Dichiarazione di Robert Ferro presso il Tribunale di
Bologna in merito al processo « Fuoriluogo »
Vorrei utilizzare il tempo che ho a disposizione in questo Tribunale innanzitutto per
rettificare alcune inesattezze, parziali o totali, che ho avuto modo di ascoltare nel corso
dello svolgimento fin qui avvenuto, o di leggere nelle trascrizioni pervenutemi. Inesattezze
concernenti principalmente la mia persona ma che riguardano allo stesso modo numerosi
miei co-imputati di questo processo.
In primo luogo, vorrei controbattere al racconto che il Miolli [funzionario Digos, ndr]
ha presentato a questo Tribunale nel corso della seduta del 20 dicembre 2013. Nelle sue
dichiarazioni, costui ha menzionato più volte il mio nome, in particolare indicando nella
mia persona l’organizzatore della manifestazione del 9 febbraio 2008 – organizzatore,
dunque, secondo il Miolli, di una manifestazione che egli ha definito “una delle più
difficili” che si sia mai trovato ad affrontare, e organizzatore pure latitante in quanto avrei
rifiutato, in maniera più o meno deliberata, ogni collaborazione con i componenti della
Digos di Bologna nel corso della manifestazione e mi sarei perfino assentato nel corso
della manifestazione medesima.
Ora, per cominciare, vorrei riferire a questa Corte che qualche giorno addietro ho
effettuato una breve ricerca su internet, trovando alcuni documenti su cui, credo, valga la
pena di soffermarsi e che – detto en passant – vorrei anche produrre, se possibile. Questi
documenti provengono dal sito www.autprol.org (che sta per Autonomia Proletaria,
dunque non un sito di area anarchica), e sono relativi alla manifestazione del 9 febbraio.
Vorrei citare qualche stralcio del testo di convocazione della manifestazione. Lungi dal
limitare il tema della manifestazione agli arresti che avevano toccato l’area anarchica
qualche tempo prima, il testo faceva riferimento ad un (cito):
« [...] lucido processo di ristrutturazione che, con passi da gigante, cerca di
trasformare radicalmente le regole di questo Stato “democratico”. [...] la riduzione
di ogni spazio in cui agire il dissenso e il controllo di ogni tipo di opposizione
diventa una priorità imprescindibile a tutti i livelli, da quello internazionale a quello
iper-locale [...] Ma l’insicurezza reale è data dall’aumento costante dei lavori
precari, malpagati e senza tutele, dai continui licenziamenti [...] ; dagli affitti ormai
insostenibili; da uno stato sociale che non ha più nulla da offrire, anzi: si muore
d’ospedale e ci si intossica soffocati dai rifiuti.
Su queste tematiche abbiamo deciso di convocare a Bologna una manifestazione
nazionale per il 9 febbraio. [...] La manifestazione attraverserà le strade di Bologna
ribadendo e articolando il discorso fatto sinora con l’intento di portare queste
riflessioni all’orecchio degli abitanti di questa città e di coinvolgere chiunque
condivida questo tipo di necessità.
Invitiamo all’Assemblea pubblica del 23 gennaio 2008 di presentazione della
manifestazione presso la sala di Via dello Scalo alle ore 21.00.
Coordinamento “Rompere il silenzio”»
Il secondo documento datato 15/02/2008, che si intitola “Sulla giornata del 9 febbraio a
Bologna” è invece un resoconto della giornata, scritto e firmato dagli organizzatori stessi.
Sottolineo, di passaggio, che questo documento, come l’altro, non porta la firma
“Fuoriluogo” oppure, per dirne una, “anarchici” per esempio, ma è firmato ancora :
Coordinamento “Rompere il silenzio”. Mi sia concesso di citare qualche stralcio anche da
questo secondo documento:
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«Come coordinamento “Rompere il silenzio” vorremmo tracciare un breve bilancio
sulla bella giornata di mobilitazione del 9 febbraio 2008. Il corteo è pienamente riuscito,
sia come partecipazione sia rispetto agli obiettivi politici che si era proposto. [...] Il senso
politico dell’iniziativa del 9 febbraio era quello di voler dimostrare che, nonostante tutto,
è possibile riuscire a riaffermare spazi e contenuti di opposizione senza bisogno di alcuna
sponda istituzionale, senza bisogno di intrallazzi, senza bisogno di “inciuci”. [...] Ed è
questo che consideriamo il vero successo politico della giornata.
