Lucio Spaziante, Dai beat alla generazione dell‟Ipod, Roma, Carrocci Editore S.p.A., 1° ed. 2010, p.11. 26 Gianni Borgna, op.cit., p. 145. 27 Ibidem. 28 Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 858. 16 a letto>>29. Il successo di pubblico del Musichiere stimola la nascita di una rivista e un festival canoro omonimi, e successivamente di altre trasmissioni televisive aventi come fulcro la musica: “Buone vacanze”, “Giardino d‟inverno”, “Studio Uno”, “Canzonissima” e “Settevoci”. L‟azione divulgativa della televisione, unita alla proliferazione dei juke - box nei luoghi di ritrovo delle grandi città italiane, alimenta nella popolazione il desiderio di proposte musicali sempre nuove, favorendo l‟ascesa del mercato discografico italiano: si passa dai tre milioni di dischi venduti nel 1951, ai quasi diciassette milioni del 1958. 30 In riferimento all‟anno 1958, parte di quel segmento esistenziale trascorso con la famiglia a Rovereto, in provincia di Trento, tra il 1954 e il 1966, Berselli scrive: <<Per uscire da una sensazione generale che era veramente da buongiorno tristezza, ci voleva una botta di vita, un colpo alla roulette, un cambio di marcia e di fase. Si viene a sapere, per esempio, che al Festival è presente un cantante curioso…>>31. Al Festival di Sanremo del 1958 Berselli assiste alla prima rivoluzione artistica nella musica italiana del dopoguerra. Questa risiede, per stile e contenuti, nell‟esibizione di Domenico Modugno, che canta “Nel blu, dipinto di blu”, presto nota come “Volare”. Una canzone <<leggendaria, mitopoietica, sociologica. Una canzone totale>>32, scrive Berselli. Gianni Borgna individua chiaramente i fondamenti su cui poggia la vittoria del brano di Modugno e del paroliere Franco Migliacci: <<Intanto che fosse lui a cantarlo… con la sua voce ha operato una vera e propria rivoluzione nello statuto della nostra canzone, dimostrando che canto altro non significa che uso espressivo della voce, dei suoi timbri, dei suoi difetti, della sua inflessione, della sua natura musicale>>33; secondariamente, “Nel blu, dipinto di blu” opera una commistione fra la canzone tradizionale italiana e una forma – canzone più ritmata e moderna, sul cui sviluppo si concentrerà il futuro mercato discografico; infine, il testo del brano di Modugno è saturo di richiami al subconscio di una sessualità diversa da quella, palese, dichiarata e talora greve di alcune composizioni popolari tradizionali, rispetto alle quali “Nel blu, dipinto di blu” <<costituiva l‟antitesi. In Volare, la sessualità era felice, libera, vissuta senza traumi, senza complessi di colpa, con naturalezza. Comunque, con la sua incontenibile 29 Ivi, pag 860. Cfr. Gianni Borgna, op.cit., pp. 146 – 150. 31 Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 872. 32 Ibidem. 33 Gianni Borgna, op.cit., 1° ed. 1985, p. 142. 30 17 vitalità, con la sua ansia di liberazione da tutti i tabù>>34. Nella scelta di spalancare le braccia al termine dell‟esibizione, Modugno compie un gesto di profonda rottura rispetto alla regola tradizionale secondo cui l‟interprete doveva attendere l‟applauso del pubblico ponendo la mano sul cuore. Berselli aggiunge un‟ulteriore considerazione alla critica di Borgna, scrivendo che “Volare” coincideva alla lettera con la sintesi pragmatica del “Financial Times”, secondo cui l‟economia italiana era in pieno “miracolo” e la lira era degna dell‟Oscar per la stabilità delle monete… a Sanremo la gente singhiozzava e agitava i fazzoletti, come se all‟improvviso il grigiore del dopoguerra fosse stato spazzato via dall‟impeto di quell‟uomo del Sud. 35 Cantando “Nel blu, dipinto di blu”, è come se Domenico Modugno canti, rispecchiandoli e alimentandoli, i sogni di sviluppo, ricchezza e prosperità di un‟Italia ancora a forte connotazione agricola: <<Modugno urlava “volare”, strillava “volare”, ragliava “volare” e gli italiani capivano Autostrada del Sole, FIAT Cinquecento e Seicento, patecipazioni statali, ENI, Enrico Mattei, Giorgio Bocca, Sophia Loren, fabbriche, addio al lavoro nei campi>>36, scrive Berselli, che ricorda divertito di aver preso a calci una porta, <<tanto per sfogare quella strana felicità>> per la vittoria di Modugno. Oltre che di una rivoluzione sociologica, quella che Gianni Borgna definisce come la grande “ubriacatura collettiva”37, Domenico Modugno è fautore di una trasformazione della musica italiana. La canzone tradizionale dei grandi interpreti come Nilla Pizzi e Claudio Villa viene rinnovata da Modugno <<dal suo interno senza guardare eccessivamente ai modelli esteri>>38. È una trasformazione su scala nazionale simile alla rivoluzione musicale messa in atto, a livello mondiale, dal rock ‟n ‟roll39. 34 Ibidem. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 872. 36 Ivi, p. 873. 37 Gianni Borgna, op.cit., p. 142. 38 Lucio Spaziante, Dai beat alla generazione dell‟Ipod, Carrocci Editore S.p.A., Roma, 1° ed. 2010, p. 33. 39 Ivi, p. 26. 35 18 Il rock ‟n ‟roll Prima della nascita del rock‟n‟roll esistevano negli Stati Uniti d‟America tre macrogeneri musicali, trasmessi da canali di diffusione separati, come differenziate erano le rispettive classifiche di vendita: i cittadini borghesi ascoltavano il “Pop”, ovvero una musica popolare, di massa, destinata all‟etichetta di “musica di consumo”; operai e contadini ascoltavano il “Country & Western”; infine, il “Rhythm and blues” era il genere dominante presso le comunità nere urbane.40 Nel 1954 il cantante americano Bill Haley reinterpreta il primo brano rock per antonomasia, scritto nel 1952 da DeKnight & Freedman, intitolato “Rock around the clock”. La canzone viene utilizzata nei titoli di testa del film “Blackboard Jungle”. Il film, successivamente tradotto in italiano con il titolo di “Il seme della violenza”, viene proiettato nel 1956 al cinema Trocadero di Londra. L‟enorme entusiasmo, cui seguono scontri fisici e atti vandalici, suscitato dalla canzone di Bill Haley trasmessa nella sala cinematografica, è al contempo simbolo e sintomo dello scoppio di quella che Berselli definisce come la <<pandemia del rock‟n‟roll>>41. Fondendo rhythm and blues e country, musica “nera” e musica “bianca”, il rock‟n‟roll intercetta, incanalandole nella propria <<costellazione>>42, le esigenze di teenagers socialmente ed etnicamente disomogenei, ma uniti dall‟appartenenza alla stessa generazione. Per dirla con Gianni Borgna, il rock‟n‟roll è <<il prodotto culturale che definisce operativamente il mito dell‟adolescenza>>43. Nel fideismo verso il rock‟n‟roll, i giovani esprimono il proprio disappunto verso il potere degli adulti, l‟ansia di ribellione dall‟autorità dei padri. Lo scollamento, al limite della lotta intergenerazionale, fra padri e figli, può dirsi riassunto nelle affermazioni del cantante Frank Sinatra, il quale nel 1957 afferma che la musica rock è <<Roba da delinquenti… falsa, oscena, sporca, un afrodisiaco puzzolente… che piace ai giovani perché non piace ai loro vecchi>>44. Berselli sottolinea la funzione di raccordo del cantante Elvis Presley, che portando con sé i valori tradizionali degli americani bianchi e contadini si fa <<interprete borghese dell‟insurrezione>> riuscendo a conferire al rock‟n‟roll una legittimazione ufficiale in quanto unanime. Elvis è il caposcuola di una tradizione di artisti, come B.B.King, Jerry Lee Lewis e Chuck Berry, che nelle loro 40 Gianni Borgna, op.cit., pp. 152-153. Cfr. Edmondo Berselli, Quando la musica fece la rivoluzione, in “la Repubblica”, 07 aprile 2004. 42 Ibidem. 43 Gianni Borgna, op.cit., p. 154. 44 Cfr. Edmondo Berselli, Quando la musica fece la rivoluzione, in “la Repubblica”, 07 aprile 2004. 41 19 canzoni parlano di ciò che interessa particolarmente ai giovani, dalle automobili all‟amore – specialmente nella sua dimensione sessuale, edonistica.45 Il rock è ancora oggi legato a una stereotipizzazione della rivolta cristallizzatasi con il suo successo presso il grande pubblico adolescenziale sul finire degli anni Cinquanta. Secondo Berselli, tuttavia, il rock‟n‟roll non poteva assurgere ad autentica filosofia poiché modellava il moto consumistico giovanile alla base del meccanismo che il filosofo Herbert Marcuse avrebbe indicato come “desublimazione repressiva”, e che Berselli sintetizza così in Post – Italiani: <<tu credi, povero illuso, di essere ribelle e rivoltoso perché metti sul giradischi “Satisfaction” dei Rolling Stones, mentre in realtà il sistema capitalistico e le multinazionali ti stanno assoggettando, nel momento in cui ti concedono una falsa trasgressione>>46. La peculiarità straordinaria e affascinante che Berselli elogia del rock‟n‟roll è la sua ecumenicità. All‟interno del genere rock‟n‟roll, infatti, coesistono prodotti discografici apparentemente dissimili, talvolta antitetici. La leggerezza dei Beach Boys è riconducibile all‟idea di rock‟n‟roll quanto i brani folk di Bob Dylan contro l‟intervento militare americano in Vietnam. Altrettanto, è attribuibile al rock‟n‟roll la progenitura del beat, altro genere musicale spurio, prediletto da Berselli sia nella sua versione anglofona originale sia, soprattutto, nella sua forma derivativa italiana. Berselli ritiene che la prova più tangibile dell‟universalità del rock‟n‟roll sia ravvisabile nell‟aver consentito nello stesso campo semantico la coesistenza di due complessi musicali teoricamente agli antipodi, i Beatles di John Lennon e Paul McCartney e i Rolling Stones di Mick Jagger e Keith Richards: <<confrontare la patina geniale dei Beatles con i riff sudici della coppia Jagger & Richards, e trovare tutto ciò compatibile è davvero il segno dell‟eclettismo del rock>>47. Il pop italiano Il rock‟n‟roll interpreta, corrisponendovi, le aspettative dei giovani. Si impone nei loro luoghi di ritrovo e svago, declinando in forme innovative e differenziate che usufruiscono delle nuove tecnologie. L‟avvento dei juke – box decreta che anche in Italia i nuovi interpreti debbano possedere voci potenti, in grado di essere percepite in modo netto, pienamente riconoscibile, in luoghi ampi e dalla grande dispersione sonora dove i giovani trascorrono il tempo libero. Tali interpreti vengono comunemente 45 Cfr. Ibidem. Edmondo Berselli, Post-italiani, in Q.G.P.D.I., p. 417. 47 Cfr. Edmondo Berselli, Quando la musica fece la rivoluzione, in “la Repubblica”, 07 aprile 2004. 46 20 chiamati “urlatori”. La tradizione italiana degli urlatori, derivata dalla rivoluzione avviata negli U.S.A. da Bill Haley e ascrivibile al “Pop italiano”, ha in Tony Dallara il proprio iniziatore, i massimi esponenti in Mina e Adriano Celentano.48 Berselli ricorda ironicamente come, con l‟avvento di Domenico Modugno, Mina e Adriano Celentano, il pubblico dei giovani ritenga Claudio Villa, dominatore della tradizione popolare ancora preminente nei gusti delle famiglie italiane, il <<nemico assoluto>> della modernizzazione musicale. Nonostante Claudio Villa abbia all‟epoca un‟età non avanzata, in Adulti con riserva49 emerge che i giovani ne ritengano la figura, e la sua canzone più rappresentativa, “Granada”, la sintesi artistica e antropologica dei valori da sovvertire in una musica popolare ancora troppo legata a stilemi antiquati, figlia di una società vecchia che deve lasciare spazio al nuovo: <<la tradizione melodica, il virtuosismo, il falsettone, la prosopopea, l‟acuto, il piagnisteo retorico delle canzoni italiane>>50. Claudio Villa, dal 1958, piace solo <<alle nonne>>, per citare la semplificazione ironica di Berselli, che tuttavia ammette come i ragazzi non avessero molti altri punti di riferimento oltre a Domenico Modugno, Adriano Celentano e Mina per opporsi alle preferenze dei rispettivi nuclei familiari. Invero Berselli sottolinea come l‟anelito di Mina ad assurgere, terminato il primo periodo di piena aderenza ai criteri giovanilistici, a <<mito canzonettistico>> erede della tradizione canora classica, l‟avrebbe poi esautorata dal ruolo di interprete canora delle nuove generazioni.51 Il quarto grande interprete del gusto giovanile, seppur caratterizzato dall‟approccio più maturo, intellettuale ed esistenzialista, riconoscibile in brani come “Il cielo in una stanza”, è Gino Paoli52. Berselli, nell‟esporre la tesi che lo caratterizza, individua in Domenico Modugno, Adriano Celentano, Mina e Gino Paoli gli <<acceleratori della trasformazione>>53 le cui canzoni, che non sono solo prodotti, bensì <<produttori di cultura e società>>54, determinano il cambiamento registrato in Italia fra due anni – chiave: il 1958 e il 1963. Nel 1958, anno in cui la RCA italiana pubblica i dischi di Elvis Presley, in Italia Domenico Modugno vince il Festival di Sanremo, e sia Adriano 48 Cfr. Gianni Borgna, op. cit., pp. 152-154 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 913-915. 50 Ivi, pp. 913-914. 51 Cfr. Ivi, p. 916. 52 Cfr. Ivi, p. 917. 53 Edmondo Berselli, Quell‟Italia della canzonetta, in “la Repubblica”, 28 febbraio 2004. 54 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 99. 49 21 Celentano sia Mina compiono il proprio debutto artistico. Nel 1963 Gino Paoli ottiene un vasto successo di pubblico con il brano “Sapore di sale”. Con “Sapore di sale”, secondo Berselli, Gino Paoli non si limita a descrivere i nuovi costumi sentimentali e sessuali degli italiani, bensì fornisce loro <<un manuale, un nuovo galateo dei rapporti fra uomini e donne>> liberalizzando a comportamento legittimo, normale, nonché naturale nella sua didascalica fisicità composta di “pelle”, “braccia” e “labbra”, un‟esperienza sessuale per cui smette di essere necessaria ogni premessa o prospettiva sentimentale. Gino Paoli anticipava in tal modo quella forma di erotismo di cui il filosofo Zygmunt Bauman tratta specificamente nel suo Gli usi postmoderni del sesso55: una sequela indistinta di atti sessuali finalizzati al puro godimento sensoriale, slegati dalla funzione riproduttiva e dalla dimensione sentimentale dell‟amore. L‟erotismo nella sua versione indipendente, e in quanto tale antitetico ai precetti della morale tradizionale corrente presso gli adulti degli anni Sessanta, non avrebbe potuto incontrare la piena approvazione sociale, stando alla teoria di Berselli, senza l‟azione di precursori come Gino Paoli. Per dirla con Berselli: <<al popolo dei juke-box, ai giovani del boom, il cantautore Paoli offriva un discorso amoroso che dissolveva le ipocrisie, e che sanzionava l‟assoluta praticabilità del “fare l‟amore”, senza nemmeno bisogno di un innamoramento e di giuramenti che giustificassero lo strappo rispetto ai tabù>>.56 “Sapore di sale” canonizza una trasformazione avviata nel 1958 con la diffusione, ad opera di RCA Italia, dei brani di Elvis Presley, successivamente sostenuta dalla vittoria a Sanremo di Domenico Modugno con “Nel blu, dipinto di blu”, dunque finalizzata da Mina e Adriano Celentano. Questi ultimi, secondo Berselli, <<avevano trasferito l‟America in Italia soprattutto sul piano della gestualità teppistica, un dinamismo sfrontato, un look giovanilista che faceva a pezzi il cantante confidenziale>>57. Nel 1958, l‟Italia attraversa quella che Berselli chiama <<la breve era dell‟irresponsabilità>>58. Il disimpegno collettivo trova la propria ragion d‟essere nella relativa opulenza permessa dal “miracolo economico”, così definito dal “Daily Mail” in un articolo del 25 maggio 195959, nonostante il quale il grigio rimane il colore dominante dell‟Italia sino all‟avvento di Adriano Celentano e Mina. 55 Cfr. Zygmunt Bauman, Gli usi postmoderni del sesso, Bologna, Editore Il Mulino, 2013, pp. 57-63. Cfr. Edmondo Berselli, Quell‟Italia della canzonetta, in “la Repubblica”, 28 febbraio 2004. 57 Ibidem. 58 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 103. 59 Ivi, p. 106. 56 22 Mina, nome d‟arte di Annamaria Mazzini, nata a Busto Arsizio in provincia di Varese nel 1940, dopo aver debuttato nel 1958 con il gruppo “Happy Boys” incide il brano “Be bop a Lula” con lo pseudonimo di “Baby Gate”. In tale scelta di Mina, la cui altezza di 1,78 metri è inusuale per la media femminile italiana, c‟è tutto il suo gusto per l‟antitesi. Dopo aver fondato il suo gruppo musicale, chiamato “I solitari”, Annamaria Mazzini sceglie il nome d‟arte definitivo di “Mina”, che rinvia all‟estensione straordinaria della sua potenza vocale.60 Berselli ne sottolinea innanzitutto la fisicità, ritenuta all‟epoca eccessiva per i canoni di bellezza femminile, a cominciare dalla sua altezza, le sue imperfezioni estetiche, il suo abbigliamento originale. Al Festival di Sanremo del 1961 Mina è protagonista sin dalle interviste. In una di esse, la giornalista Oriana Fallaci afferma che Mina riassume <<l‟enigma di una generazione da cui ci divide un invalicabile abisso>>. Un giudizio, quest‟ultimo, che Berselli ritiene inverosimile alla luce della trasversalità con cui Mina si rapporta alla società italiana. Il brano presentato da Mina al Festival di Sanremo del 1961, “Le mille bolle blu”, <<Era una canzone – manifesto – di – guerra, una dichiarazione di rottura>>, scrive Berselli. L‟esibizione di Mina, che accompagna i richiami immaginifici del testo giocando con le proprie dita e la bocca, assume una dimensione provocatoria tale da soddisfare la volontà del popolo italiano di trasgredire la rigidità dei valori tradizionali. Berselli ritiene che la popolarità di Mina, a vantaggio della quale gioca a suo dire il voto contrario, la <<punizione moralistica>> della giuria del Festival di Sanremo, sia legata alla capacità della cantante di incarnare l‟idealizzazione italiana del modello americano. L‟Italiano “americanizzato”, come da connotazione di Giorgio Bocca, percepisce in Mina i tratti dell‟America irreale, idealizzata dalla prospettiva personale: <<l‟abbondanza, l‟eccesso, l‟esibizione sfrontata, il rock and roll come moda da teddy boy>>. Secondo Berselli l‟americanismo di Mina costituisce <<il primo grado di una nuova identità italiana>>. L‟esagerazione di Mina è costruita in modo tale da auto-disinnescarsi nel quotidiano bisogno di trasgressione facente parte della nuova identità italiana. Mina, in quanto essa stessa proveniente dall‟universo piccolo-borghese, è al contempo autrice e fruitrice di ciò che Berselli definisce la <<proposta casalinga di trasgressioni ormai obbligate>>. La sua straordinarietà, a detta di Berselli, consiste non nel voler trasgredire, quanto nella sua 60 Cfr. Gianni Borgna, op. cit., pp. 155-156. 