la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 7/8 – luglio/agosto 2015 SPECIALE RENATO SERRA Il tenente che sporse troppo la testa di antonio castronuovo Renato Serra e la generazione ‘sciupata’ di marco cimmino Tra le prime edizioni di Renato Serra di massimo gatta Le edizioni dell’epistolario di antonio castronuovo In margine allo ‘Speciale Serra’ Vittorie dimenticate, sconfitte celebrate di marco cimmino I disertori della Grande guerra e le forze politiche dell’antinazione di giano accame ISSN 2036-1394 SPECIALE RENATO SERRA la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VII – N.7-8/63 – MILANO, LUGLIO/AGOSTO 2015 Sommario 4 SPECIALE RENATO SERRA IL TENENTE CHE SPORSE TROPPO LA TESTA di Antonio Castronuovo 13 SPECIALE RENATO SERRA RENATO SERRA E LA GENERAZIONE ‘SCIUPATA’ di Marco Cimmino 20 SPECIALE RENATO SERRA TRA LE PRIME EDIZIONI DI RENATO SERRA di Massimo Gatta 30 SPECIALE RENATO SERRA LE EDIZIONI DELL’EPISTOLARIO di Antonio Castronuovo 34 IN MARGINE ALLO ‘SPECIALE RENATO SERRA’ VITTORIE DIMENTICATE, SCONFITTE CELEBRATE di Marco Cimmino 38 IN MARGINE ALLO ‘SPECIALE RENATO SERRA’ I DISERTORI DELLA GRANDE GUERRA E LE FORZE POLITICHE DELL’ANTINAZIONE stralcio dal saggio di Giano Accame Socialismo tricolore 41 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE, L’INTERVISTA DEL MESE, POESIA E ARTE a cura di Luca Pietro Nicoletti e Ettore Bonessio di Terzet 58 Il libro del mese AFFASCINANTI ITINERARI NEL PENSIERO DI TRADIZIONE di Giovanni Sessa 62 Bibliofilia UNA STRAORDINARIA EDIZIONE BRESCIANA RITROVATA di Giancarlo Petrella 70 BvS: il ristoro del buon lettore L’ANTICA CORONA DI UN’ALTEZZA REALE di Gianluca Montinaro 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione Biblioteca di via Senato Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Presidente Marcello Dell’Utri Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Immagine di copertina Elaborazione grafica dell’ultima foto di Renato Serra e una sua pagina autografa per il saggio del 1910 Per un catalogo Stampato in Italia © 2015 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Per ricevere a domicilio (con il solo rimborso delle spese di spedizione, pari a 27 euro) gli undici numeri annuali della rivista «la Biblioteca di via Senato» scrivere a: [email protected] L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Editoriale Q uando cadde, giusto cento anni fa, il 21 luglio 1915, sul monte Podgora, colpito da un proiettile nemico, Renato Serra aveva solo 31 anni. Era partito per il fronte non per intima convinzione ma per intimo dovere. Aveva lasciato la sua Cesena, affidando ai posteri – come proprio testamento intellettuale – l’Esame di coscienza di un letterato, una delle più lucide riflessioni sulla letteratura, sulla vita e (in fondo) sulla vanità dell’esistente. I cannoni tuonavano sui confini alpini. I soldati raggiungevano il fronte fra il tripudio popolare. Le gesta di eroismo, le armi e le bandiere cementavano, nel cuore degli ‘ancora giovani’ italiani, una prima e seria coscienza nazionale condivisa, perché temprata dal fuoco e dal sangue. Presa di coscienza che ebbe il suo momento più alto pochi anni dopo, nel 1921, quando il feretro di un ‘milite ignoto’ caduto nella Grande Guerra venne traslato all’Altare della Patria. Ma, oltre la necessità di tutto ciò, oltre il sacrificio necessario e irrinunciabile, oltre la «rettorica», ecco che Renato Serra nota come il vero «beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità». In sostanza a essere, prima di tutto, uomini. E a sopportare quotidianamente l’«illusione del tutto», la «tragicità della finitezza» (come scritto, poco innanzi, da un altro giovane, Carlo Michelstaedter) che circonda la vita umana. Gianluca Montinaro luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 5 SPECIALE RENATO SERRA IL TENENTE CHE SPORSE TROPPO LA TESTA La vicenda umana ed editoriale di Renato Serra ANTONIO CASTRONUOVO I l 20 luglio 1915 il tenente Renato Serra si sporse un po’ troppo dal ciglio della trincea scavata al Vallone dell’Acqua, pendici settentrionali del monte Podgora, uno dei bastioni austriaci eretti a difesa di Gorizia. Non si tratta propriamente di un monte: chi oggi sale al pianoro della cima, dove è stato edificato un sacrario, fatica a comprendere come un luogo così insignificante abbia potuto costituire il fulcro delle prime battaglie dell’Isonzo, ma forse l’aspetto brullo è proprio l’eredità di quelle battaglie, talmente violente da deformare per sempre - distruggendo la vegetazione e scavando enormi crateri - la sagoma del colle. Serra vi era di stanza come ufficiale di uno dei reggimenti di fanteria provenienti da Forlì e Cesena. Nell’oscurità della notte la parola d’ordine era chiesta dalle sentinelle in dialetto romagnolo: un soldato gli gridò di abbassarsi, e chissà se lo fece in dialetto. Troppo tardi, una palNella pagina accanto: Il secondo volume degli Scritti critici nell’edizione della «Voce» del 1920 e Le lettere nell’edizione della «Voce» del 1923. In alto: l’edizione Bontempelli (Roma, 1914) de Le lettere lottola austriaca lo centrò alla tempia: Serra finì i suoi giorni così, insensatamente se pensiamo a lui come pedina del grand jeu del destino. Era nato a Cesena nel 1884 e, dopo alcuni articoli pubblicati nella rivista «La Romagna», era entrato in corrispondenza con Prezzolini, pubblicando qualcosa su «La Voce». Tranquillo provinciale dedito al gioco delle carte, alla bicicletta e a cornificare qualche marito geloso, si dedicò ai calmi piaceri della Biblioteca Malatestiana dopo averne ottenuto la direzione. Fino allo sconvolgimento del conflitto mondiale, per il quale chiese di partire come volontario. Giunse al fronte il 5 luglio 1915 e rimase ucciso in pochi giorni. Aveva 31 anni. Serra è il letterato che nella settimana precedente la chiamata al fronte - a fine marzo del 1915 - aveva compiuto, tra l’accumularsi in città delle tensioni, uno dei più famosi esami di coscienza della storia intellettuale, concludendo che era necessario partire, che non era più tempo di fare letteratura, che bisognava vivere l’esperienza della guerra da uomo comune, insieme alle migliaia di altri soldati, senza alcun sentimento di superiori- 6 In alto da sinistra: quadretto d’infanzia e adolescenza dei fratelli Serra. Da destra: Renato, la sorella maggiore Maria Pia, il piccolo Africo (detto Nino); la lapide di Renato nella cappella della famiglia Serra, nel cimitero di Cesena. Qui sopra da sinistra: pagina autografa di Serra con testo di commento a un concerto del pianista Carlo Bersani tenutosi a Cesena l’11 maggio 1913; il sacrario edificato sulla cima del Podgora, dove Renato Serra perse la vita il 20 luglio 1915 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 tà: non poteva insomma coltivare la religione delle lettere come se attorno non accadesse nulla di drammatico, significativo preannuncio di ciò che il Novecento avrebbe poi definito «impegno dell’intellettuale nella società». L’Esame di coscienza di un letterato, sollecitato dall’urgenza della guerra, fu pubblicato su «La Voce» un mese dopo; uscì dunque come saggio di rivista, non come libro autonomo, e questo fu il principale destino delle edizioni di Serra in vita: articoli e saggi apparsi su luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Da sinistra: la casa natale di Serra in viale Carducci a Cesena. La camera di Renato è quella aperta al primo piano; il palazzo di viale Carducci a Cesena, oggi molte riviste, e pochissime cose edite in volume: alcuni Scritti critici usciti nel 1910 presso la Casa Editrice Italiana di Firenze, Le lettere dell’edizione romana Bontempelli nel 1914 e una Carducciana che morì sul nascere in una tipografia di Firenze, con un Serra il cui pensiero era già altrove, immerso nel clima bellico che lievitava in Italia, qualcosa di «lontano dal mio animo d’oggi», come scrisse in una lettera a Prezzolini. Non ricordo che qualcuno abbia tentato di capire chi sparò dalla trincea nemica. Ma sarebbe un giochetto storico destinato all’insuccesso: in casi del genere l’evento è parecchio eclatante se visto dalla parte della vittima, assolutamente anonimo se osservato dalla parte dell’uccisore. Che importa chi fu? Fu la guerra, fu quella condizione che nelle ultime righe dell’Esame Serra enuncia come «ora di passione» che sente tutta sua, «comunque debba finire». Finì nel peggiore dei modi, per il tenente Serra. Sulla cui morte è stato scritto molto; fortuna vuole che egli - pur partendo col cuore colmo di negazione per la letteratura - registrasse i minimi eventi di quei giorni in un quadernetto, poi pubblicato come Diario di trincea da Cino Pedrelli (2004): non è opera letteraria, ma l’ha scritta Serra e dunque ci coinvolge, come quando egli compie una sorta di tragica previsione e, il 9 luglio, annota: «Bisogno di alzarsi dalla cuccia e sporger la testa dall’apertura». Ecco: la voglia di non restare acquattato in una fossa gli costò cara. Oggi, a cento anni da quel colpo di fucile Steyr-Mannlicher, ricordiamo Serra come uno dei padri della critica italiana, di quelli che, pur avendo un sapore “provinciale”, non si scordano. Se tento di coglierne le ragioni mediante le mie personali inclinazioni, devo concludere che quando leggo le pagine di Serra vi resto appiccicato: perché la sua critica ha il fascino della scrittura d’invenzione. Dalla lettura dei suoi saggi si eleva una concezione di critica intrisa di autobiografia: il saggio di Serra s’impone con l’energia di colui che lo redige, fino a rivoltare quel pensiero che Carda- 8 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Da sinistra: Lo studio del direttore Serra alla Biblioteca Malatestiana di Cesena; richiesta di porto d’armi redatta da Serra il 25 novembre 1911 relli inserì tra le meditazioni del Solitario in Arcadia: «Sono rari quei critici che potrebbero sostenere un colloquio a quattr’occhi con l’autore che hanno giudicato». Serra avrebbe potuto farlo. La sua critica sorvola i repertori più diversi, quello classico dei Dante e Machiavelli, quello moderno degli Acri e Pascoli e quello dei “minori” di Romagna: Panzini, Oriani, Beltramelli. E quando passa da un grande a un minore sembra che “si sprechi”, eppure non fa che preludere al senso novecentesco della critica: valutare il testo come sistema da cui si sviluppa un’espressione autonoma. Ogni opera possiede per il critico un nu- cleo poetico che ne fa materia plasmabile: non è di conseguenza un dovere guardare a Dante piuttosto che a Oriani, a Pascoli piuttosto che a Di Giacomo. La ragione intima della critica è il travaglio del critico, è il suo essere processo e percorso: Serra guardò all’intero mondo delle lettere, indifferente alle abissali differenze tra un autore e l’altro, perché considerò il testo come una miniera da cui era sempre possibile estrarre qualcosa. Da questo punto di vista si giustificano anche i suoi famosi strafalcioni: riferendosi a Le Lettere, Montale non ebbe remore ad affermare che in quel volumetto non mancavano approssimazioni e ingiustizie. La più clamorosa fu forse il giudizio liquidatorio su Pirandello, al punto che Sciascia volle inserire 10 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Da sinistra: Renato Serra ai tempi dell’Università; autografo di Serra contenente un testo per una commemorazione di Pascoli che si sarebbe tenuta alla Società Dante Alighieri di Cesena il 21 aprile 1912 l’episodio nella voce “Serra” del suo Alfabeto pirandelliano. Amare Serra è facile, basta leggerlo e unirsi all’onda d’interesse che egli precocemente sollevò, quando già nel 1909 Cecchi ne scrisse su «La Voce» di settembre. Da quel momento, in un moto che deve essere stato lusinghiero per il giovane cesenate, si attardarono su di lui nomi altisonanti: Prezzolini, Borgese, Bontempelli, Croce; e Cesare Angelini, De Robertis, Pancrazi. Come pure quei concittadini - Nazzareno Trovanelli e Giacomo Comandini - che si accorsero di lui e ne parlarono sui giornali di Cesena. Inevitabile che, dopo la morte prematura, aumentasse l’attrazione verso la sua opera e fosse realizzato l’atto di giustizia che gli era mancato in vita: l’edizione delle opere. E qui il discorso si fa complesso, perché la vicenda editoriale di Serra è una successione di buone volontà abbinate a occasioni mancate. La riscoperta iniziò subito: già nel 1916 Giuseppe De Robertis e Luigi Ambrosini curarono per l’editore Treves un’edizione dell’Esame di coscienza di un letterato, con un’appendice di Ultime lettere dal campo. La «Voce» celebrò poco dopo, tra 1919 e 1923, il collaboratore di un tempo con un’edizione in quattro volumetti di Scritti critici, Scritti inediti e Le lettere. Dopo alcune tappe di scritti apparsi su riviste («Pègaso», «Primato»), bisognò attendere il 1934 e 1938 per ottenere da Le Monnier - per le cure di Ambrosini, De Robertis e Alfredo Grilli - i volumi dell’Epistolario di Renato Serra e degli Scritti di Renato Serra, opere che andarono in ristampa luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 11 Da sinistra: l’edizione del 1910 presso la Casa Editrice Italiana degli Scritti critici; la ristampa Le Monnier degli Scritti di Renato Serra (1958, prima edizione 1938) a metà degli anni Cinquanta. Altri vent’anni di relativo silenzio ed ecco nel 1974 la meritoria antologia di Scritti letterari, morali e politici curata da un giovane Mario Isnenghi per la Nuova Universale Einaudi. Oggi la migliore antologia di opere è quella curata da Marino Biondi per il Ponte Vecchio col titolo Le lettere, la storia (2005). Abbiamo dunque accesso a tutte le opere di Serra? Nient’affatto: c’è ancora parecchio materiale inedito, mancano all’appello molti scritti di natura politica e vari articoli dispersi su riviste e giornali; così come esistono centinaia di lettere non confluite nell’Epistolario del 1934. Pressante si è fatto il problema di un’edizione omnia, anche per- ché un “Comitato per l’Edizione Nazionale degli scritti di Renato Serra” è stato regolarmente istituito nel gennaio 1981 dall’allora Ministro dei Beni Culturali, il cesenate Oddo Biasini. Il progetto prevedeva l’uscita di nove volumi suddivisi in vari tomi. Il comitato ha lavorato, finendo poi per arenarsi: ad oggi i volumi partoriti sono tre, il n. 1 di Scritti critici (1990), il 4 di Carducciana (1996) e il n. 7 di Scritti filosofici (2011). Prossima è l’uscita presso le Edizioni di Storia e Letteratura, per le cure di Marino Biondi e Roberto Greggi, di un’edizione critica dell’Esame di coscienza e del Diario di trincea Ma se la situazione editoriale delle opere di Serra è in sensibile ritardo, non così per la bibliografia sul soggetto, che lo storico cesenate Dino Pieri ha messo a punto in una meticolosa Biblio- 12 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Sopra da sinistra: la bibliografia degli scritti su Renato Serra curata da Dino Pieri nel 2005; l’antologia di scritti curata da Mario Isnenghi per la NUE (Torino, 1974); l’antologia di scritti curata da Marino Biondi (2005). Qui accanto da sinistra: il Diario di trincea curato da Cino Pedrelli nel 2004; il primo volume dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Renato Serra (1990) grafia su Renato Serra (1909-2005) uscita nelle Edizioni di Storia e Letteratura (2005): straordinario strumento che raduna in migliaia di voci tutto quel che è stato scritto su Serra. L’editore ha collocato il lavoro tra i “Sussidi eruditi”, ma il volume non è solo tale: ci si accorge subito che, oltre al secolo di critica serriana, quel che viene attraversato è un secolo di storia letteraria, e il peso dell’edizione è accresciuto dalle ottanta pagine di un pregevole saggio di Biondi, che costituisce uno studio a se stante sulla ricezione critica di Serra. Insomma: tutto sembrerebbe pronto per dare compiutezza alla stanca edizione degli scritti. Servono alcuni imprudenti disposti a sporgere il capo oltre la condizione di stasi in cui il progetto giace, somministrandogli un’iniezione di energia. Non c’è rischio di colpi mortali – e il centenario non passerebbe invano. luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 13 SPECIALE RENATO SERRA RENATO SERRA E LA GENERAZIONE ‘SCIUPATA’ Riflessioni ed esami di coscienza di un letterato MARCO CIMMINO L a parola che ricorre più spesso, nelle pagine ultime di Renato Serra, vergate tra la fine del 1914 e quel 20 di luglio dell’anno successivo, in cui la parabola terrena dello scrittore cesenate si sarebbe interrotta, è probabilmente ‘sciupato’: questa sembra essere la cifra definitiva della riflessione di Serra sulla vita, la morte, la guerra e, soprattutto, la sua generazione. Occasioni sciupate, vite, carriere, fatiche sciupate. Credo che, in ultima analisi, sia questa la chiave di lettura dell’Esame di coscienza che ci permetta di ricostruire, con relativa approssimazione, lo stato d’animo e mentale del letterato, in quella brevissima vigilia che precedette la sua morte. Dalle lettere, indirizzate ai soliti corrispondenti, soprattutto “vociani”, Panzini, Papini, De Robertis, come da quella fondamentale prosa che è, appunto, l’Esame di coscienza di un letterato, emerge un Serra sospeso, per così dire, tra la quiete domestica della provincia romagnola e l’abisso, e che si interroga, obbligatoriamente, sulle questioni realmente pregnanti dell’esistenza: come scrisse in maniera esemplare Camus, in fondo, il solo vero problema della filosofia è la morte. Serra, quando vergò le poche pagine dell’Esame di co- scienza, si trovava a casa, a Cesena, in convalescenza per un grave incidente automobilistico: tuttavia, egli la guerra l’aveva già presentita ed elaborata, nei mesi trascorsi in Friuli, ad addestrare richiamati, a pochi passi dalle caserme austriache. In alcune biografie è scritto che lo scrittore sarebbe partito volontario il 20 aprile del 1915, ossia non appena terminata la prosa oggetto di queste righe: viceversa, egli era già sotto le armi e il suo servizio era stato semplicemente interrotto dal mese di riposo concessogli dopo l’incidente. Ecco, questa era la reale condizione di spirito di Renato Serra: quella di chi avesse appena assaggiato una pietanza dolce e amara insieme e, subito, fosse tornato alla casa, alla sua quotidiana riflessione, attenta, apparentemente trasognata e, invece, acutissima, sugli uomini e le cose. Il frutto di questa riflessione non può essere definito con i termini usati: la situazione di chi scrive non è una situazione comune, e Serra non era un uomo