contributi per una storia locale Era doveroso per Habitar in sta terra fare memoria del passato di Bagolino, specialmente di anni così significativi come quelli della seconda metà del XIX secolo in cui faticosamente l’Italia si stava formando. I “bagolini” erano frastornati dai cambiamenti che, in pochi decenni e in maniera tragica, avevano distrutto l’antico e solido legame con Venezia costringendoli ad inventarsi una nuova vita politica ed economica. Il nuovo punto di riferimento era diventato Milano. L’insofferenza alle dominazioni e il desiderio di libertà, crearono movimenti di popolo che diedero origine alle guerre d’indipendenza. Da tutto il paese giovani volontari accorsero per liberare la patria, male equipaggiati e mal addestrati, ma animati da smisurata fede. Da Soresina venne a seguire Garibaldi il giovane Antonio Ponzetti che troverà la morte a Montesuello. La nostra associazione, in collaborazione con i comuni di Soresina e di Bagolino, ha ritenuto opportuno nel 150° dell’Unità d’Italia, dare un segno concreto restaurando la lapide dello sfortunato giovane. Per approfondire gli aspetti e le situazioni che contribuirono a formare la nuova identità italiana, sono stati inoltre organizzati sei incontri di studio e ricerca di cui potete leggere le allegate schede, curate dai relatori. Un ulteriore impegno sarà l’allestimento di una mostra nella nuova casa- museo di via Madonna di S. Luca 37 dove scoprire documenti e testimonianze importanti per la storia di Bagolino. Il presidente di Habitar in sta terra Luca Ferremi 3 Calendario degli incontri 22 luglio Incontri presso la sala Consigliare del Municipio Bagolino - via Parrocchia, 34 h. 20.45 “Gente di città, gente di montagna nelle campagne militari del 1848 e del 1866” relatrice Marta Boneschi 9 settembre “Giuseppe Zanardelli e le valli bresciane” relatore Roberto Chiarini 24 giugno 16 settembre “L’economia della Valsabbia dal vecchio regime all’unificazione italiana” relatore Giancarlo Marchesi Gianni Poletti “I garibaldini e la gente del Tirolo nell’estate del 1866” relatore Gianni Poletti 15 luglio 23 settembre “Le personalità che hanno segnato la memoria collettiva tra Otto e Novecento” relatore Alfredo Bonomi “La Lombardia dal 1848 all’unità italiana” relatrice Mariachiara Fugazza 3 luglio Inaugurazione della restaurata lapide commemorativa del garibaldino Antonio Ponzetti ritrovo presso l’Ossario Garibaldino di Monte Suello - h. 9.30 4 Introduzione Fedele alla sua vocazione di preservare le memorie di Bagolino, Habitar in sta terra si propone di offrire al pubblico alcuni appuntamenti estivi, in occasione del centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’Italia unita, per festeggiare insieme e anche per ricordare che, in un secolo e mezzo, ci siamo uniti e non ci siamo mai divisi. Bagolino e i suoi abitanti non sono rimasti estranei, nel corso dei secoli, ai cambiamenti storici: le dominazioni straniere, le guerre, le crisi economiche, le migrazioni. Si potrebbe anzi dire che Bagolino rappresenta un esempio eccellente delle vicende storiche nazionali: i suoi abitanti hanno prodotto carbone e ferro per l’armamento veneziano, i suoi alpini hanno combattuto nelle guerre mondiali, i suoi muratori hanno costruito in Francia, in Svizzera e in altri paesi, generando quelle rimesse dall’estero che hanno consentito a tante famiglie italiane di sopravvivere nei tempi più aspri dell’ultimo secolo. Non è strano perciò che Habitar in sta terra intenda festeggiare il centocinquantenario italiano, ricordando alcune tappe, alcuni luoghi e alcuni personaggi che hanno fatto l’Italia così come la conosciamo oggi, quell’Italia della quale siamo debitori ai nostri bisnonni e nonni, nel bene e nel male, e così come la consegniamo ai nostri figli e ai nostri nipoti. Habitar in sta terra propone sei appuntamenti che si stendono nel corso di tutta l’estate, dal 24 giugno al 23 settembre 2011. Sono sei conversazioni, tenute da altrettanti specialisti, sui temi che interessano e riguardano Bagolino e i bagossi, la valle Sabbia e la gente di montagna: il cambiamento radicale dell’economia locale nel corso dell’Ottocento; i personaggi che hanno operato per la val Sabbia e per Bagolino negli anni cruciali del processo unitario; l’incontro tra i combattenti per l’Italia unita e le popolazioni locali durante le guerre del Risorgimento; la personalità di Giuseppe Zanardelli, un politico nazionale che si è sempre preso cura delle sue valli; i problemi politici, sociali e culturali sorti nel periodo postunitario. Habitar in sta terra invita calorosamente il pubblico a partecipare: si tratta di una buona occasione per ripensare ai motivi profondi per i quali “ci siamo uniti e non ci siamo mai divisi” e, sulla base delle nuove conoscenze e delle nuove riflessioni, progettare un futuro migliore per tutti. Così come hanno fatto nell’ultimo secolo e mezzo, nel bene e nel male, i nostri bisnonni, nonni e genitori, e per consegnare ai figli e nipoti quell’eredità di sapere, moderazione, laboriosità e rispetto che costituiscono la grande tradizione di Bagolino e dei suoi abitanti. 