23 capacità di prospettare all‟italiano medio la soddisfazione di una trasgressione sino ad allora preclusa dai dettami della morale comune.61 Al fine di inquadrare con maggiore chiarezza la portata rivoluzionaria della condotta quotidiana, esistenziale, di Mina, nelle note al testo di Canzoni. Storia dell‟Italia leggera Berselli si rifà alla vicenda di due coniugi, Mauro e Loriana Bellandi, sposatisi con rito civile, che nel 1958 vennero pubblicamente accusati da monsignor Fiordelli, vescovo di Prato, di essere “pubblici peccatori e concubini”62. L‟azione con cui Mina nel 1961 pone le basi per uno scandalo nazionale consiste nella maternità seguita all‟innamoramento e la relazione amorosa con un uomo sposato, l‟attore Corrado Pani. In antitesi con la negazione dell‟amore propugnata dalla controretorica di Adriano Celentano, Mina contrasta, grazie a un‟inclinazione naturale per l‟innamoramento romantico, il connubio di bigottismo e maschilismo che limita la libertà delle donne italiane nella gestione delle loro vicende sentimentali. Tuttavia, laddove Celentano fonda sulla retorica anticonformista il proprio successo, Mina subisce la temporanea esclusione dai programmi della RAI. Quest‟ultima punisce l‟anticonvenzionalità di Mina, la quale, assecondando la propria passionalità amorosa, rivendica la libertà di azione di ogni donna, <<con la determinazione della donna che decide la sua vita in assoluta autonomia>> e non accetta limitazioni alla propria felicità, pur se conducano a scandali pubblici, come una gravidanza extra-coniugale, e finanche a procedimenti penali, quale il processo per concubinato che vede imputato Corrado Pani.63 Attore maschile dell‟americanizzazione, per l‟eccessività delle proprie esibizioni, è Adriano Celentano. Nato da madre quarantunenne nel 1938, due anni prima di Mina, Celentano si fa notare sin dagli esordi del 1958 per la sua innata capacità di affascinare il pubblico, nella quale Berselli vede lo <<straordinario dono naturale di un ragazzo da bar>>64. Adriano Celentano è un giovane lavoratore, espressione del proletariato urbano milanese. Nel periodo in cui svolge il mestiere di orologiaio ascolta il 45 giri che fa nascere in Celentano il desiderio di fare il cantante rock: “Rock around the clock”, inciso nel 1956 da Bill Haley, re-interpretato nello stesso anno dal gruppo musicale Quartetto Cetra, con il titolo di “L‟orologio matto”65. Imitando i cantanti americani Bill Haley, Elvis Presley e Jerry Lewis, Celentano elabora e inventa un inglese 61 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 108-111. Cfr. Ivi, nota n. 35, p. 255. 63 Cfr. Ivi, pp. 122-125. 64 Ivi, p. 111. 65 Cfr. Malcom Pagani, La scatola magica di Adriano, in “Il Fatto Quotidiano”, 19 novembre 2013, p. 14. 62 24 “italianizzato”, il cui significante ricalca la percezione dei testi di brani inglesi e americani all‟orecchio dell‟ascoltatore italiano medio, il quale, come Celentano, ignora la lingua inglese. A tale componente derivativa Celentano aggiunge la propria autenticità nell‟interpretare le diverse componenti dell‟Italia del “miracolo economico”. Berselli individua in Celentano quattro “anime”: americana, per la <<mimesi buffona di Jerry Lewis>>; latina, per il suo gusto per <<gli scherzi e le smorfie e i versacci>>; milanese per il suo <<gusto gerarchico della gang di quartiere>>; infine meridionale per il patetismo delle sue esibizioni, <<la sfrontatezza trasgressiva dell‟emigrato con voglia di sbalordire>>66. Celentano, tanto quanto Mina, si presenta al pubblico italiano in veste di normalizzatore della trasgressività. Nelle loro canzoni il pubblico ritrova l‟auspicata trattazione della propria quotidianità, la realizzazione di aspettative diffuse, lo smantellamento della tradizione. Rispetto alla postura trionfante di Domenico Modugno nel 1958, Adriano Celentano compie un ulteriore gesto di rottura, presentandosi voltato di spalle sul palco del Festival di Sanremo del 1961. L‟iconoclastia del linguaggio corporeo di Celentano prelude all‟interpretazione del brano in gara, “Ventiquattromila baci”. Laddove in “Nel blu, dipinto di blu” di Modugno la tensione sessuale assumeva tratti onirici, intaccando il senso morale tradizionale a livello subliminale, “Ventiquattromila baci” ostenta una carnalità inequivocabile, addirittura quantificabile, pur con un‟iperbole, nel numero di effusioni prodotte nella prestazione amorosa. Berselli sottolinea come anche Mina, nel brano “Renato” del 1952, nomini l‟eponimo oggetto del desiderio per cinquantaquattro volte. Entrambe le quantificazioni esprimono la concezione ludica dell‟amore, caratterizzato dall‟irresponsabilità, proteso a una leggerezza della vita privata che assolva gli individui dall‟oppressione delle vicende pubbliche internazionali, come la Crisi dei missili di Cuba del 1961. In un altro brano del 1961, intitolato “Non esiste l‟amor”, Celentano canta: “Non esiste l‟amor / è soltanto una favola / inventata da te / per burlarti di me”. Qui Celentano stigmatizza il rapporto sentimentale, amoroso, in quanto coltivato su illusioni prive di fondamento, e contrassegnato delle delusioni che ne accompagnano la fine già preventivata. L‟individuo moderno, emancipato, conscio della finitudine di ogni avventura sentimentale, sa anestetizzarsi declinando il dolore per la conclusione di un rapporto nella ricerca del rapporto successivo. L‟analisi di Berselli vede Adriano Celentano opporre alla retorica tradizionale dell‟amore romantico 66 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 112. 25 un‟antiretorica materialistica dell‟amore superficiale in quanto espressione di un individualismo de-responsabilizzato. Nella sua azione di rottura Celentano è l‟ispiratore di un nuovo modo di stare al mondo: <<una rivolta tutta sua, istintiva, basata su una speciale retorica dell‟antiretorica e su un individualismo che ci avrebbe messo poco a diventare di massa>>.67 Berselli sostiene che la popolarità di Celentano vada ricondotta ad altre due caratteristiche del cantante: il suo essere capobranco, e il suo essere maschilista. Se Mina preconizza la visione modernizzatrice di una donna emancipata, che non ha timore di dichiarare i propri desideri sentimentali oltre che sessuali, l‟azione di Celentano è ambivalente. Celentano conduce al contempo una rivoluzione in ambito artistico, e una restaurazione dei valori sociali tradizionali, rimanendo <<il ras di quartiere, il maschio maschilista, il capobanda>> del cosiddetto “Clan”, un‟organizzazione discografica composta da cantanti poi divenuti celebri, come Don Backy e Ricky Gianco, alla quale Celentano conferisce uno stile e un‟identità originali ideando una divisa: <<micidiali pantaloni bicolori a zampa d‟elefante, e magliette e canottiere da underclass>>. Il maschilismo di Celentano si manifesta in brani come “Grazie, Prego, Scusi”, nel loro rinvio testuale a situazioni legate al corteggiamento, al ballo finalizzato alla seduzione, al suo atteggiamento da <<Mezzo uomo e mezzo animale>>.68 Adriano Celentano, nella sua naturale istintività, genera nel pubblico un sentimento di appartenenza. Diventa l‟idolo delle masse popolari in quanto ne ricalca i tratti salienti: l‟ambiente in cui si muove, il suo stile di vita, il suo linguaggio minimale, essendo popolari formano una sinergia con le esistenze e i sentimenti del mondo proletario e borghese. Celentano costruisce su di sé l‟immagine del “cattivo ragazzo di periferia”, che compensa l‟opacità dei propri risultati scolastici con la dimestichezza nei rapporti con le donne e le capacità di comando all‟interno di un gruppo. Tale modello, che nell‟analisi di Berselli costituisce piuttosto un contro-modello, risulta invidiabile all‟ascoltatore desideroso di anticonformismo: <<quando dicevi “Mi piace Celentano”, volevi anche segnalare una presa di distanza dal gusto corrente. Sarà stato per via del rock delle sue origini, come anche per l‟anticonformismo di paese o di periferia… Adriano era una specie di modello al contrario, la figura dialetticamente opposta allo studente perfetto>>.69 67 Cfr. Ivi, pp. 111-115. Cfr. Ivi, pp. 116-117. 69 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 898-899. 68 26 Berselli separa con nettezza le due fasi in cui ritiene filologicamente corretto ripartire il percorso artistico di Celentano. La prima fase artistica di Celentano, fondamentale per il rinnovamento dei costumi nella società italiana, si conclude nel momento in cui l‟Italia si appresta a uscire dal periodo di espansione economica. Nel passaggio alla seconda fase Celentano abbandona l‟istintività, la leggerezza, la trattazione della quotidianità. All‟era dell‟irresponsabilità succede l‟era della protesta, e nella produzione di Celentano diviene predominante ciò che Berselli identifica come una <<irrefrenabile e fastidiosissima vocazione pedagogico – religiosa. Celentano non si limita più a credere, vuole convertire. Non gli piace solo raccontare, vuole fare educazione di massa>>70. In questa seconda versione di Celentano Berselli individuerà un esempio di approccio compositivo non desiderabile, in quanto portatore di una diseducazione estetica. La cosiddetta “urgenza del messaggio” prevede che l‟intera potenzialità espressiva del brano musicale non venga riposta nella sua forma, quanto nel suo contenuto “impegnato”, da divulgare alla stregua di opuscolo prescrittivo finalizzato al progresso sociale. La fase pedagogico – religiosa di Celentano comincia al Festival di Sanremo del 1966, con il brano “Il ragazzo della via Gluck”. Una canzone ambientalista, in cui Celentano denuncia il processo di cementificazione corrente in vaste zone d‟Italia. Nel 1967, Celentano si schiera contro il divorzio in “La coppia più bella del mondo”, mentre in “Tre passi avanti” predica la fine del beat e del fenomeno dei capelloni. Vent‟anni dopo, nella duplice veste di cantante e conduttore televisivo del programma RAI “Fantastico”, andato in onda tra il 1987 e il 1988, Celentano instaura un <<magistero populista di massa>>, pontificando contro l‟attività venatoria e invitando i cittadini in ascolto a votare “sì” al referendum contro il nucleare del 1987. In tale svolta, secondo Berselli, consiste il maggior danno inferto da Celentano sia alla propria attività artistica, sia alla società italiana, avendo egli fornito una <<anticipazione mediatica>> di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche del 1994, nonché della sua contro-cultura politica successivamente denominata “Berlusconismo”. L‟errore di Celentano risiede, secondo Berselli, nella sua decisione di abbandonare il ruolo di eroe popolare, interprete della <<struttura psicologica della società italiana>>, per poter divenire qualcos‟altro: <<Un guru. Il profeta di una religione molto sincretistica fatta di ecologismo estremista, di 70 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 118. 27 cattolicesimo stiracchiato alla sua maniera di interlocutore diretto di Dio, di paternalismo massimalista>>.71 Appare significativa, nell‟analisi di Berselli, la considerazione per cui i due cantanti “pop” resisi straordinari <<acceleratori di trasformazione>> divengano la perfetta espressione del marketing applicato alla musica, allorché nel 1998, Mina e Celentano pubblicano un disco frutto della loro collaborazione. Berselli giudica il prodotto irricevibile, elaborando una stroncatura complessiva delle rispettive parabole: <<Mostri sacri si nasce, babbioni si diventa. Mina e Celentano, da sublimi plebei che erano, sono riusciti a diventare borghesi banali>>. Berselli ritiene il disco “Mina Celentano” il sintomo dell‟ineludibilità dell‟omologazione caratterizzante gli anni Novanta dell‟Italia, <<l‟immagine di un paese che è invecchiato, e che non ha avuto neppure la forza e la lealtà di costringere i suoi miti a restare tali>>, determinando nei coetanei di Berselli la malinconia per un passato incapace di reinventarsi.72 A tali giudizi critici Berselli non manca di affiancare giudizi più ironici, improntati alla sua peculiare leggerezza e legati al suo personale sentimento nei confronti sia di Mina sia di Celentano, quasi a voler sottrarre assertività alle sue conclusioni. Così, se da un lato ipotizza un irreale <<convegno internazionale a Parigi o a Londra sulle voci più belle del mondo>> dove produrre una relazione secondo cui <<la signora Mazzini non ha mai imparato a cantare come si deve, e che strilla sempre, si sgola anche quando non dovrebbe>>73, dall‟altro rimarca la propria antipatia per Adriano Celentano, che <<a meno di trent‟anni era già un reazionario della Madonna, o meglio un tardivo microfono di Dio>>74 e in “Tre passi avanti” aveva auspicato la fine dell‟era beat, quando la felicità connessa a quel periodo era ancora nella sua fase espansiva, prima del Sessantotto. 1.3 L‟epoca dell‟impegno: il beat e i cantautori Gli anni Sessanta, visti da Berselli, si caratterizzano per la brevità del perdurare della propria peculiare scala di valori. All‟irresponsabilità della “Belle Epoque” si contrappone una sperimentazione artistica percorsa da una costante ricerca della 71 Cfr. Ivi, pp. 119-121. Cfr. Ivi, pp. 128-130. 73 Cfr. Ivi, pp. 246. 74 Ivi, pp. 245. 72 28 pesantezza, del principio di una depressione, della percezione del mal di vivere fra i giovani. La musica “Pop” attraversa, nella seconda metà degli anni Sessanta, un processo di intellettualizzazione del proprio linguaggio, già esemplificabile nella svolta pedagogico – religiosa di Celentano. Altrettanto essa risulta nella divulgazione di una condizione esistenziale generata dalla modernità, la cosiddetta “alienazione”, mediata dall‟accessibilità linguistica dell‟italiano medio protagonista di film come “Il sorpasso” di Dino Risi. L‟esistenzialismo, intriso di dolore, massimalismo e di una pensosità contrapposta alla levità dell‟Italia del boom economico, è per Berselli mero stratagemma programmatico finalizzato alla pratica dell‟erotismo ludico da parte degli intellettuali e degli artisti. Nel racconto di Berselli acquista centralità l‟emancipazione erotica e sessuale che coinvolge sia i giovani, sia la generazione dei quarantenni, prossimi a un conflitto sociale causato dalla duplice esigenza di rimarcare e colmare una distanza mediante la contestazione.75 Prima dell‟interruzione imposta dal Sessantotto all‟edonismo di massa, Berselli si sofferma ancora sul personale idillio di un periodo da lui definito <<quella stagione breve, un po‟ sgangherata e però felice della nostra – della mia - vita>>76, l‟epopea del beat italiano. La prima parte degli anni Sessanta è segnata dallo schema d‟azione giovanile costruito sul benessere del boom economico, che si realizza nel disimpegno politico, nello scontro con i canoni valoriali adulti, nella ricerca del divertimento. Allorché inizia la fase recessiva, diverse fonti delineano scenari percorsi dal pessimismo per le sorti della società italiana. Il finale del film “Il sorpasso” di Dino Risi, nel 1962, <<getta un velo di cupezza sul futuro>>. Lucio Spaziante sottolinea come le inchieste sociologiche dell‟epoca annotino presso la popolazione giovanile una considerevole diffusione di ansietà per le prospettive lavorative future. Tuttavia, si assiste alla stereotipizzazione dei giovani, in una rappresentazione che persevera a configurarne <<una spensieratezza vacua…una totale separazione dagli adulti… Il “giovane” diventa una categoria, un ruolo sociale, nel quale riconoscersi e con il quale essere irresolubilmente etichettati>>. Il linguaggio giovanile, per la sua tendenza all‟esterofilia, viene definito “yé yé”, riproposto in canzoni come “Andavo a cento all‟ora” di Gianni Morandi, del 1962. Le cosiddette “radio pirata”, come Radio Luxembourg, sono il maggior canale di diffusione e affermazione culturale della nuova musica nata in Inghilterra e negli Stati Uniti d‟America. Al fine di contrastare la 75 76 Cfr. Ivi, pp. 131-132. Ivi, p. 155. 