Redazionale Incontro un giorno un mio amico, iniziamo a parlare. Lui, il passato, non lo vuole proprio sentire nominare. Riprendere le tradizioni, gli usi, i costumi e ripercorrere il modo di vivere nei nostri nonni, quello che hanno fatto è, secondo lui, un oltraggio al nostro presente e al nostro futuro. Il suo ragionamento, mentre parlava, da alcuni punti di vista non faceva una piega: il presente, così confuso e contraddittorio, dice lui, ha bisogno di tutto il nostro sostegno per essere vissuto. No? Quel giorno stesso, forse per uno strano scherzo del destino, incontro per strada una conoscente che, desiderosa di sfogarsi con qualcuno (chissà da quanto tempo non lo faceva), ha iniziato a farmi dono dei suoi racconti intercalando, ogni dieci minuti, la frase: “eh, fija mia..stine meju quando stine pesciu”; avvertivo come la sensazione che la signora avesse tanto bisogno di parlare e rievocare il passato per demonizzare il tempo presente. Se da un lato i suoi racconti affascinanti e contorti avevano attirato la mia attenzione, dall’altro il mio presente (l’appuntamento? Ma che ora è??? Mamma mia, sono in ritardo!!) tardava ad arrivare. Il giorno dopo, forse un mercoledì, controllo la mia posta elettronica ed eccolo lì il tanto atteso articolo di Valeria per nuovAlba: un meraviglioso viaggio sulla storia della “scrittura” che parte dal 1800 passando per un presente ormai già troppo passato. Ho subito pensato che questo era un altro segno: se una giovane ragazza ha sentito la necessità di confrontarsi con il passato a tal punto da scriverlo, il tutto condito con una certa sobrietà e naturalezza, qualcosa voleva sicuramente significare. Il mio pensiero, piano piano, iniziava a prendere forma. Qualche giorno dopo è arrivato l’articolo di Antonio a chiarirmi quasi definitivamente le idee: ma qualcuno si è ricordato che il 15 Settembre 1888 è ricorso l’anniversario della fondazione della Banca Popolare di Parabita? Inizio a leggere con un certo interesse: Salvatore Laterza consigliere. Penso: sarà un mio lontano (molto lontano) parente? Una strana voglia di “canoscenza” mi spinge a rinchiudermi nel mio studio: luce soffusa e silenzio disarmante a sfogliare un libro desideroso di essere letto. Ancora il passato che ritorna: ma che sta succedendo, mi chiedo? È venerdì: in televisione danno un programma carino che si chiama “I Migliori Anni” presentato da Carlo Conti. Il programma finisce: il conduttore legge dei messaggini che i telespettatori hanno inviato durante 1 la trasmissione; tutti devono iniziare con l’espressione “Noi che…”. Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano quando il piede cresceva… Noi che il motorino “Ciao” si accendeva pedalando… Noi che giocavamo a nomi, cose, animali, città… (e la città con la D era sempre Domodossola)… Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l'album Panini… Noi che le cassette se le mangiava il mangianastri, e ci toccava riavvolgere il nastro con la bic… Noi che guardavamo “La casa nella prateria” anche se metteva tristezza... Noi che ci emozionavamo per un bacio su una guancia… Noi che si andava in cabina a telefonare… Noi che c'era la Polaroid e aspettavi che si vedesse la foto... Noi che se guardavamo tutto il film delle 20:30 eravamo andati a dormire tardissimo... Noi che quando a scuola c'era l'ora di ginnastica partivamo da casa in tuta… Noi che se a scuola la maestra ti dava un ceffone, la mamma te ne dava due! Noi che se a scuola la maestra ti metteva una nota sul diario, a casa era il terrore! Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca, mica su Google! Noi che il “Disastro di Cernobyl” voleva dire che non potevamo bere il latte la mattina... Noi che si poteva star fuori in bici il pomeriggio… Noi che sapevamo che ormai era pronta la cena perché c'era Happy Days… Noi che se la notte ti svegliavi e accendevi la tv vedevi il segnale di interruzione delle trasmissioni con quel rumore fastidioso... Noi che avere un genitore divorziato era impossibile… Noi che non era Natale se alla tv non vedevamo la pubblicità della Coca Cola con l'albero… Ora il mio pensiero è nitido e, sinceramente, inizio ad avere un pò di paura: ho 27 anni e mi ritrovo ad avere già nostalgia di quello che succedeva pochissimi anni fa… Mio Dio!! Ma quanto stiamo andando “veloci” e soprattutto dove stiamo andando? È Natale e molte famiglie a causa della “velocità” non saranno al completo quest’anno: un pensiero va a loro e a tutti coloro che hanno ancora tempo per vivere. Prendiamocelo tutto, apriamo la vita al nostro futuro, ma ogni tanto voltiamoci indietro per capire che il nostro passato, così com’era, non era poi così male. Serena Laterza Buon Natale a tutti voi da parte della Redazione di nuovAlba. nuovalba 12/2008 2 Poesia Natale 2008 a Parabita di Aldo de Bernart a fra Francesco La Vecchia OP rettore Basilica Maria SS. della Coltura - Parabita Un tocco alla porta un bambino sul limitare di un vecchio casolare sulla serra te Santu Latteri, dove ieri un'ipogea abbazia basiliana, oggi caverna abbandonata senza una data se non quella tramandata del XII secolo. Fantastico, il ricordo di un presepe di tronchi di pino con un Gesù Bambino di terracotta delle fornaci delle monache di S. Anastasia di Matino, che con i monaci di S. Eleuterio di Parabita avevano buon convicinato tanto ca lu ciucciu te S. Nastasìa caricu scia (di acqua) e caricu vania (di legna). Entra, bambino. Chi sei? E da dove vieni? Sei troppo infreddolito. Riscaldati vicino al focolare per pregare nella notte Santa. Hai fame? E' buono il pane condito con l'odore dell'olio della lampada. Sono povera. Non ho altro. Solo tanto amore. Guarda le luci sotto al paese. Sembra proprio un presepe, Parabita. Quanta luce in questo casolare! Ma tu chi sei? - Gesù Bambino 2008-. Dicembre, oltre ad essere un mese scandito dalle Feste Natalizie, è il mese in cui tutti fanno un bilancio delle attività svolte negli ultimi 12 mesi. Anche nel 2008 l’Associazione Culturale Progetto Parabita si è data tanto da fare per promuovere il territorio, valorizzando quelle che sono le risorse intrinseche del nostro paese. Con il libro “Traini te maravije. Misteri te culori te tanti jaggi” abbiamo voluto rendere omaggio ai tanti anni di lavoro e dedizione del prof. Giuseppe Greco, artista e poeta nostro compaesano. Una raccolta di poesie e dipinti che, il 5 luglio scorso nell’atrio del castello, ha attirato tantissima gente da tutto il Salento. Un altro libro che sicuramente affascinerà è “La musica celata” dello scrittore Pierpaolo Pala, che sarà illustrato il giorno 20 dicembre all’interno della Basilica di Maria SS. della Coltura. Un’emozionante descrizione di come l’autore sia riuscito a scovare una musica (e non solo) all’interno del Cenacolo di Leonardo da Vinci. La nostra Associazione non si è dedicata solo ai libri e alla rivista nuovAlba, quadrimestrale che ormai conoscete bene da un po’ di anni, ma anche all’organizzazione di momenti di condivisione e spensieratezza all’interno della stessa Associazione. La gita a Taranto e Grottaglie nella scorsa primavera, è stato un modo per conoscere nuovi luoghi, conoscersi meglio con gli altri associati e anche divertirsi. Contiamo anche per il 2009 di presentare tante altre interessanti novità, come ad esempio la prima Guida Turistica di Parabita. Un lavoro che siamo già entusiasti di proporre, oltre che per la quantità delle informazioni che forniremo al turista, anche per la condivisione e la collaborazione del progetto con altre realtà associative di Parabita: Pro Loco, Emergenze Sud-Presidi del libro e A.Do.Vo.S. Questo e tanto altro ha in serbo l’Associazione Progetto Parabita. Infine, colgo l’occasione per ringraziare il consiglio direttivo, la redazione di nuovAlba, i soci e tutte le persone che ci sono vicine. A Voi tutti, UN SERENO NATALE E UN FELICE 2008! Il Presidente AlessandroTornesello nuovalba 12/2008 Presepi 3 Il presepe dei Borboni e i costumi popolari del Regno di Napoli nel Settecento L’ allestimento dei presepi a Napoli è un’usanza, forse, pre-borbonica, però sta di fatto che fu Carlo III ad introdurre nella Capitale del suo regno la moda del presepe come teatro-diorama del vissuto festoso del ventre della città. Un diorama in cui ogni tratto della fisionomica trovò espressione, ora estasiata e sempliciotta, ora furbesca e maliziosa, in questo o quel personaggio che si “festinava” a far visita al Divin Neonato per recargli qualche dono o per sollazzarlo con zampogne e pifferi o con clownesche macchette, un’arte, questa, in cui ogni napoletano è tuttora un artista. La scenografia del presepe in ogni chiesa, grande o piccola, e, soprattutto, nelle case private, fossero sontuose dimore gentilizie, o abitazioni più modeste, divenne un fatto di costume di tal portata, che non poche famiglie si indebitavano pur di poter ostentare uno status symbol di prestigio attraverso la maestosità dello scoglio (la struttura paesaggistica), la ricercatezza nella ricostruzione delle rovine classiche, la raffinatezza e il realismo dei tratti somatici dei personaggi – capolavori del Celebrano, del Sammartino e dei loro allievi – la preziosità delle sete e delle passamanerie di San Leucio, nonché dei complementi preziosi, vere miniature dell’arte orafa partenopea. Il Perrone ci presenta il presepe della Reggia: “… e Carlo III lo faceva costruire sotto i suoi occhi, ed aggiustava perfino qualche pezzo di sasso di proprio pugno. Tutti gli oggetti di che formavasi quel Presepe, cioè pastori, animali e finimenti furono conservati nella Reggia di Caserta fino al 1840. Verso detta epoca Re Ferdinando II in occasione dell’apertura della linea ferroviaria Napoli-Caserta ordinò che si fosse ricostruito l’antico Presepe di casa Reale, onde attirare molta gente. Per vieppiù arricchirlo fece compra di altri pastori ed animali presso scultori ed antiquari della Città…Dimesso detto presepe, vennero riposti tutti i pastori, animali ed altro, dentro scaffali nel detto palazzo e vi restarono fino al 1879, nel quale anno i migliori oggetti furono…trasportati nel Real Palazzo di Capodimonte, ove attualmente si osservano situati entro scaffali a lastre”. A. Perrone, Il Presepe a Napoli, (riedizione di un opuscolo del 1896 a cura di Alessandro Laporta, con introduzione di Franco Mancini), Lecce, Argo, 1994; p.21. Salito al trono Ferdinando IV, figlio di Carlo, l’idea di presepe che il nuovo re forse ebbe, non era più tanto la limitata ricostruzione plastica della scena della Natività, quanto la “presepizzazione” di una vasta area naturale, grande quanto un regno, il Regno di Napoli. Amante, come era, della spettacolarizzazione di ogni evento, al quale, sempre, dava un taglio particolarmente “napoletanesco”, immaginò – è una mia suggestiva supposizione! – tutto un presepe, dalla Sicilia fino ai limiti con lo Stato Pontificio. Un presepe in cui la dimora della famiglia di Nazareth coincidesse con la di Enzo Pagliara Reggia di Napoli e la Sacra Famiglia si identificasse con la Famiglia Reale, non tanto per una sua particolare esigenza devota, quanto per una sorta di autocelebrazione su un Reame tra i più fastosi del Settecento europeo, almeno nella façade. Egli pensò come personaggi di quel presepe tutti i regnicoli, con le loro fogge tipiche del giorno della festa: nasceva così il progetto di catalogare “li vestimenta” delle città, dei paesi e delle contrade del Regno. Un progetto ambizioso, faraonico si potrebbe dire, stanti tutte le difficoltà legate alla scarsezza di strade comode o comunque carrozzabili, malsicure per le minacce dei briganti, impraticabili in alcuni periodi dell’anno a causa delle intemperie. Eppure i pittori costumisti Alessandro d’Anna e Xavier della Gatta prima, e Antonio Berotti Stefano Santucci, poi, non volendo deludere il loro Sovrano, intrapresero quel viaggio irto di incognite. L’impresa durò dal 1783 al 1797 circa: non si sa con precisione quanti luoghi visitarono e quante realtà ritrassero, e non si sa nemmeno se il progetto prevedeva la catalogazione di tutti i paesi o solo di quelli che avevano fogge particolari. Sta di fatto che per il Salento leccese Cfr. AA.VV., Il Costume Popolare Pugliese, modi di vestire, Galatina, Congedo Editore, 2001. E, inoltre. AA.VV., Il Costume Popolare Pugliese ai tempi dei Borbone, Galatina, Congedo Editore, 2001, (in Biblioteca Comunale di Tuglie), ad esempio, non tutti i paesi ebbero il privilegio della dedica di una gouache e per il nostro territorio oltre a Gallipoli, cui vennero dedicati degli acquerelli vivacemente variopinti, i soli paesi del suo entroterra ad essere illustrati furono Matino e Tuglie, con costumi sia maschili che femminili, ma con sole immagini bicolori, forse perché le fogge non erano particolarmente vistose dal punto di vista cromatico. Da quella stagione così ricca di immagini popolari i cartapestai e i pupari salentini presero spunto per dare un’impronta realista ad una tradizione che tuttora continua, apprezzata soprattutto dai cultori dell’arte presepiale, che amano i manufatti artigianali, talvolta imprecisi o con qualche difetto, anziché i dozzinali prodotti “stampati”con tratti più da fumetto che ad “immagine e somiglianza” dell’uomo di argilla al quale Dio soffiò l’alito di vita, come la Bibbia racconta sulla storia dell’umanità. nuovalba 12/2008 4 Personaggi P. Serafino da Parabita e la sua famiglia di Ortensio Seclì a p. Tommaso Leopizzi E’ senza dubbio un personaggio straordinario P. Serafino da Parabita del quale, fortunatamente, il paese natale ricorda la fama con l’avergli intitolato una via: non una strada di periferia, nascosta alla quasi totalità degli abitanti, ma una di quelle arterie che un tempo era il cuore pulsante della comunità parabitana, una strada sulla quale si sviluppava il commercio e avveniva il flusso dei devoti visto che