SPI CGIL VENEZIA Lega Laguna Nord Est INSERTO/5-2015 CENTO ANNI INTORNO A NOI: MORTE E DISTRUZIONE Questo opuscolo, che utilizziamo anche come inserto del nostro giornale di Maggio, vuole ricordare le vicende, che nella nostra zona ed intorno ad essa, si sono verificate cento anni fa. E insieme ricordare anche che una guerra non è mai giusta, non è mai civile, invece, è sempre fonte di orrori, distruzioni e morte. Tutte cose che rimangono per sempre nella vita della gente che le ha vissute. Sui campi di battaglia e nelle trincee la morte era una certezza ma altrettanto certo era il dramma dei civili, uomini, donne e bambini che nelle retrovie e negli stati belligeranti, giorno dopo giorno vivevano la fame, gli stenti, le malattie e talvolta, anche loro, la morte. Abbiamo voluto quindi dare ai nostri lettori un’occasione di conoscenza aggiuntiva e che pur nella tirannia dello spazio, susciti alcune riflessioni. Rimandiamo per gli approfondimenti ai tanti libri che sono stati, anche recentemente pubblicati, come ad esempio quello di Edoardo Pittalis –La Guerra di Giovanni- o quello di Aldo Cazzullo - La guerra dei nostri nonni. La GRANDE GUERRA… verso la battaglia finale sul Piave Venezia, la Laguna Veneta ed il corso del Basso Piave sono accomunati non solo dalla loro vicinanza geografica o culturale, ma anche per essere stati coinvolti direttamente nella Grande Guerra. Nonostante non si siano mai verificate grandi battaglie, qui gli austro-ungarici cercarono più volte di sfondare la linea difesa dalla Terza Armata italiana in modo da avvicinarsi a Venezia. Non sono rimasti molti resti di trinceramenti o postazioni, ma il ricordo è ancora vivo grazie ai sacrari e ai cimiteri di guerra. Tutto intorno, sono ancora visitabili diverse fortificazioni italiane sorte per la difesa di questa zona come quelli nella zona di Mestre ed in alcune isole della Laguna. Venezia, un città ricca di storia, arte e detentrice di uno degli arsenali marini più potenti del Mare Mediterraneo che andava difeso dalle invasioni nemiche. Fu per questo motivo che le autorità cittadine iniziarono sin dal XIII secolo a rafforzare la Laguna, le isole e l'entroterra con delle fortificazioni militari a cui si aggiunsero, nel corso del XIX secolo, quelle francesi, austriache e, dal 1866, italiane. I nuovi vertici militari crearono infatti una nuova linea difensiva, oggi ben riconoscibile nei dintorni di Mestre, e composta da tre forti: il Gazzera, il Tron ed il Carpenedo. I Quest'ultimo è senza dubbio il più interessante ed è oggi l'oggetto di un'opera di rivalutazione da parte di un'associazione di volontariato che ne gestisce anche le visite. Venne costruito nel 1883 ispirandosi alle strutture fortificate prussiane, con una forma poligonale a sei lati e circondato da un profondo fossato rafforzato con delle caponiere. L'accesso avviene tramite un ponte levatoio che porta all'entrata laterale delle caponiere e successivamente al corpo centrale, chiamato traversone. Qui erano stati previsti gli spazi per gli alloggi dei comandi, le sale tecniche, l'infermeria e la fureria. Alle sue spalle un secondo edificio, posto sul lato dove erano previsti gli attacchi, si trovavano gli alloggi dei soldati, le stalle, la cucina ed i magazzini delle munizioni. Tutte le stanze erano collegate da un corridoio lungo 350 metri interrotto a intervalli regolari da delle scale che conducevano alle postazioni di artiglieria. La cintura difensiva lagunare di Venezia Nel novembre 1917, all’inizio della battaglia “d’arresto”, le nostre truppe furono costrette ad arretrare sulla linea Piave Vecchia - Fiume Sile - Canale Cavetta - Piave Nuovo - mare. Questa linea del fronte interessava direttamente la Laguna di Venezia, con le sue basi e i suoi cantieri, nonché la città stessa di Venezia. Il nemico era ormai arrivato a circa 23 Km in linea d’aria da Venezia e la situazione era gravissima. Anche se la città della Serenissima era ancora fuori portata delle artiglierie pesanti degli austro-ungarici, era però minacciata dalle incursioni aeree nemiche, ben 42 furono quelle nel corso della guerra, di cui ben 34 