armando adolgiso
il resto è silenzio
nybramedia.it
armando adolgiso
il resto è silenzio
prefrazione di giordano falzoni
postfrazione di gianni romano
prima edizione le parole gelate, 1982
e-book in distribuzione gratuita, 2007
nybramedia.it / adolgiso.it
grafica
attilio sommella
alla prossima,
Prefrazione
di Giordano Falzoni
Neologismo
Quando ci si permette di usare un neologismo, bisogna subito chiarirlo al lettore quanto basti a consentirgli di farne un
uso proprio. L’obbligo diventa urgentissimo quando il neologismo – come nel caso presente – è in testa al testo: addirittura
nel tìtolo, e nasce da un fàcile gioco che può sfuggire all’occhio o èssere con ogni probabilità scambiato per un errore di
stampa.
Perché una erre in più
Prefrazione, dunque, è neologismo derivante dalla più consueta prefazione. Con essa ha in comune la presunzione di procèdere il testo dal quale deriva la pròpria ragion d’essere. In
entrambi i casi la presunzione deriva da una stessa preoccupazione: quella di parere, se fosse letta poi, meno originale del
testo al quale pretestuosamente si accompagna. La prefrazione
peraltro si distingue dalla prefazione perché meno di questa, e
perché al contràrio di questa, che si vuole totalizzante, è frazionante o frazionistica a seconda che si rivolga al comune passante o alla ristretta cérchia specialistica. Per riassumere in modo
che sia chiaro a tutti il problema di fondo: mentre la prefazione
consiste nel parlare, parlare, parlare, la prefrazione consiste nel
frazionare, frazionare, frazionare.
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Origini della prefazione
La prefazione era in origine vocazione dello oratore d’avanguàrdia che con essa faceva le sue avances al testo con lo
scopo proclamato di prostituìrglisi offrendogli le pròprie primìzie in cambio d’un matrimònio della durata d’almeno un’edizione: esistono, si sa, prefazioni di secondo letto.
Poligamia del testo
Come un sultano, ufficialmente e decorosamente poligamo,
così un testo che abbia in medagliere più edizioni si porta in
carovana altrettante prefazioni che riconoscono in lui il proprio individuale comune sposo.
Prefrazione di gestione
La prefrazione ha invece in comune con la masticazione la
funzione di aiutare il lettore a mèglio digerire il piatto forte del
pasto libràrio. Sezionare il tacchino letterario è una arte ùtile
in modo particolare nel caso in cui il lettore preso di mira dall’editore sia particolarmente ingordo in modo che vi sia il perìcolo di vedergli ingoiare l’ala mentre aveva attaccato testa e
collo e, poiché un osso tira l’altro, anche cosce, zampe e tutto
il resto. Disossato e sporzionato, ma non per questo sproporzionato, il tacchino letteràrio può invece sfamare contemporaneamente più convitati e a nessuno sfuggirà la importanza
sociale che per questo assume la prefrazione moltiplicatòria.
Prefrazione moltiplicatòria
Sottospècie della prefazione, la prefrazione moltiplicatòria ha
un numeratore pari ad un mùltiplo del denominatore e consente di ricavare da un testo due, tre, dieci, cento, mille testi a
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seconda delle ambizioni del prefrattore: sorta di parassita del
testo che tende a sminuzzare la pròpria vìttima con lo scopo di
assicurare la sussistenza dei propri figli e dei figli dei propri figli
sino a spaccare un capello in quattro.
Prefrattori prolifici
I prefrattori prolìfici sono quelli a numeratore più alto perché
non può considerarsi prolìfico il genitore d’una mortalità
infantile al 100 per cento. E il numeratore alto non dipende
tanto dalla frazionabilità del tessuto contestuale (cioè del
testo considerato companàtico) quanto dalla fede famèlica
del prefrattore.
Prefrazione a priori
Questa fede gli consente di prefrazionare il testo pur senza
conoscerlo (prefrazione a priori detta anche, a seconda dei
casi, prefrazione pura o prefrazione pura pràtica) e quale che
ne sia la intrìnseca semplicità. La fede infatti vede nell’atòmica semplicità di non-struttura minimale una complessità
subatòmica a forma triangolare, esagonale, ottagonale,
eccetera, che al suo interno comprende una memòria priva
di massa e dotata per converso d’una natura squisitamente
energètica di cui appunto fa uso il pre-frattore per frantumare il cosmo testuale (o contesto osmòtico) e liberare altra
energia, altra memòria, altra avventurosa ed errabonda gioia
di vivere.
Cosmo testuale
Per cosmo testuale s’intende un testo in se stesso perfetto ed
a se stesso bastévole messo tra parentesi tra un prima morto
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e divorato ed un poi inesistente fin quando non sia puramente immaginàrio.
Contesto osmotico
Per contesto osmòtico si dovrebbe invece intèndere lo stesso
testo visto però non già dall’esterno, come un tutto estràneo
e quindi nemico ed incomunicabile se non per empatia, bensì
nella dinàmica interna dei suoi processi osmòtici per cui trasuda di linfa vitale, ha un suo metabolismo, è abitabile ed in
grado di sostentare una biosfera formata sostanzialmente da
préfrattòri appartenenti a vari regni tra cui quello vegetale,
quello animale, quello minerale, quello metereològico e quello concettuale.
Funzione dei prefrattori
I prefrattori, dal canto loro, rappresentano sostanzialmente
una valida difesa della biosfera testuale perché fungono da
anticorpi nei confronti dei detrattori e dei rifrattori, veri nemici del testo.
Detrattori
Detrattore è quell’agente patògeno che minaccia il testo in
quanto tende a sminuirlo affermando che esso non contiene
niente. Ma chi potrebbe credere loro quando si sappia che
detto testo è stato oggetto di prefrazione? Può infatti per definizione essere frazionato solo quando sia dotato di una certa
intrìnseca complessità.
Rifrattori
I rifrattori invece rappresentano per il testo un’altra minaccia
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detta propriamente minaccia speculare cioè della riflessione
come in uno spècchio o in una negativa fotogràfica.
Questa sbandierata fedeltà all’originale, che ignorando le
ingiùrie del tempo e il destino di créscita (prerogativa di ogni
èssere vivente e quindi anche del contesto osmòtico) mira a
proiettare esso testo sul piano della stàtica permanenza che si
presume immutàbile garantendone l’interpretazione autentica, comincia a falsarlo dal momento stesso in cui ne presenta
l’immagine invertita.
