L’Associazione Nazionale Subvedenti - Onlus Presenta: Leggi come vuoi e dove vuoi in tour Finito di stampare novembre 2011 Ringraziamo la Dr.ssa Silva Bertolini, psicopedagogista di rara umanità e competenza, collaboratrice e volontaria di lunga data della nostra Associazione e colta ispiratrice della scelta di molte letture. 3 Indice Introduzione 7 Scintille Dell’Origine Inno a Venere A Zacinto Cantico delle Creature I pesci non chiudono gli occhi La mia sera Il balcone Nuda Il tuo sorriso Ode al fiore azzurro Acque minacciose Terre vergini La rugiada Fuoco che distrugge Terra Ed è subito sera Non avessi mai visto il sole La natura a volte fa seccare Questo amore 5 9 15 19 23 25 29 39 43 47 47 49 55 59 67 71 75 75 79 79 83 Introduzione Leggere è un po’ come viaggiare sulle ali della fantasia. Si può viaggiare in ogni direzione e conoscere nuovi luoghi e nuove persone. Leggere trascende il tempo e lo spazio. I libri ci trasportano in altri paesi e in altre dimensioni e ci regalano la possibilità di incontrare personaggi che possono diventare i nostri compagni di viaggio o maestri di vita. A volte li amiamo e a volte li odiamo un po’, ma tutti indistintamente ci regalano emozioni. Il piacere della lettura talvolta è così avvolgente che troviamo ogni momento libero per leggere, e non rinunciamo a questo piacere anche quando non possiamo farlo in maniera convenzionale... Alcune persone hanno problemi visivi che li costringono ad usare dei “mezzi” non convenzionali per leggere. Il progetto “Leggi come vuoi e dove vuoi” in tour- tanti modi di leggere anche e soprattutto in modo non convenzionale - si lega a filo doppio con una delle mission associative di A.N.S. Associazione Nazionale Subvedenti Onlus (che dal 1970 si occupa di sostenere tutti coloro che vivono la realtà della disabilità visiva). 7 Attraverso questo progetto, che prevede delle giornateevento in cinque biblioteche comunali rionali del Comune di Milano, intendiamo promuovere la cultura dell’ipovisione, l’abbattimento delle barriere percettive e la diffusione del piacere della lettura e soprattutto dimostrare come non sia sempre necessario “vedere dieci decimi” per “leggere” e apprezzare un libro. Ogni giornata-evento definita: “Leggi come vuoi e dove vuoi” in tour proporrà letture ad alta voce, con sintetizzatore vocale, al computer, con screen-reader, con display braille, e-book, brani letterari musicati e lettura animata per studenti con accompagnamento musicale. Riteniamo che unire la classica lettura ad alta voce ad intermezzi musicati sia un modo innovativo e accattivante per incrementare l’affluenza di pubblico e insieme trasmettere cultura sui diversi “mezzi” che possono essere utilizzati per leggere. Le quattro giornate-evento (più una conclusiva) del progetto: “Leggi come vuoi e dove vuoi” in tour si svolgeranno nel corso dell’anno 2011 e avranno come filo conduttore un viaggio nel mondo dei 4 elementi: aria, terra, fuoco e acqua. Associazione Nazionale Subvedenti - Onlus Milano, novembre 2011 … la morbida, seducente, idilliaca fusione mediterranea tra Oriente e Occidente. Il mare come un letto nuziale nel quale Oriente femminile e Occidente maschile consumano la loro unione. Gad Lerner “Scintille” 9 Tiziano “Concerto campestre” La donna alla fonte è una personificazione dell'Acqua. Il suonatore di liuto rappresenta il Fuoco. L'uomo con i capelli scompigliati dal vento simboleggia l'Aria. La donna di spalle raffigura la Terra. 11 Dell’Origine Empedocle Conosci innanzitutto la quadruplice radice di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso, Era, la sposa, madre della vita, è l’aria e poi Ade, dio degli inferi, è la Terra e infine Persefone, alle cui sorgenti i mortali bevono, l’Acqua. Dalla mescolanza di acqua, terra, etere (aria) e sole (fuoco) nacquero tante forme e colori di esseri mortali, quanti adesso ne esistono, per opera di Afrodite, antica genitrice, origine prima di tutti gli elementi, nutrice del mondo. Nell’Odio tutto è difforme e contrastante, ma nell’Amore tutto si riunisce e ogni cosa è colta da desiderio dell’altra. E da essi germinano tutte le cose che erano e sono e saranno, alberi, umani, fiere, uccelli e i pesci che abitano nell’acqua, e gli dei dalla lunga vita. Come nella notte tempestosa qualcuno, pensando di uscire, si arma di un lume, splendore di fuoco ardente, e adatta lanterne con teli che riparano da ogni genere di vento e disperdono il soffio dei venti che spirano, ma la luce, proiettandosi fuori, più lontano che può brilla tra 15 gli spiragli nello spazio scoperto tra i teli con raggi