Bologna, 12/02/08
Coord. ROMPERE IL SILENZIO - Bologna »
Dunque, la manifestazione era stata indetta non dai soli frequentatori dello Spazio di
documentazione Fuoriluogo, ma da un coordinamento di vari individui e gruppi che si
erano raccolti attorno al progetto di realizzare una manifestazione a Bologna, e che
avevano precedentemente organizzato anche altre iniziative con la stessa sigla.
Naturalmente questo coordinamento raccoglieva anche frequentatori dello Spazio di
Documentazione Fuoriluogo, ma non in via esclusiva né particolarmente preponderante, e
diversi altri frequentatori dello Spazio, pur presenti alla manifestazione, non presero parte
a questo percorso. Io, in effetti, allorché per due o tre volte, in qualità di portavoce
dell’iniziativa, mi recai alla Questura di Bologna per comunicare il percorso della
manifestazione, non lo feci in qualità di frequentatore o militante di Fuoriluogo, ma come
“delegato” – se così si può dire – del coordinamento in questione, che si riuniva con
cadenza grossomodo settimanale al circolo Arci Iqbal Masih, all’epoca situato in via della
Barca. Quanto all’organizzazione più banalmente logistica della manifestazione, lo Spazio
di Documentazione Fuoriluogo ovviamente mise a disposizione striscioni, volantini e altro
materiale, ma allo stesso identico titolo degli altri partecipanti al coordinamento. Quanto
allo svolgimento del corteo – e qui rispondo ancora una volta al Miolli – la mia presunta
“sparizione” a metà del corteo, è facilmente spiegabile: mentre gli altri due referenti erano
rimasti in testa al corteo, io mi spostai in coda. Se poi tra referenti della manifestazione e
uomini della Digos non ci si cercò, è semplicemente perché nessuna delle due parti lo
volle o lo reputò necessario : la manifestazione – checché se ne dica – non deviò di un
millimetro dal percorso previsto e non si ebbero scontri tra manifestanti e polizia.
Ma naturalmente il tentativo di far passare il corteo del 9 febbraio come un corteo “di
Fuoriluogo”, un corteo oltretutto particolarmente violento, e di citare la mia sola persona
come organizzatore dell’iniziativa, non avviene a caso, anzi, direi che siamo alle solite.
Ovvero attraverso inesattezze, silenzi e verità dette a mezza voce si cerca di far sembrare
credibile un impianto accusatorio che, per usare un eufemismo, risulta alquanto
deboluccio.
Ma passiamo oltre, e vediamo un altro lapsus della tesi che mi vorrebbe promotore di
questa fantomatica associazione a delinquere. Nello specifico, vorrei ricordare a questo
Tribunale che, secondo gli spessi faldoni compilati dall’accusa, sarei io il presunto
“cassiere”, depositario del portafogli dell’associazione. Con la più grande fermezza,
intendo respingere questa tesi, che ritengo non solo massimamente discutibile, ma anche
calunniosa nei miei confronti: chi mi conosce sa quanto poco la brama di accumulare e
manipolare denaro guidi le mie scelte, e se fosse diversamente probabilmente oggi non
vivrei col sussidio di disoccupazione. Il colmo è che questa funzione di “cassa” che io
avrei espletato nella presunta associazione non è stata menzionata nemmeno una volta nel
corso dello svolgimento del processo. Definire con precisione i ruoli svolti dai presunti
promotori sembra essere diventato un optional. E nell’udienza del 20-12-2013 abbiamo
sentito dalla voce della sig.ra PM, che interrogava un testimone, asserire che non il
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sottoscritto, ma Carolei, fosse la “portatrice” del famoso portafogli. Che confusione!...