Rifrazione
Ora la riflessione speculare o speculazione riflessa, di fronte al
fatto compiuto della prefrazione, per la sua coazione a ripetere invertendo, si fa rifrazione ed ha di fronte a sé, come il
paziente lettore che ci abbia seguiti fin qui, l’intera gamma
dell’arcobaleno. Il resto è silenzio.
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Presentazione
Una scrittura impalpabile, un segno imperscrutabile, un’orma
intangibile. Queste le prime espressioni che mi vengono nella
penna nel presentare questo libro. Qui, infatti, il segno ed il
comportamento di questa non-scrittura si muovono in una
dimensione nella quale non c’è forza di gravità e, in una sorta
di vuoto pneumatico, fatti ed eventi si vanificano nel luogo
deputato dell’Assenza. Tutto comincia da un silenzio per poi
moltiplicarsi e frangersi in una serie di taciturni riverberi; le parole si svuotano, si dissolvono nel momento stesso in cui vengono
tracciate e tutto torna silente, così come era nato.
Forse l’origine, il caos (o caso?) è stato così: le abissali cavità geologiche, l’apparente quiete delle ere; e poi la mitica inquietudine
delle stanze del labirinto, il disegno di misteriosi graffiti, le antiche
domande senza risposta di enigmatici monumenti.
Ma tratteniamoci anche su domande meno misteriche e più
scientifiche: quelle di Michel Foucault, per esempio, che ha scritto in «Les Mots et les Choses»: “... bisogna liberare le parole dai
contenuti silenziosi che le alienano... tutta la curiosità del nostro
pensiero si allarga adesso nella domanda: che cos’è il linguaggio, come arricchirlo per farlo diventare visibile in se stesso e
nella sua pienezza?”.
Chiediamoci allora che cos’è il linguaggio, e se il linguaggio è
come afferma, Charles Morris: “... una serie di comunsegni
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plurisituazionali, le cui combinazioni sono limitate”, ebbene
allora si può ben dire che qui ci troviamo di fronte ad un esemplare di linguaggio fra i più compiuti e sviluppati in fatto d’organismo perché, sempre citando il Morris, in questo caso
abbiamo semplicemente “una serie di segni plurisituazionali
con significati interpersonali comuni ai componenti della famiglia di interpreti, essendo i segni linguistici producibili dai componenti della famiglia di interpreti e combinabili in certi modi,
ma non altrimenti, onde formare (volendo, aggiungiamo noi
n.d.r.) segni composti”. Chiaro, no?
«II resto è silenzio» produce linguaggio e linguaggi grazie alla
sua struttura ialina che si snoda attraverso gli impercettibili cristalli dei compiuti, ma invisibili, capitoli attraverso i trasparenti movimenti della storia che passa sulle teste di chi legge così
come un aereo, di cui s’avverte il ronzio, passa talvolta non
visto ad altissima quota sulle teste dì chi per scorgerlo affissa il
cielo. E questo accade perché l’orizzonte della scrittura di
Adolgiso non solo è irraggiungibile, e ciò conviene ad ogni
orizzonte, ma anche perché è esso stesso la scrittura. E la scrittura è un nulla letterario, privo di ogni determinazione, che
s’identifica con la materia originaria. Ed è anche il concetto del
nulla, sia come equivalente di irrealtà e impensabilità, sia come
nozione di alterità e negazione.
Si direbbe che Adolgiso si opponga al concetto di horror vacui
della scolastica esaltando la forza affabulatrice del vuoto che
nel suo racconto non è mistero degli abissi, né degli spazi siderali, né diabolica sparizione dei connotati fisici, ma piuttosto
abile prestidigitazione con apparizioni e sparizioni di voragini,
burroni e qualche non romantico baratro.
Un nulla che è l’inventario dei Nulla: dal particolare significato
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delle positività del Nulla nelle varie forme di teologia negativa
(l’incommensurabilità di Dio con i modi della realtà finita giustificava la sua definizione come ‘Nulla’ o ‘Nulla del Nulla’,
oppure ‘Quintessenza del Nulla’), all’interpretazione letterale
di Fredegiso del passo della Bibbia in cui è detto che Dio creò
il mondò dal nulla, ex nihilo (un’interpretazione che sostiene la
necessità del Nulla), passando attraverso la base astratta hegeliana che include in ogni momento della realtà positività e
negatività, fino alle più moderne interpretazioni dove il Nulla è
fondamento e principio di spiegazione della struttura tipica
dell’esistente.
L’essere e il nulla o forse, qui meglio, l’essere è il nulla.
Eppure dal fluire di questo nihil emergono, di volta in volta,
immagini, ritualità e sentimenti tutti affidati più al ricordo che
alla loro presenza: ex silhouette fantasmatiche trascorrono controluce sul crinale del tempo manifestando in tal modo l’inquietante mancanza (o mancamento?) della Storia e l’inquieta carestia (o sterminio?) della Metafisica.
Ideali, sogni, febbri, speranze, languori, amori e cedimenti
sono in questo libro tutti vittime d’un nume ghermitore che li
ha rapiti un attimo prima che noi li cogliessimo sulla pagina.
Questa folla solitaria di accadimenti dell’anima è partita
lasciando la spiaggia deserta, è ormai oltre il mare dell’immaginazione, e invano cercheremmo sulla riva i segni della loro
dipartita.
Ogni, sia pur diafana, presenza, è scomparsa definitivamente, e
non ci resta che ricostruire la sparizione interrogando sordi oracoli e mute sfingi. Epicedio della volontà?
Panegirico dell’accidia?
Epitalàmio della distruzione?
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Quest’opera di Armando Adolgiso canta le gesta dell’immobilità attraverso voci soffocate e volti dimenticati di personaggi che
hanno scelto serenamente d’essere abortiti piuttosto che tragicamente esistere.
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Premessa
Chi volesse classificare «II resto è silenzio» in una delle tante
caselle dei generi letterari si troverebbe certamente in imbarazzo. Quest’opera, infatti, non soltanto letteralmente si sottrae come vedremo - a definizioni prefissate per la sua manifesta
natura di work in flight o work in escape, ma soprattutto per
la sua vocazione a sparire davanti agli occhi del lettore. Non
parlo del genere, possibile o probabile, nel quale inquadrare il
lavoro di Adolgiso, per rinnovare o ricordare la vecchia querelle sui generi (che resta una polemica sui generis), bensì per
tentare di leggere il libro attraverso ciò che non è, facendo
riferimento, per comodità di studio, alle già note etichettature
critiche. Si sa, lo stuolo, sia dei teneri sia dei feroci moderni
negatori dei generi letterari si è infittito: va da Benedetto
Croce che li stimava pure astrazioni fino ai più noti teorici del
nouveau roman, e, perfino, chi si contrappone a queste posizioni ha in fondo al cuore dei dubbi. Da Northrop Frye che in
«Anatomia della critica» non nasconde qualche perplessità,
fino a Oswald Ducrot e Tzvetan Todorov che nel loro
«Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage » nel
risistemare la questione, dividendo le opere in generi e tipi,
non giudicano infallibile questa dicotomia.