5 Giancarlo Marchesi L’economia della Valle Sabbia tra vecchio regime e unità italiana Situata nella porzione nord-orientale del territorio bresciano, al confine con la regione Trentino-Alto Adige, la Valle Sabbia è la realtà montana meno conosciuta della provincia di Brescia, ma non per questo le vicende legate alla sua lunga storia economica risultano prive di interesse. Sin dal periodo medioevale questa vallata s’inserì a pieno titolo nel sistema economico delle Prealpi bresciane, ma è dall’età moderna che seppe occupare una posizione centrale nel panorama produttivo della Repubblica Veneta, grazie alla sua strategica funzione di zona di confine. Con la caduta di Venezia, nel 1797, subì un ridimensionamento economico e commerciale, a causa della rilevante contrazione che interessò il settore del ferro, comparto che trainava l’economia locale. Dall’età napoleonica, la valle divenne area marginale rispetto alle nuove correnti di traffico, che privilegiavano il dinamico territorio della Lombardia centrale e occidentale. Negli anni della Restaurazione, l’isolamento dal resto del territorio provinciale divenne il leitmotiv che accompagnò la Valle fino a buona parte del secolo scorso, tanto che, ancora nei primi anni Cinquanta, era ben lontana dall’avere imboccato la strada che avrebbe portato al rilancio economico. Non a caso, vi fu chi, autorevolmente, pose l’accento sull’arretratezza e sulle insufficienze che affliggevano il suo apparato produttivo. D’altra parte, in quella fase l’economia valsabbina era alle prese con una serie di «nodi» irrisolti e continuò ad occupare una posizione economica marginale nel contesto provinciale. Tuttavia, a distanza di qualche decennio, grazie all’impegno e alla dedizione al lavoro della sua gente, la Valle fu interessata da uno sviluppo economico tanto sorprendente quanto inatteso. Grazie a questo poderoso balzo della sua economia, sul finire del Novecento, questo territorio tornò ad occupare un ruolo da protagonista nel panorama produttivo provinciale. Un’analisi di quegli anni evidenzia come ben cinque comuni valsabbini (Odolo, Casto, Mura, Vestone, Agnosine) erano da annoverare tra le prime dieci realtà economiche bresciane col più alto grado di industrializzazione. Per comprendere l’imponente trasformazione che in quella fase interessò l’economia sabbina penso bastino due dati statistici: dagli anni Settanta agli anni Novanta del ‘900 le unità locali di carattere industriale quadruplicarono e, nel contempo, diminuì in modo considerevole il numero di addetti per unità produttiva, passando dai 10,9 del 1971 ai 5,7 del 1993. Mi pare che questi numeri evidenzino l’affermarsi di un tessuto diffuso di piccole e piccolissime imprese. 6 Un ambiente socioeconomico che presentava tutti i tratti tipici del distretto industriale, dalla zona territoriale ristretta al ruolo fondamentale della famiglia, dalla divisione tra imprese del processo produttivo all’esistenza di sentimenti di fiducia e stima che legano i membri della comunità. Ma come interpretare questa realtà? Il modello di sviluppo distrettuale non rappresenta certo una novità per la Valle Sabbia, bensì il ritorno di un modello produttivo - quello della piccola impresa artigiana capillarmente diffusa sul territorio - che per secoli ha segnato l’economia della vallata. A ben vedere, proprio studiando il meccanismo di sviluppo degli ultimi decenni del ‘900, si ha l’impressione di un déjà vu, rinforzata dal carattere «tradizionale» dei settori coinvolti nel tessuto economico valligiano di fine millennio. Sono molte, infatti, le coincidenze tra il sistema economico contemporaneo e quello presente in Valle Sabbia nei secoli passati (a partire dall’esistenza di un patrimonio di professionalità, alla presenza di una imprenditorialità diffusa, proveniente dal ceto artigianale) che mettono in luce una marcata continuità storica dell’apparato produttivo di questo lembo di territorio. 7 Alfredo Bonomi Le personalità che hanno segnato la memoria collettiva tra otto e novecento in Valle Sabbia La Valle Sabbia non è stata assente nei movimenti di pensiero e di azione che hanno fatto l’Italia. La sua posizione di confine ha favorito un fervido dibattito e l’emergere di molte figure che hanno segnato la memoria collettiva locale ed hanno assunto anche un ruolo più vasto. I risorgimentali valsabbini ed i post-risorgimentali costituiscono una galleria di personaggi di tutto rispetto. Personalità valligiane di grande portata culturale ed umana si sono affiancate a tutti coloro che, in qualche modo, hanno preparato i moti risorgimentali con sotterranee cospirazioni a partire dal 1821. Basta ricordare Silvio Moretti di Comero (17721832), Giovan Battista Passerini di Casto (1793-1864), Giovan Battista Tonni Bazza di Preseglie (1783). Il grande risveglio del 1848 ha visto nel Battaglione degli studenti