Una confusione che mi incaricherò io stesso, qui ed ora, di emendare una volta per tutte.
La cifra pagata per l’affitto del Centro di documentazione Fuoriluogo, che era di circa 500
euro al mese se non sbaglio, fu – fin tanto che vi furono assemblee settimanali in quel
luogo – divisa in maniera relativamente equa fra i frequentatori che di volta in volta si
trovavano all’assemblea del primo martedì del mese e, se la cifra raccolta non era
sufficiente, venivano organizzati aperitivi o serate di sostegno. Una sola persona –
comunque dotata di una informale delega da parte dell’assemblea – raccoglieva l’affitto, e
le persone che potevano farlo – che poi si contano sul dito della mano – effettuavano poi il
bonifico. Il fatto che io abbia più volte raccolto l’affitto è ascrivibile semplicemente al mio
buon cuore e al limite ad un patologico masochismo: il compito – si deve tenere presente –
era particolarmente penoso, visto che – checché se ne dica – la stragrande maggioranza
degli ex-frequentatori di Fuoriluogo non naviga propriamente nell’oro, e non vi si possono
annoverare né quadri di impresa, né palazzinari, né membri del consiglio della regione
Lombardia o della famiglia Ligresti, ma al massimo studenti e lavoratori. Se verremo
dunque condannati e incarcerati, non ci saranno, per noi, né ministri pronti a mobilitarsi,
né alcuna “questione umanitaria”.
Ad ogni modo, l’individuazione di un presunto “cassiere” è tanto fragile quanto tutti gli
altri ruoli affibbiati dalle inquirenti agli ex-frequentatori e presunti promotori
dell’associazione : abbiamo così una presunta promotrice dell’associazione che – è emerso
chiaramente – non aveva nemmeno le famose chiavi del locale – ed è Pistolesi –, degli
altri “sottufficiali” che non si sa bene che cosa facessero dato che non sono stati mai o
quasi mai menzionati nelle udienze fin qui svolte, una classifica delle “presenze”
all’interno dello Spazio che, se qualcosa può voler dire, dice solo di un impegno più
pronunciato da parte di alcuni che da parte di altri, d’altronde variabile secondo i periodi.
Ancora una volta, si vede come un’accusa debole, e debole perché priva di fondamenti,
possa essere tirata da ogni lato, e di volta in volta permette di modificare indefinitamente
la tesi ed aggiustare di qualche millimetro il tiro. L’importante è che i nomi – il mio nome,
i nomi dei “magnifici 5” (Ferro, Carolei, Pistolesi, Trevisan e Roman) – sia possibile di
ripeterli in continuazione, come un mantra...
Che per un percorso come quello del defunto Spazio di Documentazione Fuoriluogo,
della lotta contro i Centri di Identificazione ed Espulsione a Bologna e altrove, delle
mobilitazioni contro gli interventi militari italiani in Iraq e Afghanistan, contro il massacro
a Gaza, etc. ci si sia potuti esporre ad una pioggia di denunce, che ogni volta in cui si
finisce per prendere manganellate ci si debba pure sorbire la denuncia per resistenza a
pubblico ufficiale che legittima a posteriori la manganellata, che pure si debbano
affrontare (anche economicamente) i vari processi per singoli fatti-reato, che si possa pure
essere sbeffeggiati da pennivendoli imboccati dalle questure, tutto questo passi... Perfino
sui 6 mesi di detenzione preventiva che io ed alcuni miei co-imputati abbiamo sopportato,
dirò che nessun risarcimento potrà portare le lancette dell’orologio all’indietro.
Sull’esperienza politica ed umana che ho condiviso con vari miei co-imputati, non
rimpiango nulla...
... ma quello che è letteralmente intollerabile, è ritrovarsi qui oggi a rispondere del reato
di associazione a delinquere con aggravante e constatare che la sig.ra PM e i suoi teste non
cercano nemmeno di dare una parvenza di credibilità alla loro tesi accusatoria.