Quindi la mia analisi del testo attraverso ciò che non è, si
muove in tal modo non per fede nell’esistenza dei generi, ma
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per altri motivi, e più precisamente un doppio binario di ragioni: da una parte mimare dal punto di vista critico la negazione
contenuta nel libro e dall’altra tentare di definire la materia
escludendo via via le tipologie letterarie convenzionali alle
quali certamente non appartiene.
«II resto è silenzio» non è un romanzo. S’intende per romanzo,
infatti, una narrazione, estesa nella intonazione e nella struttura,
delle vicende di un personaggio, o di un gruppo di personaggi,
inseriti in un ambiente-sfondo storico o fantastico.
Non ci pare il caso, quindi, di poter usare la definizione
‘romanzo’.
Neppure è un anti-roman-zo (ammesso che questo sia un genere, ma in qualche modo lo è pure diventato) in quanto non vi si
ritrova nessuna descrizione di realtà impersonale con eliminazione di ambienti e psicologie ed ossessivo riferimento al fluire del
tempo. Tutto ciò in Adolgiso non appare.
Neanche si tratta di un racconto breve, o novella, nonostante
che la estrema, e più che estrema, brevità del testo tenti a questa definizione, perché manca l’elemento distintivo della shortstory: la narrazione di un fatto, reale o immaginario, con una
ridotta struttura drammatica e con un numero anche ridotto di
personaggi.
Né è una favola in quanto non possiede le caratteristiche di un componimento a scopo esplicitamente o
implicitamente ammaestrativo.
Non lo si può definire una saga perché non sviluppa una storia
avente per argomento le vicende di una famiglia o di un popolo.
Neppure si può parlare di diario o memoriale poiché non ci si
intrattiene su notazioni autobiografiche o memorie riferite a un
fatto o a un gruppo di persone oppure a un’epoca, qui non c’è
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ombra di ricordi.
Epistolario nemmeno, infatti, non ritroviamo le lettere o il carteggio come elementi narrativi intesi a fornire dati su biografia, pensieri e comportamenti d’uno o più personaggi.
Né si può parlare di dramma non rappresentando l’Adolgiso
attraverso il dialogo di due o più personaggi i conflitti che li
animano; in questo libro, anzi, manca del tutto il dialogo e da
qui la conseguente inutilità d’indagare se trattasi di commedia
o tragedia.
Ma va anche rilevato che non possiamo per l’opera della quale
ci occupiamo usare il termine monologo perché tale forma letteraria è presente solo se vengono espressi con parole dette o
pensate da un personaggio le emozioni e i giudizi che egli
prova di fronte alla realtà
sia che lo riguardi direttamente, sia che riguardi altri.
E naturalmente non si tratta, sempre in senso stretto, di poesia in
quanto manca clamorosamente l’elemento fondamentale, vale a
dire il verso: libero, o usato secondo le varie forme metriche.
Di canzone (o peggio ancora melodramma) neppure a parlarne
perché oltre ai versi qua manca pure la musica.
Anche per quanto riguarda alcuni sottogeneri, niente da fare.
Infatti non lo si può definire un aneddoto (c’è forse un fatto?) o
una facezia (c’è forse qualcosa da ridere?).
Neanche ci si può azzardare a chiamare «II resto è silenzio» un
saggio perché non esprime un ragionamento critico che tracci, su
opere note, correnti di pensiero o ipotesi di studio, indicazioni
scientifiche, filosofiche, linguistiche o storico-sociali.
Questo libro non è epico: non vengono cantate le gesta storiche o fantastiche di un eroe o di un popolo; non è elegiaco:
invano cercheremmo nostalgie o malinconie; non è bucolico:
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non si ritrova la campagna con i suoi dei ed i suoi riti; non è leggendario: sono assenti eroi umani o antropomorfi impegnati in
grandi imprese fisiche o morali; non è politico: perché non è
civile (absit iniuria verbis), nel senso che non si parla di un argomento patriottico o sociale; non è cavalieresco (ci scusiamo per
queste espressioni che sembrano suonare offesa all’autore): in
quanto nulla c’è di sospeso tra storia e leggenda; non è religioso: nessun problema dello spirito e della divinità vi appare mai;
non è satirico: è mancante, infatti, sia l’oggetto satireggiato sia
il soggetto satireggiatore (e per termini contrari non è apologetico); non è fantascientifico: non è narrata nessuna avventura
di uomini e cose nel futuro o su altri pianeti; non è parodistico:
dov’è l’immagine speculare del parodiato?
E allora?
Ecco, una sola etichettatura finora non abbiamo inquadrata in
questa rapida carrellata: il giallo.
Dovrei per questo concludere che è quella giusta? Forse.
Ma solo in senso lato, considerando cioè l’autore come assassino e il libro come vittima. Si tratta, però, ovviamente, di poco
più o poco meno di una boutade, perché allora, in senso lato,
potremmo rimettere mano al catalogo visitato e ritrovarvi possibilità di applicazione per ogni voce. Percorrendo la via alla
quale accennavo in apertura di questo mio intervento, cioè
quella dell’analisi di ciò che non è questo libro, si arriva alla
conclusione che, in un certo senso, lo stesso libro non è. Ed è
questa la conclusione che mi premeva di più.
Esso, infatti, è un libro che s’interroga sull’opportunità di destinarsi prima alla stampa e poi al lettore o prima al lettore e poi
alla stampa. Del resto ha scritto acutamente Maurice Blanchot:
“Uno scrittore, che contempla la sua penna che traccia le let0
tere, ha il diritto d’interromperla per dirle: Fermati ! Che cosa
sai di te stessa? Con quale scopo continui ad avanzare?
Possibile che non ti accorga che il tuo inchiostro non lascia
traccia? Che avanzi senza badare a nulla, anche nel vuoto, e
che se non t’imbatti in qualche ostacolo è perché non hai mai
lasciato il punto di partenza? E tuttavia scrivi, scrivi senza riposo, facendomi scoprire quello che ti ho detto e rivelandomi
quello che so. Gli altri, leggendo, ti arricchiranno con quello
che ti tolgono e ti daranno quello che tu insegni loro.