comune. Pure, come vedremo, anch’egli, tornato al proprio reparto, alla testa di ponte di Gorizia, scrivendo a casa, esprime, con parole esatte, un sentimento della guerra e della vita che fu, se non di tutti, almeno di molti: «qui si pensa al massi- 14 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Nella pagina accanto: La guerra fuori delle trincee. Un attacco di sorpresa dei nostri alpini, a circa tremila metri («La Domenica del Corriere», disegno di Achille Beltrame, febbraio 1916). Sopra: cani da soccorso alpino dell'esercito italiano (foto d’epoca, 1916) mo a quel che accade da un’ora all’altra; al nemico e alla guerra non si bada neanche più; tanto è cosa naturale. L’aspirazione più ricca è un po’ d’acqua o una caramella. Vita fanciullesca, assolutamente, se non si vedessero queste facce scavate e invecchiate» (lettera a Papini, 12 luglio 1915). Insomma, pare di rileggere, fatte le debite proporzioni, talune pagine di Borgese, quando descrive la palude in cui ristagna la vita del suo Rubè: esistenza opaca, paralizzata, che, finalmente, proprio grazie alla guerra, riprende a scorrere, come una fiumana liberata. Oppure certo Gadda, il Gadda meraviglioso de Il castello di Udine, che confessa il sentimento di libertà e di leggerezza offertogli dalla sua vita militare. Ebbene, Serra, forse, non fa neppure in tempo a provare con nettezza questo ‘sentimento della guerra’, tuttavia, con la sua agilità di pensiero e con la sua formidabile capacità di precursore, ne percepisce questo lato segreto, questa impronunciabile felicità. La guerra semplifica tutto: cancella d’un tratto le elucubrazioni e i dubbi, rende fisime stucchevoli le riflessioni filosofiche. Eppure, a casa sua, rallentato e quasi immobilizzato dalle sue ferite, il giovane scrittore è ancora perfettamente in grado di ragionare filosoficamente sul conflitto, già da mesi deflagrato ad occidente: «che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abban- luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 15 Sopra a sinistra: due tragiche immagini della guerra di trincea, durante il I Conflitto mondiale (1916). A destra: un'immagine della prima linea italiana, sul Pogdora, a quota 240; i soldati in trincea indossano le maschere antigas donati dormiranno sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavere che è sempre la stessa?» (Esame di coscienza di un letterato). Pure, questa riflessione appartiene, in qualche modo, al passato, solo poche settimane più tardi: superata dalla vita vera. Dalla morte vera, se si preferisce: «cose semplici, anche, perché qui si ritrova vita e gusti da ragazzi pur senza aver perduto niente di quel che eravamo prima: si mette da parte. Ti scriverò più a lungo (a patto di non stampare). Per ora non potrei: le prime impressioni che ti toccano son troppo le solite; colori e suoni, sensazioni del mondo, in cui la guerra si perde come un episodio. Ma ci son gli uomini e la vita: cosa profonda e semplice insieme; e ci son troppo in mezzo per potermene tirar fuori» (lettera a De Robertis, 14 luglio 1915). Dobbiamo dedurne che, come per molti altri aspetti della cultura del suo tempo, Serra fu una delle voci più nitide: uno degli interpreti più precoci: in quelle striminzite pagine, scritte con quello stile tanto caratteristico, per cui la stesura di getto giunge, in realtà, al culmine di lunghe riflessioni preliminari, egli racconta un’evoluzione antropologica del tipo umano dell’intellettuale, che trascorre velocemente dalla teoria, talora bamboleggiante e talaltra eroicomica, di certo decadentismo novecentesco, alla prassi dell’azione e della realtà, indotta, anzi, imposta dalle 16 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Un'immagine della battaglia del Podgora, presso Gorizia (1915) contingenze del conflitto. Andare, restare? Bastino, per questo, le parole ammirate per Peguy, caduto in combattimento, per Rolland, per i francesi già trascinati dal grande vortice1. L’atto, la reale presenza sul campo, sembrano dare dignità alle parole scritte: restituiscono alla letteratura un senso civile che aveva perduto, nelle aberrazioni del secondo Ottocento o che, forse, non aveva mai più avuto, dai tempi di Koerner e delle guerre napoleoniche. Serra non si lascia incantare, non corre dietro alle sirene dannunziane, che, semmai, trova insopportabili: tuttavia, rivaluta perfino d’Annunzio, il d’Annunzio tornato in Italia, il d’Annunzio di Quarto2. Serra è pronto per la guerra: come per una necessità stringente. Rifiuta la filosofia e l’accademia: accetta, invece, la normalità dell’azione, che non ha tempo per la baruffe intellettuali, dovendo affrontare battaglie vere. Perfino Croce lo infastidisce, coi suoi toni pontificanti, mentre la gente muore3. In un certo senso, la guerra, secondo Serra, rende tutto più serio e, contemporaneamente, rende tutto più inutile, ininfluente, noioso, superfluo. Di qui, forse, questo ricorrere frequentemente a quell’aggettivo, ‘sciupato’, da cui siamo partiti: ora, che tutto è reso piccino, meschino, inutile, dall’incombere di una prova definitivamente e realisticamente seria, l’esistenza dell’intellettuale appare ‘sciupata’, sgualcita e al tempo stesso male utilizzata, com’è nel significato stesso del termine, denotativamente anfibolico. Eppure, Serra non è certamente un interventista accanito: tutto, nel suo carattere, rifugge da certa roboante prosa da Pirgopolinice. Tuttavia va, perché tutti vanno e, se l’intellettuale rimanesse ad avvolgersi come un serpente nelle proprie carte e nei propri pensieri, perderebbe il proprio diritto di parola: pure, ognuno porta, nella vita come nella morte, quello che è, e non altro4. Il volontarismo di Serra è privo di trombe e di timballi: prelude luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 17 Un'immagine delle truppe alpine al fronte (foto di Domenico Ryolo, 1916) a quell’“eroismo quotidiano” che tanta parte avrà nell’epica neorealista. Però, prima di andare, egli vuole, in un certo senso, mettere a fuoco le cose: sceglie di sviscerare, con spietata precisione, i propri pensieri, la propria anima remota. Di qui deriva la grandezza dell’Esame di coscienza: è un’opera che sigilla, contemporaneamente, la storia di una generazione e quella personale dell’autore. Non è un testamento spirituale, perché Serra non intendeva affatto morire e, anzi, le sue pagine testimoniano degli interrogativi che egli si poneva circa il “dopo”: è, piuttosto, un promemoria. Quasi un appunto per quando tutto sarà finito. Così, quando tutto sarà finito e solo allora, si sarebbero tirate le somme: Serra non ci sarebbe stato, a questo redde rationem finale, tuttavia, all’alba di un conflitto che lui stesso giudicò determinante, affermava: «che l’Italia abbia qualche cosa da fare; un dovere da compiere e un avvenire da preparare o da assicurare, qualche cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi confini, sulla sua strada, lo sappiamo tutti; anche quelli che lo negano e lo impediscono, con uno sforzo che finisce a definire con certezza sempre più semplice il problema presente. Ma appunto perché questo problema è essenziale e sostanziale nella nostra storia, non possiamo credere che si esaurisca con oggi. Quella ricostituzione della nostra gente, intera e attraversata ancora una volta sul cammino e contro l’urto dei vicini crescenti, quell’anticipazione del nostro avvenire per le antiche perpetuamente rinnovate vie del levante, che avremmo voluto realizzare oggi, sono tutt’una cosa con l’Italia. E l’Italia resta». Qui, con questo che pare un augurio e, insieme, un monito, si concludono queste brevissime note sull’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra. Eppure, quella parola ‘sciupato’, continua a ronzarci nelle orecchie, come se non ne avessimo sviscerato appieno la valenza, la poderosa ca- 18 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 pacità evocativa. «Farò una morte sciupata», scrisse, altrove, il letterato-soldato, parlando di sé e del proprio destino, che si sarebbe chiuso il 20 luglio del 1915, sul monte Calvario (Podgora), con il sigillo di una palla nemica in mezzo alla fronte. Il suo destino di intellettuale e di scrittore, invece, prosegue: Renato Serra vive ancora, nella straordinaria lucidità delle sue ultime pagine, che sono, forse, uno dei più accurati documenti psicologici ed epistemologici della guerra italiana. E che, vale la pena di ricordarlo, ci dimostrano come la storia sia, veramente, sempre contemporanea, perfino quando si tratti di una storia, apparentemente ‘sciupata’: «Ripugna a qualcuno di dover concludere che in fondo in fondo tutta questa brava gente che abbiamo d’intorno e che pare abbia NOTE 1 «Bisognerà ricordare quello che accade anche adesso, intorno a noi, per quelli che prendono parte, non solo come uomini ma anche come letterati, alla guerra; e i cronisti raccontano tante cose di professori, artisti, scrittori, che si sono spogliati delle proprie abitudini, e vanno creando, per i nuovi bisogni, secondo il nuovo spirito dell’ora che passa, una letteratura nuova? Vedete in Francia: letteratura di battaglia, di fede, di semplicità: commediografi e letterati mondani che fanno la cronaca delle trincee; e Barrès, Bergson, Boutroux, Claudel, Bédier; ciascuno nei giornali, nelle conferenze, negli opuscoli s’è presa la sua parte attiva e utile di fatica; e Rolland che risponde a Hauptmann; e Péguy, e cento altri, che cadono in prima fila» (R. Serra, Esame di coscienza di un letterato). 2 Un'immagine della I Guerra Mondiale. “Guerra modernissima”, secondo la didascalia che accompagna questo disegno di Achille Beltrame, apparso su «La Domenica del Corriere», nel 1917 in pugno le sorti del nostro paese, parlamento, stampa, professori, Giolitti eccellente uomo, e diplomatici, preti, socialisti ancora migliori — non avranno fatto molto male, come non erano capaci di far molto bene; e l’ira verso di loro è tanto esagerata quanto inutile il disprezzo. Il destino dell’Italia non era nelle loro mani. Non avremo niente da vendicare. Quel fremito di vergogna e di rabbia, che volevamo portare chiuso nel cuore, fino al momento dello sfogo, finisce quasi in un sorriso. E anche questa è una cosa malinconica. Una cosa sciupata. Ma ce n’è tante!». «Così da noi D’Annunzio, per esempio, a cui pensiamo con un certo orgoglio e quasi con simpatia da quando quella sua molto privata e curiosa “cattività in Babilonia” è diventata nel corso degli avvenimenti una espressione simbolica dell’Italia esiliata col cuore sui campi dove si difende un’altra volta la civiltà latina; e il suo ritorno ha un significato, che ci fa sperare e dubitar tutti quanti. Certo D’Annunzio ha guadagnato in questo momento: ha ripreso fra noi: è ritornato al posto, da cui pareva scaduto. In realtà, con tutto il favore delle circostanze e della fortuna, non è poi cresciuto di nulla: non ha fatto niente che sia degno di quell’apparente ingrandimento morale: per una lettera, da Parigi assediata, ricca erotta magnificamente di colore, quante odi su la resurrezione latina, e frasi e parole odiosamente vecchie e false; come se niente potesse essere cambiato mai per lui!» (op.cit.). 3 «O volete parlar di Croce, che pare impicciolito, allontanato, sequestrato in una acredine di pedagogo fra untuoso e astioso, che si degna di consolare le nostre angosce dall’alto della sua filosofia, sicuro che tutto alla fine è e non può essere, anche in questa guerra, altro che bene e vantaggio e progresso» (op.cit.). 4 «Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che è dovuto all’uomo e alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi è morto per fare il suo dovere» (op.cit.). Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completo Torino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected] Milano, Via Washington, 17 Tel. 02/480821 Roma, Via Abruzzi 25, Tel. 06/58334027 Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080 20 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 21 SPECIALE RENATO SERRA TRA LE PRIME EDIZIONI DI RENATO SERRA «La guerra non cambia nulla nel mondo, neanche la letteratura» MASSIMO GATTA U na manciata di anni prima, era il 20 febbraio del 1909, sulle colonne del parigino «Le Figaro» Filippo Tommaso Marinetti, pubblicando ufficialmente il suo Manifesto del Futurismo, dichiarava al punto 9: «Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il di- A sinistra: una famosa fotografia di Serra nel 1915. Scattata nello studio del fotografo cesenate Augusto Casalboni, fu inviata agli amici prima della partenza per il fronte sprezzo della donna». Quella stessa “igiene” solo sei anni dopo, il 20 luglio del 1915, mette fine, sul goriziano Monte Podgora a soli 31 anni, all’esistenza di un grande letterato, Renato Serra, impegnato al fronte col grado di tenente (la sua classe di appartenenza, 1884, era la stessa di Emilio Cecchi),1 morto per le gravi ferite riportate in combattimento.2 Il 16 maggio di quell’anno un incidente automobilistico lo aveva tenuto tra la vita e la morte; il primo aprile viene richiamato alle armi e il 5 luglio spedito al fronte, nell’11° Reggimento Fanteria della Brigata “Casale”. Era nato a 22 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Cesena nel 1884 e in quella splendida città dirige, dal 1909 al 1915, la storica Biblioteca Malatestiana, la sola istituzione bibliotecaria che conserva le uniche copie, delle poche sue prime edizioni, facenti parte del “Fondo Renato Serra”, unitamente alla sua biblioteca privata, ai manoscritti, alle lettere e alle bozze di stampa.3 Ancora alla guerra Serra dedica un bruciante pensiero, pubblicato in quello che è considerato il suo capolavoro, l’Esame di coscienza di un letterato, scritto tra il 20 e il 25 marzo, nei giorni che precedono la chiamata al fronte del primo aprile, pubblicato l’anno della morte su «La Voce»,4 il celebre periodico fondato nel 1908 da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, e che nel 1916 cessa le pubblicazioni. Il volume viene ristampato da Treves nello stesso 1915, postumo, a cura di Giuseppe De Robertis e Luigi Ambrosini, con l’aggiunta delle Ultime lettere dal Campo,5 con in copertina la dicitura: «Renato Serra, di Cesena, spento a 31 anno, da palla austriaca a Podgora, il 20 luglio 1915». In quelle righe Serra, quasi profeticamente scrive: NOTE 1 Ringrazio il prof. Franco Contorbia per l’indicazione. 2 Gli venne assegnata la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, non indicata però sulla lapide. 3 L’Archivio Serra venne acquistato dalla Regione Emilia Romagna nel 1987 dagli eredi di Stanislao Paszkowski, marito di Viola, figlia di Giovanni Papini, e in seguito depositato presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena; su di esso cfr. Manuela Ricci, Renzo Cremante, Il Fondo Renato Serra della Biblioteca Malatestiana di Cesena, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005 [Sussidi eruditi, 69]; ri- mando anche al link: http://www.comune.cesena.fc.it/malatestiana#serra. 4 Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, «La Voce», a. VII, n. 10, 1915, pp. 610-632. Lo scritto venne stampato anche come Estratto, Firenze, Libreria della Voce, 1915 [una sola copia localizzata presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN]. 5 Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, seguito da ultime Lettere dal Campo, a cura di Giuseppe De Robertis e Luigi Ambrosini, Milano, Fratelli Treves Editori, 1915, con un ritratto fotografico di Serra e la foto della tomba in antiporta, cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano. Repertorio delle edizioni originali, Milano, Sylvestre Bonnard, 2007, p. 851 [indicato come “Piuttosto comune, ma abbastanza ricercato”]. Nel 1996 venne pubblicata un’edizione critica, Esame di Coscienza di un letterato. Per una Storia del Testo dall’Autografo alla Stampa, a cura di Marino Biondi e Roberto Greggi, Cesena, Il Ponte Vecchio. 6 Con lo scrittore e giornalista Serra aveva collaborato a Torino, dove si era trasferito da Cesena; cfr. Renato Serra, Mio Carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini, a cura di A. Menetti, Parma, Monte Università di Parma, 2009. luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Cfr. Alberto Cadioli, Renato Serra, le muse, la sirena, in Id., Letterati editori. Papini, Prezzolini, Debenedetti, Calvino. L’editoria come progetto culturale e letterario, Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 69-85 [73]. 8 Ibidem, p. 75. 9 Renato Serra, Carducci e Croce, «La Voce», a. II, n. 54, 22 dicembre 1910. 10 Lo scritto Carducci e Croce fu in effetti la stampa anticipata di qualche giorno, con scopo promozionale, del più ampio saggio Per un catalogo, compreso negli Scritti critici (vedi oltre). Ringrazio il prof. Franco Contorbia per la precisazione. 11 Questi su Pascoli e Beltramelli erano usciti in prima edizione sulla rivista «La Romagna» nel 1909, cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 851. In particolare lo scritto Giovanni Pascoli, su «La Romagna», 6, serie III, fasc. 2, febbraio 1909, pp. 65-79 e fasc. 3-4, marzo-aprile 1909, pp. 121-142 [nel volume Scritti critici della nota seguente il saggio occupa le pp. 553], cfr. Giulia Mandrioli, Le postille sulle carte di Renato Serra dedicate a Pascoli e a Kipling, Milano, ACME, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, v. LXV, fasc. III, settembre-dicembre 2012, pp. 265-279 [266]. 