Vorrei, in questo senso, indirizzare l’attenzione degli astanti sull’uso suggestivo che,
nelle carte dell’accusa e nel corso di questo processo, è stato fatto del termine “anarcoinsurrezionalista” o “anarco-insurrezionalismo”. In particolare, il dirigente della Digos
Marotta ha fatto più volte uso di questo termine per definire l’orientamento politico dei
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frequentatori dello Spazio “Fuoriluogo”, ma – posto di fronte alla questione di cosa
significhi effettivamente “anarco-insurrezionalismo” – non ha saputo fornire alcuna
delucidazione, salvo informarci che “anarco-insurrezionalista” è chi si occupa di antifascismo, di lotta al nucleare, di tematiche ambientaliste, al fine di realizzare non meglio
specificate... “azioni concrete”. Ora, in tutta sincerità trovo che, sia quantomeno aberrante
che un dirigente della Digos non sia nemmeno in grado di definire i tratti distintivi di
questa presunta area politica, dopo anni e anni di indagini e migliaia di euro spesi per
realizzarle; trovo vergognoso che non sia nemmeno in grado di dare una precisa
definizione di questo famoso anarco-insurrezionalismo e di non essersi nemmeno preso il
tempo di fare un “giro” su internet prima di entrare in aula. Questo processo – mi preme di
ricordarlo – non è affatto uno scherzo, è una cosa molto seria: il sottoscritto e gli altri coimputatati rischiano anni e anni di galera, ed il pressapochismo di cui la parte accusatoria
non cessa di fare sfoggio mi appare come qualcosa di francamente poco serio. Correre il
rischio di essere condannato sulla base di elementi come questi ha qualcosa del dileggio
puro e semplice.
A questo riguardo vorrei inoltre aggiungere che non basta dire che tizio o caio sia
“anarchico” e “insurrezionalista” perché sia da considerare ipso facto come un criminale
o un terrorista. Vorrei ricordare che, storicamente, in Italia e in generale in Occidente, la
maggior parte della componente anarchica del movimento operaio, non diversamente
dalla corrente marxista, ha avuto una vocazione riformista. Ovvero, dalla metà del XIX
secolo, una parte talora maggioritaria del movimento anarchico ha creduto che fosse
possibile una lenta erosione del sistema capitalista, attraverso variegati esperimenti sociali
come le banche del popolo o le cooperative; ancora, la stragrande maggioranza di questo
movimento partecipò alla lotta di liberazione nazionale in Italia dal ’43 al ’45. Si pensi,
ancora, a figure come quella di Fernand Pelloutier, anarchico e pioniere del movimento
sindacale francese, fondatore della Borsa del Lavoro che divenne nel 1902 la CGT
(equivalente d’Oltralpe della CGL d’ante-guerra), e in cui gli anarco-sindacalisti furono
per lungo tempo maggioritari.
Qualificare un certo anarchismo come “insurrezionalista” risulta, poi, pertinente solo se
si tiene conto che la maggior parte di quelle tendenze rivoluzionarie, minoritarie, del
movimento operaio erano a loro volta “insurrezionaliste” anch’esse: Lenin, che non era
anarchico, era nondimeno insurrezionalista – aspetto che viene rigettato, ad esempio, dal
maoismo, di qui le varie formule come “la lotta di lunga durata”, la “lunga marcia”, e “la
linea di massa”, che sono altrettante contestazioni dell’insurrezionalismo di Lenin.
