IL MONDO NASCOSTO DIETRO LE CIFRE
Quando i numeri
fanno dell'ironia
In una Storia universale
dei numeri (non ricordo di chi) un signore
si sveglia al mattino e se la
prende con la pendola.
«Questa notte — dice —
l'orologio è impazzito. Ha
battuto cinque volte l'una,
e invece erano le cinque».
Il signore che calunnia l'orologio è ingiusto,' perché
la pendola si è comportata
benissimo. Però non è scemo. Se l'orologio si accontentasse di indicare le ore
sul quadrante, nessuno potrebbe lamentarsi, essendo
le cifre (romane o arabe)
diverse l'una dall'altra. Il
guaio è che la pendola
vuole cantarle a Voce. E
così sciorina un segreto
che dovrebbe rimanere nascosto. Contando e cantando le ore, la pendola svela
l'ermafroditismo dei numeri, che, fuori del linguaggio, non sono né cardinali né ordinali, ma presenze mute, cose addormentate, sparse una per
una nell'universo.
Anzi, fuori del linguaggio non ci sono neppure
numeri, ma oggetti separati, non numerabili, anche
se numerosi e addirittura
innumerevoli.
Bisogna che qualcuno
conti, e dunque che qualcuno parli, perché una mela qua, l'altra là e l'altra
ancora più in là diventino
tre mele. Ci vuole l'intenzionalità mentale della matematica per dare non solo
un ordine, ma anche una
quantità al mondo inerte
della materia.
In clinica
Il signore della pendola
finirà in clinica. Ma ognuno di noi rischia di seguirlo
se sospende, anche solo
per un attimo, l'abitudine
alla distrazione che ci consente di vivere educatamente. Il signore e abituato a dire «cinque» una volta sola: come noi. Mentre
l'orologio può dire soltanto «uno» per cinque volte.
Dire «uno» cinque volte è
il muto linguaggio degli
oggetti, che non devono rispondere, all'appello di
nessuno; è la loro inarticolata, opaca dichiarazione
di presenza. Mormorando
«uno» per cinque volte, le
cose o i suoni non si sommano, non si unificano,
non colloquiano, sicché, la
successione s'inceppa, il
tempo si ferma e la conta
trasforma ogni progressione in ripetizione.
Per il signore della Storia universale la pendola ha
reciso il tendine dell'intenzionalità, sciogliendo il
mondo dal guinzaglio che
10 tiene insieme. Strappato
il guinzaglio, l'universo è
diventato un deposito di
cani sciolti e senza collare.
E' rimasto multiplo, ma
non è più numeroso,
perché ogni unità abbaia,
guaisce o ringhia per conto
suo, e tutto ricomincia
ogni volta da uno. Il signore ha scoperto che la pendola parla il linguaggio insignificante della materia.
E ha ragione di stupirsi.
Tuttavia, dopo essersi rimesso dalla meraviglia,
questo signore ha avuto il
modo di riflettere sulla sua
scoperta; e forse ha capito
meglio di noi che la celebre oggettività della matematica è una credenza degna di una pendola.
Sicché non è escluso che
sia proprio lui a scrivere,
nella clinica dove è stato
ricoverato, quelle strane
paginette di Numeri che da
qualche anno compaiono
sull'Europeo e che in questi giorni l'editore Leonardo ha raccolto in volume
con il sottotitolo Un mondo da decifrare (177 pagine, 19.000 lire). Federico
Bini, che ha firmato il libro, potrebbe essere solo
10 pseudonimo di tutte le
intelligenze silenziose e
stupefatte che praticano
l'arte della matematica come opinione: una verità
misconosciuta e ostica.
Bini sa che il mondo è
un alveare di numeri: piccoli, grandi, fratti, primi,
interi, ordinali, cardinali;
disparì e maschili, oppure
pari e femminili (secondo
Pitagora); numeri che indicano assenza di quantità e
dunque di numero (per
fortuna ce n'è uno solo: lo
zero) e numeri che si approssimano all'infinito sia
in alto che in basso, nel
senso che tendono verso
una grandezza illimitata o
che hanno un'illimitata capacità di scomporre ogni
grandezza (così che l'aggettivo «infinitesimo», imparentato con il sostantivo
«infinito», e "cioè «moltissimo»,
significa poi «pochissimo», quantità négligeablé). Ma ha anche capito,
Bini, che le api di questo
alveare ronzano solo nella
nostra testa. Forte di questa consapevolezza, si è
permesso di aggiungere a
quelle già conosciute una
nuova classe di numeri: i
numeri ironici.
