L'Acquedotto dei Pilastri: archi inutili e dispendiosi?
Secondo uno scritto inedito, si poteva sfruttare la naturale
pendenza del terreno deviando semplicemente il percorso.
Il governatore Tuttavilla mollò i lavori sbagliati e costosissimi
di Gino Barbieri
Tre secoli e mezzo ci separano dalla realizzazione
di un’opera colossale portata a compimento nel XVII
secolo nella nostra isola per addurre l’acqua di Buceto a
Ischia Ponte (in quell’epoca Borgo di Celsa) e, malgrado
un così lungo lasso di tempo, l'Acquedotto dei Pilastri
costituisce pur sempre un monumento importante del
paesaggio isolano, di cui si ricordano spesso con encomio coloro che ne furono gli ideatori e realizzatori. Ma
fu vera gloria?
Un prezioso libricino custodito presso un antiquario
napoletano, poco frequentato dai topi di biblioteca
nostrani, ha riservato parecchie sorprese a chi ha avuto
la ventura di imbattersi nello scritto intitolato “Costruzione dell’Acquedotto Isclano, Anno Domini 1675”.
L’opuscolo ripercorre puntigliosamente tutte le fasi
della progettazione dell’opera e riammaglia i fili di un
avvenimento storico che ebbe notevole ripercussione
sulla vita quotidiana degli Ischitani, non fosse altro che
per i risvolti socio­economici che in quei tristi tempi
affliggevano, peggio dell’Euro di oggidì, le misere
popolazioni dell’isola d’Ischia.
Orbene va subito detto che la notizia più clamorosa
che emerge dall’opuscolo - sconosciuta perfino al nostro
Onorato, che in fatto di pettegolezzi e maldicenze paesane resta un campione insuperato - consiste nel fatto
che la progettazione dell’Acquedotto di Buceto fu, fin
dalla sua prima impostazione, completamente sbagliata
e male gliene incolse al suo ideatore, il cavaliere Orazio
Tuttavilla, che fu costretto ad abbandonare i lavori in
corso d’opera e tornarsene a Napoli con le pive nel sacco
e i rimbrotti del vicerè.
Ma andiamo con ordine e raccontiamo come filò via
tutta la faccenda. Siamo nell’anno domini 1580 e gli
Ischitani del Borgo di Celsa vivono il dramma quotidiano di una fiera penuria di acqua. Causa principale della
generale arsura la scomparsa definitiva, dopo decenni
di bradisismi, della sorgente di acqua dolce del Ninfario
che affiorava presso la Torre dei Guevara (o di Michelangelo) che approvvigionava la popolazione insieme
alla sorgiva dei Sassi, ambedue ingoiate dal mare.
Già per il passato lungo la fascia costiera di Cartaromana erano scomparsi nei flutti il porto angioino e
le antiche abitazioni romane del I secolo d.C. insieme
alle “plumbarie”, le officine metallurgiche dove si
costruivano armi, attrezzi navali e lingotti di piombo.
Rimostranze e lamenti degli abitanti del Borgo di Celsa non tardarono a raggiungere il palazzo del vicerè,
Cardinale di Granvela Antonio Perrenot, che non restò
indifferente alle suppliche degli Ischitani, decidendo
con sollecitudine di inviare sull’isola il cavaliere Orazio
Tuttavilla, uno spagnolo esperto in acquedotti, con poteri
di “governatore”, accollando le spese necessarie all’erario della corona. Le credenziali tecniche dell’ingegnere
sono del tutto sconosciute, ma sappiamo che il fratello
Muzio (ugualmente versato nelle scienze idrauliche)
aveva realizzato proprio in quel periodo il grandioso
acquedotto sotterraneo del Sarno, passato indenne fra
le rovine di Ercolano, anzi facendo conoscere, grazie
agli scavi e all’ardito attraversamento, il punto esatto
della città sepolta dalla lava vesuviana. Orazio Tuttavilla
sbarcò a Ischia con una feluca nel 1580, accolto con
tutti gli onori dalle autorità cittadine, e si portò sulla
collina di Buceto, accompagnato dal medico calabrese
Giulio Jasolino che si trovava a Ischia per investigare
il ricchissimo patrimonio idrologico isolano. A quota
400 mt. fu rinvenuta una sorgiva di acqua dolce, purissima, che scorreva all’aperto perdendosi nelle vallette
di Fiaiano lungo un percorso molto acclive e dunque
favorevolissimo per realizzare un impianto a caduta
libera, il solo che si conoscesse in quell’epoca.