Ora, quello che non hai fatto, lo hai fatto; quello che non hai
scritto, è scritto: tu sei condannata all’indelebile, al non cancellabile.
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Introduzione
Questo libro esce in ritardo sul previsto per colpa mia. Mesi
addietro, infatti, l’editore, mio carissimo compagno di tante battaglie culturali, m’incaricò di scrivere una introduzione a «II resto
è silenzio» di Armando Adolgiso, ma io confesso che per molto
tempo non sono riuscito a trovare una chiave adatta per stendere questa nota.
Più volte sono stato sul punto di rinunciare all’incarico : è difficile
– ed i lettori vorranno, spero, darmene atto – un’introduzione a un
libro come questo che avete tra le mani: non si sa, a volte, da che
parte cominciare a leggerlo, né dove soffermarsi.
Tale mia indecisione è durata fino a quando, forse in virtù dei miei
studi preferiti {vengo ritenuto, con molta bontà dei miei colleghi,
un orientalista), non mi sono chiesto fino a che punto è veramente utile una introduzione a un libro. A qualsiasi libro.
L’introduzione è come la mente secondo una poesia dello
Zenrin, essa è:
Come una spada che taglia, ma
non può tagliare se stessa
come un occhio che vede, ma
non può vedere se stesso.
Questi versi mi fecero pensare a un’altra poesia dello Zenrin che,
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a mio avviso, poteva essere una buona epigrafe per «II resto è
silenzio»:
Sedendo quietamente,
senza far nulla
viene la primavera e l’erba
cresce da sé.
Ecco, mi dissi, questo è un possibile senso dell’opera di
Adolgiso: l’azione contro la riflessione, per cui «II resto è silenzio» si configura come “non-mente” (wu-hsin) o “non pensiero” (wu-nien); allo stesso modo i maestri zen danno violente e
impremeditate risposte alle domande. Quando a Yun-men fu
chiesto il significato del buddismo, egli replicò subitamente:
“Budino di miele!”.
Questa mia ipotesi non è del tutto azzardata in quanto lo stesso Adolgiso mi raccontò che quando ebbe finito di leggere il suo
libro a un amico, allorché questi gli chiese che cosa volesse dire,
rispose a bruciapelo : il resto è silenzio!
“In conclusione” - è stato giustamente scritto – “l’unica alternativa a un’orrenda paralisi è balzare nell’azione noncuranti
delle conseguenze. L’azione in questo spirito può essere giusta
o sbagliata rispetto ai modelli convenzionali, ma la nostra decisione sul livello convenzionale dev’essere sostenuta dalla convinzione che qualunque cosa si faccia, e qualunque cosa ci accada, è fondamentalmente giusta”.
Così quando a Yun-men fu chiesto “Che cos’è il Tao?”, egli
gridò semplicemente: “Cammina!” (ch’u).
Sicché, forse, scrivere «II resto è silenzio» era per l’autore un
imperativo naturale più forte che pensare di scrivere il libro: e
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nello zen la mente che non afferra se stessa è chiamata il Nonnato (fuscho).
Il maestro Bankei dice: “La mente reale, non-nata, è diecimila
volte più limpida di uno specchio e più ineffabilmente meravigliosa. Nella sua luce tutti i pensieri svaniscono senza traccia”.
Così accade a «II resto è silenzio». Tutti i pensieri svaniscono fin
oltre se stessi in una pagina che sembra bianca e che non vuole,
a mio parere, esprimere annichilimento della parola, ma pulizia
della mente. Né mi pare di forzare l’interpretazione se, a proposito di queste pagine che bianche sembrano, cito i paesaggi
Sung dove uno dei tratti più notevoli è il vuoto relativo del disegno che appare tuttavia come parte della pittura e non come
sfondo non dipinto.
E forse il periodare dell’Adolgiso non esprime quel Vuoto
Meraviglioso delle pitture zen dal quale, d’improvviso, l’evento
si manifesta?
E non ricorda anche la poesia “senza parole” che nel ‘600 giapponese trovò forma sublime nell’haiku?
A volte, infatti, leggendo questo libro ho provato le stesse emozioni suscitate in me dal poeta Basho il cui sentimento per lo zen
volle esprimersi in un tipo di poesia del tutto affine al wu-shih
(“nulla di speciale”). Eppure questo è un libro certamente occidentale e non voglio certo formulare estreme ipotesi d’innesti e
di trapianti che troverebbero giustamente disinnesti e rigetti
assai pronti e ragionati presso altri critici, ma voglio solo dire che
una possibile chiave di lettura del libro risiede anche in culture
assai lontane dalla nostra. La tecnica di Adolgiso di scrivere
quasi non scrivendo, unifica più ceppi culturali, riunisce più spiriti, congiunge più menti, collega più anime.
E la lettura del testo credo che ve lo confermerà.
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Ciò che esiste in natura {paesaggi, psicologie, rumori,
sentimenti, odori) è possibile che venga visto da più osservatori
in modo del tutto diverso fra loro, ma ciò che non esiste in natura mette tutti d’accordo sul piano della fisicità, suscita creatività, eccita altri centri d’attenzione, mette in moto altre tensioni:
un nuovo modo di sentire che prescinde finalmente dai sensi.
“A battere due mani”, dice un maestro zen, “ne conosciamo il
suono, ma qual è il suono di una mano sola?”.
Un tempo si chiedeva ai poeti: esprimi l’inesprimibile.
Siamo stati accontentati.
Perché non chiedere oggi: inesprimi l’esprimibile.
Quando Fa-ch’ang stava per morire, uno scoiattolo squittì sul
tetto. “È questo, È proprio questo”, egli disse, “e null’altro”.
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Isagoge
«II resto è silenzio» sono le ultime quattro parole pronunciate da
Amleto prima di morire. Quasi una conclusione ideale del breve,
famosissimo monologo della prima scena del terzo atto:
Amleto - ... così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta
nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera
del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza,
per questo scrupolo, deviano le loro correnti e perdono il
nome d’azione...”.
Forse è possibile distinguere i fatti dai problemi in una cubistica
dissezione della storia, allora succede, per esempio, che il fatto
è il silenzio, il problema il non essere, per poi accadere che il
silenzio sia il non essere e viceversa, per ritornare, infine, a credere che il fatto sia il problema e ogni problema un fatto.