Li ha suddivisi in capitoli con tanto di titolo, ad
esempio Appetito, Estasi,
Donne, Sensi, ecc., e ha
scaricato nella nostra testa
il miele di mille favi. Veniamo a sapere che il 30
per cento dei nuovi iscritti
al Miami College non sa
dove sia l'Oceano Pacifico;
che il 25 per cento dei
francesi crede che il sole
giri intorno alla terra; che
nel mondo ci sono 220 milioni di cani e gatti domestici; che in Italia avvengono in media 10 mila contatti sessuali al giorno; che
58 donne su 100 sono disposte ad andare a letto
con il primo venuto in
cambio di un miliardo; che
un bacio mette in movimento 29 muscoli del no-
stro corpo; che il numero
di telefono del Kgb di Moia e 224.4K.48: che la ruggine corrode ogni anno il
3.5 per cento del Pil (Prodotto interno lordo) dei
Paesi industrializzati; che il
valore del dito mignolo di
un agente di Borsa è quo-,
tate a Milano 190 milioni;
che negli Stati Uniti ci sono 3.650 astronomi e 15
mila astrologi; che i topi di
nazionalità italiana sono
300 milioni; che a Genova
la velocità media è di 5 chilometri orari per un pedone, di 6 per un autobus, di
8 per un'automobile e di
14 per uh ciclomotore; che
ogni giorno i cani di Parigi
depositano sui marciapiedi
20 tonnellate di escrementi; che 7 inglesi su 100 credono di dover andare a Est
per recarsi in Spagna, 2 su
100 credono di dover andare a Nord, e 13 su 100
non saprebbero quale direzione imboccare per raggiungere l'Alhambra...
Io mi devo fermare qui.
Ma il libro continua per
170 pagine facendoci intravedere Io scheletro quantitativo di tutto quel che c'è
e di tutto quel che potrebbe esserci nel mondo. E si
ha l'impressione che anche
dopo aver chiuso il libro i
numeri continuino da soli
a contare le infinite realtà,
probabilità, volando nella
nostra testa con le zampe e
le ali di mosca delle loro
cifre arabe. Magari per farci sapere quante creature
ci separino dall'ultimo pitecantropo seguendo in
vertiginosa ascesa la parete
più ripida del nostro albero genealogico (non più di
60 mila persone: il pubblico di uno stadio); o quanti
Everest salga ogni anno
^inquilino-di un'quarto1
piano senza ascensore.
Una spiaggia
Io almeno ho continuato
a contare e a numerare
computi stupefacenti e involontariamente ironici.
Ma mi sono fermato davanti al totale dei granelli
di sabbia non già del Sahara, ma di una spiaggia
qualsiasi. So bene che un
numero ci deve pur essere;
ma il signore della pendola
mi ha insegnato che i granelli non possono contarsi
da sé. Per riunirli tutti insieme in un computo deve
esserci qualcuno in grado
di tenere a mente la progressione e di sparare la cifra finale.
Se non c'è un Grande
Ragioniere che lo sappia
fare, la pendola dovrà ricominciare da uno per milioni, miliardi, trilioni, trilioni
di bilioni di volte. Insomma: per sempre. E dunque
non ci sarà un totale, ma
l'eterna balbuzie della nostra cultura che non riesce
mai a finire né le sue frasi,
né i suoi numeri.
Saverio Vertone
I MEDICI DEL MARE /2 - CRONACA DI UNA MISSIONE SULLA BARCA DI « GREENPEACE»
Caccia a balene fantasma
Binocoli e idrofoni per individuare i cetacei a sud della Corsica - Anche i delfini in pericolo: ne
vengono uccisi dalle reti circa settemila all'anno - 250 imbarcazioni impegnate negli avvistamenti
DAL NOSTRO INVIATO
CALA BITTA (Sassari)
— Lunedì 18 giugno, ore
23. L'appuntamento con i
cacciatori di balene è in
questo tranquillo porticdolo della Gallura, non
lontano da Palau. Il cielo è
stellato, non un filo di vento. Sul ponte del «Blu Program», ormeggiato al molo, ci attendono Daniele, lo
skipper ventinovenne, e
Loredana, mozzo e cuoca
di bordo. Facciamo le presentazioni. Siamo sei passeggeri in tutto, di cui tre
giornalisti, un fotografo, e
naturalmente lui, l'Achab
della spedizione, Gianni
Squitieri, direttore di
Greenpeace Italia, accompagnato dal suo assistente
scientifico Fabrizio Fabbri.
