contributi
per una
storia locale
Era doveroso per Habitar in sta terra fare memoria del passato di Bagolino,
specialmente di anni così significativi come quelli della seconda metà del XIX secolo
in cui faticosamente l’Italia si stava formando. I “bagolini” erano frastornati dai
cambiamenti che, in pochi decenni e in maniera tragica, avevano distrutto l’antico
e solido legame con Venezia costringendoli ad inventarsi una nuova vita politica
ed economica. Il nuovo punto di riferimento era diventato Milano.
L’insofferenza alle dominazioni e il desiderio di libertà, crearono movimenti di
popolo che diedero origine alle guerre d’indipendenza. Da tutto il paese giovani
volontari accorsero per liberare la patria, male equipaggiati e mal addestrati, ma
animati da smisurata fede. Da Soresina venne a seguire Garibaldi il giovane Antonio
Ponzetti che troverà la morte a Montesuello.
La nostra associazione, in collaborazione con i comuni di Soresina e di Bagolino, ha
ritenuto opportuno nel 150° dell’Unità d’Italia, dare un segno concreto restaurando
la lapide dello sfortunato giovane.
Per approfondire gli aspetti e le situazioni che contribuirono a formare la nuova
identità italiana, sono stati inoltre organizzati sei incontri di studio e ricerca di cui
potete leggere le allegate schede, curate dai relatori.
Un ulteriore impegno sarà l’allestimento di una mostra nella nuova casa- museo di
via Madonna di S. Luca 37 dove scoprire documenti e testimonianze importanti
per la storia di Bagolino.
Il presidente di
Habitar in sta terra
Luca Ferremi
3
Calendario degli incontri
22 luglio
Incontri
presso la sala Consigliare
del Municipio
Bagolino - via Parrocchia,
34
h. 20.45
“Gente di città, gente di montagna
nelle campagne militari
del 1848 e del 1866”
relatrice Marta Boneschi
9 settembre
“Giuseppe Zanardelli e le
valli bresciane”
relatore Roberto Chiarini
24 giugno
16 settembre
“L’economia della Valsabbia
dal vecchio regime
all’unificazione italiana”
relatore Giancarlo Marchesi
Gianni Poletti
“I garibaldini e la gente del
Tirolo nell’estate del 1866”
relatore Gianni Poletti
15 luglio
23 settembre
“Le personalità che hanno
segnato la memoria collettiva
tra Otto e Novecento”
relatore Alfredo Bonomi
“La Lombardia dal 1848
all’unità italiana”
relatrice Mariachiara Fugazza
3 luglio
Inaugurazione della restaurata lapide
commemorativa del garibaldino
Antonio Ponzetti
ritrovo presso l’Ossario Garibaldino
di Monte Suello - h. 9.30
4
Introduzione
Fedele alla sua vocazione di preservare le memorie di Bagolino, Habitar in sta
terra si propone di offrire al pubblico alcuni appuntamenti estivi, in occasione del
centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’Italia unita, per festeggiare
insieme e anche per ricordare che, in un secolo e mezzo, ci siamo uniti e non ci siamo
mai divisi.
Bagolino e i suoi abitanti non sono rimasti estranei, nel corso dei secoli, ai cambiamenti
storici: le dominazioni straniere, le guerre, le crisi economiche, le migrazioni. Si potrebbe
anzi dire che Bagolino rappresenta un esempio eccellente delle vicende storiche nazionali:
i suoi abitanti hanno prodotto carbone e ferro per l’armamento veneziano, i suoi alpini
hanno combattuto nelle guerre mondiali, i suoi muratori hanno costruito in Francia, in
Svizzera e in altri paesi, generando quelle rimesse dall’estero che hanno consentito a
tante famiglie italiane di sopravvivere nei tempi più aspri dell’ultimo secolo.
Non è strano perciò che Habitar in sta terra intenda festeggiare il centocinquantenario
italiano, ricordando alcune tappe, alcuni luoghi e alcuni personaggi che hanno fatto
l’Italia così come la conosciamo oggi, quell’Italia della quale siamo debitori ai nostri
bisnonni e nonni, nel bene e nel male, e così come la consegniamo ai nostri figli e ai
nostri nipoti.
Habitar in sta terra propone sei appuntamenti che si stendono nel corso di tutta l’estate, dal
24 giugno al 23 settembre 2011. Sono sei conversazioni, tenute da altrettanti specialisti,
sui temi che interessano e riguardano Bagolino e i bagossi, la valle Sabbia e la gente
di montagna: il cambiamento radicale dell’economia locale nel corso dell’Ottocento; i
personaggi che hanno operato per la val Sabbia e per Bagolino negli anni cruciali del
processo unitario; l’incontro tra i combattenti per l’Italia unita e le popolazioni locali
durante le guerre del Risorgimento; la personalità di Giuseppe Zanardelli, un politico
nazionale che si è sempre preso cura delle sue valli; i problemi politici, sociali e culturali
sorti nel periodo postunitario.
Habitar in sta terra invita calorosamente il pubblico a partecipare: si tratta di una buona
occasione per ripensare ai motivi profondi per i quali “ci siamo uniti e non ci siamo
mai divisi” e, sulla base delle nuove conoscenze e delle nuove riflessioni, progettare
un futuro migliore per tutti. Così come hanno fatto nell’ultimo secolo e mezzo, nel
bene e nel male, i nostri bisnonni, nonni e genitori, e per consegnare ai figli e nipoti
quell’eredità di sapere, moderazione, laboriosità e rispetto che costituiscono la grande
tradizione di Bagolino e dei suoi abitanti.