Don Orazio saggiò il terreno, perlustrò infine il per-
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corso fra i campi verdeggianti e le
aride zolle del Cremato con l’obiettivo di raggiungere il centro abitato
del Borgo di Celsa con un percorso
tutto in discesa!
I lavori ebbero inizio verso il 1581
e interessarono la captazione delle
acque attraverso la costruzione di un
cunicolo lungo circa cento metri, rivestito di mattoni cotti, e la creazione
di strutture filtranti consistenti in un
canaletto di terracotta smaltata dove
l’acqua scorreva “a pelo libero” fino
ad un casotto in muratura contenente
due vasche; una di raccolta e l’altra
funzionante con filtro a pietrame. I
lavori proseguirono con lo scavo di
una trincea di quattro chilometri, tutta
in discesa, dove vennero posizionati
tubi in ghisa sigillati a piombo.
Giulio Iasolino seguì la prima fase
dei lavori con molta attenzione e,
lodando quest’opera somma e meritoria, scriverà nel suo trattato “De
Rimedi Naturali”, edito nel 1586:
«Nostro Signore conceda che vengano (i lavori) al termine designato,
senza nessun sinistro intoppo».
Le parole augurali non sortirono
però l’effetto sperato perché le maestranze impegnate nella grandiosa
opera alzarono le braccia in segno
di resa quando, giù allo Spalatriello, si trovarono di fronte la piana
del Rio Corbore e l’erta salita che
mena a Sant’Antuono! Dai calcoli
venne fuori che il rivolo d’acqua,
abbastanza consistente nel periodo
invernale, ma del “tutto meschino”
in estate, non avrebbe mai potuto
superare con la sua misera pressione
il notevole dislivello del terreno da
attraversare. Inoltre le ingenti spese
già fatte e quelle da affrontare si
presentavano ben oltre la soglia dello
stanziamento previsto. Queste amare
considerazioni assestarono un duro
colpo al progetto di Don Orazio,
tanto da indurlo a gettare la spugna
e tornarsene alle sue incombenze
metropolitane, non prima di vederlo
indugiare a Ischia, per la costruzione
di una Torre costiera (Lo Scuopolo)
che portò a termine nel 1587.
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I Pilastri - In alto: Partenza dallo Spalatriello - Al centro: Piana del Rio Corbore In basso: Salita di Sant'Antuono
Mons. Girolamo Rocca
Piazzetta del Borgo di Celsa
La fontana fu rimossa negli anni '50
Fallita l’impresa, gli abitanti del Borgo di Celsa si
ingegnarono a modo loro per risolvere la crisi idrica.
Costruirono diverse cisterne per la raccolta di acqua
piovana, scavarono sulla riva del mare facendo riaffiorare la sorgiva dei Sassi, sfruttarono infine i numerosi
pozzi (spesso malsani) di via Pontano, non disdegnando
le acque minerali della sorgente Mirtina, certamente
poco adatta al consumo alimentare. Trascorsero così
ben ottantasei anni nella speranzosa attesa di un novello
“governatore” in grado di alleviare la sete degli Ischitani.
L’anno fatidico sarà quello del 1673, data dell’ingresso
in diocesi del vescovo mons. Girolamo Rocca, prelato
molto attento alle necessità della popolazione e dotato di
grande energia e spirito di iniziativa. Il vescovo accolse
di buon grado le richieste degli abitanti del borgo marinaro che suonavano sempre il solito ritornello dell’acqua, problema che nemmeno i d’Avalos, governatori
isolani per antica investitura, avevano saputo risolvere
dopo il fallimento di don Orazio Tuttavilla.
