L’Associazione Nazionale Subvedenti - Onlus
Presenta:
Leggi come vuoi e dove vuoi
in tour
Finito di stampare novembre 2011
Ringraziamo la Dr.ssa Silva Bertolini,
psicopedagogista di rara umanità e
competenza, collaboratrice e volontaria
di lunga data della nostra Associazione
e colta ispiratrice
della scelta di molte letture.
3
Indice
Introduzione
7
Scintille
Dell’Origine
Inno a Venere
A Zacinto
Cantico delle Creature
I pesci non chiudono gli occhi
La mia sera
Il balcone
Nuda
Il tuo sorriso
Ode al fiore azzurro
Acque minacciose
Terre vergini
La rugiada
Fuoco che distrugge
Terra
Ed è subito sera
Non avessi mai visto il sole
La natura a volte fa seccare
Questo amore
5
9
15
19
23
25
29
39
43
47
47
49
55
59
67
71
75
75
79
79
83
Introduzione
Leggere è un po’ come viaggiare sulle ali della fantasia.
Si può viaggiare in ogni direzione e conoscere nuovi
luoghi e nuove persone.
Leggere trascende il tempo e lo spazio.
I libri ci trasportano in altri paesi e in altre dimensioni e
ci regalano la possibilità di incontrare personaggi che
possono diventare i nostri compagni di viaggio o
maestri di vita.
A volte li amiamo e a volte li odiamo un po’, ma tutti
indistintamente ci regalano emozioni.
Il piacere della lettura talvolta è così avvolgente
che troviamo ogni momento libero per leggere, e
non rinunciamo a questo piacere anche quando
non possiamo farlo in maniera convenzionale...
Alcune persone hanno problemi visivi che li costringono
ad usare dei “mezzi” non convenzionali per leggere.
Il progetto “Leggi come vuoi e dove vuoi” in tour-
tanti modi di leggere anche e soprattutto in
modo non convenzionale - si lega a filo doppio con
una delle mission associative di A.N.S. Associazione
Nazionale Subvedenti Onlus (che dal 1970 si occupa di
sostenere tutti coloro che vivono la realtà della disabilità
visiva).
7
Attraverso questo progetto, che prevede delle giornateevento in cinque biblioteche comunali rionali del
Comune di Milano, intendiamo promuovere la cultura
dell’ipovisione, l’abbattimento delle barriere percettive e
la diffusione del piacere della lettura e soprattutto
dimostrare come non sia sempre necessario “vedere
dieci decimi” per “leggere” e apprezzare un libro.
Ogni giornata-evento definita: “Leggi come vuoi e
dove vuoi” in tour proporrà letture ad alta voce, con
sintetizzatore vocale, al computer, con screen-reader,
con display braille, e-book, brani letterari musicati e
lettura animata per studenti con accompagnamento
musicale.
Riteniamo che unire la classica lettura ad alta voce ad
intermezzi musicati sia un modo innovativo e
accattivante per incrementare l’affluenza di pubblico e
insieme trasmettere cultura sui diversi “mezzi” che
possono essere utilizzati per leggere.
Le quattro giornate-evento (più una conclusiva) del
progetto: “Leggi come vuoi e dove vuoi” in tour si
svolgeranno nel corso dell’anno 2011 e avranno come
filo conduttore un viaggio nel mondo dei 4 elementi:
aria, terra, fuoco e acqua.
Associazione Nazionale Subvedenti - Onlus
Milano, novembre 2011
… la morbida, seducente, idilliaca fusione mediterranea
tra Oriente e Occidente. Il mare come un letto nuziale
nel quale Oriente femminile e Occidente maschile
consumano la loro unione.
Gad Lerner “Scintille”
9
Tiziano “Concerto campestre”
La donna alla fonte è una personificazione dell'Acqua.
Il suonatore di liuto rappresenta il Fuoco.
L'uomo con i capelli scompigliati dal vento simboleggia
l'Aria.
La donna di spalle raffigura la Terra.
11
Dell’Origine
Empedocle
Conosci innanzitutto la quadruplice radice di tutte le
cose: Zeus è il fuoco luminoso, Era, la sposa, madre
della vita, è l’aria e poi Ade, dio degli inferi, è la Terra e
infine Persefone, alle cui sorgenti i mortali bevono,
l’Acqua.
Dalla mescolanza di acqua, terra, etere (aria) e sole
(fuoco) nacquero tante forme e colori di esseri mortali,
quanti adesso ne esistono, per opera di Afrodite, antica
genitrice, origine prima di tutti gli elementi, nutrice del
mondo.
Nell’Odio tutto è difforme e contrastante, ma nell’Amore
tutto si riunisce e ogni cosa è colta da desiderio
dell’altra.