infaticabili, così allora Afrodite formò la pupilla rotonda, il fuoco primordiale stava serrato in membrane e in tessuti sottili che lo difendevano dall’acqua profonda che circolava intorno, ma permettevano al fuoco di proiettare fuori, il più lontano possibile”. Inno a Venere Lucrezio Caro Progenitrice degli Eneaidi, piacere degli uomini e degli dei, Venere, che sotto le rotanti stelle del cielo, vivifichi il mare solcato da navi, che le terre fruttifere, perché per te ogni specie di viventi è concepita e, generata, contempla la luce del sole, Te, o dea, fuggono i venti, te e l’arrivo tuo fuggono le nubi del cielo, per te la terra ingegnosa fa sbocciare i fiori soavi, per te ridono le acque del mare e il cielo rasserenato brilla di una luce diffusa. Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, e libero prende vigore il soffio del fecondo Zefiro, per primi gli uccelli dell’aria annunciano te, o dea, e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla forza. Poi anche le fiere e gli armenti balzano su prati rigogliosi e guardano su rapidi fiumi: così prigioniero al tuo incanto, ognuno ti segue ansioso ovunque tu voglia condurlo. Ed infine per i mari e sui monti e sui corsi d’acqua e nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, 19 fai sì che le generazioni si riproducano prese dal desiderio secondo le specie. Poiché sei tu sola che governi la natura delle cose, e senza di te nulla sorge alle divine regioni della luce né senza te nulla accade di lieto e amabile, desidero averti compagna nello scrivere i versi, che intendo comporre sulla natura di tutte le cose. 21 A Zacinto Ugo Foscolo Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, e il diverso esilio per cui bello di fama e di sventura baciò la tua petrosa itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. 23 Il Cantico delle Creature Francesco d’Assisi Altissimu, onnipotente bon Signore, Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si', mi' Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento. Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua. la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. 25 Laudato si', mi Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fior et herba. Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore et sostengono infrmitate et tribulatione. Beati quelli ke 'l sosterranno in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male. Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. l pesci non chiudono gli occhi Erri De Luca “Te lo dico una volta e già è troppo: sciacqua le mani a mare prima che metti il morso all’esca. Il pesce sente odore, scansa il boccone che viene da terra. E fai tale e quale a come vedi fare, senza aspettare uno che te lo dice. Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.” Scrivo in italiano le sue frasi e tutte insieme. Quando le diceva erano scogli staccati e molte onde in mezzo. Le scrivo in italiano, senza la sua voce a dirle nel dialetto sono spente. Iniziava spesso con la “e”. A scuola insegnano che non si comincia un periodo con una congiunzione. Per lui la frase era la continuazione di un’altra detta un’ora, un giorno prima. Parlava poco, a spazi larghi di silenzio mentre sbrigava le faccende di una barca a pesca. Per lui si trattava di un solo discorso, che ogni tanto si staccava di bocca con la “e”, lettera che a scriverla disegna un nodo. Ho imparato dalla sua voce a iniziare frasi con la congiunzione. Ci vedeva qualcosa di buono in me, bambino di città che d’estate veniva sopra l’isola. 29 Scendevo alla spiaggia dei pescatori, stavo i pomeriggi a guardare le mosse delle barche. Con il permesso di mamma potevo andare su una di quelle, lunghe, coi remi grossi come alberi giovani. A bordo facevo quasi niente, il pescatore si faceva aiutare in qualche mossa e mi aveva insegnato a muovere i remi, grandi il doppio di me, stando in piedi e spingendo il mio peso su di loro a braccia tese e in croce. Pianissimo la barca si spostava e poi andava. Quel risultato mi faceva grande. Al pescatore serviva in qualche momento la mia piccola forza ai remi. Non mi faceva accostare agli ami, alle lunghe lenze col piombo di profondità. Erano attrezzi di lavoro e stavano male in mano ai bambini. In terraferma, a Napoli, invece stavano eccome i ferri e le ore di lavoro sui bambini. Mi faceva gettare l’ancora. Avevo raggiunto i dieci anni, un groviglio d’infanzia ammutolita. Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si scriveva l’età con doppia cifra. L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori. Tenevo dieci anni. Per dire l’età, il verbo tenere è più preciso. Stavo in un corpo imbozzolato e solo la testa cercava di forzarlo. […] Alla spiaggia dei pescatori i vecchi riparavano le reti, seduti a gambe larghe, le mani che facevano da sole. Gli occhi poco vedevano, nessuno portava gli occhiali. Quello che c’era da vedere, le mani l’avevano già imparato a memoria. Facevano a naso libero, guardando innanzi verso il mare, che era anche dentro di loro. Dondolavano a riva come in barca. I bambini si davano da fare intorno a qualche rottame, il gioco preferito era imparare a fare. Chiedevano di essere messi alla prova, pulivano le barche dalle incrostazioni, ingrassavano lo scalmo dove passava il remo. Pochi erano i legni a motore. Mi salutavo con il pescatore che qualche volta mi portava al largo. Viveva in una stanza sulla spiaggia insieme a moglie e figli. Usciva di notte a posare il filo dei palamiti e aspettava sul mare che le esche lavorassero nel buio, che i pesci preferiscono. Poi tirava su i cento ami distesi sul fondo di una secca. Rientrava anche con niente, rimettendoci le alici date in esca. Qualche volta un buon pesce addentava e si ficcava in tana tirandosi dietro il filo. Allora andava bene essere in due, lui a tirare e uno ai remi a spingere nella direzione giusta. Come cavare un dente, va trovato il verso di estrazione. Certi pesci in tana arrivano a resistere alla forza di una barca, allora si spezza il filo a doppio nylon e vince il pesce. Oppure perde e allora sale in superficie la furiosa cernia, tutta collo e mascella, scippata dalla tasca del mare. Altre volte il pesce che aveva abboccato era attaccato e sbranato da altri pesci. 31 “Mestiere senza sorte,” dicevano tra loro. “’O facimmo sulo p’a ncannarienzia”, lo facciamo solo per il desiderio ostinato. Una cernia valeva una nottata a mare. Mamma conosceva il pescatore, qualche notte quieta mi lasciava andare. Mi dava una maglia di lana leggera, grezza che pizzicava addosso. Aiutavo ai remi mentre lui immorsava le esche e le calava a mare una per una. Finita la stesura si aspettava. L’isola era lontana, un mucchietto di luci. Sdraiato a prua sulla corda dell’ancora, guardavo la notte che girava sulla testa. La schiena oscillava piano per le onde, il petto si gonfiava e si sgonfiava sotto il peso dell’aria. Cala da così in alto, da un così profondo ammasso di buio da premere le costole. Qualche scheggia precipita in fiamme spegnendosi prima di tuffarsi. Gli occhi provano a stare aperti ma l’aria in caduta li chiude. Rotolavo dentro un sonno breve, interrotto da una scrollata del mare. Ancora adesso nelle notti sdraiate all’aperto, sento il peso dell’aria nel respiro e un’agopuntura di stelle sulla pelle. Usciva a stento qualche parola notturna. Era giusto il silenzio dell’uomo nella notte. Non lo guastava la nave che sfilava all’orizzonte le luci mute, il risciacquo di un rumore di remi in avvicinamento Nel buio lo scambio di saluto con sole vocali, che le consonanti non servono a mare, se le inghiotte l’aria. Quello che stava intorno a loro era risaputo, si muovevano a memoria di ciechi in una stanza. Poi pianissimo un principio di grigio stingeva il punto di orizzonte detto oriente. Da lì iniziava lo sfascio del buio, saliva il chiaro dal basso e quando sulla barca si vedevano le nostre mani, cominciava il raccolto. Una sillaba m’indicava il cambio di remata. Saliva a bordo il pesce catturato, batteva di coda sul legno l’ultima difesa. Il pescatore lo afferrava per la testa, gli sfilava l’amo. A volte era inghiottito fino in gola e allora si doveva tagliare il nylon col coltello, lasciargli l’amo dentro. Quando il sole era sgusciato intero dal mare e salito più in alto della barca, avevamo finito. Si metteva lui ai remi per tornare svelti. Mi addormentavo a prua, la canottiera in testa. A casa mamma, appena sveglia, chiedeva della pescata e poi delle mani. “Fammele vedere.” Gliele davo sul dorso, lei me le girava: “Così te le sciupi”, e poi per presa in giro: “Fai le mani cafone”. A spingere i remi veniva qualche vescica, il sale ci aggiungeva il suo. Si formavano i primi calletti sulle mani mai messe al lavoro. Per il bambino che ero, quello era niente di più di un gioco serio, non l’asservimento dei miei coetanei in città, chiusi nelle botteghe o a correre su e giù per le consegne, da prima luce a sera. Molto più tardi mi sarei trovato le mani trasformate dagli arnesi. Sulla spiaggia dovevo stare in guardia. Ero diventato un 33 bersaglio, (tre ragazzini) inventavano modi per darmi fastidio. A mare non potevano seguirmi, a terra erano in tre e cercavano pretesto. Stavo