Mons. Rocca decise dunque di passare dalle parole ai
fatti e mise per primo mano alla borsa personale, ahimè
molto povera per i tempi perigliosi che attraversava la
chiesa isolana nel XVII secolo. Il buon pastore riuscì
a racimolare settecento ducati della Curia e con quelli
assoldò capomastri e operai, ma soprattutto un esperto
in idraulica che si incaricò di studiare il percorso del
futuro acquedotto. Non ci è dato sapere il nome dello
“scienziato” che si occupò della faccenda, ma stando
alla “cronaca” dell’informatissimo opuscolo di cui in
premessa, l’esperto in condotte e tubature non fece altro
che “raccordarsi” al tracciato del Tuttavilla nel punto
sospeso allo Spalatriello, per nulla intimorito dal dislivello esistente nella pianura del Rio Corbore. Eppure,
sostiene l’ignoto autore del “libello”, sarebbe bastata
la semplice deviazione del percorso giù per le pendici
dell’Arso (o Cremato), all’epoca sgombro di case e di
alberi, per raggiungere in linea retta e speditamente in
pendenza l’abitato del Borgo di Celsa attraverso una
semplice condotta sotterranea di circa tre chilometri
(vedere cartina riprodotta a p. 5). Ma, come dicevamo,
lo “scienziato” idraulico sposò un progetto onerosissimo, difficoltoso e di lunga attuazione “copiando” la
costruzione degli acquedotti romani realizzati su ponti
e arcate in pendenza, con esclusione dei muri pieni,
perché troppo dispendiosi! Il vescovo Rocca...”benedì”
il progetto per nulla spaventato dalle decine di migliaia
di ducati occorrenti per la ciclopica costruzione e chiamò
subito a raccolta le autorità, i maggiorenti del paese e i
possidenti per spremerli a dovere; poi passò alle tasse
sulla farina, sui cereali e sul vino, infine bussò a denari
dai preti, che godevano di speciali esenzioni, e li indusse
a versare il proprio contributo. L’Arso di Ischia diventò
nel 1675 un immenso cantiere di lavoro con operai a
scavare fondazioni, tagliapietre a squadrare le pomici
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leggere, carretti a trasportare mattoni cotti, capi mastri a
sagomare il primo ordine di archi, tagliaboschi a fornire
il legno necessario per le impalcature e, infine, “fraucatori” ad impastare malta tanto resistente da sfidare i
secoli.
L’opera apparecchiata si componeva di un primo
tratto a muro pieno con partenza da quota zero a quota
sei mt. Per una lunghezza di circa 150 metri (tratto
Spalatriello). Iniziava poi la serie di archi, ad un solo
ordine, in numero di sessantacinque a tutto sesto per
una lunghezza di circa 250 metri, che raggiungeva la
strada di collegamento Ischia-Barano nel bel centro del
Rio Corbore. Da lì partivano altri trentacinque archi sempre ad un solo ordine - che coprivano un percorso
di 150 metri, capaci di superare il dislivello esistente
lungo la salita di Sant’Antuono. Fra lavori e interruzioni
passarono tre anni; finalmente nel 1678 furono sistemati
i tubi di cotto sulla sommità delle arcate. La successiva
“prova idraulica” si rivelò - manco a dirlo - un completo
fallimento: l’eccessiva pressione esercitata dalle acque
precipitate a valle in forte pendenza mandarono in frantumi le condotte. Punto e a capo. C’era di che disperarsi;
eppure la soluzione era a portata di mano, ma nessuno
volle prendere in considerazione il percorso alternativo.