29 concorrenza delle radio clandestine, anche le radio ufficiali iniziano a concedere spazi di trasmissione che soddisfino i gusti giovanili, protesi alla musica diffusa da Londra più che dall‟America di Elvis Presley. Il genere musicale del “Mersey Beat”, praticato dai Beatles e gruppi similari, viene tradotto in Italia come “beat”, alla cui categoria vengono iscritti sia gruppi inglesi come Beatles, Rolling Stones, Small Faces ed Animals, sia i cosiddetti “complessi” formatisi in Italia fra il 1964 e il 1966, ovvero i Ribelli, i Rokes, i Giganti, l‟Equipe 84, i Camaleonti, i New Dada, i Califfi, i Corvi e i Dik Dik. Il beat italiano diventa fenomeno di massa nel 1966, nel corso di una manifestazione canora itinerante, il “Cantagiro”, dove propongono al pubblico le proprie reinterpretazioni di brani inglesi. Esempio ne è il brano de I Corvi “Un ragazzo di strada”, del 1966, la versione italiana del brano originale “I Ain‟t No Miracle Worker” scritto nel 1965 dai Brogues.77 Nel testo dei Corvi sono presenti i temi cari ai giovani del 1966, quali il rimarcamento della propria singolarità rispetto all‟altro da sé (“Io sono quel che sono / Non sono come te”), e, soprattutto, la sottolineatura di un‟esigenza di differenziazione, da parte di coloro che vivono nella marginalità sociale, urbanistica, ideologica, rispetto agli individui ritenuti inseriti nel conformismo della società degli adulti (“Non faccio la vita che fai / Io vivo ai margini della città”). “Un ragazzo di strada”, scrive Berselli, è percorsa da quella marginalità <<rivendicata sui toni rauchi, con la voce che si incrina per la rabbia, e che ci piaceva tanto perché eravamo tutti ragazzi cresciuti sulla strada>>78. Nella predilezione per brani come “Un ragazzo di strada” Berselli, all‟epoca adolescente, individua l‟epifania di un mutamento di prospettiva, che <<metteva allo scoperto ciò che si era, e che fino a qualche momento prima era mascherato o filtrato da chissà quale convenzione o cretineria del gusto>>79. Il rifiuto della proposta canonica dei canali RAI e i prodotti editoriali di massa come “Sorrisi e Canzoni”, incentrata su cantanti melodici alla maniera di Gianni Morandi, è cifra distintiva del pubblico beat italiano. A questo si aggiunge la volontà dei beat di non inseguire l‟aderenza alla contestazione giovanile, esplosa il 27 aprile 1966 a seguito dell‟omicidio dello studente romano Paolo Rossi. All‟interno delle contestazioni, caratterizzate da scontri fisici tra studenti e forze dell‟ordine, attività di sciopero e occupazioni di istituti scolastici e universitari, i partecipanti inneggiano alle composizioni di autori come 77 Cfr. Lucio Spaziante, op. cit. pp. 59 -61. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 133. 79 Ibidem. 78 30 Paolo Pietrangeli e Fausto Amodei, definiti “cattivi maestri” per l‟istigazione alla rivolta violenta presente in alcuni testi.80 Berselli delinea con chiarezza lo stretto legame fra la cultura beat e il qualunquismo politico, il culto della ricerca individuale, l‟avversione per le esperienze collettive che esulino dalla contrapposizione con avversari non meglio definiti se non nella vaghezza del contrasto fra pronomi personali plurali – i Rokes nel 1966, in “Ma che colpa abbiamo noi”, cantano: “E se noi non siamo come voi / Una ragione forse c‟è”. I giovani fruitori del beat italiano professano indifferenza per le condizioni in cui versa il paese, coltivando un individualismo di cui rende conto Berselli in prima persona: <<lasciatemi perdere, non sono fatto per le esperienze collettive…non voglio saperne di cortei, di occupazioni, di impegni più o meno politici e collettivi. E se insistono: della società non me ne frega niente>>81. La contrapposizione inter-generazionale dà luogo al manicheismo con cui la società viene divisa in due macro-gruppi risultanti: “Noi”, ovvero i ragazzi dediti all‟utopia del beat, contro “Voi”, ovvero gli altri, <<individui sadicamente uniti nella mistica del profitto>>82. Berselli racconta l‟ascesa e il successo del gruppo dei Rokes di Norman David Shapiro, in arte “Shel”. I Rokes, in principio noti in Inghilterra con il nome The Cabin Boys & Colin Hicks, arrivano in Italia nel 1960 e, a seguito della defezione di Colin Hicks, presentano la formazione standard di quattro elementi, come da canonizzazione impartita dai Beatles. Il loro primo successo è “Un‟anima pura”, del 1964, reinterpretazione di una canzone composta nel 1940 da Don Marino Barreto Jr. L‟apporto dei Rokes alla musica italiana è fondamentale per Berselli, il quale li ritiene il gruppo che <<avrebbe dato una sonorità alla modernizzazione italiana>>83. I Rokes sono attori del rovesciamento delle convenzioni. L‟esibizione dei capelli lunghi e l‟uso della tecnica vocale del falsetto sono elementi di una provocazione costruita sull‟ambuguità sessuale, sgradita al pubblico adulto e apprezzata dai giovani clienti del Piper, locale beat nato a Roma nel 1965. La cosiddetta “epoca d‟oro” dei complessi beat dura fino al 1967. Il coefficiente rivoluzionario dello scandalo del beat è tale per cui Adriano Celentano, innovatore nella seconda metà degli anni Cinquanta, prima della svolta “pedagogico – religiosa”, nel 1967 propala conformismo nel brano “Tre passi avanti”. Celentano vi difende le 80 Cfr. Ivi, pp. 133-135. Ivi, p. 135. 82 Cfr. Edmondo Berselli, Post-italiani, in Q.G.P.D.I., p. 381. 83 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 138. 81 31 convenzionalità, esprimendo un‟iniziale gratitudine al movimento beat ma prospettandone la fine per aver creato i valori in cui si riconoscerebbero, a suo dire, “i ragazzi che non si lavano / e altri che si drogano / e dimenticano Dio”, nonché i capelloni, coloro che “visti di spalle / chi è la donna non si sa”.84 Il livore di Celentano verso il mondo beat è riconducibile a una vicenda sentimentale conclusasi negativamente, come tiene a precisare Berselli che ironizza in questi termini: <<il ragazzo beat gli ha fregato la ragazza, e allora lui insulta tutti>>85. L‟amore perduto a causa della concorrenza del ragazzo beat simboleggia per Celentano la sostituzione nel ruolo di guida rivoluzionaria, assunto in toto dal movimento beat. Berselli identifica nel brano anti – beat di Celentano la dissoluzione dell‟utopia beat della modernità, fondata su un fideismo capace di travalicare l‟oggettiva discrepanza qualitativa fra gruppi come Beatles e Rolling Stones e i complessi italiani come i Rokes: <<Facendo il tifo per un complesso decisamente minore si combatteva una piccola guerra senza speranza, al cui fondo c‟era però la convinzione che non contassero solo i protagonisti, gli idoli delle masse, ma il movimento in sé, l‟indistinto collettivo in cui si esprimeva la modernità>>86. L‟urgenza di modernità è il fulcro della coscienza costruita dal movimento beat sulla contrapposizione generazionale, racchiusa nella formula “noi contro voi”. Il “noi”, i giovani, che rivendicano il diritto di coltivare illusioni di mutamento, contro gli adulti, contro-modello espressione di ipocrisie e conformismo. Nelle canzoni dei Rokes i giovani trovano una giustificazione al proprio vittimismo, e il dolore generazionale connaturato al cambiamento si acuisce all‟approssimarsi del Sessantotto. “Piangi con me”, “È la pioggia che va”, “Che colpa abbiamo noi”, contengono spunti sul movimento di protesta. La protesta dei Rokes e degli altri gruppi beat non presenta un sistema ideologico di riferimento né un indirizzo politico, quanto piuttosto sociale, antropologico, nell‟ambito di un‟identificazione con ciò che Shapiro definisce <<lo spirito del tempo>>, il senso di appartenenza al movimento collettivo della modernizzazione. Con l‟esplosione dei moti del Sessantotto, le cui motivazioni risultano incomprensibili al popolo beat87, unitamente all‟esigenza di un impegno totalizzante all‟interno della società italiana, l‟era beat può ritenersi conclusa in favore dell‟ascesa 84 Cfr. Ivi, pp. 136 – 139. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 945. 86 Cfr. Ivi, p. 943. 87 Cfr. Ivi, p. 947. 85 32 dei cantautori. L‟attività della maggior parte dei gruppi beat di successo, dopo il Sessantotto, si riassume nel tentativo di eternizzare il “triennio magico” in una riproposizione statica e immutabile dei brani adatti a soddisfare la nostalgia di un pubblico divenuto adulto. Delle due differenti motivazioni addotte da Shel Shapiro al ritiro ufficiale dei Rokes, avvenuto l‟8 agosto del 1970, l‟una risulta riconducibile a una dimensione privata, l‟altra alla questione pubblica. Nella prima confluisce l‟intero apparato simbolico del beat, dal momento che, così come il beat italiano si esaurisce con il passaggio definitivo dei giovani alla fase adulta della contestazione globale, al contempo Shel Shapiro e gli altri elementi del gruppo avvertono l‟urgenza di abiurare alla gioventù al fine di diventare adulti essi stessi88. Secondariamente, i Rokes anticipano l‟accantonamento della Weltanschauung alla base del beat, reso obbligatorio dalla gravità delle vicende nazionali e internazionali. Il pensiero di modernità del beat scompare nella presa di coscienza dell‟ineluttabiltà del proprio logoramento definitivo89. I cantautori Dagli scritti di Berselli emerge come il beat fosse considerato alla stregua di una forma di strutturazione dell‟esistenza pressoché priva di difetti, eventualmente perfettibile, capace di insinuarsi persino nel mondo ecclesiastico con le cosiddette “messe beat”. Alla fiducia nel sistema di valori del beat si annette la presunzione della sua insostituibilità, successivamente disattesa dall‟irruzione delle nuove correnti “yeye” e “hippy”. Queste ultime si pongono come semplici diramazioni del beat. La novità è costituita dalla contestazione globale del Sessantotto, che sostituisce all‟antagonismo inter-generazionale, di cui il beat è espressione, la protesta politica intesa nel senso generale di rifiuto dell‟autorità costituita, in primis accademica. All‟omicidio dello studente Paolo Rossi, il 27 aprile 1966, era seguita l‟immediata occupazione studentesca della Facoltà di Lettere dell‟Università “La Sapienza” di Roma, alla quale l‟allora ministro dell‟Interno Paolo Emilio Taviani, con due circolari risalenti rispettivamente al 1° luglio 1966 e al 27 gennaio 1967, tentava di porre rimedio imponendo al Prefetto di introdurre le forze dell‟ordine in tutte le sedi universitarie italiane occupate, salvo espresso diniego da parte dei rispettivi Rettori90. La discussione aperta sui rapporti fra studenti e docenti universitari costituisce la base dialettica per 88 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 145 – 155. Ivi, nota n. 27, p. 258. 90 Cfr. Guido Crainz, op. cit., p. 217 – 218. 89 33 un‟opposizione a tutti i rapporti di subalternità degli appartenenti alle classi disagiate rispetto a una minoranza capace di attrarre il potere economico – politico su di sé. Tale opposizione, che vede nella prosecuzione dell‟intervento militare americano in Vietnam il nuovo simbolo di una gerarchia di poteri da sovvertire, si compie al suo meglio nel 1968 nel cosiddetto “Maggio Francese”, a cui segue, negli Stati Uniti d‟America, tra il 15 agosto e il 18 agosto 1969, l‟evento musicale di Woodstock. Il concerto di Woodstock rappresenta al contempo la sintesi delle culture legate al rock‟n‟roll, dal beat al movimento hippie, e somma di esperienze rivoluzionarie aventi come cardine l‟aspirazione alla libertà. Il rimescolamento degli artisti sul palco, la promiscuità sessuale, la sperimentazione di droghe, si fondono nel messaggio di rifiuto dell‟oppressione operata dalla società capitalistica, ritenuta responsabile della persistenza di conflitti bellici internazionali, nonché di un processo di disumanizzazione della società. Woodstock rimane tuttavia un evento circoscritto: Berselli lo ricorderà come la <<terra promessa… riscoperta quando anche la rivoluzione sarebbe infine diventata una nostalgia>>91. La contestazione in Italia trova un sostegno culturale nei “cantautori”, così definiti <<per una modalità di fare musica che si svincolava dalla tradizione melodica e leggera “all‟italiana”, nella quale gli autori delle canzoni erano anche gli interpreti e dove le parole e le storie raccontate avevano un‟importanza pari se non superiore alla musica>>92. Nella canzone d‟autore i testi costituiscono pressoché l‟unico oggetto di interesse dell‟ascoltatore, nel momento in cui la scelta dei temi trattati inizia a vertere non più sull‟esistenzialismo e i turbamenti sentimentali della quotidianità privata, come in “Sapore di sale” di Gino Paoli, bensì su questioni di portata più ampia, dirimenti per le vicende pubbliche e i destini collettivi. Il massimalismo dei cantautori consta di topoi quali il pericolo della guerra atomica, al centro di “Noi non ci saremo” dai Nomadi, o l‟orrore dell‟Olocausto, oggetto del brano “Auschwitz” degli Equipe 84. Entrambe le composizioni, incise nel 1966 dai rispettivi interpreti, vengono riproposte nel 1967 dal loro autore originale, Francesco Guccini, all‟interno del disco “Folk Beat n.1” . Berselli inizialmente stigmatizza una prassi compositiva afflitta da quella che definisce <<l‟infezione del contenuto>>93. Si professa inoltre, seppure con ironia, 91 Edmondo Berselli, La terra promessa di Woodstock, in “la Repubblica”, 11 agosto 2004. Lucio Spaziante, op.cit., p. 64. 93 Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 949. 92 34 <<fiero oppositore del passaggio dal beat alla protesta cantata>>94, dove la musica assume un‟importanza secondaria rispetto ai testi delle canzoni. In tale cambiamento Berselli ravviserà uno scatto culturale significativo, pur nella generale convinzione, esposta nella successiva strutturazione dialettica, che pressoché nessun cantautore abbia contribuito al progresso sociale. Berselli imputa ai cantautori un eccesso di cerebralità, unitamente all‟ostentazione di una competenza culturale e intellettuale per mezzo di un lessico inaccessibile alle grandi masse. Il canone della canzone d‟autore costiuisce per Berselli l‟estremizzazione della complessità applicata alla musica popolare, un contributo alla sperequazione, oggetto di critica di Berselli, fra le così definite cultura “alta” e “bassa”, e quindi alla diseguaglianza economica fra le classi sociali. Nello stile e nella produzione dei cantautori, in particolare di Francesco De Gregori95, Berselli critica l‟uso di parole auliche, estranee alla quotidianità, adoperate per una forma di auto-compiacimento. La vacuità dei significati espressi in larga parte dalla canzone d‟autore porta Berselli ad accusare i cantautori di aver <<giocato a dadi con l‟ermetismo, con l‟insondabile, con le allusioni, con l‟indicibile e l‟incomprensibile>>96, sublimando la protesta nella narrazione favolistica. Se non si considera l‟appunto encomiastico sulla bravura e l‟ironia di Rino Gaetano97, Francesco Guccini rappresenta la sola eccezione all‟interno delle valutazioni di Berselli sui cantautori e le implicazioni estetico - sociali della loro musica colta. In primo luogo Berselli individua nei brani composti da Guccini nel 1966, “Noi non ci saremo” e “Auschwitz”, eseguiti rispettivamente dai gruppi “Nomadi” ed “Equipe 84”, la costruzione di un collante simbolico fra il popolo del beat e i sentimenti condivisi verso il pericolo atomico, oltre che nel totale rifiuto di ulteriori genocidi. La sua competenza autoriale, le tematiche trattate e la scelta di vocaboli quali “sudario”, mai utilizzati precedentemente in un brano musicale, sono caratteristiche tali da rendere Guccini, secondo Berselli, il rappresentante dell‟<<evoluzione sociale>> del beat. Guccini, con “Noi non ci saremo”, “Auschwitz” e “Dio è morto”, diviene garante della dignità del beat, poiché ne opera una variazione dei moduli imprimendovi una cultura e una sensibilità maturate grazie agli studi pregressi. Ascrivendo la prima fase della 94 Edmondo Berselli, Francesco, il maestro amico, prefazione a Stagioni, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007, p. VIII. 95 Cfr. Edmondo Berselli, Venerati Maestri, in Q.G.P.D.I., pp.742-743. 96 Edmondo Berselli, Francesco, il maestro amico, prefazione a Stagioni, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007, p. XII. 97 Cfr. Edmondo Berselli, Sinistrati, in Q.G.P.D.I., p. 1119. 35 produzione di Guccini al movimento beat, Berselli ottiene di vedere riconosciuta, anche fra i detrattori della protesta beat, l‟attribuzione al popolo del beat di una coscienza civile degna di rispetto.98 Berselli non manca, nei suoi scritti, di spendere parole dense di stima per Francesco Guccini, a fronte di una fase transitoria di diffidenza, seguita agli studi filosofici di Theodor W. Adorno, verso la sua presunta strumentalizzazione della vicenda dell‟Olocausto; oltre che per l‟accusa, successivamente ritrattata, di un abuso di cultura nelle sue canzoni99. Con leggerezza e auto-ironia Berselli ripercorre tale transizione, dalla sua definizione di Guccini come <<il Carducci dei cantautori, con le sue strofe e rime un po‟ macchinose>> fino al progressivo riconoscimento sia del valore artistico di Guccini, <<un deposito vivente di cultura>>100, sia della simpatia personale che induce Berselli a chiamare il cantautore <<Guccinius>> all‟interno di un approfondimento intitolato scherzosamente <<Storia di Francesco Guccini raccontata al mio cane>>101, frutto della sua fantasia comica, dove Berselli con effetti esileranti immagina una dissertazione sul percorso artistico e la formazione di Guccini con il cane Liù, futuro protagonista dell‟omonimo saggio102 dell‟autore. Berselli ricorrerà altre volte al personaggio di Guccinius103, sempre nell‟intento, non dichiarato, di rimarcare la sua generale presa di distanza dalla seriosità e dalla pesantezza nel racconto della musica popolare in rapporto alla società. Nell‟analizzare la produzione di Guccini, Berselli identifica due aspetti che ne determinano l‟unicità. In primo luogo, Guccini si pone alla stregua di un maestro artigiano capace di pervenire, per mezzo del labor limae, all‟esattezza formale, la dimensione evocativa, l‟inevitabilità e l‟essenzialità riscontrabile nei classici. L‟anima classica di Guccini gli consente di rispondere alle esigenze dell‟anima popolare, tradizionale, che non viene quindi esclusa dal processo narrativo. Secondariamente, Berselli riconosce nel percorso artistico di Guccini la coerenza rispetto al ruolo di cantastorie. Nelle sue canzoni, a differenza di quanto espresso dai colleghi cantautori, Guccini non racconta favole, bensì impernia il rapporto di amicizia con il suo pubblico raccontando storie. Storie come quella narrata in “Incontro”, nella spiegazione fornita da Berselli, possiedono il dono dell‟atemporalità, che ne determina il valore in quanto 98 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., p. 952. Ibidem. 