12 Renato Serra, Scritti critici. Giovanni Pascoli, Antonio Beltramelli, Carducci e 23 Croce, Firenze, Casa editrice italiana [Firenze, Stabilimento Tipografico Aldino], 30 dicembre 1910 [Quaderni della Voce raccolti da Giuseppe Prezzolini, 6]; cfr. Libreria della Voce. Catalogo alfabetico delle nostre edizioni e delle opere possedute in numero fino al 31 dicembre 1916, Firenze, Libreria della Voce, 1916, p. 12 (il volume risultava in vendita al prezzo di L. 1,25); Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 851 [indicato come “molto comune, ma piuttosto ricercato”] e Olivia Barbella, I ricercati delle edizioni della Voce, «Wuz», n. 5, giugno 2002. Vedi anche Le edizioni della «Voce». Catalogo, a cura di Carlo 24 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 «La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente nulla, nel mondo. Neanche la letteratura». Una ben diversa profondità da quella marinettiana, una ben diversa consapevolezza, una ben diversa maturità d’animo. Quella guerra incapace di cam- Maria Simonetti, Firenze, Giunta regionale Toscana – La Nuova Italia, 1981 [Inventari e cataloghi toscani, 6], p. 73, n. 288. Seconda ristampa col titolo Scritti critici I. Giovanni Pascoli, Antonio Beltramelli, Per un catalogo (Carducci e Croce), Retractationes, Roma, Soc. An. La Voce, 1919 [Opere di Renato Serra, I], cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit., p. 73, n. 289 [il volume risultava in vendita al prezzo di L. biare alcunché, “enorme, ma è quello solo”. Un pensiero di una bellezza tersa e come sospesa, senza tempo, leggera, ineluttabile. La guerra che nella sua cogenza, nella sua “esseità”, non potrebbe aggiungere, togliere, o cambiare nulla. Altro che igiene del mondo! Una visione, la sua, che si discosta dai miti bellicistici del nazionalismo, dall’idea della guerra come evento magico e liberatorio, dai 3]. Di questo volume, non segnalato in Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., vennero stampate anche 25 copie su carta distinta e numerate, in vendita a L. 8 (ringrazio Lucia Di Maio della Libreria Pontremoli di Milano per l’informazione). Vedi ancora Renato Serra, Scritti critici II-III. Carducciana-Pascoliana, Roma, Soc. An. La Voce, 1920 [Opere di Renato Serra, II], cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit., p. 73, n. 290. 13 Il saggio avrebbe dovuto costituire la presentazione del primo numero della rivista «Neoteroi» che, insieme all’amico Ambrosini, Serra andava preparando per l’editore Bocca; ma quando quest’ultimo rifiutò di pubblicare la rivista lo scritto serrano verrà pubblicato sulla «Voce» del 22 dicembre 1910, anticipando la versione in- luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 25 quali lo stesso Serra si è comunque lasciato conquistare. Quella stessa guerra toglie alla letteratura uno scrittore di enorme talento, quella letteratura a cui va l’ultima parola di Serra, l’ultimo suo pensiero. Neppure la letteratura può essere cambiata dalla guerra. Insieme all’amico Luigi Ambrosini, tra il febbraio e il marzo del 1907, pensa a un progetto editoriale con l’editore Paravia per la compilazione di un dizionario latino,6 un modo per mantenere vivo l’interesse per il mondo editoriale, dopo alcune delusioni vissute in quello giornalistico. Ma anche questo lavoro finisce e Serra avverte di nuovo una certa sensazione d’inutilità. Purtuttavia, in una lettera sempre ad Ambrosini del 19 ottobre 1907, scrive: «Nell’ultima tua […] mi parlavi di qualche cosa da fare per Paravia. Ben volentieri, a Firenze non meno che a Cesena. (Sarebbe il mio sogno trovare un lavoro che mi potesse dare un migliaio di lire l’anno senza muovermi da casa». È invece un nuovo lavoro di pura compilazione, quello che lo occupa, nella primavera del 1908, nello spoglio biobibliografico per un progetto del duca Caetani, un lavoro “meccanico” che presto gli lascia di nuovo l’amaro in bocca;7 ecco quindi che l’impiego, prima rifiutato e poi inseguito,8 come direttore alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, già ricordato, gli offre una nuova occasione. tegrale degli Scritti critici del ’19 [vedi nota precedente]. 14 Renato Serra, Francesco Acri, «La Voce», a. III, n. 10, 9 marzo 1911, pp. 522523, a commento di Le cose migliori dell’Acri, edito a Lanciano da Carabba nel 1911; dell’articolo serrano ne venne stampato anche un Estratto, s.l., s.n. [localizzato nella sola Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN]. 15 Il giovane Serra pubblica il suo primo scritto su «La Voce» il 22 dicembre del 1910,9 dedicandolo a Carducci e Croce,10 ripubblicato ampliato con pagine critiche dedicate a Pascoli e Beltramelli,11 nei «Quaderni della Voce».12 Nella seconda ristampa del 1919 degli Scritti critici compare anche il saggio Per un catalogo,13 elaborato nel 1910, dedicato all’analisi della «Collezione Scrit- Renato Serra, La fattura. Episodio di uno studio intorno a Gabriele D’Annunzio, «La Voce», a. III, n. 14, 6 aprile 1911, pp. 545-547, anche di questo articolo ne venne stampato un Estratto [localizzato nella sola Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN], 16 Renato Serra, Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, «La Voce», a. VI, n. 12, 28 giugno 1914, “Nato di getto in una mattina d’aprile del 1914, nello studio di Serra alla Malatestiana, questo scritto conosce poi, per tre mesi, un’attenta e scrupolosa opera di rielaborazione, intesa a equilibrarne il tono, a mezzo tra la confessione personale e l’analisi critica”, Mario Isnenghi, in Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, Torino, Einaudi, 1974, p. [484]. 17 Renato Serra, Il gruppo fiorentino, 26 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 tori d’Italia» della Laterza, diretta da Benedetto Croce. Al celebre foglio papiniano-prezzoliniano Serra collabora ancora con scritti su Francesco Acri14, Gabriele D’Annunzio15 e Paul Fort,16 con un articolo del ’15 sul gruppo fiorentino17, con una pagina poco nota nell’Almanacco della Voce18 e appunto con l’Esame di coscienza di un letterato. Acri è stato suo insegnante alla Facoltà di Lettere di Bologna, insieme a Carducci, Severino Ferrari e G. Battista Gandino, ateneo dove Serra si iscrive nel 1900, laureandosi quattro anni dopo su Petrarca, pubblicata postuma nel 1929 prima in rivista19 e, lo stesso anno, in volume.20 Postumi escono altri suoi scritti su Machiavelli21 e altri inediti su Kant,22 Kipling,23 D’Annunzio e Oriani;24 di notevole importanza bibliografica restano sia il volume degli Scritti, nell’edizione del 1938,25 sia quanto pubblicato nell’Edizione Nazionale.26 Nel 1910, intanto, pubblica un saggio su Alfredo Panzini, che ha il merito di porlo per la prima volta all’attenzione del pubblico e della critica.27 Lo scritto rientra nella sua collaborazione critico-letteraria a «La Romagna», una rivista mensile “se- «La Voce», a. VII, n. 9, 15 aprile 1915. 18 Almanacco della Voce, Firenze, Libreria della Voce, [Stabilimento Tipografico Aldino], 1915; cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit., p. 4, n. 6. 19 Renato Serra, Dei “Trionfi” di Francesco Petrarca, «La Romagna», XVI, n. 12/3, 1929. 20 Idem, Dei “Trionfi” di Francesco Petrarca, a cura di Alfredo Grilli, Bologna, Nicola Zanichelli, 1929, stampato in 100 esemplari; per entrambe le edizioni cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., pp. 851-852. La tiratura in 100 esemplari viene indicata come “molto rara, senza quotazioni disponibili”. 21 Renato Serra, Pagine inedite su Niccolò Machiavelli, premessa di Plinio Carli, «L’Orto», a. IX, n. 3, 1939, pubblicato lo stesso anno come Estratto, Firenze, Le Monnier, 1939; cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 852. 22 Al nome del filosofo tedesco è legata anche un’altra esperienza editoriale del giovane Serra. La cura, insieme ad Armando Carlini, di una Collana dell’editore Laterza di Bari di testi di filosofia per le scuole: “In questa collaborazione, a Serra non interessa tanto che il suo nome venga pubblicato in copertina come direttore, ma i termini del contratto editoriale propostogli: ci sarà possibilità di guadagno, chiede ancora una volta all’Ambrosini, più esperto di lui?”, Alberto Cadioli, Renato Serra, le muse, la sirena, cit., p. 76. La lettera citata all’Ambrosini è ora in Renato Serra, Epistolario, a cura di Luigi Ambrosini, Giuseppe De Robertis e Alfredo Grilli, Firenze, Le Monnier, 1934, p. 362. I ritmi, le scadenze, le insoddisfazioni inducono però Serra a voler annullare il contratto con l’editore barese, cfr. Epistolario, cit., p. 401. Questa ulteriore esperienza fallimentare di collaboratore di casa editrice gli darà conferma del suo implicito rifiuto del lavoro editoriale “in nome del perduto otium umanistico; è la voglia di sentirsi libero davvero, senza impegni e scadenze, che porta Serra a ritirarsi dall’impresa, con luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 27 miclandestina” (Cadioli) di storia e lettere edita a Forlì nel 1904. Nel 1912, intanto, firma la prefazione a un volume di Armando Carlini su Fra Michelino e la sua eresia,28 mentre a un anno prima della morte risale la commemorazione del suo maestro e insegnante all’università di Bologna, Giosuè Carducci, letta la sera di sabato 21 marzo al Teatro Comunale di Cesena29 e il progetto, di cui si parla nell’epistolario fin dal 1913, dedicato alla letteratura italiana contemporanea, sfociato nella pubblicazione delle Lettere.30 Questo progetto per l’editore Bontempelli nasce dalle passate esperienze fallimentari col mondo editoriale (Paravia, Laterza31). È sempre l’urgenza di soldi (a causa dei suoi debiti di gioco) la molla che lo spinge suo malgrado ad accettare proposte anche se non pienamente condivise: Ma il bisogno di soldi si fa urgente e da questo bisogno nasce l’accettazione della proposta di stendere una monografia sulla letteratura contemporanea, per la collana «Italia d’oggi» della casa editrice romana Bontempelli e Invernizzi. Nascono dunque Le lettere, che si propongono come una preziosa testimonianza sul si- la speranza di ricuperare, illusoriamente, quell’otium”, Alberto Cadioli, Renato Serra, le muse, la sirena, cit., p. 77. 23 Lo scritto su Kipling non fu pubblicato da Serra in vita, uscirà postumo nel ‘22 in due puntate su «Il Convegno», ma: “L’edizione era gravemente scorretta, sia per vistosi errori tipografici, sia per l’omissione di interi passaggi. Una versione più attendibile dello studio comparve qualche mese dopo negli Scritti inediti (pp. 27-99) che costituiscono il IV volume delle Opere di Renato Serra […]. Essa servì da riferimento anche per le successive edizioni del saggio […]”, Giulia Mandrioli, Le postille sulle carte di Renato Serra dedicate a Pascoli e a Kipling, cit., p. 266. Vedi infine Marino Biondi, Una passione di gioventù: il Kipling, in Renato Serra, Kipling, Sant’Arcangelo, Fara, 1996, pp. 107-154. 24 Renato Serra, Scritti inediti. Emanuele Kant. Rudyard Kipling. Di G. D’Annunzio e di due giornalisti. Intorno alla Grandezza e decadenza di Roma di G. Ferrero. Abbozzo di un saggio su Alfredo Oriani, Firenze, Soc. An. La Voce [Firenze, Stabilimento Tipografico Attilio Vallecchi], 1923 [Opere di Renato Serra, IV]; cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit., pp. 7374, n. 291 e Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p.851. Il saggio su D’Annunzio, insieme a molti altri, verrà ristampato in Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di Mario Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 219-243. 25 Cfr. Scritti di Renato Serra, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, F. Le Monnier, 1938, in 2 volumi. 26 Scritti critici (vol. 1), a cura di Ivanos Ciani, Roma, IPZS, 1990; Carducciana (vol. 4), a cura di Ivanos Ciani, Bologna, Il Mulino, 1996; Scritti filosofici (vol. 7), a cura di Jonathan Sisco, Bologna, Il Mulino, 2011. 27 Renato Serra, Alfredo Panzini, «La Romagna», a. VII, serie 3, n. 5-6, maggiogiugno 1910; venne stampato anche come opuscolo, Forlì, Stabilimento Tipografico Romagnolo, 1910; cfr. anche A. Grilli, Serra tra Pascoli e Panzini; con pa- 28 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 stema letterario ed editoriale del primo Novecento, osservato dal punto di vista di un «lettore umanista». Esaminando queste pagine è infatti possibile introdurre una nuova riflessione sull’editoria libraria, e in particolare sulla narrativa e sul suo pubblico”.32 Discorso a parte merita il suo prezioso Diario di trincea del 1915.33 Come scrive Isnenghi: «In un libro di Luigi Ambrosini - i Racconti di guerra 34- è compreso uno scritto importante di Serra, il Diario di trincea,35 altrimenti inedito e, non senza motivo, restato semisconosciuto agli stessi studiosi del Serra. Nessun rilievo, in verità, è dato nel volume al fatto che tra i “racconti” dell’Ambrosini se ne celi uno che non è un racconto e, soprattutto, non è dell’Ambrosini, ma di Serra. […] Ma Ambrosini visse ancora oltre un decennio e di quello scritto mutilato non si occupò più. Anzi, riuscì a fare di peggio: dalle carte lasciate alla sua morte, il taccuino con l’originale del Diario di trincea - insieme ad altri manoscritti del Serra - non è più venuto alla luce».36 Il Diario inizia il 6 luglio, per terminare il 19 con l’appunto delle ore 19: «È incominciato l’attacco».37 Il giorno dopo Serra gine inedite, Firenze, Le Monnier, 1956. 28 Cfr. Armando Carlini, Fra Michelino e la sua eresia, prefazione di Renato Serra, Bologna, Zanichelli, 1912; la prefazione di Serra occupa 38 pagine. 29 Renato Serra, La commemorazione di Giosuè Carducci, «Il cittadino», a. XXVI, n. 13, 28 marzo 1914, pp. 1-3, stampato anche come Estratto, Cesena, s.n., 1914 [localizzato nella sola Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN]. 30 Renato Serra, Le lettere, Roma, C. A. Bontempelli Editore [Stabilimento CromoLito-Tipografico Armani & Stein], 1914 [L’Italia di oggi. Serie 1, n. 6]; cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 851 viene colpito in combattimento, morendone. Tra le ultime lettere che scrive dal fronte due sono per Benedetto Croce (maestro avverso, secondo Contorbia) e Giuseppe De Robertis, più giovane di Serra di quattro anni, che lo vede come una sorta di fratello maggiore. Nella prima, del 13 luglio del 1915, Serra scrive tra l’altro: «Ill.mo Signor Professore, devo ancora ringraziarLa della cortese cartolina che s’informava della mia salute. Mi accorgo che anche alla guerra e seppelliti in una trincea sotto il fuoco nemico, che tempesta - ma fa più rumore che danno - da poche decina di metri di distanza, si continua press’a poco la solita vita e si conservano le abitudini usate: per es. quella di rispondere in ritardo. Mi scusi. Quanto a me sto benissimo ora, e non sento quasi più le conseguenze della caduta, che potevano essere molto più serie. Forse non potrei ancora stare in Biblioteca a scrivere come prima»;38 e a De Robertis, il giorno dopo, scrive: «Mio caro, ti mando il mio indirizzo (11° Fanteria, 4° Comp.ia, 12a Divisione) per avere tue notizie, che desidero. Dimmi qualche cosa del tuo lavoro, della Voce, del nostro mondo letterario, [indicato come “piuttosto comune, ma piuttosto ricercato”]; ristampa con l’aggiunta dei frammenti inediti del secondo volume e di un indice onomastico, Roma, Soc. An. Ed. La Voce [Firenze, Stabilimenti Grafici Attilio Vallecchi], 1920 [Opere di Renato Serra, III], cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit., p. 72, n. 287. Ultima edizione, Ravenna, Longo Editore, 1989; cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 852. Altre edizioni postume della corrispondenza sono le Lettere in pace e in guerra, a cura di Milva Maria Cappellini, prefazione di Geno Pampaloni, Torino, Nino Aragno, 2000 e le Lettere a Fides, saetta che ferisce e vola, a cura di Renato Turci, Bagno a Ripoli, Le Monnier, 2001, con ritratto. La Fides del titolo era Fides Galbucci, con la quale Serra ebbe una importante relazione amorosa, resa drammatica dal timore che la giovane ne intrattenesse una parallela con Luigi Ambrosini, da ciò la lacerazione dell’amicizia tra i due tra il ’13 e il ’15, con la successiva ripresa dei contatti dopo l’incidente automobilistico a Serra avvenuto a Latisana, già ricordato (ringrazio il prof. Contorbia per l’utile precisazione). Per entrambe le edizioni cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 852. Infine per la bibliografia dedicata a Serra rimando alla Bibliografia su Renato Serra (1909-2005), a cura luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 29 Pagina autografa di Serra per il saggio del 1910 Per un catalogo degli amici vicini e lontani. In questa vita così piena e affaccendata ci son sempre delle ore vuote: ci si trova come ora, fermi e quieti sul margine di una buca; voltati indietro a cercare le cose di ieri, che sembrano così lontane. Ci si rinuncia, ma non si dimenticano. […] Ti scriverò più a lungo (a patto di non stampare). Per ora non potrei: le prime impressioni che ti toccano son troppo le solite; colori e suoni, sensazioni del mondo, in cui la guerra si perde come un episodio. Ma ci son gli uomini e la vita: cosa profonda e semplice insieme; e ci son troppo in mezzo per potermene tirar fuori oggi». L’ultima lettera, poche ore prima di morire, è invece per la madre: «Cara mamma, un saluto in fretta anche stamattina, alzati all’alba. Niente di nuovo: le solite vicende di temporale e di sole, e lo spettacolo di un’azione che si intravede e si sente rumoreggiare sui monti circostanti. Noi sempre al nostro posto, con molte faccende dei servizi di seconda linea...». di Dino Pieri, saggio introduttivo di Marino Biondi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005 [Sussidi Eruditi, 68] e ovviamente all’apparato critico e paratestuale approntato da Mario Isnenghi per gli Scritti letterari, morali e politici di Serra, cit., anche per quanto riguarda gli scritti non compresi in Renato Serra, Scritti a cura di G. De Robertis e A. Grilli, cit. 31 Di certo situazioni “fallimentari” ben distinte, se non altro perché nel caso di Laterza fu proprio Serra a far saltare la collaborazione con l’editore barese, con Croce e Carlini. 32 Alberto Cadioli, Renato Serra, le muse, la sirena, cit., p. 77. 33 A tale proposito preziosa appare la puntualizzazione espressa da Franco Contorbia a chi scrive, con mail del 14 aprile 2015: “Il manoscritto del Diario di trincea non è andato perduto: è sempre stato tra le carte di Serra detenute dai suoi eredi. Il compianto Cino Pedrelli e io l’abbiamo rinvenuto (per modo di dire, perché sapevamo che lì stava) nel lontano 1974, o forse 1975, tra le carte di proprietà del nipote di Renato, professor Franco Serra, allora vivo e residente a Bologna. Con inaudito ritardo Pedrelli lo ha edito trent’anni dopo, nel 2004, riproducendone in facsimile anche l’autografo […] presso Stilgraf di Cesena”. 34 Torino, S. Lattes & C., 1917. 35 Ora in Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, cit., pp. 549-563. 36 Mario Isnenghi in Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, cit., p. [550]. 37 Ibidem, p. 563. 38 In effetti la pubblicazione dell’Esame di coscienza, sulla «Voce» del 30 aprile del ’15, pare avesse avuto come esito la lacerazione irreversibile del suo rapporto con Croce il quale, in una lettera pubblicata da Alfredo Grilli in Tempo di Serra (Firenze, Vallecchi, 1961), arrivò a parlare di letteratura onanistica riferendosi a Serra. Ringrazio il prof. Contorbia per l’indicazione. 