LA RICOSTRUZIONE DEL PRIMO SENATO
PALAZZO MADAMA TORINO
I
G R ANDI
DISCORSI
VITTORIO EMANUELE II
L’unificazione italiana
CAMILLO CAVOUR
I rapporti tra Stato
e Chiesa
MASSIMO D’AZEGLIO
La capitale del Regno
VITTORIO EMANUELE II
“Il grido di dolore”
C OPIA IN CONS U LT A Z IONE
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RE VITTORIO EMANUELE II
DISCORSO DEL RE
VITTORIO EMANUELE II
PER L’APERTURA
DEL PRIMO PARLAMENTO
DELL’ALTA ITALIA
SENATO, 2 APRILE 1860
Signori Senatori, signori Deputati.
ultima volta che io apriva il Parlamento in mezzo ai dolori d’Italia ed ai pericoli dello Stato, la fede nella divina giustizia confortavami a ben augurare delle nostre sorti. In
tempo brevissimo una invasione respinta, libera la Lombardia per
gloriose gesta di eserciti, libera la Italia centrale per meravigliosa
virtù di popoli, ed oggi qui accolti intorno a me i Rappresentanti del
diritto e delle speranze della Nazione!
Di tanto bene andiamo debitori ad un Alleato magnanimo, alla
prodezza de’ suoi e de’ nostri soldati, alla annegazione dei volontari, alla perseverante concordia de’ popoli, e ne rendiamo merito
a Dio; che senza suo aiuto sovrumano non si compiono imprese memorabili colle presenti e future generazioni.
Per riconoscenza alla Francia, pel bene d’Italia, per assodare la
unione delle due Nazioni che hanno comunanza di origini, di principii, di destini, abbisognando alcun sacrificio ho fatto quello che
costava più al mio cuore. Salvi il voto de’ Popoli e l’approvazione del
Parlamento, salve in riguardo della Svizzera le guarentigie del diritto internazionale, ho stipulato un trattato sulla riunione della
Savoia e del circondario di Nizza alla Francia.
Molte difficoltà avremo ancora a superare; ma sorretto dalla opinione pubblica e dall’amore de’ popoli, io non lascerò offendere né
menomare verun diritto, veruna libertà.
Fermo, come i miei Maggiori nei dommi cattolici e nell’ossequio al
Capo supremo della Religione, se l’Autorità Ecclesiastica adopera
L’
discorso del re vittorio emanuele ii per l’apertura del primo parlamento… > 2 aprile 1860
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armi spirituali per interessi temporali, io nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi stessi troverò la forza per mantenere intera
la libertà civile e la mia autorità, della quale debbo ragione a Dio
solo ed a’ miei popoli.
Le Provincie della Emilia hanno avuto ordinamento uniforme a
quello delle antiche; ma nella Toscana che hanno leggi ed ordinamenti propri era necessaria una temporanea provvisione particolare.
Il tempo breve e gli eventi rapidi hanno impedito di preparare le leggi che dovranno dare assettamento e forza allo Stato. Nel primo periodo di questa legislatura, non avrete a discutere che le più urgenti proposte. I miei Ministri prepareranno più tardi colle debite
Consulte i disegni sui quali nel secondo periodo dovrete deliberare.
Fondata nello Statuto la unità politica, militare e finanziaria, e la
uniformità delle leggi civili e penali, la progressiva libertà amministrativa della Provincia e del Comune rinnoverà nei Popoli Italiani quella splendida e vigorosa vita che in altre forme di civiltà e di
assetto europeo era il portato delle autonomie de’ Municipi, alle
quali oggi ripugna la costituzione degli Stati forti e il genio della Nazione.
Signori Senatori, Signori Deputati.
Nel dar mano agli ordinamenti nuovi, non cercando nei vecchi
partiti che la memoria de’servizj resi alla causa comune, noi invitiamo a nobile gara tutte le sincere opinioni per conseguire il sommo fine del benessere del popolo e della grandezza della patria.
La quale non è più la Italia dei Romani, né quella del medio evo:
non deve essere più il campo aperto alle ambizioni straniere, ma deve essere bensì l’Italia degl’Italiani.
CAMILLO CAVOUR
DISCORSO
DEL PRESIDENTE
DEL CONSIGLIO
CAMILLO CAVOUR
SENATO, 9 APRILE 1861
presidente del Consiglio, ministro degli affari esteri e
della marina – Domando la parola.
PRESIDENTE (rivolgendosi al senatore Di Campello) – La parola spetterebbe ora al senatore Di Campello, ma avendola anche domandata l’onorevolissimo signor Presidente del Consiglio…
CAVOUR – Se il senatore Di Campello intende fare qualche interpellanza, allora io lo ascolterò, e risponderò dopo di lui…
DI CAMPELLO – Parli pure il signor Presidente del Consiglio,
io parlerò dopo aver sentito la sua risposta.
CAVOUR – (Movimento di attenzione) Signori Senatori. All’annunzio delle interpellanze fattomi in una tornata degli ultimi giorni
della scorsa settimana, io mi sentii alquanto sgomento, dacché io
temeva che per parte dell’onorevole interpellante si volessero richiedere dal Ministero spiegazioni sugli eventi accaduti dopo la solenne discussione che ebbe luogo in altro recinto, oppure nozioni
sopra i fatti che avrebbero potuto compiersi nel breve periodo di
tempo che ci separa dalla ricordata discussione. Ma il discorso pronunciato testé dall’onorevole oratore mi prova che tale non era la
sua intenzione, e che, apprezzando al giusto loro valore le difficoltà che circondano il Governo del Re, egli si asteneva con savia prudenza di fare al medesimo domande, che lo potessero porre in imbarazzo, e si limitava a chiedergli nuove solenni dichiarazioni sui
principii della sua politica, in conferma, in certo modo, di quelle che
furono accolte così favorevolmente, oso dire, e dai rappresentanti
della nazione, e dalla nazione stessa.
CAVOUR ,
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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Ottimo fu il pensiero che inspirò l’onorevole interpellante; giacché, o signori, se lo scopo, a cui noi dobbiamo mirare è grande,
determinato, e in certo modo non suscettibile di essere discusso, i
mezzi per raggiungerlo sono di difficile attuazione.
La Camera dei deputati ha riconosciuto, e voi il riconoscerete, io
spero, assieme coll’onorevole interpellante, che noi non possiamo
adoperare se non mezzi morali; che mal si addirebbe a noi di arrivare nella sede del cattolicismo come conquistatori; che sarebbe
per l’Italia grave pericolo per il mettere in fuga il Pontefice.
Il preopinante quindi non desiderava che la conferma dei principii, a cui egli mi pare faccia adesione: solo aggiunse nuove considerazioni per avvalorare quelle, che furono in altro recinto sviluppate.
Egli conchiudeva la sua orazione dicendo molto opportunamente che la questione di Roma si collega strettamente con quella di Napoli, e che collo sciogliere la prima si darà alla seconda una completa soluzione.
Sì, o signori, la questione romana, considerata anche sotto questo aspetto, acquista ancora una maggiore importanza. La sua soluzione ha un’importanza immensa e dal lato delle nostre relazioni politiche all’estero, e da quello dell’intera politica.
Importa sommamente, come diceva l’onorevole senatore Vacca,
che Roma cessi dall’essere il ricovero di tutti i nemici d’Italia e
della causa della libertà: importa sommamente che Roma non sia
più il centro da cui si spargono le cospirazioni, le congiure.
