Sogno d’Irlanda
di Alan Vaia
Il Nord, il verde smeraldo e la cupa nebbia, i Celti, le splendide fate e i dispettosi
folletti, la musica, il sibilo del vento e il fragore dell’oceano. L’Irlanda. Fin da
ragazzino sono stato affascinato da questo mondo magico e misterioso, romantico e
fiabesco. Diciassettenne mi sono recato nella biblioteca del mio paese alla ricerca de
La saga irlandese di Cu Chulainn1, epopea mitologica che racconta le gesta di un
eroe dalla forza incredibile in grado di sbaragliare da solo interi eserciti e de I
racconti gallesi del Mabinogion2, raccolta di storie i cui protagonisti sono leggendari
cavalieri, “parenti” di quelli descritti nella Historia regum Britanniae, opera del
chierico Goffredo di Monmouth che ha dato origine alla saga di Re Artù. Traevo
massimo diletto nella lettura di questi racconti accompagnandola con il sottofondo di
dolci e colorite note di musica celtica, presa dalla mia raccolta di CD Keltika3 edita in
edicola in quegli anni. All’epoca l’Irlanda era un miraggio lontano, un sogno, una
fantasia, come se quell’isola non esistesse ma fosse il frutto di uno dei tanti scrittori
di romanzi fantasy.
Parecchi anni dopo, mentre in un freddo febbraio stavo rintanato con amici in un pub
della bassa, arriva l’idea e la proposta di un viaggio in Irlanda per l’estate. Nei giorni
seguenti mi adopero per tracciare il percorso migliore, più caratteristico, aiutandomi
con le guide del Touring Club Italiano e del National Geographic. L’idea è quella di
partire da Dublino e in senso orario farsi tutta la metà sud dell’Irlanda.
I mesi trascorrono lentamente ma inesorabilmente e la data prefissata per il viaggio
finalmente arriva. Partiamo con un volo Ryanair dall’aeroporto di Bergamo Orio al
Serio verso le 11. Dopo due ore e mezza di volo arriviamo a Dublino, sono le 12:30
locali e gli orologi per il fuso orario vanno portati indietro di un’ora.
A Dublino è nuvoloso. Lo immaginavo, non sono certo venuto in Irlanda per
prendere un’abbronzatura caraibica. Una pioggerellina fine fine, simile ad acqua
vaporizzata ci dà il benvenuto, ma non fa freddo, considerando che sono sceso
dall’aereo in braghe corte e t-shirt.
Baile Atha Cliath (Dublino in gaelico) è una tipica città anglosassone con i principali
edifici in stile georgiano (1720-1840) e vittoriano (1840-1901), ormai completamente
globalizzata. Ristoranti etnici, orientali e italiani si mescolano ai marchi delle grandi
catene commerciali come l’Hard Rock Café, e il Mac Donald, ai grandi magazzini
per turisti come il Carroll’s Gifts & Souvenirs dove il merchandising irlandese dà il
1
La saga irlandese di Cu Chulainn, A. Mondadori, Milano 1982.
I racconti gallesi del Mabinogion, A. Mondadori, Milano 1982.
3
Keltika, New Sounds 2000.
2
1
meglio di sé, spaziando dal vestiario alla musica, dalla Guinnes all’oggettistica per
cucina, dal costume del patrono d’Irlanda San Patrizio al materiale per cancelleria.
Non possono certo mancare gli onnipresenti centri commerciali, ad esempio il Jervis
shopping centre, realizzato come un vero e proprio tempio del consumismo, edificio a
due piani con facciata monumentale. Appena arrivati, vista l’ora tarda, per il pranzo
non potevamo far altro che correre al Mac Donald.
Il nostro Bed & Breakfast, prenotato su internet e gestito da cingalesi, è piuttosto
angusto e, prima volta nella mia vita, mi capita una camera con doccia e lavabo
inglobati nella stanza da letto, con un’unica finestra che dà su un buio corridoio
diretto alla toilette, questa chiaramente in comune con le altre camere del piano, o
meglio dello scantinato.