E da essi germinano tutte le cose che erano e sono e
saranno, alberi, umani, fiere, uccelli e i pesci che
abitano nell’acqua, e gli dei dalla lunga vita.
Come nella notte tempestosa qualcuno, pensando di
uscire, si arma di un lume, splendore di fuoco ardente,
e adatta lanterne con teli che riparano da ogni genere
di vento e disperdono il soffio dei venti che spirano, ma
la luce, proiettandosi fuori, più lontano che può brilla tra
15
gli spiragli nello spazio scoperto tra i teli con raggi
infaticabili, così allora Afrodite formò la pupilla rotonda,
il fuoco primordiale stava serrato in membrane e in
tessuti sottili che lo difendevano dall’acqua profonda
che circolava intorno, ma permettevano al fuoco di
proiettare fuori, il più lontano possibile”.
Inno a Venere
Lucrezio Caro
Progenitrice degli Eneaidi, piacere degli uomini e
degli dei, Venere, che sotto le rotanti stelle del
cielo, vivifichi il mare solcato da navi, che le terre
fruttifere, perché per te ogni specie di viventi è
concepita e, generata, contempla la luce del sole,
Te, o dea, fuggono i venti, te e l’arrivo tuo fuggono
le nubi del cielo, per te la terra ingegnosa fa
sbocciare i fiori soavi, per te ridono le acque del
mare e il cielo rasserenato brilla di una luce diffusa.
Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, e
libero prende vigore il soffio del fecondo Zefiro, per
primi gli uccelli dell’aria annunciano te, o dea, e il
tuo arrivo, turbati i cuori dalla forza.
Poi anche le fiere e gli armenti balzano su prati
rigogliosi e guardano su rapidi fiumi: così prigioniero
al tuo incanto, ognuno ti segue ansioso ovunque tu
voglia condurlo.
Ed infine per i mari e sui monti e sui corsi d’acqua e
nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure,
a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore,
19
fai sì che le generazioni si riproducano prese dal
desiderio secondo le specie.
Poiché sei tu sola che governi la natura delle cose, e
senza di te nulla sorge alle divine regioni della luce
né senza te nulla accade di lieto e amabile, desidero
averti compagna nello scrivere i versi, che intendo
comporre sulla natura di tutte le cose.
21
A Zacinto
Ugo Foscolo
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
cantò fatali, e il diverso esilio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la tua petrosa itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
23
Il Cantico delle Creature
Francesco d’Assisi
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne
benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
25
Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo
Tuo amore
et sostengono infrmitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
l pesci non chiudono gli occhi
Erri De Luca
“Te lo dico una volta e già è troppo: sciacqua le mani a
mare prima che metti il morso all’esca.
Il pesce sente odore, scansa il boccone che viene da
terra. E fai tale e quale a come vedi fare, senza
aspettare uno che te lo dice. Sul mare non è come a
scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai
tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera
sua.”
Scrivo in italiano le sue frasi e tutte insieme. Quando le
diceva erano scogli staccati e molte onde in mezzo. Le
scrivo in italiano, senza la sua voce a dirle nel dialetto
sono spente.
Iniziava spesso con la “e”. A scuola insegnano che non
si comincia un periodo con una congiunzione. Per lui la
frase era la continuazione di un’altra detta un’ora, un
giorno prima. Parlava poco, a spazi larghi di silenzio
mentre sbrigava le faccende di una barca a pesca. Per
lui si trattava di un solo discorso, che ogni tanto si
staccava di bocca con la “e”, lettera che a scriverla
disegna un nodo. Ho imparato dalla sua voce a iniziare
frasi con la congiunzione.
Ci vedeva qualcosa di buono in me, bambino di città
che d’estate veniva sopra l’isola.
29
Scendevo alla spiaggia dei pescatori, stavo i pomeriggi
a guardare le mosse delle barche. Con il permesso di
mamma potevo andare su una di quelle, lunghe, coi
remi grossi come alberi giovani. A bordo facevo quasi
niente, il pescatore si faceva aiutare in qualche mossa e
mi aveva insegnato a muovere i remi, grandi il doppio di
me, stando in piedi e spingendo il mio peso su di loro a
braccia tese e in croce. Pianissimo la barca si spostava e
poi andava. Quel risultato mi faceva grande. Al
pescatore serviva in qualche momento la mia piccola
forza ai remi. Non mi faceva accostare agli ami, alle
lunghe lenze col piombo di profondità. Erano attrezzi di
lavoro e stavano male in mano ai bambini. In
terraferma, a Napoli, invece stavano eccome i ferri e le
ore di lavoro sui bambini.
Mi faceva gettare l’ancora. Avevo raggiunto i dieci anni,
un groviglio d’infanzia ammutolita.
Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si
scriveva l’età con doppia cifra. L’infanzia smette
ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni.
Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso
corpo di marmocchio inceppato delle altre estati,
rimescolato dentro e fermo fuori. Tenevo dieci anni. Per
dire l’età, il verbo tenere è più preciso. Stavo in un
corpo imbozzolato e solo la testa cercava di forzarlo.
[…]
Alla spiaggia dei pescatori i vecchi riparavano le reti,
seduti a gambe larghe, le mani che facevano da sole.
Gli occhi poco vedevano, nessuno portava gli occhiali.
Quello che c’era da vedere, le mani l’avevano già
imparato a memoria. Facevano a naso libero,
guardando innanzi verso il mare, che era anche dentro
di loro. Dondolavano a riva come in barca. I bambini si
davano da fare intorno a qualche rottame, il gioco
preferito era imparare a fare. Chiedevano di essere
messi alla prova, pulivano le barche dalle incrostazioni,
ingrassavano lo scalmo dove passava il remo. Pochi
erano i legni a motore.
Mi salutavo con il pescatore che qualche volta mi
portava al largo. Viveva in una stanza sulla spiaggia
insieme a moglie e figli. Usciva di notte a posare il filo
dei palamiti e aspettava sul mare che le esche
lavorassero nel buio, che i pesci preferiscono. Poi tirava
su i cento ami distesi sul fondo di una secca. Rientrava
anche con niente, rimettendoci le alici date in esca.
Qualche volta un buon pesce addentava e si ficcava in
tana tirandosi dietro il filo. Allora andava bene essere in
due, lui a tirare e uno ai remi a spingere nella direzione
giusta. Come cavare un dente, va trovato il verso di
estrazione. Certi pesci in tana arrivano a resistere alla
forza di una barca, allora si spezza il filo a doppio nylon
e vince il pesce. Oppure perde e allora sale in superficie
la furiosa cernia, tutta collo e mascella, scippata dalla
tasca del mare. Altre volte il pesce che aveva abboccato
era attaccato e sbranato da altri pesci.
31
“Mestiere senza sorte,” dicevano tra loro. “’O facimmo
sulo p’a ncannarienzia”, lo facciamo solo per il desiderio
ostinato. Una cernia valeva una nottata a mare.
Mamma conosceva il pescatore, qualche notte quieta mi
lasciava andare. Mi dava una maglia di lana leggera,
grezza che pizzicava addosso. Aiutavo ai remi mentre lui
immorsava le esche e le calava a mare una per una.
Finita la stesura si aspettava. L’isola era lontana, un
mucchietto di luci. Sdraiato a prua sulla corda
dell’ancora, guardavo la notte che girava sulla testa. La
schiena oscillava piano per le onde, il petto si gonfiava e
si sgonfiava sotto il peso dell’aria. Cala da così in alto,
da un così profondo ammasso di buio da premere le
costole. Qualche scheggia precipita in fiamme
spegnendosi prima di tuffarsi. Gli occhi provano a stare
aperti ma l’aria in caduta li chiude. Rotolavo dentro un
sonno breve, interrotto da una scrollata del mare.
Ancora adesso nelle notti sdraiate all’aperto, sento il
peso dell’aria nel respiro e un’agopuntura di stelle sulla
pelle.
Usciva a stento qualche parola notturna. Era giusto il
silenzio dell’uomo nella notte. Non lo guastava la nave
che sfilava all’orizzonte le luci mute, il risciacquo di un
rumore di remi in avvicinamento Nel buio lo scambio di
saluto con sole vocali, che le consonanti non servono a
mare, se le inghiotte l’aria. Quello che stava intorno a
loro era risaputo, si muovevano a memoria di ciechi in
una stanza.
Poi pianissimo un principio di grigio stingeva il punto di
orizzonte detto oriente. Da lì iniziava lo sfascio del buio,
saliva il chiaro dal basso e quando sulla barca si
vedevano le nostre mani, cominciava il raccolto. Una
sillaba m’indicava il cambio di remata. Saliva a bordo il
pesce catturato, batteva di coda sul legno l’ultima
difesa. Il pescatore lo afferrava per la testa, gli sfilava
l’amo. A volte era inghiottito fino in gola e allora si
doveva tagliare il nylon col coltello, lasciargli l’amo
dentro.
Quando il sole era sgusciato intero dal mare e salito più
in alto della barca, avevamo finito. Si metteva lui ai remi
per tornare svelti. Mi addormentavo a prua, la
canottiera in testa. A casa mamma, appena sveglia,
chiedeva della pescata e poi delle mani. “Fammele
vedere.” Gliele davo sul dorso, lei me le girava: “Così te
le sciupi”, e poi per presa in giro: “Fai le mani cafone”.