Importa sommamente che da Roma non partano più gli emissari mandati con ogni mezzo a suscitare disordini nelle provincie
nuovamente riunite al Regno. Ma importa altresì alla consolidazione della pace dell’Italia, e dell’edifizio che vi abbiamo fondato,
massimamente alla completa fusione morale delle nobili ed interessanti provincie meridionali, che cessi lo antagonismo che regna fra la Chiesa e lo Stato.
Non vi ha dubbio che questa specie di antagonismo, il quale
non si può, a mio credere, apporre a colpa del Governo, serve ai mal-
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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contenti, agli ambiziosi per creare gravi difficoltà al Governo, per
mantenere l’agitazione nel paese.
E quindi io mi associo pienamente all’onorevole senatore Vacca per proclamare che la soluzione della questione di Roma è necessaria a dare un assetto definitivo, ad assicurare la pace in modo indistruttibile nelle provincie meridionali del Regno.
Non vorrei trattare per incidente la questione napoletana, e
quindi non seguirò su questo terreno l’onorevole interpellante, il
quale parmi essersi ristretto a metterla avanti onde dimostrare
maggiormente la necessità di promuovere con tutti i mezzi la soluzione della questione di Roma. Tuttavia io gli dirò che accetto i
consigli che egli dà al Governo, ma nel modo seguente.
Credo sia dovere del Governo di usare di tutti i mezzi che gli
dà la costituzione onde far rispettata nelle provincie meridionali la
legge, onde combattere vigorosamente i partiti estremi, sia che essi si ammantino di nero, sia che si ammantino di rosso.
Confido che colle armi legali il Governo potrà ricondurre l’ordine e la pace in quelle provincie. Non già che io speri, né che si possa sperare di far sparire immediatamente le tracce degli antichi partiti; e chi nutrisse tale fiducia mostrerebbe di sconoscere l’indole
delle rivoluzioni, né terrebbe conto degli insegnamenti della storia.
Difatti noi vediamo, o signori, che ogni qual volta un grave
cambiamento succede, sia pure questo prodotto da cause nobili,
generose e legittime, ne rimane una grave perturbazione nella società. Il nuovo Governo, i principii più salutari, più illuminati ben
possono a poco a poco acquietare tale perturbazione, ma il concorso del tempo è inevitabile.
L’Inghilterra compì nel 1688 una gloriosa rivoluzione, la quale
ebbe per effetto di far trionfare il principio della libertà senza che
trascorresse nei disordini dell’anarchia. Eppure dovette lottare oltre 60 anni contro gli antichi partiti.
Il nostro rivolgimento non fu così grave, quanto quello che si
compì in Inghilterra. Noi lo abbiamo compito in nome di più grandi principii, cioè non solo a nome della libertà, ma altresì a quello
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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della nazionalità. Quindi io non esagero le difficoltà e i pericoli;
non credo che si richiederanno 60 anni per far scomparire i partiti ostili dalla superficie delle provincie meridionali. Ma se non richiederanno 60 anni, si richiederanno certamente più di sei mesi che sono trascorsi dal giorno fortunato in cui Re Vittorio Emanuele era
accolto nelle mura di Napoli fra gli applausi delle popolazioni.
Spero, ripeto, che con i mezzi legali noi giungeremo a far rispettare le leggi, e ristabilire la pace. Ma se per avventura noi andassimo
errati, verremmo al Parlamento non a chiedere la dittatura, né i pieni poteri, ma quei provvedimenti speciali e determinati che fossero
consigliati dalla necessità del tempo. Noi seguiremmo l’esempio ricordato dall’onorevole senator Vacca; faremmo come i ministri inglesi appartenenti al partito il più liberale, chiedendovi tale e tale altra
modificazione alle leggi nostre penali. Ma, ripeto ancora, io spero e
spero fermamente che non saremo condotti a questa estremità.
Certamente le parole pronunziate in questo e in altro recinto, l’opinione unanime manifestata dai rappresentanti di quelle provincie,
quella invocazione quasi universale fatta al Governo di adoprar forza ed energia, aumenterà la forza e l’energia nelle mani del Governo.
Ma fra tutti i mezzi, il più efficace senza dubbio sarebbe la soluzione della questione romana, giacché si toglierebbe ai partiti se
non il loro stato maggiore, certamente il loro esercito.
Non vi dirò come io intenda la soluzione della questione romana: già lo dichiarai solennemente in un altro recinto, e or poco fa
l’onorevole senatore Vacca lo ripeté con parole onorevoli e gravi. Vi
dirò bensì che le speranze da me manifestate in altra occasione
non sono scemate. Certo non posso dirvi, o signori, che in così
breve spazio di tempo le opinioni poste avanti la prima volta a nome del Governo abbiano fatto molte conquiste; ma però hanno
fatto progressi; il principio solennemente proclamato della separazione della Chiesa dallo Stato, della libertà della Chiesa è stato accolto e nel paese e fuori molto favorevolmente da tutte le frazioni
del partito liberale, anche da quelli che si preoccupano specialmente degli interessi conservatori.
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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Questo è un gran fatto; ma ciò non basta a giungere ad una soluzione; bisognerà non solo renderci favorevoli le opinioni liberali, ma è forza altresì che la parte moderata ed illuminata della Società Cattolica riconosca la grande verità di questo principio; accetti
il grande principio della libertà. È qui, o signori, si incontrano molte difficoltà , gravi ostacoli: ma ciò deve forse destare meraviglia?
Deve forse sfiduciarci?
No, o signori, il principio di libertà non può essere accolto dalla società cattolica senza esitanza, senza risvegliare certi dubbi e timori.
Ed in verità o signori, come ciò potrebbe essere altrimenti? È forse la prima volta che una grande nazione cattolica si rivolge risolutamente alla Chiesa offrendole la libertà piena ed intera in contraccambio di sacrifizi d’interesse temporale?
Il principio della libertà religiosa da applicarsi ad una società cattolica (mi si permetta di dirlo) è nuovo nel mondo. Forse la Chiesa cattolica non si è mai trovata a fronte di una società cattolica proclamante il principio di libertà. Che dico di una società cattolica?
non si è forse mai trovata a fronte di un’altra società, che le offrisse quello che le offriamo noi?
Ho detto e lo ripeto, il principio della libertà religiosa è recente
in questo mondo. Non ho bisogno per dimostrarlo di risalire ai
primi secoli del cristianesimo dove la Chiesa fu a vicenda perseguitata e persecutrice. Egli è certo che del principio di libertà non vi
era traccia nei tempi di mezzo, ma nemmeno all’epoca delle grandi riforme. I potenti riformatori del 16 secolo non combatterono la
Chiesa cattolica in nome della libertà religiosa, ma vollero sostituire ad una dottrina un’altra la quale dava forse una parte più
larga alla ragione individuale.
I riformatori in Germania, Calvino, Lutero, Zwinglio, ecc. ecc.,
non riconoscevano il dogma della libertà religiosa, più che non lo
riconoscessero Clemente VII e Paolo V.
E invero, o signori, osservate le società dove il principio delle
riforme si è mantenuto in tutta la sua forza, e vedrete che nemmeno ora il principio della libertà religiosa trova la piena applicazio-
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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ne. Anche ne’ paesi dove esso è stato posto in luce dalla civiltà
moderna, voi lo vedrete ancora di quando in quando in lotta col primato della riforma.
Nella Svezia dove questo principio è stato conservato nella sua
purezza, sono in vigore leggi penali contro i cattolici; e un sovrano illuminato e liberale operò sforzi inutili per riformare quella
legislazione.