Cacciatori di balene,
dunque. Ma che razza di
cacciatori? A bordo non
hanno portato fiocine o
arpioni: soltanto binocoli,
macchine fotografiche,
carte nautiche, manuali di
biologia marina. E due valigette piene di cavi e di
misteriose apparecchiature. «Sono gli idrofoni: servono per captare e registrare i suoni emessi dai
cetacei nel raggio di tre
miglia — spiega Fabrizio
—. Ogni specie ha il suo
timbro di voce e il suo linguaggio. Il capodoglio fa
uno schiocco, il delfino un
fischio, e così via. Al centro di bioacustica dell'Università di Pavia conservano i nastri con tutte le
registrazioni: Meglio così.
Se non vedremo Moby
Dick, forse almeno riusciremo a sentirlo, a intervistarlo a distanza. Ma ora
tutti nelle cuccette, perché
domattina, promette Daniele, sarà una levataccia.
Il «Blu Program» che ci
ospita non è certo il «Rainbow Warrior» o la «Sirius»,
le grandi navi che i corsari di Greenpeace utilizzano peri loro arrembaggi in
.difesa dell'ambiente. E'.un.
normalissimo cabinato di
diciotto metri, come se ne
vedono fanti nei mari di
Ferragosto. Squitieri se l}è
fatto prestare da un amico
armatore. Il clima a bordo
è di grande eccitazione: i
mammiferi del mare, i nostri cugini leviatani grandi e piccoli, sono là da
qualche parte nel buio che
si rotolano dentro le onde,
schioccano e fischiano
aspettando noi. «La meta
di domani — annuncia
Gianni — è la baia di Pinarello, in Corsica, dove
l'anno scorso avevamo avvistato una comunità di
grampi, una specie di delfini».
MARTEDÌ' ORE 6. Il sole è ancora basso sull'orizzonte quando si salpano le
ancore. Comincia un'avventura che dovrebbe durare due giorni, ma che si
concluderà anzitempo,
non senza averci regalato
emozioni intense, qualche
brivido e una buona dose
di mal di mare. Mentre Daniele costeggia i fianchi
selvaggi di Caprera, dirigendo il timone verso le
bocche di Bonifacio, Squitieri illustra gli scopi della
missione. «I cetacei in Italia sono protetti dalla legge, ma soltanto sulla carta
— dice —. Per difenderli,
MARE DELLA CORSICA — Un cane alle prese con un delfino
bisogna prima di tutto imparare a conoscerli, studiarli, farne un censimento sia pure grossolano. Di
qui l'operazione cetacei,
lanciata nell'89, e che ripetiamo più in grande quest'anno, in collaborazione
con l'Istituto Tethys di Milano. Abbiamo mobilitato
250 barche da diporto in
tutta Italia, per farle partecipare, ogn\, domenica,
da giugno ad agosto, alla
campagna di avvistamento. Inoltre, 18 biologi e naturalisti selezionati e, ad,destrati da noi saranno
ospitati per una settimana
a bordo di imbarcazioni
private per svolgere ricerche sul campo. L'attenzione si concentra sul Mar Ligure, che sempre più si
configura come un vero e
proprio "santuario" dei
cetacei italiani».
I sogni
di Melville
Centocinquant'anni fa,
Hermann Melville era convinto che la balena fosse
«immortale nella specie».
Oggi nessuno è così ottimista. I cetacei, grandi e piccoli, corrono tutti il rischio dell'estinzione. Nel
Mediterraneo, dove orche,
balenottere comuni e capodogli — non si sa se
stanziali o immigrati dall'Atlantico — si contano
ormai sulla punta delle dita, sono in pericolo anche
i piccoli delfini. Stenelle,
tursiopi e grampi muoiono
impigliati nelle reti derivanti per la pesca del pesce spada, soffocati dai
sacchetti dei supermercati, intossicati dalla chimi-
ca. «Sugli effetti dell'inquinamento non ci sono dati
certi — precisa Squitieri
—. La vera strage si consuma nelle spadare, che ne
fanno fuori sei o settemila
ogni anno».