con lancio indiscriminato di bombe che causarono 52 morti e 83 feriti tra i civili. I bombardamenti causarono, inoltre, seri danni al patrimonio artistico, tra cui la Chiesa degli Scalzi, la Chiesa di S. Maria Formosa, la Chiesa di San Pietro di Castello, la Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, la Chiesa S. Simeone Piccolo e la Chiesa dei Frari, colpita da una bomba fortunatamente inesplosa, e a molte altre costruzioni di grande valore artistico. Data la vicinanza del nemico, che si era imbarbarito e divenuto sempre più implacabile, Venezia era costretta a difendersi, suo malgrado. Il Comando Piazza di Venezia aveva allestito, oltre al naviglio militare, un reggimento di marina con i marinai in grigioverde da schierare in linea alle foci del Piave e successivamente dislocato anche a difesa del Taglio del Sile. Inoltre, nella laguna che aveva difeso Venezia per millenni, furono impiegati pontoni con cannoni navali opportuna- II mente camuffati, tra i canneti dei canali, che potevano essere spostati sia per attacchi che per difesa. Nel dicembre del 1917 il numero di pezzi di artiglieria totali su pontoni erano ben 55 che diventarono 143 nel 1918, costituendo la cintura difensiva lagunare di Venezia. La chiesa degli Scalzi bombardata nel 1915 CIELI DELLA PRIMA GUERRA Silvio Trentin Volontario della Prima Guerra Mondiale, Silvio Trentin si arruola come sottotenente addetto alla Croce Rossa italiana. Grande appassionato di volo fin dai tempi dell'università, partecipa come mitragliere e ricognitore a bordo di un aereo biposto Farman. È costretto a bombardare la sua stessa casa di San Donà, occupata dallo Stato maggiore austriaco. Il primogenito Giorgio nasce nel luglio'17 nello scantinato sotto le macerie della casa. Assegnato al "Gruppo Speciale Informazioni I" della Terza Armata, reparto aereo adibito alla ricognizione fotografica e al collegamento con gli informatori che operano nel territorio occupato, nei primi mesi del 1918 fotografa l'intera linea del fronte dal Trentino all'Adriatico, a bordo di un dirigibile. Partecipa alla battaglia del Piave dal 15 al 25 giugno 1918. Silvio Trentin con il comandante Domenico Giuriati nell'aeroporto di Marcon. Nelle ultime settimane di guerra Silvio Trentin guida un'incursione di bombardieri al "Forte" di San Donà per abbattere l'artiglieria austriaca. Riceve un encomio particolare e diverse decorazioni per il coraggio dimostrato in più occasioni, in particolare nell'agosto 1918 allorché riesce a portare a termine la missione affidatagli nonostante il suo Caproni 450 HP sia stato colpito in più parti dalla contraerea nemica. III Campo di Volo di Marcon Nell’area dell’odierna via Fornace, a partire dall’estate 1917 e fino al 4 novembre 1918 funzionò uno dei più importanti campi di volo della Grande guerra. Foto aeree dell'ex aeroporto di Marcon. Hangar (in giallo): 23 x 40 m. Edifici in muratura (in azzurro): - capannone (in basso): 17 x 30,50 m - edificio minore (in alto): 23 x 13,5 m - edificio maggiore (in alto): 45 x 15 m. Edificio sulla pista: 9,30 x 9,30 m - Pista di decollo (in rosso):- larghezza = 119 m (min), 138 m (max)- lunghezza = 512 m Sotto, foto aerea del campo di volo di Marcon 1918 - Foto museo Panini (Modena), e vista dell'hangar n.5 a due capannoni. IV Hangar Dirigibili di Campalto Arriva il dirigibile. La guerra e il progresso scientifico si sposano in quest’epoca positivista. Gli esperimenti per il volo vengono incoraggiati e compiono rapidi passi in avanti. Il futuro sembra essere il dominio del cielo e la via della conquista sembrano allora i dirigibili. Nel 1910, con un volo inaugurale, vengono costruiti due hangar per dirigibili a Campalto - Tessera. Campo per dirigibili di Tessera Dirigibili militari “Parseval” e “P4” mentre sorvolano la città di Venezia L’aeroporto di Malcontenta, “trincea volante” del Piave Il titolo di questo saggio di Ennio Zara (autore di vari saggi legati al territorio di Malcontenta sulla Grande Guerra e 2^ Guerra mondiale), testimonia come anche a Malcontenta, nell’ultimo anno della grande guerra, fosse operativo un campo di volo. Dalle