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ROSA VIRGO
di Lara Manni
Infine, accanto al tovagliolo di lei posa una rosa bianca, una rosa virgo. E’ stato indeciso fino
all’ultimo su quale scegliere, e se la sua memoria non fosse stata bianca come la rosa avrebbe capito
che non c’era che una possibilità: petali color avorio che tremano al vento di maggio, odore di erba
bagnata, Mit dir Lili Marleen. Se avesse ricordato subito, non sarebbe rimasto per un’ora intera dal
fioraio, con il rischio di dover fare tutto di fretta e di arrivare stanco alla sera. Ma quando si era
svegliato l’immagine non era completa: sapeva solo di desiderare dei fiori.
Rose, e poi aveva sussultato in cerca di aria con la lingua incollata al palato, gonfia come una
lumaca, e allora aria, aveva pensato e di nuovo, prima di aprire gli occhi, rose. Non sapeva perché,
ma la casa doveva esserne piena. Un mazzo all’ingresso, e il colore sarebbe stato crema. Un altro
davanti allo specchio in salone, e doveva essere rosso, e il vaso sarebbe stato quello di ceramica
inglese con il bordo irregolare. Quando lo aveva comprato, a proposito?
Aveva aspettato che l’immagine del giovane uomo che compra il vaso – perché doveva essere
stato giovane, di questo era sicuro – si formasse nella mente, e intanto tamburellava con le dita
sopra il lenzuolo, gli occhi fissi sulla sveglia finchè le sette e trenta non erano diventate le sette e
trentotto, e a quel punto nella nebbia era apparso un negozio di antiquario.
Certo: Londra, 1941, settembre. Gli attacchi della Luftwaffe hanno lasciato il segno. Respira
polvere, muffa, un sentore ancora percettibile di carogna. Ma i vestiti sono puliti e stirati, le guance
rasate, i capelli freschi di shampoo. Dietro la vetrina della bottega vede bastoni da passeggio e
scarpette di raso da ballerina, e un cappello verdemare con la veletta strappata in due punti, e poche
altre cose perché c’è la guerra e chi ha voglia di comprare un vaso come quello azzurro con i bordi
frastagliati che sembrano fiamme, un pezzo di quasi un secolo fa, per lei fanno…
Si era alzato a sedere, ignorando il ronzio alle orecchie e i colpi disperati del cuore. Ci era riuscito,
aveva ricordato, e da solo, senza bisogno di consultare i taccuini sparsi in ogni stanza - il tavolo da
pranzo, il tavolino basso del salone, il comodino. Forse era una delle ultime volte, perché il medico
ha detto che doveva aspettarsi il peggio, per questo ha dovuto anticipare i tempi: anzi, forzarsi a
concluderlo, quel lungo tempo che ha trascorso cercando lei. Se non ci fosse stata la malattia, forse
non le avrebbe scritto per invitarla a cena. Il biglietto. Ricorda molto bene anche quello: carta di
Fabriano, color crema, ha usato la sua stilografica più bella.
Ti aspetto il 24 dicembre alle 19. Non puoi dirmi di no. Leonard.
Aveva scritto questo, e lei sarebbe venuta, perché questa volta davvero non poteva dirgli di no e,
oh Dio, sono settant’anni che la insegue e che lei continua a fuggire, settanta, da quando era un
ragazzo bello e famelico nella Londra che rantolava dopo le bombe e lei ne aveva diciannove e
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sembrava nata per la fuga, credevi di averla messa all’angolo, eri convinto che bastasse allungare la
mano per afferrarle il polso, e ti ritrovavi a stringere l’aria.
Guarda la rosa, poi guarda lo specchio e per un tempo breve ma spaventoso non riconosce il
vecchio che lo fissa con la bocca semiaperta e le mani che tremano. Si riscuote, prende il
quadernetto nero dalla tasca dei pantaloni, lo apre alla pagina con il segnalibro, la pagina ha una
scritta in stampatello, ORE 19, JO. Sfiora le lettere con la punta dell’indice. Jo. Il modo in cui
stringeva le labbra come se avesse avuto davanti un oggetto disgustoso, la carcassa di un gatto o di
un uccellino, invece del giovane uomo dai capelli neri che le porgeva una mano dicendole che
potevano essere amici, mentre le rose rabbrividivano al vento.
Una rosa virgo, una sola. Non una rosa di pregio, un ibrido di tea piuttosto comune, ma i fiori
sono grandi e profumati, ha detto il fioraio mentre incartava fasci di Aloha Boemer color corallo, e
mazzi sgocciolanti di elleboro - si chiama rosa di Natale, ha detto ancora, e come tocco finale
cinque Lawrence Johnston dalle sfumature d’oro. Leonard lo aveva ignorato, ammirando in quella
rara finestra che si era aperta nella memoria le rose virgo di settant’anni prima. Infine ne aveva
scelta una, insistendo perché fosse la più aperta. Si sfoglierà presto, aveva protestato il fioraio. E’
quello che voglio, aveva risposto.
Una rosa appassita per una donna appassita, che è scappata quando aveva ancora gambe buone per
correre e che da quel giorno era scomparsa, e non ne aveva trovato tracce, mai, nonostante avesse
impiegato non poca parte del suo denaro per sapere dov’era. E’ morta, aveva pensato infine, ed era
stato come se una parte di lui si afflosciasse. Era stato più o meno in quel periodo, la fine degli anni
Novanta - uno strano momento in cui sembrava che il mondo volesse di nuovo capovolgersi e
ribollire, e invece non se n’era fatto nulla - che era invecchiato davvero, come se il corpo e l’età
anagrafica si fossero sincronizzati. Aveva dunque cominciato a svegliarsi per il dolore alla gamba
destra e per le apnee, ad ansimare a metà di una passeggiata e a sentirsi intrecciare le budella dopo il
bicchierino di vodka che si concedeva dopo cena. Soprattutto, aveva cominciato a guardare a quello
che la sua vita era stata e non più a quello che poteva ancora essere: era finita, auf Wiedersehen Lili
Marleen.
Aveva trascorso così tredici anni.