un nutrito gruppo di giovani ardimentosi valligiani; in particolare le 10 giornate di Brescia hanno messo alla prova le idee ed il coraggio di giovani valsabbini che si distingueranno poi nella vita. È il caso di Lucio Fiorentini (1829-1902), Giacinto Passerini (18061886), Francesco Glisenti (1822-1887), di Marino Ballini (1827-1902) bresciano di origine valligiana. I garibaldini della prima ora, cioè coloro che hanno partecipato alla spedizione dei mille come Achille Tonni Bazza (1837-1863) e Secondo Calzoni o alle successive azioni di Garibaldi nell’Italia del Sud (è il caso di Giuseppe Guarneri (1829-1888) sono stati per la valle una leggenda da tramandare di padre in figlio. A questi si affiancarono coloro che parteciparono alle azioni di guerra del 1859 e del 1866 (I Riccobelli ed i Pagnoni di Vestone, gli Zanetti di Bagolino). Dopo l’Unità d’Italia, a partire dal 1861, i risorgimentali sono diventati i notabili della valle dominando la scena amministrativa e politica per lungo tempo, sino all’ultimo decennio del 1800 quando hanno dovuto dividere il campo con le attive organizzazioni cattoliche. I risorgimentali valligiani furono per la maggior parte liberali di sinistra, cioè legati al filone mazziniano e garibaldino. Comunque, sia che fossero liberali di sinistra, come Francesco Glisenti, o liberali moderati, come Lucio Fiorentini, il potere dell’azione e del pensiero fu saldamente nelle loro mani. In valle il cuore strategico di questo movimento fu certamente Vestone con i 8 Riccobelli (il Dott. Lucio, 1801-1868; l’ing. Domenico, 1805-1878; l’avv. Pietro, 1840-1927), il garibaldino, avv. Giuseppe Guarneri, l’ing. Armanno Pagnoni (18501906) e con un folto gruppo di figure minori. Anche Bagolino diede un notevole contributo politico ed amministrativo con gli Zanetti. Ai risorgimentali rimasti in valle offrivano contributi di idee personalità di spicco che si erano distinte oltre la valle. L’avv. Lucio Fiorentini, di Vestone, partecipe delle 10 giornate di Brescia, moderato e monarchico, intraprese la carriera amministrativa con alte cariche, diventando Senatore del Regno. Francesco Glisenti, di famiglia di origine vestonese, dinamico uomo di affari e di governo, deputato al Parlamento per il Collegio di Salò dal 1876 al 1880, fondò il grande stabilimento di Villa Carcina. Al 1885 si può far iniziare la condivisione del potere politico valligiano dei liberali risorgimentali con i cattolici, quando a rappresentare in Consiglio Provinciale i Mandamenti uniti di Bagolino, Vestone e Preseglie venne nominato Angelo Passerini di Casto (1853-1940), nipote del filosofo Giovan Battista, attivo nei moti del ’21, di ricca e distinta famiglia. Di riferimento non solo locale per i cattolici, fu attivissimo in opere ed associazioni e nominato Senatore del Regno. Sul piano più strettamente valligiano, i cattolici negli ultimi anni del 1800 e nei primi decenni del 1900, ebbero due saldi roccaforti: Nozza e Bagolino. A Nozza fu molto attivo il geometra Marsilio Vaglia (1881-1937), componente della Commissione Provinciale che preparò la nascita del P.P.I. a Brescia. A Bagolino si imposero Faustino Pelizzari (1853-1956), dinamico e giovanissimo sindaco e Alberto Lombardi (1853-1902), fervido di opere assistenziali e caritative e pure sindaco. La galleria dei liberali, nati dalle idee risorgimentali, si può ritenere chiusa in valle con l’azione dell’avv. Gianluca Zanetti di Bagolino (1872-1926), figlio del dott. Stefano, notaio, uno degli zanardelliani di spicco in valle, Deputato provinciale e più volte sindaco di Bagolino. Gianluca Zanetti fu uomo di pensiero e di azione. Dall’affermato studio legale di Milano non disdegnò di affrontare l’esperienza amministrativa in quel di Bagolino, ritenuta da lui un dovere nel periodo della prima guerra mondiale, vista come il 9 coronamento del farsi dell’Italia. Una considerazione a parte merita Silvio Longhi (1865-1937) di Vestone, ma di famiglia mantovana perché ha avuto un ruolo nazionale. Seguendo la carriera della magistratura, fu Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e venne nominato Senatore del Regno nel 1928. Pure un capitolo affascinante sarebbe quello degli uomini di scuola valligiani, Ispettori e Direttori Didattici che hanno costruito l’Italia vincendo l’analfabetismo. 