Intanto Fabrizio, il cranio rasato come il ramponiere Quiqueg di «Moby
Dick», sta di vedetta a
prua. Per. cinque . lunghe
ore, dal mare a specchio
(«a patàna» come dice Daniele in vernacolo toscano) affiorano soltanto gavitelli, boe e sacchetti di
plastica, che più volte ci
traggono in inganno, facendoci sussultare. Ogni
tanto il guizzo di un tonno,
ma di cetacei nemmeno
l'ombra. Che si siano passati parola, e se ne stiano
tutti acquattati sott'acqua
per fare dispetto ai cacciatori di Greenpeace?
ORE 10.30. Cominciavamo a scoraggiarci, quand'ecco a un centinaio di
metri una schiuma bianca, una pinna, un dorso
scuro. Fabrizio afferra il
binocolo: «E' un grampo —
conclude, dopo una rapida occhiata —. Lo si vede
dal muso arrotondato, senza rostro. E dal fatto che
nuota solitario, non in
gruppo». Questo grampo
dev'essere davvero un tipo
poco socievole, perché in
pochi secondi sguscia via
e lo perdiamo di vista.
«Proviamo coll'idrofono»
dice Fabrizio. Con l'aiuto
di Gianni, srotola quaranta metri di cavo in acqua,
prende la cuffia e si mette
in ascolto. «Eccolo —
esclama dopo qualche minuto —, l'ho intercettato.
Era proprio un grampo.
Volete sentirlo anche
(Foto Grazia Neri)
voi?». Ci porge la cuffia a
turno: in effetti, dallo sfondo confuso di rumori e fruscii, emerge distintamente
un crepitio modulato.
«Sembra una pernacchia»,
osserva qualcuno. E' il
grampo, quell'insolente,
che ci sfotte da qualche
miglio più in là. Ma non è
l'unico suono. Ogni tanto,
si sentono come dei fischi.
«Questi, invece, sono tursiopi o delfini comuni.
Non devono essere lontani», dice Fabrizio.
Gli autori'
dei fischi
ORE 12. Aveva ragione.
Siamo al «Traverso delle
Cervicali», a quattro miglia da Porto Vecchio,
quando gli autori dei fischi si materializzano. Sono in tre, e a grandi balzi
nuotano verso di noi. Ci
tagliano la strada, filano
zigzagando sotto il pelo
dell'acqua, si rivoltano a
pancia in su come grossi
gatti. Potremmo quasi accarezzarli. Tre metri di
lunghezza, grigi sopra e
sotto, muso a becco piuttosto corto: sono tursiopi.
Fabrizio, spenzolandosi
dal bompresso di prua,
scatta una raffica di foto,
e intanto ci invita alla calma. Inutile, gridiamo tutti
come ragazzini, e i tursiopi, spaventati, si allontanano. «Vi avevo avvertito»,
ci rimprovera il nostro
Quiqueg. Ma eccoli di nuovo: vogliono proprio giocare con noi. A turno, fanno il surf sull'onda di
prua, fischiando di gioia.
Daniele, lo skipper, anche
lui studente di biologia
marina a Pisa, rallenta la
marcia per assecondarli.
Per almeno un quarto d'ora, i cetacei ci scortano
lungo la rotta. «Probabilmente — annota Fabrizio
sulla sua scheda — si sono
staccati da un gruppo più
grosso, di nove o dieci
compagni».
ORE 14. Galvanizzati da
questo «incontro ravvicinato», buttiamo l'ancora
nella baia di Pinarello e ci
tuffiamo, nuotando come
delfini (o quasi). Poi Lori,
una vivace padovana che
quando non fa il mozzo lavora in banca, ci sfama
con un piatto di spaghetti.
ORE 16. Puntiamo la
prua verso il largo, a caccia della fantomatica
tribù dei grampi. Ma questa volta siamo noi a mancare all'appuntamento.
Fatte poche miglia, avvertiamo un acre puzzo di
bruciato. Daniele si precipita nella sala macchine e
risale imprecando. «S'è
rotto l'invertitore». Che
cos'è? «Il meccanismo che
permette di invertire la
marcia. In pratica, ragazzi, siamo in avaria. Ci tocca ritornare a vela». A vela? E quanto ci metteremo? «Chi lo sa. Dieci, dodici ore, forse di più. Dipende dal vento». L'euforia è
svanita di colpo, in coperta cala un silenzio greve.
Aiutato da Lori, Daniele
scioglie fiocco e randa e
vira verso la Sardegna.