Poi, ed era novembre, poco più di un mese prima, aveva posato il libro che stava rileggendo - una
vecchia biografia di Howard Hughes che aveva trovato ancora una volta noiosa - ed era uscito così
come si trovava, pantaloni di fustagno e una giacca di panno blu che non ricordava più di possedere,
ma che probabilmente era sempre stata nel guardaroba dell’ingresso. A villa Borghese aveva
camminato sotto un sole opaco, guardando con disprezzo gli altri vecchi che fissavano i prati e con
il sollievo di chi ha scampato un pericolo le madri che sorseggiavano acqua minerale da bottiglie di
plastica. Allattare mette sete, aveva pensato, senza sapere da dove aveva pescato
quell’informazione, dal momento che figli non ne aveva avuti: odiava i bambini, e non aveva
sposato nessuna delle sue fidanzate (che invece si erano sposate a loro volta, ed erano, da quanto
sapeva, felicemente nonne). Molto più tardi, mentre stringeva fra le mani tremanti un bicchiere da
cocktail colmo di vodka, aveva ricordato che la frase era di Hannibal Lecter, e veniva da “Il silenzio
degli innocenti”, ma a quel punto la sua mente era occupata per intero da Jo.
Jo.
Non l’aveva riconosciuta, naturalmente, non subito. L’ultima volta che l’aveva vista era una
ragazza con i capelli rossi ondulati sulle orecchie, una ragazza ostile che indossava pantaloni da
uomo e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Quella a cui aveva gettato un’occhiata
distratta era una vecchia con un cappotto lilla (era stato il colore del cappotto ad attirarlo, un lilla
vivace, giovanile) che rivolgeva il viso al sole, con gli occhi chiusi. Aveva distolto lo sguardo e
aveva proseguito la camminata, infastidito dagli strilli dei bambini sui pony e dalle chiacchiere
nervose delle mamme davanti alle carrozzine. Proprio mentre si stava voltando per tornare a casa,
perché in fondo Hughes era meglio di quelle miserie, la vecchia aveva aperto gli occhi e aveva
frugato nella borsa, tirandone fuori un accendino e un pacchetto di sigarette. Le dita. Le dita magre
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di Jo, nel pub di Gawcott, o nei prati profumati davanti a Wavendon Tower, che sfilano la sigaretta
dal pacchetto, Jo che dopo averla accesa emette uno sbuffo di fumo, e ci sono rose, rose virgo
attorno a lei e in quel momento un raggio di sole fa brillare l’orecchino sul lobo destro, che è d’oro
ed è, prevedibilmente, a forma di rosa.
Aveva guardato le orecchie della vecchia, lasciate scoperte dai capelli cortissimi e bianchi. Le rose
erano là. Si era girato. Si era costretto a proseguire, lo sguardo sulla ghiaia, contando due mozziconi
di sigarette, un fazzoletto di carta, un elastico per capelli viola scuro, una scatolina di Tic Tac
all’arancia. La gola si era stretta come se gli avessero messo una cintura attorno al collo, Doch mich
vergaß sie lang, mi sento vacillar, Mit dir Lili Marleen. Ma non avrebbe usato l’inalatore, non a
pochi passi da lei: se, per puro caso, avesse alzato lo sguardo? Il pensiero gli tolse altra aria. Di lui,
Jo ricordava il ragazzo che le porgeva un accendino d’oro (ma lei non accettava, lei usava uno
zolfanello che schiacciava sotto il tacco), mentre quella che avrebbe visto ora sarebbe stata la
schiena di un vecchio, chiusa in una giacca di panno che mai gli avrebbe restituito l’aspetto
dell’avventuriero che era stato. Quando, voltando a destra e nascondendosi dietro un grande
castagno, aveva infine tirato fuori dalla tasca l’inalatore e si era concesso due spruzzate di Ventolin,
con il respiro era tornata a galla la rabbia che lo aveva avvelenato per settant’anni: “non mi piace”,
era la prima cosa che Jo aveva detto sul suo conto e “infame” l’ultima.
Fottiti, Lili Marleen.
Si era ritrovato in un bar che puzzava di varechina, senza capire come ci fosse arrivato nel tempo
di un pensiero così breve. Dietro il banco c’era una ragazza grassa con l’espressione assente, e
l’odore di detersivo era insopportabile: ma il cappuccino era buono e attenuava il trauma di aver
visto Jo dopo averla creduta morta per tutti quegli anni. Cosa ne avrebbe fatto, ora, della scoperta?
Aveva alzato gli occhi: la ragazza grassa aveva poggiato sul banco una bottiglia di Aperol per
grattarsi furiosamente la mano, che era rossa vicino al pollice. “Zanzare”, gli aveva detto, quando si
era resa conto che la stava guardando. “A novembre?”, aveva chiesto lui. “Guardi”, aveva risposto
la ragazza, indicandosi le labbra gonfie. “Sono allergica alle zanzare. Ho preso il Bentelan”. Erano
così vicine, quelle labbra, e così disgustose, che si era ritratto di scatto. La ragazza lo aveva
guardato male, offesa. Fa uno e cinquanta, aveva detto. Avrebbe voluto chiederle scusa, dirle che
non era per lei, no davvero, ma da anni una donna non gli veniva così vicino, e soprattutto la colpa
era di Jo. Perché, fra tutte le altre cose che aveva da rimproverarle, c’era il fatto che quella volta lui
stava per baciarla e Jo si era ritratta come in un tempo allora imprevedibile e impensabile Leonard
si sarebbe ritratto davanti alla ragazza grassa mangiata dalle zanzare, e lui aveva pensato, lo
ricordava proprio bene, Ti troverò, prima o poi. E allora.
E allora.
Aveva trascorso quindici giorni a interrogarsi su quell’allora, il libro abbandonato sulle
ginocchia, due taccuini aperti sul divano, la teiera di porcellana fumante, col suo prezioso contenuto
di bai hao yin zhen, il te’ bianco che Amal acquistava via Internet e che arrivava in confezioni
eleganti con un nastrino dorato. Quando aveva deciso cosa fare, Amal aveva provveduto anche a
recapitare a Tommy il suo biglietto (niente telefono, niente mail: ci sono accorgimenti che vanno
mantenuti negli anni). Molti anni prima, Tommy aveva offerto a Leonard un’amicizia servile e
costante, accettando senza protestare il vago disprezzo con cui gli commissionava certi lavori
sporchi – una donna che lo aveva accusato di stupro e che era opportunamente sparita, o il rivale in
politica i cui gusti sessuali erano altrettanto opportunamente finiti sulla copertina di una rivista - e
ricevendo in cambio favori di così piccola entità da non potersi neanche definire tali. Poi, com’è
giusto, si era allontanato da lui e aveva avuto la sua vita, si era sposato, aveva avuto una figlia, e
quella figlia lo aveva da poco reso nonno: glielo aveva comunicato in un biglietto stupidamente
festoso, con un grande fiocco rosa sul lato sinistro. Dunque, Tommy era venuto subito, aveva
ascoltato, annuito e promesso che sarebbe tornato presto. Così era stato: alla fine di novembre,
Leonard sapeva tutto di Jo. Non si era mai sposata, ma aveva avuto un figlio. Viveva sola a Roma,
in una casa popolare dietro San Giovanni. Non aveva grandi mezzi, anche se non poteva essere
definita povera: faceva traduzioni e continuava ad accettare lavoro, dunque doveva essere in buona
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salute. Il figlio si era trasferito a Oslo con la moglie e una bambina, che ormai doveva essere una
ragazza. Jo li incontrava raramente: l’ultimo biglietto aereo per la Norvegia era del 2009, tre anni
fa. Era troppo vecchia per viaggiare, immaginava Tommy.