Cosa significa, dunque, “anarchismo insurrezionalista”? A questa domanda dovrebbe
forse rispondere un anarchico, ed io non essendolo, non sono il più qualificato. Ma si
potrebbe forse rispondere dicendo che è “anarchico insurrezionalista” colui che progetta e
pratica un intervento autonomo nelle lotte sociali o comunque al loro fianco, che permetta
di passare dal quadro ristretto delle lotte in questione ad un sommovimento più ampio e
generale, perfino “insurrezionale”. E – punto fondamentale – che tale passaggio si
potrebbe effettuare, secondo l’anarco-insurrezionalismo, in qualsiasi momento, senza
dunque presupporre come precondizione una situazione di crisi economica profonda
oppure l’instaurazione preliminare di un certo rapporto di forza tra capitale e lavoro, ad
esempio attraverso l’azione sindacale. Ora, in questo processo abbiamo avuto più volte
l’impressione che la semplice adesione ad una tale ideologia costituisca in se stessa un
reato. Ipotesi certo aberrante, ma proviamo comunque a percorrerla a titolo di pura
speculazione. Allora – ammesso e nient’affatto concesso che essere “anarchico
insurrezionalista” costituisca di per se reato – la questione che ci si deve porre non è se
una parte o anche tutti i frequentatori di Fuoriluogo siano o meno, nelle profondità
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insondabili del loro foro interiore, degli “anarchici insurrezionalisti”, ma se la loro pratica
corrisponda effettivamente alla definizione del concetto. Ovvero: un presidio di 10, 15 o
anche 100 persone nei pressi di un Centro di Identificazione ed Espulsione costituisce di
per se una pratica “anarco-insurrezionalista”? Arrivare a contatto – foss’anche con estrema
durezza – con le forze dell’ordine costituisce una pratica “anarco-insurrezionalista”? Tanto
varrebbe allora istituire il reato di anarco-insurrezionalismo, che potrebbe di diritto
figurare, accanto a quello di lesa italianità e quello di immigrazione clandestina, nel podio
delle leggi più insulse della storia del “Belpaese”!
Tenendo comunque presente che per comparare la realtà al concetto, sarebbe bene di
avere un concetto qualsivoglia... Io che – al contrario del Marotta – ho avuto l’accortezza
di cercare nella celebre enciclopedia telematica Wikipedia la voce “anarchismo
insurrezionalista”, ho trovato ad esempio questo passaggio, che citerò:
« L’"insurrezionalismo moderno" propone un’organizzazione di tipo informale
fondata sui cosiddetti gruppi d’affinità: ogni individuo è considerato il fulcro della
teoria e della pratica del gruppo e ognuno di essi sviluppa relazioni d’affinità, di
fiducia e conoscenza con gli altri. Secondo i principi dell’informalità tali relazioni
possono essere anche temporalmente limitate, il gruppo può quindi dissolversi alla
stessa velocità con cui si è costituito ».
Da qui, due flagranti paradossi, di cui fatico a trovare una spiegazione ragionevole: da
un lato si vuole un Fuoriluogo per forza di cose “anarco-insurrezionalista”, quindi – si
dovrebbe presupporre – un gruppo affinitario quantomai effimero, in ogni caso orizzontale
e senza ruoli stabili; dall’altro, si vuole un’associazione a delinquere votata a permanere
nel tempo e caratterizzata da ruoli prestabiliti e perfino gerarchici. E poi: da una parte si
vorrebbe rifiutare agli ex-frequentatori di Fuoriluogo il fine politico, dunque lecito, della
loro “associazione”; dall’altra però non si fa altro che ripetere ad ogni pie’ sospinto la
caratteristica marca “anarco-insurrezionalista” del loro operato. Allora delle due l’una: o
l’associazione posta in essere dagli ex-frequentatori ricalcava l’informalità e l’aleatorietà
“anarco-insurrezionalista” oppure era una solida piramide di dirigenti ed esecutori; o il
fine degli ex-frequentatori di Fuoriluogo era il crimine per il crimine, e allora non si vede
perché sia tanto importante che fossero “anarco-insurrezionalisti”; oppure il loro fine era
di natura politico-ideologica, e allora non si vede dove stia l’associazione a delinquere,
dato che il fine dell’associazione non era in sé il delinquere. Naturalmente, sappiamo che
l’aggravante di “eversione dell’ordine democratico” era là proprio per occultare queste
incoerenze, poiché il fine dell’associazione diventava così la realizzazione di atti eversivi.
Ma sappiamo anche che fine ha fatto quell’aggravante in sede di convalida delle misure
cautelari. La sig.ra PM non poteva mancare di riproporre quest’aggravante in sede
processuale, e vediamo bene che non è senza ragione, poiché l’accusa di associazione a
delinquere che ci viene mossa risulterebbe tanto più assurda qualora venisse privata di
quest’aggravante tanto velleitaria quanto essenziale ad un minimo di coerenza interna del
discorso. Anche in questo caso, insomma, vediamo come si cerchi di rattoppare la
debolezza dell’impianto accusatorio con formule suggestive ripetute fino allo sfinimento.