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Giancarlo Marchesi
L’economia della Valle Sabbia tra vecchio regime e unità italiana
Situata nella porzione nord-orientale del territorio bresciano, al confine con
la regione Trentino-Alto Adige, la Valle Sabbia è la realtà montana meno conosciuta
della provincia di Brescia, ma non per questo le vicende legate alla sua lunga storia
economica risultano prive di interesse.
Sin dal periodo medioevale questa vallata s’inserì a pieno titolo nel sistema
economico delle Prealpi bresciane, ma è dall’età moderna che seppe occupare una
posizione centrale nel panorama produttivo della Repubblica Veneta, grazie alla
sua strategica funzione di zona di confine. Con la caduta di Venezia, nel 1797,
subì un ridimensionamento economico e commerciale, a causa della rilevante
contrazione che interessò il settore del ferro, comparto che trainava l’economia
locale. Dall’età napoleonica, la valle divenne area marginale rispetto alle nuove
correnti di traffico, che privilegiavano il dinamico territorio della Lombardia
centrale e occidentale. Negli anni della Restaurazione, l’isolamento dal resto del
territorio provinciale divenne il leitmotiv che accompagnò la Valle fino a buona
parte del secolo scorso, tanto che, ancora nei primi anni Cinquanta, era ben lontana
dall’avere imboccato la strada che avrebbe portato al rilancio economico. Non a
caso, vi fu chi, autorevolmente, pose l’accento sull’arretratezza e sulle insufficienze
che affliggevano il suo apparato produttivo. D’altra parte, in quella fase l’economia
valsabbina era alle prese con una serie di «nodi» irrisolti e continuò ad occupare
una posizione economica marginale nel contesto provinciale. Tuttavia, a distanza di
qualche decennio, grazie all’impegno e alla dedizione al lavoro della sua gente, la
Valle fu interessata da uno sviluppo economico tanto sorprendente quanto inatteso.
Grazie a questo poderoso balzo della sua economia, sul finire del Novecento, questo
territorio tornò ad occupare un ruolo da protagonista nel panorama produttivo
provinciale. Un’analisi di quegli anni evidenzia come ben cinque comuni valsabbini
(Odolo, Casto, Mura, Vestone, Agnosine) erano da annoverare tra le prime dieci
realtà economiche bresciane col più alto grado di industrializzazione.
Per comprendere l’imponente trasformazione che in quella fase interessò
l’economia sabbina penso bastino due dati statistici: dagli anni Settanta agli anni
Novanta del ‘900 le unità locali di carattere industriale quadruplicarono e, nel
contempo, diminuì in modo considerevole il numero di addetti per unità produttiva,
passando dai 10,9 del 1971 ai 5,7 del 1993. Mi pare che questi numeri evidenzino
l’affermarsi di un tessuto diffuso di piccole e piccolissime imprese.
6
Un ambiente socioeconomico che presentava
tutti i tratti tipici del
distretto industriale, dalla
zona territoriale ristretta al
ruolo fondamentale della
famiglia, dalla divisione
tra imprese del processo
produttivo
all’esistenza
di sentimenti di fiducia e
stima che legano i membri
della comunità. Ma come
interpretare questa realtà?
Il modello di sviluppo
distrettuale non rappresenta
certo una novità per la
Valle Sabbia, bensì il
ritorno di un modello
produttivo - quello della
piccola impresa artigiana
capillarmente diffusa sul
territorio - che per secoli
ha segnato l’economia
della vallata. A ben
vedere, proprio studiando
il meccanismo di sviluppo degli ultimi decenni del ‘900, si ha l’impressione di
un déjà vu, rinforzata dal carattere «tradizionale» dei settori coinvolti nel tessuto
economico valligiano di fine millennio. Sono molte, infatti, le coincidenze tra il
sistema economico contemporaneo e quello presente in Valle Sabbia nei secoli
passati (a partire dall’esistenza di un patrimonio di professionalità, alla presenza
di una imprenditorialità diffusa, proveniente dal ceto artigianale) che mettono in
luce una marcata continuità storica dell’apparato produttivo di questo lembo di
territorio.
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Alfredo Bonomi
Le personalità che hanno segnato la memoria collettiva tra
otto e novecento in Valle Sabbia
La Valle Sabbia non è stata assente nei movimenti di pensiero e di azione che hanno
fatto l’Italia.
La sua posizione di confine ha favorito un fervido dibattito e l’emergere di molte
figure che hanno segnato la memoria collettiva locale ed hanno assunto anche un
ruolo più vasto.
I risorgimentali valsabbini ed i post-risorgimentali costituiscono una galleria di
personaggi di tutto rispetto.
Personalità valligiane di grande portata culturale ed umana si sono affiancate a tutti
coloro che, in qualche modo, hanno preparato i moti risorgimentali con sotterranee
cospirazioni a partire dal 1821. Basta ricordare Silvio Moretti di Comero (17721832), Giovan Battista Passerini di Casto (1793-1864), Giovan Battista Tonni
Bazza di Preseglie (1783).