A spingere i remi veniva qualche vescica, il sale ci
aggiungeva il suo. Si formavano i primi calletti sulle
mani mai messe al lavoro. Per il bambino che ero,
quello era niente di più di un gioco serio, non
l’asservimento dei miei coetanei in città, chiusi nelle
botteghe o a correre su e giù per le consegne, da prima
luce a sera. Molto più tardi mi sarei trovato le mani
trasformate dagli arnesi.
Sulla spiaggia dovevo stare in guardia. Ero diventato un
33
bersaglio, (tre ragazzini) inventavano modi per darmi
fastidio. A mare non potevano seguirmi, a terra erano in
tre e cercavano pretesto. Stavo leggendo il giornaletto
dell’enigmistica, steso sulla rena, passavano di corsa
vicino per schizzarmi la sabbia addosso. Lo facevano a
turno. Qualche minuto e ricominciavano. A mare avevo
preso un riccio. Lo nascosi a un pelo sotto la sabbia,
accanto al giornaletto. Passò il primo che lo mancò di
poco, il secondo aveva le ciabatte, il terzo scalzo lo
schiacciò e saltò in aria a molla. Atterrò con un grido e
si rotolò sulla sabbia fino al mare. Arrivarono gli altri
due a vedere la pianta del piede punzecchiata dai
puntini neri. È un dolore noioso, con olio e pinzetta
vanno cavati fuori uno per uno. Il riccio calpestato lo
avevo spinto lontano. La ragazzina aveva visto. Prima di
me aveva capito che c’entrava lei nell’antipatia di quei
tre verso di me.
Guardavano furiosi dalla mia parte, continuavo a
leggere. Avveniva a mia insaputa la rivalità maschile.
Me ne parlò lei, sorpresa dalla mossa del riccio, l’uso di
un animale come arma. Mi raccontava che nella
stagione degli amori i maschi si battono per accoppiarsi
alle femmine in estro.
Buffa parola per me, collegata all’arte.
“Come da noi con la guerra di Troia,” volli dire, per gli
studi recenti.
“Non è lo stesso, da noi si aggiunge la volontà di
sopraffare il vinto, tra gli animali è solo battaglia per
l’amore.”
Pronunciata da lei quella parola non era ammuffita. La
diceva con una “o” rotonda, opposta alla mia chiusa. Le
feci il verso esagerando la sua “o”.
“E allora? Cosa ti fa ridere? Amore: una parola molto
rispettabile in natura.”
“Scusa, mi ha sorpreso la tua ‘o’ larga.”
“Tu come la dici?”
Mi vergognavo a dire.
“Allora? Ti vergogni? Sei ancora un bambino.”
“Amor’.”
“Vedi? Non fa ridere. È una cosa seria. Per gli animali è
la più forte spinta quando arriva.
Dimenticano di mangiare, bere. Ho sentito i richiami dei
cervi nei boschi a fine settembre. Fanno nel buio un
suono cupo per chiamarsi tra maschi alla battaglia.
Dalla voce capiscono la forza e il peso dei rivali.
Spingono il fiato così forte da dover tenere il collo al
cielo per lasciarlo uscire, altrimenti li soffoca. Nei boschi
mi ci ha portato mio padre una volta, è un cacciatore.”
M’incantavo a sentirla, guardandola in faccia, addirittura
in bocca.
“Eravamo ancora nel buio ma prossimi dell’alba. Si
bloccò d’improvviso e mi fece stare a terra, tolse il fucile
di spalla, lo imbracciò. Mi spaventai, gli dissi pianissimo:
35
no.
Mi azzittì con una mossa brusca della mano tolta dal
grilletto. Prese la mira e vidi anch’io da terra cosa
puntava, un paio di corna larghe. Ripetei il mio
pianissimo no, lui fece un gesto anche più secco. Mirò.
Io non potevo fare niente, né chiudere gli occhi né
tapparmi le orecchie. Tirò un respiro e mentre lo
sfiatava fece: ‘Bum!’.”
“Sparò?” diss’io pianissimo.
“No, fece bum con la bocca e poi abbassò il fucile. Non
mi ha più portato con sé. Fece così per odio o per
amore?”
Non si aspettava una risposta, la dissi lo stesso:
“Secondo me bum è amore”.
Sorrise come quando succede la sorpresa di un ricordo.
“Mio padre non c’è più da due anni. Lo scorso autunno
a novembre sono andata al cimitero. Faceva già freddo,
non era stagione di farfalle.
Invece una bianca è venuta a volare vicino e si è posata
sopra il mio ginocchio, dove lui metteva la mano. Amo
gli animali, sanno di noi e noi niente di loro.” C’era in lei
la fermezza che ho riconosciuto nella voce dei ciechi.