ricerche effettuate dall’autore è emersa l’importanza di questa base aerea che nel 1918 ospitò alcune squadriglie di ricognitori che appoggiarono la III e la X Armata, ossia quelle che, prima per la resistenza sul Piave e poi per lo slancio oltre il fiume, si rivelarono decisive per la vittoria. MOGLIANO VENETO Il Comando d’Armata a Villa Stucky Fu il 1917 l'anno che legò il Duca d'Aosta a Mogliano. Nella guerra contro l'Austria gli fu affidato il comando della III Armata nel settore più aspro del fronte, il Carso. Nei primi due anni di guerra guidò i suoi soldati nelle undici battaglie dell'Isonzo e conquistò Gorizia. Dopo Caporetto, seppe svincolare la sua Armata e condurla ordinatamente sul Piave, alla cui difesa, dal Montello al mare, provvidero i suoi soldati. Durante questa fase del conflitto tutti i comandi della III Armata erano dislocati a Mogliano e nelle immediate vicinanze mentre Villa Stucky era la sede del comando d’Armata. Il Duca d’Aosta oppose, sempre sul Piave, all'esercito austriaco una resistenza insuperabile; e finalmente nell'ottobre-novembre 1918 avanzò trionfalmente nel Friuli. Promosso generale d'esercito per merito di guerra (aprile 1919), mantenne il comando della sua Armata finchè non fu disciolta il 22 luglio 1919. V Villa Bianchi sede dell’Ospedale su richiesta del Prefetto Villa Bianchi da principio ospitò le classi scolastiche del Collegio Salesiano Astori, in seguito divenne ospedale su richiesta del Prefetto del Comune di Mogliano. REGIO MINISTERO DELL'INTERNO N. 2369 ROMA 8.08.1916 La 3a Armata a Mogliano Veneto, 1917 - 1918 VI S. DONÀ DI PIAVE E IL SUO TERRITORIO NELLA GRANDE GUERRA Gli opposti eserciti si affrontavano sulle rive del Piave, della Piave vecchia e del Canale Cavetta. Entrambe le armate erano stremate ed entrambe dedicarono l’inverno del ’17 e la primavera del 1918 a prepararsi allo scontro successivo, determinante. E l’ultimo disperato tentativo dell’imperiale e regio esercito ebbe inizio nella giornata del 15 giugno 1918. Nella zona di San Dona' di Piave, contrastata dalla nostra 3° armata, operò la 12° Divisione, inquadrata nell'Isonzo Armee. La fortuna dapprima arrise agli austro-ungarici, i quali riuscirono a passare il Piave in più punti, nonostante la resistenza opposta. Le forze italiane resistettero strenuamente ed una piena del Piave impedì di gettare dei ponti per garantire un regolare afflusso di rinforzi agli attaccanti. I successivi contrattacchi portarono alla riconquista del territorio già in mano austriaca. Alla fine della battaglia, poi detta del Solstizio, il fronte correva lungo il Piave Nuovo e tutto l’estuario era sotto controllo della terza Armata. Nell’autunno di quell’anno venne lanciata l’offensiva italiana contro l’ormai fatiscente esercito austroungarico ed il 31 ottobre San Dona’ era in mani italiane. Sin qui i principali fatti d’arme, ma cosa fu del territorio in quell’anno di battaglie? La risposta si può avere dalla decisione che ad un certo momento venne presa dalle autorità centrali di abbandonare del tutto la zona, considerando impossibile porre rimedio alle devastazioni compiute. Solo la volontà di pochi consentì che venissero poste le basi per far rinascere la cittadina. Tutti gli abitati rasi al suolo durante i combattimenti, le campagne bonificate nuovamente ricoperte dalle acque, gli abitanti dispersi e stremati, il disinteresse di chi, avendone l'autorità, doveva contribuire alla rinascita; l’infuriare di nuove malattie e la recrudescenza di pellagra e malaria; l’alluvione del 1919, causata dai trinceramenti che avevano indebolito gli argini, tutto ciò può dare un’idea di cosa sia stata per San dona’ di Piave la prima guerra mondiale, la Grande Guerra. Dall’entrata in guerra dell’Italia e sino allo sfondamento di Caporetto, San Dona’ fu una delle tante cittadine di retrovia; salvo due incursioni aeree che durante il 1916 colpirono sia il capoluogo che le località circostanti, pur senza provocare vittime, solo le restrizioni agli approvvigionamenti e le frequenti cartoline di leva, assieme purtroppo alle notizie della morte al fronte dei sandonatesi