Il grande risveglio del 1848 ha visto nel Battaglione degli studenti un nutrito gruppo
di giovani ardimentosi valligiani; in particolare le 10 giornate di Brescia hanno
messo alla prova le idee ed il coraggio di giovani valsabbini che si distingueranno
poi nella vita. È il caso di Lucio Fiorentini (1829-1902), Giacinto Passerini (18061886), Francesco Glisenti (1822-1887), di Marino Ballini (1827-1902) bresciano
di origine valligiana.
I garibaldini della prima ora, cioè coloro che hanno partecipato alla spedizione dei
mille come Achille Tonni Bazza (1837-1863) e Secondo Calzoni o alle successive
azioni di Garibaldi nell’Italia del Sud (è il caso di Giuseppe Guarneri (1829-1888)
sono stati per la valle una leggenda da tramandare di padre in figlio.
A questi si affiancarono coloro che parteciparono alle azioni di guerra del 1859 e
del 1866 (I Riccobelli ed i Pagnoni di Vestone, gli Zanetti di Bagolino).
Dopo l’Unità d’Italia, a partire dal 1861, i risorgimentali sono diventati i notabili
della valle dominando la scena amministrativa e politica per lungo tempo, sino
all’ultimo decennio del 1800 quando hanno dovuto dividere il campo con le attive
organizzazioni cattoliche.
I risorgimentali valligiani furono per la maggior parte liberali di sinistra, cioè legati
al filone mazziniano e garibaldino. Comunque, sia che fossero liberali di sinistra,
come Francesco Glisenti, o liberali moderati, come Lucio Fiorentini, il potere
dell’azione e del pensiero fu saldamente nelle loro mani.
In valle il cuore strategico di questo movimento fu certamente Vestone con i
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Riccobelli (il Dott. Lucio, 1801-1868; l’ing. Domenico, 1805-1878; l’avv. Pietro,
1840-1927), il garibaldino, avv. Giuseppe Guarneri, l’ing. Armanno Pagnoni (18501906) e con un folto gruppo di figure minori. Anche Bagolino diede un notevole
contributo politico ed amministrativo con gli Zanetti.
Ai risorgimentali rimasti in valle offrivano contributi di idee personalità di spicco
che si erano distinte oltre la valle.
L’avv. Lucio Fiorentini, di Vestone, partecipe delle 10 giornate di Brescia, moderato
e monarchico, intraprese la carriera amministrativa con alte cariche, diventando
Senatore del Regno.
Francesco Glisenti, di famiglia di origine vestonese, dinamico uomo di affari e di
governo, deputato al Parlamento per il Collegio di Salò dal 1876 al 1880, fondò il
grande stabilimento di Villa Carcina.
Al 1885 si può far iniziare la condivisione del potere politico valligiano dei liberali
risorgimentali con i cattolici, quando a rappresentare in Consiglio Provinciale i
Mandamenti uniti di Bagolino, Vestone e Preseglie venne nominato Angelo
Passerini di Casto (1853-1940), nipote del filosofo Giovan Battista, attivo nei moti
del ’21, di ricca e distinta famiglia.
Di riferimento non solo locale per i cattolici, fu attivissimo in opere ed associazioni
e nominato Senatore del Regno.
Sul piano più strettamente valligiano, i cattolici negli ultimi anni del 1800 e nei
primi decenni del 1900, ebbero due saldi roccaforti: Nozza e Bagolino.
A Nozza fu molto attivo il geometra Marsilio Vaglia (1881-1937), componente
della Commissione Provinciale che preparò la nascita del P.P.I. a Brescia.
A Bagolino si imposero Faustino Pelizzari (1853-1956), dinamico e giovanissimo
sindaco e Alberto Lombardi (1853-1902), fervido di opere assistenziali e caritative
e pure sindaco.
La galleria dei liberali, nati dalle idee risorgimentali, si può ritenere chiusa in valle
con l’azione dell’avv. Gianluca Zanetti di Bagolino (1872-1926), figlio del dott.
Stefano, notaio, uno degli zanardelliani di spicco in valle, Deputato provinciale e
più volte sindaco di Bagolino.
Gianluca Zanetti fu uomo di pensiero e di azione. Dall’affermato studio legale di
Milano non disdegnò di affrontare l’esperienza amministrativa in quel di Bagolino,
ritenuta da lui un dovere nel periodo della prima guerra mondiale, vista come il
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coronamento del farsi dell’Italia.
Una considerazione a parte merita Silvio Longhi (1865-1937) di Vestone, ma di
famiglia mantovana perché ha avuto un ruolo nazionale. Seguendo la carriera
della magistratura, fu Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e venne
nominato Senatore del Regno nel 1928.
Pure un capitolo affascinante sarebbe quello degli uomini di scuola valligiani, Ispettori
e Direttori Didattici che hanno costruito l’Italia vincendo l’analfabetismo.
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Marta Boneschi
“Gente di città, gente di montagna. Bagolino e il lago d’Idro nelle
campagne militari del 1848 e del 1866”
Bagolino, come l’alta valle Sabbia, si trova nel cuore di un’area strategica per le
comunicazioni tra il sud e il nord Europa. Durante le guerre per l’indipendenza
italiana, la valle ha visto italiani e austriaci fronteggiarsi in combattimento per ben
due volte, nel 1848 e nel 1866, vedendo transitare soldati provenienti da ogni parte
d’Italia, volontari, per lo più ragazzi inesperti, mal vestiti, mal nutriti e male armati,
comandati alla meglio da pochi ufficiali valorosi e da qualche veterano, ma animati
da una grande passione. Con terribili lutti e devastazioni, quelle guerre hanno messo
di fronte gente nata sotto cieli diversi, di diversa condizione sociale, ognuno con
il suo dialetto; analfabeti e laureati, poveri e ricchi. Alcuni non avevano mai visto
il mare, altri erano stupefatti alla vista delle montagne; i cittadini erano abituati a
dormire tra le lenzuola, i contadini conoscevano solo il pagliericcio.