La mia sera
Giovanni Pascoli
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
39
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
Il balcone
Charles Baudelaire
Madre delle memorie, amante delle amanti,
fonte d'ogni mia gioia e d'ogni mio dovere,
ricorderai le tenere nostre ebbrezze, davanti
al fuoco, e l'incantesimo di quelle lunghe sere,
madre delle memorie, amante delle amanti!
Le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi,
le sere sul balcone, velate d'ombre rosee....
Buono il tuo cuore, e dolce m'era il tuo seno: oh, seppi
dirti, e sapesti dirmi, inobliabili cose,
le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi.
Come son belli i soli nelle calde serate,
quanta luce nel cielo, che ali dentro il cuore!
Chino su te sentivo, o amata fra le amate,
alitar del tuo sangue il recondito odore.....
Come son belli i soli nelle calde serate!
Un muro era la notte, invisibile e pieno.
Io pur sapevo al buio le tue pupille scernere,
e bevevo il tuo fiato, dolcissimo veleno,
e i piedi t'assopivo, entro mani fraterne.
Un muro era la notte, invisibile e pieno.
43
Io so come evocare i minuti felici,
e rivivo il passato, rannicchiato ai tuoi piedi:
è infatti nel tuo mite cuore e nei sensi amici
tutta chiusa la languida bellezza che possiedi.
Io so come evocare i minuti felici...
O promesse, o profumi, o baci senza fine,
riemergerete mai dai vostri avari abissi,
come dal mare, giovani e stillanti, al confine
celeste i soli tornano dopo la lunga eclissi?
- O promesse, o profumi, o baci senza fine!
Nuda
Pablo Neruda
Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
hai linee di luna, strade di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.
Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l'estate in una chiesa d'oro.
Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finchè nasce il giorno
e t'addentri nel sotterraneo del mondo
come in una lunga galleria di vestiti e di lavori:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda
Il tuo sorriso
Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
47
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d'aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell'ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d'improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d'autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell'isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.
Ode al fiore azzurro
Camminando verso il mare
nella prateria
oggi è novembre -,
49
tutto è nato ormai,
tutto ha statura,
ondulazione, fragranza.
Erba per erba
Intenderò la terra,
passo per passo
fino alla linea impazzita
dell’oceano.
D’improvviso un’onda
di aria agita e ondeggia
l’orzo selvaggio:
salta
il volo di un uccello
dai miei piedi, il suolo
pieno di fili d’oro
di petali senza nome,
brilla d’improvviso come rosa verde,
s’intreccia con ortiche che rivelano
il loro coral nemico,
agili talli, sterpi
stellati,
differenza infinita
di ogni vegetale che mi saluta
a volte con un rapido
scintillio di spine
o con la pulsazione del suo profumo
fresco, fine e amaro.
Andando verso le schiume
del Pacifico
con lento passo per la bassa erba
della primavera nascosta,
sembra che prima che la terra abbia fine
centro metri del più grande oceano
tutto sia diventato delirio,
germinazione e canto.
Le minuscole erbe
s’incoronano d’oro,
le piante dell’arena
diedero raggi violetti
e a ogni piccola foglia dimenticata
giunse un messaggio di luna e di fuoco.
Vicino al mare, camminando,
nel mese di novembre,
tra cespugli che ricevano
luce, fuoco e sale marini,
ho trovato un fiore azzurro
nato nella durissima prateria.
Da dove, da che fondo
trai il tuo raggio azzurro?
La tua seta tremante
sotto la terra
comunica col mare profondo?
Lo sollevai tra le mani
e lo guardai come se il mare vivesse
in una sola goccia
come se nel combattimento
51
della terra e delle acque
un fiore levasse in alto
un piccolo stendardo
di fuoco azzurro, di pace irresistibile,
d’indomita purezza.
Acque minacciose
Da “Il mulino sul Po’” di Riccardo Bacchelli
Il Po ha raggiunto il livello delle più alte piene, e li sta
passando; toccherà 99 oncie sopra la guardia del
Lagoscuro: nove più della massima piena mai
raggiunta. E detta così in oncie, equivalenti ognuna a
poco più di tre centimetri, è una fredda parola: bisogna
intenderla con quell’animo, all’incalzare lento delle
notizie inesorabili, sotto l’incubo delle migliaia di genti
abili a valutarle, oncia per oncia, tratto per tratto, che
cosa importi e fin dove, sul paese pronto, una
tracimazione, un fontanazzo, una rotta. Corrono di
bocca in bocca i nomi temuti, i danni e spaventi famosi.