“Non devi immaginare quando si tratta di Jo”, aveva ribattuto, acido.
Tommy lo aveva guardato con quella che sembrava pietà.
“Ha novant’anni. E’ una donna sana, per la sua età. Ma..:”
“Io ne ho novantadue. E sto benissimo”.
Non era vero, naturalmente. Ma Tommy non doveva sapere della difficoltà a respirare e della
gamba destra quasi inutilizzabile e soprattutto della memoria che rifluiva via lasciandosi indietro
solo il pensiero di Jo, che rifiutava di abbandonare la sua mente come un vecchio topo che non
vuole lasciare la tana né con il formaggio né con il veleno. Ma Jo sarebbe venuta, invece, perché le
informazioni di Tommy portavano in un un’unica direzione, e Leonard l’avrebbe percorsa, e infatti,
quando Amal le aveva portato il biglietto scritto su carta di Fabriano, chiedendo una risposta, la
risposta era stata sì.
E allora.
Allora sono le cinque, e la rosa virgo accanto al piatto destinato a Jo è l’ultimo tocco della giornata
iniziata con la visita al fioraio e proseguita spuntando tutte le voci che Leonard aveva preparato sul
taccuino. Doccia con sapone all’olio d’oliva, per la sua vecchia pelle. Pranzo leggero, una minestra
di carote e un piattino di castagne lesse con due cucchiai di zucchero. Riposo sulla poltrona (non
sarebbe riuscito a dormire) accanto alla finestra. Juditha Triumphans di Vivaldi, l’edizione con Ann
Murray. Lettura dei taccuini su Jo, perché se il pensiero di lei non se ne andava, la storia che lo
aveva portato a Jo rischiava di sfuggire dai troppi buchi del suo cervello. Dunque sono le cinque e
Leonard sta leggendo i taccuini, mentre Amal posa la teiera sul tavolino. Alle sei e mezza, lo aiuterà
a vestirsi (un maglione di cashmere color polvere sopra una camicia bianca, scarpe e pantaloni
neri). La cena sarà pronta per le sette e mezza, dopo che lui e Jo avranno bevuto (Krug, le sarebbe
piaciuto) e parlato. E poi?
Scaccia il pensiero. Non ha importanza. Torna a chinarsi sui taccuini.
Armin Hull, c’è scritto sulla prima pagina.
Si chiamava, in realtà, Ellic Howe, e Armin Hull era il suo pseudonimo: Leonard lo avrebbe
saputo molti anni più tardi, così come avrebbe scoperto che quello che aveva conosciuto come Paul
Sanders era il compianto Denis Sefton Delmer. Non ne fu sorpreso, perché entrambi combattevano
una guerra molto particolare: Howe lavorava nello Special Operations Executive come falsario e
Delmer nel Political Warfare Executive come coordinatore della propaganda anti-tedesca. Il primo
conosceva le tipografie e le tecniche di stampa usate in Germania, il secondo conosceva bene i
nazisti ed era stato il primo giornalista inglese a intervistare Hitler.
Leonard sentì pronunciare per la prima volta il nome di Hull in un pomeriggio di giugno a Berlino:
era il 1941 e beveva birra con un militare italiano che gli era stato presentato da un’amica molto
intima e molto fanatica (di lui e del Führer, in parti quasi uguali). Il militare soffriva di rinite,
detestava il clima tedesco e, soffiandosi il naso in un fazzoletto bordato di marrone, aveva
dichiarato di apprezzare i ragazzi ambiziosi e magari, chissà, più avanti si sarebbe potuta aprire una
possibilità di entrare nel Sim. Leonard aveva sorriso con entusiasmo, anche se si augurava, più
avanti, di essere in una posizione decisamente più invidiabile di quella di un uomo che spurgava il
suo muco in un fazzoletto di tela scadente. Era stato il controspionaggio italiano, aveva spiegato con
orgoglio il militare, a passare ai tedeschi le informazioni su Hull e Sanders. “A loro modo, due
geni”, aveva detto, tirando fuori da una busta quella che sembrava una stampata di francobolli e
posandola sulla tovaglia.
Erano francobolli, in effetti: solo che il volto del Führer era stato sostituito con quello di Himmler
e di altri dirigenti minori. Un colpo basso, e di sicuro disorientamento per i cittadini, aveva aggiunto
il militare, estraendo dalla stessa busta una lettera: era dell’astrologo prediletto di Goebbels, Karl
Ernst Krafft, e prediceva sventura per la Germania nel proseguimento della guerra. “Un falso anche
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questo: non ha aiutato il morale dei vertici, e neanche quello del Führer, almeno finché Krafft non
ha giurato di non aver mai scritto nulla di simile. E non è finita: falsi dispacci, false lettere, persino
un falso opuscolo del ministero della sanità che suggerisce al personale femminile dell’esercito di
non scopare con i soldati tedeschi perché portatori di malattie veneree”. A quel punto Leonard
aveva sorriso, e il suo ospite aveva ridacchiato sotto il fazzoletto. “Cosa c’entro io con tutto
questo?”, gli aveva chiesto poi, quasi deluso. Invece di rispondere, l’ospite gli aveva fatto un paio di
domande - certamente superflue, perché doveva conoscerne le risposte da prima del loro incontro:
Leonard sapeva l’inglese perfettamente, non era vero? Sua madre abitava ancora a Londra, sì? E
dunque non gli sarebbe stato difficile raggiungere l’Inghilterra in virtù della sua preoccupazione di
figlio, giusto? Infine, gli piaceva la radio?
“La radio?”, aveva chiesto Leonard.