Alla fine di marzo del 1848, dopo le Cinque giornate milanesi e la rivolta di tutte le
popolazioni lombarde, l’esercito austriaco sotto la guida del feldmaresciallo Johann
Radetzki si ritirava a Verona. Subito si formavano gruppi di volontari, pronti a
risalire le valli sia per impedire all’esercito austriaco di percorrerle e dilagare in
pianura, sia per raggiungere Trento, città italiana, e chiudere da nord e da sud
l’armata austriaca.
I volontari erano mal visti da Carlo Alberto di Savoia e dal suo esercito, intervenuto
dopo la liberazione delle città lombarde per annettere la regione al suo piccolo regno.
Sospettati di essere repubblicani e democratici, erano lasciati senza organizzazione
né ordini, e tanto meno uniformi, armi e denaro. Eppure avanzavano, e già ai
primi di aprile oltrepassavano la Rocca d’Anfo, raggiungendo Stenico, pronti
a entrare a Trento. Pochi, privi di rincalzi e rifornimenti, si erano presto ritirati,
attestandosi al confine di Ponte Caffaro, dove presidiavano la zona del lago d’Idro e
le montagne verso il lago di Garda, posizioni tenute con grande sacrificio e nessuna
ricompensa.
Luciano Manara, eroe delle Cinque giornate di Milano, trascorse tutta le primavera
e l’inizio dell’estate sul Monte Suello. Francesco Anfossi, attestato per tutto luglio
sul confine, non appena tornato a Milano fu incarcerato sotto accuse pretestuose.
Carlo Pisacane fu ferito sul monte Nota mentre teneva la linea da Tremosine a
Limone del Garda. Ai primi di agosto la guerra di Carlo Alberto sul Mincio era
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persa e gli austriaci riprendevano la Lombardia. Battuti e dispersi, i volontari
arretravano, fuggendo verso la Svizzera o il Piemonte, sempre sperando in una
ripresa delle ostilità. Bagolino e la Val Sabbia avevano preso contatto per la prima
volta con un esercito di italiani come loro, mentre i volontari avevano constatato le
condizioni di povertà e isolamento dei loro fratelli di montagna.
Nella seconda guerra d’indipendenza, combattuta nell’estate 1859, la Lombardia era
liberata e la val Sabbia diventava italiana con la proclamazione del Regno d’Italia
il 17 marzo 1861. L’antico confine di Ponte Caffaro, che aveva diviso per secoli la
Serenissima Repubblica di Venezia dall’Impero asburgico e poi aveva delimitato il
Regno lombardo veneto, dal 1861 segnava la frontiera del Regno d’Italia, al di là
della quale abitavano ancora le popolazioni italiane del Trentino.
Alleata della Prussia, nel 1866 l’Italia unita si preparava a far guerra all’Austria per
conquistare il Veneto. Il 6 maggio un regio decreto istituiva il Corpo dei volontari
e dava il via agli arruolamenti. Come nel 1848 i volontari non erano visti di buon
occhio dai militari di professione e subito constatavano la scarsità dei mezzi messi
a loro disposizione. Eppure erano contenti di seguire Giuseppe Garibaldi, nominato
comandante dei 40 mila uomini accolti nei ranghi (su circa centomila desiderosi di
combattere).
Mentre l’armata regolare, divisa tra il fronte del Mincio sotto il comando di Alfonso
Lamarmora e il fronte del Po sotto il comando di Enrico Cialdini, si preparava
alla campagna verso Verona, a Garibaldi era assegnato il compito di puntare sul
Trentino. Le camicie rosse percorrevano rapidamente la val Sabbia e occupavano
Monte Suello, posto strategico avanzato per il passaggio nelle Giudicarie. Il 25
giugno, dopo che l’esercito regolare aveva subito la disfatta a Custoza, Garibaldi
era chiamato in pianura, a difendere l’eventuale avanzata austriaca verso Brescia e
subito gli austriaci del generale Kuhn prendevano possesso di Monte Suello. Dopo
pochi giorni Garibaldi era di ritorno. Il 3 luglio dava battaglia per la riconquista di
Monte Suello. Ferito all’inguine dal fuoco amico, continuava a guidare l’avanzata.
Gli austriaci si ritiravano al di là del Caffaro e Garibaldi stabiliva il quartier generale
a Storo. Da lì, convinto che la guerra di montagna si vince conquistando
le cime, si preparava a prendere la valle di Ledro per scendere su Riva del Garda, e
insieme a marciare verso il forte di Lardaro per raggiungere Trento. Preso il forte di
Ampola, in condizioni difficilissime, e poco dopo Bezzecca, era costretto a
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fermarsi per ordine del re, proprio quando il generale Kuhn decideva di ritirarsi
verso Bolzano, nell’impossibilità di resistere all’avanzata delle camicie rosse.