30 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 31 SPECIALE RENATO SERRA LE EDIZIONI DELL’EPISTOLARIO La travagliata vicenda delle lettere di Renato Serra ANTONIO CASTRONUOVO N el 1934, dopo un lungo lavoro di ricerca e raccolta, veniva pubblicato a Firenze, da Felice Le Monnier, l’Epistolario di Renato Serra. Il frontespizio indica un pool di tre curatori, Giuseppe De Robertis, Alfredo Grilli e Luigi Ambrosini, nomi ai quali dobbiamo però assegnare un diverso peso: compagno di liceo e amico di Serra, Ambrosini scomparve già nel 1929, durante l’opera di raccolta delle lettere, e dunque la sua “cura” va intesa come un lavoro parziale. La curatela si concentrò infatti nelle mani di De Robertis, cui fu di grande aiuto Alfredo Grilli, intellettuale assai attivo nella prima metà del Novecento nel ricostruire la vicenda di Serra, già a partire dai mesi successivi alla morte prematura del 1915: impagabile fu il paziente lavoro che egli condusse per raccogliere e ordinare i documenti del cesenate; il suo contributo, in particolare, fu di occuparsi delle lettere inviate ad Ambrosini. Il volume si apre con un semplice avviso Al lettore scritto da De Robertis, il quale annuncia il lavo- Nella pagina accanto: l’ultima foto di Renato Serra. Fu spedita dal fronte agli amici ro dei singoli curatori: «Lunga quanto mai, è vero, è stata la fatica per l’ordinamento e la illustrazione di queste lettere. Quasi al compimento del lavoro, morto Luigi Ambrosini, fu necessario cercare chi s’assumesse il difficile incarico di annotare le lettere del Serra a lui, riguardanti la più parte il periodo più oscuro della sua vita; e si trovò in Alfredo Grilli che, quanto abbia frugato, vedrà chi leggerà». Il programma era stato quello nudamente biografico: il lettore avrebbe potuto giudicare che valeva la pena sfrondare quelle seicento pagine, «ma noi non volevamo offrire una raccolta di bella prosa soltanto, sibbene la storia della vita di Renato Serra, in tutta la sua verità nuda, e proprio per effetto delle notizie più piane, prosaiche, indifferenti, contribuire alla varietà della lettura e al risalto di certe pagine superbissime». Per quanto su piani differenziati, fu grazie al lavoro di queste figure che si giunse all’edizione di un Epistolario che fu una sorpresa per i lettori, dato che lumeggiava un mondo ignoto: la vita privata del giovane Serra cesenate, la sua precoce maturità, la sua svogliatezza e generosità, l’arguzia e la sapida mescolanza tra ozio e progetti letterari. Man mano che ci si accostava agli ultimi anni, verso il 1914 e 1915, si 32 percepiva lo sviluppo della concretezza, sul tragitto di quel destino che portò Serra verso la tragica partenza per il fronte. L’Epistolario nacque come una semplice brossura, che rilega però un corposo volume che supera le 600 pagine. Si confermava quel che già era noto: che nella sua breve vita Serra aveva coltivato rapporti con molti corrispondenti, in un affresco che diventava, di colpo, molto importante per la ricostruzione delle sua vicenda biografica. Come molte edizioni di lettere, anche questa ebbe moderato successo editoriale: esaurì la tiratura in vent’anni e giunse a ristampa solo nel 1953. Sembrava che il grosso delle lettere fosse là dentro, che i giochi epistolari fossero fatti, e invece quel volume - pur essenziale per conoscere Serra - non rappresentava che un inizio. la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Torniamo alla premessa Al lettore e leggiamo la conclusione, là dove viene annunciata la prossima uscita, sempre presso Le Monnier, di due «grossi volumi di mille pagine» con le opere complete di Serra: «Avremo così finalmente assolto il nostro compito di editori nei riguardi di uno degli ingegni più alti e più interi di questo primo novecento». Gli Scritti di Renato Serra videro effettivamente la luce, a cura di De Robertis e Grilli, ma soltanto nel 1938; erano davvero consistenti (450 e 680 pagine circa), ma che si trattasse di opere complete fu solo un auspicio (come era avvenuto per la prima edizione delle opere pubblicate da «La Voce» in quattro volumetti tra 1919 e 1923). Si verificava per gli scritti di Serra quel che era appena accaduto per l’epistolario: iniziava con quelle avventure editoriali un tragitto che si presumeva “completo” ma che era invece assai lacunoso. Il primo volume dell’edizione 1938 degli Scritti si apre con un saggio di De Robertis, Coscienza letteraria di Renato Serra, che contiene qualcosa di utile al nostro discorso. Il curatore dipinge il carattere generale delle missive di Serra: «Curiose lettere, piene di complicate analisi, di femminili abbandoni, e reticenze superbe; piene di propositi di vita e di studi. [...] Inquiete lettere, di un’anima soavissima, d’un intelligenza solitaria, di gusti così strani dai gusti correnti, ma che erano ben fermi, tra quegli apparenti tentennamenti, fermi fino a parere caparbi» (p. XXXIX). De Robertis registra anche come la ripugnanza di Serra ad aprirsi fu forse «la ragione che impedendogli di conversare con i molti, lo spinse invece a scrivere lungamente a pochi fraterni spiriti, come dicono le sue lettere» (pp. XXXVIII-XXXIX). Ecco, l’idea che Serra avesse scritto «lungamente a pochi fraterni spiriti» nasceva dal carattere dell’epistolario così come esso aveva visto la luce nel 1934, con i materiali all’epoca noti. De Robertis non era consapevole in quel 1938 del fatto che i carteggi di Serra erano ben più vasti; non poteva certo sapere quel che Cino Pedrelli - decano degli studi serriani avrebbe scoperto anni dopo mediante il censimento di un più ramificato carteggio: che i corrispondenti luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano di Serra erano stati molto più numerosi di quanto suggerisce l’Epistolario. L’edizione Le Monnier ha infatti dato l’idea di un Serra chiuso in sé, che comunicava con poche decine di amici: oggi sappiamo che scambiò lettere con un numero di persone ben più ampio. Pedrelli ha contato 173 corrispondenti certi, persone di cui si conosce almeno una lettera ricevuta da Serra o a lui indirizzata. Il che ha un’immediata ripercussione: ogni biografia di Serra, non avendo tenuto conto dei tanti ignoti carteggi, va considerata oggi parziale. Il nuovo orizzonte di conoscenze è legato alle ricerche compiute in vista di una Edizione Nazionale delle opere di Serra, che fatica a nascere ma il cui comitato è stato insediato nel 1981. Da allora, sono molti i documenti venuti alla luce, e tra questi le lettere - molte di più rispetto a quelle pubblicate nel 1934 - hanno un peso rilevante. Sono ad esempio emersi carteggi di Serra con Prezzolini, Papini, Panzini, Cecchi, Pancrazi, Adriano Tilgher, Armando Carlini e i ravennati Corrado Ricci e Santi Muratori. Una spicchio rilevante dei nuovi carteggi è quello con l’assiduo corrispondente Ambrosini, col quale Serra ebbe un cospicuo scambio di lettere, interrotto nel 1913 per una pedestre questione di gelosia. Più di duecento pezzi di questo carteggio erano arrivati, a partire dalla vedova Ambrosini, alle edizioni Da Silva fondate da Franco Antonicelli, nel cui lascito sono infine emerse. Parte del carteggio (69 pezzi) è uscito nel 2009 presso l’editrice Monte Università Parma a cura di Andrea Menetti col titolo: Renato Serra, Mio carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini (1904-1915). L’edizione, curata con scrupolo filologico e corredata da un buon apparato di note, è assai seducente: ripercorre la vocazione letteraria dei due amici, il loro affacciarsi alla vita, i tentennamenti di fronte alle scelte di valore, fino all’ultima lettera di Serra, scritta otto giorni prima di morire al fronte. Un assaggio editoriale che fa ben comprendere come - se decollerà l’Edizione Nazionale - un epistolario come quello pubblicato nel 1934 non avrebbe senso: sarà necessario assemblare i singoli carteggi intercorsi tra Ser- 33 ra e interlocutori. Intanto, le edizioni di lettere serriane non si sono fermate. Un esempio antologico è il centinaio di pezzi che compone il volume Lettere in pace e in guerra curato da Milva Cappellini con prefazione di Geno Pampaloni (Aragno Editore, 2001). Un bel ritrovamento è stato quello compiuto da Renato Turci con le Lettere a Fides, saetta che ferisce e vola (Quaderni della Nuova Antologia, 2001): si tratta dello scambio epistolare con la giovane concittadina Fides Galbucci, ultima ragazza amata da Renato. Le lettere, infine, possono funzionare come materia con cui ricostruire criticamente uno spicchio di biografia: è quanto ha fatto Marino Biondi in Renato Serra: biografia dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe De Robertis, storia della fase ultima della vita di Renato, quando già aleggiava - infine enunciata nel 1915 con l’Esame di coscienza di un letterato - la consapevolezza del congedo, dagli amici e dalla vita. 34 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 35 IN MARGINE ALLO ‘SPECIALE RENATO SERRA’ VITTORIE DIMENTICATE, SCONFITTE CELEBRATE 24 maggio e 25 aprile: due date, due ricordi, due Italie MARCO CIMMINO E siste la storia e, poi, ci sono le storie. All’interno di quella gran massa, magmatica e plastica, che chiamiamo storia, fluisce una miriade di rivoli, diversi per densità, intensità, calore: questi torrentelli di materia incandescente sono le storie, i mille risvolti di una memoria che mai come oggi ci appare divisiva, frammentata, talvolta incrudelita. Perché i ricordi di una Nazione non sono mai ordinati: non occupano uno spazio determinato e preciso, ma debordano, si dilatano e si contraggono. Esistono storie molto più ingombranti delle altre, che attirano su di sé la quasi totale attenzione degli studiosi e della gente: vi sono, invece, storie dimenticate, vilipese, nascoste come qualcosa di cui vergognarsi. Alcune storie, infine, vengono trattate come una brutta malattia o come un difetto fisico: si tende a camuffarle o a fingere che non siano mai avvenute. Ad esempio, in Russia, per decenni, la memoria gigantesca della ‘grande guerra patriottica’, ha, di fatto, cancellato il ricordo della prima guerra mondiale, vista come una carneficina zarista: il mito fondante del popolo russo è stato, a Nella pagina accanto: trincea italiana, sul fronte alpino (1917). Sopra: trincee sul Podgora (1915) lungo, la sua caparbia resistenza a Hitler, e a farne le spese sono stati i caduti di Gumbinnen, dei Carpazi, di Tannenberg, che sono stati rimossi dalla memoria collettiva. Lo stesso è accaduto, ad esempio, in Slovenia, dove la lotta partigiana ha intasato, con la sua ingombrante epopea, la storia contemporanea jugoslava, eclissando il ricordo dei soldati del 1914-18, come bene ha dimostrato Petra Svoljšak in un suo recente lavoro. Tutto questo è emerso molto chiaramente da un bellissimo convegno internazionale sulle origini della prima guerra mondiale, tenutosi a Gorizia, esattamente un anno fa: tutti i relatori, me compreso, hanno convenuto sul fatto che ogni storia nazionale ha al suo interno omissioni e censure, così come filoni di ricerca privilegiati ed altri del tutto negletti. In un certo senso, è la committenza politica che determina queste scelte: quasi sempre, gli studiosi si limitano ad eseguirne le indicazioni. Non è vero che la storia venga scritta sempre dai vincitori: la scrivono comunque gli storici, che, nove volte su dieci, si adeguano e si allineano alle posizioni espresse dal potere. Questo fenomeno sembrerebbe affatto peculiare delle dittature o, quantomeno, di quei regimi in cui, in maniera conclamata, nomenklatura e intelli- 36 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Da sinistra: Gabriele d’Annunzio, fra i soldati, durante la I Guerra Mondiale; soldati alpini in trincea, mentre caricano le munizioni, Nella pagina a destra: alcuni soldati italiani, durante il primo inverno (1915-1916) passato in trincea gentsija procedono a braccetto. Viceversa, anche il banale conformismo, la correttezza politica o, più semplicemente, la moda, determinano atteggiamenti di rimozione del tutto simili, presso nazioni sulla cui civiltà storiografica ci sentiremmo di garantire. L’Italia appartiene, purtroppo, proprio a questo novero: il mito ossedente della Resistenza, accompagnato dal suo corollario di miserandi interessi di bottega, ha, sostanzialmente, eclissato il centenario della prima guerra mondiale. Il settantesimo di una sconfitta ha offuscato, per non dire ridotto nell’angolo, il centenario di una vittoria: questione, come si diceva, di ingombro. E di competenze, mi parrebbe di poter postulare: in Italia prosperano da decenni istituti di ricerca senza nessuna scienza e senza alcun titolo, che, in realtà sono semplici macchine di propaganda, che si autoalimentano e si autolegittimano. Gli istituti per lo studio della Resistenza sfornano decine di ricercatori di nessuna ricerca, di accademici di nessuna accademia, cui valgono come pubblicazioni scientifiche triti centoni a matrice operaistico-partigiana: e costoro si presentano al pubblico con la presunzione dello storico vero e con l’autorevolezza dello studioso autentico, spacciando per storia la loro perenne, invasiva, ecolalica vulgata. Poiché è lecito sospettare che questi sedicenti storici nulla sappia- no di prima guerra mondiale, la loro disperatissima difesa delle posizioni di privilegio conquistate a suon di correttezza politica non può che basarsi sulla costante e sistematica diminuzione dell’importanza storica del centenario a favore del settantennale: del 24 maggio a favore del 25 aprile. Sarebbe facile dimostrare come la data dell’entrata in guerra sia, in realtà, ricorrenza ben degna di memoria: memoria coesiva, intanto e non memoria solo di alcuni, com’è nel caso della festa della Liberazione. E, come si diceva, memoria vittoriosa: ma di questa vittoria pare ci si debba vergognare. Non vi sono motivazioni esegetiche o epistemologiche, non scomodiamo la dottrina storica per quello che, in realtà, è semplice e miserando interesse particolare. Non si tratta di argomentare sulle ragioni della guerra o sugli strumenti del comando: purtroppo, qui non c’entrano le decimazioni o la cadornite, come si vorrebbe far credere. Si tratta, come sempre, di piccole cose di piccoli uomini: di privilegi personali, divenuti la fortezza Bastiani della storiografia militante. O, se preferite, della militanza tout court, giacché la storiografia è tutt’altra cosa. Naturalmente, questa operazione di cancellazione e di svilimento dei valori del 24 maggio passa attraverso iniziative assai diverse e gode del sostegno di personaggi affatto differenti: se prendiamo, a titolo luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano esemplare, la grottesca proposta di legge che vorrebbe riabilitare i disertori del regio esercito fucilati nel corso del conflitto, equiparandoli ai caduti nell’adempimento del dovere, vedremo che il partito della ‘vulgata’ è piuttosto variegato. Si parte dall’Ordinario militare, monsignor Marcianò, al Capo di Stato Maggiore, Graziano, per arrivare a deputati e senatori, come i parlamentari del PD Rubinato, Zanin, Scanu e molti altri. Vagli a spiegare che, in guerra, se non puoi contare su chi ti sta al fianco, sei già sconfitto prima di combattere. E che, come benissimo ha scritto sul «Corriere» Angelo Panebianco, mettendo sullo stesso piano chi è scappato e chi si è fatto ammazzare per difendere la Patria, si legittima lo sfacelo e si rende strutturalmente molto complicata ogni attività militare. Così, tra un film che trasferisce Zelig al fronte e un libro che ci racconta la storia dei nonni in guerra, in attesa di un ricettario delle trincee o di una serie televisiva intitolata “Centobombarde”, dobbiamo assistere allo spettacolo, triste e grottesco insieme, dell’ignoran- 37 za legiferante e dei tavoli di discussione, messi in piedi dalle pubbliche amministrazioni per il centenario del 1915, in cui di tutto si discute, tranne che della prima guerra mondiale e cui tutti partecipano, tranne gli storici. Quelli veri. Chi scrive fa parte del comitato scientifico per la valorizzazione del patrimonio storico della prima guerra mondiale della Regione Lombardia: ebbene, finora il comitato si è riunito una sola volta, giusto per eleggere presidente e vice. Per il resto, silenzio di tomba. In compenso, la gioiosa macchina da guerra del 25 aprile marcia che è una bellezza. Il che è precisamente quello che ha denunciato sulla stampa nazionale Marcello Veneziani, che fa parte del comitato presieduto da Franco Marini, che si occupa degli anniversari della storia nazionale. In altre parole, questo centenario, che avrebbe potuto diventare preziosissima occasione di studio e di riflessione, verrà fagocitato da questa elefantiaca memoria resistenziale. A tutto vantaggio dei soliti noti e a tutto scapito, come sempre, della nostra identità nazionale. 