100 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 240 – 243. 101 Cfr. Edmondo Berselli, Venerati maestri, in Q.G.P.D.I., pp. 738 – 743. 102 Edmondo Berselli, Liù, in Q.G.P.D.I. 103 Cfr. Edmondo Berselli, Adulti con riserva, in Q.G.P.D.I., pp. 939 – 942. 99 36 <<la bellezza di una canzone consiste proprio nella possibilità di prendere una storia e di proiettarla in uno spazio senza tempo, in una specie di eternità>>.104 104 Cfr. Edmondo Berselli, Francesco, il maestro amico, prefazione a Stagioni, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007, pp. XI – XII. 37 2. Modelli di musica popolare secondo Berselli In questo capitolo si intende affrontare la trattazione di Berselli in merito a due artisti particolarmente significativi per la sua sociologia della musica leggera italiana: Lucio Battisti e Max Pezzali. Per quanto riguarda la portata rivoluzionaria di Lucio Battisti nell‟analisi di Berselli occorre considerarne sia l‟apporto tecnico, sia pedagogico. Il primo è desumibile dalle dichiarazioni di Ennio Morricone, che Berselli convintamente ripropone: Mi sembra addirittura che Battisti abbia resuscitato lo spirito dell‟antico canto gregoriano. In particolare, di quel tipo di canto liturgico che applicava al testo una nota per ogni sillaba: in questo modo gli ascoltatori potevano capire ogni parola… Quali che fossero le sue “radici”, per la nostra musica leggera il suo arrivo fu una novità che portò a dei risultati strepitosi.105 Il ruolo pedagogico di Battisti, acceleratore dell‟evoulzione dei costumi per le generazioni di italiani cresciute e cambiate con la sua musica106, può invece trarsi dalla validità universalistica del racconto di Pier Vittorio Tondelli, scrittore oggetto di numerose citazioni nell‟opera di Berselli: La prima volta che ho baciato… una ragazza è stato ascoltando Mi ritorni in mente… In una gita scolastica alle Cinque Terre, Acqua azzurra, Acqua chiara fu l‟accompagnamento musicale ed ecologico più adatto; Emozioni andò benissimo un po‟ più tardi… Fiori rosa fiori di pesco si cantò a squarciagola sul pullman dei campeggi estivi… Forse, Battisti, come nessun altro, riuscì in quegli anni a cantare di sentimenti e di amori adolescenziali, di grandi fughe e grandi dispiaceri eseguendo belle canzoni da mandare a memoria e quindi incomparabili refrain per… giovani ugole innamorate e malinconiche, prima della rivoluzione. 107 Sulla valutazione di Berselli del percorso artistico di Max Pezzali si rimanda alla Postfazione di Canzoni, risalente al 2007. Qui Berselli, pur affermando di non attribuire una qualche importanza alla tesi espressa nel 1999, secondo cui le canzoni costituiscano 105 Cfr. intervista a Ennio Morricone, in “Il Messaggero”, 10 settembre 1998, citato in Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 267. 106 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 98-99. 107 Cfr. Pier Vittorio Tondelli, in “L‟Espresso”, 13 aprile 1986, citato in Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 265. 38 la corsia preferenziale per una migliore comprensione delle dinamiche sociali, afferma con certezza quanto segue: Rivendico integralmente la sociologia debitamente selvaggia che innerva tutto l‟ultimo capitolo, dedicato a Max Pezzali, interpretato come un interprete specializzatissimo, intelligente e a suo modo perfino colto, capace di identificare i giochi di ruolo della provincia… Insomma, potete dire tutto, dell‟autore di questo libro… Ma su Max Pezzali non ci sono discussioni. L‟ha sdoganato lui, cioè io. E ancora adesso sono disposto a sostenere in pubblico che non solo è un bravissimo sociologo naturale, un perlustratore intelligente della provincia profonda, ma è anche il più bravo autore di testi per le canzoni che ci sia in circolazione in questo povero momento.108 2.1 Lucio Battisti come autore di riferimento Fra i diversi interpreti e autori della canzone italiana, Edmondo Berselli attribuisce assoluta rilevanza all‟opera di Lucio Battisti. Tale importanza deriva sia da considerazioni di tipo soggettivo, legate al gusto e alle simpatie di Berselli che con autoironia si dice appartenente alla <<setta dei battistiani affezionatissimi al… maestro solitario>>109, sia dalla valutazione dei componimenti di Battisti nel rapporto fra questi e la società. Lucio Battisti è innanzitutto la figura di raccordo fra la musica beat e quella specifica tipologia di canzone italiana popolare, di massa, e tuttavia capace, secondo Berselli, di sublimarsi nell‟esempio di Battisti in una dimensione artistica meritevole di lode. La produzione musicale di Battisti, pur trovando espressione anche in collaborazioni diverse, è legata in particolar modo al paroliere Giulio Rapetti, il quale, noto con il nome d‟arte “Mogol”, tra il 1965 e il 1966 scrive i testi di due brani composti da Lucio Battisti, “Dolce di giorno” e “Per una lira”, interpretati da due complessi beat, rispettivamente i Dik Dik e I Ribelli110. Nel corso degli anni Settanta, il binomio Battisti – Mogol è tale da generare una sigla, “Mogolbattisti”, che fonde il musicista e il paroliere, due personalità distinte e separate, in un progetto creativo che inizia ufficialmente nel 1969, e termina nel 1980 per incompatibilità personali. A riguardo appare significativo che Berselli dedichi un 108 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 251-252. Edmondo Berselli, L‟anniversario che non fa cultura, in “Il Sole 24 Ore”, 29 settembre 2002. 110 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I, pp. 156-157. 109 39 capitolo di Canzoni a Mogol, il cui titolo, “Quel gran genio di Mogol”, parrebbe preludere a una dichiarazione di stima incondizionata per il talento comunicativo di Mogol. Ciò è dimostrabile in ampia parte, ma Berselli non manca di evidenziare la contrapposizione fra i caratteri e gli approcci compositivi di Mogol e Battisti, al fine di argomentare secondo i criteri dell‟oggettività una predilezione ancora maggiore per il percorso artistico di quest‟ultimo. Berselli elogia il metodo di lavoro di Battisti, da lui stesso descritto nel brano eponimo del primo disco prodotto senza Mogol, pubblicato nel 1982 con il titolo di “E già”, e nel quale è ravvisabile la principale antitesi fra il musicista e il paroliere: “Niente è definitivo per te / provi e riprovi non ti fermi mai / e intanto aggiungi tagli e sintetizzi”111. Laddove Battisti ritrova nella musica pop consumistica un terreno per la sperimentazione musicale, alla sempiterna ricerca di un perfezionamento del proprio stile, da perseguire con l‟umiltà, la consapevolezza e la pazienza tipiche dell‟artigiano – addirittura, secondo Berselli, dello <<scrittore>> - l‟unico obiettivo di Mogol è comunicare con il maggior numero possibile di ascoltatori112. La centralità di Battisti e Mogol nel discorso di Berselli intorno alla musica risiede sia nella pregevolezza del suddetto atteggiamento di Battisti, sia nella coincidenza tra la personalità di Mogol e i suoi testi, frutto della pura istintualità del paroliere. In primis, e in aperta contrarietà rispetto a quella <<infezione del contenuto>>113 tanto biasimata da Berselli quanto dilagante al massimo grado negli anni Settanta storicamente denominati “Anni di Piombo” per la violenza profusavi da organizzazioni criminali e terroristiche - nella pur encomiabile forma dei suoi componimenti Mogol ostenta, secondo Berselli, <<uno schietto anti-intellettualismo>>114. Tale antiintellettualismo risulta dai due interessi precipui di Mogol, nei quali Berselli individua una doppia fede. Mogol nutre una prima fede in se stesso, sia in quanto individuo sia nella propria abilità nell‟estrinsecare quella che Berselli sintetizza come la fede <<nelle emozioni, anzi, e meglio ancora, nelle Emozioni, con tanto di maiuscola e narici frementi>>. Contrariamente a Battisti, Mogol basa il proprio metodo di lavoro sulla rapida cristallizzazione degli stati d‟animo secondo gli unici filtri dell‟istinto e l‟immediatezza, estromettendovi tanto una riflessione sui contenuti quanto una 111 112 Lucio Battisti, E già, in E già, 33 giri, Ed. Numero Uno, 1982. Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I, pp.158-160. Vedi capitolo 1, nota n. 93. 114 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 159. 113 40 rielaborazione formale finalizzata a perfezionare la concatenazione fra musica e testo. Le parole, per Mogol, sono semplici mezzi per esprimere queste emozioni che urgono ancora allo stato grezzo. Lui… è fiero di essere un professionista del massimo risultato con il minimo sforzo. E si vede. Si vede sempre. Anche nelle prove migliori… affiora sempre la sensazione di un che di non rifinito, qualcosa che cigola, si ribella, che non sta nelle battute… Quella che conta non è la forma. È la sostanza. 115 Questa urgenza comunicativa permette inoltre a Mogol di scrivere “Una giornata uggiosa”, brano presente nell‟ultimo disco frutto della collaborazione con Battisti, che a Berselli pare sia un‟anticipazione profetica della fine del connubio artistico e personale con il musicista, sia un <<autentico necrologio anticipato>> dell‟ancora lontana sepoltura di quest‟ultimo nel cimitero di campagna di Dosso di Coroldo, nel 1998.116 Le tematiche predilette da Mogol attingono in via pressoché esclusiva al dispiegamento quotidiano della dimensione privata, scandita dai sentimenti che definiscono l‟identità di ciascun individuo e, al contempo, la inseriscono in un sistema valoriale condiviso dalla collettività. La dimensione pubblica in Mogol, e conseguentemente in Battisti, risulta assente. Portando a esempio l‟assassinio di Aldo Moro, avvenuto nel 1978, Berselli sottolinea come nessun evento di pubblico dominio, per quanto risulti avere un impatto considerevole sulla società italiana e il suo immaginario, riesca a trovare il benché minimo riflesso nei testi di Mogol, per il quale – scrive ancora Berselli – la dimensione pubblica appare <<semplicemente uno dei teatri in cui avvengono rappresentazioni individuali e commedie personali, rapporti a due, amori e ripulse, incontri e addii>>117. Il rifiuto di Mogol per tutto ciò che attiene alla società intesa come entità sovra-individuale si traduce nella scelta del duo “Mogolbattisti” di escludere la politica in senso stretto dalle loro composizioni. Tale indirizzo a-politico risulta coincidere con una banalizzazione in chiave qualunquista delle ideologie di riferimento per le masse, come traspare da alcune dichiarazioni rese da Mogol alla stampa in cui afferma di credere negli uomini ma non nelle ideologie, nonché di ritenere Battisti associabile alla vaghezza di una presunta ideologia della 115 Cfr. Ivi, p. 161. Cfr. Ivi, pp. 160-162. 117 Cfr. Ivi, p. 162. 116 41 libertà, e tuttavia pienamente estraneo all‟ideologia comunista118. Qui, oltre che nell‟esternazione di un maschilismo latente che sfocia nella misoginia in brani come “Donna selvaggia donna”, dove la donna viene definita un “controsenso affascinante”, possono rintracciarsi le origini delle accuse di fascismo rivolte all‟ambiguità delle posizioni di Mogol, ritenuta incompatibile rispetto alle esigenze degli anni Settanta: un decennio fondamentale per il processo di emancipazione femminile, a partire dalle conquiste legislative in tema di aborto e nell‟istituzione del divorzio, ma soprattutto, come scrive Berselli, <<Un decennio prismatico, sfaccettato, apparentemente inseplicabile. Ma dominato da un‟idea e una soltanto: che l‟unica prospettiva intellettuale, l‟unico quadro teorico utilizzabile, l‟unica strumentazione sociopolitica, l‟unica speranza civile sia esclusivamente “di sinistra”>>.119 Si può dire che Berselli, prima ancora di inoltrarsi in specifiche argomentazioni teoriche, provi un personale sentimento di sollievo per la rinuncia di Mogol a scrivere canzoni simili a “La rivoluzione”, proposta da Gianni Pettenati e Gene Pitney al Festival di Sanremo 1967, ovvero nel pieno di quella contestazione globale che Mogol riduceva a una <<marmellata psicologico-esistenziale, finto-protestataria, farraginosamente giovanilista>>, inserendosi quindi nel filone artistico della reazione mascherata da rivoluzione cui il filosofo Herbert Marcuse si richiama con la formula della desublimazione repressiva. L‟unica ideologia costruita da Mogol, secondo Berselli, consiste nella rappresentazione di Battisti in veste di contadino e cerimoniere della vita nei campi, che tuttavia non consente a Mogol di sublimare la realtà in una soprannaturalità possibile grazie al valore evocativo delle parole scelte. Si noti come il limite della forza espressiva di Mogol coincida con la sua cifra stilistica, costituendone il perno: per Mogol, infatti, <<le cose, la vita materiale, gli oggetti della quotidianità, servono a qualcosa solo se possono diventare entità di livello superiore, se la casa può trasformarsi in un Tempio>>. Allorché ciò accade, Mogol riesce a mitizzare la pura materialità del reale in un apparato simbolico interpretabile, a livello inconscio, dal pubblico. Per citare ancora Berselli, <<L‟estetica di Mogol si stende così senza soluzione di continuità fra il banale e il sublime… considerando il Sacro e il Profano sempre intercambiabili, in quanto garantiti dalla sua – di lui Mogol – personale ed 118 119 Cfr. Ivi, nota n. 20, p. 261. Cfr. Ivi, p. 163. 42 eroica spontaneità>>, ottenendo i risultati minormente degni di encomio, secondo Berselli, quando adotta un registro formale e linguistico ispirato al minimalismo.120 Nella descrizione di Berselli appare evidente, per quanto non venga dichiarato in modo esplicito, un parallelismo fra Mogol e Adriano Celentano. Al pari di quest‟ultimo, alla personalità di Mogol viene attribuita l‟inclinazione al paternalismo, alla missione pedagogica – non in ambito sociale, bensì sessuale e sentimentale -, nonché la capacità di comprendere in anticipo i mutamenti del costume. Sia Celentano sia Mogol interpretano il cambiamento sociale <<con una mentalità fra il filisteo e il macho, fra bizzarrie egocentriche e comicità conformiste… tradizionale fino a essere irrimediabilmente reazionaria, incazzosamente sbrigativa e autoritaria>>, ma Mogol si dimostra capace di compiere un‟operazione diversa, ristrutturando i connotati della modernità sotto forma di allegorie che gli consentono di evitare qualsivoglia cenno di analisi sociologica. Convinto della sostanziale inesistenza dell‟entità comunemente chiamata “società”, Mogol si richiama al massimalismo delle tematiche oggetto di dibattito negli anni Settanta nella sola misura in cui esso possa giovare alla sua rappresentazione allegorica: la disoccupazione, e la correlata crisi del modello di sviluppo capitalista, forniscono a Mogol uno spunto per canzoni come “Neanche un minuto di „non amore‟”, in cui la donna, ancora relegata a obiettivo di conquista amorosa, lamenta il proprio licenziamento ottenendo dal suo accompagnatore la promessa di un amore ininterrotto, la cui onnipresenza possa compensare la perdita dell‟occupazione. Anche l‟evoluzione dei concetti di “innamoramento” e “amore”, che nell‟analisi di Francesco Alberoni diventa <<un movimento collettivo a due>>, conduce in Mogol alla perpetua restaurazione dell‟egocentrismo maschilista nei rapporti sentimentali.121 Nell‟elogio della genialità di Mogol, Berselli mira alla valorizzazione della sua intangibilità rispetto all‟urgenza del messaggio, all‟infezione del contenuto, alla commistione fra musica e politica sentite come imprescindibili dal pubblico contestatario degli anni Settanta. Il Mogol migliore, secondo Berselli, è il paroliere, talvolta meritevole dell‟appellativo di “poeta”, in grado di cogliere negli elementi apparentemente più trascurabili della realtà metropolitana l‟essenza della quotidianità dell‟Italia modernizzata.122 A quest‟ultima, secondo l‟analisi di Ernesto Galli della 120 Cfr. Ivi, pp. 164-167. Cfr. Ivi, 168-169. 122 Cfr. Ivi, 170-171. 