Finivano così i combattimenti, mentre l’intera valle continuava a curare i feriti,
a nutrire i soldati, a stringere e consolidare quell’amicizia tra italiani di diversa
origine che stava costruendo l’Italia unita.
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Roberto Chiarini
“Zanardelli e le sue valli”
Giuseppe Zanardelli è stato uno dei più importanti riformatori dell’Italia unita. La
sua figura spicca sulla scena della politica nazionale per la fedeltà ai principi, per
l’intransigente difesa della libertà e della democrazia e per la quantità e qualità dei
risultati della sua azione personale. Era un uomo di straordinaria intelligenza, di
vasta cultura, di profonda competenza giuridica. Nel corso della sua lunga carriera
politica aveva intessuto una rete di amicizie e di relazioni, sempre restando fedele
alle antiche conoscenze bresciane.
Era nato a Brescia il 29 ottobre 1826 da una famiglia originaria di Collio, in val
Trompia, e per questo conosceva bene la miseria e l’abbandono che i montanari
della zona avevano sopportato nei primi decenni dell’Ottocento e che ancora
pativano agli albori dell’unità nazionale.
Come si usava nella sua terra, era stato educato a un ferreo senso del dovere e alla
solidarietà verso gli altri. Studioso e solerte, si era guadagnato un posto al Collegio
Ghislieri di Pavia, dove si era laureato in legge. A 27 anni, rimasto senza padre, era
diventato l’unico sostegno della madre e dei dieci fratelli e sorelle. Nell’ambiente
pavese, dove si era legato di una fervida amicizia a Benedetto Cairoli e alla sua
famiglia, era maturata la sua convinzione civica, l’impulso a contribuire alla
costruzione di un’Italia libera, unita e democratica.
Nel 1848 si era unito ai volontari, partecipando soltanto a uno scontro a fuoco con
gli austriaci a Rezzato. La sconfitta del 1848-1849, e soprattutto la dispersione
dell’ala democratica del movimento patriottico, lo aveva lasciato profondamente
deluso. Ai suoi occhi di repubblicano era parsa vergognosa la parte avuta dai Savoia
nella fine ingloriosa del tentativo indipendentista.
Nel decennio seguente, come molti patrioti e coetanei, era tornato agli studi, e
sopravviveva grazie a lezioni private, essendogli precluso ogni impiego per i suoi
precedenti anti austriaci. A poco a poco l’osservazione della realtà lo aveva convinto
che, se si voleva liberare e unificare il paese, occorreva affidarsi all’iniziativa di
casa Savoia.
Quando Brescia era stata liberata nel 1859, Zanardelli era la figura di spicco tra i
patrioti bresciani. Nel 1860 era eletto alla Camera dei deputati, dove sedeva nelle
file della sinistra. Negli anni successivi, gli anni del potere della destra, Zanardelli
rimaneva all’opposizione.
Nel 1876, con l’avvento al potere della sinistra, entrava nel governo guidato da
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Agostino Depretis come ministro dei Lavori Pubblici. Democratico intransigente,
contrario al trasformismo, fieramente anticlericale, avversario dell’affarismo, non
dimenticava mai le valli bresciane, adoperandosi per portarvi lavoro, riforme e
benessere. Poiché il suo collegio elettorale era dapprima Gardone Valtrompia e
poi Iseo, Zanardelli teneva stretti legami con gli imprenditori locali e si adoperava
perché ottenessero commesse pubbliche, come quelle per la costruzione della rete
ferroviaria, e per dare lavoro alla manodopera locale, sollevando le popolazioni
dalla povertà.
Nel 1878 era ministro dell’Interno, pronto a varare un’azione di orientamento
liberale e garantista. Nel 1881 era relatore della riforma elettorale che, una volta
applicata, allargava il voto dai circa 600 mila elettori a 2,5 milioni. L’obiettivo,
affermava Zanardelli, era di consentire il suffragio alla “borghesia intelligente” e al
“popolo minuto”, non soltanto a un pugno di privilegiati per diritto di nascita. Come
ministro di Grazia e Giustizia nel 1889 varava il primo Codice penale dell’Italia
unita, dal quale era esclusa la pena di morte, “odioso spettacolo di sangue” ed era
invece incorporata la “libertà di coalizione e di sciopero”.
Si tratta di due grandi riforme democratiche e civili, ottenute con una fede
radicata nella libertà e una ferma convinzione democratica, ma anche ispirate da
un’immensa cultura giuridica e realizzate grazie a una formidabile tenacia. Dopo
aver presieduto a lungo la Camera dei deputati, nel 1901 Zanardelli diventava
presidente del Consiglio, grazie al clima più libero che si era aperto con l’ascesa al
trono di Vittorio Emanuele III.
Nel 1902, all’età di 77 anni, nella veste del capo del governo, compiva un viaggio in
Basilicata, la regione più povera del paese. Nessun presidente del Consiglio, prima
di lui, aveva mai messo piede in un luogo tanto remoto e misero. Consapevole
delle condizioni di vita tanto difficili della gente delle valli alpine, constatava così
la miseria e l’isolamento anche maggiori della povera popolazione lucana, sempre
convinto che soltanto la libertà e la democrazia possono incivilire un paese. Nel
1903, poco dopo aver lasciato la guida del governo, moriva a Maderno, sul lago di
Garda, nella sua terra bresciana.
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Gianni Poletti
I garibaldini e la gente del Tirolo nell’estate del 1866
Ha ancora un senso, a 140 anni di distanza e in un contesto storico globale
completamente mutato, scrivere della circoscritta campagna garibaldina del 1866?