metteva in comunicazione quella che era la più antica chiesa di Parabita, S. Giovanni Battista, con S. Maria dell’Umiltà che, se non proprio coeva alla prima, di poco ad essa più giovane. Strada che al tempo in cui il nostro nasceva era indicata alternativamente della Piazza o del Convento (dei Domenicani). Molti si sono spesso chiesto chi era padre Serafino da Parabita, e che cosa rappresentava per il paese da meritarsi un posto di primo piano nella toponomastica stradale del luogo. Ora, finalmente, le nebbie che hanno da sempre avvolto il personaggio e la sua famiglia si sono diradate alla lettura di un atto di battesimo avvenuto a Gallipoli il 14 marzo 1710: “Nell’anno del Sig.re mille settecento e diece a di quattordici marzo il P.re Provinciale frà Serafino Valiano da Parabita Riformato, con licenza del Prereverendis.mo S. Vicario, ha battezzato uno figliuolo nato à di tredeci d. dal sig. Enrigo Rocci di Gallipoli, e da Livia Boncore di d.ta Città allo quale gli fu posto nome Gaetano, Giacom’Ant.o, Pascali Urbano, il com.re fu il Magnifico Francesco Rocci di Gallipoli hodierno Sindico di questa Città, e la comare fu D.na Camilla d’Amore marchesa di Uggento, in persona di Veneranda Musurù di Gallipoli.” Aveva aperto gli occhi quindi il 13 novembre 1656 Parabita, Palazzo De Ramis nuovalba 12/2008 in seno alla famiglia del notaio Antonio Valiano (Barbarano 1623 c. - Gallipoli 27.3.1688) il quale, dal Capo di Leuca, si era portato a Parabita dove aveva sposato Livia De Ramis di antica e nobile famiglia dalle origini spagnole. Quarto di sei figli, fu battezzato con il nome di Martino Biagio e crebbe in seno ad una famiglia religiosissima la cui fede è testimoniata dal quattrocentesco fregio prospicente il balcone della dimora avita, raffigurante la deposizione al sepolcro del Cristo morto sorretto dagli angeli, e l’Annunciazione, casa in cui verosimilmente nacque o dove, comunque, crebbe nutrendosi di quel clima fatto di profonda spiritualità. La famiglia De Ramis era, infatti, assidua frequentatrice delle funzioni religiose che avvenivano nella chiesa dell’Immacolata, considerata dai parabitani “chiesa dei nobili”, dove preferiva che si celebrassero i matrimoni dei propri familiari. Nel 1669 i Valiano emigrarono a Gallipoli dove il padre continuò a fare il notaio e dove i figli si istruirono: Silvestro (Parabita 22.1.1647 - Gallipoli 8.4.1709) fu sacerdote, mentre l’altro fratello Giuseppe Donato (Parabita 19.3.1651 - Gallipoli 18.1.1710) fu dottor fisico. Il desiderio che provava di servire Cristo spinse Martino Biagio a vestire l’abito francescano e assumere il nome di Serafino, e fu un “santo monaco” come lo ebbero a definire i suoi contemporanei. Dal 1700 al 1705 fu custode e guardiano del convento di Gallipoli, ma ciò non gli impedì di recarsi periodicamente a Roma dove, per un sessennio, ricoprì l’incarico di segretario generale della Serafica Riforma. La stima che si guadagnò dai superiori fece sì che fosse incaricato di visitare la Provincia francescana di Genova e successivamente quella delle Marche, dove rimase due anni fortificando la sua fede in preghiera sulla tomba del suo conterraneo S. Giuseppe da Copertino. Il 9 febbraio 1708, nel Capitolo che si tenne nella Casa di S. Antonio a Taranto, fu elevato alla carica di Provinciale per il triennio 1708-1711 ma dimorò quasi in pianta stabile nel Convento di S. Francesco d’Assisi di Gallipoli dove operò un ampliamento dell’edificio innalzando nuovi locali e arricchendolo di affreschi claustrali tanto lodati da Personaggi Padre Bonaventura Quarta da Lama che ebbe a qualificarli “una divotissima Galleria”. E’ per opera sua che la chiesa fu arricchita di numerose opere d’arte e il Convento fu dotato di una grande sala biblioteca nella quale sistemò non solo il patrimonio librario già esistente, ma anche la sua libreria privata comprendente volumi di casa De Ramis e Romanelli, famiglie parabitane con le quali era imparentato. Dotato di spiccata intelligenza capì i tempi e seppe prevedere e accettare i cambiamenti che il Settecento imponeva prepotentemente con il progresso tecnologico. Seppe perciò risolvere, in maniera egregia, il delicato problema della “lana gentile” che aveva fatto originare non poche controversie tra i frati. Parabita, Chiesa del Crocifisso: Albero raffigurante la totalità dei santi e delle monache dell’Ordine Francescano “Epilogus totius Ordinis Seraphici patri Francisc”. Appunto il progresso tecnologico aveva portato a produrre, grazie a telai più moderni, un tessuto più fine che ben si prestava a confezionare tonache più leggere, il che aveva portato alcuni frati ad abbandonare le tonache confezionate con lana “cordellata”, ruvida e più “vile”, prodotta dai telai degli stessi conventi, facendo gridare allo scandalo i frati tradizionalisti che vedevano compromesso il voto di povertà che tanto caratterizzava l’Ordine dei Minori Riformati. La querelle si trascinava già da tempo ed era tanto veemente che P. Bonaventura Capodiferro da Gioia del Colle, eletto provinciale nel 1706, l’anno successivo, non volendo partecipare alla polemica e non sapendo come risolvere il problema, rinunciò all’incarico. Si giunse a coinvolgere la Sacra Congregazione dei vescovi e lo stesso Pontefice Clemente XI, per cui si ottenne un drastico decreto: “sotto pena di scomunica” fu ordinato che i frati “sia di giorno che di notte, indossassero abiti, cappucci e mantelli lavorati nei telai conventuali”. Ancora una volta, gli oltranzisti difensori della 5 tradizione, per nulla propensi ad accettare le novità del progresso, avevano avuto la meglio e il biennio che seguì con il provincialato di P. Antonio Trammizzi da Matera fu caratterizzato da una calma apparente; ma la crisi economica che imperversava all’epoca, e la carestia che si faceva sentire in tutta Europa, spinse, nel 1710, P. Serafino, all’epoca ministro della Provincia di S. Nicolò di Puglia, a fare richiesta al re di Spagna Carlo III di “una limosina di 30 cantare l’anno” di stoffa per l’uso dei frati. Ottenuto ciò, inoltrò richiesta al vicecommissario generale per poter accettare tale dono, motivando che sarebbe stato disdicevole rinunciarvi in quanto sarebbe tornato “a discapito indicibile dei poveri Conventi”. Oltretutto era risaputo che, a causa della crisi economica, non si potevano far funzionare in maniera efficiente gli opifici tessili della provincia francescana. Inoltre Padre Serafino era convinto che l’introduzione dell’uso della lana gentile non avrebbe leso il principio di povertà francescana per cui si adoperò con tutte le energie a rivoluzionare il saio del suo Ordine, cosa che gli riuscì “con suo grand’onore e fatica” e, dopo alterne vicende, finalmente, nel 1720 si ebbe il trionfo del buon senso con la conferma dell’uso del “vestimento gentile” perché “conforme allo spirito di povertà”. Un altro aspetto caratterizzante la dimensione della sua spiritualità