121 43 Loggia ripresa da Berselli, Mogol offre finanche <<un lessico per parlare d‟amore>>123. In seguito si procederà a illustrare come Berselli ritenga sottovalutato l‟impatto socio-politico delle canzoni scritte da Mogol e Battisti per il grande pubblico, senza il quale, stando alla teoria di Mogol, la musica perde ogni utilità. Secondo Berselli, brani come “Acqua azzurra, acqua chiara”, “Pensieri e parole” e “Fiori rosa, fiori di pesco”, oltre a rispettare il criterio utilitarista elaborato da Mogol risultano aver assolto, alla luce della loro popolarità e diffusione inter-generazionale presso tutte le classi sociali, a una funzione formativa nella costruzione dell‟identità italiana. L‟assenza di Lucio Battisti Oltre che prelusiva, secondo Berselli, di una morte prematura successivamente verificatasi, l‟assenza di Battisti rappresenta l‟unica costante, eccezion fatta per un approccio compositivo mai disgiunto dall‟anelito al perfezionismo, di un percorso artistico perpetuamente soggetto a una progressiva evoluzione che <<comincia dal beat, e… va a concludersi tutta in levare>>124. Innanzitutto l‟assenza di Battisti si palesa nella scelta di evitare l‟autobiografismo tanto nelle dichiarazioni pubbliche quanto nella creazione dei brani musicali. Nel decennio dei Settanta, propedeutico all‟instaurazione definitiva del dominio dell‟individualismo, l‟egocentrismo e il presenzialismo antitutto di matrice televisiva, Lucio Battisti compie l‟operazione inversa, di sottrazione. Per dirla con le parole di Berselli, <<per poter fare parlare Battisti bisogna andare per indizi, alla caccia di piccole spie del comportamento; oppure cercando di leggerne le internzioni, qualche segno esterno e visibile di una volontà>>125. Se l‟assenza di Battisti si assolutizza solo successivamente alla conclusione dei rapporti personali e artistici con Mogol, avvenuta nel 1980, un più generale atteggiamento di sottrazione risulta evidente sin dalle prime apparizioni televisive. Berselli cita le apparizioni a suo parere sintomatiche del <<pudore>> di Battisti, allorché è già assurto a fama nazional-popolare. Nel corso della trasmissione “Teatro 10”, andata in onda il 1° maggio 1971, Battisti propone in playback il brano intitolato 123 Edmondo Berselli, Quell‟Italia della canzonetta, in “la Repubblica”, 28 febbraio 2004. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 196. 125 Ivi, p. 173. 124 44 “Pensieri e parole”. Grazie a un‟invenzione del regista Antonello Falqui, l‟esibizione viene ripresa sia in primo piano, sia in piano americano, producendo uno sdoppiamento della figura e della voce di Battisti, la cui presenza in primo piano rimanda, secondo Berselli, a un artista <<semplificato, tramutato in un‟immagine, nel poster stilizzato di se stesso… Sul volto gli appare qualcosa che assomiglia a un rossore>>, tale da configurarsi come <<l‟annuncio dell‟addio>>. Berselli riscontra questo presentimento nella timidezza ostentata da Battisti a fronte del clamore e l‟entusiasmo del pubblico, quando nel 1972 sussurra in televisione le prime strofe della canzone “I giardini di marzo”; nel finale dell‟esecuzione di “Emozioni” insieme alla cantante Ornella Vanoni, nel 1971, dove Battisti, ricevuto un bacio da quest‟ultima, <<istintivamente si porta la mano alla guancia, come fanno i bambini quando le effusioni diventano intrusive>>; nella parvenza di risentimento indottogli dalla coercizione di Renzo Arbore, che nel 1969 durante il programma “Speciale per voi” interrompe Battisti mentre canta il brano dal titolo “Il vento”, contaminando l‟andamento liturgico della musica con una sorta di blasfemia perpetrata dalla nascente liturgia televisiva. Per converso, sia nel corso della storica esibizione con Mina datata 1972, sia in un diverso momento della già citata partecipazione alla trasmissione “Teatro 10”, dove propone una versione di “Eppur mi son scordato di te” improvvisata, acustica e accompagnata dal solo battere di un piede, Battisti non si sottrae alla libera esposizione della propria gioia, pressoché abdicando al pudore in cui poteva riassumersi. In riferimento a tale esecuzione, Berselli racchiude nelle seguenti righe l‟essenza di Lucio Battisti: <<quello che era un divertissement canoro si tramuta in musica allo stato puro: al punto che quando a metà fa risuonare uno dei suoi “uououò”… si scatena un applauso, e lui sorride… e in quel sorriso c‟è tutto il piacere del music maker soddisfatto di essere entrato in completa sintonia con chi lo ascolta>>. Inoltre, laddove Mogol ritiene inutile qualsiasi musica in assenza di un‟ampia massa di ascoltatori, Battisti trova nella felicità del pubblico, sia esso televisivo o presente alle feste private in cui viene invitato a cantare, un‟ulteriore sublimazione della propria felicità nel realizzare se stesso attraverso la creazione e la manipolazione della musica, oltre che nell‟interazione con essa. All‟insofferenza per le interviste a giornali e programmi televisivi, Battisti supplisce con l‟unica attività nella quale sente di poter <<recuperare naturalezza e sentirsi a suo agio>>, ovvero fare musica.126 126 Cfr. Ivi, pp. 173-176. 45 Dall‟analisi di Berselli emerge come, in un panorama musicale dominato dall‟infezione del contenuto e dall‟asservimento della musica alla propalazione del messaggio protestatario e anti-sistemico esatto dai movimenti del Sessantotto, l‟artigiano musicista Battisti ritenga la musica un fine, anziché un mezzo. Inoltre, Battisti si rivela portatore di verità in un contesto discografico già soggetto alle regole del marketing, che delineano in primo luogo la superiorità commerciale, e dunque fattuale, dell‟apparenza sulla sostanza dell‟arte in sé. Nel decennio della protesta, Lucio Battisti manifesta una concezione ludica, a-politica e a-protestataria, della musica. Questa viene così emancipata da sovrastrutture che ne inibiscono il potenziale espressivo, formale, estetizzante, restituito dalla serietà e dall‟applicazione di Battisti, il quale percorre gli anni Settanta profilandosi <<sempre meno “cantante” e sempre più tecnico e gestore dei propri suoni>>127. Non è casuale, secondo Berselli, che al sopraggiungere degli anni Ottanta, ovvero il decennio del trionfo dell‟esteriorità post-moderna, Battisti termini i rapporti con Mogol, rifiuti contratti discografici estremamente vantaggiosi sotto il profilo economico e ponga, materialmente, una distanza fra sé e il mondo circostante, rifugiandosi nell‟interiorità. La presa di distanza di Battisti è per Berselli <<un gesto estetico>>, che disattende la prevedibilità della musica popolare, da parte di un artista già divenuto <<soltanto una voce che esce da un disco, da una distanza, da un altrove: una voce da nessun luogo>>128. Fatta eccezione per il disco “E già” pubblicato nel 1982, il silenzio di Battisti perdura sino al 1986, quando la seconda fase della sua carriera prende avvio con il disco intitolato “Don Giovanni”, il primo di cinque dischi elaborati con il poeta e paroliere Pasquale Panella. <<Un mese dopo è la volta della luce accecante di Cernobyl>>, scrive Berselli, che associa metaforicamente l‟Apocalisse nucleare, <<collasso filosofico della tecnica e della modernità>>, all‟anti-modernismo del nuovo approccio compositivo di Battisti che, stando alle dichiarazioni rilasciate all‟epoca dal suo nuovo paroliere129, adatta la struttura dei suoi componimenti all‟irrazionalità e la rarefazione interpretativa dei testi di Panella, trattato ironicamente da Berselli come un <<volenteroso e comico serial killer del linguaggio>>, composto da <<enjambements 127 Ivi, p. 177. Cfr. Ivi, p. 178. 129 Cfr. Ivi, nota n. 4, p. 267. 128 46 vertiginosi, combinazioni da scioglilingua e sillabazioni molto inedite per le scansioni tipiche della canzone popolare>>130. A partire dalla collaborazione con Panella, Battisti elimina inderogabilmente le canzoni d‟amore, abdica alla produzione di emozioni nella loro accezione sentimentalistica, <<intellettualizza i sentimenti e li mette in freezer>>131. Berselli sostiene che dietro a tale mutamento di metodo e prospettiva non vi sia uno sperimentalismo fine a se stesso, bensì un progetto consapevolmente avanguardista finalizzato alla sottrazione di qualsiasi punto di riferimento per il pubblico. In tal modo, secondo Berselli, Battisti avrebbe indotto i suoi ascoltatori più desiderosi di complessità a evolvere le proprie capacità percettive in una costante ricerca di senso. L‟ineffabilità di quest‟ultimo nei testi di Panella sarebbe sintomatico non già di un‟insensatezza di fondo, come da analisi di alcuni critici musicali, bensì della volontà di instillare il dubbio interpretativo nell‟ascoltatore, il quale riceve così una formazione estetica e, in ultima analisi, morale. Nei testi di Panella le cose pensano e hanno sentimenti132, si assiste a un ribaltamento prospettico da cui non è esente <<neppure la matematica: per questo accanito sistemista del caos, la somma dei numeri è il frutto… di una macchinazione dei dadi>>. Battisti consegna la sua musica all‟ermetismo poetico di Panella sia per estremizzare la distinzione e la distanza dal corpus elaborato con Mogol negli anni Settanta, sia per creare <<un prodotto unico, inconfondibile, definitivo. Qualcosa di fatale e in quanto tale immodificabile>>.133 Alcuni critici dell‟epoca descrivono la produzione di Battisti e Panella come <<dadaismo da Baci Perugina>>134, o affermano che nel connubio vi sia <<Troppa poesia per la canzonetta. Troppa canzonetta per la poesia>>135, o infine rinvengono nell‟esperimento una <<metafisica della canzone>>136. Secondo Berselli, invece, nella collaborazione con Panella Battisti si dimostra un precursore nell‟uso di una tecnica che sarebbe divenuta prassi nell‟offerta musicale di fine anni Novanta, lasciando intendere che <<la capacità anticipatrice, l‟eclettismo musicale, le doti di mimetismo rispetto al 130 Ivi, pp. 179 – 180. Ivi, p. 248. 132 Lucio Battisti, Le cose che pensano, in Don Giovanni, Numero Uno, 1986. 133 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 183-184. 134 Cfr. Maurizio Bianchini, L‟hit parade degli invisibili, in “Europeo”, 9 novembre 1990. 135 Cfr. Gabriele Ferraris, “La stampa”, 25 settembre 1992, citato in Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 265. 136 Cfr. Gino Castaldo, Il nuovo Battisti thrilling di note, in “la Repubblica”, 4 ottobre 1988. 131 47 pop internazionale, ma anche all‟acid, alla house, alla techno, e al bass & drums, fossero davvero di ordine superiore, da fuoriclasse>>137. Traendo spunto da una recensione di Michele Serra, che parla del disco di Battisti e Panella intitolato “L‟apparenza” come dell‟opera di due geni, Berselli ritiene l‟intero prodotto della coppia <<un‟opera totale della pop art>>, dove la musica incarna <<l‟unica felicità possibile in questa trans-realtà>>, e la voce di Battisti dà seguito <<alla inesauribile ricchezza di significato implicita nelle cose, intrinseca al loro proliferare>>.138 Con mezzi propri dell‟ermeneutica, Berselli evidenzia le sottigliezze stilistiche nelle canzoni di Battisti e Panella, decretandone la complessità ed elogiando l‟abilità con cui Battisti ha saputo tramutare la materia popolare in materia di culto: Battisti si rende artefice di un compromesso, realizzando <<l‟opera d‟arte con i materiali della cultura minore>>, una fusione volta al progresso estetico e morale del pubblico. Alla sua visione di insieme sulla parabola di Lucio Battisti, oramai assurto all‟agognato ruolo di <<”fine dicitore” della musica italiana>>, perfezionato grazie alle stesse doti che secondo il suo storico collaboratore Greg Walsh autenticano la qualifica di “artista”, Berselli aggiunge un‟ulteriore considerazione. I testi di Panella, anche alla luce del sussiego con cui la critica musicale e la comunità filosofica accademica accolgono l‟ultimo disco di Battisti, “Hegel”, sembrano a Berselli lo sberleffo di due artisti che, pur trattando la materia musicale con professionalità, applicazione e genio, hanno intimamente preservato lo spirito degli anni Sessanta, che nell‟immaginario di Berselli rimanevano ancorati ad alcuni principicardine improntati all‟allegria e la diffidenza per ogni forma di seriosità: <<Un concentrato di cialtroneria collettiva che poteva diventare qualche volta spettacolo trascinante, imprenditoria allo stato nascente o musica emozionante>>139. Appare qui meritevole di approfondimento un ultimo aspetto della musica di Battisti, nonché del rapporto fra questa e il pubblico, caratterizzato da una dualità sfociata in alcuni casi in dualismo. Avviene che dal 1998, sin dai primi momenti seguiti alla morte di Battisti, le sue opere create in collaborazione con Panella vengono sostanzialmente escluse dalle celebrazioni postume. In uno dei rari passi in cui dà sfogo all‟amarezza per il trattamento riservato dai mass-media all‟amato Battisti, Berselli segnala che, salvo 137 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., p. 185. Cfr. Ivi, p. 189. 139 Ivi, p. 246. 138 48 rare eccezioni, <<sedici anni di carriera vengono semplicemente censurati, rimossi, dimenticati, trattati come se non esistessero>>140. Il pubblico di Battisti si divide fra gli adoratori esclusivi della prima fase dell‟autorecantante, legata al paroliere Mogol, e gli estimatori del percorso intrapreso con Pasquale Panella. Lo stesso Berselli, dopo aver profetizzato nel 1999, con la prima stesura di Canzoni141, la rivalutazione positiva da parte della critica, a posteriori, della produzione di Battisti e Panella - riproposta in un cofanetto nel 2006 -, trae una nuova summa dell‟intero percorso di Battisti all‟interno della Postfazione del 2007. Oltre a ribadire il proprio giudizio positivo sui prodotti di Battisti e Panella, Berselli pare confermare lo scenario vaticinato nel 1999: <<negli ambienti appena più snob della media, tutti, ma diconsi davvero tutti, hanno cominciato a dichiarare con aria di sufficienza che il vero Battisti, quello più autentico e moderno, sarebbe l‟ultimo>>, che stando alla tautologia di Berselli <<piace solo a Battisti e a chi piace l‟ultimo Battisti>>: estraneo alla settarietà e fruitore della complessità di un percorso in continua evoluzione, Berselli afferma che la predilezione per l‟una o l‟altra delle due fasi dipende unicamente dai mutamenti di umore, prefigurando così le canzoni di Mogol come panacea per i <<momenti di malumore>>, e Panella a soddisfare la <<voglia di roba culturale>>.142 In definitiva, l‟autore-cantante popolare Lucio Battisti diviene, nel ritratto di Berselli, la personificazione dell‟artista perfetto, capace di modificare radicalmente la tradizione musicale italiana e di conformarla a una dimensione internazionale, accompagnando con l‟evoluzione del proprio percorso artistico la formazione di diverse generazioni, alle quali più di ogni altro musicista ha saputo fornire un‟educazione sentimentale esteticamente e moralmente progressista. 2.2 Max Pezzali e gli 883: un‟analisi controcorrente Nell‟arco temporale attraversato da Battisti la società italiana cambia radicalmente. Tale mutamento non è desumibile dalle canzoni di Battisti a causa della dimensione privata e sentimentale dei testi di Mogol, e successivamente di quella visionarietà ermetica, attribuibile alla produzione di Battisti e Panella, che Berselli ascrive a una 140 Cfr. Ivi, p. 195. Cfr. Ivi, p. 172. 142 Cfr. Ivi, pp. 247-249. 141 49 dimensione <<post-storica>>143. Invero la nuova mutazione italiana rientra nel più generale riassetto europeo seguito al crollo del Muro di Berlino nel 1989, sfociato nel Trattato di Maastricht del 1992 e, in sintesi, nell‟era della globalizzazione. Gli anni Novanta possiedono un‟identità non meglio identificabile, sulla quale Berselli si interroga alludendo a quelli che ritiene possano dirsi i simboli del decennio: la moneta unica dell‟Euro; l‟invenzione del World Wide Web; le liberalizzazioni; la popolarità del cattolicesimo anti-capitalista professato da Karol Józef Wojtyła, Papa Giovanni Paolo II; il monetarismo e il liberalismo economico; la scomparsa delle grandi ideologie. In particolare l‟assenza di questi ultimi punti di riferimento, un tempo adoperati alla stregua di dogmi in cui incanalare l‟incontrovertibilità di idee e visioni del mondo ampiamente condivise, conduce a un‟incertezza collettiva che non si traduce in un auspicabile culto del dubbio, bensì nel dominio del relativismo e dell‟individualismo: <<pochissima o nessuna fiducia nel futuro, se non puntando sulla rapacità del proprio ego e sulla capacità… di allestire sodalizi funzionali al mantenimento di quote di potere>>. Il welfare italiano inizia a disgregarsi, erodendo diritti acquisiti ai meno abbienti e fornendone di nuovi ai principali attori del capitalismo, il cui spirito si propaga nel consumismo alimentato da un‟offerta televisiva antitetica all‟avanguardia culturale degli anni Cinquanta e Sessanta. L‟antica gerarchia alla base della divisione della società italiana in classi differenziate viene sostituita dall‟omogeneità di <<una specie di nuova classe, né proletaria né borghese, molto estesa socialmente e del tutto indifferenziata>> alla quale vengono proposti <<consumi socialmente degradati, pubblicità qualitativamente spaventosa, intrattenimento… da zombi>> e una televisione <<perfettamente autoreferenziale, dove si divertono soltanto quelli che la fanno, cioè gli ospiti e i marchettari>>. In tal modo, secondo l‟ipotesi di Berselli che oggi, quasi quindici anni dopo la sua enunciazione, risulta essersi pienamente realizzata, si determinano <<le condizioni per una subalternità di massa>>. La nuova classe sociale descritta da Berselli possiede l‟irresponsabilità tipica delle masse degli anni Cinquanta, con la differenza che mentre l‟ottimismo di queste ultime aveva dato luogo al beat, il pessimismo della massa indistinta degli anni Novanta si riflette in operazioni quali il già citato disco “Mina Celentano”, pubblicato nel 1998. L‟industria culturale e discografica si presenta come il supermercato dal quale la suddetta massa attinge le proprie emozioni: <<Occorre solo il prodotto adatto, che esemplifichi la sua subalternità e la 143 Ivi, p. 182. 