Quando Platone afferma nel «Sofista» che “In ciascuna idea
molto è l’essere, ma infinito è il non essere”, intende dire proprio che ogni idea include anche il riferimento a tutto ciò che
non è. Così disubbidendo a Parmenide, che aveva raccomandato di “non costringere mai l’essere a essere non essere”,
Piatone immette nel mondo delle Idee la possibilità del movimento e della vita. Del resto, Plotino riprende e radicalizza un
motivo platonico-aristotelico: “Non essere è la materia, il prin0
cipio inerte su cui agisce l’anima del mondo e dal quale traggono origine l’imperfezione, la molteplicità e il male”.
Le letture di Amleto che pure riconosce la vanità delle stesse,
vedi, ad esempio, la risposta a Polonio nella seconda scena del
secondo atto:
Polonio - ... che cosa leggete o mio signore?
Amleto - Parole, parole, parole
immaginiamo che passino attraverso i riferimenti greci di poco
prima, tanto forte è la costanza nell’esprimere durante tutto
l’arco della sua avventura, la volontà dì costringere l’essere a
essere non essere perché, si sa, tutto dolorosamente passa e il
resto è silenzio.
Non crediamo che il titolo scelto da Adolgiso sia casuale, ma
esso piuttosto risulta strettamente legato alla questione.
Polonio - Qual è la questione, mio signore?
Amleto - Fra chi?
Polonio - Voglio dire la questione di ciò che voi leggete, mio
signore.
Amleto - Calunnie... chi scrive calunnia.
È calunniatore il briccone satirico, sul quale discetterà Amleto
rivolgendosi a Polonio, e sono calunniatori anche gli apologeti e gli agiografi che illustrando le virtù dei soggetti cantati non
considerano i difetti come altrettante possibili virtù dei soggetti stessi; in quanto se è vero – come la loro penna intende
affermare – che costoro sono grandissime creature e allora
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dovrebbe altresì essere vero che in quelle anche i vizi possono
essere trattati come occasioni di virtuose grandezze. Di fronte
a questa massa di calunniatori che sono, talvolta perfino loro
malgrado, gli scrittori di storie e personaggi, ecco un libro,
questo che presentiamo, che si fa negatore di quel venticello,
di quell’auletta assai gentile.
Le linde pagine di Adolgiso raccontano in modo accortamente
ambiguo quello stato dell’essere (o non essere?), quella atmosfera particolare, quell’avventura dello spirito che un detto popolare
definisce come ‘dolce far niente’, un modo di passare il tempo
che vanta una lunga tradizione, si pensi, ad esempio, all’illustre
definizione che ne dà Plinio il Giovane (Epistola IX del Libro VIII):
“iIlud iners quidem jucundum tamen nihil agere, nihil esse”.
E dolcemente ambigue trascorrono sulle pagine del libro «II
resto è silenzio», le ombre inafferrabili di particolari momenti
della vita di questo immaginario non-protagonista (potrebbe
chiamarsi Nemo?) esiliato dalle stesse pagine con tutte le sue
decisive esclamazioni - inudibili come ultrasuoni - che si finge
chiudano ognuno dei nascosti episodi. Sconvolgenti invenzioni verbali per ogni situazione.
Sia pur data per supposta.
Per i perduti giochi dell’infanzia (- Cucù, settè!), per il primo
amore (- Non si scorda mai), per il Tempo Perduto (- Trenta dì
conta settembre con aprii giugno e novembre, di ventotto ce
n’è uno, tutti gli altri fan trentuno), per il sesso (- A un palmo
dal mio cui fotta chi voglia), per gli animali e la natura (- Campa
cavallo mio che l’erba cresce), per la cognizione del dolore (- Là
dove il dente duol, la lingua tocca), per Dio (- Vogliamo dio per
nostro Padree, vogliamo dio per nostro Ree!), per il doloroso
passato nazista espresso attraverso l’affermazione latina (- Esse!
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Esse!). E qui scatta di nuovo forse quel sotteso congegno metaverbale di sapore amletico: essere o non essere? ben sapendo
che il resto è soltanto silenzio.
Si ha spesso, sfogliando le rarefatte pagine di questo volume,
l’impressione di trovarsi dinanzi non tanto ad uno scritto di cui
si fatica assai a rintracciarne la grafia, bensì ad un racconto
magico tramandato per via orale.
E allora ci si chiede: qual è, per una parabola magica, la via
opposta a quella orale? Per il retto intendersi su questa domanda aggiungiamo: è forse possibile toccare le viscere del mistero
spingendo le nostre pene di lettori nel cieco budello delle parole fra le angosce di quelle pagine?
La risposta è: forse.
Ma è chiaro che la voluta evanescenza del testo scritto
rimanda al vecchio fascino del rapporto orale tra persona e
persona, al fascino della cosa che ci misero un tempo nell’orecchio ed ora, divenuti adulti, siamo lieti di mettere in
bocca a un’altra persona.
Sentiamo, attraverso la lettura di «II resto è silenzio», di avere,
finalmente, tra le mani una cosa viva, palpitante, calda nella sua
umanità, umida di passione quanto basta per esplodere in caldi
fiotti che nutrano l’essere e la terra; la forza poetica è guidata
verso la grande caverna che contiene l’umanità per esplorarne
con cauti movimenti ogni più riposto antro e poi fondersi in essa
in un unico prolungato sussulto di Sapienza e Amore.
E qui vengo con piacere a concludere questo commento usando per un voluto parallelo con il lavoro di Adolgiso, le stesse
parole che Ceronetti nel suo stupendo saggio «Le rose del
Cantico» usa per il grande testo biblico:
“... è una tomba pulita e deserta; la lanterna curiosa che la pro0
fana non trova mummia né garze né ornamenti né lamine incise né vita di morti... non si può neppure dire, guardando più in
profondo, che è un libro breve... perché non ha veramente principio (inizia seguitando), non ha mezzo, non ha fine”.
Se queste parole fossero state scritte per «II resto è silenzio» non
ci sarebbe niente da aggiungere perché sono quanto di più aderente si possa esprimere come commento sul vuoto.
Dice Ahmad Al-Alawi: “Chi non considera che il significato esteriore isolandolo dall’insieme è un materialista, chi non considera che il significato interiore isolandolo dal resto è un falso mistico: ma chi unisce i due significati è perfetto”.
Il resto è silenzio.
0
Protesta dell’autore
«II resto è silenzio» mi è costato poco lavoro e nessuna fatica [1].