Lo “scienziato”, direttore dei lavori, rifece i calcoli e
convenne che per attutire la pressione occorreva ridurre
la pendenza esercitata dagli archi troppo bassi. Di nuovo
le maestranze al lavoro e, naturalmente, il povero vescovo a ramazzar ducati per quell’impegno mostruoso che
stava dissanguando l’intera popolazione. Si mise mano
alla costruzione di un secondo ordine di archi; opera
titanica condotta a forza di braccia, carrucole, argani e
funi, con il pericolo di veder precipitare gli operai da
un’altezza di oltre dodici metri. Occorsero altri sei anni
di lavoro e l’astronomica somma di 65.000 ducati per
vedere completata l’opera con la posa di condotte di
ghisa, scavo di un cunicolo di circa quattro chilometri,
casotto in muratura in località “Cappella” per la raccolta
e la filtrazione delle acque e, infine, costruzione di un
cisternone con relativa fontana accosto il campanile della
chiesa dello Spirito Santo, al Borgo di Celsa, località
prescelta per la preziosa scaturigine.
Quel mattino di primavera del 1685 il valoroso
vescovo Girolamo Rocca si affacciò al balcone di
Casa dell’Ogna, attigua alla chiesa della Collegiata,
e benedisse lo zampillo meraviglioso dell’acqua di
Buceto che cominciò a inondare la fontana di marmo
adorna di quattro delfini scolpiti. Tutta la popolazione
del Borgo era confluita nella piazza pavesata a festa,
applaudendo l’opera ardimentosa, prima in assoluto
realizzata nell’isola del Seicento. Monsignor vescovo
aveva le lacrime agli occhi quando dettò il distico che
fu poi inciso su di una lastra marmorea:
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Has sudavit aquas cereris patientia curtae
Edocuitque famem ferre magistra sitis
(Queste acque si sono ottenute col sacrificio sul cibo; la
sete, da buona maestra, ha insegnato a sopportare la fame).
Chiara allusione alle privazioni che il popolo sopportò
pur di ottenere la tanto sospirata acqua potabile.
Passarono gli anni e il centro storico del Borgo di
Celsa (ribattezzato Ischia Ponte per la presenza di un
approdo marittimo) fu sottoposto a svariate modifiche
e trasformazioni urbane a cui non si sottrasse la fontana
voluta da mons. Rocca. Nel 1759 i Decurioni abbellirono
l’originaria vasca con un’artistica fontana di marmo
travertino e - come era in uso a quei tempi - prepararono
la solita lapide commemorativa:
D. O. M.
AQUAM EX FONTE BUCETI
AD IV M.P. PUBBLICO AERE DERIVATAM
LABROQUE EX TIBURTINO LAPIDE ORNATAM
ET TURRI IN QUA CONCILIA FIERENT ADPOSITAM
ADDITO HORARIO
DECURIONES PITHECUSANI UTENDAM
FRUENDAM CIVIBUS DEDERUNT
A.MDCCLVIIII
A DIO OTTIMO MASSIMO
I DECURIONI ISCHITANI
DIEDERO AI CITTADINI PERCHÉ NE USASSERO
E GODESSERO L’ACQUA DERIVATA
A PUBBLICHE SPESE
DALLA SORGENTE DI BUCETO
AL QUARTO MIGLIO ED ORNATA
DI UNA VASCA DI TRAVERTINO E ATTACCATA ALLA
TORRE OVE SI TENESSERO LE ADUNANZE
ED AGGIUNTOVI L’OROLOGIO
L’ANNO 1759
Nessun accenno, in questa lapide alquanto bugiarda,
all’autore dell’acquedotto, mons. Girolamo Rocca, che
profuse denaro proprio ed energie per condurre a termine
l’opera tanto magnificata dagli amministratori pubblici
dell’epoca.
Per fortuna i maestosi archi dei “Pilastri” (così passati
alla toponomastica delle nostre contrade), impietosamente messi sotto accusa da uno sconosciuto, quanto
informatissimo, “cronista” d’epoca e miracolosamente
sopravvissuti alle ingiurie del tempo e degli uomini,
hanno reso giustizia al munifico finanziatore, tramandandone il nome e la piccola storia civile, or ora rinverdita
nel quarto centenario della sua scomparsa.
Gino Barbieri
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