La radio, aveva risposto il militare, è il nostro vero problema. Aveva tirato fuori altri fogli dalla
busta. “Si chiama GS1, sta per Gustav Siegfried Eins. Trasmette da un mese, dopo la cazzata di
Rudolf Hess”. Leonard aveva annuito. “So di Hess. E’ impazzito, non è vero? Solo un pazzo si
sarebbe andato a paracadutare nel castello del duca di Hamilton per offrirgli la pace”. Il militare
aveva stretto la mano sull’impugnatura del boccale e sulla nuca di Leonard era passato un soffio
gelato. Non era un semplice ometto col raffreddore, quello che aveva davanti - non solo, non
scordarlo. “Il problema – aveva detto poi il militare - non è se sia impazzito o no. Il problema è che
la notizia della sua passeggiata in Scozia non doveva essere divulgata. E’ stata questa radio a farlo”.
Lo aveva guardato negli occhi, valutandolo: Leonard si dimostrò umile e interessato – non
scordarlo. “Lo speaker si fa chiamare Der Chef. Dice di essere un vecchio e leale ufficiale
prussiano, molto incazzato con gli inglesi ma ancora più incazzato con i gerarchi nazisti. Pochi
giorni dopo il volo di Hess, questo Der Chef ha raccontato quello che era successo a tutta la
Germania, per negare con sdegno che Hitler sapesse tutto, che il piano di pace fosse concordato e
che solo in caso di fallimento Hess avrebbe dovuto fingersi pazzo. Ma intanto la notizia è stata data,
e il Führer è stato costretto a intervenire pubblicamente a sua volta per smentire”.
“Chi è Der Chef?”
“Non lo sappiamo. Sappiamo che si presenta come un patriota, e molti gli credono. E poi c’è
l’altro.Un ragazzo che si fa chiamare Die Rose. Interviene da luglio e ha parecchi ammiratori in
Germania. Bella voce fresca, bei discorsi contro gli ufficiali nazisti: li chiama “gangster corrotti e
sessualmente depravati”, li accusa di spendere il denaro dei tedeschi per bere e scopare mentre i
bambini muoiono di difterite. Nota che non c’è nessuna epidemia di difterite, ma puoi immaginare
l’effetto che una notizia del genere può avere sui soldati, e non solo su di loro. Insomma, da una
parte Der Chef si attira le simpatie dei più esaltati chiamando Churchill fottuto bastardo ubriacone
giudeo…”.
“Lo ha fatto davvero?”, aveva riso Leonard.
“Più di una volta. Ma aggiunge anche che in Germania non è più possibile trovare un bicchiere di
birra buona e mangiare carne di maiale come si deve e fumare un sigaro degno di questo nome,
mentre gli altri, i gerarchi, hanno vino e sigari e donne in quantità. Dall’altra parte, dicevo, Die
Rose fa breccia nel cuore dei suoi coetanei mandati a morire da capi che se ne infischiano di loro e
delle loro famiglie. L’effetto finale è che la Germania non appare così monolitica come vorrebbe
Hitler. Capisci in cosa sta la genialità?”
“Sono falsi? Anche loro?”.
“Sì, ragazzo. Non trasmettono dalla Germania. Li abbiamo individuati con il radiogoniometro: sono
in Inghilterra, in un paese nel buco di culo del Buckinghamshire che si chiama Gawcott. Disturbare
le trasmissioni serve a poco, cambiano frequenza con facilità. Sono del Political War Executive,
tutti e tre, quattro contando Hull. E qui entri in ballo tu: un giovane intelligente, bello, ambizioso, e
bilingue”.
Leonard aveva sorriso. La mano del militare si era chiusa sul suo polso.
“E auspicabilmente fedele”.
“Sempre”, aveva sorriso ancora Leonard.
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Il lampione dietro la finestra si accende. Veni Foemina illustris, canta Vagaus nella Juditha.
Femmina illustre. Fra poco arriverà. Sono le cinque e dieci. Lo stomaco gli fa male. Non doveva
mangiare le castagne. Sa che non è così. E’ per lei. E’ una vecchia, è cambiata, si ripete. E invece sa
che non è cambiata così tanto dalla prima volta che la vide. A…come si chiamava il paese? Sfoglia
una pagina del taccuino, la lingua fra i denti, un filo di saliva all’angolo della bocca.
Leonard aveva giudicato prudente stabilirsi a Towcester, nel Northamptonshire, a una dozzina di
chilometri da Gawcott. Aveva trovato alloggio presso una vedova di quarant’anni, che dopo la
prima settimana gli aveva preparato un budino di pane e burro e dopo la seconda era riuscita a
procurarsi dello zenzero per fargli i biscotti. Alla terza settimana, Leonard aveva contraccambiato.
Alla quarta, la vedova e un po’ di fortuna gli avevano fatto trovare Armin Hull: quando lei gli aveva
mostrato certi graziosi biglietti da visita preparati dal bravo stampatore che aveva aperto una
tipografia proprio a maggio, Leonard l’aveva baciata con tutta la passione che riusciva a simulare.
Due ore dopo, era davanti al negozio di Hull: per un ulteriore dono del Fato, a due passi c’era un
pub, il Brave Old Oak – “sandwich con carne e cipolla!”, “crema di margarina, latte e farina di
mais!” e “tutta la birra che riuscite a bere!” era scritto sulla lavagna vicino alla porta. Leonard aveva
cominciato a frequentarlo ogni sera, scegliendo per sé il tavolo vicino a quello dove sedeva l’uomo
che aveva individuato come Armin Hull. Portava con sé carta e penna, e trascorreva il tempo
scrivendo lettere d’amore all’amica rimasta in Germania. La quinta sera aveva finto di cedere
all’emozione, si era passato la mano sugli occhi e poi, virilmente, aveva stretto le labbra, sperando
che la fortuna continuasse a spalancare le cosce.
Così fu. Dopo un paio di minuti, Hull si era seduto al suo tavolo con il boccale in mano. “Guai,
ragazzo?”. Guai, aveva sospirato, e gli aveva raccontato la storia che si era preparato fin dall’arrivo
in Inghilterra. Guai d’amore, naturalmente. La ragazza di cui era innamorato era una helferin,
un’aiutante delle SS: l’aveva conosciuta due anni prima, quando questa orribile guerra non era
ancora stata dichiarata, l’aveva seguita, uno di quegli amori a cui non si può resistere, lei ne ha mai
vissuto uno, sir? Si era trasferito a Berlino, adattandosi ai lavori più umili e meno consoni ai suoi
studi, per lei avrebbe fatto tutto, sir, ma quando ha preso quella decisione non ha resistito più, è
fuggito, proprio fuggito, sir, ma è stato inutile. Perché lui stesso era inutile, con quella malattia – il
cuore, sir, non è un’ironia? – che gli impediva di servire la patria come avrebbe voluto, e con il
pensiero stupidamente inchiodato a un’assassina. A volte, sir, penso che morire sarebbe la soluzione
migliore. Ma la sua famiglia, come è comprensibile, era angosciata per la sua infelicità e la sua
salute declinante, così era stato costretto – amorevolmente costretto – a lasciare Londra e a
trascorrere un periodo di lontananza a Towcester, dove poteva svagarsi con le corse dei cavalli e
apprezzare i piaceri della cucina e il conforto dell’ospitalità. In realtà, aveva spiegato infine
Leonard, trascorreva il tempo a scrivere alla sua Grete, e a bruciare ogni sera la lettera che andava
componendo – cosa che, in effetti, faceva davvero. Hull non aveva commentato per un lunghissimo
e spaventevole minuto, poi aveva fatto cenno alla cameriera di portare altre due birre. “Non c’è che
un rimedio, ragazzo”, aveva detto, mettendogli un boccale pieno davanti.