è la devozione all’Immacolata che, se per i frati Minori Riformati era una normalità, per Padre Serafino era una particolarità straordinaria. Egli, nella sua fanciullezza aveva partecipato con assiduità alle funzioni religiose che si tenevano nella chiesa della Beatissimae Virginis Mariae Sine Labe Concettae di Parabita ed è da credere che sia stato proprio ciò a fargli scegliere l’abito francescano e non quello domenicano visto che a Parabita erano presenti unicamente i Padri Predicatori che tanta stima godevano tra la popolazione. Una volta a Gallipoli prese a cuore lo sviluppo e l’affermazione della Confraternita dell’Immacolata della quale fu rettore, promuovendo al contempo la realizzazione della Statua dell’Immacolata “con tutto il lavoro d’intorno”. Assidua frequentatrice delle varie funzioni religiose che si tenevano dai frati fu sua sorella Anna Maria che, nata a Parabita il 7 novembre 1664, visse come monaca bizoca in Gallipoli dove, assistita spiritualmente da fra’ Bonaventura da Gallipoli, morì il 13 gennaio 1704. Negli ultimi anni padre Serafino, oltre a ricoprire la carica di custode, fu lettore emerito e morì nel Convento di Gallipoli il 15 dicembre 1726. Il 13 aprile successivo, in Nardò, nella chiesa di S. Antonio da Padova, i frati riformati diedero inizio alla celebrazione di cento messe in suo suffragio. BIBLIOGRAFIA E.Pindinelli: Francescani a Gallipoli - Dal restauro alla memoria, Corsano, Alezio, 2005. Fra Bonaventura Quarta da Lama: Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò, Chiriatti, Lecce, 1724. Benigno F. Perrone: Storia della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia, Biemme, Bari,1982. nuovalba 12/2008 6 Contributi La donna del monumento di Luigi Scorrano N on c’è luogo d’Italia in cui non sorga un monumento, grande o piccolo, brutto o bello o, almeno, passabile che ricordi i caduti delle due guerre mondiali. Della prima in particolare, quella che per la sua immanità fu detta “la grande guerra” quando non s’immaginava il peggio che sarebbe venuto poi. Commissionati ad artisti illustri o a mestieranti della scultura, i monumenti hanno tutti una loro storia che sarebbe interessante ricostruire: per alcuni questo lavoro è stato fatto e per un riferimento d’area (della nostra area voglio dire) basterà ricordare il bel lavoro, documentatissimo, di Luigi Marrella (L. Marrella, I percorsi della Vittoria. Casarano, uno scultore, un monumento, Barbieri, Manduria, 1997). A volte il monumento è un semplice cippo recante un’iscrizione, a volte l’iscrizione completa ciò che il monumento, per mezzo di altri elementi (statue, simboli vari) intende significare. Con le iscrizioni bisogna procedere avvedutamente, affinché l’entusiasmo non detti una sorta di istigazione a qualche azione poco commendevole. Tristano Bolelli, che tenne cattedra di Storia della lingua italiana, ha narrato in proposito, in un suo libro (T. Bolelli, Parole in piazza, Longanesi & C., Milano, 1984, p. 77), un gustoso aneddoto: «A Calci, vicino a Pisa, figurò (non so se sia stata modificata) la breve ma significativa scritta sul monumento ai soldati vittime della Guerra 1915-1918: “Calci ai Caduti”». I monumenti vengono interpretati nelle loro figure: talvolta l’immagine è quella di un soldato ferito a morte che si accascia al suolo, sorretto da una figura simbolica (la patria); talvolta il senso del manufatto celebrativo è riassunto nella presenza di figure muliebri rappresentanti preferibilmente la Vittoria o l’Italia. Non sembra che vi siano molte deroghe a questa sorta di rappresentazioni obbligate. Anche Tuglie ha il suo monumento ai Caduti, opera di un insigne scultore ruffanese operante tra la fine dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento, Antonio Bortone (1884 – 1938), autore di altri monumenti di identico tema, affini anche nell’impianto architettonico: quelli di Ruffano (1924) e di Calimera (1927). A proposito di quello di Tuglie, Ilderosa Laudisa osservava: «In quello di Tuglie [monumento] ripropose in modo quasi perfettamente identico la figura allegorica del monumento al Capponi; ciò fa ritenere che dovette prendere il calco, che portò con sé a Lecce» (I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Pro Loco Ruffano [a c. di], Antonio Bortone (Ruffano 1844 – Lecce 1938), Conte, Lecce, 1988, p. 29). L’ipotesi della studiosa è che il modello della figura di donna, utilizzato a Firenze per la statua al marchese Gino Capponi, fosse stato riutilizzato per la figura muliebre del monumento tugliese. Per pronunciata che possa esserne la somiglianza, un elemento differenziante non poteva non costituire un tratto importante sia per l’individuazione della figura sia per l’interpretazione di essa. Infatti: chi è la donna del monumento ai Caduti di Tuglie? A un’osservazione veloce, e un po’ distratta, dato l’argomento, la donna che depone la corona d’alloro su un ripiano marmoreo della costruzione fa pensare all’Italia (personificata) che rende omaggio ai suoi figli tugliesi caduti per difenderla. La solennità della posa, la serenità che emana dalla figura composta (sia pure secondo collaudati canoni accademici), il gesto lento e faticoso con il quale la corona viene deposta porta quasi spontaneamente ad individuare nella donna un’immagine della patria. Ma si osservi meglio un particolare decisivo: la corona che cinge la testa della donna e ciò che in essa vi è raffigurato. I particolari hanno la loro importanza, e non vanno trascurati. Se l’immagine fosse quella dell’Italia, avremmo una corona turrita, come nelle convenzionali rappresentazioni che conosciamo. Questo manca. La corona ha l’aria d’un manufatto semplice ed elegante: non una corona di torri che dica dominio e forza, ma una semplice corona quale si addice all’immagine solenne della persona allegorica rappresentata. Tuglie, Monumento ai Caduti del Bortone nuovalba 12/2008 Contributi Il particolare decisivo occorre andarlo a cercare nella decorazione che si trova nella parte centrale della corona (foto di Massimo Melica). Al centro della faccia della corona non c’è, ad esempio, lo stemma sabaudo come ci si aspetterebbe in una statua raffigurante l’Italia (l’Italia ancora guidata dai Savoia). C’è, invece, lo stemma civico di Tuglie: immagine riconoscibilissima che si può riscontrare con quella che orna la torre civica o, più recente, quella che troneggia in una stanza del Comune. Non si può mettere in dubbio che ciò che è rappresentato nella corona della donna è lo stemma civico di Tuglie. Questo nega la possibilità di individuare con l’Italia la figura femminile del monumento. Chi è, dunque, questa donna? La risposta è semplice e non può che essere quella: è l’allegoria del paese o, meglio, della comunità tugliese che rende un doloroso, benché composto, omaggio ai suoi cittadini caduti sui campi di battaglia. Che cosa indusse Antonio Bortone a riprodurre nella corona della donna lo