richiamati, ricordavano il conflitto in corso. Lo sfondamento del fronte, avvenuto il 25 ottobre 1917 e la conseguente disastrosa ritirata dell’esercito italiano, accompagnato dall’esodo delle popolazioni che si venivano improvvisamente a trovare nel mezzo di aspri combattimenti, destò a San Donà di Piave preoccupazione, allarme e stupore. La confusione che regnava fra le autorità’ centrali, sia civili che militari, impedì che fosse presa una qualche decisione nei confronti delle popolazioni civili sino al 4 novembre, data in cui si ordinò l’evacuazione del Basso Piave. Da allora e sino all’8 chi poté si recò oltre Piave, disperdendosi poi per VII l’Italia. La sede comunale fu trasferita a Firenze. Nella serata del 9 novembre 1917 il capoluogo era raggiunto dalle avanguardie austroungariche. Per quella parte della popolazione civile che era rimasta nella sinistra del Piave iniziò allora un calvario composto di peregrinazioni, patimenti, violenze. In questo periodo si erge luminosa la figura dell’arciprete Mons. Luigi Saretta rimasto a portare conforto, ad alleviare le pene, ad aiutare spiritualmente e materialmente i suoi parrocchiani oppressi. La distruzione degli abitati, iniziata dai reparti del genio militare per proteggere la ritirata delle nostre truppe, proseguì nei giorni successivi alla stabilizzazione del fronte sul Piave ad opera delle artiglierie. San Dona’ di Piave fu completamente distrutta. LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall'artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno. Il Servizio Aeronautico italiano mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l'avanzata. In questo teatro di battaglia morì il maggiore Francesco Baracca, maggiore asso dell'aviazione italiana. Le cause della morte non sono mai state univocamente determinate e la versione ufficiale per lungo tempo è stata quella di un colpo di fucile ricevuto da terra da un tiratore austriaco appostato su un campanile. Secondo uno storico anglosassone, invece, da ricerche nei registri austro-ungarici risulterebbe che Baracca venne ucciso dal mitragliere di un biposto austriaco che l'asso italiano stava attaccando dall'alto. Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918 vennero bombardate incessantemente dall'alto e ciò comportò un rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, gli austriaci decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti. Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel tentativo di riattraversare il fiume in piena. Nelle ore successive alla ritirata austriaca, re Vittorio Emanuele III visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ingenti i danni alle an- Casa sinistrata con una famosa scritta patriottica a Sant’Andrea di Barbarana durante la Battaglia del Solstizio VIII tiche ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona. Stessa cosa per Spresiano: completamente distrutta. Gli austroungarici nella loro avanzata arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l'artiglieria italiana che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana riuscirono a bloccarli. Le truppe austro-ungariche attraversarono il Piave anche in altre zone. Conquistarono pure le Grave di Papadopoli, ma si dovettero ritirare. A Ponte di Piave percorsero la direttrice ferroviaria PortogruaroTreviso, dopo alcune settimane di lotta, nella zona di Fagarè, vennero respinte dagli arditi italiani. Passarono il Piave anche a Candelù, da Salgareda raggiunsero Zenson e Fossalta, ma la loro offensiva si spense in pochi giorni. Il 19 giugno 1918 nella frazione di San Pietro Novello presso Monastier di Treviso il VII Lancieri di Milano comandato dal generale conte Gino Augusti, contenne e respinse l'avanzata delle truppe austro-ungariche infiltrate oltre le linee del Piave infliggendo loro una sconfitta decisiva nell'economia della Battaglia del Solstizio. L'operazione militare passerà alla storia come la "Carica di San Pietro Novello": il reggimento di Cavalleria pur in inferiorità di uomini e mezzi riuscì nell'impresa, combattendo anche appiedato in un corpo a corpo alla baionetta. La mattina