Le bevute erano andate avanti per quasi due mesi. Leonard aveva insistito per pagarle di tasca
propria, cosa che a Hull non dispiaceva affatto: così, quella di incontrarsi nel tardo pomeriggio al
Brave Old Oak era diventata una consuetudine per entrambi. Una notte, dopo molti boccali e molte
sigarette, Hull aveva rigirato fra le mani una bottiglia di Burton, accarezzando con l’indice
l’etichetta rossa. “Che birra bevevi a Berlino, Leonard? Krombacher?”. Leonard aveva annuito.
“Anche. E Pilsner”. Hull aveva ridacchiato: “Belle etichette, non trovi? Ho una scorta di birra
tedesca in cantina. Uno di questi giorni ti toglierò la nostalgia con una bevuta alla berlinese”.
Leonard si era irrigidito. La carta delle etichette. Ma certo, la perfezione dei falsi dispacci di Hull
stava anche nella scelta della carta, oltre che nell’imitazione della calligrafia. In questo modo
avrebbe passato i primi controlli e solo dopo…Ma perché gli stava rivelando quel dettaglio? Per
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metterlo – certo – alla prova. Aveva alzato verso Hull uno sguardo sereno, appena velato di dolore
per il ricordo che il riferimento a Berlino doveva aver suscitato in un innamorato infelice. “Ho
sempre preferito la birra inglese”, aveva detto. Era la cosa giusta. La mattina dopo, Leonard aveva
trovato un biglietto sotto la porta. C’era scritto solo “Gawcott, Holy Trinity, messa del 24
dicembre”.
Le cinque e mezza. Sulla lingua ha il sapore acidulo della birra, anche se non ne beve da molti
anni. La nostalgia riesce a farsi largo nel bianco: buttare giù mezzo boccale in due sorsi, mangiare
peperoni, correre senza farsi mancare il fiato. Nel tempo dei tre pensieri, deve essersi alzato senza
rendersene conto perché ora è davanti allo specchio. C’è un uomo molto vecchio che lo guarda con
occhi che sono pozze d’acqua torbida. Una volta quell’uomo era capace di un sorriso sbruffone che
conquistava maschi e femmine. Tranne una, ed è per questo che la vita del vecchio – la sua – non è
stata perfetta come desiderava, perché il rifiuto di Jo si è conficcato come una spina velenosa in
quella che poteva essere un’esistenza magnifica, e l’ha fatta marcire. Se non riuscirà a toglierla, il
suo spirito continuerà a marcire dopo la morte, insieme alla sua carne. Sono passati già dieci minuti.
Le cinque e quaranta, dice l’orologio. Ha le guance bollenti, forse il mal di stomaco di prima era il
sintomo di un’influenza. La casa è troppo buia. Non ha pensato che, oltre alle candele, doveva
esserci un albero di Natale, anche piccolo. E’ una delle cose che ha dimenticato.
Dietro l’altare della chiesa c’era un abete decorato con nastri di stoffa rossa, davanti c’era una
piccola folla infreddolita. Erano soprattutto donne e vecchi quelli che, stretti gli uni agli altri per
scaldarsi, cantavano When we were gone astray, O tidings of comfort and joy. Leonard era
scivolato fra loro, unendosi al coro (Comfort and joy), ancora ansante dopo aver percorso a piedi –
per sfogare il nervosismo - i dodici chilometri che separavano Towcester da Glawcott. Remember
Christ our Saviour Was born on Christmas Day To save us all from Satan's power, cantava, a metà
navata, Armin Hull. Accanto a lui, un uomo stempiato con gli occhiali da vista e una ragazza con i
capelli rossi che brillavano sotto il velo, alla luce delle candele. Le mani della ragazza erano
intrecciate dietro la schiena, in un gesto che sembrava di sfida, e che gli piacque. Leonard era
arrivato alla sua altezza, ne aveva apprezzato il profilo, il colore dei capelli, le labbra imbronciate:
ma il suo non era desiderio, o per meglio dire il desiderio si mescolava all’eccitante presentimento
di aver trovato un avversario alla propria altezza. Lei, comunque, non si voltò a guardarlo: fu Hull a
farlo, e a fargli posto sulla panca, mentre l’uomo con gli occhiali gli riservò un breve cenno del
capo. And with true love and brotherhood Each other now embrace cantò Leonard con la sua bella
voce, ricordandosi che intelligenza e umiltà avrebbero salvato la missione e, forse, la propria vita.
Comfort. And Joy.
All’uscita, Hull li aveva guidati frettolosamente nell’aria gelata fino a un locale che si chiamava
The Crown e poi fino al tavolo in fondo alla sala che era stato riservato per loro. Si erano tolti le
sciarpe e riscaldati i piedi battendoli sul pavimento, avevano ordinato birra e minestra e capretto con
patate e pudding. Infine, Hull aveva posato le mani sul tavolo. “Lui, aveva detto indicando l’uomo
con gli occhiali, è Paul. Lei è Jo. Sanno già chi sei”. Le ginocchia di Leonard, sotto il tavolo,
avevano tremato, anche se il sorriso era rimasto inalterato (Intelligenza. Umiltà. Joy). “Sanno che
sei un bravo ragazzo e che hai voglia di darti da fare”. Leonard aveva chinato il viso, umiltà, mentre
la mano destra accarezzava il coltello che, altrimenti, avrebbe almeno provato a impugnare. Quando
aveva alzato di nuovo lo sguardo, Jo lo stava fissando con occhi grigi e freddi. “Paul, non mi piace”,
aveva detto poi all’uomo con gli occhiali. “Non essere capricciosa”, aveva replicato lui pescando
col cucchiaio nella minestra. “Abbiamo bisogno di voci giovani, lo sai meglio di me. Peter è
bravissimo, ma è vecchio, e le sue recriminazioni contro Hitler hanno successo presso i vecchi. E’
ai giovani che dobbiamo arrivare, e Die Rose non può rimanere un caso isolato”. “Non vedo perché
no”, aveva protestato la ragazza, sfilando una sigaretta dal pacchetto di Hull. “E comunque lui non
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mi piace, non mi fido. Ha una faccia furba”. “La ringrazio, signorina”, aveva detto a quel punto
Leonard, cercando di imprimere alla voce un tono cordiale. Poi aveva visto le rose d’oro che le
scintillavano ai lobi delle orecchie, aveva sorriso ancora e si era inchinato “E’ un onore conoscere
Die Rose e apprezzare la sua bellezza, oltre che il suo genio”, aveva detto.