ORE 17. Si chiama per
radio l'armatore. E' imbarazzato: «In bocca al lupo», si limita a dirci. Date
le circostanze, sarebbe più
appropriato «in culo alla
balena».
ORE 19. Mentre scende
il sole e il «Blu Program»
dondola pigramente come
il «Pequod» nella bonaccia, sul ponte si favoleggia
di megattere, di balene
franche, di squali, di calamari giganti. E naturalmente di delfini. «Lo sapete che viaggiano a 20 o 25
nodi? — dice Fabrizio —
Quaranta, cinquanta chilometri all'ora. Dieci volte
la nostra velocità in questo momento». «Perché allora non ci facciamo trainare?», propone qualche
spiritoso.
ORE 21. Si accende il televisorino di bordo e con
qualche fatica riusciamo
a vedere Italia-Cecoslovacchia. Ma i gol di Schillaci e di Baggio non bastano a tirarci su il morale.
La Sardegna è lontanissima, nella notte di pece.
MERCOLEDÌ' ORE 3.
Sballottati dalle onde al
largo della secca dei Monaci, mentre Daniele e Fabrizio lottano contro un
vento insidioso, pensiamo:
strano animale l'uomo,
che per salvare i cetacei (e
la propria coscienza inquinata) rischia di dover
essere salvato lui.
ORE 7. Finalmente Cala
Bitta! Al largo della baia,
due tursiopi ci danno il
benvenuto con capriole
luccicanti. L'odissea è finita, e scendiamo a terra
un po' delusi. Per questa
volta non abbiamo avvistato la Balena Bianca.
Forse ci ha avvistato lei:
speriamo che non lo racconti in giro.
Filippo Mazzei, il toscano che ha costruito un pezzo di America
«Quando nel corso degli
umani eventi un popolo si vede
nella necessità di rompere i legami che lo uniscono ad un altro...». Pochi di noi sanno che
in calce alla Dichiarazione
d'Indipendenza degli Stati
Uniti c'è anche la firma di un
italiano, un toscano di Poggio
a Caiano, che il destino aveva
fatto approdare nel Nordamerica proprio in quegli anni turbinosi. Il nome di Filippo Mazzei da noi fa parte soltanto del
bagaglio dei dotti. Negli States, invece, le sue vicende vengono studiate a scuola, insieme a quelle di George Washington, Thomas Jefferson e
Adams, un caso che forse più
di altri dimostra vero il detto
che nessuno è profeta in patria.
Filippo Mazzei ci ha lasciato
uno dei più personali e arruffati libri di memorie che mai sianoi stati scritti e questo in parte giustifica l'oblio che in Italia
è sceso su di lui. Quando si mise a vergare i propri ricordi,
Mazzei era in là con gli anni e
spesso finiva per confondere le
date. In più, il suo racconto è
fluviale perché egli non possedeva il dono della sintesi. Sta
di fatto che da noi ben pochi si
immergono nel suo smisurato
zibaldone e anche nell'antologia sui letterati, memorialisti e
viaggiatori del Settecento, curata da Ettore Bonora per la
Ricciardi, lo spazio a lui dedicato non è eccessivo. Bene ha
fatto, dunque, Guido Gerosa a
dedicargli una biografia («Il
fiorentino che fece l'America»,
Sugarco Edizioni, pagine 378,
lire 32 mila) che riassume il suo
cammino attraverso le vie del
mondo.
Insieme a Casanova e Da
Ponte, a Vincenzo Martinelli, a
Carlo Ludovico Bianconi, Mazzei è il prototipo del viaggiato-
re in parrucca che l'Illuminismo spinge oltre i confini della
patria. Ma a lui capiterà in sorte d'esser presente proprio dove succederanno le cose, prima
nelle Colonie Americane che si
ribellano al giogo inglese, e poi
a Parigi, durante la Rivoluzione. Con una buona scorta di vini toscani e con la benedizione
di Beniamino Franklin, che
aveva conosciuto a Londra e al
quale aveva fornito certe radici
chiamate «ravizzoni», Mazzei
parte per l'America nel 1773 e
subito conosce, in Virginia,
Adams e George Washington,
che sarà poi il primo presidente americano.
Da Jefferson Mazzei compra
un terreno e semina il granoturco «cinquantino», che maturava in cinquanta giorni, e il
grano «civitella» che si coltivava sui monti del Casentino e in
Valdarno. Tutti vogliono le sue
sementi: quel granoturco venne chiamato da allora «Mazzei's corn».