dell'attacco, sino dalle ore 4.00, dal suo posto di osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l'effetto dei proiettili oltre Piave. Le prime granate lacrimogene ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a gas "inglesi" usate dagli italiani. Durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono 200 mila granate lacrimogene ed asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci sparavano sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia, nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza, colpendo Treviso. Dall'altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d'acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave. Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina (Jesolo). Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso. Nella battaglia vennero impiegati intensivamente gli Arditi, una specialità della fanteria del Regio Esercito. Si trattava di un corpo speciale particolarmente addestrato alle tecniche d'assalto e del combattimento corpo a corpo. Operativamente organizzato in piccole unità i cui membri erano dotati di petardi "Thévenot", granate e pugnali, occupavano le trincee e le tenevano fino all'arrivo dei rincalzi di fanteria. Il tasso di perdite era estremamente elevato: in questa battaglia centinaia di Arditi vennero fatti sbarcare da una sponda all'altra del fiume Piave e la maggior parte di loro non giunse all'altra riva, ma i superstiti contribuirono alla ritirata austroungarica, anche per l'effetto psicologico che avevano questi soldati sui soldati semplici che ne temevano l'aggressività e tecnica di combattimento. La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva Ponte di Piave-Treviso fu l'ultimo lembo sulla destra del Piave a cadere in mano italiana. La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini. La battaglia fu tuttavia violentissima e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini. IX Fanti italiani in trincea Il Genrale Diaz Il generale croato Borojevic, comandante delle truppe austriache del settore e fautore dell'offensiva, capì che ormai l'Italia aveva superato la disfatta di Caporetto. Infatti, non solo si esauriva la spinta militare dell'Austria, ma apparivano anche i primi segnali di scontento tra la popolazione civile austriaca, per la scarsità di cibo: l'Intesa aveva isolato per mare gli Imperi Centrali e la penuria di risorse si faceva sentire. In tale situazione la battaglia del Solstizio era l'ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l'Impero, significò in pratica l'inizio della fine. Dalla battaglia del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della vittoria finale dell'Italia a Vittorio Veneto. LA PREPARAZIONE ITALIANA ALLA BATTAGLIA FINALE Nell'estate del 1918 la Grande Guerra prese una piega molto favorevole per gli alleati dell'Intesa. Sul fronte occidentale i francesi attaccarono i tedeschi aggiudicandosi la battaglia di Amiens (agosto), su quello sud-orientale la Bulgaria crollò (settembre) mentre la Turchia era sul punto di cedere definitivamente. I paesi dell'Intesa non volevano e non potevano lasciarsi sfuggire un vantaggio così netto: il generale Foch, comandante in capo delle truppe francesi, chiese perciò ad Armando Diaz di sostenere questa grande azione globale con un attacco sul fronte veneto. Il generale italiano rifiutò. Egli infatti preferì non prendere alcuna iniziativa temendo di portare l'esercito alla disfatta come il suo predecessore. Secondo i suoi programmi, i soldati italiani non sarebbero stati pronti prima della primavera del 1919. Anche il Governo italiano era favorevole ad un attacco e, alla fine di settembre, iniziò a perdere la pazienza con Diaz. Secondo alcune indiscrezioni infatti sembrava ormai certo che nel giro di qualche giorno Carlo I si sarebbe arreso mettendo l'Italia in una posizione di debolezza nei futuri trattati di pace: per poter rivendicare quanto stabilito sul Patto di Londra, era necessario sconfiggere sul campo l'Impero austro-ungarico. In effetti le voci che la fine della guerra fosse vicina vennero confermate da un incontro diplomatico tra