50 renda protagonista, la emblematizzi>>, ovvero gli 883 capitanati dal cantante e autore Max Pezzali.144 Tali premesse non impediscono a Berselli di spiegare in termini sociologici la produzione degli 883, ridotta dalla totalità della critica musicale italiana a infima espressione del consumismo musicale, un mero fenomeno di marketing. In realtà, come si evince da una delle numerose interviste rilasciate nel corso degli anni, Max Pezzali inizia a scrivere, senza progettarne sistematicamente la struttura, le canzoni che avrebbe voluto ascoltare da semplice ragazzo di provincia: brani con una forte base realistica, improntati alla rappresentazione della quotidianità delle singole vite vissute nell‟era della massificazione, tanto comuni nella comunicazione dei brani rap statunitensi quanto introvabili nella musica italiana degli anni Novanta .145 Berselli ritiene che gli 883 rappresentino <<un‟operazione sociologica>> nonché <<quel pezzo d‟Italia che viene su fino a noi dagli anni Cinquanta>>, con un linguaggio innovativo e meritevole di analisi. L‟opera degli 883 per Berselli è <<comunicazione pura, trasmissione multimediale di tendenze-mode-mitologie pop>>. Laddove il pop e la canzone d‟autore italiani, salvo rare eccezioni, anche negli anni Novanta tendono a celare il significato nell‟ermetismo, Berselli riconosce a Max Pezzali la stessa dote di Francesco Guccini: l‟abilità e il desiderio di raccontare. Contrariamente alla poetica erudizione dei testi di Guccini, Pezzali adotta un registro linguistico medio, proprio di un <<neo-italiano né ignorante né colto… un “italiano massa”>> che a prescindere dalla generazione di provenienza fa proprio il gergo giovanile, assurto a italiano standard per la comunicazione quotidiana, che viene sintetizzata e velocizzata in onomatopee, anglicismi e sintagmi ai quali l‟inedita liceità sociale della “parolaccia” contribuisce a conferire senso. Il fumettismo di canzoni come “Hanno ucciso l‟uomo ragno” attiene a uno dei tre livelli in cui Berselli seziona il percorso degli 883, e che viene presto sostituito dal secondo filone tematico del gruppo: quello legato in particolar modo all‟<<epopea giovanilistica>> di una generazione svuotata di connotati identitari. Nel brano “Jolly Blue” gli 883 si dicono “né ricchi né barboni”, ovvero appartenenti alla massa vasta e indifferenziata, né proletaria né borghese, descritta da Berselli. I giovani degli anni Novanta si muovono all‟interno dei classici teatri della socializzazione, i bar e le balere – frattanto divenute discoteche -, esattamente come i giovani degli anni Cinquanta. Ciò che li distingue è l‟approccio alla vita e al 144 145 Cfr. Ivi, pp. 219-224. Cfr. Franco Zanetti, intervista a Max Pezzali, in “www.rockol.it”, 24 ottobre 2005. 51 divertimento: a muovere i secondi era la volontà di praticare l‟ottimismo ancora non intaccato dal Sessantotto; per i primi l‟edonismo è ricerca di evasione dal pessimismo e dalla noia di provincia.146 L‟insofferenza per le liturgie della vita di provincia si riscontra nel testo di “Con un deca”, nel gergo giovanile la banconota da diecimila lire con cui “non si può andar via” da una qualsiasi città provinciale dove si trovano solo “due discoteche” ma ben “centosei farmacie”. In “Rotta per casa di Dio” si nota un‟ulteriore separazione tra il pubblico di Pezzali e i giovani cresciuti nel boom economico all‟interno di un sistema fortemente plasmato dalla religione e dalle grandi ideologie. La generazione a cui parlano gli 883 è totalmente secolarizzata, de-sacralizzata, al punto che la “casa di Dio” non indica più una chiesa, bensì una festa in cui andare “a botta sicura”, cioè consumare uno o più atti sessuali con partners occasionali. Nelle canzoni degli 883 il bar è <<un‟officina sociale dove si manifestano senza filtri i tic, le ossessioni e le manie>> di una generazione allevata sia nella secolarizzazione sia nell‟omologazione, in particolare nella componente under 21, <<il target commerciale primario dell‟operazione 883>>. Tale omologazione, secondo Berselli, non è assimilabile unicamente alla ricerca dell‟appartenenza a un gruppo sociale o generazionale alla base della “rivoluzione dei capelli”, ma è il risultato dell‟ambizione di ciascun giovane di coltivare la propria diversità rispetto agli altri, innanzitutto nell‟abbigliamento, utilizzando un‟offerta di dettagli ornamentali talmente limitata da determinare, alfine, l‟assenza di una differenziazione tangibile. Su tali presupposti va a radicarsi l‟identificazione fra il pubblico e Max Pezzali, il quale è semplicemente <<uno di loro>>, un anti-divo afflitto da problemi comuni di tipo sia estetico sia caratteriale, come la calvizie, la malposizione dentaria o l‟introversione. Nei bar, sia i fan di Pezzali sia il cantante in persona programmano con le rispettive compagnie un edonismo serale destinato, quasi sempre, a essere disatteso. Laddove la missione erotica fallisca, la disillusione conduce al ripiego di un‟altra serata fra amici all‟autogrill, ulteriore “casa di Dio” parimenti alla discoteca o al luogo della festa dove le donne attendono “con il tacco alto e la gonna corta”: <<si sente echeggiare… una rassegnazione pragmatica, il disincantato vaffanculo che coincide sotto sotto con il chissenefrega>>. Tale sentimento di solidarietà all‟interno di una cerchia di amici si esplica nella millantata professione di indifferenza verso la donna, quasi sempre oggetto del desiderio e talvolta, in brani come 146 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 224-228. 52 “Sei un mito”, partner egocentrica rispetto alle cui volontà vengono anteposti gli affetti del gruppo.147 Intorno alla centralità assoluta del bar, Max Pezzali propone una suddivisione del mondo in “noi” e “voi” ancora più stringente della contrapposizione cantata da Shel Shapiro e i beat. Il “noi” identifica un gruppo particolare di amici, che frequenta un determinato bar e si professa unico detentore di un‟etica fondata sulla lealtà. La sfortuna, una “sfiga” anch‟essa personalizzata, impedisce loro di competere in àmbito sentimentale con “gli altri”, i conformisti borghesi estranei al gruppo che non manca di chiedersi quali siano i motivi per cui <<le ragazze avvertano un‟attrazione per quei tipi lì>>. La visione della donna nei testi di Max Pezzali, fino al momento in cui egli stesso non avvia una fisiologica responsabilizzazione della propria vita, risente della frustrazione per una marginalità che assurge a <<costante esistenziale, un atteggiamento…reclamato come una prerogativa>>. Nel suo cinismo, lo sventurato della compagnia elabora un <<antigalateo>> condiviso dai fans degli 883, in base al quale rifugge l‟amicizia le donne, la costanza e la serietà in vista di progetti di vita comune, nonché i <<conformismi da fidanzamento>> che preludono al temuto sbocco nel matrimonio, limitandosi a frequentazioni occasionali con finalità erotiche.148 Come in Battisti, anche negli 883 e in Max Pezzali non trovano rappresentazione né le ideologie, né la politica. La preminenza spetta invece alla filosofia sviluppatasi nei bar e sulle strade, la cui enunciazione viene spesso affidata al personaggio ricorrente di Cisco, che in brani come “La dura legge del gol” mette l‟ascoltatore in guardia dalle avversità della vita. La svolta nel percorso artistico di Max Pezzali avviene con la presa di coscienza della fine dell‟immaturità, l‟esaurimento dell‟epopea giovanilistica, la consapevolezza della fugacità dell‟edonismo praticato in discoteca: <<Non gli basta più la registrazione dei fatti. E allora dà il via al suo terzo filone: quello di una nostalgia disincantata che gli fa volgere lo sguardo all‟indietro>>149. La nostalgia, unita alla rassegnazione e al rimpianto per l‟irreversibilità della fine di un‟epoca, assume tratti pubblici o privati. Secondo lo stesso Pezzali, la nostalgia collettiva alimentata da un inno generazionale come “Gli anni” <<è indipendente dal contenuto della canzone. I tempi di cui ha nostalgia la canzone “Gli anni” non sono i tempi di cui ha nostalgia quella generazione lì, perché erano precedenti… Anche oggi i ragazzi ascoltano quella 147 Cfr. Ivi, pp. 229-232. Cfr. Ivi, pp. 233 – 235. 149 Ivi, p. 236. 148 53 canzone e vivono una nostalgia per un tempo che non hanno vissuto… È il bisogno di nostalgia che li porta a cercare quelle canzoni>>150. Nella maggior parte dei casi la nostalgia degli 883 riguarda le emozioni indotte da avvenimenti comuni quanto personali, afferenti alla dimensione privata individuale. Il protagonista del brano “Nessun rimpianto” esterna la delusione per essere stato abbandonato dalla donna con cui aveva una relazione ritenuta importante. “Se tornerai” è il canto funebre del protagonista in memoria di un amico morto per overdose, al quale lo legano i ricordi puntualmente rievocati, la condivisione di una “solitudine che ci portiamo dentro”. Il testo di “Se tornerai” offre a Berselli lo spunto per concludere che <<questa non è noia, non è insofferenza, non è cretineria giovanile: sembra addirittura dolore>>. Berselli riconosce a tale inquietudine esistenziale, <<costruita certamente con gli strumenti e gli oggetti dell‟industria culturale>>, i caratteri dell‟autenticità. Adoperando i mezzi dell‟artigiano cari a Lucio Battisti, Max Pezzali ha saputo produrre musiche <<continuamente replicabili e sempre nuove, e sempre sul filo delle emozioni>>, rappresentando la generazione di un neo-italiano che, dopo aver inseguito il consumismo americano negli anni Cinquanta, si ritrova a condividere una condizione universale di subalternità, alla luce della quale <<il bozzettismo “post” di Pezzali… è l‟unica creatività praticabile all‟interno della nuova classe: di questo composto sociale esteriormente diverso, ma anche ben sovrapponibile, e forse geneticamente uguale, alla sua matrice di mezzo secolo fa>>.151 150 Andrea Scanzi intervista Max Pezzali per il programma televisivo “Reputescion”, in onda su La3 il 24 giugno 2013 . 151 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 236-239. 54 55 3. Il ruolo della musica nella democratizzazione italiana Nella prima metà degli anni Novanta l‟inchiesta giudiziaria denominata “Mani Pulite” determina la condanna per corruzione di molti deputati della Repubblica italiana, coinvolti nel sistema di tangenti nella gestione illecita di appalti pubblici insieme a membri di organizzazioni criminali, imprenditori ed esponenti istituzionali. Inoltre, al culmine del processo giudiziario istituito a Palermo nel 1985 contro Cosa Nostra, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino muoiono nei due attentati predisposti nel 1992 dall‟organizzazione mafiosa. Tale precarietà democratica conduce alla dissoluzione dei due partiti politici dominanti nella storia italiana repubblicana, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, con le elezioni del 1994, alle quali non farà seguito un miglioramento delle condizioni economiche, civili e morali del Paese.152 Nell‟intervallo fra la caduta della Prima Repubblica e l‟ascesa della Seconda Repubblica risultano consolidarsi i mali che affliggono tradizionalmente l‟Italia. Nel tentativo di spiegare la formazione e l‟inamovibilità di tale consolidamento Berselli, in collaborazione con Lorenzo Ornaghi e Vittorio Parsi, nel 1993 scrive un saggio intitolato La democrazia infelice dell‟Italia moderna. La tesi di fondo del saggio consiste nell‟attribuzione della responsabilità dei malesseri dell‟Italia a una <<cattiva modernizzazione>> derivata dalla <<cattiva democratizzazione>> avviata dal 1945.153 La cattiva modernizzazione ha inizio con il miracolo economico di cui si è ampiamente trattato nel primo capitolo di questo lavoro. La coesione sociale viene minata dalle contrapposizioni interne e dalla frattura delle élites portatrici dei <<modelli di condotta>> e dei <<sistemi di credenza>> della società, nonché dalla secolarizzazione di una morale pubblica ancora improntata al cattolicesimo. Il film “Il sorpasso” descrive il neo-italiano che, già sensibile all‟alienazione, esprime la propria modernità nell‟intendere il progresso come viatico per la trasgressione delle regole tradizionali, e al contempo persevera a ostentare le caratteristiche deteriori a cui lo relega la tradizione. Trattasi di un progresso <<volgare>> che preludeva a quanto si sarebbe realizzato nei decenni successivi: 152 Cfr. Guido Crainz, op. cit., pp. 598-604. Cfr. Edmondo Berselli, L. Ornaghi, V.E. Parsi, La democrazia infelice dell‟Italia moderna, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, pp. 335-358. 153 56 una società sempre più slegata da comportamenti ragionevolmente compatibili e armonizzabili, una società atomizzata, somma di libertinismi individuali spesso miserevoli, moltiplicati all‟infinito fino a sovrapporsi di fatto all‟intera collettività… Una convivenza sociale composta (o, meglio, scomposta) da molecole irrazionali, schegge modestamente impazzite e variabilmente deliranti, tutte proiettate verso un individuale soddisfacimento dei desideri e tutte sovranamente inconsapevoli dei desideri altrui e a essi indifferenti.154 Il genere della commedia all‟italiana, di cui fa parte “Il sorpasso”, sfrutta a fini commerciali la rappresentazione dei difetti antropologici di un popolo relegato alla subalternità, e li ripropone a quello stesso pubblico inducendolo a ilarità verso se stesso, esimendosi conseguentemente dalla stigmatizzazione del malcostume sociale. La modernizzazione italiana è in realtà un processo <<quasi interamente di superficie>> al di sotto della quale persistono atavismi che non vengono emendati. Con il boom economico anche la politica e le istituzioni si volgarizzano, abdicando progressivamente al ruolo di garanti dell‟ordine e della coesione sociale, producendosi in <<atti abietti>> che da un lato alimentano la percezione di una politica “bassa” che non dimostra più alcuno spirito di servizio a favore della collettività, e dall‟altro conducono i cittadini italiani sia alla sfiducia verso le inadempienze dello Stato, sia all‟indulgenza nei confronti del proprio lassismo. Esauritasi l‟adesione ai valori di riferimento incarnati dalle istituzioni, l‟immagine della politica italiana viene deturpata al punto da escludere la divergenza fra la realtà della politica “bassa” e l‟idea di una potenziale politica “alta” che governi la caoticità di un <<Far West istituzionalizzato>>. Il clientelismo, stando all‟analisi degli autori, corrompe le strutture democratiche al punto da indurre elementi politici vieppiù numerosi a crearsi un bacino elettorale privatizzato intessendo rapporti con le organizzazioni criminali. Il linguaggio della politica “bassa” viene propagato dai mass media, che svolgono la funzione di <<vettori subliminali della metaideologia del sistema>>, arginando il dissenso nei confronti del sistema partitico. Il consenso appare l‟unico modello proposto dalla televisione degli anni Ottanta, che affinando le proprie tecniche formali riesce a coadiuvare il meccanismo intimidatorio e clientelare ai danni del cittadino comune, ormai homo videns privato della facoltà astraente, incapace di rivendicare i propri diritti e di padroneggiare quelle <<cose che lo abilitano alla 154 Ivi, p. 337. 57 cittadinanza>>155, relegato alla <<subalternità di massa>> evocata da Berselli in Canzoni. La rinuncia delle élites politiche a perseguire un‟identità propria, che impedisce in tal modo la formazione di un‟identità sociale, risiede nel loro tentativo di inglobare in sé le istituzioni sociali, come la famiglia e la scuola, sostituendo al codice della politica il linguaggio sociale televisivo. La televisione di Stato RAI diviene la sintesi della cattiva democratizzazione e della cattiva modernizzazione, un <<prisma dei vizi italiani>> adeguatosi agli stilemi delle televisioni commerciali, principale veicolo di una <<scissione schizofrenica… tra una realtà dura e una sua rappresentazione edulcorata>>. Né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista Italiano portano a compimento un percorso formativo fondato sulla cultura e il pensiero liberale, imprimendo nei cittadini italiani una duplice convinzione, affine alla suddetta schizofrenia: <<quella che in ultima analisi il cambiamento sia un pericolo e un rischio più che un‟opportunità, e che, rischio per rischio, si debba allora puntare a un cambiamento radicale e violento piuttosto che a una graduale serie di riforme fatte di piccoli e significativi passi>>.156 Viene così a determinarsi una società deresponsabilizzata nell‟anarchismo, in cui la privatizzazione delle libertà trova riscontro nell‟incapacità della politica di fornire risposte attraverso le riforme, e dove gli interessi individuali prevalgono su quel <<patriottismo delle regole>> su cui gli autori ritengono debba fondarsi uno Stato moderno e democratico. La realtà italiana risulta descrivibile in termini dicotomici, a partire da un‟identità nazionale non definita in sé e per sé, ma imperniata sulla storica opposizione tra fascismo e anti-fascismo. La rappresentazione della realtà, invece, oscilla tra due opposte inclinazioni: sistema contro anti-sistema. Se da un lato la televisione omologa il pubblico a un modello di italiano consensuale verso il sistema e il mercato dei consumi, alimentando con programmi nazional-popolari la fiducia verso una proficua convinvenza fra i dialetti e i tipi italiani più disparati, dall‟altro si attivano i fautori della rivoluzione contro il sistema vigente. Gli autori rimproverano a questi ultimi di non aver provveduto alla <<sistemazione>> dell‟esperienza storica italiana. In particolare gli intellettuali sarebbero stati propensi ad <<autorappresentarsi la propria “utile” esistenza>>, disattendendo al compito di una rielaborazione ideologica che non fosse <<pseudo155 156 Cfr. Giovanni Sartori, Homo Videns, Roma, Editori Laterza, 2010, p. 124. Ivi, p. 347. 