38 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 I DISERTORI DELLA GRANDE GUERRA E LE FORZE POLITICHE DELL’ANTINAZIONE Dopo la proposta di riabilitare i disertori, avanzata qualche tempo fa dal Pd, e dopo le celebrazioni in sordina per il centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra (che hanno sfiorato la dichiarazione del lutto nazionale) è giusto domandarsi perché in Italia una parte delle forze politiche si siano storicamente poste su posizioni ‘anti-nazionali’. Su questo argomento riproponiamo qui uno stralcio del saggio di Giano Accame, “Socialismo tricolore” (Milano, Editoriale Nuova, 1983). A lla sensibilità odierna la cultura che preparò ed impose l’intervento nella prima guerra mondiale appare quasi incomprensibile. Non ne accetta più non solo il prezzo di sacrifici umani, ma nemmeno gli obbiettivi. Va di moda, e con espressioni spesso letterariamente molto raffinate, persino la rivalutazione dell’impero austro-ungarico. In realtà diversi popoli che se ne liberarono oggi appaiono molto meno liberi di prima. Ma soprattutto stenta a capire come gran parte della nostra cultura abbia deliberatamente preferito conquistare con la guerra ciò che, a dar retta a Giolitti, forse si sarebbe potuto egualmente ottenere attraverso negoziati. Noi viviamo nel mito delle mediazioni, che si propongono di aggirare senza costi di sangue le contraddizioni e i drammi della storia. La propaganda fascista ha svolto con successo nella memoria colletti- va il compito di una rimozione, assorbendo su di sé il vanto di aver voluto la guerra vittoriosa. […] Il prolungamento naturale dell’interventismo nel Fascismo e nella disfatta della seconda guerra mondiale ha contribuito a rafforzare tra i socialisti la rivendicazione ancor più convinta del proprio neutralismo. Mentre la comune opposizione al Fascismo ha consentito di superare senza un adeguato approfondimento critico le incrinature aperte con quei larghi settori progressisti (repubblicani, radicali, anarcosindacalisti, nazionalliberali, socialisti eterodossi) che erano stati la vera mente dell’interventismo: il primo appello per l’intervento era venuto dal repubblicano Arcangelo Ghisleri. Sulla spinta giustificatrice dell’antifascismo in una parte della base socialista si è quindi insinuato un pericoloso processo psicologico, consistente nel farsi spesso addirittura un vanto di accuse, come quelle di diserzione, di- sfattismo, sabotaggio, solo perché mosse da avversari che la sconfitta del 1945 rendeva ormai superfluo confutare. […] L’irrigidimento nelle posizioni neutraliste, poi la loro degenerazione negli eccessi post-bellici del “biennio rosso” aspramente deplorati da Turati, venne inoltre esasperato in Italia da una polemica che, prima della nostra entrata in guerra e a differenza degli altri paesi intervenuti subito, ebbe quasi un anno di tempo per crescere in asprezza e avvelenarsi. Tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915 all’interno della sinistra italiana i rapporti si caricarono già di quei risentimenti irrazionali che più caratterizzano le liti di famiglia. Non si discuteva di tesi politiche, ma di tradimenti. La cultura italiana, nei suoi ambienti più vivi e d’avanguardia, era in grande maggioranza interventista. Il socialismo, isolato dall’intelligenza, cadde nella psicosi dell’incomprensione. Segnaliamo qui solo per rapida memoria l’interventismo di Gaetano Salvemini, che all’inizio del secolo su «Critica Sociale» aveva invece scritto contro l’irredentismo, denunciandolo come un diversivo reazionario di cui avrebbero profittato le tendenze più antidemocratiche e il militarismo. A sinistra: Giano Accame (1928-2009). Sopra: Francesco Misiano (1884-1936), ritratto nel suo studio, a Mosca. A destra: Arcangelo Ghisleri (1855-1938), ritratto in una medaglia commemorativa luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano Nel 1915 arrivò a criticare le guerre del Risorgimento perché erano costate in tutto solo poco più di seimila morti e proclamò entusiasta che «la sua prima vera, grande prova la nazionalità italianala sta dando nella guerra attuale. Qui incomincia la nuova storia». Il giovane Jahier mobilitava di rincalzo alcuni scritti bellicisti di Proudhon per giustificare, con un testo socialista alla mano da rivolgere contro i socialisti pacifisti, la partecipazione all’ecatombe. L’esaltazione della guerra come esperienza spirituale e ascetica era già stata celebrata un paio di anni prima su «La Voce» dal più brillante e moderno dei parlamentari liberali, Giovanni Amendola: «grazie a Dio, gli uomini continueranno a scannarsi piuttosto che ad incanaglirsi». La letteratura italiana, coerente con se stessa, non ha poi dato una sola opera di protesta contro la guerra, che fosse paragonabile al Fuoco di Barbusse o ad All’Ovest niente di nuovo, di Remarque. Tutt’al più c’è nel suo underground qualche poesiola della scapigliatura ottocentesca e qualche anonima canzone da osteria. Sicché in Italia si ebbe il paradosso del solo partito socialista europeo che non avesse solidarizzato con la patria in guerra, ma anche di quello che in questa posizione si trovò ad avere il minor supporto tra scrittori e artisti. Indugiando nel ricordo del proprio neutralismo il socialismo italiano si è quindi aggrappato per anni ad un episodio culturalmente poco consistente e ad una posizione che, sotto il profilo dell’impegno politico, dopo essergli costata una grave spaccatura interna con l’espulsione dell’allora direttore dell’«Avanti!», fu caratterizzata più da indecisione, inerzia, ambiguità di compromesso che non dalla larghezza o dal rigore della sue visioni. C’è poi da ricordare il caso del disertore Francesco Misiano, che destò scandalo nel periodo postbellico allorché fu eletto deputato socialista (poi passato ai comunisti con la scissione del 1921 al congresso di Livorno). L’elezione di Misiano fu accolta negli ambienti combattentistici come una provocazione grave. Da Fiume d’Annunzio invitò i suoi legionari a dargli la caccia: «Infliggetegli il castigo immediato, a ferro freddo». Pochi badarono al fatto che la sua candidatura si basava su titoli diversi da quello di disertore, avendo già alle spalle un cursus honorum di dirigente sindacale e di partito di una certa rilevanza. Indicativa della gravità del baratro che si stava spalancando è la coincidenza degli opposti per cui presso l’elettorato socialista la qualifica di disertore assunse, con segno positivo, lo stesso significato emblematico e di sfida che vi attribuiro- 39 no i combattenti. E quindi i fascisti, che cacciandolo dalla Camera interpretarono, dopo averla ancor più sovraeccitata, la loro indignazione. Così le posizioni andavano sempre più divaricandosi, con una reciproca spinta all’estremismo. Nella mitologia delle sezioni socialiste, Misiano era il prode compagno che aveva sfidato condanne per non servire “la patria di Lorsignori”; che per non dover sparare contro altri proletari era stato costretto a scappare in Svizzera; che poi dopo la guerra era andato tra i primi a portare la solidarietà ai Soviet in Russia; che aveva partecipato ai moti rivoluzionari in Germania nel 1918-19 finendovi per dieci mesi in prigione. Quindi a suo modo un combattente non privo di coraggio e di coerenza internazionalista. Il premio alla coerenza dei disertori, in un paese dove cinque milioni di uomini in armi avevano contribuito a vincere la guerra, significava però confinare il partito in un ghetto psicologico, tenendolo ancor più lontano di quanto non lo fosse già nell’anteguerra da una più matura cultura di governo. Significava anche accentuare i motivi di divisione tra le masse, scivolare sempre più nel gioco al massacro di una contrapposizione non solo tra rossi e neri, ma tra rossi e tricolori, regalando più di un argomento alla virulenta espansione fascista. (da Giano Accame, Socialismo tricolore) luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 41 inSEDICESIMO L E M O S T R E – L’ I N T E RV I S TA D E L M E S E – P O E S I A E A RT E LA MOSTRA/1 “CREPITANTE E ARRUFFATO” Serodine nel Ticino a cura di luca pietro nicoletti difficile resistere alla tentazione di guardare la pittura del Seicento con occhi moderni, con una sensibilità verso la sprezzatura pittorica e verso una sintesi delle cose che non ricorra alle categoria di segno e materia congeniali alla pittura d’azione. Ne offriva un caso lampante, fino a maggio 2015, la mostra sul Late Rembrandt tenutasi a Londra e Amsterdam: ad uno sguardo ravvicinato, con quella attenzione empirica e lenticolare con cui i pittori guardano le opere degli altri, si capiva È quanto quella pittura abbia avuto da insegnare ai pittori moderni. Ci si può chiedere allora, per esempio, quanto Francis Bacon si trovi in Rembrandt, o brani di questo o quel pittore, invertendo i ruoli di dare e avere, come se il pittore antico continuasse a piacere per quanto vi si ritrovi di moderno: la “fonte” visiva piace perché fa pensare, con magnifico anacronismo dello sguardo, ad esperienze più vicine nel tempo. Viene da fare riflessioni analoghe visitando Serodine nel Ticino, ordinata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa alla Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst di Rancate (Mendrisio). La mostra, occasionata dalla necessità di dare ricovero temporaneo alla grande pala dell’Incoronazione della Vergine, ultimo capolavoro delle breve e fulminante carriera del pittore ticinese, raduna nuovamente tutte le opere sue conservatesi nel cantone natale, la metà di quelle superstiti della sua già esigua produzione. Il catalogo della mostra stesso, che indugia con un sapiente racconto visivo in un generoso repertorio di dettagli, talvolta legittima questa lettura: basta vedere il particolare del paesaggio che si apre alle spalle di San Sebastiano della pala di Ascona, scelto come immagine guida e copertina del catalogo insieme al San Paolo della stessa tela, per apprezzare un gioco di allusioni che si proietta in avanti verso una storia fatta di ultimi naturalisti che fra la Lombardia e il Ticino (nell’area dell’antica diocesi di Sopra: Giovanni Serodine, Ritratto del padre, 1628 circa, Collezione Città di Lugano (part.) A sinistra: Giovanni Serodine, San Pietro in carcere, Olio su tela, Rancate (Mendrisio), Pinacoteca Züst 42 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Da sinistra: Giovanni Serodine, Ritratto del padre, Olio su tela, 1628 circa, Collezione Città di Lugano; Giovanni Serodine, Incoronazione della Vergine, Olio su tela, 1630, Ascona, Chiesa parrocchiale. Nella pagina accanto: Giovanni Serodine, Sacra Famiglia, Olio su tela, Ascona, Patriziato Como), nel secondo Novecento, avevano cercato di restituire con colore e materia gli umori della terra e i cieli della regione. Doveva avere in mente qualcosa del genere anche Giovanni Testori quando, nel 1987, aveva parlato di una «scrittura quasi automatica del pennello» per descrivere la pittura del San Pietro in carcere, la tela comprata da Giovanni Züst nel 1948, capolavoro della sua collezione ed ora dell’omonimo museo, che Roberto Longhi volle senza incertezze per l’importante mostra su Caravaggio a Palazzo Reale di Milano nel 1951. Era stato proprio lui, all’inizio degli anni Cinquanta, il primo ad accorgersi della statura di questo pittore, presto caduto, dopo la morte nel 1630, in un oscuro cono d’ombra a cui aveva contribuito la pesante ipoteca posta su di lui dal Baglione, che lo aveva liquidato, nella più generica antipatia per i caravaggeschi, come pittore «fantasioso», «bizzarro», ma soprattutto «con poco disegno, e con manco decoro». Eppure, aveva osservato Longhi, Giovanni Serodine era stato fra i più intelligenti interpreti della lezione di Caravaggio, il maestro mai conosciuto di persona, di cui apprende la lezione direttamente dalle opere viste a Roma -dove presto la famiglia si era trasferita dal Ticino- tornando alle origini di un modo di operare che aveva già trovato una vulgata con toni retorici e concitati. Serodine, invece, non aveva ceduto alla routine, recuperando, con modi rudi e sbrigativi, decisamente anticanonici, una compostezza e sobrietà che in Caravaggio erano state trascurate: «si avverte», fanno notare Agosti e Stoppa nel catalogo della mostra, «la volontà del pittore di non adeguarsi alla più corriva routine iconografica, luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano sottoposta a salutari scossoni». Reinvenzioni iconografiche, del resto, nel suo percorso non mancavano: lo stesso San Pietro in carcere, giustamente famoso, non si lascia ricondurre a nessun episodio noto della vita del Santo, che qui è atteggiato come un San Girolamo nello studio (e spesso lo si è confuso con un “filosofo”), seppure con una vena popolana certo non confacente a un dottore della Chiesa. Eppure quel quadro davvero, come scrisse Longhi, è ancora oggi di un romanticismo esplosivo, «come una capsula di dinamite gettata in un fornello» in cui tutto «ruota attorno alla fiamma oscillante della candela di sego che fa iride pallida nella testa e nella mano, a fibre sanguinanti, del Santo, e quasi scorteccia il tavolo, intride il muro sudicio, arrovella i fogli del libraccio e si indugia sul teschio orrendo trasponendolo in una grotta preziosa, carica di perle». Non meno disorientante, da questo punto di vista, era anche il ritratto del padre Cristoforo, oggi a Lugano, ritratto di un uomo anziano, dipinto dal figlio ventottenne, dopo una serie di lutti che avevano segnato profondamente la sfortunata famiglia dei Serodine, ma che per invenzione, scriveva Longhi, «davvero avanzava di troppo i suoi tempi. Un prodigio di verità schietta, ma vista rapidamente e a distanza; un’impaginazione anche più moderna che nei ritratti più spinti di Frans Hals o del Rembrandt, ancora da venire del resto». Eppure, i primi a capire quello che Longhi ha definito «un fare arsiccio, crepitante, rabbuffato», sono stati i pittori: non è di poco conto, per la fortuna di questo dipinto, ricordare l’amorevole dedizione con cui un pittore autenticamente lombardo come Giancarlo Ossola (1935-2015) aveva realizzato nel 1987 un d’apres grande più o meno come l’originale, in un momento cruciale nella storia personale della sua pittura. In SERODINE NEL TICINO A cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA), PINACOTECA CANTONALE GIOVANNI ZÜST 31 maggio – 4 ottobre 2015 43 Serodine egli aveva trovato una guida, un punto per ripensare la propria via verso una pittura che amava definire “contaminata” dall’Informale. Rimaneva in parte insoluto, e lo rimane tuttora, un referto di stile delle fonti a cui il giovane ticinese aveva attinto: nella storia degli studi furono fatti diversi tentativi di riconoscervi apporti dell’uno o dell’altro artista, in un giro d’orizzonte sulla fervente e intricata situazione della Roma di inizio Seicento. Ma non va dimenticato, come notano i curatori della mostra di Rancate, che «le scelte espressive di un essere umano, di genio per di più, non sono una ricetta». 44 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 LA MOSTRA/2 SERIAL/PORTABLE CLASSIC A Venezia e a Milano ensare una mostra di arte antica comporta il ricorso a una competenza complessa: è indispensabile misurarsi con la distanza nel tempo e, soprattutto, con la distorsione e il riuso che i secoli hanno fatto della categoria del “Classico”. È una storia “virtuale”, che richiede il ricordo a meccanismi concettuali inaspettatamente affini a quelli messi in campo da certe esperienze artistiche del Novecento, o meglio a certi processi mentali che taluna arte di oggi ha applicato a commento del presente. Ci si accorge infatti che la storia del classico, fuori dai termini di una “storia dell’arte classica”, è l’esempio più tangibile di come ogni società abbia proiettato la propria cultura nel modo P di guardare e restituire l’antico. Raccontare la storia di questa evoluzione chiama in causa problemi, temi e approcci diversissimi fra loro, ma capaci di rendere visibile una storia avvincente. Ci si deve soprattutto confrontare costantemente, come ricorda Salvatore Settis nella breve guida che accompagna le mostre per la Fondazione Prada nelle sedi di Venezia (Portable classic) c e Milano ((Serial Serial classic) c con lo «smisurato naufragio dell’arte antica», di cui la storiografia recente ha fatto un punto di forza del rovello filologico. Lo sta a indicare con brutale immediatezza una teca messa in apertura della mostra milanese, con frammenti di dita, mani e arti in bronzo: questo è quanto resta di integro dell’autentica scultura greca; tutto il resto che noi ne sappiamo deriva da copie più o meno fedeli eseguite per le più disparate circostanze. La storia del classico, dunque, è una storia di copie, in cui si parla di originali perduti di cui si ricostruisce virtualmente la originaria conformazione attraverso le tracce che ci lascia il passato: copie integre, riconosciute come repliche di prototipi antichi descritti dalle fonti (ma con che grado di fedeltà agli originali?), come nel caso del Discobolo di Mirone, la cui unica copia non frammentaria fu rinvenuta solo nel 1720 (oggi a Roma, Museo Pio-Clementino) e che si ritrovava anche in fantasiosi rimaneggiamenti (il torso degli Uffizi restaurato nelle forme di un e o frammenti di copie che, Endimione); una volta accostati, possono costituire una scultura verosimilmente coerente, come nel caso della scultura di atleta (probabilmente mironiana) ricostruita Da sinistra: Veduta della mostra “Portable Classic”, co-curata da Salvatore Settis e Davide Gasparotto, Sezione: “In scala: l’Ercole Farnese”, Fondazione Prada Venezia, 2015, Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada; Veduta della mostra “Serial Classic”, L’Apollo di Kassel, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada Milano, 2015, Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada 46 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Dall’alto: Veduta della mostra “Portable Classic”, co-curata da Salvatore Settis e Davide Gasparotto, Sezione: “Emulazione: imitare l’antico nel Rinascimento”, Fondazione Prada Venezia 2015; Veduta della mostra “Serial Classic”, L’atleta di Amelung, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada Milano 2015, entrambe Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada nel 1927 da Walther Amelung. Si tratta di un tema di grande fascino, la cui complessità e difficoltà narrativa non toglie smalto a quell’allure che, in tempi di rinato e ossessivo culto dell’aspetto fisico, accorda un ampio consenso al mito della Grecia classica. Salvatore Settis aveva già messo in luce tutti questi problemi nel brillante libretto sul Futuro del classico del 2004 (Einaudi), con un percorso a ritroso che dall’uso dei classici nel XXI secolo risaliva a monte alle origini del fenomeno che le due mostre rendono visibile con un percorso espositivo lineare e talvolta auto-evidente, secondo due direttrici portanti: la fortuna dei prototipi greci tramite le loro repliche antiche, con la conseguente ricaduta sull’uso di queste c e la fortuna sculture (Serial classic); degli stessi in età moderna, passando per il collezionismo di antichità e, soprattutto, per il problema delle copie in piccolo formato rispetto agli originali (Portable classic). c È un approccio che porta molti concetti moderni nello studio dell’antico: è figlio dell’età industriale, in fondo, pensare che anche in antico, prima della catena di montaggio, potesse esistere una produzione in serie; ed è una salutare desacralizzazione, al contempo, evidenziare che modelli spesso avvolti di un’aura ineffabile potessero essere, in origine, complementi da giardino. Un altro colpo inferto a quell’immagine aulica e irraggiungibile, memore della soave grandezza cantata da Winckelmann, sta nel ricordare che quella scultura di cui oggi si ama il diafano candore erano in realtà marmi vistosamente colorati, con effetti che, in ricostruzione, abbassano la percezione alla sensibilità “pop”. Resta da chiedersi, tuttavia, se davvero la scultura antica fosse colorata in maniera così pacchiana come la