stemma del paese al quale era destinato il monumento? Fu un’intuizione dell’artista o un suggerimento della committenza? Come che siano andate le cose, la soluzione data dall’artista al suo lavoro appare originale e ricca di significato. Era l’umile comunità 7 locale, benché travestita dall’artista in vesti e panneggi classicheggianti, a presentarsi – per così dire – all’altare (i teatri di guerra) dove si era consumato il sacrificio di tante giovani vite. Nell’atteggiamento della donna c’è un composto dolore, una rassegnata presa d’atto di quelli che sono i risultati dei conflitti. Una rassegnazione sottolineata dal gesto molle e stanco col quale la corona d’alloro viene deposta sul monumento. Non ci sono i trionfalismi così ovvii in tanti altri monumenti. Per la sua Ruffano l’artista aveva scolpito una Vittoria alata, una figura che sembrava additare una ricchezza d’avvenire. I due monumenti, quello di Tuglie e quello di Ruffano, sono dello stesso anno (1924). Anche questa coincidenza può essere letta al di là d’un fatto casuale. Nello stesso anno l’artista proponeva a due comunità cittadine lo stesso tema (l’omaggio ai Caduti) declinandolo in modalità opposte, ma entrambe vere e necessarie: la compostezza del dolore come invito, sì, a non dimenticare ma anche come suggerimento a porre fine ai lutti delle nazioni e delle patrie (fosse, quello deposto, l’alloro ultimo!) ma anche a guardare fiduciosamente al futuro come guardava l’alata fanciulla del monumento di Ruffano, la Vittoria giovane e balzante che scrutava fiduciosa l’avvenire. Editoria Di Parabita e di Parabitani …è il titolo che Paolo Vincenti, ruffanese di nascita e parabitano di elezione, storico collaboratore di nuovAlba, fine conoscitore della storia e della cultura della nostra città e del Salento, ha dato alla sua raccolta –edita da Il Laboratorio per la collana di studi e ricerche “La Meridiana”- di scritti su Parabita e sui parabitani, da lui pubblicati dal 2003 ad oggi sui numerosi giornali e riviste salentine (compresa nuovAlba). La raccolta tocca molti punti salienti della nostra cultura, da noi tanto gelosamente custodita ma golosamente e generosamente studiata ed approfondita dal Vincenti come da tanti altri studiosi non parabitani. E’ particolarmente coinvolgente l’introduzione, curata dallo stesso autore, che tocca in poche righe tutto il territorio parabitano ed i suoi cittadini tra i più illustri (escluso il sottoscritto, immeritatamente inserito tra di essi). Paolo Vincenti, insieme a tanti altri nostri cultori (per citarne alcuni, già riportati nel libro: Ortensio Seclì, Mario Cala, Aldo de Bernart, Aldo D’antico) può essere considerato a buona ragione un appassionato cantore della nostra storia e delle più alte pagine della cultura parabitana. G.P. nuovalba 12/2008 8 Emozioni Quella valigia blu dalla fodera bianca di Alessandro Cavalera Q uasi che il tempo si fosse fermato lì, in quel gradito trofeo di una, l’ennesima, raccoltapunti. Giorni fa l’ho tirata fuori, dopo anni, quella valigia blu, dalla fodera bianca, capiente più delle apparenze, che per prima mi aveva accompagnato nei primi passi della mia “nuova vita romana”. Il motivo della nostra prematura separazione aveva trovato idoneo addebito nel suo carente equilibrio in moto, e questo mi costringeva, nei continui spostamenti, a tragicomici slalom ed improbi giochi di forze, che rendevano ancor più gravosi i lunghi trasbordi peninsulari. Pesava, quella valigia, ben oltre il previsto, e seguiva le sue indomabili tangenti, zeppa com’era di sogni, timori ed aspirazioni, oltre che lenzuola, maglie e qualche foto custodita con maniacale cura. Quattro anni dopo, anche qualcosa in più, un nuovo viaggio insieme , quasi a segnare, così per caso, un nuovo inizio, o la fine di un primo, indimenticabile, percorso. Quattro anni vissuti densamente, intensamente, quasi che al tempo si dovesse chiedere pazienza durante il giorno, per poter graffiare ancora un po’ di luce, di suono, di colore, e nelle ore notturne indomabile fretta. Una vita fa, eppure sembra ieri, ed è oggi, a rincorrere, sperare, e lasciarsi trasportare da disegni, insegne, segnali. E stare lì, con gli occhi ed i pensieri persi nel nulla, specchiandosi senza volerlo nel vetro appannato di un autobus, rigato dalla pioggia d’autunno e irradiato da fari alogeni, freddi e profondi quanto basta per essere odiati. E domandarsi perché qui, perché ancora, perché non altro od altrove, e se è questa la vita che si vuole, carica di emozioni ma latente, latitante di sincere vibrazioni. Dove sta scritto che il proprio futuro debba proprio passare dal dover per forza rinunciare a qualcuno, qualcosa, godendo di facili illusioni? Una vita fuorisede, e già la parola di per sé, a pensarci bene, suona avulsa da uno stato di razionale stabilità. F U O R I S E D E. Mah! E allora, quale futuro? Ma, soprattutto: dove? Dove raggiungere il giusto equilibrio, abbattere la contraddizione di uno stato stazionario instabile? Le prospettive di noi giovani salentini sparsi per lo stivale (e non solo) sembrano inseguire un punto di non ritorno, quasi che una nuova diaspora debba essere sopportata ad ogni costo; quasi che non bastassero le innumerevoli, passate navigazioni verso lidi lontani di flotte di braccia, sguardi, sorrisi, cicatrici ad espiare l’unica colpa, o forse il privilegio, di essere nati in un lembo di terra maledetto, selvaggio eppure tanto incantatore… Il desiderio di tornare divampa nelle membra, e divora ogni istante di più le interiora, perché viscerale, nuovalba 12/2008 sanguigno, come la radice dell’ulivo che, subdola, sommessa e devastante, sconquassa le zolle crepate de terra russa. Tornare, per distruggere dal di dentro quello stato di epicurea atarassia, perché il segreto della felicità non risieda nel distacco da qualunque coinvolgimento troppo intenso o vincolante, ma piuttosto germogli dalla passione smodata per la propria realtà, nella quale riversare ogni ambizione, sogno, prospettiva. Sognare di essere, nel proprio piccolo, fermento vivo di una terra che non ha nulla da invidiare per storia, cultura, tradizioni, ma ch’è restia, volente, a straripare nel futuro, convinta com’è della propria intatta bellezza. Tornare, umilmente pretendendo che ci siano le condizioni per affermare la propria unicità, puntando in punta di piedi i piedi davanti ad un archetipo per cui è un dovere piegarsi ed adeguarsi all’ignoranza, all’abuso, allo scempio, ed incanalarsi nella stessa carrara. Tornare, propositivi e sognatori, scavando nel cuore dei dilemmi, trovandone le soluzioni. E se la speranza è sempre la stessa, ogni giorno sempre più forte, la realtà si erge davanti, e ti rimbalza indietro, nonostante tu stringa, fiero, tra le mani, timbri e carte filigranate in quantità e qualità, scritte col sudore, la determinazione, il desiderio di riscatto che solo una donna e un uomo del Sud sanno avere. Tornare, ma