58 aristocratica… autenticamente antipopolare>>, esprimendo un anti-conformismo asservito al potere, ai cui malcostumi opponevano un approccio anti-istituzionale diseducativo per le masse: l‟atteggiamento di coloro che si chiamavano fuori sdegnosamente dal difficile engagement della vita democratica, per semplicemente arrogarsi il diritto di formulare soluzioni…impraticabili tecnicamente, che però avevano il pregio di offrire la possibilità di gettare disprezzo dall‟alto… sull‟azione riformatrice… sulla ricerca di obiettivi attorno a cui coagulare consenso. 157 Altrettanto restii ad affrontare la sistemazione di una fenomenologia storica della società italiana, anche gli scrittori e i narratori italiani si sono limitati al <<disimpegno calligrafico>>. In tal modo, come spiegano gli autori, <<se mancano i menestrelli, mancano anche i cantastorie, i cantori e i testimoni dell‟identità (frazionale o collettiva che sia)>>158. 3.1 Sistema e anti-sistema nell‟industria discografica italiana Al pari delle produzioni intellettuali e dell‟editoria, anche il mercato discografico post-boom si regola sul contrasto fra sistema e anti-sistema, fomentandone la radicalizzazione e contribuendo all‟incompiutezza dei processi di democratizzazione e modernizzazione dell‟Italia: da un lato si producono artisti specializzati nella sola creazione di canzoni d‟amore, per garantire consenso al sistema tra la massa maggioritaria; dall‟altro si assiste alla proliferazione del fenomeno dei cantautori, i cui contenuti densi di cultura e pensosità riescono a introiettare il sentimento di rivalsa, e talvolta l‟anelito alla rivoluzione, di una massa minoritaria tanto conscia della propria subalternità quanto desiderosa di progressismo e sovversione del sistema. Nei saggi La musica popolare italiana come genere di educazione politica159 e La cultura informale160 Edmondo Berselli sottolinea che all‟interno della contrapposizione 157 Ivi, p. 349. Ivi, p. 351. 159 Cfr. Edmondo Berselli, La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, pp. 451-464. 160 Cfr. Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Editore Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 129-154. 158 59 ideologica fra destra e sinistra, con l‟approssimarsi delle contestazioni del Sessantotto e del fallimento del centro-sinistra, l‟industria discografica <<assecondava con protervia la protesta politica>>161, e che per quasi trent‟anni <<un teorema implacabile impone alla musica popolare italiana l‟obbligo di essere “di sinistra”, almeno nelle ispirazioni e nelle intenzioni dichiarate se non nei risultati poetico-letterari oggettivi e compiuti>>162. Il cantautore Giorgio Gaber avrebbe canonizzato tale teorema nel suo brano “Qualcuno era comunista”163. I cantautori italiani sono per definizione, e talvolta per auto-certificazione, “di sinistra”. Questo dato suggerisce a Berselli la constatazione per cui i concerti d‟autore risultano essere luoghi in cui il pubblico può ritrovare quella <<cultura di sinistra>> un tempo vissuta, sentita ed espressa nelle piazze. Qui avvengono materialmente le proteste, si snodano i cortei che rivendicano il progresso inteso come ottenimento di pace, benessere e libertà universali. Tali rivendicazioni contro il sistema assumono per Berselli <<intonazioni…odiose>> nelle canzoni militanti di Fausto Amodei, che in “Per i morti di Reggio Emilia” immagina zombies in rivolta cantare Bandiera Rossa; e soprattutto in “Contessa” di Paolo Pietrangeli, il quale, invitando i proletari a impugnare la falce e il martello al fine di usarle come oggetti contundenti negli scontri in piazza, <<non sa ancora di formulare un inno per i cortei del 1968, e probabilmente nemmeno lo sfiora il dubbio che la violenza di cui sono intrisi i versi della sua canzone possa costituire un principio di cattiva educazione, politica, civile, estetica>>164. Nell‟analisi di Berselli non pare esistere un cantautore che, pur estraneo agli estremismi di Amodei e Pietrangeli, rifugga il <<barbonismo rivoluzionario>>. Francesco Guccini, pur essendo stato <<per tutta la vita un moderato, niente rivoluzioni, bensì gradualismo, riforme>>165, in una delle sue canzoni intergenerazionali e apparentemente “militanti” esalta la figura di un ferroviere anarchico per il quale il treno è un‟arma per vincere la lotta di classe166, mentre nel disco della maturità “Stagioni” concentra il nostalgismo verso gli anni giovanili nel brano eponimo 161 Edmondo Berselli, La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, p.454. 162 Ivi, p. 452. 163 “Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche. . . lo esigevano tutti”, Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista, Teatro – Canzone, stagione teatrale 1991-1992. 164 Edmondo Berselli, La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, p. 452. 165 Edmondo Berselli, Canzoni, in Quel gran pezzo dell‟Italia, Milano, Mondadori, 2012, p. 243. 166 Francesco Guccini, La locomotiva, in Radici, CD, Ed. EMI Italiana, 1972. 60 in cui celebra il rivoluzionario Ernesto Guevara167. Francesco De Gregori, tesserato al Partito dei Democratici di Sinistra, a dispetto di un‟opera complessiva contraddistinta dall‟ermetismo linguistico oggetto delle stroncature di Berselli168, in “Chi ruba nei supermercati” sceglie di mandare un messaggio preciso all‟ascoltatore, costretto a schierarsi nel contesto di una rigida dualità: “Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati / o di chi li ha costruiti / rubando?”169. Altrettanto di sinistra è Fabrizio De André, esponente della borghesia genovese e capostipite della sua generazione di cantautori, che nei suoi componimenti si fa cantore della pace universale nell‟antimilitarismo de “La guerra di Piero”, nonché della subalternità dei tipi marginalizzati, come per esempio le prostitute in “Bocca di rosa”, i non-abbienti ne “La città vecchia”, gli utopisti che tentano la rivoluzione in “Storia di un impiegato” trasformandosi negli sconfitti protagonisti del disco seguente, “Non al denaro, non all‟amore né al cielo”. Il fil rouge che secondo Berselli lega le diverse fasi della produzione di De André, nonché le evoluzioni della maggior parte dei cantautori verso lo sperimentalismo degli anni successivi, viene così descritto in La cultura informale: una linea ininterrotta che conduce dalla ballata “contro” o “anti” a un‟intenzione sperimentale talmente esplicita e protratta da ambire necessariamente ai vertitci della poeticità, anzi, dell‟artisticità, e quindi a qualcosa che si chiama fuori rispetto al mercato, e alle regole che presiedono alla fabbricazione dei prodotti che al mercato sono destinati. Il principale titolo di merito rivendicato dai cantautori di casa nostra è sempre consistito nella timbratura “non commerciale” stampata sulla propria produzione170 la quale era invece necessariamente inserita all‟interno del circuito anti-sistemico del mercato discografico, che ne permetteva la diffusione e la vendita ai consumatori, se non addirittura l‟esistenza stessa. Occorre notare come l‟ammiccamento ai temi della “sinistra” e un generico richiamo alla contestazione coinvolga in alcuni casi anche gli artisti beat come i Rokes o i 167 Francesco Guccini, Stagioni, in Stagioni, CD, Ed. EMI Italiana, 2000. 168 Cfr. Edmondo Berselli, Venerati Maestri, Quel gran pezzo dell‟Italia, Milano, Mondadori, 2012, pp. 742-743. 169 Francesco De Gregori, Chi ruba nei supermercati, in Canzoni d‟amore, CD, Ed. Columbia, 1992. 170 Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Bologna Editore Il Mulino, 1994, p. 140. 61 Nomadi, e soprattutto icone nazional-popolari come Adriano Celentano e Gianni Morandi, rispettivamente interpreti dell‟Apocalisse nel “Mondo in Mi settima” e della condanna rivolta alla guerra in Vietnam in “C‟era un ragazzo”, nel 1966. Tuttavia Berselli ritiene che il caso più emblematico della coercizione esercitata dal mercato, che obbliga gli artisti ad aderire ai canoni della “sinistra”, sia quello di Milva. Inizialmente urlatrice e <<icona dell‟Italia strillante del boom>>, Milva viene scritturata da Giorgio Strehler, regista teatrale e storico fondatore del Piccolo Teatro di Milano, che la introduce a una dimensione artistica e intellettuale d‟élite. Strehler è per Berselli il <<passe-partout intellettuale>> con cui Milva accede all‟<<apice dell‟Italia “rivoluzionaria”, che concepiva anche la musica… come l‟esternazione del proprio indefettibile e smisurato sentimento antisistema>>171. Milva si pone quindi come divulgatrice del conformismo “di sinistra” adoperando un apparato didascalico che include la tintura rossa dei capelli – che le fa guadagnare il l‟appellativo di Milva “la Rossa” -, la rivendicazione di letture freudiane che dichiarino la sua adesione alle istanze popolari di emancipazione sessuale, le dichiarazioni d‟amore per “la libertà” che Berselli traduce a suo modo, ironizzando sull‟enfasi della retorica di Milva: <<non importa che cosa canto e come lo canto, sappiate però che lo faccio per il bene dell‟umanità, per il socialismo, per un mondo migliore. E non è colpa mia se mi pagano>>172. Il contro-esempio scelto da Berselli per evidenziare l‟inequivocabile omologazione imposta dal mercato discografico sugli schemi dell‟impegno politico a sinistra risale alle accuse di disimpegno e “fascismo” indirizzate a Lucio Battisti e Mogol, riprese dall‟osservatore Gianfranco Baldazzi in questi termini: Negli anni ‟70 la critica discografica – schierata a fianco della canzone di protesta in maniera perfino maniacale – versò fiumi di inchiostro per dimostrare il contrario di quanto intimamente sentiva… siccome né Battisti né Mogol si schieravano politicamente verso la canzone d‟impegno… si farà di tutto per dimostrare l‟inconsistenza [di Battisti e Mogol].173 171 Cfr. Edmondo Berselli, La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, pp. 455-456. 172 Ivi, p. 136. 173 Gianfranco Baldazzi, La canzone italiana del Novecento, Roma, Newton Compton, 1989, p. 166. 62 3.2 Una “terza via” per la musica italiana Il “ricatto del contenuto” e la perdita dell‟oggetto Con l‟espressione <<ricatto del contenuto>>174, successivamente mutuata in <<infezione del contenuto>>175, Edmondo Berselli descrive il risultato di quel processo di omologazione conformistica “di sinistra” che, come si è detto, investe la musica popolare italiana e, in termini generali, ogni campo artistico, dalla letteratura alla cinematografia. Ciascun autore, al fine di conquistare il pubblico, non sente l‟obbligo di ricercare la miglior forma possibile, bensì di schierarsi politicamente a sinistra e a favore della rivoluzione, cosicché la qualità intrinseca al prodotto artistico finale assume un‟importanza secondaria: <<rispetto a una ragione “oggettivamente più alta”… l‟unica cosa che contava era la sostanza, non mai la forma. Per quanto grezza fosse questa sostanza, allorché era vivificata opportunamente dall‟alitare di un‟intenzione politica, essa veniva riscattata>>176 e nobilitata. Se il contenuto e la sostanza prevalgono sulla forma, si assiste a ciò che Berselli chiama “perdita dell‟oggetto”. Laddove l‟oggetto è appunto la musica in sé, intesa come nel senso battistiano di “fine” e non di “mezzo”, strumento comunicativo privilegiato dal musicista e autore. Avviene quindi che a distanza di decenni i fans di Mina continuino ad acquistare le sue opere indipendentemente dalla loro qualità, oppure che Jovanotti imponga all‟universo giovanile degli anni Novanta la generalizzazione secondo la quale “Tutto il mondo è una grande chiesa / da Che Guevara a Madre Teresa”177 utilizzando una musica qualitativamente <<debole>> e testi <<retorici>> che paiono a Berselli un <<frullato di buonismi e anticattivismi, essenzialmente impolitico>> che accoglie in sé <<tutti gli ideologismi sopravvissuti al naufragio delle ideologie>>178. Il ricatto del contenuto, la perdita dell‟oggetto, il prevalere dell contenuto sulla forma e dell‟intenzione sul risultato da parte di autori spesso eccessivamente concentrati sulla retorica dell‟<<essere contro>>, hanno determinato ciò che Berselli, senza voler 174 Cfr. Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Bologna, Editore Il Mulino, 1994, pp. 130-135. 175 Vedi nota 87. 176 Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Bologna, Editore Il Mulino, 1994, p. 132. 177 Jovanotti, Penso positivo, in Lorenzo 1994, CD, Ed. Soleluna/Mercury, 1994. 178 Cfr. Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Bologna, Editore Il Mulino, 1994, p. 147. 63 caricare il termine della gravità che lo stesso autore ritiene impropria al contesto, poiché <<trattasi sempre di canzonette>>179, definisce come il <<tradimento>> della musica popolare italiana. Coloro che l‟hanno tradita sono gli stessi protagonisti della musica popolare, ivi inclusi i cantautori - con l‟eccezione di Francesco Guccini180 - ai quali Berselli attribuisce quanto segue: anziché concentrarsi sul mestiere, la convenzione, le tradizioni, le idee e le esperienze condivise, anziché stratificare e codificare il rimario dei piccoli e meno piccoli sentimenti… hanno voluto trasmettere la profondità delle proprie riflessioni, e insegnare una strategia di pensiero. Invece di accettare la tradizione musicale italiana e mediterranea, non sono quasi mai sfuggiti alla tentazione dello sperimentalismo, della ricognizione di culture musicali esotiche. Con il risultato di rendere sempre più impervio l‟ascolto, e di spostarne la soglia di piacere verso vaghe, incontrollabili lontananze.181 La tesi di Berselli è che la musica popolare italiana potrebbe aver agito sulle masse in chiave anti-pedagogica, impartendo una possibile diseducazione sentimentale e politica ai cittadini-ascoltatori. A fronte dei mutamenti di costume susseguitisi a cominciare dal boom economico, la musica popolare italiana ha rivelato spesso un‟inadeguatezza di fondo. Gli autori hanno preferito <<le liturgie della soggettività>> rispetto all‟osservazione oggettiva dei fatti sociali e politici, nonché dell‟incidenza di questi fatti sui comportamenti individuali e collettivi. Il pop secondo Berselli avrebbe dovuto <<descrivere, invece di proclamare e declamare>>, permettendo alle generazioni della modernità post-boom di ricevere <<un imprinting... più autenticamente e intrinsecamente pluralista>> di quanto non abbiano saputo essere i diversi <<preconcetti multipli>> espressi sotto forma di tautologie, o prediche: <<la società è in fondo malvagia, la politica cattiva, l‟ordine sbagliato, l‟amore incosciente e disperato, l‟unico rifugio è la propria coscienza>>182. Infine, per quanto riconosca che le maggiori responsabilità vadano attribuite all‟inefficienza delle istituzioni sociali e politiche, Berselli conclude che l‟atteggiamento espresso dai parolieri e dagli autori di musica popolare ha plausibilmente influito <<sul perdurare nella società italiana… di propensioni così poco “moderne” come l‟indulgenza al lamento, la tendenza 179 Edmondo Berselli, Ma a Sanremo sono solo bustarelle?, in “Il Sole 24 Ore”, 15 giugno 2003. Vedi Cap.1, nota n. 87. 181 Cfr. Edmondo Berselli La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, pp. 458-460. 182 Ivi, p. 462. 180 64 all‟autocompatimento o al mugugno, a un estremismo velleitario nelle dichiarazioni e alla fine desolatamente conformista>>183. Si è visto come all‟interno della produzione musicale italiana del dopoguerra prevalga non la qualità dell‟oggetto finito, ma la cerebralità piegata all‟ideologia, e come in essa abbia prevalso non già il potenziale educativo, ma la componente antieducativa fondata sulla contro-cultura. Tuttavia secondo Berselli non sono mancati, nella cultura italiana contemporanea, modelli positivi a cui ispirarsi. Oltre ai già citati <<acceleratori della trasformazione>> Domenico Modugno, Adriano Celentano, Mina e Gino Paoli, per non dire di Lucio Battisti – la cui opera omnia è considerata da Berselli un capolavoro – , Max Pezzali e il cantastorie Francesco Guccini, Berselli elenca gli autori che si sono rivelati capaci di elaborare un <<lessico della quotidianità>> a uso e consumo dell‟italiano contemporaneo: Mogol, Claudio Baglioni, Edoardo Bennato, Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Zucchero e Antonello Venditti. Rientrano inoltre in questa categoria le prime composizioni di cantautori successivamente dediti al massimalismo, come Franco Battiato, Ivano Fossati e Paolo Conte, l‟esattezza stilistica dell‟<<artigiano>> Mario Lavezzi e l‟innovazione di Luca Carboni, il quale racconta il quotidiano dei ragazzi degli anni Novanta adoperando un lessico la cui semplicità ricalca le loro speranze e vicende, coniando slogan generazionali come “Ci vuole un fisico bestiale”: <<Non vuole insegnare niente, ma in compenso parla di qualcosa. Qualcosa di reale, concreto, oggettivo>>184. Su alcuni di questi autori esemplari Berselli scherza con regolarità, quasi a rinnovare l‟attenzione sulla leggerezza della materia trattata, e sulla necessità di raccontarla con ironia. Così Berselli chiama Mogol <<il Geniale… il Gran Mogol>> e <<il perfetto impolitico, il frigido ideologicamente, l‟avventurista con sottolineato turista>>185, a rimarcarne rispettivamente il superomismo e la vocazione qualunquista in politica. Claudio Baglioni è <<l‟estatico divo dei pianoforti bianchi>>186, mentre Vasco Rossi è il bersaglio comico privilegiato di Berselli, che affettuosamente lo descrive <<fumatore, sballato, budellone, pelato>>187, lo chiama <<lo sconvolto di Zocca>>188 o 183 Cfr. Ivi, p.463. Ivi, p. 460. 185 Cfr. Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I., pp. 170 – 171. 