10 Marta Boneschi “Gente di città, gente di montagna. Bagolino e il lago d’Idro nelle campagne militari del 1848 e del 1866” Bagolino, come l’alta valle Sabbia, si trova nel cuore di un’area strategica per le comunicazioni tra il sud e il nord Europa. Durante le guerre per l’indipendenza italiana, la valle ha visto italiani e austriaci fronteggiarsi in combattimento per ben due volte, nel 1848 e nel 1866, vedendo transitare soldati provenienti da ogni parte d’Italia, volontari, per lo più ragazzi inesperti, mal vestiti, mal nutriti e male armati, comandati alla meglio da pochi ufficiali valorosi e da qualche veterano, ma animati da una grande passione. Con terribili lutti e devastazioni, quelle guerre hanno messo di fronte gente nata sotto cieli diversi, di diversa condizione sociale, ognuno con il suo dialetto; analfabeti e laureati, poveri e ricchi. Alcuni non avevano mai visto il mare, altri erano stupefatti alla vista delle montagne; i cittadini erano abituati a dormire tra le lenzuola, i contadini conoscevano solo il pagliericcio. Alla fine di marzo del 1848, dopo le Cinque giornate milanesi e la rivolta di tutte le popolazioni lombarde, l’esercito austriaco sotto la guida del feldmaresciallo Johann Radetzki si ritirava a Verona. Subito si formavano gruppi di volontari, pronti a risalire le valli sia per impedire all’esercito austriaco di percorrerle e dilagare in pianura, sia per raggiungere Trento, città italiana, e chiudere da nord e da sud l’armata austriaca. I volontari erano mal visti da Carlo Alberto di Savoia e dal suo esercito, intervenuto dopo la liberazione delle città lombarde per annettere la regione al suo piccolo regno. Sospettati di essere repubblicani e democratici, erano lasciati senza organizzazione né ordini, e tanto meno uniformi, armi e denaro. Eppure avanzavano, e già ai primi di aprile oltrepassavano la Rocca d’Anfo, raggiungendo Stenico, pronti a entrare a Trento. Pochi, privi di rincalzi e rifornimenti, si erano presto ritirati, attestandosi al confine di Ponte Caffaro, dove presidiavano la zona del lago d’Idro e le montagne verso il lago di Garda, posizioni tenute con grande sacrificio e nessuna ricompensa. Luciano Manara, eroe delle Cinque giornate di Milano, trascorse tutta le primavera e l’inizio dell’estate sul Monte Suello. Francesco Anfossi, attestato per tutto luglio sul confine, non appena tornato a Milano fu incarcerato sotto accuse pretestuose. Carlo Pisacane fu ferito sul monte Nota mentre teneva la linea da Tremosine a Limone del Garda. Ai primi di agosto la guerra di Carlo Alberto sul Mincio era 11 persa e gli austriaci riprendevano la Lombardia. Battuti e dispersi, i volontari arretravano, fuggendo verso la Svizzera o il Piemonte, sempre sperando in una ripresa delle ostilità. Bagolino e la Val Sabbia avevano preso contatto per la prima volta con un esercito di italiani come loro, mentre i volontari avevano constatato le condizioni di povertà e isolamento dei loro fratelli di montagna. Nella seconda guerra d’indipendenza, combattuta nell’estate 1859, la Lombardia era liberata e la val Sabbia diventava italiana con la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. L’antico confine di Ponte Caffaro, che aveva diviso per secoli la Serenissima Repubblica di Venezia dall’Impero asburgico e poi aveva delimitato il Regno lombardo veneto, dal 1861 segnava la frontiera del Regno d’Italia, al di là della quale abitavano ancora le popolazioni italiane del Trentino. Alleata della Prussia, nel 1866 l’Italia unita si preparava a far guerra all’Austria per conquistare il Veneto. Il 6 maggio un regio decreto istituiva il Corpo dei volontari e dava il via agli arruolamenti. Come nel 1848 i volontari non erano visti di buon occhio dai militari di professione e subito constatavano la scarsità dei mezzi messi a loro disposizione. Eppure erano contenti di seguire Giuseppe Garibaldi, nominato comandante dei 40 mila uomini accolti nei ranghi (su circa centomila desiderosi di combattere). Mentre l’armata regolare, divisa tra il fronte del Mincio sotto il comando di Alfonso Lamarmora e il fronte del Po sotto il comando di Enrico Cialdini, si preparava alla campagna verso Verona, a Garibaldi era assegnato il compito di puntare sul Trentino. Le camicie rosse percorrevano rapidamente la val Sabbia e occupavano Monte Suello, posto strategico avanzato per il passaggio nelle Giudicarie. Il 25 giugno, dopo che l’esercito regolare aveva subito la disfatta a Custoza, Garibaldi era chiamato in pianura, a difendere l’eventuale avanzata austriaca verso Brescia e subito gli austriaci del generale Kuhn prendevano possesso di Monte Suello. Dopo pochi giorni Garibaldi era di ritorno. Il 3 luglio dava battaglia per la riconquista di Monte Suello. Ferito all’inguine dal fuoco amico, continuava a guidare l’avanzata. Gli austriaci si ritiravano al di là del Caffaro e Garibaldi stabiliva il quartier generale a Storo. Da lì, convinto che la guerra di montagna si vince conquistando le cime, si preparava a prendere la valle di Ledro per scendere su Riva del Garda, e insieme a marciare verso il forte di Lardaro per raggiungere Trento. Preso il forte di Ampola, in condizioni difficilissime, e poco dopo Bezzecca, era costretto a 12 fermarsi per ordine del re, proprio quando il generale Kuhn decideva di ritirarsi verso Bolzano, nell’impossibilità di resistere all’avanzata delle camicie rosse. Finivano così i combattimenti, mentre l’intera valle continuava a curare i feriti, a nutrire i soldati, a stringere e consolidare quell’amicizia tra italiani di diversa origine che stava costruendo l’Italia unita. 