di sogni e di parole quasi non si campa. Quella valigia blu, dalla fodera bianca, oggi è parcheggiata lì nel ripostiglio. Freme, ed io con lei, per iniziare un nuovo viaggio, per disegnare le sue parabole distorte, pirotecniche, snervanti, ma che quando riprendono la via di casa, La casa, hanno tutto un altro sapore, divertente ed a tratti giocoso. L’oggi è ancora qui: gli occhi ed i pensieri persi nel nulla, il vetro appannato di un autobus, rigato dalla pioggia d’autunno e irradiato da fari alogeni, freddi e profondi quanto basta per essere odiati. Ma domani, chissà… Racconto inedito 9 In Otranto di Luigi Pisanelli C amminava sempre come se stesse iniziando un rituale tribale in onore del Dio degli stanchi. Probabilmente era sempre stanco. Semplicemente. E soprattutto non partecipava mai alle discussioni, di qualsiasi specie fossero. Calcistiche, amorose, scolastiche, familiari, politiche. Era come se niente lo interessasse al punto da partecipare al discorso con una parola. Eppure c’era chi sosteneva di averlo sentito intessere interessanti discorsi sulle discipline meditative del lontano oriente. Argomenti tipo i sette chakra, la kundalini, l’ommm e cose altissime di questo tipo. Ma forse sono solo leggende. Io per certo so che si stupiva della così scarsa presenza di pescherie a Otranto. In effetti se ne contano veramente poche. - Invece a Gallipoli ne è pieno. Perché? Non c’è lo stesso pesce nell’Adriatico come nello Ionio?- diceva come se stesse indagando sull’esistenza dei buchi neri nell’universo. Abbiamo trascorso più di una sera a discutere di queste problematiche ittico-geografiche, se così si può dire e poi, chissà perché, si passava ad analizzare la gente del posto, come se ci fosse un arcaico nesso di causalità tra la fauna marina e gli abitanti della terraferma. - Otranto è una città molto diversa da Gallipoli. Più borghese, più signorile, più elegante. Come dire: Otranto è Clark Gable, Gallipoli è John Wayne – - Otranto è una sinfonia di Vivaldi, Gallipoli è un cd dei Sud Sound System - ribattei io provando a far valere le mie conoscenze musicali che mi sembravano, sull’argomento in questione, non meno arbitrarie delle sue conoscenze cinematografiche. - Otranto è più vicina a Wagner che a Vivaldi. Più sontuosa, più maestosa. E Gallipoli mi ricorda più Pino Daniele che i Sud. Se Pino Daniele fosse stato di queste parti probabilmente avrebbe scritto “Gallipoli mille colori…Gallipoli mille paure… Gallipoli ‘na carta sporca e nisciunu se na futte…”- sentenziò lui come se avesse espresso l’ovvietà del secolo condita da ghirigori pop un tantino forzati. Pino Daniele quella sera mi restò sul gozzo. Ecco, Roberto pareva trovare una valvola di sfogo ai suoi pensieri soltanto se si trattava di argomenti che prescindessero dalla quotidianità. Non gli interessava il calcio, era impermeabile all’amore, la scuola era una noia mortale e sulla famiglia preferiva glissare come se lui fosse nato per partenogenesi in un campo di cavoli. Non riuscimmo a dipanare la matassa delle pescherie. Arrivammo a presumere che lo Ionio e l’Adriatico sono mari molto diversi. Il primo placido e indolente. Il secondo sempre agitato, un mare che stordisce col suo vento. E i pesci preferiscono il mare quieto, lì si fanno pescare più volentieri. - Otranto è una città di terra, attenta a difendersi, e la sua storia lo dimostra bene Passeggiammo per quella città di terra ammirando gli angoli e le ombre che stavano silenti solo per distrarre i visitatori da un rumore assordante. La storia di Otranto è un rumore perpetuo. Ma se si è distratti non lo si può sentire. Il castello era il severo guardiano di quest’ordine disarticolato. - Sir Horace Walpole vide questo castello e, nel 1764, scrisse il primo romanzo gotico della storia della letteratura. Lo chiamarono romanzo medievale all’inizio e molti critici lo definirono una banale prosa romantica assurda e tronfia. In seguito fu rivalutato alla grande, come meritava -. E comunque Roberto chiosava le sue reminiscenze letterarie mentre continuava a passeggiare stancamente. Come al solito. Io mi limitai a scrutare il castello in questione con una certa riverenza. Dopo andammo al pub ad interrogarci sul perché il mio cellulare non inviava MMS. Certi argomenti, sui bastioni di Otranto, acquistano una certa levatura. Fuori la foschia calava densa e compatta e le luci arancione delle barche provenienti dal mare davano l’idea di un occhieggiare quasi materno, comunque familiare. Sui bastioni di Otranto, una sera d’ottobre, sembra di stare in un grande liquido amniotico. Ci si sente un po’ esposti ma protetti. Roberto guardava il mio stesso orizzonte preso da chissà quali pensieri. Il suo sguardo era un baluginare di riflessi. C’erano la foschia densa, le luci delle barche, la luna pallida e nella testa, forse, un canto di sirene. Mentre lo guardavo pensavo a come fosse possibile che l’amore di una ragazza non attecchisse su di lui. - Com’è triste Otranto se non hai un amore - sussurrai, evitando accuratamente di approfondire l’argomento per evitare nuove disquisizioni pseudo-musicali che mi sarebbero rimaste indigeste. Conoscerà Aznavour? - Sono stato con una ragazza due anni fa, ma è durata solo un mese. Le ragazze hanno troppe pretese, troppe paranoie. E io sono una persona semplice e non mi va di sfasciarmi la testa per loro - A quel punto si girò verso la mia faccia sorpresa. - Ma…sono un mondo a parte, va bene…però secondo me vale la pena conoscerle, cercare di capire…- Tempo perso - mi disse e trascinò la sua camminata stanca verso nord est. Sembrava il capitano Achab arreso davanti allo strapotere di Moby Dick e io non ci potevo credere che Achab si arrendesse a Moby Dick. Non ci posso credere. - Come si chiamava lei? – - Martina – -Ah, bel nome – -Ma non era “com’è triste Venezia (se non hai un amore)”?- Si, era Venezia - Ah, bella città – Conosceva Aznavour. Otranto ci salutò senza salutarci. Il mare era una tavola nera. nuovalba 12/2008 10 Libero web Gli scribacchini ieri e oggi: la scrittura attraverso i secoli di Valeria Nicoletti “ L’ispirazione non ammette preavvisi”, scriveva Garcìa Marquez. Tuttavia, la scrittura obbedisce a diverse istanze. Dona conforto ad animi derelitti, placa le ossessioni di mani inquiete e di menti turbate e si fa tramite e alleato di chi ha sete di dire e raccontare. I viaggiatori francesi dell’800 erano accusati di essere scribacchini ossessivi. Arrivati in Italia, annotavano qualsiasi cosa vedessero nel Bel Paese, le stravaganze e le bizzarrie di una nazione ancora vacillante, denigrandola per le piaghe che già dal ‘700 la affliggevano: ciceroni, insetti e albergatori. A compensare e risollevare la reputazione di quella che già allora era un’Italietta in mano ai potenti, troneggiava lo straordinario patrimonio artistico e letterario di un popolo che è sempre stato, proverbialmente, di poeti Leggendo i fitti taccuini