Nel dicembre del 1773, a Boston, i coloni che si ribellano
all'Inghilterra rovesciarono in
mare le casse di tè arrivate dall'Inghilterra. Durante l'alta
Filippo Mazzei in un'incisione
marea il tè ricopriva l'acqua
dalla parte sud della città fino
a Dorchester Nech, formando
una specie di enorme tisana.
Mazzei combutte insieme ai ribelli, scrive opuscoli, sulla scia
del fortunatissimo «Common
senso» di Thomas Paine, e vota
per affidare a Washington il comando supremo dell'esercito.
Gli indipendentisti americani avevano allora quello che
oggi viene definito un «problema di immagine» e Filippo
Mazzei viene spedito in Europa per spiegare le ragioni dei
coloni. Mazzei svolge egregiamente il suo compito. C'è uno
scambio fittissimo di lettere
tra lui, Jefferson e Washington.
Quest'ultimo gli continua a domandare ragguagli sull'agricoltura: «Sono del parere che, visto la spontanea crescita della
vite, e visto che in molte parti
della Virginia clima e suolo sono ben adatti a vigneti, il vino,
presto o tardi, diventerà un articolo di produzione. In quanto
all'ulivo sono molto più dubbioso».
Poiché nelle «Memorie» il filo
storico talvolta è arruffato,
Guido Gerosa si incarica di dipanarlo con intelligenza per il
lettore. L'instancabile Mazzei
ritorna in Europa — allora i
viaggi per mare duravano mesi,
occorreva attendere il momento favorevole nei porti e rassegnarsi a ballar sulle onde quando c'era la bonaccia — e diventa agente diplomatico a Parigi
del re di Polonia.
Se fosse stato un giornalista,
il toscano avrebbe fatto fortu-
na, perché dove egli si stabiliva
succedeva sempre qualcosa.
La Rivoluzione bolle in pentola. Mazzei ha appena avuto il
previlegio di assistere ogni
martedì alla «levée du Roi»,
che gli Stati Generali si radunano a Versailles. La rivoluzione è cominciata. Jefferson, anche lui a Parigi, scriverà: «Tutte le donne belle e giovani sono
per il Terzo Stato e questo in
Francia è una forza molto superiore ai duececentomila soldati del Re». Mazzei, che di
donne se ne intendeva parecchio, ha conosciuto Maria Antonietta, giudicandola vanesia
e scipita.
Ma il toscano non si limita ad
osservare. E' tra i fondatori del
«Club dell'89» con i capi della
corrente moderata, Bailly, Mirabeau, Condorcet. La Fayette.
E, credendo di ravvisare nell'estremismo il maggior pericolo
degli ideali democratici, si fa
promotore presso La Fayette
di un colpo di Stato per sopprimere Robespierre, Marat, Danton, Desmoulins e gli altri capi
giacobini, consiglio che il generale americano non raccoglie.
Filippo va ai raduni inalberan-
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Oggi a Palazzo Vecchio a
Firenze saranno consegnati i premi internazionali «Filippo Mazzei
Award» a personalità che
si sono distinte nello sviluppo dei rapporti fra Italia e Stati Uniti. Nell'occasione sarà anche presentato il volume «Filippo Mazzei: il fiorentino
che fece l'America» di
Guido Gerosa.
NOVITÀ
do il gran cappellone alla quacchera che aveva in America.
Assisterà alla presa della Bastglia e al ritorno del re da Varennes.
Alla fine, come capita sempre anche ai viaggiatori più accaniti, Filippo Mazzei ritorna
in Toscana. Passerà gli ultimi
anni scrivendo i proprio ricordi
— il materiale non gli mancava
— e cercando di salvare quanto
restava delle sue proprietà dall'avidità dei generali napoleonici. Perché soltanto l'avventura del Corso non lo vide, come
sempre, presente. Siamo sicuri, però, che se avesse avvicinato Napoleone sarebbe riuscito
a farselo amico. Ma allora era
cominciata una stagione nuova, quella degli spiriti irrequieti
del Settecento era ormai agli
sgoccioli.
La sua tendenza al nomadismo, il suo spirito salottiero.la
sua facilità a fare amicizie, il
gusto delle lettere, il talento
multiforme e anche la sua inclinazione per le belle donne, lo
fanno uno dei personaggi più
straordinari e curiosi di tutta
un'epoca.
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Caccia a balene fantasma