Fragile opera, tenue difesa gli argini a reggere la spinta
e il peso di tal massa diversa e ugualmente sui vicini e
sui lontani. E fra questi e fra quelli, stanotte pochi
trovano sonno, o soltanto agitato ed oppresso. Sui
campi, e di paese in paese, di casa in casa, attraverso
l’orrenda notte, corre e pesa il terrore della recente e
delle antiche sciagure patite, misto all’ansia
insopportabile dell’ignoto incombente…
[…]
Il fiume era al ciglio dell’argine; se taceva (Cecilia) lì nel
55
buio, era in agguato come un mostro di natura, come
un portento odioso e fascinoso; ma più spesso si
faceva vivo, sotto la sferza delle ventate, gonfiando e
scrosciando e schizzando sull’argine, con onde rapide,
brevi, incalzanti, o più ampie, da correre a ritroso
l’intiera larghezza dell’acqua. E ciò significava che
anche il vento e il mare si mettevan malignamente a
far opera trista, a contrastare lo sbocco delle foci e a
gonfiare il fiume. E per i mugnai voleva anche dire, in
aggiunta al resto, burrasca in Po. A più riprese la donna
e il ragazzo ricevettero gli spruzzi del frangente contro
l’argine o camminarono coi piedi nell’acqua che
tracimava. Alle loro spalle, dalle parti di Ferrara, un
gran temporale rumoreggiava e lampeggiava continuo.
Il chiarore dei lampi illividiva le nubi, nell’alto, ma non
perveniva a schiarire la faccia ottenebrata della terra e
del fiume: spavento su spavento, danno su danno.
Terre vergini
Micail Sciolochov
Temporale in arrivo
Verso sera venne un temporale. Sopra il villaggio si
stese una greve nuvola bruna. Il Don, scarmigliato dal
vento, gettava sulla riva fitte onde crestate di bianco.
Dietro gli orti i fulmini secchi bruciavano il cielo, il
tuono scuoteva la terra con alti scoppi. Sotto la nuvola,
con le ali larghe, aperte, girava un falco, e una frotta di
corvi lo inseguivano gracchiando. La nuvola, irradiando
una leggera frescura, veniva dall’occidente seguendo il
corso del Don. Dietro il pascolo comune, il cielo era
d’un nero minaccioso; la steppa taceva, come
aspettando qualcosa. Nel villaggio si udivano le imposte
sbattute e chiuse in fretta, si vedevano le vecchie
rincasare quasi di corsa, segnandosi, dopo la messa.
Sulla piazza d’armi si aggirava un vortice di polvere e la
terra assetata era percossa dai primi scrosci di pioggia.
Solo verso l’alba il silenzio si stabiliva sul Don. Allora
l’acqua sussurrava sordamente nella foresta allagata,
bagnando i tronchi verdechiaro dei pioppi, agitando
ritmicamente le cime delle giovani querce e degli
ontani; i pennacchi dei giunchi, piegati dalla corrente,
frusciavano nei laghetti; sullo spaglio, là dove l’acqua
59
stagnava, le stelle si riflettevano sulla superficie
immobile, come incantata; si sentiva il richiamo appena
percettibile delle oche selvatiche, i maschi delle anitre
fischiettavano piano e talvolta giungevano le voci
argentee, forti come suoni di tromba, dei cigni migranti
che, di passaggio, avevano pernottato sui prati vicini.
Ogni tanto nell’oscurità si udiva l’acqua schioccare per il
guizzo di un pesce; sull’acqua, cosparsa di riflessi d’oro,
l’onda correva lontano e si sentivano i gridi di allarme
degli uccelli spaventati. E di nuovo il silenzio calava sul
Don e sulle sue rive. Ma all’alba, appena le balze dei
monti di creta diventavano rosee, dalla foce cominciava
a soffiare il vento della valle. Soffiava impetuoso contro
corrente. Sul fiume vorticavano onde enormi, l’acqua
nel bosco rumoreggiava selvaggiamente, scossi e
oscillanti gemevano gli alberi. Il vento muggiva tutto il
giorno e si acquietava solo a notte inoltrata.
Febbraio...
Il gelo stringe la terra, la fa corrugare. Il sole si alza in
un biancore ardente di gelo. Là dove il vento ha
spazzato la neve, la terra, di notte, si spacca
sonoramente. I kurgan della steppa, come angurie
troppo mature, sono frastagliati da fessure sinuose.
Dietro il villaggio, sui campi seminati , le falde di neve
sono di un biancore intollerabile. I pioppi sopra il fiume
sembrano fatti d’argento cesellato. Dai comignoli delle
case, al mattino, si alzano colonne verticali di fumo
arancione. Sulle aie la paglia di frumento odora più
forte per il gelo, spandendo effluvi che rammentano
l’agosto azzurro, l’alito ardente del solleone, il cielo
estivo… La neve gelata è granulosa, dura,
scricchiolante. La mezzanotte è calma come il gelido
cielo vuoto, cosparsa di minutissime, innumerevoli
stelle e sembra che il mondo sia abbandonato da ogni
parvenza di vita. Nella steppa azzurra, sulla neve
vergine, passa un lupo e le orme delle zampe non
rimangono impresse nella neve, ma là, dove le unghie
scalfiscono la dura neve gelata, rimane uno sfregio
scintillante, come una traccia perlacea…
Febbraio…
L’azzurro silenzio prima dell’alba.