propongono le ricostruzioni più moderne, o se quelle tracce di pigmento superstiti sugli originali non fossero una preparazione di base per una pittura più elaborata, fatta di velature mimetiche di cui non resta più nemmeno l’ombra. Il discorso, però, si complica ulteriormente quando la replica non è più una copia fedele dell’originale, ma diventa un oggetto di scala ridotta (Portable classic). c La mostra di Venezia gioca proprio su questo, e lo rende luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 47 Dall’alto: Veduta della mostra “Portable Classic”, co-curata da Salvatore Settis e Davide Gasparotto, Sezione: “Collezionisti: l’antico in casa”, Fondazione Prada Venezia 2015; Veduta della mostra “Serial Classic”, Venere accovacciata, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada Milano 2015, entrambe Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada immediatamente visibile con un suggestivo allestimento nel portego di Ca’ Corner della regina intorno al gigantesco Ercole Farnese, per decenni una delle sculture più famose, più guardate e più studiate dagli artisti, con una fortuna che si traduce in un gran numero di copie e calchi, ma soprattutto repliche di formato contenuto, qui proposte una di fila all’altra in scala decrescente: la fama e la fortuna di un modello, in fondo, si misura sia sulla quantità sia sulla tipologia delle repliche; e nel momento in cui il monumento arriva alla misura di un gadget, seppur di lusso e di indiscussa qualità artigianale, ha raggiunto il massimo della sua possibile diffusione. Ecco quindi i modelli antichi migrare dal bronzetto rinascimentale alle ceramiche di Capodimonte del Settecento, senza dimenticare il collezionismo antiquario, che letteralmente impazziva per le copie in piccolo formato, piacevoli al tatto e tutte da godere nel chiuso degli studioli. La copia, oltretutto, non offre solo variazioni epidermiche dovute al materiale, ma porta varianti indicative delle convenzioni che il copista ha acquisito durante la sua formazione accademica. Le repliche dal Laocoonte, caso quasi da manuale di restauro virtuale e di opera con una sterminata fortuna moderna, ne sono un caso SERIAL CLASSIC MILANO, FONDAZIONE PRADA 9 maggio-24 agosto 2015 PORTABLE CLASSIC VENEZIA, FONDAZIONE PRADA 9 maggio-13 settembre 2015 A cura di Salvatore Settis http://www.fondazioneprada.org esemplare: viste di tergo più repliche, infatti, ci si rende conto che sulla groppa muscolosa del sacerdote troiano si esercitano le rimodulazioni dell’anatomia esterna, fra tensione dello sforzo e ipertrofia delle membra. Cambiando le epoche cambia il gusto, e cambia anche il modo di tradurre il classico e di declinarlo nella vita quotidiana quando il capolavoro diventa un centrotavola, il passo successivo, giunti al Novecento, aprirà la grande epopea, fuori da qualsiasi possibile aura, del kitsch. 48 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 LA MOSTRA/3 IL VIAGGIO DI PIETROGRANDE Al Diocesano di Milano arebbe semplicistico dividere la storia di Benedetto Pietrogrande, scultore veneto di nascita (classe 1928) e lombardo di adozione, in opere “sacre” e opere “profane”: che si tratti di opere destinate ai luoghi di culto o meno, infatti, si tratterebbe di una separazione di massima del suo catalogo con specifici caratteri linguistici, ma con un reciproco scambio dialettico e una sostanziale unità di ricerca. Dalle grandi narrazioni religiose all’attenzione verso i dati più feriali dell’esistenza, infatti, lo sguardo non muta e l’attenzione si posa con la stessa garbata e lieve sensibilità sui temi di storia della chiesa quanto sugli oggetti del quotidiano. A fare da elemento di unione, di fondo, è la stessa intenzione narrativa, che nelle formelle e nei monumenti destinati a chiese o istituti religiosi diventa una necessità evidente, ma che in forma più velata rimane sottotraccia anche nel lavoro che Pietrogrande realizza per se stesso. S In entrambi i casi, è indiscutibile che il suo lavoro si misura in un dialogo costante con le esperienze della scultura del suo tempo, con quanto a Milano e in Italia si stava sperimentando: non è difficile, infatti, trovare dei referenti dialettici che consentano di mettere meglio a fuoco i termini del suo lavoro e l’apporto personale a modalità operative ed espressive adottate da molti artisti nello stesso giro di anni. Si ritorna infatti alle poetiche dell’oggetto, del loro uso e riuso, nel momento in cui si incontrano le “bisacce” e i “relitti” degli anni Settanta. C’è un momento particolare, a Milano, in cui gli scultori abbandonano stecca e miretta per costruire immagini più complesse, più di struttura che di volume, assemblando oggetti preesistenti al fine di ottenere un’immagine articolata e composita. Non si trattava, tuttavia, di semplice assemblaggio, perché queste composizioni ottenute grazie al prelievo diretto di oggetti del quotidiano passavano poi attraverso la più tradizionale fusione a cera persa, che consentiva una durevolezza e un’omogeneità a materiali fragili che altrimenti non avrebbero potuto sostenere uno stadio di estrema precarietà. Al tempo stesso, questi oggetti, che fossero le foglie e i frutti di Cavaliere, i legni e i giunchi di Ghinzani e Fabbri (e, per una brevissima fase, anche di Sangregorio), i cartoni di Umberto Milani, o le bisacce di Pietrogrande appunto, acquistavano lo statuto e la dignità della scultura proprio in virtù di questa traduzione in un materiale nobile della storia della scultura, dando a questa la possibilità di uno sviluppo nello spazio secondo A sinistra: Giovanni XXIII, 1973, bronzo, (Bozzetto per il monumento di Corsico) A destra: L'ascolto, 1988, gesso luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano articolazioni altrimenti impensabili. A monte, come mostra bene il Viandante di Pietrogrande del 1967, vero e proprio ripensamento in scultura del tema della natura morta, continuava ad agire sottotraccia la lezione surrealista: proprio a partire dagli anni Sessanta, anzi, in Italia si era cominciato a scoprire nella sua interezza la parabola artistica di Giacometti. A quel punto, però, si poneva un bivio: data una certa modalità operativa, stava allo scultore decidere se farne un totem o una stele, oppure mettere insieme questi elementi per costruire un racconto (o, meglio ancora, alludere a un possibile racconto). Pietrogrande sceglie senza indugio questa seconda opzione, e diventa più chiaro in un momento immediatamente successivo con il tema delle “valigie” e il ciclo dedicato allo Sfratto: il racconto si compone attraverso oggetti abbandonati, che l’artista ora ha ricostruito per via di modellato o per assemblaggio di materiali poveri, ma con un’attenzione che si concentra sul valore plastico delle cose nella loro frugale, spoglia sobrietà e nel loro stato di abbandono. Lo mettono bene in luce i due saggi che introducono il catalogo della mostra antologica presso il Museo Diocesano di Milano (Scalpendi editore). Nel suo lavoro è BENEDETTO PIETROGRANDE. IN VIAGGIO A cura di Paolo Biscottini MILANO, MUSEO DIOCESANO www.museodiocesano.it 29 maggio - 30 agosto 2015 costante, come osserva Elisabetta Mero, l’intento di «rendere lirici e monumentali oggetti poveri e di uso comune»; al contempo, annota Paolo Biscottini, «anche la scultura più piccola esprime la grandezza della speranza e la percezione dell’uomo di sentirsi umile in mezzo agli altri». In un certo senso, si è tentati di pensare che Pietrogrande abbia bloccato nel bronzo, con il suo racconto, il tema del provvisorio e del transitorio. Era giocoforza, a questo punto, che lo stesso spirito rifluisse nella sua produzione di tema prettamente religioso. Qui, la via della modernità aveva radici più antiche in un modo di intendere la figura per sintesi di volumi: le figure diventano forme 49 massicce, chiuse dentro paramenti monolitici e dai profili evidenti, come a tradurre in termini narrativi l’indagine puramente formale e linguistica postcubista. Ne è una conseguenza diretta, quindi, che sarebbe nato un racconto sincopato, fatto da una costellazione di figure a rilievo fluttuanti, in aggetto rispetto al fondo ma pronte ad esserne nuovamente immerse: Pietrogrande non scelse né la via del bassorilievo disegnato di Manzù, né quella più didascalica, dal modellato un po’ franto ma sostanzialmente illustrativo, di Manfrini o Minguzzi. E non rinunciava mai, in qualsiasi contesto, al tono dimesso, ma soave, della poesia. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 LA MOSTRA/4 NOMADISMO DI RENZO FERRARI Antologia a Lugano a storia artistica di Renzo Ferrari mostra una traiettoria irrequieta e ascendente: fino agli esiti più maturi e cronologicamente più vicini nel tempo, egli ha mostrato uno slancio di rinnovamento linguistico di rara vitalità. Senza sedersi su formule fortunate e consolidate, Ferrari ha mantenuto costante ed accesa una tensione espressiva ed emotiva ricettiva, che si riversa sull’osservatore come una salutare scarica elettrica, all’urgenza del presente, in un discorso serrato e senza sbavature che mostra un direttrice sicura verso un’apoteosi finale. Ne rende conto con ampiezza la bellissima retrospettiva curata con sensibile intelligenza da Antonia Nessi L e Cristina Sonderegger e transitata da Neuchâtel a Lugano. L’ampia ma curata selezione di opere in mostra ne restituisce un percorso di grande levatura, meritevole di ulteriori riflessioni, cruciale per capire un certo modo di intendere la pittura, in Lombardia, nel secondo dopoguerra. Nativo di Cadro, frazione satellite di Lugano, la formazione di Ferrari avviene a Milano, ma con un bagaglio di cultura nordica inedita per i giovani che studiavano nel capoluogo lombardo negli anni Cinquanta: insolita, in quel contesto, anche la decisione di diplomarsi con una tesi dedicata all’opera incisorea di Ensor, a cui certo non andavano i maggiori consensi fra i suoi coetanei. Eppure, già questa scelta dichiarava l’attrazione del pittore per il grottesco e per la caricatura, per la sgrammaticatura voluta ed espressivamente eloquente, per un modo tagliente di aggredire la realtà privo di compiacimenti formali. Da sempre, infatti, Renzo Ferrari è un insofferente, e fin dai tempi degli studi, dice in un’intervista ad Antonia Nessi in catalogo, era stato alla ricerca di un «antidoto alla noia dell’Accademia». Di certo gli stimoli esterni non mancavano, in una stagione in cui anche la cultura italiana stava scoprendo, in rapida sequenza, Fautrier, Dubuffet, Bacon e Sutherland, con un’irruenza a cui bisognava tenere testa per non farsi travolgere da eccessi di emulazione. Ferrari è di quelli che hanno saputo fare un uso intelligente delle loro fonti, e con una personalità sufficientemente marcata da farle rifluire in un’inedita indagine visiva. Fin da subito, per lui questo significa muoversi in parallelo nella pittura e nell’arte a stampa, diventando subito, come osserva Rainer Michael Mason nel saggio sull’opera incisa, un «incisore febbrile» In alto: Renzo Ferrari, Notturno d’Italia, 2001-2002. A sinistra: Renzo Ferrari, A Occidente, 1990 giochipreziosi.it UN MONDO DI DIVERTIMENTO! GRUPPO GR UPPO O GIOCHI GIOCHI PREZIOSI 52 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 A sinistra: Renzo Ferrari, Gaio nell’erba, 1975 che preferisce il «fa presto» ai tempi lunghi e meditativi della calcografia tradizionale, secondo una lezione che, a parer suo (ed è il primo a dirlo), chiama in causa l’esempio di Asger Jorn. L’immaginario di Ferrari, tuttavia, ha una dimensione urbana assente nella generazione precedente: per lui il quadro non è solo registro di uno stato emotivo, né isola la figura per RENZO FERRARI. VISIONI NOMADI A cura di Antonia Nessi e Cristina Sondereggher LUGANO (SVIZZERA) MUSEO CANTONALE D’ARTE www.museo-cantonale-arte.ch 16 maggio – 2 agosto 2015 restituirne il graffiante dramma esistenziale. All’interno del quadro, anzi, sembra voler entrare, in un nuovo horror vacui, tutto il mondo circostante. Il più delle volte, specialmente nei tempi più recenti, il quadro si risolve quindi in superficie: è un racconto che sta sul piano della tela, con un affastellamento visionario di piani narrativi. Giustamente Véronique Mauron parla in catalogo di “straripamento spaziale”, di una giustapposizione di «entità spaziali autonome», il cui elemento dominante è la chiusura: Ferrari costruisce immagini su più livelli, delimita gli spazi all’interno del campo e li sovrappone come degli schermi che proiettano su vicende irrelate e simultanee, ma concettualmente associate, tenendo conto, come osserva sempre la Mauron, della coesistenza di più fondi che portano a intendere lo spazio come «minaccia di fagocitazione». Tutto questo, per Ferrari, era una diretta conseguenza di una presa diretta sul presente, un presente “nomade”, come suggerisce il titolo della mostra, fatto di migrazioni e difficili integrazioni culturali: soltanto un linguaggio aperto a un nuovo primitivismo, che porta nei modi dell’informale un tono psichedelico ed antinaturalistico, fatto di scritte e associazioni di immagini, poteva rendere conto di questo cambiamento. Il mondo globale, con le sue macchine, è molto più vicino di un tempo. luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano ella ricorrenza del centenario della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria si è inaugurata a Cagli (Pu), nel palazzo Berardi Mochi-Zamperoli, una ricca mostra documentaria dal titolo “La Grande guerra. Devastazioni e difesa del patrimonio artistico” che rimarrà aperta fino al 19 luglio 2015. A Stefano Orazi, curatore della mostra e del pregevole catalogo, abbiamo chiesto: N Cosa potrà ammirare il visitatore? La mostra, organizzata d’intesa con la Prefettura di Pesaro e Urbino e con il Comune di Cagli in occasione del centenario dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, riguarda un aspetto sostanzialmente ancora poco noto. Attraverso 140 immagini fotografiche dell’epoca provenienti da varie fonti (dal Reparto fotografico del Regio Esercito italiano al Reparto fotocinematrografico dell’Esercito 53 L’INTERVISTA DEL MESE LA GRANDE GUERRA IN MOSTRA A Cagli una esposizione sulle devastazioni belliche e sulla difesa del patrimonio artistico durante gli anni 1915-1918 Sopra: Gorizia, La chiesa di Sant’Andrea dopo i bombardamenti (1916). In basso a sinistra: Venezia, Palazzo Ducale, Protezione del camino dell’appartamento del Doge (1916). Comitato di Pesaro-Urbino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Comune di Cagli LA GRANDE GUERRA DEVASTAZIONI E DIFESA DEL PATRIMONIO ARTISTICO PALAZZO BERARDI-MOCHIZAMPEROLI 22 maggio - 19 luglio 2015 ORARI venerdì e sabato: 17-20 domenica 10-13 e 17-20 Ingresso libero 54 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Sopra da sinistra: Possagno (Treviso), La Gipsoteca del Canova dopo il bombardamento (1916); Ancona, Protezione dell’Arco di Traiano (1916). A destra: Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Senato, Lavori di protezione alle opere d’arte (1916) Austro-Ungarico) vengono documentati sia gli effetti devastanti della Prima guerra mondiale - morti, distruzioni, case crollate, ponti abbattuti, chiese sventrate - sia le varie fasi di protezione delle opere d’arte dai possibili danneggiamenti del conflitto. Lungo il percorso espositivo si possono persino ammirare alcune opere originali di artisti marchigiani provenienti da collezioni private: dai disegni di Anselmo Bucci ai bozzetti di Arturo Gatti, oltre a lettere e oggetti appartenuti all’eroe cagliese Franco Michelini-Tocci, insignito della medaglia d’oro al valor militare. Questa mostra, tra l’altro premiata con la Medaglia del Presidente della Repubblica, trasmette quel senso di appartenenza che negli ultimi tempi sembra essere STEFANO ORAZI Stefano Orazi, membro del Consiglio di Presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, è autore di numerose monografie, fra le quali: Angelo Celli (1857-1914); Paolo Cappa (1888-1956); «Viva il Re, abbasso il Re». Vicende giudiziarie di repubblicani, anarchici e socialisti (1865-1899) nonché di molti articoli legati alla storia politica e sociale dell’Italia tra ‘800 e ‘900. andato smarrito. Cosa ne pensa? Purtroppo l’affievolirsi del sentimento di identità nazionale è un tratto negativo della nostra società. È indubbio infatti che esso, da tanti italiani avvertito fino al secondo dopoguerra, è stato fortemente messo in discussione negli anni ‘70 del secolo scorso dall’allora cultura dominante della sinistra di ispirazione marxista. Ora il ridimensionamento dell’identità nazionale ha tutt’altra valenza, localistica e decostruttiva, spesso incapace di intendere i profondi valori tramandatici dal Risorgimento e rinsaldati nel corso della Grande guerra. Una cosa che francamente non può non dispiacere e disorientare chi in essi è cresciuto e ha creduto. Di qui la necessità di riproporre alle giovani generazioni testimonianze che possono sembrare lontane, ma che fanno parte della nostra vicinissima storia, utili dunque per comprendere in che misura la vita di oggi sia legata alle vicende e ai sacrifici di quegli anni, altrettanto necessarie per recuperare la nostra memoria in un Paese ancora privo di una identità collettiva condivisa. luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 POESIA E ARTE UNA RIFLESSIONE SULL’INEVITABILE In mostra ad Alessandria le tele di Alessandro Ceni ettore bonessio di terzet olmar. Polittico di Isenheim. Vendono bellissimi fiori falsi. Case a graticcio. Come a inchiodare i muri altrimenti scapperebbero. Terra di confine. Terra contesa. Terra nera. Terra rossastra. Profumo d’aria calda marcita. Pochi alberi stentano. Lontano la città. La gente che va, la gente che viene. Pochi sostano. Pochi pensano, forse per la calca, il caldo, i souvenirs, i gadgets, i ricordini, gli spintoni, le urla, il tanfo, la confusione, i vicoli... Le strade sono polvere. Tutto è polvere e roccia. Legno e latta. Lattine di cola. Puzza di cuoio e piedi, gomma e cotone. Possiamo essere ovunque. Adesso siamo qui in queste bianche sale coi muri spessi, grate alle finestre. Si espone, ci esponiamo. Denti e tronchi, mandibole e ossicini. Se si dipinge/se si poeta non si può fare a meno di usare materiali per rendere visibile l’invisibile e personale idea che l’artistapoeta possiede. Dobbiamo ancora partire dal discorso kandiskiano e non perché Ceni sia sulla sua linea formale, quanto perché, come in tutti i grandi C