Le sei. Amal si ferma sulla porta. E’ quasi ora di vestirsi, ma Leonard ha cambiato idea: non vuole
aiuto: anzi, non vuole nessuno attorno a sé. Gli chiede, brusco, se la cena è a buon punto. Minestra
di verdura, capretto rosolato, pudding. Birra. La stessa cena di settantuno anni fa. Ed era la vigilia di
Natale, anche quella volta. Amal annuisce.
L’intuito di Leonard era stato apprezzato da Hull e da Paul Sanders, che era – aveva appreso
Leonard - il capo del gruppo e l’ideatore di tutte le azioni di propaganda. Era lui, insieme alla
moglie Isobel, a scrivere i testi che sarebbero stati letti dallo speaker, Peter Seckelmann, e a
rivedere quelli di Jo, che insisteva per scriverli da sola. Questa parte del lavoro si svolgeva a casa di
Sanders, a Larchfield. Le registrazioni, invece, avvenivano in una casa colonica a Wavendon
Tower, e i dischi di vetro con gli interventi di Der Chef e Die Rose venivano infine portati in
un’edificio che si trovava nei boschi di Gawcott, e trasmessi da Hull con un’apparecchiatura a onde
corte. Avere tre zone d’azione consentiva di tutelarsi e di aprire eventualmente un nuovo
trasmettitore, se quello di Gawcott fosse stato individuato: i dischi tornavano ogni volta a
Wavendon Tower per essere conservati e riutilizzati. Mentre Sanders spiegava, Jo fumava una
sigaretta dopo l’altra, contrariata. Era intelligente, pensava Leonard. Più intelligente di me,
sfrigolava una parte della sua mente, mentre l’altra si sforzava di continuare a essere divertente e
piacevole e joy, signori, joy!.
Alla fine della cena, Jo era rimasta in minoranza, e Leonard si era infilato insieme a loro in una
limousine nera diretta a Wavendon Tower. Lo studio di registrazione era all’interno di una grande
costruzione color legno e avorio, in una sala da biliardo con le finestre chiuse e le tende tirate: tre
microfoni RCA aspettavano sul tavolino. Quella stessa notte, gli avevano fatto provare la voce con
un testo in tedesco che aveva letto perfettamente. Avrebbe cominciato subito, il tempo di scegliere
un nome, aveva già un’idea? Leonard aveva guardato Jo negli occhi. “Der Kavalier”, aveva detto.
“Così la rosa avrà il suo cavaliere”. Lei non aveva sorriso.
Le sei e un quarto. Si alza, si avvia verso la camera da letto. Quarantacinque minuti e la rivedrà,
non ci saranno più sentieri nel bosco dove scappare. Perché questo aveva fatto Jo. Gli era sfuggita
fra le dita, sul più bello.
Era riuscita a non sorridergli mai, neppure una volta, nei mesi successivi: se fosse stato meno
giovane e meno arrogante, Leonard avrebbe giudicato con indulgenza il rigore di lei e si sarebbe
chiesto a cosa fosse dovuto, e insomma che cosa era avvenuto nella vita di Jo per renderla così dura.
Non lo fece mai: notava invece, con rancore crescente, che quando entrava nella sala di
registrazione lei si affrettava a raccogliere i fogli e usciva senza guardarlo. Leonard aveva
sopportato, per un po’. Poi - ed era ormai maggio del 1942, e nell’aria c’era una primavera
splendente – aveva ricevuto una lettera da Londra, dallo stesso indirizzo a cui aveva inviato le
informazioni di cui era venuto a conoscenza. L’autore della lettera – il militare italiano, ne era
certo anche se non c’era firma – lo ringraziava e lo pregava di tornare da sua madre, che aveva
bisogno di lui. Dunque, aveva pensato Leonard, sarebbe accaduto qualcosa. Avrebbero bombardato
Gawcott, o Wavendon? Ci sarebbe stata un’azione rapida e feroce che avrebbe distrutto Gustav
Siegfried Eins? Comunque sia, doveva sparire, subito. No, non subito, si era detto. Prima voleva
rivedere Jo. Convincerla. Portarla con sé, magari, ma non per salvarla, o non solo: quel che davvero
voleva era il tempo di farle cambiare idea sul proprio conto.
9
Così si era fermato nel giardino davanti a Wavendon Tower, aspettando che uscisse, e l’aveva
fermata sotto un arco di rose virgo bianchissime e profumate, mettendole una mano sulla spalla.
“Per favore ascoltami”, le aveva detto. Jo lo aveva guardato senza rispondere. “Perché mi detesti?
Cosa ti ho fatto?”, le aveva chiesto poi, mentre la voce gli si strozzava e questo no, questo non lo
avrebbe mai voluto, ma era inevitabile, e non c’era tempo per essere intelligenti e affidabili.
“Niente”, aveva infine detto lei. “Non direttamente, almeno. Ma lo farai. Perché tu sei così, l’ho
capito da quando ti ho visto in chiesa. Le persone non ti interessano, le persone ti servono. Quando
va bene, ti fanno da pubblico. E poi sei una spia”. “Anche tu lo sei”, aveva provato a ridere
Leonard, ma la risata gli moriva in gola, davanti allo sguardo di Jo, e allora non aveva resistito e le
aveva stretto il polso, con tutta la dolcezza di cui era capace. “Vieni con me. Ti prego. Potremmo
vivere una vita bellissima. Viaggiare. Cercare il mare, le spiagge calde. Bere vino. Non ti
piacerebbe? Non vorresti avere dei bei vestiti, delle scarpe col tacco? Ballare. Wie einst Lili
Marleen”. Si era chinato verso di lei, cantando con voce sempre più fievole. Jo si era ritratta di
scatto. “Ci hai già venduti, non è vero? Altrimenti non mi faresti questi discorsi”. “Che cosa dici?”.