É stato scritto in men che non si dica dopo averlo pensato per
poco tempo.
Una volta chiara la struttura, tutto si è risolto in un lavoro senza
cancellature.
La cosa alcuni anni fa piacque ad alcune anime della
‘Cooperativa Scrittori’ e fu messa nel programma di pubblicazioni di quella casa editrice che morì prima di rinascere, essendo già
esistita una volta. Destino editoriale assai in rima con l’opera.
Ho avuto modo, prima di stendere questa nota, di leggere la
bella prefazione che, con mio grande piacere, precede questa
pagina e integra, per certi versi il libro stesso.
Nella prefazione è colto benissimo uno dei motivi principali che
ispirano «II resto è silenzio», vale a dire la necessità, imperiosa e
celeste, di non fare.
Perché costruire? Se proprio si vuole, al più, si può costruggere.
E non solo perché ormai tutto è consumato, come già è stato
detto in un momento cruciale, e non solo ancora perché lavorare stanca, ma soprattutto perché è giusto non fare.
[1] N.d.a. - Lavorai molto di più a quell’altro libro «Epistolario », ve lo ricordate?... Che?! Non lo avete comprato? Ma siete pazzi? Correte ad ordinarlo!
Esitate? E io che pensavo che mi volevate bene!
0
È una sentenza morale prima ancora d’essere anche una gioia
estetica.
D’altronde, nei modi di dire, nei proverbi, nelle espressioni della
saggezza popolare, spessissimo, il fare, il darsi da fare, è connotato negativamente.
Alcuni esempi:
far d’ogni lana un peso
far fare il latino a cavallo
far parere l’uno due
farci il callo
fare a cani e gatti
fare a occhio e croce
fare a scaricabarili
fare a testate contro il muro
fare a vanvera
fare casino
fare castelli in aria
fare cilecca
fare come colui che lava il capo all’asino
fare come i capponi di Renzo
fare come i gamberi
fare come i montoni di Panurgo
fare come i pifferi di montagna
fare come il cuculo
fare come il serpente che si mangia la coda
fare come la micia frettolosa
fare come la montagna che partorì il topolino
fare come la rana col bue
fare come la volpe e l’uva
fare come l’asino che porta il vino e beve l’acqua
0
fare come l’asino di Buridano
fare come lo struzzo
fare come Ponzio Pilato
fare comprare la gatta per lepre
fare da Marta e da Maddalena
fare da tappezzeria
fare di ogni erba un fascio
fare d’una pagliuzza una trave
fare entrare il cavolo a merenda
fare fiasco
fare flanella
fare forca a scuola
fare gemere i torchi
fare giacomo giacomo
fare i conti senza l’oste
fare il buono e il cattivo tempo
fare il can dell’ortolano
fare il cascamorto
fare il Catone
fare il gradasso
fare il lupo pecoraio
fare il passamano
fare il passo più lungo della gamba
fare il pesce in barile
fare il salto della quaglia
fare il volo d’Icaro
fare la barba al palo
fare la cariatide
fare la carità pelosa
fare la cena del galletto: un salto e a letto
0
fare la cena di Salvino: prima orino e poi in lettino
fare la civetta
fare la fatica di Sisifo
fare la fine delle guardie regie
fare la gatta di Masino
fare la gatta morta
fare la mosca cocchiera
fare la parte del diavolo
fare la parte di Giuda
fare la testa come una campana
fare la visita di S. Elisabetta
fare la vita del beato porco
fare la zuppa nel paniere
fare le corna
fare le nozze coi fichi secchi
fare le sette chiese
fare lo gnorri
fare lo scemo per non pagare il dazio
fare l’occhio di triglia
fare l’offerta di Caino
fare l’uccello del malaugurio
fare man bassa
fare marchette
fare notte per giorno
fare orecchio da mercante
fare piangere lacrime amare
fare più miglia d’un lupo a digiuno
fare promesse di marinaio
fare questioni di lana caprina
fare ridere i polli
0
fare salamelecchi.
fare scena muta
fare schifo
fare solo numero
fare spallucce
fare spese pazze
fare terra per ceci
fare tre passi in un mattone
fare tressette col morto,
fare un buco nell’acqua
fare un castello di carta
fare un circolo vizioso
fare un discorso senza capo né coda
fare un forno
fare un fuoco di paglia
fare un lavoro coi piedi
fare un ruzzolone
fare un salto nel buio
fare un viaggio a vuoto
fare una croce sopra
fare una magra
fare una scena madre
fare una sòla
fare una via crucis
fare uno spirito di patata
fare vedere la luna nel pozzo
fare venire il latte ai ginocchi
fare venire la pelle d’oca
farla sotto il naso
farla sporca
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farne di cotte e di crude
farne di tutti i colori
farne più di Carlo in Francia
farsela addosso dalla paura
farsi la frusta per la schiena
farsi onor col sol di luglio
eccetera eccetera con la controprova del famoso: chi non fa non
falla.
Né sono da meno le sacre scritture, ricordiamo un’espressione
per tutte: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
Concetto questo traducibile in letteratura con: se non vuoi essere scritto, non scrivere. E difatti l’autore non dovrebbe esistere.
Chi è costui? Che cosa vuole? E perché mai?
Facciamoci soccorrere dai dizionari. La parola autore nell’enciclopedia italiana è immediatamente preceduta dalla parola
autopsia e subito seguita da autorità; ciò naturalmente non ci
spinge a sostenere (nonostante una certa tentazione) che l’autore rappresenti l’autopsia dell’autorità, né - tanto meno l’autorità dell’autopsia. Ma ecco la lucida e puntuale definizione che dell’autore ne dà l’enciclopedia Treccani: “... uno dei
monti più noti del gruppo dei Simbruini nel Subappennino
Centrale, al confine tra il Lazio e l’Abruzzo, alto m. 1853, conserva ancora in parte il suo mantello di bosco (faggi). L’Autore
è meta di pellegrinaggi affollatissimi nella domenica della
Trinità (55 giorni dopo la Pasqua) e anche il giorno di S. Anna
(26 luglio), poiché sulla sua cima venne eretto il piccolo santuario della SS. Trinità, fondato a quanto pare, tra il V sec. ed
il VI d.C, probabilmente sulle rovine o nei pressi di un sacrario
dedicato ad una divinità fluviale”.
Comunque sia, a un autore, nella nota di presentazione d’un
0
suo libro, si richiede sempre - e anche a me l’Editore lo ha chiesto - di esprimere la direzione e il senso della sua arte. A me
bastano poche parole, peraltro non mie, per definire la mia presenza: la mia è un’arte assenteista [2].