13 Roberto Chiarini “Zanardelli e le sue valli” Giuseppe Zanardelli è stato uno dei più importanti riformatori dell’Italia unita. La sua figura spicca sulla scena della politica nazionale per la fedeltà ai principi, per l’intransigente difesa della libertà e della democrazia e per la quantità e qualità dei risultati della sua azione personale. Era un uomo di straordinaria intelligenza, di vasta cultura, di profonda competenza giuridica. Nel corso della sua lunga carriera politica aveva intessuto una rete di amicizie e di relazioni, sempre restando fedele alle antiche conoscenze bresciane. Era nato a Brescia il 29 ottobre 1826 da una famiglia originaria di Collio, in val Trompia, e per questo conosceva bene la miseria e l’abbandono che i montanari della zona avevano sopportato nei primi decenni dell’Ottocento e che ancora pativano agli albori dell’unità nazionale. Come si usava nella sua terra, era stato educato a un ferreo senso del dovere e alla solidarietà verso gli altri. Studioso e solerte, si era guadagnato un posto al Collegio Ghislieri di Pavia, dove si era laureato in legge. A 27 anni, rimasto senza padre, era diventato l’unico sostegno della madre e dei dieci fratelli e sorelle. Nell’ambiente pavese, dove si era legato di una fervida amicizia a Benedetto Cairoli e alla sua famiglia, era maturata la sua convinzione civica, l’impulso a contribuire alla costruzione di un’Italia libera, unita e democratica. Nel 1848 si era unito ai volontari, partecipando soltanto a uno scontro a fuoco con gli austriaci a Rezzato. La sconfitta del 1848-1849, e soprattutto la dispersione dell’ala democratica del movimento patriottico, lo aveva lasciato profondamente deluso. Ai suoi occhi di repubblicano era parsa vergognosa la parte avuta dai Savoia nella fine ingloriosa del tentativo indipendentista. Nel decennio seguente, come molti patrioti e coetanei, era tornato agli studi, e sopravviveva grazie a lezioni private, essendogli precluso ogni impiego per i suoi precedenti anti austriaci. A poco a poco l’osservazione della realtà lo aveva convinto che, se si voleva liberare e unificare il paese, occorreva affidarsi all’iniziativa di casa Savoia. Quando Brescia era stata liberata nel 1859, Zanardelli era la figura di spicco tra i patrioti bresciani. Nel 1860 era eletto alla Camera dei deputati, dove sedeva nelle file della sinistra. Negli anni successivi, gli anni del potere della destra, Zanardelli rimaneva all’opposizione. Nel 1876, con l’avvento al potere della sinistra, entrava nel governo guidato da 14 Agostino Depretis come ministro dei Lavori Pubblici. Democratico intransigente, contrario al trasformismo, fieramente anticlericale, avversario dell’affarismo, non dimenticava mai le valli bresciane, adoperandosi per portarvi lavoro, riforme e benessere. Poiché il suo collegio elettorale era dapprima Gardone Valtrompia e poi Iseo, Zanardelli teneva stretti legami con gli imprenditori locali e si adoperava perché ottenessero commesse pubbliche, come quelle per la costruzione della rete ferroviaria, e per dare lavoro alla manodopera locale, sollevando le popolazioni dalla povertà. Nel 1878 era ministro dell’Interno, pronto a varare un’azione di orientamento liberale e garantista. Nel 1881 era relatore della riforma elettorale che, una volta applicata, allargava il voto dai circa 600 mila elettori a 2,5 milioni. L’obiettivo, affermava Zanardelli, era di consentire il suffragio alla “borghesia intelligente” e al “popolo minuto”, non soltanto a un pugno di privilegiati per diritto di nascita. Come ministro di Grazia e Giustizia nel 1889 varava il primo Codice penale dell’Italia unita, dal quale era esclusa la pena di morte, “odioso spettacolo di sangue” ed era invece incorporata la “libertà di coalizione e di sciopero”. Si tratta di due grandi riforme democratiche e civili, ottenute con una fede radicata nella libertà e una ferma convinzione democratica, ma anche ispirate da un’immensa cultura giuridica e realizzate grazie a una formidabile tenacia. Dopo aver presieduto a lungo la Camera dei deputati, nel 1901 Zanardelli diventava presidente del Consiglio, grazie al clima più libero che si era aperto con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III. Nel 1902, all’età di 77 anni, nella veste del capo del governo, compiva un viaggio in Basilicata, la regione più povera del paese. Nessun presidente del Consiglio, prima di lui, aveva mai messo piede in un luogo tanto remoto e misero. Consapevole delle condizioni di vita tanto difficili della gente delle valli alpine, constatava così la miseria e l’isolamento anche maggiori della povera popolazione lucana, sempre convinto che soltanto la libertà e la democrazia possono incivilire un paese. Nel 1903, poco dopo aver lasciato la guida del governo, moriva a Maderno, sul lago di Garda, nella sua terra bresciana. 