Negli altri paesi ove questo principio acquistò una forza preponderante, di quando in quando trovate tracce dell’antico principio della riforma. Mi basterà il citarvi l’Inghilterra dove le leggi
politiche contro i cattolici durarono fino al primo quarto del secolo presente, e dove dieci anni or sono il partito liberale spaventato da una Bolla del sommo Pontefice che creava dei semplici titoli, fece adottare dal Parlamento un bill penale per colpire di una
emenda di 100 lire sterline l’accettazione di uno di tali titoli.
Dunque non è da stupire se la Chiesa, se il cattolicismo accoglie
con tanta diffidenza un principio che negli stessi stati protestanti
non ha ancor ricevuto la sua intera applicazione.
Ma un altro motivo esiste che spiega la diffidenza, il timore che suscita nella Chiesa la proposta di applicare largamente questo principio.
Abbiamo visto, pur troppo, spesse volte, i partiti liberali, dopo
aver combattuto per ottenere la distruzione degli antichi sistemi,
per conquistare, in nome della libertà un principio, conseguito il
trionfo, fare uso del principio stesso, per opprimere coloro contro i
quali avevano combattuto. Noi abbiamo visto p. e. in Francia nel
secolo scorso, quegli uomini illustri, quei benefattori dell’umanità
che fecero trionfare nell’assemblea costituente i principii, che direi
la carta magna della società moderna, i principii dell’ 89, un anno
dopo, nel 1790, applicare al clero un decreto improntato dallo spirito di dispotismo: abbiamo visto un anno dopo imporre una costituzione civile al clero in opposizione assoluta ai grandi principii
della libertà della Chiesa: abbiamo visto usurpare i diritti del sommo pontefice, negare ai papi il diritto di investitura, e richiedere dai
membri del sacerdozio un giuramento contrario alla loro coscien-
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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za. Tali fatti, o Signori, e molti altri spiegano fino ad un certo punto questa esitazione, questo timore della Chiesa; e mi spiegano
eziandio come l’Episcopato francese, il quale in generale non conosce l’Italia, e ne giudica dalle relazioni inesattissime e potrei dire
mendaci, calunniose dei giornali ultra clericali, veggo con un certo orrore i nostri sforzi per stabilire le nostre relazioni con Roma sul
principio dell’assoluta libertà. Certamente questo si confonde con
quanto accadde in quell’epoca, ed esso crede vedere come conseguenza, come applicazione necessaria di questo nostro sistema,
una costituzione del clero a senso di quella del 1790.
Senza di ciò io non saprei capire come l’Episcopato francese,
così eminente per le sue virtù, per il suo zelo religioso, e che esce
dalla classe la più liberale della società, possa mostrar tanto odio,
tanta ingiustizia contro gli sforzi degli italiani, e togliere loro la
libertà per darla alla chiesa.
Quanto avvenne in Francia si riprodusse in alcuni altri paesi, ma
sotto forme, oso dirlo, meno condannabili.
Noi abbiamo visto il partito liberale in Austria, in Toscana, in Napoli introdurre nella legislazione principii che limitavano l’azione
del potere ecclesiastico; principii che certamente erano in contraddizione con i grandi principii di libertà.
Ma, o signori, a giustificazione di questi governi, conviene tener
conto delle relazioni nelle quali si trovavano rispetto alla corte di
Roma.
Investita del potere temporale, la corte di Roma, ricordando e
rimpiangendo un potere che esercitava nei tempi di mezzo, l’influenza che essa credeva in diritto di esercitare sugli altri Stati in
Europa, non poteva essere trattata con quella larghezza colla quale si tratterebbe un potere puramente spirituale.
Quindi, o Signori, se noi dobbiamo dichiarare non più conformi allo spirito dei tempi quelle dottrine Giuseppine e Leopoldine,
dobbiamo però riconoscere come gli autori delle medesime fossero pienamente giustificati ad adoperare quelle leggi, non dirò come
armi di guerra, ma come armi di difesa.
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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Però quelle leggi o fossero proclamate per la difesa o per l’offesa, certo si è che lasciarono nello spirito della Corte di Roma e in
quello dei cattolici più ardenti, impressioni contrarie allo spirito
di libertà, una certa diffidenza verso le proposte che vengono fatte dal partito liberale.
Per essere giusti dobbiamo tuttavia riconoscere che le idee di
libertà si sono manifestate e sviluppate anch’esse nel seno della
società cattolica. Noi abbiamo visto in Francia una parte del clero,
dopo la rivoluzione del 30, riconoscere che associando la causa
della chiesa a quella del Borbone l’aveva resa altamente impopolare, ed in allora alcuni membri eminenti della società cattolica proclamarono il principio della libertà.
Se non che il capo di quella scuola, uomo d’ingegno straordinario e d’immaginazione ardente, non vedendo accolte favorevolmente le sue dottrine dalla Corte di Roma, invece di temperare
l’espressione delle sue dottrine, continuando a mantenerle, e cercando di propagarle nel clero francese, abbandonò al cattolicismo
e portò l’appoggio della sua eloquente parola ad una partito nemico non solo della chiesa, ma, direi pure, della civiltà.
Ma non perciò questi germi sono stati soffocati, non perciò il
partito che vuole la libertà nel seno del clero francese è scomparso dalla superficie della Francia. Io porto avviso, che molti e molti membri del clero francese desiderano ardentemente di vedere
compiersi, attuarsi il programma che nei primi tempi che seguirono l’anno 30 era stato pubblicato dall’illustre abate Lammenais
e dai suoi seguaci padre Lacordaire e conte Montalambert.
Vi è un paese dove questa dottrina ha ricevuto una larga applicazione, ed è il Belgio.
Ivi il principio della separazione della Chiesa dallo Stato, della
libertà accordata al clero, ha ricevuto una applicazione larga e ora
ha la sanzione del tempo. L’esempio del Belgio debbe avere perciò grande autorità e sul partito cattolico e sul partito liberale; deve rassicurare il partito liberale che la chiesa può essere interamente libera, che può godere del diritto d’associazione, che può
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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esercitare la libertà d’insegnamento nel modo il più ampio senza
che la libertà abbia a patirne.
E per verità, o signori, voi vedete, che nel Belgio le istituzioni liberali vennero svolgendosi a mano a mano.
È vero che vi è lotta, e lotta vivissima, ardente fra il partito cattolico ed il partito liberale; ma, o signori, questa lotta non è stata
funesta in Belgio, non è stata funesta alla libertà.
Il partito cattolico, nelle vicende che succedono nei Governi
rappresentativi, pervenne più volte al potere, e ciò non solo in tempo in cui la corrente generale delle idee era favorevole al movimento liberale, ma altresì in quelli in cui il vento europeo soffiava
verso la parte della reazione.
Eppure, se il Governo, uscito dal partito cattolico, ha cercato
di far adottare alcune leggi su l’insegnamento, sulla carità, sulle mani-morte, favorevoli agli interessi del clero, ha rispettato
tuttavia i grandi principii di libertà sui quali riposa la costituzione belga: non ha mai portato la mano sulla costituzione, sulle leggi organiche, sulla libertà della stampa, sulla guardia nazionale,
sulla libertà individuale. E nelle questioni di politica se fu contro di noi, contro il movimento italiano (forse perché non conosce bene la nostra storia), possentemente ostile, non si metterà per servile rispetto dalla parte dei poteri sovrani, che
rappresentano il potere assoluto; giacché, se la memoria non mi
inganna, non è molto tempo che nella Camera Belga alcuni
membri del partito cattolico mossero gravi lamenti al Ministero,
perché i principi si mostravano troppo propizi ad un’illustre principessa appartenente ad uno Stato che in allora riassumeva l’idea
del dispotismo.