Sappiamo bene che, come voleva Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich
dal 1933 al 1945, “una menzogna ripetuta molte volte diviene una verità”. Ma qui siamo
perfino di fronte ad una regressione rispetto alla teoria goebbelsiana. Si ripetono non delle
menzogne ma semplicemente il nulla, nella speranza che – a forza di ripeterlo – questo
nulla diventi qualcosa.
Infine, qualche considerazione sul concetto di violenza e sul significato profondo di
questo processo. Nel documento del “Coordinamento Rompere il silenzio” che ho citato
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all’inizio, credo ci fossero più di una intuizione quanto all’odierno divenire del cosiddetto
ordine democratico. Ed è forse ironico di ritrovarsi a ripeterle proprio in questa sede ; della
serie: quando le profezie si auto-inverano... Con tutta evidenza, le trasformazioni
evidenziate in quel documento si adornano a livello ideologico di una vulgata secondo cui
democrazia e violenza si opporrebbero in maniera manichea – ma questa è appunto una
vulgata, cioè una concezione mitica e sacralizzata, che non può reggere un istante ad un
esame più profondo della storia profana e del funzionamento reale del sistema
rappresentativo. A titolo meramente descrittivo, rilevo innanzitutto che non vi è e non vi
può essere democrazia senza un atto – violento e non discendente da consultazione
democratica – che la fondi o la rifondi, ed è questa, invariabilmente, la storia che pone fine
all’epoca del “mandato divino” ed inaugura quella della cosiddetta “sovranità popolare”,
dalla decapitazione di Carlo I di Stuart nel 1649 in Inghilterra fino alla guerra civile
italiana del 1943-1945 ed oltre.
Mi si permetta, in secondo luogo, un’altra riflessione: negli anni ’60-’70 dello scorso
secolo, nessun magistrato perseguì per “associazione a delinquere” organizzazioni
extraparlamentari di dimensione nazionale come Lotta Continua (1969-1976) e Potere
Operaio (1969-1973), capaci di manifestazioni autodifese con propri servizi d’ordine
armati, e non di sole bandiere (e si badi che, dicendo questo, non faccio che chiamare in
causa una storia ampiamente documentata e verificabile); malgrado le tensioni, i conflitti e
le violenze che caratterizzano il periodo che va dal 1948 (anno dell’attentato a Togliatti) al
1976, il tasso di affluenza alle urne che non scese mai, fino al 1976, sotto il 92%. Non
tanto paradossalmente, è precisamente allorché lo Stato ha creduto di potersi rendere
autonomo rispetto al conflitto tra classi e gruppi sociali, precisamente a partire dal
momento in cui si è cominciato – fra il resto – a fare terra bruciata di ogni garantismo, che
questi stessi meccanismi di legittimazione sono entrati in crisi e che si è cominciato a
sentir parlare di “crisi della rappresentanza”. In una società inevitabilmente permeata di
violenza in ragione delle differenze di patrimonio, dei conflitti tra classi sociali e della
concorrenza fra individui e gruppi di interesse, non si può pensare, in tutta serietà, che la
popolazione debba imperativamente tenersi per mano e volersi del bene: la coesione
sociale è un risultato, non un presupposto. In tutto questo, lo Stato è – secondo una
definizione classica – il solo detentore della violenza legittima. Ma la produzione di questa
violenza legittima, che si presuppone qualitativamente differente dalla violenza bruta, non
va e non può andare da sé, è anche questa un risultato, un prodotto che implica tutto un
processo di produzione, ovvero una meccanica complessa che incanali e trasformi la
violenza che attraversa la “società civile” in violenza legittima dello Stato.