leggendo il giornaletto dell’enigmistica, steso sulla rena, passavano di corsa vicino per schizzarmi la sabbia addosso. Lo facevano a turno. Qualche minuto e ricominciavano. A mare avevo preso un riccio. Lo nascosi a un pelo sotto la sabbia, accanto al giornaletto. Passò il primo che lo mancò di poco, il secondo aveva le ciabatte, il terzo scalzo lo schiacciò e saltò in aria a molla. Atterrò con un grido e si rotolò sulla sabbia fino al mare. Arrivarono gli altri due a vedere la pianta del piede punzecchiata dai puntini neri. È un dolore noioso, con olio e pinzetta vanno cavati fuori uno per uno. Il riccio calpestato lo avevo spinto lontano. La ragazzina aveva visto. Prima di me aveva capito che c’entrava lei nell’antipatia di quei tre verso di me. Guardavano furiosi dalla mia parte, continuavo a leggere. Avveniva a mia insaputa la rivalità maschile. Me ne parlò lei, sorpresa dalla mossa del riccio, l’uso di un animale come arma. Mi raccontava che nella stagione degli amori i maschi si battono per accoppiarsi alle femmine in estro. Buffa parola per me, collegata all’arte. “Come da noi con la guerra di Troia,” volli dire, per gli studi recenti. “Non è lo stesso, da noi si aggiunge la volontà di sopraffare il vinto, tra gli animali è solo battaglia per l’amore.” Pronunciata da lei quella parola non era ammuffita. La diceva con una “o” rotonda, opposta alla mia chiusa. Le feci il verso esagerando la sua “o”. “E allora? Cosa ti fa ridere? Amore: una parola molto rispettabile in natura.” “Scusa, mi ha sorpreso la tua ‘o’ larga.” “Tu come la dici?” Mi vergognavo a dire. “Allora? Ti vergogni? Sei ancora un bambino.” “Amor’.” “Vedi? Non fa ridere. È una cosa seria. Per gli animali è la più forte spinta quando arriva. Dimenticano di mangiare, bere. Ho sentito i richiami dei cervi nei boschi a fine settembre. Fanno nel buio un suono cupo per chiamarsi tra maschi alla battaglia. Dalla voce capiscono la forza e il peso dei rivali. Spingono il fiato così forte da dover tenere il collo al cielo per lasciarlo uscire, altrimenti li soffoca. Nei boschi mi ci ha portato mio padre una volta, è un cacciatore.” M’incantavo a sentirla, guardandola in faccia, addirittura in bocca. “Eravamo ancora nel buio ma prossimi dell’alba. Si bloccò d’improvviso e mi fece stare a terra, tolse il fucile di spalla, lo imbracciò. Mi spaventai, gli dissi pianissimo: 35 no. Mi azzittì con una mossa brusca della mano tolta dal grilletto. Prese la mira e vidi anch’io da terra cosa puntava, un paio di corna larghe. Ripetei il mio pianissimo no, lui fece un gesto anche più secco. Mirò. Io non potevo fare niente, né chiudere gli occhi né tapparmi le orecchie. Tirò un respiro e mentre lo sfiatava fece: ‘Bum!’.” “Sparò?” diss’io pianissimo. “No, fece bum con la bocca e poi abbassò il fucile. Non mi ha più portato con sé. Fece così per odio o per amore?” Non si aspettava una risposta, la dissi lo stesso: “Secondo me bum è amore”. Sorrise come quando succede la sorpresa di un ricordo. “Mio padre non c’è più da due anni. Lo scorso autunno a novembre sono andata al cimitero. Faceva già freddo, non era stagione di farfalle. Invece una bianca è venuta a volare vicino e si è posata sopra il mio ginocchio, dove lui metteva la mano. Amo gli animali, sanno di noi e noi niente di loro.” C’era in lei la fermezza che ho riconosciuto nella voce dei ciechi. La mia sera Giovanni Pascoli Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell'aspra bufera, non resta che un dolce singulto nell'umida sera. E', quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano cirri di porpora e d'oro. O stanco dolore, riposa! 39 La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera. Che voli di rondini intorno! Che gridi nell'aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Nè io ... che voli, che gridi, mia limpida sera! Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra ... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch'io torni com'era ... sentivo mia madre ... poi nulla ... sul far della sera. Il balcone Charles Baudelaire Madre delle memorie, amante delle amanti, fonte d'ogni mia gioia e d'ogni mio dovere, ricorderai le tenere nostre ebbrezze, davanti al fuoco, e l'incantesimo di quelle lunghe sere, madre delle memorie, amante delle amanti! Le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi, le sere sul balcone, velate d'ombre rosee.... Buono il tuo cuore, e dolce m'era il tuo seno: oh, seppi dirti, e sapesti dirmi, inobliabili cose, le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi. Come son belli i soli nelle calde serate, quanta luce nel cielo, che ali dentro il cuore! Chino su te sentivo, o amata fra le amate, alitar del tuo sangue il recondito odore..... Come son belli i soli nelle calde serate! Un muro era la notte, invisibile e pieno. Io pur sapevo al buio le tue pupille scernere, e bevevo il tuo fiato, dolcissimo veleno, e i piedi t'assopivo, entro mani fraterne. Un muro era la notte, invisibile e pieno. 