186 Ivi, p. 197. 187 Ibidem. 188 Ibidem. 184 65 <<montanaro patentato>>189. Persino Lucio Battisti, che in Canzoni viene associato alla figura austera dell‟artigiano meticoloso, trova una sua corrispondenza più lieve e ilare quando Berselli in Liù afferma che <<“il Maestro solitario” lavorava proprio come il cane>>190. Sulla base di tali argomentazioni, secondo cui la canzone popolare italiana presenta i caratteri diseducativi dell‟<<insincerità>> quando non dell‟<<artificiosità>> deliberata, Berselli sostiene che ad essa sia qualitativamente superiore la musica trash o <<musicaspazzatura>>, costruita su quelle che il filosofo Theodor W. Adorno aveva denominato, disprezzandole, <<ghiotte sonorità>>. Secondo Berselli, infatti, la creazione di musiche in grado di magnetizzare l‟attenzione dell‟uditore richiede il possesso di <<pragmatica competenza tecnica… una inesauribile e vorace curiosità, una propensione plagiaria senza confini: la concezione della musica come pura praticabilità, una sconfinata adesione all‟oggetto, la voglia in sostanza di metterci continuamente le mani>>191, ovvero quelle qualità che, come si è visto, Berselli ritiene Lucio Battisti abbia posseduto in massimo grado. La musica-spazzatura, prevede quindi che l‟oggetto non venga mai subordinato all‟intenzione soggettiva dell‟autore, poiché l‟oggetto, in sé, è precisamente riconducibile alla forma di quelle “canzonette” che per generazioni <<hanno modellato dei pezzi di esistenza, e hanno insegnato a maneggiare quelle che tu chiamale se vuoi emozioni>>192. Musica educativa Al fine di sottolineare ulteriormente l‟importanza di un‟aderenza all‟oggetto in sé, Berselli dedica un intero capitolo193 del saggio La cultura informale al karaoke, esibizione canora improvvisata da individui comuni che riproducono brani celebri seguendone le basi pre-registrate e cantando le parole del testo che scorrono in sovrimpressione su uno schermo televisivo. Il karaoke, secondo Berselli, è <<un esercizio altamente pedagogico>> ed educativo. Innanzitutto perché, nel tentativo di imitare la pronuncia americana o inglese tipica delle produzioni musicali estere, i partecipanti al karaoke compiono uno sforzo di apprendimento linguistico encomiabile, 189 Edmondo Berselli, Quel gran pezzo dell‟Emilia, in Q.G.P.D.I., p. 545. Edmondo Berselli, Liù, in Q.G.P.D.I., p. 1296. 191 Edmondo Berselli La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, p. 457. 192 Edmondo Berselli, Quell‟Italia della canzonetta, in “la Repubblica”, 28 febbraio 2004. 193 Cfr. Edmondo Berselli, La cultura informale, in AA.VV., La cultura degli italiani, a cura di Saverio Vertone, Bologna, Editore Il Mulino, 1994, pp. 143-145. 190 66 che li pone al di sopra delle semplificazioni fonetiche propinate alle masse da attori nazional-popolari come Alberto Sordi e Totò. Inoltre, il karaoke impartisce quella che Berselli ritiene la lezione fondamentale, ovvero insegna che la creazione musicale non è soggetta all‟arbitrarietà sregolata di colui che la manipola, ma richiede il rispetto pedissequo e incondizionato delle sue regole: le note infatti possiedono una lunghezza determinata, e a questa devono inderogabilmente confarsi le parole del testo, da scandire con regolarità e sistematicità. Il karaoke permette l‟acquisizione di un metodo apparentemente inaccessibile agli alunni delle classi primarie e secondarie della scuola italiana, e anzi consegna a molti giovani una competenza tecnica da mettere in pratica in programmi televisivi appositi come Roxy Bar di Red Ronnie. Qui nasce il fenomeno delle cover-band, complessi musicali di giovani appassionati che ricalcano alla perfezione le esibizioni delle band originali, edificando da sé la propria educazione estetica. Nel praticare la musica, infatti, i giovani del karaoke offrono al pubblico prestazioni elevate, agli antipodi rispetto al dilettantismo dei complessi degli anni Sessanta, e soprattutto riescono a <<riappropriarsi dell‟oggetto>>. La riappropriazione dell‟oggetto è lo sbocco auspicato da Berselli per la risoluzione di ciò che in Post-italiani definisce <<il dilemma dell‟Italia contemporanea>> che consisterebbe nel trovare un canone efficacemente e dignitosamente popolare, che sia il frutto di una buona mediazione fra cultura e mercato, cioè fra uno stile e i grandi numeri. Invece, proprio perché la categoria del popolare è stata consegnata… al livello più basso… fra ciò che è elitario e ciò che è di massa permane quella cesura ormai storicamente accertata che induce l‟intellighenzia a ignorare il popolo, e il popolo a grattarsi nei suoi divertimenti grossolani…[con il risultato che] l‟ignoranza effettiva, da parte delle élite colte, dei gusti del grande pubblico e dei fenomeni culturali di massa… porta poi tutti, i colti e gli incolti, a non individuare le differenze qualitative, e ad assimilare… il conformismo più prevedibile. 194 Ed ecco allora che nella conclusione del saggio La musica popolare come genere di educazione politica Edmondo Berselli esplicita quali caratteristiche dovrebbe assumere la musica popolare italiana per riappropriarsi dell‟oggetto, onde contribuire in modo sostanziale all‟educazione estetica e dunque morale, civile e politica delle masse. 194 Cfr. Edmondo Berselli, Post-italiani, in Q.G.P.D.I., pp. 449-450. 67 Poiché l‟evasione dei cittadini italiani verso l‟individualismo, il disimpegno e il disinteresse per le sorti della collettività non è sintomatica di un allontanamento dalla realtà, bensì di un appiattimento nell‟irrealtà della mono-dimensione adeguatasi all‟ideologia dominante, la canzone popolare italiana sarebbe dovuta assurgere, nell‟auspicio di Berselli, a <<piccola poesia civile… liberale… intrisa di fatti meglio che di idee>>195, di descrizioni e illustrazioni delle diverse componenti della pluralità del mondo piuttosto che di teorizzazioni retoriche soggettive in merito, al fine di <<praticare un modesto ma sincero culto della realtà>>. L‟idea di Berselli è che, esaurite le grandi ideologie sfruttando le quali l‟industria discografica aveva incanalato il bisogno di appartenenza delle masse, il ruolo dei nuovi autori popolari avrebbe dovuto riassumersi nel racconto qualitativamente dignitoso della vita quotidiana degli italiani: <<un eccellente esercizio – senza esagerazioni – di democrazia>>196 per una buona modernizzazione e democratizzazione del Paese. Dagli ultimi scritti di Berselli del 2010, l‟Italia risulta sempre più distante dalla tanto auspicata realizzazione della propria modernità e democrazia. Poco prima del decesso, avvenuto nel 2010, in L‟economia giusta Berselli descrive un‟Italia destinata al progressivo impoverimento, afflitta dalle problematiche tradizionali frattanto aggravatesi: <<la democrazia s‟incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio… di fronte allo scadimento della qualità democratica, e alla visibile crisi della legalità, la sinistra risponde con… la rabbia… l‟indignazione… [sentimenti che] difficilmente riescono a esplicarsi utilmente sul piano politico>>197. In uno scenario socio-politico dominato dal pensiero unico del capitalismo consumistico, la sinistra è ancora alla ricerca della propria identità <<nel deserto dei significati e dei progetti in cui ci troviamo>>, orfano dell‟apporto di maestri, intellettuali e ideologi capaci di offrire <<un modo e una misura di guardare la realtà>>.198 È lecito supporre che non sia casuale l‟ineluttabilità con cui Berselli rifiuta la produzione culturale degli anni Duemila, in uno dei suoi ultimi articoli apparsi sul quotidiano La Repubblica: <<Mi sembra che niente degli ultimi anni possa essere ricordato>>199. Da tali dichiarazioni risulta evidente che a oggi il processo di democratizzazione e modernizzazione dell‟Italia non si è ancora compiuto, né sia stata 195 Cfr. Edmondo Berselli La musica popolare italiana come genere di educazione politica, in Fabio Luca Cavazza, La riconquista dell‟Italia, Milano, Longanesi & Co., 1993, p. 463. 196 Ivi, p. 464. 197 Cfr. Edmondo Berselli, L‟economia giusta, in Q.G.P.D.I., p. 1347. 198 Ivi, p. 1348. 199 Edmondo Berselli, Cosa resterà degli Anni Zero, in “la Repubblica”, 19 dicembre 2009. 68 elaborata quella forma “terza” di musica popolare proposta da Edmondo Berselli, capace di educare l‟italiano alla rivendicazione del proprio ruolo, da suddito a cittadino, e di contribuire alla costruzione di una democrazia davvero moderna per l‟Italia. A fronte di quanto detto sinora occorre infine sottolineare come Berselli, in merito alla sua lettura sociologica dell‟Italia basata sulla musica popolare che ne ha accompagnato la modernizzazione, abbia voluto insinuare un dubbio interpretativo, un invito a non conferire un peso eccessivo alla tesi di cui lui stesso afferma di aver rivalutato la fondatezza. Se nella prefazione all‟edizione 1999 di Canzoni afferma che <<c‟è un legame o un gioco di riflessi tra l‟insieme di “pensieri e parole” che è rimasto nell‟aria, in questi quattro decenni, e la trasformazione sociale in cui siamo stati coinvolti>>200, nella “Postfazione” dell‟edizione 2007 parrebbe rivalutare i contenuti precedenti: <<questo libro ha più di sette anni, e in sette anni io sono piuttosto cambiato: dovessi scriverlo adesso avrei qualche ritegno a sociologizzare come facevo allora… insomma, quella mezza tesi di sette anni fa secondo cui attraverso le canzoni si capirebbe meglio la nostra società adesso non mi pare più così interessante>>201. Tuttavia si registrano giudizi diversi, nel corso degli anni, anche sul Festival di Sanremo: nel 2000 Berselli sembra concludere che <<mano a mano che si trasforma sempre più in una vetrina spettacolare… sembra che Sanremo non abbia più quella identificazione con la società italiana che, giureremmo, aveva una volta. La sensazione è che sia molto più uno show che una scheggia di italianità>>202, ma nel 2003, al fine di sdrammatizzare sulle irregolarità nello svolgimento del Festival di alcuni mesi prima, torna a ironizzare sull‟inscindibilità fra Sanremo e i caratteri degli italiani: <<Si sa che le canzoni sanremesi sono tutte uguali e quello che conta è l'arrangiamento. E qui niente da dire, gli arrangiamenti sembravano riusciti piuttosto bene. Siamo sempre lì: qual è la specialità in cui gli italiani svettano? L'arte di arrangiarsi ovvero di arrangiare: è un patrimonio culturale che non deve andare disperso>>203. Berselli non intende rinnegare o avallare teorie in precedenza sostenute o respinte, bensì evitare per quanto possibile che l‟assertività prevalga sull‟ironia e la leggerezza che si convengono al contesto ludico, legato ai sentimenti e alle emozioni, della musica popolare. Il fine ultimo di Edmondo Berselli, mai disatteso, è permettere che le canzoni 200 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I, p. 98. Cfr. Ivi, pp. 249 – 251. 202 Cfr. Edmondo Berselli, A Sanremo un‟autobiografia della nazione, in “Il Sole 24 Ore”, 27 febbraio 2000. 203 Edmondo Berselli, Ma a Sanremo sono solo bustarelle?, in “Il Sole 24 Ore”, 15 giugno 2003. 201 69 assolvano alla loro funzione primaria, ovvero porre in essere <<il gioco delle associazioni e dei ricordi>>204; nella convinzione, espressa ne Il più mancino dei tiri, che <<la memoria è l‟unica cosa che conta nella vita>>205. 204 205 Edmondo Berselli, Canzoni, in Q.G.P.D.I, p. 98. Edmondo Berselli, Il più mancino dei tiri, in Q.D.G.P.I., pp. 10. 70 CONCLUSIONE Ciò che in definitiva emerge dalle riflessioni di Edmondo Berselli sul rapporto fra la musica popolare e la società italiana, sulle quali è imperniato il presente lavoro, è innanzitutto che alcuni cantanti e alcune canzoni abbiano avuto un ruolo fondamentale positivo sulla modernizzazione italiana, rappresentando il cambiamento in atto nell‟Italia degli anni Cinquanta e in tal modo, formalizzandone il canone e la riconoscibilità a cui poter ascrivere i comportamenti individuali, determinandolo. Tale dote, per Berselli, va attribuita in particolare a precisi “acceleratori della trasformazione”: Domenico Modugno, che con “Nel blu, dipinto di blu” realizzava i sogni di progresso e sviluppo degli italiani; Gino Paoli, che in “Sapore di sale” sanciva la liceità dei nuovi comportamenti amorosi all‟insegna della trasgressione dei costumi tradizionali; Mina e Adriano Celentano, che nelle loro prime fasi artistiche esaudivano la diffusa esigenza di rottura e modernità del sistema valoriale manifestata dalle masse proletarie e della piccola e media borghesia. La modernizzazione dell‟Italia, tuttavia, è stata, a dire di Berselli, “cattiva” poiché indotta da una “cattiva democratizzazione” a cui hanno contribuito principalmente la politica e le istituzioni, e secondariamente l‟industria culturale e discografica nel proporre al pubblico un canone privo di equilibrio, elaborato su quell‟opposizione fra sistema e anti-sistema che rifletteva l‟antitesi tra fascismo e anti-fascismo su cui si era tentato di fondare un‟identità italiana mai pienamente realizzatasi. Da un lato si è verificata l‟evoluzione di Mina in “mito canzonettistico” e l‟involuzione di Adriano Celentano in cantore della reazione anti-moderna dopo la sua “svolta pedagogico – religiosa”, sublimati nel disco “Mina Celentano” che Berselli ritiene un‟operazione di marketing sintomatica dell‟invecchiamento dell‟Italia. Dall‟altro lato i cantautori, eccetto Francesco Guccini, anziché raccontare storie e vite quotidiane hanno alternativamente ceduto al “barbonismo rivoluzionario”, all‟imposizione del proprio Ego sulla descrizione e il racconto realtà, o alla ricerca di stili e contenuti aulici ed elitari. Secondo Berselli si è verificato un autentico “tradimento” della musica italiana al termine del decennio raccontato con affetto dall‟autore in Adulti con riserva., quando le contestazioni del Sessantotto avevano posto ai cantanti e autori italiani un aut-aut inderogabile: dichiararsi favorevoli o contrari alla rivoluzione, e plasmare le proprie creazioni sulla base di questa scelta. Tale spartiacque ha determinato la scomparsa dei 71 complessi beat, e, con essi, dell‟eclettismo che aveva contraddistinto l‟esperienza generazionale degli adolescenti come Berselli. Dall‟altro lato, ad avversare frontalmente la produzione di canzoni d‟amore allineate al sistema propalato dai mass-media, nascevano i cantautori, che già con Paolo Pietrangeli e Fausto Amodei avevano dato avvio a un processo diseducativo sia da un punto di vista estetico, sia civile. I cantautori hanno quindi per primi praticato il “ricatto del contenuto” producendo la “perdita dell‟oggetto”, cosicché al contenuto, purché anti-sistemico e “di sinistra”, viene attribuita un‟importanza primaria rispetto all‟oggetto in sé, laddove l‟oggetto in sé è la forma, la musica intesa come “pura praticabilità”, fine ultimo del compositore che non dovrebbe piegarla alle “liturgie della soggettività” ma a un “culto della realtà”. Il compito della maggior parte degli autori o interpreti di canzoni avrebbe dovuto consistere, secondo Berselli, nell‟elaborazione di un lessico della quotidianità né elitario né massificante, che non imponesse l‟interpretazione soggettiva dell‟autore sulla realtà ma ne offrisse una descrizione, una narrazione, un racconto all‟interno del quale l‟ascoltatore potesse ritrovare le sue emozioni, la sua vita, in quella ricerca di identità la cui realizzazione individuale e collettiva è fondamentale per una democratizzazione che non sia “cattiva”. Appare evidente che, al di fuori di prove occasionali fornite da certi autori di canzoni “pop”, il modello della forma – canzone proposto da Berselli abbia trovato, a detta dell‟autore, ben pochi interpreti che hanno raccontato, concentrandosi sull‟oggetto in sé alla stregua degli “acceleratori di trasformazione” nel periodo precedente al Sessantotto, portando quindi a compimento un “esercizio di democrazia”: Francesco Guccini, il “cantastorie”; Max Pezzali, il cantore della subalternità di massa dei giovani degli anni Novanta; e, soprattutto, Lucio Battisti, il quale sia collaborando con Mogol, sia con Panella, ha riaffermato per trent‟anni la prevalenza della forma sul contenuto, praticando con un approccio da “artigiano” la musica al solo fine di ricrearla in forme sempre nuove e stimolanti, senza voler trasmettere alcun messaggio, alcun contenuto, che non fosse il racconto delle emozioni e delle situazioni invididuali, conseguentemente fornendo agli italiani un‟educazione estetica e quindi etica, sentimentale e morale, in definitiva: civile. Laddove Berselli ritenga non vi sia, in tal senso, nulla di memorabile nella produzione musicale degli “Anni Zero”, non resta che andare alla ricerca dell‟eclettismo degli anni Cinquanta e Sessanta, al fine di ritrovarvi i presupposti ancora non disattesi di 72 una nuova “piccola poesia civile”, che consenta agli italiani di correggere quegli atavismi che ancora oggi li separano da una reale condizione democratica moderna. Quanto emerso non va comunque inteso alla stregua di una sintesi inconfutabile, bensì come il tentativo di Berselli di interpretare l‟evoluzione della società italiana in relazione alla sua produzione musicale popolare, con un‟operazione intellettuale rigorosa e al tempo stesso condotta con allegria, ironia e leggerezza, al fine di evitare quella seriosità così avversa all‟autore. 73 74 Bibliografia Bibliografia principale Edmondo Berselli, Post-italiani.Cronache di un paese provvisorio, Milano, Mondadori, 2003 Edmondo Berselli, Quel gran pezzo dell‟Emilia. 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