“Dico la verità, e lo vedo dalla tua faccia che è la verità. Non mi interessano le tue proposte. Non mi
interessi tu”. La stretta di Leonard si era fatta più forte. “Jo”. “Infame”, aveva detto lei, liberando la
mano e correndo via, nel sentiero che si perdeva nel bosco.
Le sei e tre quarti. E’ seduto sul letto. Alzare la gamba per infilare il calzino gli fa stringere i denti
per il dolore. Jo soffrirà nello stesso modo? Ricorderà cosa si prova quando si corre?
Anche Leonard era fuggito da Wavendon Tower pochi istanti dopo e aveva raggiunto Towcester a
piedi e poi Londra a bordo dell’automobile della sua vedova, a cui aveva giurato che sarebbe
tornato a prenderla. Invece, era rimasto chiuso per settimane e poi mesi nella casa di sua madre, non
sapendo cosa aspettarsi: infine, man mano che la Germania si avvitava verso la disfatta, aveva
capito di aver rischiato invano. Fu il suo unico successo mancato. Dieci anni dopo, quando ormai
era avviato verso una carriera folgorante, aveva incontrato in ambienti insospettabili il militare
italiano, che a sua volta e nonostante tutto aveva scalato i vertici dei servizi segreti. Le sue
informazioni erano state preziose – gli aveva detto - ma l’accordo fra Churchill e l’Unione Sovietica
di quel maggio 1942 le aveva rese vane: la propaganda inglese non era più una priorità per la
Germania.
E neppure per l’Inghilterra: dopo altri cinque anni, aveva rivisto Hull, che aveva ripreso il vero
nome di Ellic Howe, e avevano trascorso una nostalgica serata di birra e sigarette durante la quale
Leonard aveva promesso il suo interessamento per far pubblicare il libro di memorie di Howe e
aveva appreso che dopo la sparizione sua e di Jo le trasmissioni di Gustav Siegfried Eins erano state
sospese. Inizialmente perché si temeva che la loro scomparsa fosse il segnale di un’offensiva nei
confronti della radio, ma in capo a qualche giorno tutta la propaganda era stata fermata: la
Germania si stava mettendo in difficoltà da sola con la campagna di Russia, e poi, poi sapeva
com’era andata, no? Dopo la quarta birra, Leonard aveva chiesto di Jo “Ti piaceva, ragazzo, vero?
Era graziosa ma fredda come una notte di gennaio. No, non sappiamo dove sia finita, ma immagino
che se la sia cavata. Ne troverai un’altra”. “Pazienza”, aveva detto Leonard.
Ne aveva avuta, e aveva lavorato sodo: nei giornali, prima, nella televisione poi, infine nella
politica, e con successo, e infine era approdato all’ambasciata inglese in Italia. Gli restava però nel
cuore una rabbia infantile per non aver ottenuto quello che voleva in quel pomeriggio di primavera,
e per essersi sentito gettare in faccia quella che, nel fondo più oscuro di se stesso, sapeva essere la
verità. Jo lo conosceva meglio di chiunque altro al mondo, anche se avevano scambiato, a pensarci
bene, non più di un migliaio di parole.
10
Le sette. Ha congedato Amal, gridandogli che era in grado di riscaldare una cena e di servirla, e
anche di aprire una bottiglia di champagne. Adesso comincia a pentirsene. E se, al momento giusto,
non si fosse ricordato dov’era il cavatappi? Se l’idea stessa di cavatappi fosse stata cancellata dalla
sua mente? Se si fosse ritrovato a brancolare nel vuoto con la bottiglia in una mano e l’altra
afflosciata sul fianco? Per sicurezza, prende il cavatappi dal cassetto e decide di metterlo in
frigorifero, accanto allo champagne.
Lo squillo del campanello lo sorprende mentre è chinato davanti allo sportello. Il cavatappi gli
sfugge di mano, rotola sul pavimento. Il cuore gli batte così forte che pensa che morirà qui, davanti
al frigorifero aperto e al contenitore con un avanzo di pollo ai funghi. Il torace viene arso da una
fiamma di dolore. Non adesso, implora. Domani, stanotte, ma non adesso.
Prende una pasticca dalla tasca, la inghiotte senza acqua. “Un momento”, grida, rimpiangendo di
essere così solo e così vecchio: la porta gli sembra lontanissima, e il pavimento oscilla,
improvvisamente ostile, sotto le pantofole. Le pantofole! Non ha fatto in tempo a infilare le scarpe,
e ha dimenticato il maglione di cashmire, la camicia pende fuori dai pantaloni, non ha finito di
abbottonarla, come è possibile? Si ferma, incerto, a pochi passi dalla porta, ma il campanello suona
di nuovo e allora decide che non ha importanza, che le pantofole di velluto blu sono dignitose e la
camicia gli dà un tocco di originalità che…Bugie. Ha solo paura che Jo fugga di nuovo se non
aprirà subito la porta. Dunque, la aprirà, ora.
Apre, e una nuova fitta gli trafigge il petto.
Perché dietro la porta c’è Jo, con i capelli color rame tagliati corti sopra le orecchie, e gli
orecchini a forma di rosa, e un giaccone verde oliva identico a quello che indossava a Wavendon
Tower, e pantaloni neri da uomo su un paio di anfibi militari. E con gli stessi occhi grigi e freddi
come una notte di gennaio. Jo. La Jo di settant’anni fa.
“Com’è possibile?”, mormora.
Lei non risponde, batte i piedi con impazienza, l’acqua gocciola dal giaccone. Leonard si accorge
che sta piovendo forte.
“Fammi entrare, almeno”, dice poi, e la voce è proprio la sua, severa e insieme morbida, la voce di
Die Rose.
Leonard si fa da parte, e il dolore aumenta e si irraggia dal petto allo stomaco fino all’inizio del
braccio sinistro. Non importa. Nulla importa se non lo stupore per questo miracolo, per questa
giovane donna che ha risalito i secoli per presentarsi davanti a lui come se fosse appena uscita dal
bosco che l’aveva inghiottita.
“Jo”, dice, non trovando altra parola possibile.
Lei si guarda intorno. Ammira, crede Leonard, i quadri, i mobili, il vaso Ottocento colmo di rose.
Poi siede sul bordo sul divano, gli sorride infine, ma è un sorriso che mette paura.