C’è ancora qualcosa da dire?
In effetti, pochi episodi della nostra storia sono stati tanto esplorati. Anche
l’associazione “Il Chiese” ha ripetutamente affrontato l’argomento, privilegiando
il racconto e le testimonianze delle scritture popolari e della memorialistica
garibaldina. Abbiamo fatto parlare i protagonisti, dando un nostro piccolo
contributo alla ricostruzione dei fatti e dell’atmosfera del ‘66. Sappiamo infatti
come, in passato, quelle vicende siano state talvolta troppo celebrate, ingigantite e
quindi distorte.
La rivisitazione del ’66 ci ha aiutato anche a capire come il “patriottismo”
e la “fedeltà” dei contadini e montanari di casa nostra fossero quasi sempre
determinati dalla paura e dal calcolo.
Oggi parlare del “nostro” 1866 ha un senso anche perché ora le guerre
ubbidiscono a una mission diversa, monopolizzata e totalizzata dagli interessi
economici, tale da cancellare ogni idealità, ogni idealismo, alla fine ogni valore
anche negli individui. Oggi la guerra è “un male in sé” più di quanto lo fosse
quella del ’66, quando dietro il calcolo della politica e della diplomazia, non
c’erano automi, ma baldi e scanzonati giovanotti, carichi di entusiasmo, di valori
e di vizi.
I loro fucili erano più adatti a guardie campestri che a soldati, inetti
erano i loro comandanti, troppo arditi i piani di attacco, spossanti e assurde le
marce, ma il cuore dei volontari batteva forte. Diversamente da quanto accade
nelle disumane “missioni di pace” dei nostri giorni, volute dagli affaristi delle
multinazionali e della politica, sofferte da mercenari lusingati da “facili” guadagni
e circuiti da una retorica senza precedenti.
Nell’estate del 1866 i garibaldini varcarono per la prima volta il confine
del Caffaro il 24 giugno, ma quella sera stessa dovettero ritirarsi sulla difensiva.
Tornarono ad occupare la piana del Chiese nella prima settimana di luglio, dopo
la battaglia di Monte Suello del giorno 3. Invasero la campagna e si insediarono
nei paesi. Nelle settimane seguenti salirono sui monti seguendo direttrici diverse:
Bagolino, Monte Bruffione, Lago di Campo e Val di Daone; Monte Croce, Rango
e Rocca Pagana; Val Vestino, Tremalzo e Passo Nota.
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Una volta occupata la piana, le camicie rosse si trovarono dinanzi i due
poderosi baluardi posti a difesa del Tirolo: il Forte d’Ampola e la complessa
fronte dei Forti di Lardaro. Da questi nidi gli austriaci uscivano ad incontrare il
nemico in combattimenti che vedevano sempre i garibaldini avere la peggio.
Eppure i giovani di Garibaldi avanzavano e l’Austria non riprendeva le
terre abbandonate. Così si diffuse tra loro il convincimento di arrivare presto a
Trento, congiungendosi alle truppe volontarie che sarebbero dovute salire dalla
Val Camonica e poi scendere dal Tonale nella valle dell’Adige e a quelle che
avanzavano per la Valsugana.
Ciò che non trovava riscontro in una realistica osservazione dei fatti, veniva
immaginato ed alimentato dalla mente di giovani volontari, dei quali tutto si può
dire tranne che non fossero entusiasti ed esaltati, utopisti e sognatori, arditi fino
a rasentare l’incoscienza. Così appaiono nelle memorie che stesero nel 1866 e
che in parte - non a caso - vennero pubblicate o ripubblicate quando l’Italia si
apprestava ad entrare nella prima guerra mondiale.
La guarnigione austriaca dell’Ampola si arrese il 19 luglio, aprendo la
strada della Val di Ledro, ove il 21 si combatté la più sanguinosa battaglia di
tutta la campagna. Morirono 121 garibaldini, 451 furono feriti, 1.070 furono fatti
prigionieri. Le perdite austriache furono otto volte inferiori.
I piani per accerchiare e costringere alla resa i Forti di Lardaro rimasero
invece inattuati. Nel giorno stesso in cui le camicie rosse occuparono le posizioni
di fronte ad essi, Garibaldi ebbe la notizia della sospensione d’armi tra Italia e
Austria. Era il 25 luglio.
La guerra non riprenderà più. Quindici giorni dopo, il Generale ricevette
infatti l’ordine di abbandonare il Trentino nel giro dì ventiquattr’ore. Si torna
a casa. La “guerra disgraziatissima” è finita. Il cronista garibaldino, rientrato
nella sua città, parlerà di “vana effusione di sangue”, “mancate vittorie”, “fallito
successo”. Aveva vinto la diplomazia, quella francese soprattutto: alla fine del
conflitto l’Italia riceve il Veneto, ma deve lasciare nuovamente tutto il Trentino in
mano all’Austria.
Intanto però si è realizzato quel primo incontro tra italiani e trentino-tirolesi
che si ripeterà nel maggio del 1915, un incontro che oggi risulta assai intrigante
esplorare.
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A metà agosto la gente, già inutilmente invitata da Garibaldi a sollevarsi col
proclama di Storo del 18 luglio, guarda impotente i carri che svuotano magazzini
ancora colmi di viveri e ripassa il confine del Caffaro.