[2] N.d.e. - Battuta di Totò nel film «Totò cerca moglie».
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Note dell’editore
Questo libro esce per caso. Al suo posto dovevano uscire altri
libri. Eppure, questo è un volumetto che, senza che me ne
accorgessi, mi danzava davanti agli occhi da molto tempo.
La rumorosa avventura di «II resto è silenzio» è assai singolare e
voglio raccontarvela.
Per farlo devo aprire lo schedario contenente le schede redatte
dai lettori specializzati che lavorano per la mia casa editrice.
I titoli che vi dirò tra breve erano tutti da me approvati, in seguito alla positiva segnalazione degli esperti, e già destinati alle
varie collane.
Elencherò questi titoli non in ordine alfabetico bensì nell’ordine
in cui pervennero in redazione:
«Zio eri lesto nel sì»:
«O esilii le stronze!»:
«Lezione: resistilo »:
«II tre è silenzioso»:
«Tesi: il riso e lo zen»:
«Tesi: lo zen è il riso»:
racconto per ragazzi sui dieci anni: ottimismo vitalistico;
trattato antifemminista in versi: violenza
reazionaria;
medicina e dolore: tecniche analgesiche
di tipo empirico;
giallo spionistico: tradizionale suspence;
dieta macrobiotica: menù graminacei;
domande e risposte in una scuola zen:
koan divertenti;
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«E lì resti senz’olio»:
«Le isterie in Slozo»:
«Lì restino, zie sole»:
«Senti le ore Silzio»:
«Siri zelloso è in te »:
«Le storie o silenzi»:
motori e risparmio energetico: automobilismo alternativo;
nevrosi d’un fuoriuscito polacco: documentario politico-psichiatrico;
la terza età in un ospizio femminile:
ricerca socio-psicologica;
poesia arcadica minore: raccolta inedita;
attacco a questa casa editrice accusata
di integralismo cattolico: pamphlet gauchiste;
racconti operai sullo sfondo d’una
società opulenta: narrativa impegnata.
Quando un giorno mi capitò sul tavolo «II resto è silenzio» feci
per caso una scoperta emozionante: era lo stesso autore di tutti i
libri che vi ho elencati e solo allora mi resi conto che stavo per
pubblicare tanti libri di un solo autore (e i poligrafi oggi sono rari),
per giunta a me ancora ignoto.
Ma le sorprese non erano finite:
«II resto è silenzio» non era se non l’anagramma di ciascun titolo
- ognuno ovviamente anagramma dell’altro - che stavo per dare
alle stampe.
Decisi allora due cose:
1) conoscere di persona Armando Adolgiso;
2) pubblicare soltanto «II resto è silenzio» che evidentemente
conteneva in un solo volume tutti i temi separatamente trattati
nei vari libri precedentemente proposti!
È così che stampo «Il resto è silenzio» che ora raccomando alla
vostra lettura, sperando che vi piaccia.
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Avvertenze dello stampatore
Stampare «II resto è silenzio» non è stato facile, ma in compenso si è trattato per me di un lavoro molto stimolante per varie
difficoltà grafiche contenute nel testo. L’Autore, ad esempio, ha
numerato ogni pagina invariabilmente con la cifra zero e mi ha
incaricato di disporre i fogli a mia volontà sostenendo che la storia bene avrebbe retto ogni disposizione in quanto era stata studiata proprio in funzione di montaggi diversi e casuali. In quanto ai caratteri di stampa da usare, lasciò anche qui libera scelta
poiché non aveva particolari preferenze.
Disse soltanto, simpaticamente, che gli sarebbe piaciuto se
avessi usato per la copertina inchiostro simpatico, ma allorché
gli risposi che non ero attrezzato per tale tecnica non insistette oltre.
Pensavo di numerare le pagine della prefrazione e della postfrazione (per differenziarle dal libro vero e proprio) con le cifre
romane, ma l’Autore mi pregò di evitarlo temendo che la cosa
potesse dispiacere ai lettori milanesi e dicendo, inoltre, che
essendo tali parti corpo integrante del libro stesso, conveniva
seguire lo stesso principio usato per il resto del libro, vale a dire
lo zero in fondo ad ogni pagina.
Perché proprio lo zero? mi chiedevo.
Un giorno sfogliando un dizionario che avevo in quei giorni finito di stampare mi capitò sott’occhio la parola Zero che così veni0
va spiegata:
Dall’arabo zifr. Cifra e numero indicanti quantità nulla; simbolo
0: abbreviazione dal greco ouden-nulla; nell’aritmetica ha un
valore di posizione: posposto (o anteposto) a una cifra, ne moltiplica (o divide) per 10 il valore; in algebra è il solo numero
senza segno; notevole la relazione a° = 1.
Parlai di questa mia scoperta con l’Editore il quale mi disse che
sì, poteva essere questa una spiegazione, ma che lo zero in
fondo a ogni pagina a lui ricordava la maniera di mettere i voti
sui compiti di scuola. L’Autore sostiene, aggiunse, che tutto ciò
che è scritto non vale più di uno zero assoluto.
Sfogliai il dizionario e alla voce Zero assoluto trovai: Termine fisico. È la temperatura corrispondente a -273, 15° C alla quale
cessa il moto molecolare.
Concludendo voglio scusarmi anticipatamente con i lettori di
qualche mio, eventuale, errore grafico mancanza nell’impaginazione e proprio per giustificarmi rap raiui iqissod.,
e anche temendo questo ho voluto raccontare le difficoltà da
me incontrate in questo lavoro.
Buona lettura.
0
Prefazione del lettore
Nell’accingermi a leggere questo libro rifletto su chi è il lettore.
Faccio questo in quanto il libro di Armando Adolgiso non l’ho
ancora letto: sarà la mia prossima lettura.
Non tutti i lettori sono uguali. Ci sono quelli che leggono solo
per imparare e quelli che leggono soltanto per divertirsi; i primi,
di solito, diventano severi professionisti di qualche arte liberale
mettendo a frutto le loro ordinate e sistematiche letture, i
secondi diventano vagabondi e perdigiorno. Ai primi andrà il
rispetto della società che li onorerà come specialisti, ai secondi
il disprezzo degli eruditi e di tutti gli altri. Il fatto è che i primi
volevano sapere tutto di una cosa (per praticarla, farla o rifarla,)
i secondi volevano conoscere una cosa di tutto (per rimirarla,
adottarla e dimenticarla).