Alessandro Ceni, Doppio osso, 2001-03, tecnica mista artistipoeti, è presente la lotta se non lo scontro eracliteo tra la sensibilità (il visibile) e l’intelligenza (l’invisibile). Picasso sapeva che nel ritratto di Dora Maar evocante non era la somiglianza o verosimiglianza (di penoso ricordo manzoniano) ma quanto egli sarebbe riuscito a dire a dare fuori di quello che sentiva dentro. L’equilibrio invocato da Nietzsche. Matisse rafforza questa posizione quando presenta una figura all’interno di una stanza dinanzi ad un balcone che apre all’esterno, l’azzurro del mare del cielo. de Staël finge di “rappresentare” la Sicilia o Agrigento, invero ci offre l’intimo sentimento unitario – mente e cuore – che si agita in lui, ci dona il suo più intimo pensiero e giudizio di una cultura di una civiltà, attraverso la sineddoche: Offrire donare è correlativo soggettivoggettivo del contemplare; un’opera d’artepoesia non si può che contemplare. occorre un duro e piacevole spaziotempo di meditazione per capire il significato centrale che l’autore ha voluto consegnare al mondo, frammisto a molteplici altri significati che accontenteranno gli ermeneuti. Attenti alla centralità, al centro, direbbe Panofsky. Abbiamo detto sineddoche ovvero simbolo. Qualche critico ha negato che si possa parlare di simbolismi per l’opera di Ceni in quanto essa stessa sarebbe una icona; l’opera di Ceni è simbolo di se stessa ovvero sarebbe l’archetipo di una sacralità. Ma Ceni è un artistapoeta 56 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Da sinistra: Sedia d'ombra, 1995, tecnica mista; Sgabello, 2000-2002, tecnica mista intelligente, complesso (non complicato) e per noi i suoi segni parola, i suoi coloriparola sono i simboli dell’unità tra interno ed esterno, tra quel dentro e fuori di cui si parlava, unità inevitabile che è l’epifania dell’artisticopoetico. È inevitabile che Ceni ponendo i segni come li pone, definendo e togliendo prospettive e speranze di comprensione, mai giocando con la mano o la mente, obblighi ad un cammino di trasformazione dell’Ego in Io, alla sua scarnificazione sino alla ALESSANDRO CENI. LA RICERCA DELL’INEVITABILE ILBOSCOBLU/ILCOBOLD via Ghilini, 36 – Alessandria 4 giugno - 25 luglio INGRESSO LIBERO “berrymaniana crocifissione” perché il contemplante il meditante trovi questa unità, piccola voce divina. Verità: non vero che è un concetto storico che permette, oltre ogni opera d’artistapoeta, l’avvicinamento allo spaziotempo, al divino, all’eterno. Ceni è all’interno di questa dimensione spirituale, e accetta, con Auden, con ancor maggiore rigore e costanza, che l’artepoesia deve donare piacere, essere utile al rinnovamento delle coscienze, al nostro mantenerci liberi quindi responsabili. Divini, come eravamo, nello spaziotempo della Poesia. 58 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Il libro del mese Affascinanti itinerari nel pensiero di Tradizione L’Origine o il sempre possibile GIOVANNI SESSA L’ intento che muove le pagine di Itinerari nel pensiero di Tradizione è da individuarsi nel tentativo di trovare delle uscite di sicurezza che consentano all’uomo contemporaneo di lasciarsi alle spalle il senso di impotenza e di soggezione psicologica nei confronti della ideocrazia che sostiene gli esiti politico-sociali della Forma-Capitale contemporanea, quella della governance. I saggi che compongono il volume si rivolgono a quanti si pongono in posizione critica rispetto allo stato attuale delle cose. Inutile dire che trattandosi di Itinerari nel pensiero di Tradizione, il carattere che maggiormente connotata il testo è quello della viaticità: ciò evidenzia un’adesione alla constatazione heideggeriana relativa all’impossibilità di costruire, nella fase attuale, un sistema di pensiero. L’ultimo lascito del pensatore svevo, infatti, è un invito a produrre: “Itinerari non opere”. L’attuale contingenza storica, ha determinato lacerazioni e una progressiva atomizzazione nelle stesse aree intellettuali che si dicono oppositive al sistema. La malattia che a parole sostengono di aver diagnosticato, inGiovanni Sessa, “Itinerari nel pensiero di Tradizione. L’Origine o il sempre possibile”, Chieti, Solfanelli, 2015, pp. 168, 15 euro dotta dai germi dell’ economicismo utilitarista e globalizzante, che avrebbero dovuto tentare di lenire, in realtà svolge ormai un ruolo destrutturante al loro interno. Mancano, per dare risposte forti, riferimenti ideali sui quali costruire un Grande Progetto di cambiamento socio-politico. Mentre liberal-democratici e social-democratici si alternano sterilmente alla guida dei paesi d’Europa, sensibili alle intimazioni della finanza transnazionale, espropriatrice di libertà e tradizioni, i neo-marxisti hanno acquisito un timore atavico a pronunciare la parola magica che, dal lontano 1848, lanciarono dalle barricate: Rivoluzione. Assorbiti, non solo politicamente ma esistenzialmente dal sistema, a causa della sparizione della stessa realtà “psicologica” delle classi, i neo-marxisti restano in attesa del grande cambiamento prodotto dal capitalismo cognitivo delle nuove tecnologie. Per non parlare della crisi della principale autorità spirituale d’Occidente, la luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 59 Ulisse legato all'albero maestro della nave ascolta il canto delle sirene (mosaico antico, IV secolo) Chiesa cattolica. Negli ultimi anni è venuta meno la speranza di rievangelizzare il continente europeo, è fallito il progetto catecontico di Papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Gli occidentali vivono il nichilismo, il relativismo etico, in termini di definitiva Dimora. I filosofi francofortesi, individuando in Odisseo-Ulisse e nel suo incontro con le Sirene, il paradigma della cultura occidentale: avevano colto nel segno. Nel mondo dove Dio è morto e ogni merce è fruibile anche dalle masse dei diseredati, ogni desiderio potrebbe venir soddisfatto. Così non è, perché l’ottica produttivistica, domina dall’interno il Capitalista-Odisseo, il quale pur avendo la possibilità di corrispondere al richiamo ludico del canto delle Sirene, si fa legare all’albero maestro della nave dopo aver, con la cera, tappato le orecchie ai Marinai-Operai. La dimensione pulsionale-creativa, rituale e libera, è stata estromessa dal mondo moderno e l’episodio dell’Odissea ora richiamato, lo esemplifica. Sappia il lettore, nonostante ciò, che in Itinerari nel pensiero di Tradizione egli non troverà alcun richiamo alla rivoluzione sessuale, alcuna valorizzazione del primitivismo di matrice freudiana. Chi scrive è ben cosciente dei limiti che la critica sociale francofortese ha in sé. Per cui il riferimento ad un uomo non dimidiato ed ad un mondo Altro ed Alto, muove in noi dal pensiero di Tradizione. Generalmente, si tende ad usare l’espressione “tradizionalismo integrale” per designare quegli autori che nel Novecento si sono fatti latori della prospettiva 60 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 Sopra da sinistra: Cesare Viazzi (1857-1943), Le sirene in attesa di Ulisse (1901), collezione privata; Theodor van Thulden (1606-1669), Ulisse affronta le Sirene e passa lo stretto di Scilla e Cariddi, da “Les Travaux d’Ulysse”, 1633. A sinistra: busti ed erme di filosofi classici, esposti in una sala della Gliptoteca di Monaco di Baviera che qui, in alcuni suoi aspetti, indaghiamo. Autori inattuali e critici nei confronti di ogni tratto della realtà presente, da quello antropologico, all’esistenziale, al politico. La loro alternativa è totalizzante. La definizione pensiero di Tradizione, che noi utilizziamo, rimarca come tale corrente speculativa si sia sviluppata in un colloquio essenziale con la filosofia ottocentesca e novecentesca. Ciò consente di presentare i valori di Tradizione al di fuori di qualsiasi esegesi letteralista, dogmatica ed escludente. Anzi, i cinque saggi che compongono questa raccolta mirano a leggere la Tradizione in termini dinamici, fondandola su una concezione della temporalità non semplicemente ciclica, ma sferica. Solo tale visione consente di liberare l’idea di Tradizione da quella di Passato. La Tradizione, in quanto Origine, non è semplicemente posta alle nostre spalle. In tale prospettiva di collocazione retro-attiva, in qualche modo, decade l’aspetto essenziale dell’Arché. Essa non è l’Inizio, ciò che era prima, ma qualcosa che continua a vigere, ad essere presente, testimoniato nella storia. Come il lettore avrà modo di constatare, niente è più lontano da questa esegesi del dato tradizionale, delle posizioni meramente contemplative, fideistiche e ripetitive di certo tradizionalismo di matrice guénoniana o cattolica. La Tradizione in quanto Origine è, per noi, come recita il sottotitolo del volume, il sempre possibile, tesi che permette di porsi oltre qualsiasi deriva teorica necessitarista e incapacitante. 62 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 63 Bibliofilia Una straordinaria edizione bresciana ritrovata Falabacchio e Chattabrigha giganti, alias Morgante XXIV GIANCARLO PETRELLA A nche i libri rischiano di estinguersi. L’attenzione loro riservata dalla censura o, al contrario, l’eccessivo successo, con conseguente avida lettura e passaggi di mano in mano, possono provocare il lento e inesorabile consumo di tutte le copie stampate. Così è accaduto per un buon numero di edizioni del nostro Rinascimento. Libri che sappiamo furono effettivamente stampati, commercializzati, infine letti, ma di cui oggi non sopravvive che una citazione in qualche repertorio bibliografico. È il caso, per fare uno degli esempi più eclatanti, dell’Orlando innamorato di Boiardo, la cui prima edizione completa stampata a Scandiano nel 1495 è andata completamente distrutta. Non è però infrequente che i liNella pagina accanto: Le battaglie che fece la regina Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549, frontespizio. Sopra: Parmigianino (1503-1540), Antea (1530 ca.), Napoli, Museo di Capodimonte bri, come i fiumi della tradizione carsica, tornino a riaffiorare in superficie e il mercato antiquario restituisca l’unica copia di un’edizione che si credeva altrimenti perduta. Se ne è offerto un clamoroso esempio nel fascicolo precedente di questa rivista con l’incunabolo bresciano stampato da Battista Farfengo La venuta del re di Franza. Mentre quel fascicolo andava in stampa, per una curiosa coincidenza, ho ricevuto l’informazione che era appena riaffiorata un’altra rarissima edizione bresciana illustrata di argomento cavalleresco (di quelle che tanto piacquero a bibliofili del calibro di Giuseppe Cavalieri, Essling, Fairfax Murray, Giannalisa Feltrinelli, per fare qualche nome) di cui già mi ero occupato anni addietro. Così il lettore, anche su questo fascicolo, avrà a che fare con un libro che si credeva perduto e di cui, lo dico subito, non si conservano ufficialmente copie in biblioteche pubbliche italiane né tantomeno straniere. L’oggetto dei desideri è un poemetto cavalleresco stampato a Brescia dall’officina Turlini nel 1549, dal titolo Le battaglie che fece la regina Antea. Sembravano essersene perse le tracce dopo la precoce registrazione fattane dal bibliofilo Gaetano Melzi, tramite una copia in suo possesso, a inizio Ottocento.1 Dalla Bibliografia cavalleresca melziana la notizia era discesa, un secolo dopo, al repertorio di libri illustrati compilato da Max Sander che, pur avvertendo della presenza 64 dell’edizione in due distinti cataloghi antiquari primo novecenteschi, a quell’altezza non era però già più in grado di segnalare alcun esemplare in biblioteche pubbliche o collezioni private.2 Ancora alla duplice citazione bibliografica Melzi-Sander (che si riduce poi, come detto, al solo Melzi) si sono attenuti, in tempi più recenti, Ennio Sandal nel repertorio delle edizioni bresciane del Cinquecento e Neil Harris, il quale colloca la stampa bresciana a conclusione dell’elenco cronologico di edizioni quattro-cinquecentesche de La regina Antea.3 Sul versante delle bibliografie on line, Edit16, cui l’edizione è nota solo tramite i repertori bibliografici citati, non censisce alcun esemplare nelle biblioteche che aderiscono al progetto.4 L’edizione, ne converrete, è dunque, come si di- la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 ce in questi casi, rarissima. All’improvviso però, l’inaspettata comparsa sul mercato antiquario francese e italiano addirittura di due copie distinte.5 La prima, che ha fatto una fugace comparsa nel catalogo Figure rinascimentali del Comico della Libreria Chartaphilus del 2007, presentava modesta legatura novecentesca in mezza pelle marrone e cartoncino, probabilmente non italiana e peraltro incompatibile col più raffinato gusto collezionistico otto-novecentesco. La seconda copia transitata sul mercato francese (dapprima nel catalogo 91 di Pierre Berès Poésie ancienne. Suite, Paris, 2000, n. 18, poi, dopo l’incanto della collezione Berès, in quello Cent livres illustrés. Art & technique della Libreria Paul Jammes), ostentava invece legatura ottocentesca in pergamena avo- rio con tassello in marocchino avana al dorso e un pedigree di tutto rispetto che rimanda esplicitamente alla collezione del pittore Charles Faifarx Murray e all’antiquario Giuseppe Martini. Proprio questa copia, nella quale va verisimilmente identificato, a distanza di quasi due secoli, l’esemplare già di Gaetano Melzi, è infine ricomparsa (ma per poco, prima di far perdere ancora le tracce nei rivoli del collezionismo privato) presso la rinomata Libreria Il Polifilo di Milano. Morale: l’edizione non è affatto andata distrutta. Ne esistono ancora due esemplari (i superstiti di una tiratura approssimativa di almeno alcune centinaia di copie), ma ancora una volta il collezionismo privato è stato più tempestivo. Dalle vicende collezionistiche passiamo ora alla questione editoriale e bibliografica. Ciò costringe ad arretrare fino al primo secolo della stampa tipografica. La tradizione rimonta infatti a un’edizione fiorentina sine notis e priva di illustrazioni, ma ancora incunabola, che proponeva all’ignaro lettore l’intero canto XXIV del Morgante occultato sotto il titolo, allettante come quello di un cartoon moderno, di Falabacchio e Chattabrigha giganti (il nome della regina Antea compariva invece all’explicit «Finita e la guerra di parigi fatta da Antea Reina di babbillona»): [Firenze, Lorenzo Morgiani e Johannes Petri, c. 1495], in 4°, got., cc. [12], luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 65 A destra: Le battaglie che fece la regina Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549, cc. A4v-B1r. Nella pagina accanto: Agnolo Bronzino (1503-1572), Doppio ritratto di Braccio di Bartolo, soprannominato Morgante (1553), celebre nano di corte di Cosimo I de’ Medici (Firenze, Galleria degli Uffizi). L’ironico soprannome si ispirava al gigante Morgante fasc. a8 b4, testo su due colonne.6 Ne sopravvivono due soli esemplari, rispettivamente presso la British Library e la Marciana di Venezia. Il nuovo poemetto di ascendenza pulciana così confezionato pare incontrasse il gusto dei lettori, come attestano sia il manipolo di edizioni cinquecentesche discese dalla supposta princeps fiorentina, sia alcune tarde edizioni secentesche che bene testimoniano di una fortuna a lungo termine: l’ennesimo longseller di un Rinascimento editoriale di secondo piano. Melzi registra un’edizione piacentina del 1599 per i tipi del modesto libraio-tipografo Giovanni Bazachi e due edizioni del XVII secolo, la seconda delle quali Treviso, Girolamo Righettini, 1672.7 Fu la bottega veneziana dei Sessa, almeno stante alle edizioni sopravvissute, a replicare lontano da Firenze il recente prodotto dell’editoria fiorentina. A una precoce edizione del 1503 a firma di Giovan Battista Sessa, malauguratamen- te scomparsa e a noi nota solo dall’elenco di romanzi cavallereschi stilato da Marin Sanudo,8 risponde un’edizione sine anno del figlio Melchiorre che sopravvive nell’unicum della Fondazione Giorgio Cini di Venezia già appartenuto al principe Essling (in 4°, rom., cc. [12], fasc. a-c4, testo su due coll., silografie alle cc. a1r, a2r, 18 piccole vignette a testo).9 L’edizione sottoscritta ma non datata da Melchiorre Sessa (probabile ristampa dell’edizione paterna) si uniforma alle scelte bibliologiche fiorentine (formato in quarto, testo disposto su due colonne per un totale di 12 carte), ma preferisce all’attardato carattere gotico impiegato dal Petri un più attuale romano e soprattutto introduce ex novo l’elemento figurativo che doveva risultare probabilmente decisivo ai fini commerciali. Se ha ragione Alice nel lamentare lo scarso appeal di un libro senza figure, come allet- tare dunque il pubblico? Al frontespizio, au dessous du titre, fu introdotta una silografia raffigurante una donna guerriera a cavallo con scimitarra, nella quale il lettore era chiamato a riconoscere l’eroina eponima, che atterra un avversario di sesso maschile. Al recto della seconda carta ricorse a un’illustrazione più generica nel contenuto, che raffigura, in primo piano, un drappello di cavalieri e sullo sfondo un accampamento militare e una scena di assedio a una città fortificata identificabile, tramite un cartiglio, in Roma. A testo furono infine impiegate diciotto piccole vignette (alcune delle quali però ripetute) della giustezza di un’ottava assai grossolane, riconducibili a un’unica serie di argomento bellico-cavalleresco. L’assenza di data al colophon, considerata la lunga attività di Melchiorre nella duplice veste di editore e tipografo, protrattasi in prima persona 66 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 dal 1506 almeno sino alla metà degli anni Cinquanta, impedisce di datare con sicurezza l’edizione. Potrebbero perciò essere persino anteriori a questa le uniche altre due stampe veneziane note, ossia l’edizione di Giovanni Tacuino datata 1518 segnalata da Carlo Enrico Rava tramite un esemplare, ora irreperibile, transitato sul mercato antiquario negli anni Venti del secolo scorso10 e quella sottoscritta da Bernardino Viani nel 1526 giuntaci nell’unicum della Universitätsbibliothek di Monaco.11 Entrambe confermano la necessità intravista da Giovanni Battista Sessa di intercalare alle circa 170 ottave una decina di piccole vignette che alleggerissero la lettura, oltre a una vignetta al frontespizio che introducesse all’argomento invogliandone l’acquisto. Il Viani, forse perché sprovvistone e nell’impossibilità di procurarsela, sostituì al frontespizio la silografia raffigurante la regina guerriera con una silografia di seconda mano, vagamente allusiva alla protagonista del poemetto, raffigurante una donna NOTE 1 GAETANO MELZI, Bibliografia dei romanzi cavallereschi italiani, Milano, P. A. Tosi, 1838, n° 515; GAETANO MELZI – PAOLO A. TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani, Milano, G. Daelli, 1865, p. 19. Sulla collezione di Gaetano Melzi si veda FLAVIA CRISTIANO, La Biblioteca seduta con un’asta in pugno. Un cartiglio al margine superiore, all’interno del quale è inserita a caratteri mobili l’indicazione «Anthea regina», attesta al contempo la volontà di indirizzare il lettore alla corretta comprensione di un’illustrazione palesemente di riuso. Non così invece alla carta successiva (c. A2r), dove, in corrispondenza dell’incipit «Incomincia el libro della regina Anthea», è introdotta una vignetta con monogramma ‘F’ raffigurante un re assiso in trono sotto una tenda aperta con un cane ai piedi, circondato da armigeri e cortigiani, uno dei quali inginocchiato. A testo il Viani introdusse il consueto repertorio di modeste vignette di soggetto cavalleresco (talune ripetute), ad eccezione di una silografia di maggiori dimensioni e più delicata fattura a c. A4v raffigurante un re che stringe la mano a un cavaliere, accompagnata dalla didascalia esplicativa a caratteri mobili «Carlo Magno di Pipino Imperetore». Nel frattempo anche a Firenze gli editori non avevano rinunciato a riproporre l’estratto pulciano nei loro cataloghi. A non troppa distanza dalla princeps incunabola il poemetto è riproposto, ancora con il titolo originario di Falabacchio e Chattabrigha giganti, da una stampa primo cinquecentesca assegnabile a Piero Pacini per la presenza della sua marca tipografica all’ultima carta.12 L’unica copia a noi nota, ora alla Colombina di Siviglia, fu acquistata a Roma nel settembre 1515 da Hernán Colón (14881539) sul consueto mercato dei remainders.13 L’edizione confezionata dal Pacini si distingue per il delicato corredo iconografico, composto da 12 silografie che già aveva in bottega e proficuamente impiegato in coeve edizioni di argomento simile, fra cui, ovviamente, la raffinata edizione del Morgante maggiore sottoscritta il 22 gennaio 1501. Al capitolo XXIV del Morgante 1501 si riscontrano infatti tutte le silografie poi impiegate anche nel poemetto di ascendenza pulciana. L’acquirente dell’opuscoletto smerciato col titolo di Falabacchio e Chattabrigha, forse a sua insaputa, si trovava perciò a comprare di Gaetano Melzi, ovvero una storia esemplare, «Bibliotheca», II, 2003, 1, pp. 57-83. 