Ritornano gli antichi padroni. Le valli meridionali del Trentino riprendono
l’aspetto di prima. Non ci sono più le vistose e allegre camicie rosse sparse per
i prati e nei boschi, se n’è andata la banda che a sera suonava nelle piazze, sono
partiti quegli allegroni di garibaldini che se non sapevano combattere e vincere
come si doveva, certo sapevano amare, vivere e divertirsi. In un mese e mezzo i
contadini avevano imparato a convivere con loro, avevano guardato con un misto di
commiserazione e benevolenza i loro gesti stravaganti e talora dissacranti, e alla fine
avevano forse pensato, nell’intimo, di poterli “convertire”.
Eppure al loro primo apparire di qua dal confine, a fine giugno, la paura era
stata tanta. “Rieccoli! - disse all’inizio la gente - Tornano quelli del ‘48!”. Leggendo
le memorie popolari si ha spesso l’impressione che chi scrive disponga di un cliché,
di un modello di riferimento ben preciso: la spedizione appunto dei Corpi Franchi
del 1848, di quella truppa mista di “gioventù ardente e disinteressata”, ma anche di
“avventurieri, di turbolenti, di pregiudicati, pronti a pescare nel torbido” che risalì la
Valle Sabbia ed occupò le Giudicarie dopo le Cinque Giornate di Milano.
Le truppe e la rivoluzione sono una minaccia per contadini e montanari, che
non sanno con chi stare, a chi far buon viso, perché non possono sospettare chi sarà,
ad avventura finita, il loro padrone. L’oste Bernardinello della Stella a Creto, uomo
“svelto e intelligente”, confidò un giorno al garibaldino Ascanio Branca che “non
sapevano alla fine con chi andavano a restare; ... da un lato meglio amavano unirsi
alla patria italiana, dall’altra assai più avevano a temere l’ira austriaca in caso di
abbandono”.
E il cronista del quotidiano “Il Sole” scrisse che il contadino di Darzo rispose
al colonnello Castellini, che gli chiedeva da che parte stessero i suoi compaesani:
“Vede signore, qua da noi non è questione di simpatia per loro o per gli austriaci,
ma bensì di polenta. La guerra devasta i campi e il contadino teme sempre vedersi
dattorno la sua famiglia domandargli da mangiare, ed egli non averne”.
Nel valutare l’atteggiamento verso i garibaldini occorre distinguere tra
semplice popolazione, dietro la quale e con la quale c’è spesso il clero, e le autorità
civili.
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Se in genere la prima, per secoli fedele agli Asburgo, all’inizio è naturalmente
diffidente e passiva, talora animosa e ostile, le seconde - col sindaco in testa - si
dimostrano subito intraprendenti e ben disposte, formalmente servili, calcolatrici e
ciniche nelle manifestazioni ufficiali, talora anche di sinceri sentimenti filo-italiani.
Solo un po’ alla volta la gente finì col far buon viso, apparentemente, ai
nuovi arrivati. L’attaccamento alla tradizione, la fedeltà alla corona asburgica e
le vistose diversità culturali dei volontari, sulle quali puntava il dito il curato, la
mantenne tuttavia assai distaccata. I timidi e tranquilli montanari potevano ballare
coi garibaldini o precederli come guide sui sentieri di montagna, ma la loro mente
andava altrove: non tanto alla patria austriaca, ma al denaro che potevano intascare,
al campo e alle poche bestie della stalla che - sotto questa o quella bandiera restavano l’unica fonte di sostentamento.
Per la nostra gente l’incontro coi garibaldini fu uno choc, un terremoto. Li
aveva preceduti una fama di mangiapreti e senza Dio. Molti di essi, provenienti dalle
città o dall’esperienza goliardica, si credevano dei dongiovanni nati. Nell’estate del
‘66 la gente del Chiese assistette ai primi funerali civili, fece conoscenza del rito
della cremazione, osservò impotente la profanazione delle sue chiese, vide rifiutati,
maltrattati e addirittura arrestati i suoi preti. La gente inoltre fu impressionata dal
disordine e dalla sventatezza con cui le camicie rosse affrontavano la guerra. Erano
mal guidate e al loro entusiasmo patriottico non corrispondeva uguale abilità militare.
La benevolenza con la quale alcuni diaristi popolari considerano il loro
comportamento trova conferma nei documenti degli archivi locali, ricchi di lagnanze
e di richieste di risarcimento. Si denunciano ruberie, inutili vandalismi, smargiassate,
maltrattamenti accompagnati da sfacciataggine, arroganza e linguaggio sfrenato.
Eppure, ciononostante, la gente familiarizzò coi nuovi arrivati. Ed anche molti
garibaldini, andandosene, portarono con sé un buon ricordo dei paesi che li avevano
ospitati. Chi oggi entra nella chiesa di Bersone può ammirare le due pale degli altari
laterali che due volontari inviarono nel 1867 in segno di riconoscenza per la fraterna
e cordiale ospitalità con cui erano stati trattati dalla popolazione.
Quando i garibaldini con le teste basse lasciarono la Valle di Ledro e la
piana del Chiese, la gente provò sicuramente un senso dì liberazione. Qualcuno
però ammise in cuor suo di aver visto un po’ com’era fatto il mondo oltre le sue
montagne.