15 Gianni Poletti I garibaldini e la gente del Tirolo nell’estate del 1866 Ha ancora un senso, a 140 anni di distanza e in un contesto storico globale completamente mutato, scrivere della circoscritta campagna garibaldina del 1866? C’è ancora qualcosa da dire? In effetti, pochi episodi della nostra storia sono stati tanto esplorati. Anche l’associazione “Il Chiese” ha ripetutamente affrontato l’argomento, privilegiando il racconto e le testimonianze delle scritture popolari e della memorialistica garibaldina. Abbiamo fatto parlare i protagonisti, dando un nostro piccolo contributo alla ricostruzione dei fatti e dell’atmosfera del ‘66. Sappiamo infatti come, in passato, quelle vicende siano state talvolta troppo celebrate, ingigantite e quindi distorte. La rivisitazione del ’66 ci ha aiutato anche a capire come il “patriottismo” e la “fedeltà” dei contadini e montanari di casa nostra fossero quasi sempre determinati dalla paura e dal calcolo. Oggi parlare del “nostro” 1866 ha un senso anche perché ora le guerre ubbidiscono a una mission diversa, monopolizzata e totalizzata dagli interessi economici, tale da cancellare ogni idealità, ogni idealismo, alla fine ogni valore anche negli individui. Oggi la guerra è “un male in sé” più di quanto lo fosse quella del ’66, quando dietro il calcolo della politica e della diplomazia, non c’erano automi, ma baldi e scanzonati giovanotti, carichi di entusiasmo, di valori e di vizi. I loro fucili erano più adatti a guardie campestri che a soldati, inetti erano i loro comandanti, troppo arditi i piani di attacco, spossanti e assurde le marce, ma il cuore dei volontari batteva forte. Diversamente da quanto accade nelle disumane “missioni di pace” dei nostri giorni, volute dagli affaristi delle multinazionali e della politica, sofferte da mercenari lusingati da “facili” guadagni e circuiti da una retorica senza precedenti. Nell’estate del 1866 i garibaldini varcarono per la prima volta il confine del Caffaro il 24 giugno, ma quella sera stessa dovettero ritirarsi sulla difensiva. Tornarono ad occupare la piana del Chiese nella prima settimana di luglio, dopo la battaglia di Monte Suello del giorno 3. Invasero la campagna e si insediarono nei paesi. Nelle settimane seguenti salirono sui monti seguendo direttrici diverse: Bagolino, Monte Bruffione, Lago di Campo e Val di Daone; Monte Croce, Rango e Rocca Pagana; Val Vestino, Tremalzo e Passo Nota. 16 Una volta occupata la piana, le camicie rosse si trovarono dinanzi i due poderosi baluardi posti a difesa del Tirolo: il Forte d’Ampola e la complessa fronte dei Forti di Lardaro. Da questi nidi gli austriaci uscivano ad incontrare il nemico in combattimenti che vedevano sempre i garibaldini avere la peggio. Eppure i giovani di Garibaldi avanzavano e l’Austria non riprendeva le terre abbandonate. Così si diffuse tra loro il convincimento di arrivare presto a Trento, congiungendosi alle truppe volontarie che sarebbero dovute salire dalla Val Camonica e poi scendere dal Tonale nella valle dell’Adige e a quelle che avanzavano per la Valsugana. Ciò che non trovava riscontro in una realistica osservazione dei fatti, veniva immaginato ed alimentato dalla mente di giovani volontari, dei quali tutto si può dire tranne che non fossero entusiasti ed esaltati, utopisti e sognatori, arditi fino a rasentare l’incoscienza. Così appaiono nelle memorie che stesero nel 1866 e che in parte - non a caso - vennero pubblicate o ripubblicate quando l’Italia si apprestava ad entrare nella prima guerra mondiale. La guarnigione austriaca dell’Ampola si arrese il 19 luglio, aprendo la strada della Val di Ledro, ove il 21 si combatté la più sanguinosa battaglia di tutta la campagna. Morirono 121 garibaldini, 451 furono feriti, 1.070 furono fatti prigionieri. Le perdite austriache furono otto volte inferiori. I piani per accerchiare e costringere alla resa i Forti di Lardaro rimasero invece inattuati. Nel giorno stesso in cui le camicie rosse occuparono le posizioni di fronte ad essi, Garibaldi ebbe la notizia della sospensione d’armi tra Italia e Austria. Era il 25 luglio. La guerra non riprenderà più. Quindici giorni dopo, il Generale ricevette infatti l’ordine di abbandonare il Trentino nel giro dì ventiquattr’ore. Si torna a casa. La “guerra disgraziatissima” è finita. Il cronista garibaldino, rientrato nella sua città, parlerà di “vana effusione di sangue”, “mancate vittorie”, “fallito successo”. Aveva vinto la diplomazia, quella francese soprattutto: alla fine del conflitto l’Italia riceve il Veneto, ma deve lasciare nuovamente tutto il Trentino in mano all’Austria. Intanto però si è realizzato quel primo incontro tra italiani e trentino-tirolesi che si ripeterà nel maggio del 1915, un incontro che oggi risulta assai intrigante esplorare. 