La deserta via lattea si spegne.
Sul fiume il ghiaccio scricchiola fragile, sotto il piccone
di ferro…
Febbraio…
Il dieci marzo, verso sera, scese la nebbia su Gremjacij
Log; fino al mattino dai tetti delle case gocciolò l’acqua
della neve disciolta: da sud, dal fondo della steppa,
soffia un vento tiepido impregnato di umidità. La prima
notte che accoglieva la primavera si alzava sopra il
villaggio velata di scura nebbia setosa, di silenzio corso
dai primi aliti primaverili. Tardi nel mattino si diradò la
nebbia ormai rosea, scoprendo il cielo e il sole, e da
sud, a folate possenti, si precipitò il vento trasudante
61
umidità; fra fruscii e boati cominciò ad abbassarsi la
neve granulosa, i tetti si fecero bruni, la strada si
coperse di macchie nere e verso mezzogiorno dalle
vette e dai dirupi scrosciò ribollendo rabbiosamente
l’acqua montana, chiara come le lagrime, ed a cascate
innumerevoli inondò i prati e i frutteti, lavando le
amare radici dei ciliegi, allagando i canneti e le rive.
Tre giorni dopo i poggi, accessibili a tutti i venti, erano
scoperti; i pendii, dilavati fino al terriccio, brillavano di
argilla umida; l’acqua montana, intorbidita, portava
sulle sue onde ricciute gialle creste di schiuma alta,
fortemente battuta, radici di frumento, stoppie secche,
arbusti divelti.
A Gremjacij Log il fiumicello straripò. Dalle alture
arrivavano, portati dalle acque, frammenti azzurrognoli
di ghiaccio. Alle svolte essi uscivano dalla corrente,
vagavano e si sperdevano come enormi pesci siluri.
Talvolta la corrente li buttava sulla riva ripida e altre
volte il ghiaccio, trascinato da un corso d’acqua
sfociante nel fiumicello, veniva buttato nei frutteti e
nuotava fra le piante, investendo i tronchi degli alberi,
graffiando i meli, spezzando le piante giovani, piegando
i rami bassi dei ciliegi.
Dietro il villaggio nereggia, colpisce lo sguardo, la terra
liberata dalla neve…
… Asciugato dal vento, il frumento invernale, come in
punta di piedi, si protende verso i raggi della luce con
le sue foglioline aguzze.
Di primavera, appena s’è sciolta la neve e prosciugata
l’erba sepolta dalla coltre invernale, nella steppa
cominciano a divampare gli incendi. Il fuoco, stimolato
dal vento, scorre come un fiume, divora avidamente
l’antirrino secco, vola sugli steli alti del tatarnik, scivola
sulle cime alte del cardo, striscia radendo il suolo. E
molto tempo dopo perdura nella steppa l’odore amaro
della fuliggine sulla terra screpolata e arsa. Intorno
verdeggia allegramente l’erba novella, innumerevoli
allodole volano nel cielo azzurro, oche selvatiche
pascolano sull’erba grassa, e le otarde, fermatesi per
l’estate, fanno i loro nidi. Ma là dove è passato il fuoco,
la terra è nera e ha un aspetto funesto. Gli uccelli non
costruiscono i loro nidi, gli animali la aggirano da
lontano e solo il vento, alato e rapido, vi passa sopra e
sparge lontano la cenere grigia e la caustica polvere
nera.
63
La rugiada
Da I quattro libri di lettura di Lev Tolstoj
Uscite in una mattina d’estate quando il sole è
appena spuntato, recatevi nei campi o nei
boschi; vedrete scintillare nell’erba miriadi di
diamanti, che riflettono i raggi del sole in mille
barbagli d’ogni colore, dal giallo, al rosso,
all’azzurro; e se vi avvicinate, se vi chinate su
queste fonti di luce, scoprirete tante piccole
gocce di rugiada, raccolte sulle foglie e sui fili
d’erba.
Molte foglie sono vellutate, ricoperte di una
specie di peluria; le goccioline vi scorrono sopra
senza bagnarle. Se, con ogni precauzione, ne
raccogliete una sulla quale si è depositata la
goccia di rugiada, il piccolo globo luminoso rotola
via così in fretta che l’occhio quasi non la vede
scivolare e cadere al suolo.