Certamente vi è lotta fra i due partiti, ma io non considero questa lotta come un male. Noi non possiamo immaginare uno stato
di cose fondato sulla libertà, dove non siano partiti e lotte. La pace completa, assoluta, non è compatibile colla libertà. Bisogna saper accettare la libertà co’ suoi benefizi, e forse anche co’ suoi inconvenienti.
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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Se l’esempio del Belgio deve rassicurare i liberali, deve pure rassicurare i cattolici, perché parmi che in nessuna altra contrada
d’Europa il Clero, goda di una condizione più favorevole che in
quel pese.
Ma, o signori, io credo che sia facile il dimostrare che l’Italia è
la nazione del mondo la più atta ad applicare i grandi principii
che ho avuto l’onore di proclamare. E perché, o signori? Perché in
Italia il partito liberale è più cattolico che in qualunque altra parte d’Europa. In Italia i grandi pensatori (non parlo de’ tempi andati, ma di quelli del secolo presente) si sono affaticati per conciliare lo spirito di libertà col sentimento religioso: ed io posso tanto più
proclamare questa verità innanzi a voi, in quanto che la maggior
gloria letteraria d’Italia, l’uomo illustre che voi vi onorate d’annoverare fra i vostri colleghi, il primo poeta vivente d’Europa, ha
sempre cercato di conciliare questi grandi principii: ne’ suoi versi
immortali ha celebrato le glorie della Chiesa con i sentimenti più
liberali, e quasi alla fine della sua carriera si mantenne sempre fedele all’uno e all’altro principio. E nella sfera della filosofia, là dove la conciliazione forse è più difficile, dove l’antagonismo si manifesta più facilmente, i nostri due grandi filosofi, quantunque in
campo diverso, si accordano in un pensiero, il quale domina tutte
le loro teorie, la riforma di certi abusi, la conciliazione dello spirito di libertà col sentimento religioso. Antonio Rosmini e Vincenzo
Gioberti hanno consacrato tutta la loro vita, tutta la vastità del loro ingegno all’arduo lavoro di propugnare la conciliazione dei due
grandi principii sui quali riposar deve la società moderna. Potrei citare molti altri nomi minori; ma quando in un paese i più grandi
poeti, i più illustri filosofi propugnano certe dottrine, vuol dire che
queste dottrine hanno molti seguaci nella nazione loro.
Quindi, o signori, in Italia più che altrove questa conciliazione
può farsi, e può farsi utilmente.
Vi sarà lotta, imperocchè io non credo ad un accordo perfetto;
vi sarà lotta, anzi è desiderabile che vi sia. Ove questa conciliazione si compiesse, io mi accingerei a sostenere non pochi assalti;
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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anzi, dovendo parlar francamente, dirò che se la corte di Roma
accetta le nostre proposte, se si riconcilia coll’Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel paese legale, i fautori della
chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno
il sopravvento; ed io mi rassegno fin d’ora a finire la mia carriera
nei banchi dell’opposizione (Ilarità prolungata).
Io sono profondamente convinto della verità di quanto ho avuto l’onore di esporvi e del vantaggio immenso che la Chiesa deve
ricavare dall’adozione dei principii sui quali noi vogliamo stabilire un perfetto accordo; e nutro ferma speranza che questa convinzione poco a poco andrà spargendosi nella società cattolica: e a
ciò contribuirà non poco la discussione pubblica e la manifestazione del sentimento nazionale. A ciò giovò, credo, grandemente la discussione che ebbe luogo nell’altra Camera, e l’Europa rimane in
certo modo stupefatta, vedendo come da tutti i banchi di quell’illustre consesso sorgessero voci rispettose pel capo della chiesa,
manifestanti sentimenti di conciliazione. Ma ciò che più deve averla colpita si è, che se fra queste voci ve ne furono alcune che manifestarono sentimenti più altamente cattolici, forse a mio credere troppo cattolici, queste voci sorsero dai banchi dell’estrema
sinistra (Sensazione)
Così, o signori, se vi associate a questa grande manifestazione,
se accordate il peso del vostro voto alla politica del Governo, voi agevolerete di molto la nostra impresa.
Quando un corpo così cospicuo, che racchiude nel suo seno le illustrazioni di tante parti d’Italia, al quale spetta più specialmente
il dovere di conservare i grandi principii della società, si associa
per proclamare l’opportunità di una conciliazione fondata sulla
larga applicazione del principio della libertà, voi avrete fatto, o signori, opera utilissima. Ond’è che procedendo fermi e risoluti nella nostra vita, senza lasciarci trasportare da impazienze irragionevoli, né sgomentare da dubbi e da pericoli, io spero, che fra breve
avremo convinta la parte eletta della società cattolica della lealtà
delle nostre intenzioni; l’avremo convinta, che la soluzione, che
discorso del presidente del consiglio camillo cavour > aprile 1861
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noi proponiamo, è la sola che possa assicurare l’influenza legittima
della Chiesa nell’Italia, nel mondo; e che quindi fra non molto da
tutte le parti della società cattolica s’innalzeranno voci, che grideranno al Santo Padre:
Santo Padre,
accettate i patti, che l’Italia fatta libera vi offre, accettate i patti che devono assicurare la libertà della Chiesa, crescere il lustro della sede ove la Provvidenza v’ha collocato, aumentare l’influenza della Chiesa, e nello stesso tempo portare
a compimento il grande edificio della rigenerazione dell’Italia, assicurare la pace di quella nazione, la quale al postutto,
in mezzo a tante sventure, a tante vicende, fu ancora quella che rimase più fedele e più attaccata al vero spirito del
cattolicismo. (Vivi e prolungati applausi)
MASSIMO TAPPARELLI D’AZEGLIO
DISCORSO
DEL SENATORE
MASSIMO
TAPPARELLI D’AZEGLIO
SENATO, 3 DICEMBRE 1864
L’
Italia per aver voluto a parer mio troppo precipitare il corso degli eventi, e spingere agli estremi desideri immaturi, è giunta oggi al bivio: o di rientrare nelle vie d’una politica pratica e seria, o d’andare incontro ad un disastro economico
d’incalcolabili conseguenze.
Ricordiamoci che dalla questione finanze sempre nacque la salute come la rovina degli Stati; e ricordiamo l’assioma: la buona politica fa la buona finanza.
Le circostanze del paese sono gravissime. Dalla via nella quale
siamo per metterci dipende il nostro avvenire. O diventare una nazione di sano giudizio nel deliberare di salda tempra nell’eseguire, quindi rispettata e potente; ovvero una nazione, giuoco di continue illusioni, consumata da sforzi inopportuni, quindi debole e dileggiata.
È tempo di metter fine agli equivoci e alle reticenze. È tempo di
smettere quella frase tanto ripetuta: “Sì questo è vero ma non si può
dire!” Oh perché non s’ha a poter dire? Vogliamo formare una nazione, e non si troverà né chi osi dire intera la verità, né chi abbia
fermezza di ascoltarla?
Sì v’è però la parola che non si può, non si deve pronunziare la
triste parola della discordia.
La gran minaccia del momento non è una, od un’altra capitale: la gran minaccia d’oggi è la discordia, sono le divisioni.
Dunque verità intera e conciliazione illimitata.
Incomincio dalla verità intera; per quanto il mio intelletto la
sa concepire.
discorso del senatore massimo tapparelli d’azeglio > 3 dicembre 1864
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Sulla questione presente io pubblicai la mia opinione circa quattro anni sono.