17 A metà agosto la gente, già inutilmente invitata da Garibaldi a sollevarsi col proclama di Storo del 18 luglio, guarda impotente i carri che svuotano magazzini ancora colmi di viveri e ripassa il confine del Caffaro. Ritornano gli antichi padroni. Le valli meridionali del Trentino riprendono l’aspetto di prima. Non ci sono più le vistose e allegre camicie rosse sparse per i prati e nei boschi, se n’è andata la banda che a sera suonava nelle piazze, sono partiti quegli allegroni di garibaldini che se non sapevano combattere e vincere come si doveva, certo sapevano amare, vivere e divertirsi. In un mese e mezzo i contadini avevano imparato a convivere con loro, avevano guardato con un misto di commiserazione e benevolenza i loro gesti stravaganti e talora dissacranti, e alla fine avevano forse pensato, nell’intimo, di poterli “convertire”. Eppure al loro primo apparire di qua dal confine, a fine giugno, la paura era stata tanta. “Rieccoli! - disse all’inizio la gente - Tornano quelli del ‘48!”. Leggendo le memorie popolari si ha spesso l’impressione che chi scrive disponga di un cliché, di un modello di riferimento ben preciso: la spedizione appunto dei Corpi Franchi del 1848, di quella truppa mista di “gioventù ardente e disinteressata”, ma anche di “avventurieri, di turbolenti, di pregiudicati, pronti a pescare nel torbido” che risalì la Valle Sabbia ed occupò le Giudicarie dopo le Cinque Giornate di Milano. Le truppe e la rivoluzione sono una minaccia per contadini e montanari, che non sanno con chi stare, a chi far buon viso, perché non possono sospettare chi sarà, ad avventura finita, il loro padrone. L’oste Bernardinello della Stella a Creto, uomo “svelto e intelligente”, confidò un giorno al garibaldino Ascanio Branca che “non sapevano alla fine con chi andavano a restare; ... da un lato meglio amavano unirsi alla patria italiana, dall’altra assai più avevano a temere l’ira austriaca in caso di abbandono”. E il cronista del quotidiano “Il Sole” scrisse che il contadino di Darzo rispose al colonnello Castellini, che gli chiedeva da che parte stessero i suoi compaesani: “Vede signore, qua da noi non è questione di simpatia per loro o per gli austriaci, ma bensì di polenta. La guerra devasta i campi e il contadino teme sempre vedersi dattorno la sua famiglia domandargli da mangiare, ed egli non averne”. Nel valutare l’atteggiamento verso i garibaldini occorre distinguere tra semplice popolazione, dietro la quale e con la quale c’è spesso il clero, e le autorità civili. 18 Se in genere la prima, per secoli fedele agli Asburgo, all’inizio è naturalmente diffidente e passiva, talora animosa e ostile, le seconde - col sindaco in testa - si dimostrano subito intraprendenti e ben disposte, formalmente servili, calcolatrici e ciniche nelle manifestazioni ufficiali, talora anche di sinceri sentimenti filo-italiani. Solo un po’ alla volta la gente finì col far buon viso, apparentemente, ai nuovi arrivati. L’attaccamento alla tradizione, la fedeltà alla corona asburgica e le vistose diversità culturali dei volontari, sulle quali puntava il dito il curato, la mantenne tuttavia assai distaccata. I timidi e tranquilli montanari potevano ballare coi garibaldini o precederli come guide sui sentieri di montagna, ma la loro mente andava altrove: non tanto alla patria austriaca, ma al denaro che potevano intascare, al campo e alle poche bestie della stalla che - sotto questa o quella bandiera restavano l’unica fonte di sostentamento. Per la nostra gente l’incontro coi garibaldini fu uno choc, un terremoto. Li aveva preceduti una fama di mangiapreti e senza Dio. Molti di essi, provenienti dalle città o dall’esperienza goliardica, si credevano dei dongiovanni nati. Nell’estate del ‘66 la gente del Chiese assistette ai primi funerali civili, fece conoscenza del rito della cremazione, osservò impotente la profanazione delle sue chiese, vide rifiutati, maltrattati e addirittura arrestati i suoi preti. La gente inoltre fu impressionata dal disordine e dalla sventatezza con cui le camicie rosse affrontavano la guerra. Erano mal guidate e al loro entusiasmo patriottico non corrispondeva uguale abilità militare. La benevolenza con la quale alcuni diaristi popolari considerano il loro comportamento trova conferma nei documenti degli archivi locali, ricchi di lagnanze e di richieste di risarcimento. Si denunciano ruberie, inutili vandalismi, smargiassate, maltrattamenti accompagnati da sfacciataggine, arroganza e linguaggio sfrenato. Eppure, ciononostante, la gente familiarizzò coi nuovi arrivati. Ed anche molti garibaldini, andandosene, portarono con sé un buon ricordo dei paesi che li avevano ospitati. Chi oggi entra nella chiesa di Bersone può ammirare le due pale degli altari laterali che due volontari inviarono nel 1867 in segno di riconoscenza per la fraterna e cordiale ospitalità con cui erano stati trattati dalla popolazione. Quando i garibaldini con le teste basse lasciarono la Valle di Ledro e la piana del Chiese, la gente provò sicuramente un senso dì liberazione. Qualcuno però ammise in cuor suo di aver visto un po’ com’era fatto il mondo oltre le sue montagne. 