degli avventurosi francesi, qualcuno potrebbe rimproverarli di aver pensato troppo ad annotare e poco a vedere, di aver perso l’occasione di godere delle gioie del viaggio e dei dolci piaceri che l’Italia poteva offrire. Tuttavia, nonostante l’immagine romantica del viaggiatore disteso sulle dolci colline italiche a prendere appunti abbia il suo fascino, era compito, non sempre ingrato, del precettore occuparsi del “carnet de voyage”, mentre i nobili rampolli gozzovigliavano nei salotti letterari tra il fruscio di una gonna e una discussione filosofica sull’europeismo nascente. Ogni tappa, ogni sensazione, ogni impressione della lunga traversata dell’avvincente “grand tour” che toccava quasi ogni porto del Vecchio Continente era messa nero su bianco. Qualcuno disse, infatti, che viaggiare senza scrivere sarebbe stato un delitto, ma ancor più vivere senza prendere nemmeno un appunto sarebbe stato imperdonabile.E di certo non saranno colpevoli i miliardi di blogger e scribacchini virtuali che affollano la rete. Dall’800 ai tempi di “digito ergo sum”, di moltiplicazione di identità, in tempi di imperante soggettivismo dell’informazione, la scrittura sembra essere diventata il passe-partout per la popolarità, il mezzo sicuro per guadagnarsi il proprio posto al sole nello sterminato spazio del web. Un’ineludibile esigenza di obiettività impone di considerare entrambe le facce della medaglia. E sebbene la prima sia sconfortante, ossia la proliferazione di inconsistenti e vacui diari on-line, cronache banali e insignificanti di giornate tutte uguali, parole pretenziose e vanesie, è innegabile che in un Paese ancora assediato dalla censura, la censura più subdola, quella che non si vede e si fa strada nell’ombra, la libertà di parola abbia fatto un notevole passo avanti. Tanto notevole che anche ai piani alti è arrivato il sentore di pericolo, di anarchia derivante da quest’enorme massa, non controllata, di notizie, informazioni, opinioni, autorevoli e non. Risale all’anno scorso, infatti, il decreto Levi-Prodi, un vano tentativo di regolamentare qualsiasi forma di “attività editoriale”, blog compresi, in un apposito, quanto macchinoso e patetico, Registro per gli Operatori delle Comunicazioni; proposta tornata in auge quest’anno quasi scopiazzata da quella dell’anno precedente che colpisce non più i singoli blog personali, ma chiunque faccia “disinformazione” svelando altarini e mettendo le pulci nell’orecchio, a destra e a manca, anzi alla destra e alla sinistra, e chiunque ricavi dal suo blog un minimo nuovalba 12/2008 reddito d’impresa, clausola questa che si presta a molteplici interpretazioni. La politica contro la scrittura on-line, quindi. In barba alla libertà di parola e al buon vecchio Voltaire che aveva giurato di difendere fino alla morte la libertà d’espressione di chiunque, pur non condividendone il pensiero. Anche questa proposta di legge, tuttavia, etichettata come legge ammazza-blog, è stata inesorabilmente ritirata davanti alle proteste mosse dal grande esercito del web 2.0, dai gruppi anti-censura su Facebook alle urla di disappunto sui blog istituzionali. Sfuggita alle fauci di una politica sempre più brancolante nel buio del burocratese e invischiata in queste inutili velleità di regolamentazione, la rete, rivoluzionaria sin dagli esordi e per adesso ancora libera, aggiunge ogni giorno migliaia e migliaia di posti a tavola per i nuovi convitati al grande banchetto della scrittura on-line. Dal ricettario sul web agli onirici blog fotografici, capolavori sul web di fantasia e talento, dalle cronache di adolescenti tormentati ai democratici blog collettivi dove ciascuno “posta” il suo intervento, nel grande paradiso della scrittura libera ce n’è per tutti i gusti e tutti i palati, per la gioia di splinder, livejournal, blogspot e tutti gli altri enormi concessionari di domini. In questo sconfinato universo, ci si può anche perdere tra le vite e le emozioni di sconosciuti e, presi per mano dai link che conducono da un sito all’altro, si finisce impigliati in un infinito rosario di esistenze assaporate solo per il tempo di un click. Sorge spontaneo l’interrogativo: ma dove finisce la voglia di esprimersi, di alzare la propria voce e dove inizia la fame di notorietà che, inevasa nella vita reale, si sfoga nel compiaciuto e compiacente mondo del web? Quando questa inesauribile voglia di comunicare, che ha messo le radici su internet proprio per raggiungere più coscienze, si è tradotta in incapacità di comunicare nel mondo reale? Quando, come, ma soprattutto perché si è passati dalla comunicazione all’alienazione? Forse da quando un profilo o un avatar, costruiti meticolosamente, ci rappresentano meglio di quello che siamo nella realtà; o da quando è più facile raccontarsi attraverso album di foto pubblicati sul web; o ancora da quando diventare amici significa accettare un altro nome sulla propria pagina personale. Un quadro a dir poco sconfortante. Tuttavia, una fiducia imperterrita nelle possibilità e nell’eterna bontà delle intenzioni dell’uomo, in fondo ce l’aveva anche Anna Frank, dovrebbe indurre a soprassedere, a chiudere non solo un occhio ma tutti e due davanti a quest’era del monitor, che sembra aver invaso ogni momento della nostra giornata. “Non importa quello che avete da dire, ditelo”. Con le dovute eccezioni, e ricordando che in molti paesi del mondo la libertà di parola è ancora una lontana utopia, queste sembrano parole da tenere a mente. Di fronte alla censura di cinquemila siti iraniani, di fronte all’omicidio di scrittori e giornalisti, e al bavaglio, metaforico e non, con cui si cerca di fermare la verità, chi può mettere nero su bianco pensieri e opinioni, idee ed emozioni dovrebbe approfittare, con intelligenza, di questa possibilità. Non ci resta quindi che affidarci al buon senso degli uomini e sperare in un futuro più reale e meno virtuale dove il web fornisca agli uomini solo la sua migliore risorsa: la libertà. Personaggi 11 Consegna dell’Apollo d’argento alla memoria di Aldo Vallone di Paolo Vincenti “Ricordando Aldo Vallone”. Nell’ambito della rassegna “Incontri d’Archivio”, organizzata dall’associazione culturale Il LaboratorioArchivio Storico Parabitano, si è tenuta, giovedi 4 dicembre 2008, la consegna dell’Apollo d’Argento alla memoria di Aldo Vallone, nell’atrio del Palazzo comunale di Parabita. Aldo Vallone, insigne dantista e storico della letteratura italiana, è morto nel 2002, all’età di 86 anni. Grandi sono i suoi meriti nell’ambito degli studi e dell’esegesi dantesca e numerosissimi i suoi contributi, su riviste o in volume, tutti accompagnati da una grande fortuna critica. La portata dello studioso galatinese è tale che il Laboratorio, e segnatamente il suo Direttore Aldo D’Antico, ha pensato bene di illustrarne la memoria, con un sentito omaggio da parte della città di Parabita, allo studioso e all’uomo Aldo Vallone, membro di varie