Parrà strano ch’io citi un mio opuscolo come se tutti fossero
obbligati a leggere i miei scritti. Ma il detto opuscolo ebbe un certo genere di celebrità, che mi sembra senza peccare d’orgoglio,
poterlo considerare come conosciuto.
Io rispetto il pubblico oggi proclamato il vero Sovrano. Ma è
appunto ai sovrani che i gentiluomini debbono dire la verità. Mi sia
permesso aggiungere che i sovrani dei tempi addietro, se erano
uomini di mente, favorivano chi diceva loro il vero: se erano uomini dappoco li disgustavano. Ma quando Dioniso mandava alle Latomie Filossene, perché aveva trovati cattivi i suoi versi, non riusciva con questo a farglieli trovar buoni.
Io ebbi anch’io le mie Latomie (forse non le ultime) ed anch’io,
come Filossene, rimasi della mia opinione.
In questa discussione non posso evitare di parlarne. Se mai dicessi di quelle tali cose che “son vere ma non si possono dire” io prego chi m’ascolta a considerare che in certi momenti il parlare
schietto può essere un dovere ma non è certamente un gusto e
molto meno una speculazione. Spero quindi essere udito con tolleranza.
La chiave di tutti i patti che si complicano oggidì è la questione
di Roma.
La passione d’averla per capitale ha servito gl’interessi di molti: non sono egualmente certo che abbia serviti gl’interessi d’Italia.
Comunque sia, è un fatto che coloro i quali non conoscono il dessous des cartes, né il lavorio di società segrete, o non segrete, manifestano qualche meraviglia dell’estrema importanza che danno
gl’Italiani a questa loro classica ambizione. Mentre parrebbe che Venezia ed il quadrilatero avessero anche qualche influenza sull’indipendenza e l’unità nazionale.
Ecco le parole pronunziate di recente da L. Stanley ad un pranzo politico a King’s Lynn – non scordiamo che il nobile lord non è
punto tenero per il Papa.
discorso del senatore massimo tapparelli d’azeglio > 3 dicembre 1864
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“Noi altri inglesi possiamo difficilmente intendere la somma importanza che attaccano gli Italiani alla possessione
di ciò che non è più se non una città d’aria cattiva, ed in
rovina; che non offre verun vantaggio particolare al punto di
vista militare o commerciale; la quale in una parola, non
ha altro che la raccomandi salvo il suo nome storico. Ma in
ultima analisi, se essi credono che ci sia il loro tornaconto di
mettersi in urto col clero, e con i suoi aderenti, che formano
in Italia una classe potente; se non temono d’eccitare l’animadversione dei governi cattolici, tocca a loro a pensarci…
Bisogna confessare che è difficile burlarsi di noi con più grazia
e più buon senso.
Qui ci sarà chi opponga. “Noi vogliamo togliere Roma al Papa
in odio di un potere il quale sempre chiamò lo straniero in Italia”
e la risposta è innegabilmente fondata sul vero. Sono inoltre d’accordo che nelle tendenze verso Roma entra per molto una questione d’odio; e per abbondare voglio anzi concedere che ve ne entrino (o almeno ve n’entrassero) due…ma lasciamo stare
quest’argomento degli odi che mi ripugna.
Mi limito a dire che l’odio è il pessimo dei consiglieri, per tutti, e più per l’uomo di Stato.
Comunque sia, quando un’idea anche meno provvida s’è resa padrona dei cervelli umani, per qualsiasi motivo o ragione, ogni uomo di senno la tiene a calcolo. C’è di più; ogni cittadino deve portar riverenza ad un desiderio espresso dalla Camera con un ordine
del giorno, quand’anche statuisse sulla pelle dell’orso prima d’averlo preso.
Ma la Camera non stabilì il giorno del nostro ingresso in Roma.
Confesso che secondo me non era neppur giunto il giorno in
cui fosse opportuno muovere il governo dall’antica sua sede; che, a
suo tempo, stimo però sempre fosse bene fissare in Firenze.
Da Torino non si governa! Ci ripetono, sarà benissimo; specialmente se v’è un Ministero che non sappia governare (Ilarità). Sarei
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curioso di sapere v.g. se la scadenza a un mese di 200 milioni che
abbiamo allo scoperto sia unicamente effetto dell’aria di Torino
(Ilarità).
Non ostante, siamo d’accordo, non si poteva sempre restar qui.
Ma invece di questo sloggiare a precipizio come se fossero arsi i
ministeri, v’erano questioni più gravi ed urgenti da risolvere.
L’Italia riunitasi, quasi per intero, in così poco tempo in corpo
di nazione, con esempio forse unico nelle storie; l’Italia cogli elementi che la compongono avrebbe dovuto prima di tutto attendere a darsi un ordinamento forte e compatto, onde ridursi il più
presto possibile ad avere disponibili le sue forze ad ogni evento.
Dopo, poteva poi mettere in campo senza pericoli eccessivi le questioni di capitali e d’ingrandimento.
Le altre nazioni hanno impiegato secoli a completarsi. Fra un ingrandimento e l’altro, non si consumavano inutilmente in isforzi
intempestivi. Si rafforzavano in silenzio ed aspettavano.
Noi invece s’è molto gridato nel vuoto; s’è molto speso, e ci siamo molto indeboliti. E neppure così impotenti si sa aspettare?
L’assoluto è il peggior nemico della buona politica come la scienza dell’aspettare è la sua più fedele alleata.
“A che rimestare il passato?” mi si dirà; “a render savio il futuro” rispondo io!
Il tempo utile di far giudizio non è, grazie a Dio, interamente passato.
Io quindi opino che si sarebbe potuto differire e risparmiare
quest’urto nelle fondamenta d’uno Stato nuovo, ancora mal connesso, coll’amministrazione e le finanze in tanto disordine.
Ma ormai il dado è tratto, e mi limito a dire che se questo trattato servirà ad acquetare l’Italia, e por fine all’agitazione per la
capitale; se si potrà quindi cominciare a governar sul serio, ad introdurre finalmente un po’ d’ordine in tutto, a far economia, a
dar forma ragionevole al sistema delle tasse e trovar rimedio al
malcontento e alla sfiducia delle popolazioni… Oh allora benedirò il trattato. Sarà stata la nostra fortuna.
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Se invece risveglierà più ardente la crociata onde affrettare un
nuovo trasporto, se non ci sarà né testa né via di mettersi a far gli
affari del paese; allora invece d’una fortuna sarà stato una disgrazia, ed avremo peggiorate le nostre condizioni, colla scossa economico-morale dello sgombero, di giunta.
Io non intendo con ciò andar contro all’ordine del giorno
della Camera. Intendo anzi ricordare qual è la via che conduce
al suo compimento. Il conte di Cavour, che sapeva quello che
diceva, l’indicò. Non mi sembra egualmente evidente che sia
stato capito.
“L’Italia, diceva egli, avrà Roma quando la Francia ed il cattolicismo del mondo siano convinti che con ciò l’autorità e l’indipendenza del Pontefice ne vengano turbate”.
Basta dare un’occhiata in giro sull’Europa per giudicare dei progressi da noi fatti nella fiducia del cattolicismo; e per giudicare i nostri progressi nella fiducia della Francia basta dare un’occhiata al
trattato; il primo a notizia mia che abbia stipulata una cauzione alla firma d’un principe di Casa Savoia.
Ne parlerò or ora.
Stimo intanto opportuno chiarire alcune idee.