43 Io so come evocare i minuti felici, e rivivo il passato, rannicchiato ai tuoi piedi: è infatti nel tuo mite cuore e nei sensi amici tutta chiusa la languida bellezza che possiedi. Io so come evocare i minuti felici... O promesse, o profumi, o baci senza fine, riemergerete mai dai vostri avari abissi, come dal mare, giovani e stillanti, al confine celeste i soli tornano dopo la lunga eclissi? - O promesse, o profumi, o baci senza fine! Nuda Pablo Neruda Nuda sei semplice come una delle tue mani, liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, hai linee di luna, strade di mela, nuda sei sottile come il grano nudo. Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, nuda sei enorme e gialla come l'estate in una chiesa d'oro. Nuda sei piccola come una delle tue unghie, curva, sottile, rosea finchè nasce il giorno e t'addentri nel sotterraneo del mondo come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia e di nuovo torna a essere una mano nuda Il tuo sorriso Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l'aria, ma non togliermi il tuo sorriso. 47 Non togliermi la rosa, la lancia che sgrani, l'acqua che d'improvviso scoppia nella tua gioia, la repentina onda d'argento che ti nasce. Dura è la mia lotta e torno con gli occhi stanchi, a volte, d'aver visto la terra che non cambia, ma entrando il tuo sorriso sale al cielo cercandomi ed apre per me tutte le porte della vita. Amor mio, nell'ora più oscura sgrana il tuo sorriso, e se d'improvviso vedi che il mio sangue macchia le pietre della strada, ridi, perché il tuo riso sarà per le mie mani come una spada fresca. Vicino al mare, d'autunno, il tuo riso deve innalzare la sua cascata di spuma, e in primavera, amore, voglio il tuo riso come il fiore che attendevo, il fiore azzurro, la rosa della mia patria sonora. Riditela della notte, del giorno, della luna, riditela delle strade contorte dell'isola, riditela di questo rozzo ragazzo che ti ama, ma quando apro gli occhi e quando li richiudo, quando i miei passi vanno, quando tornano i miei passi, negami il pane, l'aria, la luce, la primavera, ma il tuo sorriso mai, perché io ne morrei. Ode al fiore azzurro Camminando verso il mare nella prateria oggi è novembre -, 49 tutto è nato ormai, tutto ha statura, ondulazione, fragranza. Erba per erba Intenderò la terra, passo per passo fino alla linea impazzita dell’oceano. D’improvviso un’onda di aria agita e ondeggia l’orzo selvaggio: salta il volo di un uccello dai miei piedi, il suolo pieno di fili d’oro di petali senza nome, brilla d’improvviso come rosa verde, s’intreccia con ortiche che rivelano il loro coral nemico, agili talli, sterpi stellati, differenza infinita di ogni vegetale che mi saluta a volte con un rapido scintillio di spine o con la pulsazione del suo profumo fresco, fine e amaro. Andando verso le schiume del Pacifico con lento passo per la bassa erba della primavera nascosta, sembra che prima che la terra abbia fine centro metri del più grande oceano tutto sia diventato delirio, germinazione e canto. Le minuscole erbe s’incoronano d’oro, le piante dell’arena diedero raggi violetti e a ogni piccola foglia dimenticata giunse un messaggio di luna e di fuoco. Vicino al mare, camminando, nel mese di novembre, tra cespugli che ricevano luce, fuoco e sale marini, ho trovato un fiore azzurro nato nella durissima prateria. Da dove, da che fondo trai il tuo raggio azzurro? La tua seta tremante sotto la terra comunica col mare profondo? Lo sollevai tra le mani e lo guardai come se il mare vivesse in una sola goccia come se nel combattimento 51 della terra e delle acque un fiore levasse in alto un piccolo stendardo di fuoco azzurro, di pace irresistibile, d’indomita purezza. Acque minacciose Da “Il mulino sul Po’” di Riccardo Bacchelli Il Po ha raggiunto il livello delle più alte piene, e li sta passando; toccherà 99 oncie sopra la guardia del Lagoscuro: nove più della massima piena mai raggiunta. E detta così in oncie, equivalenti ognuna a poco più di tre centimetri, è una fredda parola: bisogna intenderla con quell’animo, all’incalzare lento delle notizie inesorabili, sotto l’incubo delle migliaia di genti abili a valutarle, oncia per oncia, tratto per