Essendo questi ultimi, fra i lettori, i più disgraziati, voglio soffermarmi ancora sul loro comportamento. Essi non si contentano di leggere disordinatamente più libri di vario argomento, ma
leggono, con pari attenzione, proprio di tutto: giornali, scritte
murali, codici, opuscoli, slogan pubblicitari, appunti, fumetti,
inventari, quiz enigmistici, contratti d’affitto, note delle spese,
cronache sportive, lettere. Triste genia! Fossero castagni verrebbe loro il mal di inchiostro! Ma i lettori non si esauriscono in
queste due categorie, perché ci sono anche i lettori d’un libro
unico (né più né meno come esistono gli scrittori d’un libro
0
unico). Di solito questo libro viene letto da costoro - sono i
sacerdoti, i pazzi e i contadini - per tutta la vita e si tratta quasi
sempre di libri sacri, qualche catalogo, manuali di coltivazione
o allevamento: grandi testi che contengono nelle loro pagine
risposte a più misteri.
Del resto qualunque libro se letto per tutta la vita diventa un
grande libro, fosse anche un romanzo dello Strega!... già, i
romanzi!
Ecco un altro gruppo di lettori: quelli che appunto leggono
soprattutto (o solo) romanzi. Perfida gente, così povera di fantasia da richiederla in prestito ad altri; questi lettori vanno condannati.
Ma esiste un altro tipo di lettori, ancora pochi ma destinati ad
aumentare nel futuro - in tempi antichi erano assai numerosi quelli che avendo letto un volume, non importa quale ce ne
sono tanti, ne restano così folgorati da non volerlo rileggere, né
leggere più altro e passano i restanti anni della vita a fantasticare. Non leggere più.
È un modo d’essere lettori veri. Autentici. È una maniera, la sola,
per proiettare il libro oltre la letteratura, la stampa oltre il libro e
la lettura oltre la stampa.
Ora la smetto di scrivere.
Voglio leggere.
Fine
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Postfrazione
di Gianni Romano
Adolgiso è uno degli autori più prepotenti al mondo.
Mentre gli altri autori si contentano di scrivere il libro e poi chiedono di solito ad amici, una prefazione lasciandoli liberi di scrivere ciò che vogliono, lui ha imposto a Falzoni e a me lo stesso
tema verbale del nostro esercizio, due suoi neologismi: prefrazione e postfrazione. Più prepotente di così!
Io mentre scrivo questa nota ignoro che cosa abbia scritto
Falzoni, lo apprenderò probabilmente non prima della pubblicazione del libro e la cosa (ben lo sa l’astuto Adolgiso!) s’intona
perfettamente nel clima dell’operazione che è un’architettura di
trappole fatta di vuoti, buche e precipizi.
È questo credo il principale fascino de Il resto è silenzio che con
i suoi trabocchetti micidiali è un agguato teppistico alla signora
Scrittura, un attentato terroristico al signor Lettore.
Ma per fare una buona postfrazione a Il resto è silenzio, al suo
beffarsi e farsi beffe, bisogna inquadrare questo lavoro letterario nella somma delle notevoli e disparate produzioni dell’ingegno allucinato multiforme dell’autore che è anche l’inventore
di un tipo di spettacolo, da lui chiamato azione mercuriale,
“un superamento” - come ha scritto Rosa Massari - dei termini della performance, dell’installazione e dell’event... la proiezione di una nuova epifania estetica”. Così sommerge e poi fa
emergere suoni dalle fogne di Roma; scrive con drogatissima
0
tecnica letteraria e visiva una storia su 50 muri di Pavia; fa a
pezzi l’Antigone di Alfieri (proprio ad Asti, naturalmente)
facendo dialogare simultaneamente i personaggi recitati da
attori dislocati a grandissima distanza fra loro in punti impensati della città; fa esibire un cane come attore con un microfono al collo per le vie di Reggio Emilia; costruisce oggetti stranissimi (li chiama arredamento ludico) che si presentano come
boutade tridimensionali ma poi ci si accorge che sono sapientissime e raffinate clonazioni dell’Interferenza, interviene su
giornali e riviste da anni in modo paradossale. Per non parlare
di un’altra operazione condotta sul filo dell’esibizionismo
impudico e del più pirotecnico gioco letterario, mi riferisco ad
un altro suo libro Epistolario, pubblicato tempo fa, che s’immagina scritto nel 2090 da uno studioso che ha raccolto un
po’ dappertutto le lettere spedite da Adolgiso ai suoi parenti,
alle sue donne, ai suoi amici (tutte persone che realmente
hanno avuto un ruolo nella vita dello autore e figurano nel
libro col loro vero nome) e ora pubblicate nel 150° della nascita. Insomma come ha scritto di lui Giuseppe Saltini: “ ...incolla, trapana, dipinge, smacchia, compone e ricompone testi...
un agente segreto troverebbe carta per i suoi denti“.
Sicché a mio avviso è lo stesso Adolgiso la postfrazione di se
stesso: in questo suo agire da stupratore di codici, in questo
mischiare continuamente le carte false, in questo puntiglioso
esercizio acrobatico del vivere come fa lui tra occasioni eccessive. E certamente mi appare come postfrazione e non prefrazione di se stesso. Perché finora tutta la sua opera (letteraria, eventistica, visiva, sonora) è il racconto interdetto di qualcosa che se
n’è andata e che illuminata dalla sua ironia la vediamo scomparire inghiottita da un lapsus, mangiata da un orco affamato di
0
segni, squartata dalla voglia di autosezionarsi, d’aprire le proprie
interiora per farne vaticinio. Come fa Il resto è silenzio che
squarcia le viscere dell’oggetto-libro per metterne a nudo l’organo della presentazione qui divenuto oracolo del Nulla, interrogato da un profeta del silenzio - l’autore stesso. Gioco d’illusioni ottiche, di specchi magici che rimandano immagini di
comicità e di terrore, raggelate fra due parentesi linguisticamente neonate: prefrazione et postfrazione. Ma dove porta una
postfrazione? Forse essa è accompagnata perfidamente per
mano dallo stesso Adolgiso, come Il resto è silenzio sembra suggerirmi, verso quelle plaghe della creazione dove si distillano i
segni di una nuova follia che, lo spero, verrà riconosciuta come
una nuova rinascenza.
Brunico, luglio ‘82
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Indice
0
errata corrige:
A pagina 0: ultimo rico: leggasi zeri inveche che uno.
settembre 2007
nybramedia.it
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armando adolgiso - il resto è silenzio