Se ne sono dette tante e di così strane dai ministri, dalle tribune, dalla stampa e dalla piazza, che se il povero pubblico italiano ne avesse perduta un poco la bussola non sarebbe da far meraviglia.
Stabilisco una distinzione.
V’è una gran differenza, fra Roma Capitale e Roma semplicemente città italiana, quale io intesi proporla nel mio programma,
coi diritti e cogli oneri d’ogni altra; retta a municipio per l’amministrazione comunale sotto la sovranità nominale del Pontefice.
La prima ipotesi turba le coscienze e ci tira addosso l’intiera
cattolicità. La seconda non spaventerebbe (o meno) il cattolicismo,
e le coscienze se ne potrebbero contentare.
So benissimo che nemmeno questo sistema è di facile applicazione, ma che cosa è facile nella questione romana?
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Esso avrebbe intanto il gran vantaggio d’essere l’affermazione
del nostro principio politico, mentre il trattato ne è la negazione.
Io vorrei che i nostri plenipotenziari avessero messo innanzi, fra
gli elementi delle trattative, il diritto dei Romani (i soli che nessuno
pensi a nominare nella questione di Roma!) ad avere un Governo
di loro scelta come la Francia e l’Italia: entro i limiti (è inevitabile l’aggiungerlo) entro i limiti fatalmente imposti dalle condizioni eccezionali del Papato a fronte de’ popoli civili, ed anzi di tutti i popoli.
E qui cade appunto l’applicazione dell’assioma “L’assoluto è il
peggior nemico della buona politica”.
A parer mio era consiglio più saggio e più accorto, il riconoscere francamente un tal diritto, salvo a lasciarne al tempo ed alle circostanze la applicazione pratica. Credo poi soprattutto non fosse
male spiegarsi in modo che tutti capissero le vere intenzioni de’contraenti, e perciò cominciassero questi a capirsi fra loro (Bene,
bravo). La massima che la parola fu data all’uomo per dissimulare
il proprio pensiero, è moneta scadente colla pubblicità d’oggidì.
Usando maggior chiarezza si sarebbero evitate tutte quelle spiegazioni e que’ commenti contraddittori, dei quali non si conosce
esempio in diplomazia, de’ quali si rise, e che produssero un effetto certamente poco lusinghiero per le due parti: e quello che
più importa non si sarebbe lasciata una buona ragione in mano di
coloro i quali, visti i Romani esclusi per sempre dal diritto comune non avranno più scrupoli circa i mezzi onde ricondurveli.
Io mi ricordo però ancora abbastanza degli affari per comprendere la difficoltà di far inserire un tal diritto nel protocollo. Tuttavia era bene tentarlo. Una affermazione, anche inefficace, ha sempre importanza per l’avvenire, in materia di diritto.
Tuttociò dev’ essere detto in quest’occasione onde nelle stipulazioni future non vengano trascurate certe regole elementari, ma
non intendo punto gettare un biasimo sui nostri plenipotenziari
dei quali riconosco tutta la buona volontà.
Credo invece opportuno richiamare l’attenzione non solo del
Senato ma (se lo potessi) d’Italia e di Europa su due verità che ve-
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do tenute sempre fra nuvoli mentre tanto importerebbe apparissero limpide e chiare.
Le verità son queste.
Il cattolicismo deve dal canto suo riconoscere essere ingiusto
(ed oggidì impossibile a luogo) il voler sottomettere colla forza molte migliaia d’uomini ad un governo tenuto da tutti la negazione
delle esigenze ragionevoli della civiltà.
Una simile ecatombe immolata alla sicurezza del papato ne sarebbe la più severa condanna.
Il cattolicismo deve dunque ammettere che ove il Papa sia in possesso della libertà, dell’indipendenza, dell’inviolabilità di principe
sovrano; ove abbia i mezzi di tenersi in relazione col mondo cattolico, e governarlo in materia dogmatica disciplinare, beneficiaria,
ecc., deve, dico, ammettere che i Romani vivano della vita generale
dell’età nostra, ed il Papa ne sia sovrano puramente nominale.
Vengo alla seconda verità.
L’Italia dall’altro lato deve comprendere che il culto più antico
e numeroso della cristianità, ordinato mirabilmente nelle sue gerarchie per la comunicazione immediata e potente della volontà
suprema; un culto connesso colle forze più vive della società, non
voglia rinunziare senza ostinata lotta a quella sede ove da diciotto secoli sono raccolti i monumenti più venerati della sua fede.
L’uomo di Stato che merita un tal nome, professi o non professi una fede, sa accettare sempre i fatti. Sarei curioso di sapere se al
ministro più Volteriano della Sublime Porta, verrebbe mai in capo
di mettere a soqquadro la Mecca? Troverebbe sempre modo, se ha
giudizio, d’accomodarsi altrimenti: e qui sta l’abilità.
Duro poi fatica a persuadermi che il cattolicismo, riesca mai a
concepire il Papa al Vaticano, ed il Re d’Italia in Campidoglio, come alcuni vorrebbero.
Ora domando: siamo noi preparati ad una lotta colla cattolicità? Metterebbe conto l’affrontarla?
Ed ove invece venissero ammesse da ambo i lati le accennate verità, quale estesa conciliazione non ne verrebbe tosto nel mondo?
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Non solo religiosa ma politica e civile! Mentre ora in ogni classe il
malessere è così generale!
Se ciò che io dico è vero, sarebbe dovere di tutte le autorità sociali, del Governo, de’ministri, degli scrittori, degli uomini influenti, l’illuminare il pubblico, invece di lasciarlo in balia di tante menzogne e di tante illusioni, o per un fumo di popolarità, o per trovare
appoggio di volgari ambizioni.
D’altronde ognuno faccia ciò che vuole, nessuno de’ due campi può sperare una vittoria intera: l’unica uscita è la transizione.
Giammai l’Italia si persuaderà che una sovranità del Papa, unicamente nominale, sia la rovina della religione.
Giammai il cattolicismo si persuaderà che Firenze capitale sia la
rovina d’Italia.
Ed il mondo avrà dunque a viver sempre in pericolo e guai perché dagli uni non si vuol rinunziare alla Motte de terre, del P. Lacordaire, e dagli altri alle rovine d’una città, che da Diocleziano
in poi non è più stata realmente capitale che della cristianità?
Pel complesso di questi argomenti avrei voluto che, mediante il
trattato, si fosse condotta e stabilita la questione sul suo vero terreno.
Ma lo so pur troppo; nella pratica il desiderabile ed il possibile sono due cose molto diverse. Speriamo tuttavia che s’ottenga in appresso ciò che non poté ottenersi ora. Speriamo che anche la diplomazia faccia un progresso e che d’ora in poi stipuli trattati per essere
eseguiti, e non per essere violati: vale a dire trattati destinati a favorire i giusti desideri di tutti gl’interessati, e non a soffocarli.
Due parole ora sull’opinione di coloro i quali, a facilitare la soluzione della questione romana, calcolano sul progresso della civiltà universale; vale a dire, se non erro, sull’indebolirsi generale delle fedi religiose.
Confesso non sapermi fare un’idea chiara del modo che terrà il
progresso per persuadere al Papa d’allora la rinunzia spontanea
della sua sovranità: se, d’altro lato, egli pel primo non è persuaso,
allora come ora sarà una questione di forza materiale.