tratto, che cosa importi e fin dove, sul paese pronto, una tracimazione, un fontanazzo, una rotta. Corrono di bocca in bocca i nomi temuti, i danni e spaventi famosi. Fragile opera, tenue difesa gli argini a reggere la spinta e il peso di tal massa diversa e ugualmente sui vicini e sui lontani. E fra questi e fra quelli, stanotte pochi trovano sonno, o soltanto agitato ed oppresso. Sui campi, e di paese in paese, di casa in casa, attraverso l’orrenda notte, corre e pesa il terrore della recente e delle antiche sciagure patite, misto all’ansia insopportabile dell’ignoto incombente… […] Il fiume era al ciglio dell’argine; se taceva (Cecilia) lì nel 55 buio, era in agguato come un mostro di natura, come un portento odioso e fascinoso; ma più spesso si faceva vivo, sotto la sferza delle ventate, gonfiando e scrosciando e schizzando sull’argine, con onde rapide, brevi, incalzanti, o più ampie, da correre a ritroso l’intiera larghezza dell’acqua. E ciò significava che anche il vento e il mare si mettevan malignamente a far opera trista, a contrastare lo sbocco delle foci e a gonfiare il fiume. E per i mugnai voleva anche dire, in aggiunta al resto, burrasca in Po. A più riprese la donna e il ragazzo ricevettero gli spruzzi del frangente contro l’argine o camminarono coi piedi nell’acqua che tracimava. Alle loro spalle, dalle parti di Ferrara, un gran temporale rumoreggiava e lampeggiava continuo. Il chiarore dei lampi illividiva le nubi, nell’alto, ma non perveniva a schiarire la faccia ottenebrata della terra e del fiume: spavento su spavento, danno su danno. Terre vergini Micail Sciolochov Temporale in arrivo Verso sera venne un temporale. Sopra il villaggio si stese una greve nuvola bruna. Il Don, scarmigliato dal vento, gettava sulla riva fitte onde crestate di bianco. Dietro gli orti i fulmini secchi bruciavano il cielo, il tuono scuoteva la terra con alti scoppi. Sotto la nuvola, con le ali larghe, aperte, girava un falco, e una frotta di corvi lo inseguivano gracchiando. La nuvola, irradiando una leggera frescura, veniva dall’occidente seguendo il corso del Don. Dietro il pascolo comune, il cielo era d’un nero minaccioso; la steppa taceva, come aspettando qualcosa. Nel villaggio si udivano le imposte sbattute e chiuse in fretta, si vedevano le vecchie rincasare quasi di corsa, segnandosi, dopo la messa. Sulla piazza d’armi si aggirava un vortice di polvere e la terra assetata era percossa dai primi scrosci di pioggia. Solo verso l’alba il silenzio si stabiliva sul Don. Allora l’acqua sussurrava sordamente nella foresta allagata, bagnando i tronchi verdechiaro dei pioppi, agitando ritmicamente le cime delle giovani querce e degli ontani; i pennacchi dei giunchi, piegati dalla corrente, frusciavano nei laghetti; sullo spaglio, là dove l’acqua 59 stagnava, le stelle si riflettevano sulla superficie immobile, come incantata; si sentiva il richiamo appena percettibile delle oche selvatiche, i maschi delle anitre fischiettavano piano e talvolta giungevano le voci argentee, forti come suoni di tromba, dei cigni migranti che, di passaggio, avevano pernottato sui prati vicini. Ogni tanto nell’oscurità si udiva l’acqua schioccare per il guizzo di un pesce; sull’acqua, cosparsa di riflessi d’oro, l’onda correva lontano e si sentivano i gridi di allarme degli uccelli spaventati. E di nuovo il silenzio calava sul Don e sulle sue rive. Ma all’alba, appena le balze dei monti di creta diventavano rosee, dalla foce cominciava a soffiare il vento della valle. Soffiava impetuoso contro corrente. Sul fiume vorticavano onde enormi, l’acqua nel bosco rumoreggiava selvaggiamente, scossi e oscillanti gemevano gli alberi. Il vento muggiva tutto il giorno e si acquietava solo a notte inoltrata. Febbraio... Il gelo stringe la terra, la fa corrugare. Il sole si alza in un biancore ardente di gelo. Là dove il vento ha spazzato la neve, la terra, di notte, si spacca sonoramente. I kurgan della steppa, come angurie troppo mature, sono frastagliati da fessure sinuose. Dietro il villaggio, sui campi seminati , le falde di neve sono di un biancore intollerabile. I pioppi sopra il fiume sembrano fatti d’argento cesellato. Dai comignoli delle case, al mattino, si alzano colonne verticali di fumo arancione. Sulle aie la paglia di frumento odora più forte per il gelo, spandendo effluvi che rammentano l’agosto azzurro, l’alito ardente del solleone, il cielo estivo… La neve gelata è granulosa, dura, scricchiolante. La mezzanotte è calma come il gelido cielo vuoto, cosparsa di minutissime, innumerevoli stelle e sembra che il mondo sia abbandonato