“Non sono Jo. Non ha importanza il mio nome. Sono sua nipote, quella a cui sarebbe capitato
qualcosa di brutto se mia nonna non avesse accettato di venire da te”.
“Che cosa dici?”
La mani di Leonard si muovono verso di lei, vorrebbe scuoterla, vorrebbe farle dire che sta
mentendo, anche se le parole di lei si stanno già sciogliendo come neve nella sua mente. La ragazza
estrae una pistola dalla tasca del giaccone. Leonard si stupisce nel riconoscerla: è un Enfield. Il
revolver di Jo.
“Siediti, Leonard”, dice lei, senza smettere di sorridere.
Lui si lascia cadere, senza fiato, sulla poltrona.
“Non doveva andare così, vero? Dovevi accogliere mia nonna nel migliore dei modi, e
possibilmente senza quelle ridicole pantofole, per poi farle chissà cosa. Giocare come il gatto col
topo: sembra che sia una tua specialità, possibilmente mandando avanti altri a fare la parte peggiore
del lavoro, non è così? Hai mandato un tirapiedi a dire a mia nonna che se non avesse accettato il
tuo invito, sarei stata io ad andarci di mezzo”.
La pistola è puntata su di lui, la mano della ragazza – non è Jo? Perché Jo non è qui? - è ferma.
“Sì”, dice Leonard. “Non avevo altro modo”.
11
“Dimmi perché”, intima lei.
“Perché mi è scappata. Perché è l’unica a essermi scappata. Agli altri piaccio. Persino a Armin Hull
ho continuato a piacere, sai? Non ha mai saputo, o se ha saputo ha capito che è così che funziona e
che io sapevo farlo funzionare”.
“A mia nonna non piacevi. E’ per un motivo così stupido che ti sei avvelenato la vita? Ma guarda.
Un pensiero piccolo piccolo fa soffrire un uomo così importante. Ma forse non per te era tutt’altro
che piccolo, non è così?”.
Leonard scuote la testa, affascinato. E’ diversa da Jo, anche se le somiglia moltissimo. Jo non
avrebbe sprecato tante parole per lui. Questa ragazza. Uno, due, dieci campanelli iniziano a trillare
nella sua testa.
“Perché tu vuoi l’approvazione di tutti. Anche di quelli che hai calpestato e tradito. E credo proprio
che tu l’abbia avuta, sì? I tuoi tirapiedi, ma anche i tuoi nemici, ti ammirano. Hanno paura di te.
Pensano che tu sia un uomo potente. Ti hanno mai visto in pantofole? Hanno visto la saliva che ti
cola sul mento, come sta succedendo adesso?”.
Sobbalza, pulendosi la bocca con la mano. Si raddrizza, nonostante i campanelli siano diventati
mille, ma va bene e non importa, non importa e va bene.
“Tua nonna non è venuta. Allora sarai tu a cenare con me al suo posto. Ora berremo lo champagne,
e poi balleremo insieme. Ho un disco, un disco vero, purtroppo è un vinile e non di vetro come
quelli che usavamo noi. Lili Marleen”.
Che follia è questa, pensa. Un capriccio. Il capriccio demente di un uomo che muore. Non l’aveva
immaginata così. Così è…
“Ridicolo”. La ragazza getta indietro la testa e ride.
“Tua nonna se ne pentirà”, grida Leonard, esasperato.
Lei si raddrizza, lo fissa.
“Mia nonna è morta”.
I campanelli. Aria. L’inalatore. Dove?
“Si è uccisa subito dopo la visita del tuo tirapiedi. Prima mi ha telefonato. Mi ha detto che dovevo
farle un favore importante. Mi aveva scritto una mail. Dovevo leggerla. Ha riattaccato. Quando ho
aperto la mail c’era tutto. Spiegava cosa dovevo fare, come dovevo vestirmi, dove avrei trovato la
pistola, cosa dovevo dirti. L’ho richiamata, subito. Non rispondeva. Ho preso il primo aereo per
Roma. Era troppo tardi”.
Non è vero.
“Apparentemente un attacco di cuore, non meritava neanche una riga su un giornale, per questo non
hai saputo nulla. Ha usato un veleno, o sonniferi, non lo so. Non l’abbiamo toccata. Ma si è uccisa.
Me lo ha scritto. Ti è scappata, ancora una volta. E tu non puoi più prenderla”.
No. Non così.
“Non ci credo”, grida Leonard. E mentre i campanelli impazziscono nella sua mente, si alza e si
avvicina e riesce, finalmente riesce, a chiudere la mano sul polso della ragazza.
La sua mano si chiude sull’aria, le unghie gli graffiano il palmo della mano.
Jo.
Sei proprio tu, allora. Sei tu e sei venuta da me, pensa Leonard, e poi pensa che non ha importanza
chi sia davvero quella che ha davanti, se un fantasma ritornato alla vita per vendetta, o una ragazza
chiamata dall’ultima volontà di una donna coraggiosa. Perché la fitta che scavava nel petto, infine,
esplode e il dolore è così intenso che non può far altro che scivolare in ginocchio davanti a lei, ma
mentre sta per toccare il fondo di quella caduta sente un sibilo, una parola, la stessa di di sempre,
quella che si porterà dall’altra parte.
Infame.
Lei rimane ferma, per un po’, con il corpo di Leonard che diventa sempre più pesante sulle
ginocchia. Non lo tocca. Poi lo spinge di lato, ascolta con compiacimento il piccolo tonfo sul bel
tappeto, un Tabriz, crede. Non c’è altro rumore se non la pioggia che batte sui vetri, e la musica di
Natale, un fa-la-la che arriva dalla strada. E’ ora di andare. Alza il bavero della giacca, nasconde la
12
pistola in fondo alla tasca. Nell’altra, stringe i petali della rosa virgo.
13
Nota.
Molta parte di questa storia è vera: la black propaganda inglese nei confronti della Germania ha
effettivamente utilizzato falsi francobolli, falsi oroscopi e la radio. La prima fu proprio Gustav
Siegfried Eins, e i luoghi da cui trasmetteva e le modalità con cui lo faceva sono quelle che ho
raccontato. Con qualche libertà: Armin Hull non faceva parte del gruppo e i falsi francobolli
vennero da lui emessi e diffusi qualche tempo dopo l’inizio dell’attività di GS1. Ancora: lo speaker
di GS1 era uno solo, Der Chef. Gli ho affiancato una rosa, e spero non gli dispiaccia. Per il resto,
come si suol dire, i personaggi sono frutto della fantasia di chi scrive. Buon Natale.
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rosa virgo - Christmas Tales