il presidente americano Woodrow Wilson ed i rappresentanti degli Imperi centrali i quali richiedevano l'applicazione, nei futuri trattati, dei Quattordici punti. Fu un segno inequivocabile che la loro resa era vicina. Diaz perciò fu obbligato ad accelerare i propri piani e il 9 ottobre presentò un progetto per un'offensiva sul fronte italiano che avrebbe coinvolto la zona del Monte Grappa e del Medio Piave. L'obiettivo era sfondare in questa zona e, in particolare, sulla strada che conduce a Vittorio Veneto e prosegue verso il fiume Livenza. In tutta fretta venne formata l'Ottava Armata sotto il comando dal generale Enrico Caviglia. A destra venne posta la Decima Armata guidata dall'inglese Lord Cavan e composta da divisioni italiane e inglesi mentre a sinistra la Dodicesima Armata, con a capo il generale francese Jean César Graziani, comprendeva divisioni francesi ed italiane. Sul Monte Grappa restò la Quarta Armata con il generale Giardino mentre le altre armate (sull'Altopiano di Asiago e sul Basso Piave) per il momento avrebbero mantenuto le proprie posizioni. Nei giorni seguenti il livello delle acque del Piave aumentò per le forti piogge e ciò compromise il piano formulato da Diaz: senza ponti stabili era impossibile attraversare il fiume. Ma la data prevista per l'inizio dell'offensiva, il 24 ottobre, non poteva essere rinviata. Diaz cambiò allora la sua tattica: il primo attacco avrebbe dovuto essere lanciato sul Monte Grappa in modo da risalire la Valle del Brenta e circondare da est l'Altopiano di Asiago. Una volta raggiunto lo scopo, l'azione sul Piave sarebbe potuta partire. X LA BATTAGLIA FINALE SUL PIAVE Le forti piogge che colpirono il Veneto nell'ottobre del 1918 costrinsero Armando Diaz a cambiare il piano iniziale dell'offensiva sul Piave. A questo primo contrattempo si aggiunse in seguito un forte temporale, scatenatosi proprio il 24 ottobre, che rinviò ulteriormente l'inizio delle operazioni e mise in difficoltà sia il generale Giardino sul Monte Grappa sia i Gordon Highlanders, il contingente britannico che nella notte del 23 era riuscito ad occupare le Grave di Papadopoli grazie all'aiuto dei gondolieri di Venezia. Il piano iniziale prevedeva la costruzione di otto ponti: uno a Vidor, tre nella zona compresa tra Fontana del Buoro e Moriago (a nord del Montello), uno fra Santa Croce e Falzé ,due nei pressi di Nervesa e l'ultimo più a sud, nella zona delle Grave. Se la situazione si fosse dimostrata estremamente favorevole, il Comando Supremo avrebbe ordinato l'installazione di altri 12 passaggi. Ma in quelle ore la corrente delle acque era talmente forte che fu impossibile costruire i ponti di barche fino alla riva sinistra. Dopo due giorni di immobilità, il 26 ottobre i soldati della Decima Armata riuscirono finalmente a compiere il passaggio presso le Grave e ad attaccare la prima linea austroungarica. Più a nord l'Ottava e la Dodicesima Armata costruirono gli altri sette ponti di barche ma la corrente e le bombe asburgiche li distrussero nella notte, isolando così i soldati che erano riusciti ad arrivare sulle teste di ponte nel pomeriggio. Con grande tenacia, il giorno seguente venne ristabilito il passaggio di Fontana del Buoro e fu così possibile consolidare una seconda testa di ponte tra Mosnigo e Sernaglia. Il generale Caviglia, a capo dell'Ottava Armata, si rese conto che gli altri ponti non sarebbero stati ripristinati velocemente e quindi ordinò di utilizzare quello delle Grave. In questo modo il 18° Corpo, una volta giunto sulla riva sinistra, poté puntare direttamente verso Santa Lucia e Conegliano, liberando così la strada ai soldati rimasti bloccati nei pressi di Nervesa e di Priula. Il piano di Diaz stava riuscendo: l'obiettivo strategico di spezzare in due il fronte austroungarico all'altezza della strada che portava a Vittorio Veneto era stato raggiunto. Borojevic intuì che la situazione stava precipitando ed ordinò ai suoi uomini di ritirarsi verso il fiume Monticano, tra Vittorio Veneto e Motta di Livenza. Il 29 ottobre vennero allestiti altri due ponti che permisero agli italiani di trasferire sulla riva