da ogni parvenza di vita. Nella steppa azzurra, sulla neve vergine, passa un lupo e le orme delle zampe non rimangono impresse nella neve, ma là, dove le unghie scalfiscono la dura neve gelata, rimane uno sfregio scintillante, come una traccia perlacea… Febbraio… L’azzurro silenzio prima dell’alba. La deserta via lattea si spegne. Sul fiume il ghiaccio scricchiola fragile, sotto il piccone di ferro… Febbraio… Il dieci marzo, verso sera, scese la nebbia su Gremjacij Log; fino al mattino dai tetti delle case gocciolò l’acqua della neve disciolta: da sud, dal fondo della steppa, soffia un vento tiepido impregnato di umidità. La prima notte che accoglieva la primavera si alzava sopra il villaggio velata di scura nebbia setosa, di silenzio corso dai primi aliti primaverili. Tardi nel mattino si diradò la nebbia ormai rosea, scoprendo il cielo e il sole, e da sud, a folate possenti, si precipitò il vento trasudante 61 umidità; fra fruscii e boati cominciò ad abbassarsi la neve granulosa, i tetti si fecero bruni, la strada si coperse di macchie nere e verso mezzogiorno dalle vette e dai dirupi scrosciò ribollendo rabbiosamente l’acqua montana, chiara come le lagrime, ed a cascate innumerevoli inondò i prati e i frutteti, lavando le amare radici dei ciliegi, allagando i canneti e le rive. Tre giorni dopo i poggi, accessibili a tutti i venti, erano scoperti; i pendii, dilavati fino al terriccio, brillavano di argilla umida; l’acqua montana, intorbidita, portava sulle sue onde ricciute gialle creste di schiuma alta, fortemente battuta, radici di frumento, stoppie secche, arbusti divelti. A Gremjacij Log il fiumicello straripò. Dalle alture arrivavano, portati dalle acque, frammenti azzurrognoli di ghiaccio. Alle svolte essi uscivano dalla corrente, vagavano e si sperdevano come enormi pesci siluri. Talvolta la corrente li buttava sulla riva ripida e altre volte il ghiaccio, trascinato da un corso d’acqua sfociante nel fiumicello, veniva buttato nei frutteti e nuotava fra le piante, investendo i tronchi degli alberi, graffiando i meli, spezzando le piante giovani, piegando i rami bassi dei ciliegi. Dietro il villaggio nereggia, colpisce lo sguardo, la terra liberata dalla neve… … Asciugato dal vento, il frumento invernale, come in punta di piedi, si protende verso i raggi della luce con le sue foglioline aguzze. Di primavera, appena s’è sciolta la neve e prosciugata l’erba sepolta dalla coltre invernale, nella steppa cominciano a divampare gli incendi. Il fuoco, stimolato dal vento, scorre come un fiume, divora avidamente l’antirrino secco, vola sugli steli alti del tatarnik, scivola sulle cime alte del cardo, striscia radendo il suolo. E molto tempo dopo perdura nella steppa l’odore amaro della fuliggine sulla terra screpolata e arsa. Intorno verdeggia allegramente l’erba novella, innumerevoli allodole volano nel cielo azzurro, oche selvatiche pascolano sull’erba grassa, e le otarde, fermatesi per l’estate, fanno i loro nidi. Ma là dove è passato il fuoco, la terra è nera e ha un aspetto funesto. Gli uccelli non costruiscono i loro nidi, gli animali la aggirano da lontano e solo il vento, alato e rapido, vi passa sopra e sparge lontano la cenere grigia e la caustica polvere nera. 63 La rugiada Da I quattro libri di lettura di Lev Tolstoj Uscite in una mattina d’estate quando il sole è appena spuntato, recatevi nei campi o nei boschi; vedrete scintillare nell’erba miriadi di diamanti, che riflettono i raggi del sole in mille barbagli d’ogni colore, dal giallo, al rosso, all’azzurro; e se vi avvicinate, se vi chinate su queste fonti di luce, scoprirete tante piccole gocce di rugiada, raccolte sulle foglie e sui fili d’erba. Molte foglie sono vellutate, ricoperte di una specie di peluria; le goccioline vi scorrono sopra senza bagnarle. Se, con ogni precauzione, ne raccogliete una sulla quale si è depositata la goccia di rugiada, il piccolo globo luminoso rotola via così in fretta che l’occhio quasi non la vede scivolare e cadere al suolo. 