Ho voglia di storia, di vedere le vestigia del passato irlandese e allontanarmi dalle
manifestazioni della frenetica e consumistica vita moderna.
Il Trinity College, fondato dalla regina Elisabetta I nel 1592 per erigere un baluardo
della cultura protestante nella cattolicissima Irlanda, è meta ideale. Nella
settecentesca biblioteca, dove l’odore delle colonne e degli scaffali in legno si
mescola a quello della carta ingiallita e ammuffita di libri vecchi di secoli, è custodita
una delle più grandi opere d’arte di matrice celtico-cristiana, il famoso libro di Kells,
un evangelario finemente miniato risalente all’inizio del IX secolo. Tipici intrecci a
motivi vegetali, bianchi, rossi, nascondono strane figure animali con fauci spalancate,
angeli dagli occhi enormi e scene di vita quotidiana su pagine di pergamena con un
lucente sfondo oro. Colpisce la vivacità dei colori, ancora così forte dopo più di mille
anni e garantita dalla vecchia tecnica dell’albume d’uovo usato come fissante.
Altra tappa è il museo nazionale dov’è custodito il Tesoro, una raccolta dell’arte
orafa celtica che spazia dall’inizio del primo millennio avanti Cristo fino al
medioevo. I tre pezzi più famosi sono la Broche di Tara, uno spillone d’oro risalente
all’VIII secolo con incisi minuti e precisi motivi a intreccio; il Tesoro di Broighter,
composto da bracciali, torquis (tipico collare celtico) più un modellino di una nave,
pare un curragh (la tipica imbarcazione dei pescatori irlandesi) fatto di una sottile
lamina d’oro, risalenti al I secolo avanti Cristo; il calice di Ardagh, una larga coppa a
due manici in argento e pietre preziose dell’VIII secolo. Finita la visita e raggiunto il
negozietto dei souvenir, onnipresente perfino nelle chiese, non ho potuto non
prendere due cartoline rappresentanti l’una la miniatura dei simboli dei quattro
evangelisti del libro di Kells e l’altra il calice di Ardagh.
Dopo tre giorni lasciamo l’affollata capitale dell’isola verde, e ci lanciamo alla
scoperta delle aree interne e montuose dell’Irlanda, verso sud, alla ricerca di fitti
boschi e freddi ruscelli, lontano dai rumorosi insediamenti umani. Un po’ come deve
aver fatto San Kevin nel VI secolo, dove, sui monti Wicklow, fondò il monastero di
Glendalough. Queste valli e la loro flora ricordano molto quelle sulle alpi, boschi di
abeti, verdissime felci, piccoli e freddissimi laghetti, anche se qui non si supera i 700
metri di altitudine. Glendalough non era un semplice monastero ma un insediamento
monastico con numerose abitazioni, locali in cui i monaci si dedicavano alla scrittura
e alla trascrizione di manoscritti, opifici, stanze per gli ospiti, un’infermeria e una
fattoria. Inoltre nel 1111 divenne diocesi. Ora, di tutta quella operosa magnificenza
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monacale rimangono solo dei resti. Il sito è da secoli meta di pellegrinaggio, tuttora
svolge funzione cimiteriale, e in mezzo a tombe antichissime se ne trovano di
moderne, con i devoti familiari del morto che puliscono il tumulo tra stormi di turisti.
Lasciati alle spalle i monti Wicklow, a metà pomeriggio arriviamo a Kilkenny,
piccola città medievale dominata da un imponente castello, del XIII secolo. È la città
della rossa birra Kilkenny, e dopo una passeggiata per il borgo, al far della sera ci
rintaniamo in una locanda dall’aspetto arcaico e sinistro, con disegnato sull’insegna
un grosso gattone nero. Il nome della locanda è Kytelers Inn. Accanto all’ingresso
una targa ricorda che l’edificio fu la casa della strega Alice Kytelers, vissuta agli inizi
del XIV secolo.
Si, bella pubblicità! Appena entrati un opuscolo illustra la storia della strega.