19 Mariachiara Fugazza “La Lombardia dal 1848 all’unità italiana” Le giornate rivoluzionarie del 1848, che avevano reso evidente un desiderio di cambiamento latente nella società lombarda, portavano l’insofferenza per la dominazione austriaca dalle città alle campagne. Nel caso di Bagolino e della val Sabbia, tale desiderio di cambiamento e tale insofferenza, raggiungevano luoghi che erano stati per lunga tradizione legati al buon governo veneto, devoti alla Chiesa cattolica e, tutto sommato, deferenti verso qualsiasi autorità costituita. Tali erano le difficoltà della sopravvivenza in questi domini montani degli Asburgo, che pure vantavano un passato di prosperità e di cultura, da non lasciare spazio né al pensiero e alla riflessione politica né all’impegno, concreto per un avvenire migliore. Le idee del 1848 però erano penetrate anche nelle valli. Dopo la sconfitta del tentativo patriottico del biennio 1848-49, era subentrata una profonda crisi del movimento patriottico. Non era cessato il proselitismo mazziniano, ma l’organizzazione di questi patrioti subiva un duro colpo con i processi di Mantova del 1852 e con la repressione del moto milanese del 6 febbraio 1853. Anche tra i più accesi repubblicani, anche tra i rivoluzionari e tra i veterani del 1848 si faceva strada la convinzione che non c’era altro modo di liberarsi della dominazione austriaca, se non quello di legarsi alla monarchia sabauda. Questa scelta si andava imponendo come necessaria a strati sempre più larghi dell’opinione patriottica, abbinandosi ad aspettative di auto governo che giungevano sino alle soglie della seconda guerra d’indipendenza, nell’estate 1859. Dopo la fine di quella guerra, e dopo la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, la scelta di annessione delle altre regioni da parte dei Savoia e la politica di piemontesizzazione praticata dal governo Lamarmora-Rattazzi lasciarono una scia di amarezza tra i lombardi e diedero spazio a vivaci polemiche. Questo clima di delusione, frustrazione ebbe accenti anche molto battaglieri, che segnarono una delicata fase di transizione della Lombardia nell’Italia unita. Se da un parte gli avvenimenti militari, con la vittoria sugli austriaci grazie all’alleanza con i francesi guidati da Napoleone III, e gli sviluppi politici, con la scelta del partito moderato capeggiato dai Savoia e dal Piemonte, determinavano il destino dei lombardi come italiani a pieno titolo, dall’altra parte l’unità dava impulso a profondi mutamenti economici. Sulle prime sembrava che, sotto il profilo economico, questi cambiamenti non potessero minimamente scalfire la condizione di isolamento e di povertà delle valli. I primi passi dell’esperienza nazionale, nello 20 stesso tempo, costruivano una cultura nuova, una maggiore apertura verso il resto del paese e verso l’Europa moderna. A poco a poco, tutti questi semi sarebbero germogliati, o almeno questa era la speranza di tutti coloro che avevano partecipato con sacrificio alla costruzione dell’Italia unita, nella quale la Lombardia era senza dubbio la regione più progredita e civile, e tale sarebbe rimasta nei decenni a venire. 21 Restauro lapide del garibaldino Ponzetti “…quest’opera, oltre che costituire un bene che dovrebbe essere sicuramente salvaguardato, rappresenta la commovente testimonianza di una madre che non dimentica il suo figliolo; è un epitaffio che pur nella sua brevità, riassume il riflesso di quei tragici avvenimenti che videro il sacrificio di giovani che per primi si immolarono per la liberazione del suolo patrio” Così Alberto Previ, cremonese appassionato di storia locale, motiva l’intervento di restauro della “lapide Ponzetti”, che è stato realizzato in collaborazione tra i Comuni di Bagolino e Soresina, con la regia di “Habitar in sta terra”. Il monumento è ben visibile percorrendo la statale SS669 nel territorio di Bagolino, a pochi passi dall’Ossario di Monte Suello. Ma chi era Antonio Ponzetti? Nato a Soresina, nel Cremonese, e figlio unico di madre vedova, Antonio Ponzetti era un giovane studente iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Pavia. Convinto sostenitore degli ideali patriottici dell’epoca, partecipò attivamente alla terza guerra di indipendenza contro l’impero Austroungarico, militando come volontario nelle fila garibaldine. Inizialmente, le operazioni di mobilitazione sul fronte del lago d’Idro si rilevarono disastrose; a soffrirne, furono soprattutto le forze non direttamente pertinenti all’Esercito Regio, ovvero i volontari come Antonio Ponzetti, che morì il 3 luglio 1866, a soli 21 anni, sul Monte Suello, lì dove anche Garibaldi fu ferito. La sua sepoltura venne trovata qualche tempo dopo da Francesco Genala, un suo amico e concittadino, pure lui garibaldino, che rivestì negli anni successivi la carica di ministro dei Lavori Pubblici nei governi Depretis e Giolitti. I resti del Ponzetti riposano ora nel cimitero di Soresina. Con questa opera, “Habitar in sta terra” vuole recuperare l’iscrizione sepolcrale ormai difficilmente leggibile, per restituire una piccola eppur significativa testimonianza di una pagina importante della storia d’Italia, che leggiamo spesso sui libri, ma che ci riguarda molto da vicino. 22