67
Fuoco che distrugge
Da Uomini di mais di Miguel Angel Asturias
Poi si internò nei campi di mais maturo e asciutto e vi
appiccò il fuoco. Neanche un pazzo avrebbe agito così.
L’acciarino del signor Tommaso starnutiva scintille,
nell’urto della pietra focaia contro l’esca. Aaa… cis…
pass…. E non per accendere il sigaro di foglia di mais
che stringeva fra le labbra, ma per dar fuoco a tutte le
messi mature. E non per cattiveria, solo per passeggiare
in mezzo alle fiamme, a cavallo… si palpò il viso, il
sombrero, gli abiti, spegnendo le faville che gli
saltavano addosso, mentre altre volavano a depositarsi
sulle vesti di arso sole e arsa luna, di secco sale e secca
stella d’amido dorato dei filari di piante di mais. Sulle
barbe delle pannocchie, nelle ascelle polverose delle
piante e dei gambi divenuti violacei nella maturazione,
sulla sete delle radici terrose, sui pennacchi, vane
banderuole gremite d’insetti, il fuoco nato dalle faville
andava suscitando fiamme. La rugiada notturna si
svegliò, lottando per acchiappare con le sue reti di perle
d’acqua le mosche di luce che cadevano dall’acciarino.
Si svegliò con tutte le articolazioni addormentate in
angoli d’ombra e gettò le sue reti di resina d’argento
piangente sulle faville, che ormai erano fiamme di
piccoli fuochi che andavano appiccicandosi a nuovi
71
centri d’irradiazione violenta, più forti d’ogni strategia,
della più abile tattica di scaramucce. Sul frascume
sanguinolento per il bagliore delle fiammelle, denso di
nebbia, caldo di fumo, si udivano cadere le gocce
dell’umidità notturna con penetranti suoni di zampe di
pioggerella fino all’osso delle canne morte, rivestite di
stoffa porosa che scoppiava come polvere da sparo
asciutta. Una lucciola immensa, dell’immensa ampiezza
del piano e dei colli, della misura dell’estensione totale
dei campi di mais perfettamente tostati, pronti per il
raccolto.
[…]
Tutto il cielo ormai era un’unica fiamma. Furore del
fuoco che limite né barriera. Alberi che facevano la
riverenza, per crollare in fiamme in mezzo alla
vegetazione boscosa che resisteva, nel calore
soffocante, al procedere dell’incendio.
[…]
E dire che era il medesimo fuoco, il mite amico delle
pietre del focolare, quello che imperversava adesso,
simile ad un toro selvaggio, tra nubi di fumo.
Terra
da Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo
Notte, serene ombre,
culla d’aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l’alba desti.
Monti secchi, pianure d’erba prima
Che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
75
Non avessi mai visto il sole
Emily Dickinson
Non avessi mai visto il sole
avrei sopportato l'ombra
ma la luce ha aggiunto al mio deserto
una desolazione inaudita.
La natura talvolta fa seccare
La natura talvolta fa seccare
un arbusto, talvolta scalpa un albero il suo popolo verde lo ricorda
nel caso in cui non muoia.
Foglie stremate alle nuove stagioni
testimoniano mute.
79
Questo amore
Jacques Prevert
Questo amore
Cosi violento
Cosi fragile
Cosi tenero
Cosi disperato
Questo amore
Bello come il giorno
E cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore cosi vero
Questo amore cosi bello
Cosi felice
Cosi gaio
E cosi beffardo
Tremante di paura come un bambino al buio
E cosi sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che impauriva gli altri
Che li faceva parlare
Che li faceva impallidire
Questo amore spiato
Perché noi lo spiavamo
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Perché noi l'abbiamo perseguitato ferito calpestato
83
ucciso negato dimenticato
Questo amore tutto intero
Ancora cosi vivo
E tutto soleggiato
E tuo
E mio
E stato quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
E che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda e viva come l'estate
Noi possiamo tutti e due
Andare e ritornare
Noi possiamo dimenticare
E quindi riaddormentarci
Risvegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognare la morte
Svegliarci sorridere e ridere
E ringiovanire
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
E ci parla senza dir nulla
E io tremante l'ascolto
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti coloro che si amano
E che si sono amati
Sì io gli grido
Per te per me e per tutti gli altri
Che non conosco
Fermati là
Là dove sei
Là dove sei stato altre volte
Fermati
Non muoverti
Non andartene
Noi che siamo amati
Noi ti abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre
E non importa dove
Dacci un segno di vita
85
Molto più tardi ai margini di un bosco
Nella foresta della memoria
Alzati subito
Tendici la mano
E salvaci.
In una bolla di fango bollente,
nelle solfatare vulcaniche,
nelle paludi putride o nelle sterminate distese salate.
In questo inferno è nata la vita.
P. Cammarano
89
Scarica

opuscolo MIX - A5