2 MAX SANDER, Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu’à 1530, Milan, Hoepli, 1942, n° 418. 3 ENNIO SANDAL, Dal libro antico al libro moderno. Premesse e materiali per una indagine, Brescia 1472-1550: una verifica esemplare, in I primordi della stampa a Brescia 1472-1511. Atti del Convegno internazionale (Brescia, 6-8 giugno 1984), a cura di Ennio Sandal, Padova, Antenore, 1986, pp. 227-307: 289 n° 353; ENNIO SANDAL, La stampa a Brescia nel Cinquecento. Notizie storiche e annali tipografici: 1501-1553, Baden-Baden, V. Koerner, luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano 67 Sopra da sinistra: Le battaglie che fece la regina Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549, c. A2r; Libro chiamato Fortunato figliuolo de Passamonte, Brescia, D. Turlini, 1549, frontespizio un capitolo del precedente Morgante istoriato che avrebbe potuto anche già possedere. A meno che non valga invece il contrario, ossia che il prodotto così confezionato, per così dire estratto dall’opera maggiore, fosse rivolto a 1999, n° 269; NEIL HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, «La Bibliofilia», XCVI, 1994, pp. 15-42: 30 n° B-182. 4 EDIT16 on line CNCE 57667. 5 Figure rinascimentali del Comico, Milano, Libreria Chartaphilus, 2007, n° 29; Cent livres illustrés. Art & technique, Paris, Librairie Paul Jammes, 2009, n° 16. coloro che non potevano affrontare la spesa per l’intero Morgante 1501. Ma veniamo ora infine alla stampa sottoscritta da Damiano Turlini il 2 aprile 1549 di recente riapparsa. L’esile stampa colpisce 6 G. MELZI, Bibliografia dei romanzi cavallereschi, n° 514; G. MELZI – P. A. TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria, p. 19; SANDER n° 417; DENNIS E. RHODES, Gli annali tipografici fiorentini del XV secolo, Firenze, L. S. Olschki, 1988, n° 287 registra l’edizione sotto il titolo Falabacchio e Chattabriga attribuendola al solo Johannes Petri innanzitutto per la scelta di impiegare al frontespizio una cornice architettonica che mescola reminiscenze classiche a elementi di gusto già manieristico. Pur conforme alla tipologia che si diffonde nel Cinquecento, la solu- e datandola c. 1498; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, n° B176 registra due soli esemplari presso la British Library e la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia; IISTC on line registra erroneamente come due edizioni distinte gli esemplari della Marciana e della British Library (IISTC ip01119500 registra con 68 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 zione, che pare echeggiare quella dei monumenti funebri con due soldati di guardia che vegliano sul defunto, è particolarissima per l’esuberanza dei serti di frutta che dipartono dalle cornucopie rette da due soldati in corazza all’antica ed elmo (uno degli scudi ha la protome di Medusa) antistanti il prospetto architettonico. Il motivo ornamentale classico della cornucopia è qui ripreso probabilmente con allusione all’abbondanza e ricchezza di Brescia. Infatti, in bas de page, al posto dello stemma, una corona d’alloro con bacche racchiude una divinità pagana reclinata con vessillo e armature e il cartiglio inciso ‘Brixie’. A sua volta il titolo, composto a caratteri tipografici all’interno della cornice, sovrasta una piccola vignetta raffigurante una giostra fra due cavalieri, condotta con lieve chiaroscuro, che sarà impiegata anche a testo a c. C1r. Damiano Turlini adotterà la stessa vignetta nel 1566 al frontespizio della fortunata Cronichetta Gustave Dore, Bradamante e la maga nella quale si narra il principio di questa città di Brescia di Bernardino Vallabio.14 L’uso di questa cornice lascia sorpresi perché i Turlini erano soliti ricorrere a soluzioni simili per edizioni di prestigio stampate su commissione, come ad esempio i testi statutari per la comunità bresciana, piuttosto che per modeste edizioni di destinazione popolare. Una cornice meno complessa con mascheroni, festoni floreali e stemma di Brescia in bas de page contraddistingue ad esempio la sontuosa edizione in folio degli Statuta civitatis Brixiae del 1557 e i successivi Index decisionum ex omnibus statutis magnificae civitatis Brixiae (1561) e Capitoli per la regulation delle cause (1567), per essere poi riproposta dagli eredi di Damiano Turlini ancora nella tarda edizione degli Statuta del 1621. Viceversa, è l’impostazione grafica della carta A2r a richiamare la mise en page abituale nelle pubblicazioni di largo consumo: incipit con titolo ripetuto (INCOMINCIA EL LIBRO || Della Regina Anthea), seguito da una vignetta raffigurante un drappello di armigeri davanti a una città turrita (la stessa peraltro che campeggia anche alla prima carta del Libro chiamato Falconetto e del Libro chiamato Fortunato figliuolo de Passamonte, rispettivamente Brescia, D. Turlini, 1546 e 1549) inquadrata da quattro frammenti di l’intestazione Luigi Pulci e titolo Falabacchio e Cattabriga giganti solo l’esemplare della British Library e propone [Firenze, Johannes Petri, c. 1497]; IISTC ig00539600 registra invece sotto il titolo Guerra di Parigi fatta da Antea Regina di Babilonia l’esemplare della Marciana di Venezia coi seguenti dati editoriali [Firenze, Lorenzo Morgiani e Johannes Petri, c. 1492]). 7 G. MELZI, Bibliografia, nn° 516-518; G. MELZI – P. A. TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria, p. 19. 8 NEIL HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte II, «La Bibliofilia», XCV, 1993, pp. 101-145: 135; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-177. 9 VICTOR MASSÉNA, PRINCE D’ESSLING, Les livres à figures vénitiens de la fin du XVe siècle et du commencement du XVIe, Firenze-Paris, Olschki-Leclerc, 1907-1914, n° 2320; SANDER n° 416 ipotizza [15101525]; TAMMARO DE MARINIS, Il castello di Monselice. Raccolta degli antichi libri veneziani figurati, Verona, Officina Bodoni, 1941, pp. 13-14 ipotizza [c. 1510]; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-178; EDIT16 B805; La vita nei libri. Edizioni illustrate a stampa del Quattro e Cinquecento dalla Fondazione Giorgio Cini, Mariano del Friuli, Ed. Laguna, 2003, pp. 259-260 data [c. 1510]. Melissa, incisione tratta dall'Orlando Furioso luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano cornice accostati e fregi tipografici come riempitivo, che introduce le prime quattro ottave del cantare disposte su due colonne. A testo Damiano Turlini adotta invece una soluzione di risparmio, optando ancora una volta per l’unica serie di piccole vignette di soggetto cavalleresco che sembra possedesse (una delle quali qui ripetuta addirittura cinque volte), come suggerisce l’impiego anche nei coevi Falconetto e Fortunato. Unica eccezione, che non trova conferma nell’analisi degli altri titoli cavallereschi licenziati dall’officina Turlini, l’introduzione in bas de page a c. A4v di una vignetta silografica a due scomparti con didascalia «Carlo magno di Pipino imperatore» che raffigura l’omaggio di alcuni doni a un re. Perché Damiano Turlini pubblica questo titolo nel 1549? Se ci guardiamo attorno, editorialmente parlando, scopriamo che la scelta del Turlini di ripubblicare nel 1549 Le battaglie che 10 CARLO E. RAVA, Supplement a Max Sander Le livre a figures italien de la Renaissance, Milano, U. Hoepli, 1969, n° 416a; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-180. 11 N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-181. 12 SANDER n° 2634 ipotizza [Firenze, Piero Pacini, ante 1515]; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-179 registra un unico esemplare Charles Faifarx Murray (1849-1919), Autoritratto, collezione privata fece la Regina Anthea non è affatto isolata, ma si inserisce in un catalogo editoriale, all’epoca già piuttosto nutrito, che proprio in quegli anni sembra andasse specializzandosi nell’offerta di titoli cavallereschi. Nel marzo di quello stesso 1549 dai suoi torchi uscì infatti il Libro chiamato Fortunato figliuolo de Passamonte di cui sopravvive una copia presso la Trivulziana.15 Il mese suc- presso la Colombina di Siviglia. 13 Siviglia, Biblioteca Colombina, 6-328 (14): quattordicesimo titolo di una miscellanea rilegata in pergamena con tassello al dorso con titolo «Poemata Toscana Diversorum Tom. 6». Nota d’acquisto di Colón al verso dell’ultima carta: «Costó en Roma 4 quatrines por sete. de 1515. Está registrado 2212» (KLAUS WAGNER – MANUEL CARRERA, Catalogo dei libri a stampa in lingua italiana della Biblioteca Colombina di 69 cessivo sottoscrisse l’esile poemetto Bradiamonte sorella di Rinaldo (unicum presso la Biblioteca Statale di Cremona).16 Ancora nel 1549 mise sul mercato, forse non solo cittadino, una terza edizioncina di soggetto non cavalleresco, ma destinata al medesimo pubblico amante delle piacevoli letture: il Dialogo de Salomone e Marcolpho.17 Si intravede, in filigrana, una richiesta forte di simili letture e titoli, per un pubblico forse non solo locale. È proprio in questo clima di apparente revival cavalleresco che Damiano Turlini, l’anno precedente, nel 1548, aveva stampato il resoconto di una giostra svoltasi in città il 20 maggio: Gian Giacomo Segalino, Breve trattato dell’ordine e successo della giostra fatta nella città di Brescia nel quale si descriveno i motti e livree così de’ cavalieri, come di altri gentilhuomini che hebbero qualche carico in quella, con molte altre cose degne e diletteuoli, Brescia, [Damiano Turlini], 1548.18 Siviglia, Modena, Panini, 1991, n° 299 assegna erroneamente l’edizione [Firenze, Johannes Petri, c. 1498]). 14 EDIT16 on line CNCE 62270. 15 Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. H 1759 (EDIT16 on line CNCE 57791). 16 EDIT16 on line CNCE 7414. 17 EDIT16 on line CNCE 58346. 18 EDIT16 on line CNCE 46262. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 BvS: il ristoro del buon lettore L’Antica Corona di un’Altezza Reale Piatti di tradizione principesca a Cervere GIANLUCA MONTINARO M uovendosi da una regione all’altra del piccolo granducato di Grimmburg, per «esercitare la sua alta missione», il giovane principe Klaus Heinrich (protagonista del romanzo – datato 1909 – di Thomas Mann, Altezza Reale, opera che la Biblioteca di via Senato possiede nella prima edizione italiana, stampata da Mursia nel 1966) vi avrebbe certo fatto sosta. Lui, secondogenito destinato a risollevare le sorti del minuscolo Stato, fratello del «ritroso e altero» granduca Albrecht II, vi avrebbe di sicuro portato, «accompagnato da Percy, il festoso collie, e dalla contessa Lowenjoul», la dolce Imma Spoelmann. Facendone meta di una cavalcata, sarebbero giunti a Cervere: «Ora prendiamo alloggio - avrebbe detto Imma - Nevvero, contessa, che in gita bisogna prendere alloggio? A terra, principe, ho sete». E lì avrebbero preso alloggio, per un sapiente rinfresco, all’Antica Corona Reale, ricevuti da Renzo e Gian Piero Vivalda. Un locale, l’Antica Corona Reale, che racconta, nei suoi piatti, la storia del Piemonte. Nelle sue piccole e Ristorante Antica Corona Reale Via Fossano, 13 – Cervere (Cn) Tel. 0172.474132 confortevoli sale, arredate con mobili antichi e preziosi tappeti, Klaus Heinrich e Imma, al riparo da occhi indiscreti, avrebbero certo chiesto, dall’ampio menu, la tartare di filetto di vitella con porri di Cervere e l’anguilla in carpione all’Arneis e spiedino alla brace. Mentre Renzo si sarebbe certo affaccendato a comporre la sua complessa e straordinaria finanziera in doppia cottura (un piatto che da solo vale «l’aspra cavalcata in mezzo a pascoli e a campi lavorati»), Gian Piero avrebbe proposto, all’augusto ospite e alla sua compagnia, i gobbi della tradizione ai tre arrosti, serviti comme il faut: al tovagliolo. Solo così si possono davvero gustare la sfoglia fine della pasta e il profumato e ricco ripieno. Cosa avrebbero bevuto il giovane principe e la ricca ereditiera americana? Forse un Riesling mosellano. Forse uno spätlese di Joh. Jos. Prüm. Forse un Graacher Himmelreich… o forse un buon Barolo: con i suoi aromi conturbanti, il tannino gentile e ben integrato, la mineralità lunga e bilanciata. Renzo e Gian Pietro, con lo stile che li contraddistingue, «sarebbero rimasti lì, per un momento, in compagnia dei nobili ospiti, intrattenendoli con qualche parola». Poi, «garbatamente, si sarebbero ritirati», lasciando spazio alle pietanze e al «fitto conversario». Sarebbero tornati al momento del dessert. Come non assaggiare il flan di gianduja su salsa al pistacchio di Bronte e croccante alla nocciola? O la cupoletta di melagrana e pan di spezie su vin brulé? Mentre fuori, «un sole mite illumina i prati umidi», l’allegro gruppo avrebbe quindi ripreso la strada di casa, in sella ai loro cavalli dal lucido manto, preceduti, quasi in veste d’araldo, dall’esultante Percy. Felici della gita all’Antica Corona Reale. 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015 ETTORE BONESSIO DI TERZET Ettore Bonessio di Terzet è titolare della Cattedra di Estetica presso l’Università degli Studi di Genova, Scuola di Scienze Sociali. Detiene lo stesso insegnamento anche presso la Facoltà di Architettura. Artista e saggista ha al suo attivo numerose mostre e molteplici pubblicazioni, fra cui: L’esperienza dell’arte; L’arte come forma di sapere; Il principio della parola; Il rasoio di Ockham; Del Frammento Organico. Per una teoria del discorso; Lo splendore del vuoto; I pesci gialli. Dal 1981 dirige «Il Cobold», rivista di estetica e spazi creativi, che dal 2009 è anche on line. ANTONIO CASTRONUOVO Antonio Castronuovo (1954), bibliofilo e saggista, dirige varie collane per la Editrice la Mandragora di Imola e collabora con parecchie riviste. Tra i suoi titoli Libri da ridere: la vita e i libri di Angelo Fortunato Formíggini (2005), Macchine fantastiche (2007), Ladro di biciclette: cent’anni di Alfred Jarry (2008), Alfabeto Camus (2011). Traduttore dal francese, ha da ultimo pubblicato L’incendio e altri racconti di Irène Némirovsky, Il cervello non ha pudore di Jules Renard e Nuove invenzioni e ultime novità di Gaston de Pawlowski. MARCO CIMMINO Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia Militare e socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, si occupa prevalentemente di Grande Guerra. Collaboratore Rai, scrive su molte testate. Membro del comitato scientifico del Festival Internazionale della Storia di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino (2012), finalista al premio Acqui Storia 2013. MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013). GIANCARLO PETRELLA Giancarlo Petrella (1974) è docente a contratto di discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di insegnamento di Scienze del libro e del documento. È autore di numerose monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger; Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010); L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore». GIOVANNI SESSA Giovanni Sessa (1957), è docente di filosofia e storia nei licei, già assistente presso la cattedra di Filosofia politica della facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma e già docente a contratto di Storia delle idee presso l’Università di Cassino. Numerosi sono i suoi scritti, alcuni dei quali apparsi sulle riviste «Letteratura-Tradizione»; «Palomar» e «il Borghese». Fra i suoi volumi si ricordano: Trascendenza e gnosticismo in E. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale; Il maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola. GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013); L’utopia di Polifilo (2015). WE OPTIMISE CONTENT AND CONNECTIONS TO FUEL BUSINESS SUCCESS. V.le del Mulino, 4 – Ed. U15 – 20090 Milanofiori – Assago (MI) – Tel. 02 33644.1 Via Cristoforo Colombo 173 - 00147 Roma – Tel. 06 488888.1 E-mail: [email protected] – web: www.mediacom.com Easy y Pass. 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