sinistra la maggior parte delle truppe e dell'artiglieria pesante. Nel frattempo le colonne più avanzate lasciarono alle spalle la riva sinistra del Piave e marciarono verso nord-est. La Brigata Piacenza raggiunse Susegana e in serata Conegliano. Senza mai fermarsi, dopo 17 ore di marcia forzata, alle 10.30 entrò a Cozzuolo, uno dei due centri abitati che formano Vittorio Veneto. Contemporaneamente il Reggimento Lancieri di Firenze giunse a Serravalle (il secondo centro di Vittorio Veneto) incontrando ancora piccoli gruppi di soldati austro-ungarici. Per tutto il giorno si registrarono degli scontri tra le truppe italiane che affluivano sempre più numerose e quelle asburgiche, rifugiatesi sulle alture circostanti. Nella notte però anche queste ultime retroguardie abbandonarono la città veneta. XI LA RITIRATA AUSTRO-UNGARICA La sera del 24 ottobre l'Imperatore Carlo I venne informato che la resistenza del "Gruppo Belluno" sul Monte Grappa stava dando i suoi frutti. Per quanto disperata, in cuor suo confidò che la situazione non fosse del tutto compromessa e che tutto il fronte potesse reggere unito all'offensiva italiana. Ma appena iniziarono le operazioni sul Piave capì che non c'era altro da fare: il 27 ottobre informò Guglielmo II che avrebbe chiesto ai Paesi dell'Intesa una pace separata. Quando iniziò l'attacco sulle Grave di Papadopoli le truppe austro-ungariche si fecero prendere dal panico e molti soldati, ancora prima di iniziare il combattimento vero e proprio, iniziarono a ripiegare verso est senza alcun coordinamento. I disertori si moltiplicarono nelle ore seguenti e un intero reggimento ungherese che si trovava di fronte alla testa di ponte francese si arrese in massa alla Dodicesima Armata. Il generale Borojevic ordinò quindi un primo arretramento di 7 chilometri. La mattina del 30 gran parte delle truppe italiane aveva attraversato il Piave e le avanguardie stavano per arrivare a Vittorio Veneto. Borojevic fece arretrare la Quinta e Sesta Armata verso il fiume Monticano ma nelle ore seguenti decise di abbandonare tutto il Veneto schierandosi dietro la linea del Livenza. Ma anche qui non ci fu il tempo di attendere gli italiani. La guerra era persa e ulteriori tentativi di resistenza non avevano più senso. Il generale Arz von Straussemburg diede quindi ordine di ritirarsi immediatamente e definitivamente dal fronte italiano. LA FINE DELLA GRANDE GUERRA Il 4 novembre alle ore 15 tutte le operazioni di guerra cessarono e fu proclamata la fine della Grande Guerra. Armando Diaz emanò un bollettino che celebrava, non senza retorica, la vittoria sui "uno dei più potenti eserciti del mondo". Prima dell'entrata in vigore dell'armistizio, l'esercito proseguì la sua rincorsa ai territori italiani che erano stati persi l'anno precedente: vennero raggiunte Tolmezzo e Chiusaforte sulle Alpi Carniche e Giulie mentre, una volta lasciata Udine, i soldati si diressero verso Cividale, Buttrio, Manzano e Cormons. Più a sud, in pianura, fecero il loro ingresso nella città fortificata di Palmanova, Mortegliano, Cervignano e Grado, vicino alle foci dell'Isonzo. Non vennero raggiunte le località sulla riva sinistra dell'Isonzo, mentre in Alto Adige mancavano ancora diversi chilometri prima di giungere sul Passo del Brennero, considerato come il confine naturale dell'Italia. La pace però non presupponeva l'impossibilità di continuare l'avanzata, ma solo quella di cessare qualsiasi combattimento. E così nei giorni seguenti furono raggiunte anche altre località abbandonate dalle autorità austro-ungariche. Due mesi dopo, il 18 gennaio 1919, iniziarono a Versailles i trattati di pace. Il 4 novembre 1918, finalmente, cessarono le ostilità sul fronte italiano, e di lì a pochi giorni anche in Europa e nel mondo. Data importante questa, da ricordare non tanto per la “vittoria”, ma perché segnò la fine di un incubo durato anni, nel corso dei quali milioni di soldati ed interi popoli di tutti i continenti dovettero subire morte e privazioni di ogni genere. Ricerca tratta da “Itinerari della Grande Guerra un viaggio nella storia” - a cura di Giuliano Zanetti XII