Che la violenza in uscita, di tanto in tanto, possa assumere altri tratti dalla violenza
legittima tale quale ce la figuriamo, è un “guasto” tristemente inerente al funzionamento
stesso dello Stato in quanto “macchina”. Ma quando il “guasto” diviene il funzionamento
normale della macchina, quando si vede sempre più spesso la polizia intervenire nelle
situazioni di conflitto sociale come una forza di occupazione, quando la violenza statale
porta i nomi di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (e ricordiamo che
gli assassini di Aldrovandi sono appena tornati in servizio), quando questa porta i tratti
delle migliaia di morti in mare nei “viaggi della speranza” e delle sevizie viste nel centro
di Lampedusa, dei manganelli alzati contro operai, disoccupati e perfino contro i malati di
Sla, bisogna ben riconoscere che c’è un problema... dallo stesso punto di vista
democratico, poiché lo Stato diviene allora una macchina auto-interpretativa: giacché in
realtà più nulla di essenziale rientra nell’ambito della negoziazione sociale – né garanzie
contrattuali, né livelli salariali, né Alta Velocità, né Centri di Identificazione ed
Espulsione, né impegni militari all’estero, etc. – chi vi si oppone è già squalificato in
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partenza, e qualsiasi cosa farà per porre in essere un diverso rapporto di forza con la
controparte sarà trattata come una violenza folle e incomprensibile.
Il fatto di trovarci qui oggi non è, a ben vedere, che l’altra faccia della medaglia. È
l’altra faccia di un sistema divenuto autistico, in cui i primi a non credere più nello Stato
non siamo tanto noi “sovversivi”, ma il suo stesso personale dirigente, che – privo di ogni
visione strategica e d’insieme, preso in feroci lotte di frazione ed in continui scandali,
privo di ogni ideologia che non sia quella del fatto compiuto e della sua necessità – mira a
sopravvivere e a vivacchiare, ovvero a scaldare la poltrona un giorno o un’ora di più. Il
notorio sovversivo Antonio Polito, nell’editoriale del Corriere della Sera del 29-10-2013,
la chiama “la maionese impazzita”, ed il suo appello ad una “rigenerazione morale” è
tanto debole quanto è azzeccata la sua formula. Nel frattempo – e non tanto
paradossalmente –, più la violenza viene rimossa e coperta di stigmate, e più essa permea
la totalità dei rapporti sociali. La medicina si rivela allora peggiore del male che pretende
di curare.
Ora, non spetta a me, che sono comunista da sempre e ho una visione per nulla
romantica dello Stato, di curarmi degli eventuali rimedi a questo stato di cose. Ma ritengo
particolarmente grave, in questo senso, e finanche da un punto di vista sinceramente
democratico – che non è propriamente il mio –, che sia stato possibile mettere sotto
sequestro e quindi, di fatto, costringere alla chiusura il Fuoriluogo, locale regolarmente
preso in affitto, importante spazio di discussione, e che ospitava anche un non trascurabile
archivio. Ritengo altrettanto grave che sia stato possibile di far passare come indicatore
della nostra “pericolosità sociale” intercettazioni di dibattiti che rilevano della pura
opinione, come quelli relativi a presentazioni di libri o opuscoli; ritengo ancor più grave
che sia stato possibile di manipolare queste stesse intercettazioni, dandole in pasto ad una
stampa arrivista e sensazionalista, al fine di additarci come “fascisti” di fronte al pubblico
dispregio delle “maggioranze silenziose”. Strano mondo, questo, in cui coloro che si
occupano quotidianamente di Centri di Identificazione ed Espulsione, con la pochezza dei
mezzi a loro disposizione, sono degli “anarco-fascisti”, mentre dei decisori che li tengono
in funzione si può celebrare “il grande impegno civile e democratico” !
Credo dunque che questo Tribunale, nel giudicarci, debba assumersi le proprie
responsabilità di fronte a questo stato di cose. Voglio concludere questa dichiarazione con
una citazione di Bertold Brecht, tratta da Vita di Galileo:
«Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e
sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci
sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili».
Ho concluso.
Robert Ferro
3 marzo 2014, Bologna
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Dichiarazione Robert 3-3-2014