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Circa poi lo spegnersi delle fedi, io ignoro qual destino prepari
l’avvenire ai culti esistenti: ammetterò, se si vuole, la possibilità
d’un’epoca nella quale i nostri nipoti vedranno i gran piloni che
sostengono la cupola di Michelangelo, sorgere soli, coperti d’edera,
fra mucchi di rovine; ma noi non abbiam tempo d’aspettar tanto;
ci è forza ordinarci subito: e poiché la cupola di S. Pietro sta sulle
sue basi, mi pare prudente di tenerne conto tra gli altri elementi del
nostro ordinamento nazionale.
Ed aggiungo per ultimo che il potere pontificale così modificato, diverrebbe, secondo me, un vantaggio per l’Italia, mentre innegabilmente ne fu sin ad oggi un danno.
Seguitiamo l’esame del trattato. I nostri plenipotenziari affermano non aver rinunziato a nessun diritto nazionale; se non erro ciò accenna al trasporto della capitale a Roma … come se il rimanere a Torino o l’andare altrove quando ci pare, non fosse un diritto nazionale
molto più generalmente riconosciuto del primo! Ma, passiamo.
Fatto il trattato, comparvero i primi commenti. Non dissipavano ancora le nebbie, ma potevano da ad un dipresso l’idea delle
intenzioni de’ contraenti. Per molto tempo però, ed appunto quando per l’improvviso annunzio erano più concitati gli animi, e quindi più urgente il dissipare timori e sospetti, ecco il piacevole stato
nel quale eravamo mantenuti da un’incredibile imprevidenza!
Secondo i plenipotenziari non s’era rinunziato a Roma. Secondo il trattato e i documenti francesi s’era rinunziato. Secondo la nostra stampa ufficiosa non s’era rinunciato, secondo la stampa ufficiosa francese s’era rinunziato!...(Movimento). Non so se questi
enigmi servano molto a dar riputazione ad un governo, ridotto a vivere d’equivoci. So bene che la società moderna, e l’Italia più di tutti, avrebbero necessità e diritto a ricevere dall’alto, da ogni autorità senza eccezione dei belli e buoni e nobili esempi, ovvero non
s’avranno poi a dolere se le autorità d’ogni classe perdono ogni
giorno riputazione, forza morale ed ogni condizione di vita.
Ma non erano finiti i commenti. Ne venne un ultimo che mi
sembra il più chiaro di tutti.
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L’Italia dal suo canto dice: io aspetto il progresso della civiltà
quand’esso mi dirà È giunto il momento! Dichiaro fin d’ora che
agirò secondo le mie convenienze.
La Francia risponde: quando sia giunto il vostro momento, anch’io agirò secondo i miei interessi. Ciò che in buon italiano significa che ognuno rimane della propria opinione; e che s’è avuta
l’abilità di fare un trattato trovandosi in perfetto accordo su tutto,
salvo sulle sue basi (Ilarità).
Il guadagno più netto si è la capitale portata via da Torino. Sia
Pure: andiamo a Firenze! Ma sia permesso ad un vecchio che ha
molto pensato all’Italia ed alle basi sulle quali stanno saldi gli Stati un avvertimento.
Persuadiamoci che le nazioni si governano bene e fioriscono,
quando le conducono uomini onesti, di carattere fermo e sensato,
che rispettano la propria dignità (Bravo, bene, bene), schivi dallo speculare, e pronti al sacrificio. Se invece le conducono uomini a tutte mani, di poco carattere e meno giudizio, mettete il Governo a Torino, a Roma, a Firenze, o dove volete, sarà tutt’una cosa, e sempre
s’andrà di male in peggio (Bravo, bene).
Ora dunque che la capitale è trovata, si pensi all’avvenire e
sempre a trovar buone e rette amministrazioni e quanto alla città
di Firenze non dubito punto che essa non sia per crearsi un ambiente entro il quale prosperi il governo della dignità e del sacrificio, e
divenga invece impossibile quello dell’intrigo e della speculazione
(Bravo, bene, bene).
Stipulata la convenzione, ci venne detto: “Ora dateci una garanzia”. Ciò che fra privati si tradurrebbe pel pegno in mano (Ilarità):
ed il pegno viene accordato.
Mi sia permesso di ricordare un tempo nel quale anche da noi
si dava una garanzia ai trattati, ma era la nostra firma, ed era tenuta per buona (Bene, bravo). Corse in quei tempi questa parola
del principe di Schwarzemberg: “Se il Ministro sardo lo afferma, gli
si può credere”. Non fu detto che parlasse di caparra.
E non intendo con ciò farmi ostile ai Ministri caduti: essi certa-
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mente fecero il meglio che seppero e poterono: ma intendo mostrare la necessità, l’urgenza somma che ci stringe di riconquistare all’estero, ed anche all’interno, quella riputazione, quella dignità, quella fiducia che secondo il conte di Cavour è la condizione
sine qua non del nostro ingresso in Campidoglio (Bravo, bene).
Un’osservazione ancora ed ho finito.
Se comprendo i termini della convenzione, mi sembra che noi
riconosciamo la sovranità del Papa, quale è al presente. Non mi
pare chiaro egualmente che il Papa riconosca quella del Re d’Italia.
E se il Papa non la riconosce, tutto si ridurrà, al solito, ad una questione d’opportunità e di forza, stato di cose in perfetta armonia come ognun vede con quella brama di conciliazione tra il papato e
l’Italia, professata, da quanto ci dicono, così ardentemente da molti ministeri successivi.
Una tale conciliazione dovrebbe fondarsi, s’intende, sulla celebra frase “Chiesa libera, in libero Stato”.
L’entrare in questa questione mi spingerebbe oltre i limiti che ho
prefissi a questo discorso.
Non voglio però tacere, ch’io stimo codeste parole come un
motto d’occasione che ha terminato il suo servizio (Ilarità); ma
non quale pratica soluzione.
Se ne avvedrebbero i nostri preti e più i nostri curati, sui quali
s’aggrava “Pondus Diei et aestatus” se non esistesse l’exequatur!
L’exequatur, a parer mio, sarà per un pezzo (dovrei dir sempre)
uno dei primi elementi del buon ordine interno presso le nazioni
cattoliche.
Detti i molti danni della convenzione, un’imparziale giustizia mi
comanda di dirne altresì i vantaggi.
Esso pone un termine ad una delle due occupazioni straniere.
Straniero! È in Italia una parola sinistra. Chi ha lette le nostre
storie da Odoacre in qua ne sa il perché. Perciò appunto non mi piace applicarla al Corpo francese, parte di quel nobile esercito, al
quale, come al suo capo, deve l’Italia gratitudine eterna (Bravo,
bene). Ma il cuore della Francia è posto in alto luogo. Dal proprio
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sentire in via d’indipendenza, giudicherà il mio, e son certo di non
essere frainteso. Debbo però notare una circostanza spettante all’intervento. Non possiamo dissimularci che le riserve di libertà
dichiarate ultimamente da ambe le parti riducono ad uno stato
singolarmente precario il benefizio di una cessata occupazione.
In una parola i caratteri del trattato sono oscurità incertezza. È
vero che se l’Italia l’avesse capito, forse l’acclamava un po’ meno
(Ilarità).
Altro vantaggio del trattato è l’unirci più strettamente alla Francia e all’Imperatore Napoleone, il maggior amico che abbia l’Italia.
Si verranno così a porre viepiù in armonia le tendenze politiche
dei due popoli, che hanno fra loro cento motivi di fiducia e nessuno di sospetto (Bravo, bene).
Ma vi può essere un ultimo vantaggio, e se si ottiene sarà di
tutti il maggiore, ed è che cessino oramai odi e rancori fra noi,
che spariscano antiche gare, che anche il Piemonte ottenga finalmente amnistia completa (Ilarità) e che si formi un’Italia veramente unita di cuori e di volontà, come s’ottenne formarla di città e di provincie.