Alice era una ricca e potente donna, forse legata al mondo templare, accusata di
stregoneria, magia nera ed eresia dal popolino ultracattolico del villaggio. Il vescovo
Richard de Ledrede, da buon difensore dell’ortodossia cattolica fece del suo meglio
per condannare Alice e purificare la sua anima attraverso l’ardente fuoco. Per tutta
risposta, il Cancelliere Roger Outlawe, cognato di Alice, fece arrestare il vescovo,
imprigionandolo nella prigione di Kilkenny con l'accusa di aver falsificato le prove. Il
vescovo fu tenuto a pane e acqua per diciassette giorni, tra lo sbigottimento generale.
Ma John Darcy, presidente della Corte di Giustizia, ritenne il processo inquisitorio
corretto nella forma e diede ordine di far scarcerare Richard de Ledrede, il quale, in
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possesso di un titolo giuridico valido, riuscì legalmente a far arrestare Alice e gli altri
imputati. La condanna era il rogo: inappellabile. Pochi giorni dopo l'arresto Alice
Kyteler e altri dieci suoi fedeli, furono fatti evadere dai sotterranei del Castello di
Kilkenny e fatti scappare in Inghilterra. Tutti, tranne una donna che si attardò e fu
catturata dalle guardie. Era una certa Petronilla de Meath che venne torturata
dall’inquisizione nella speranza di trovare prove forti contro Alice. Petronilla, dopo
aver detto tutto quello che gli inquisitori volevano sentire, fu comunque bruciata
davanti a una folla inferocita e tra le fiamme gridò ripetutamente il nome di Alice.
Questa era ormai al sicuro in un castello nei pressi di Londra e visse nell'ombra fino a
tarda età.
La locanda non aveva nulla di demoniaco, arredata come un classico pub irlandese
con tavoli, sedie e panche in legno, numerose foto a colori e in bianco e nero
attaccate alle pareti così come delle prime pagine di giornali locali vecchie di anni e
strumenti musicali consunti dal tempo e dal troppo utilizzo quali una fisarmonica, un
clarinetto e qualche chitarra. Dopo un buon pasto a base di zuppa della strega,
specialità della casa, e pollo al curry, chiaramente innaffiato da due pinte di
Kilkenny, siamo tornati al nostro B&B poco fuori città.
Ripartiti al mattino di buon’ora, dopo un full breakfast, ovvero due uova al tegamino,
due fette di pancetta, e due piccole salsicce, (eravamo già pronti per un pisolino!) ci
siamo diretti verso la maestosa rocca di Cashel, uno dei luoghi più caratteristici e
pieni di pathos dell’Irlanda, consigliato già ai primi dell’800 dallo scrittore Walter
Scott ai viaggiatori dell’epoca. La cittadella, che si erge su una collinetta di pietra
arenaria alta 60 metri, presenta numerosi edifici al suo interno, tra i quali il più
maestoso è la cattedrale di San Patrizio del XIII secolo priva della copertura del tetto,
crollato alla fine del XVIII secolo; al suo fianco spicca un’alta torre di 28 metri
dell’XI o XII secolo. Altro edificio di rilievo è la cappella di Cormac del XII secolo,
il più antico esempio esistente di chiesa romanica in Irlanda. Questa cittadella
trasmette un forte senso di decadenza, di rovina, mi ricorda alcune scenografie del
Signore degli Anelli, con neri e grossi corvi che gracchiano sulle alte mura ricoperte
di muschio, e magari ci sono pure spaventosi e feroci ghoul pronti a saltar fuori dalle
cripte per divorarti. È tardi e dobbiamo correre al prossimo B&B dove passare la
notte, situato secondo programma nella fantastica baia di Bantry, sulla costa
occidentale.