67 Fuoco che distrugge Da Uomini di mais di Miguel Angel Asturias Poi si internò nei campi di mais maturo e asciutto e vi appiccò il fuoco. Neanche un pazzo avrebbe agito così. L’acciarino del signor Tommaso starnutiva scintille, nell’urto della pietra focaia contro l’esca. Aaa… cis… pass…. E non per accendere il sigaro di foglia di mais che stringeva fra le labbra, ma per dar fuoco a tutte le messi mature. E non per cattiveria, solo per passeggiare in mezzo alle fiamme, a cavallo… si palpò il viso, il sombrero, gli abiti, spegnendo le faville che gli saltavano addosso, mentre altre volavano a depositarsi sulle vesti di arso sole e arsa luna, di secco sale e secca stella d’amido dorato dei filari di piante di mais. Sulle barbe delle pannocchie, nelle ascelle polverose delle piante e dei gambi divenuti violacei nella maturazione, sulla sete delle radici terrose, sui pennacchi, vane banderuole gremite d’insetti, il fuoco nato dalle faville andava suscitando fiamme. La rugiada notturna si svegliò, lottando per acchiappare con le sue reti di perle d’acqua le mosche di luce che cadevano dall’acciarino. Si svegliò con tutte le articolazioni addormentate in angoli d’ombra e gettò le sue reti di resina d’argento piangente sulle faville, che ormai erano fiamme di piccoli fuochi che andavano appiccicandosi a nuovi 71 centri d’irradiazione violenta, più forti d’ogni strategia, della più abile tattica di scaramucce. Sul frascume sanguinolento per il bagliore delle fiammelle, denso di nebbia, caldo di fumo, si udivano cadere le gocce dell’umidità notturna con penetranti suoni di zampe di pioggerella fino all’osso delle canne morte, rivestite di stoffa porosa che scoppiava come polvere da sparo asciutta. Una lucciola immensa, dell’immensa ampiezza del piano e dei colli, della misura dell’estensione totale dei campi di mais perfettamente tostati, pronti per il raccolto. […] Tutto il cielo ormai era un’unica fiamma. Furore del fuoco che limite né barriera. Alberi che facevano la riverenza, per crollare in fiamme in mezzo alla vegetazione boscosa che resisteva, nel calore soffocante, al procedere dell’incendio. […] E dire che era il medesimo fuoco, il mite amico delle pietre del focolare, quello che imperversava adesso, simile ad un toro selvaggio, tra nubi di fumo. Terra da Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo Notte, serene ombre, culla d’aria, mi giunge il vento se in te mi spazio, con esso il mare odore della terra dove canta alla riva la mia gente a vele, a nasse, a bambini anzi l’alba desti. Monti secchi, pianure d’erba prima Che aspetta mandrie e greggi, m’è dentro il male vostro che mi scava Ed è subito sera Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. 75 Non avessi mai visto il sole Emily Dickinson Non avessi mai visto il sole avrei sopportato l'ombra ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita. La natura talvolta fa seccare La natura talvolta fa seccare un arbusto, talvolta scalpa un albero il suo popolo verde lo ricorda nel caso in cui non muoia. Foglie stremate alle nuove stagioni testimoniano mute. 79 Questo amore Jacques Prevert Questo amore Cosi violento Cosi fragile Cosi tenero Cosi disperato Questo amore Bello come il giorno E cattivo come il tempo Quando il tempo è cattivo Questo amore cosi vero Questo amore cosi bello Cosi felice Cosi gaio E cosi beffardo Tremante di paura come un bambino al buio E cosi sicuro di sé Come un uomo tranquillo nel cuore della notte Questo amore che impauriva gli altri Che li faceva parlare Che li faceva impallidire Questo amore spiato Perché noi lo spiavamo Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato Perché noi l'abbiamo perseguitato ferito calpestato 83 ucciso negato dimenticato Questo amore tutto intero Ancora cosi vivo E tutto soleggiato E tuo E mio E stato quel che è stato Questa cosa sempre nuova E che non è mai cambiata Vera come una pianta Tremante come un uccello Calda e viva come l'estate Noi possiamo tutti e due Andare e ritornare Noi possiamo dimenticare E quindi riaddormentarci Risvegliarci soffrire invecchiare Addormentarci ancora Sognare la morte Svegliarci sorridere e ridere E ringiovanire Il nostro amore è là Testardo come un asino Vivo come il desiderio Crudele come la memoria Sciocco come i rimpianti Tenero come il ricordo Freddo come il marmo Bello come il giorno Fragile come un bambino Ci guarda sorridendo E ci parla senza dir nulla E io tremante l'ascolto E grido Grido per te Grido per me Ti supplico Per te per me per tutti coloro che si amano E che si sono amati Sì io gli grido Per te per me e per tutti gli altri Che non conosco Fermati là Là dove sei Là dove sei stato altre volte Fermati Non muoverti Non andartene Noi che siamo amati Noi ti abbiamo dimenticato Tu non dimenticarci Non avevamo che te sulla terra Non lasciarci diventare gelidi Anche se molto lontano sempre E non importa dove Dacci un segno di vita 85 Molto più tardi ai margini di un bosco Nella foresta della memoria Alzati subito Tendici la mano E salvaci. In una bolla di fango bollente, nelle solfatare vulcaniche, nelle paludi putride o nelle sterminate distese salate. In questo inferno è nata la vita. P. Cammarano 89