Riassumo i miei concetti in due parole.
Se il trattato, ponendo fine all’agitazione circa Roma, procurandoci più valido appoggio per parte della Francia, ci darà campo onde poter governare, fare economie, ristabilire il nostro credito morale e materiale, e giungere ad ordinarci in modo stabile e
duraturo, io mi rallegrerò del trattato, cercando dimenticare a qual
saggio fece discendere la nostra firma. Nel caso contrario aspetterò per rallegrarmi d’averne veduti gli effetti.
Ho detta la verità schietta: o almeno quello ch’io credo la verità. Due parole ora sulla conciliazione.
Qual è lo scopo al quale tutti ci affatichiamo? Riunire l’Italia
in corpo di nazione. Che cos’è più facile riunire città e provincie divise, o volontà e cuori divisi?
Specialmente in Italia, credo più difficile il secondo del primo.
Non perdiamo dunque mai di vista che fra noi la questione del-
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la concordia, è la prima, e lo sarà per un pezzo. Ora, se gli atti
hanno grave importanza per tutelarla, le parole, i riguardi, le forme l’hanno grandissima cogli uomini di cuore. Per questi una parola d’affetto, una stretta di mano, sono il migliore anzi il solo de’
compensi.
Molti sacrifici s’avranno ancora da compiere, né si potrà sempre ripartirli su tutti egualmente. È desiderabile che d’or innanzi i
sacrifici vengano da un lato accettati con prontezza da chi ne verrà a soffrire, dall’altro chiesti col rammarico che ispira una dura necessità, e non imposti coll’allegrezza d’un sospirato trionfo (Bravo, bene).
Nei tristi casi del settembre, non tanto il fatto quanto l’ingiuria
del modo mosse a sdegno questa città. Pure a me sta concedere
che vi accaddero fatti reprensibili. Ma se tocca a noi torinesi riconoscere i nostri torti; tocca agli altri riconoscere i loro. La vera base d’ogni conciliazione è l’equità.
Ora, mi sia permesso di terminare, dando un ultimo sguardo sul
nostro passato; non tornerà inutile a chi cerca la giustizia e la verità: a chi ha nel cuore corde che vibrino pei nobili ed elevati sentimenti.
Io apro le istorie, e leggo che nel 1045 la Casa di Savoia, ed il Piemonte si mettono unite per una via, che dovranno battere per otto secoli, senza mai rompersi fede. Esempio unico in Europa quel
tutt’insieme che si chiamava il Piemonte, mantenne sempre la sua
dinastia nazionale, né tollerò mai giogo veruno per ottocento anni (Bravo, bene).
Se due volte, sotto Carlo V e sotto Napoleone, ai quali piegò
l’Europa, piegò anch’esso, seppe, appena dissipata la bufera, ritornar tosto libero e di propria ragione. Dal 1045 la compagnia stretta fra questi popoli e la marziale discendenza d’Umberto, eseguiva,
ignara dell’opera sua, il disegno di Dio, che voleva fatta oggi l’Italia. Da que’ principi sino all’assedio di Gaeta, si ebbero comuni
gioie, dolori, sconfitte onorate e gloriose vittorie. Dall’alta gerarchia
ove splende il nome di Vittorio Amedeo II sino all’umile condizio-
discorso del senatore massimo tapparelli d’azeglio > 3 dicembre 1864
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ne del povero minatore, Pietro Micca, ogni classe, sto per dire, ogni
famiglia, legge sparsi nelle storie i suoi nomi, legati a qualche nobile sacrificio, o a qualche impresa d’onore.
Signori, lo so, sappiamo tutti, tutti d’accordo lo volgiamo; sì,
questo Stato antico deve scomparire, come scompare il seme del frumento quando è formata la spiga.
Ma ad un cumulo di fatti, di tradizioni, di memorie onorate,
non si rinunzia senza averne il cuore spezzato.
Quando la nuova sposa esce dalla casa ove nacque, i suoi genitori, v’acconsentono, lo vogliono, ma se a quel passo si sentono
l’anima trafitta, chi li vorrà condannare? (Bravo, bene)
Così, poiché la nazione lo vuole; poiché nello stato presente delle cose nostre è minor danno un triste trattato, che la divisione
degli animi, anch’io col cuor tristo lo accetto (Bravo, bene).
Questo sacrificio, lo accetta ugualmente, ne sono convinto, Torino ed il Piemonte. Diceva l’antica latinità – Malo assuetus Ligur.
Sapremo mostrare che non siamo meno forti degli avi nostri.
Così possa Iddio farlo tornare in pro dell’Italia, e revocare quel
giudizio che su noi pesa da secoli; pel quale tante volte potemmo
farci indipendenti e forti coll’amarci ed aiutarci fra noi a vicenda, e rimanemmo invece deboli e dipendenti per colpa delle invidie e degli odi civili (Vivi e prolungati generali applausi).
IL GRIDO DI DOLORE
DISCORSO DEL RE
VITTORIO EMANUELE II
PER L’APERTURA
DEL PARLAMENTO
SENATO, 10 GENNAIO 1859
Signori Senatori, signori Deputati.
a nuova legislatura, inaugurata or fa un anno, non ha
fallito alle speranze del paese, alla mia aspettazione.Mediante il suo illuminato e leale concorso Noi abbiamo
superate le difficoltà della politica interna ed esterna, rendendo così più saldi quei larghi principii di nazionalità e di progresso sui quali riposano le nostre libere istituzioni (bene, bene!).
Proseguendo nella medesima via porterete questo anno
nuovi miglioramenti nei varii rami della Legislazione e della pubblica Amministrazione.
Nella scorsa sessione vi furono presentati alcuni progetti
intorno all’amministrazione della giustizia.
Riprendendone l’interrotto esame, confido che in questa
verrà provveduto al riordinamento della Magistratura, alla
istituzione delle Corti d’Assisie ed alla revisione del Codice
di procedura.
Sarete di nuovo chiamati a deliberare intorno alla riforma
dell’Amministrazione dei Comuni e delle Provincie. Il vivissimo desiderio ch’essa desta vi sarà d’eccitamento a dedicarvi le speciali vostre cure.
Vi saranno proposte alcune modificazioni alla Legge sulla Guardia Nazionale, affinché, serbate intatte le basi di questa nobile istituzione, sieno introdotti in essa quei miglioramenti suggeriti dall’esperienza atti a rendere la sua azione
più efficace in tutti i tempi (bene!).
L
discorso del re vittorio emanuele ii per l’apertura del parlamento > 10 gennaio 1859
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La crisi commerciale da cui non andò immune il nostro
paese, e la calamità che colpì ripetutamente la principale
nostra industria scemarono i proventi dello Stato, ci tolsero
di vedere fin d’ora realizzate le concepite speranze di un
compiuto pareggio tra le spese e le entrate pubbliche.
Ciò non v’impedirà di conciliare, nell’esame del futuro
bilancio, i bisogni dello Stato coi principii di severa economia.
Signori Senatori, signori Deputati,
L’orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno (reazioni di sensazione del pubblico); ciò
non di meno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri
lavori parlamentari.
Confortati dall’esperienza del passato andiamo risoluti incontro alle eventualità dell’avvenire.
Quest’avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della Patria (applausi).
Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei
Consigli dell’ Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch’esso inspira (vivi applausi; voci viva il
Re!).
Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di Noi.
(Acclamazioni vivissime e prolungate).
Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza.
(Nuovi e fragorosi applausi da tutte le parti).
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