Un viaggio simile ha un grosso difetto. Una settimana è troppo poco. La maggior
parte del tempo la si passa in macchina, guardando tutto dal finestrino, come un
documentario in televisione. Viene costantemente voglia di scendere, di fermarsi; una
villa in stile vittoriano di una tinta azzurro pastello, un gregge di pecore che pascola
beato in mezzo ad un prato verde smeraldo, un torrione diroccato, sterminate aree
verdi, ancora pecore, un laghetto che pare abitato da fate, un piccolo borgo con tre
ragazze sedute su una panchina; la strada è stretta con ai lati un muro di verde che
pare di correre lungo un corridoio, colline, valli, case azzurre e arancio disperse nel
verde, finalmente l’oceano. L’orizzonte è velato dalla nebbia che fa da collante tra
l’acqua marina e il cielo, entrambi dello stesso colore plumbeo.
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All’imbrunire ci accoglie a Glengarriff, caratteristico paese che dà sulla baia, una
gentilissima signora di mezz’età nel suo B&B. Questa sera si mangia salmone!
Se l’Irlanda è verde, la zona di Bantry ancora di più. Infatti qui grazie alla tiepida
corrente del Golfo si crea un microclima costante che permette la fioritura di
numerose piante, luogo ideale per un botanico. Famosi sono i giardini della Bantry
House, villa settecentesca un tempo proprietà della nobile famiglia White.
Il giorno dopo costeggiamo le penisole del sud-ovest, quella di Beara e quella di
Dingle. Nella prima penisola ci scorta la nebbia che con la sua tonalità plumbea
confonde e lega cielo e oceano. Da questo grigiore spuntano neri costoni di roccia
dalle cui sommità partono e si estendono vaste praterie verde smeraldo che si
impennano in colline inghiottite dalla spettrale bruma.
A Dingle c’è il sole. Il cielo di turchese è macchiato da cumuli di nuvole grigio perla.
L’oceano più scuro si infrange contro imperiose rocce con un candido schiumare.
L’erba di un verde acceso si mescola a sfumature fulve e ricopre come un manto il
dorso della terra. Le spiagge sono rare ma ci sono. E con loro pure i bagnanti. La
sabbia è fresca, l’acqua ricorda i gelati torrenti di montagna. Mi pulsano i piedi
immersi nell’oceano schiumante. Il sole si copre. È il 15 agosto. Non ci penso
nemmeno a provare a fare il bagno!
Il giorno dopo attraversiamo il fiume più lungo e importante d’Irlanda, lo Shannon
(320Km, la metà del Po), ed entriamo nella contea di Clare. Le coste del Clare
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nascondono panorami epici come le scogliere di Moher, che si ergono fino a 214
metri dall’oceano, ora completamente recintate con una targa che ricorda le numerose
persone che accidentalmente o volontariamente sono volate giù. Più a nord, nei pressi
del villaggio di Doolin, la nera roccia scende al livello del mare. Vortici, risacche,
flussi e riflussi generano nell’oceano una schiuma densa e color panna molto simile a
quella presente nella Guinnes. L’oceano è mosso e al contrario delle scogliere di
Moher, troppo lontane dall’acqua, qui vedo e sento tutta la sua forza; numerosi
cavalloni panciuti si infrangono sulla frastagliata costa generando altissimi e maestosi
spruzzi simili a geyser. Pare di essere nel mezzo di un fronte di guerra tra il fluttuante
oceano e la coriacea terra.
La settimana precipita, come ultima notte cerchiamo una località dell’entroterra non
troppo distante da Dublino. Athlone fa al caso nostro. È posta sulle rive dello
Shannon, a pochi chilometri dal lago Ree.
Il giorno dopo si parte per tornare dove tutto è cominciato, si ritorna nel caos di
Dublino, per poi rifugiarsi in aeroporto, luogo artificiale, asettico, brulicante di
persone annoiate e ansimanti. Tutte le storie, i colori, i suoni e gli odori d’Irlanda
sono ormai nel mio passato. Provo la stessa sensazione di quando al risveglio ricordo
il sogno appena fatto.
Una settimana è poco…, era meglio due…, ma il costo non è indifferente…, ci
ritorneremo… Sì le solite frasi e intanto il volo, in un cielo di brace ci riporta a casa.
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