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Mariachiara Fugazza
“La Lombardia dal 1848 all’unità italiana”
Le giornate rivoluzionarie del 1848, che avevano reso evidente un desiderio di
cambiamento latente nella società lombarda, portavano l’insofferenza per la
dominazione austriaca dalle città alle campagne. Nel caso di Bagolino e della val
Sabbia, tale desiderio di cambiamento e tale insofferenza, raggiungevano luoghi che
erano stati per lunga tradizione legati al buon governo veneto, devoti alla Chiesa
cattolica e, tutto sommato, deferenti verso qualsiasi autorità costituita. Tali erano
le difficoltà della sopravvivenza in questi domini montani degli Asburgo, che pure
vantavano un passato di prosperità e di cultura, da non lasciare spazio né al pensiero
e alla riflessione politica né all’impegno, concreto per un avvenire migliore. Le idee
del 1848 però erano penetrate anche nelle valli.
Dopo la sconfitta del tentativo patriottico del biennio 1848-49, era subentrata
una profonda crisi del movimento patriottico. Non era cessato il proselitismo
mazziniano, ma l’organizzazione di questi patrioti subiva un duro colpo con i
processi di Mantova del 1852 e con la repressione del moto milanese del 6 febbraio
1853. Anche tra i più accesi repubblicani, anche tra i rivoluzionari e tra i veterani
del 1848 si faceva strada la convinzione che non c’era altro modo di liberarsi della
dominazione austriaca, se non quello di legarsi alla monarchia sabauda. Questa
scelta si andava imponendo come necessaria a strati sempre più larghi dell’opinione
patriottica, abbinandosi ad aspettative di auto governo che giungevano sino alle
soglie della seconda guerra d’indipendenza, nell’estate 1859.
Dopo la fine di quella guerra, e dopo la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo
1861, la scelta di annessione delle altre regioni da parte dei Savoia e la politica di
piemontesizzazione praticata dal governo Lamarmora-Rattazzi lasciarono una scia
di amarezza tra i lombardi e diedero spazio a vivaci polemiche. Questo clima di
delusione, frustrazione ebbe accenti anche molto battaglieri, che segnarono una
delicata fase di transizione della Lombardia nell’Italia unita.
Se da un parte gli avvenimenti militari, con la vittoria sugli austriaci grazie
all’alleanza con i francesi guidati da Napoleone III, e gli sviluppi politici, con la
scelta del partito moderato capeggiato dai Savoia e dal Piemonte, determinavano
il destino dei lombardi come italiani a pieno titolo, dall’altra parte l’unità dava
impulso a profondi mutamenti economici. Sulle prime sembrava che, sotto il profilo
economico, questi cambiamenti non potessero minimamente scalfire la condizione
di isolamento e di povertà delle valli. I primi passi dell’esperienza nazionale, nello
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stesso tempo, costruivano una cultura nuova, una maggiore apertura verso il resto
del paese e verso l’Europa moderna. A poco a poco, tutti questi semi sarebbero
germogliati, o almeno questa era la speranza di tutti coloro che avevano partecipato
con sacrificio alla costruzione dell’Italia unita, nella quale la Lombardia era senza
dubbio la regione più progredita e civile, e tale sarebbe rimasta nei decenni a
venire.
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Restauro lapide del garibaldino Ponzetti
“…quest’opera, oltre che costituire un bene che dovrebbe
essere sicuramente salvaguardato, rappresenta la
commovente testimonianza di una madre che non
dimentica il suo figliolo; è un epitaffio che pur nella
sua brevità, riassume il riflesso di quei tragici
avvenimenti che videro il sacrificio di giovani che
per primi si immolarono per la liberazione del
suolo patrio”
Così Alberto Previ, cremonese appassionato
di storia locale, motiva l’intervento di restauro
della “lapide Ponzetti”, che è stato realizzato in
collaborazione tra i Comuni di Bagolino e Soresina,
con la regia di “Habitar in sta terra”. Il monumento è ben
visibile percorrendo la statale SS669 nel territorio di Bagolino,
a pochi passi dall’Ossario di Monte Suello.
Ma chi era Antonio Ponzetti?
Nato a Soresina, nel Cremonese, e figlio unico di madre vedova, Antonio Ponzetti
era un giovane studente iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Pavia.
Convinto sostenitore degli ideali patriottici dell’epoca, partecipò attivamente alla
terza guerra di indipendenza contro l’impero Austroungarico, militando come
volontario nelle fila garibaldine.
Inizialmente, le operazioni di mobilitazione sul fronte del lago d’Idro si rilevarono
disastrose; a soffrirne, furono soprattutto le forze non direttamente pertinenti
all’Esercito Regio, ovvero i volontari come Antonio Ponzetti, che morì il 3 luglio
1866, a soli 21 anni, sul Monte Suello, lì dove anche Garibaldi fu ferito.
La sua sepoltura venne trovata qualche tempo dopo da Francesco Genala, un suo
amico e concittadino, pure lui garibaldino, che rivestì negli anni successivi la carica
di ministro dei Lavori Pubblici nei governi Depretis e Giolitti.
I resti del Ponzetti riposano ora nel cimitero di Soresina.
Con questa opera, “Habitar in sta terra” vuole recuperare l’iscrizione sepolcrale
ormai difficilmente leggibile, per restituire una piccola eppur significativa
testimonianza di una pagina importante della storia d’Italia, che leggiamo spesso
sui libri, ma che ci riguarda molto da vicino.
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