accademie, nazionali ed internazionali, e docente di Letteratura Italiana presso le Università di Bari, Napoli e Lecce. Alla serata di consegna hanno partecipato Giancarlo Vallone, figlio del grande Aldo, docente di Storia delle Dottrine Politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce, Luigi Scorrano, critico letterario e collaboratore di Aldo Vallone alla stesura di un importante commento della Divina Commedia di Dante, monumentale opera pubblicata, in due volumi, negli Anni Ottanta, e il Presidente della Provincia di Lecce, Sen. Giovanni Pellegrino. Alla fine degli interventi di Vallone e Scorrano, i quali hanno tenuto delle dotte relazioni, è toccato al Presidente della Provincia Giovanni Pellegrino consegnare l’Apollo d’argento alla memoria del professor Vallone, nelle mani del piccolo Aldo, dieci anni, figlio di Giancarlo e quindi nipote di “cotanto” nonno. A coordinare i lavori Aldo D’Antico. Vi è stato anche un breve saluto da parte del Sindaco di Parabita, Adriano Merico. Gli Apollo, come ha spiegato il professor D’Antico, sono delle fusioni in argento che riproducono una moneta, dell’88 a.C., ritrovata nel territorio archeologico di Bavota, l’antichissima Parabita: questa moneta, coniata probabilmente dalla Zecca di Bavota, reca su un lato una testa di Apollo Vejove e sull’altro lo stemma civico di Parabita con la variante di un uccello al posto dell’angelo. Molto significativa è la consegna di questi riconoscimenti a quelle personalità, non solo parabitane ma anche salentine, che con il loro esempio hanno portato in alto il nome della nostra terra. In questo senso, meritava certamente un riconoscimento ufficiale dalla città di Parabita la fama nazionale di un letterato come Aldo Vallone, Medaglia d’oro per i Benemeriti della Scuola, Cultura ed Arte e Medaglia d’oro per i suoi studi danteschi anche dal Comune di Firenze e dalla Società Dantesca Italiana. L’Apollo d’argento è già andato alla memoria di altri concittadini illustri di Parabita del passato, come il grande economista Francesco Marzano, Alfredo De Gregorio, luminare del diritto commerciale, e Vittore Fiore, parabitano onorario, meridionalista e ottimo poeta civile; ma è stato consegnato anche ad alcuni giovani parabitani che si sono fatti valere per le loro capacità professionali, quale incoraggiamento a continuare sulla strada intrapresa con sempre maggiori risultati. nuovalba 12/2008 12 Ricorrenze Un anniversario dimenticato (?) di Antonio Nicoletti S pesso è il caso che ti pone davanti a ricordi, a volte sbiaditi, altre volte bene impressi nella mente ma temporaneamente celati… Quando questi ricordi si affacciano, prepotenti, all’attenzione, è inevitabile che si scateni un processo di riflessione: si tratti di un rapporto affettivo, di ricordi di scuola, di litigate o, più semplicemente di emozioni!... Alla guida della mia bistrattata auto, in compagnia di un collega di lavoro, si parlava di Banche: argomento quanto mai di attualità in questo periodo nero per la finanza mondiale. Non ricordo esattamente come, ma il mio pensiero è arrivato alla Banca Popolare Pugliese e, soprattutto, a una delle sue progenitrici: la gloriosa Banca Popolare di Parabita! È stato un istante, la mia mente si è riaperta su una data: “15 settembre 1888”! Sono passati esattamente 120 anni (!) da quando, in quelle lontane “…ore 5 pomeridiane, in Parabita, Provincia di Lecce, nella sala della Scuola Maschile, via Piazza…” per rogito del notaio Giuseppe Ferrari, veniva stilato l’atto costitutivo di una “Società Anonima Cooperativa per l’esercizio del Credito, denominata Banca Popolare Cooperativa di Parabita, con sede in Parabita”… Sono passati, anonimamente, 120 anni dalla fondazione di uno dei Fiori all’occhiello di Parabita, forse l’espressione più concreta del fervore e dello sviluppo della società illuminata e neo imprenditoriale della Parabita ottocentesca! Va bene che la società di oggi ci impone di guardare sempre in avanti, per non perdere il filo del continuo aggiornamento e il “treno” della Globalizzazione, ma non si può MAI DIMENTICARE il passato, soprattutto quando questo è ricco di gloria e soddisfazioni! Nella Parabita di fine ottocento, una classe dirigente e professionista, estremamente lungimirante e formata negli ambienti Napoletani, aveva l’ardire di fondare uno dei primissimi Enti di Credito Popolare della Provincia: all’epoca, in tutta Italia, il numero delle Banche Popolari non raggiungeva le 30 unità, di cui oltre il 75% si trovavano al Nord Italia! Provate solo ad immaginare quanto notevole è stato quell’atto, quanto moderno e innovativo (e di conseguenza positivo e determinante) fu per Parabita avere un punto di riferimento per il credito popolare, distinto e notevolmente più conveniente di quanto non fossero mai stati in passato i “censi bollari” settecenteschi o il Monte dei Pegni… Quanto beneficio hanno avuto gli imprenditori e i lavoratori agricoli o, molto più semplicemente, tutte le famiglie che vi si sono rivolte per le piccole e grandi necessità di tutti i giorni! Un fatto eccezionale che raccolse immediatamente consensi in tutto il circondario e che, in breve tempo, portò all’apertura di due sportelli decentrati a Casarano e Maglie, centri già allora molto attivi dal punto di vista commerciale ed imprenditoriale, per evitare ai clienti di ricorrere a frequenti e scomodi spostamenti verso la sede di Parabita. nuovalba 12/2008 I 52 fondatori della neonata Banca ebbero la capacità di creare basi solide, mediante la continua sottoscrizione di azioni, aperta a tutti coloro che avessero almeno “25 lire” da impiegare (tanto era il valore nominale delle azioni), e grazie ad una guida accorta e sapiente affidata al Presidente Giuseppe Ferrari e al primo consiglio di amministrazione formato da (qui corre l’obbligo di ricordarli tutti): Rosario Marzano vice presidente; Giovanni Vinci, Luigi Muja, Domenico Ferrari, Donato Pierri, Giuseppe Giannelli, Giuseppe Muja, Lucio Barone e Salvatore Laterza, consiglieri. Come sindaci furono eletti: Vincenzo Garzia, Vito Cherillo, Francesco Caggiula (effettivi), e: Francesco Leopizzi e Giuseppe Solidoro (supplenti). Grande merito va anche alla prima direzione della Banca, che venne affidata a quel Francesco Marzano, insigne giurista ed economista, autore del primo trattato italiano di Scienza delle Finanze, che si confermò persona altamente preparata ed estremamente “umana”. Nelle intenzioni dei fondatori c’era l’obiettivo di far crescere il territorio ed i suoi abitanti e di valorizzare Parabita come centro propulsore per l’economia locale e salentina tutta. Obiettivo raggiunto ampiamente nella storia ultra centenaria di quella Banca che, nel tempo, seppe espandersi nel Salento, grazie ad acquisizioni e fusioni che la portarono man mano a mutare il nome, dapprima aggiungendovi il predicato “di Aradeo” e poi, in seguito all’acquisizione della “Banca Popolare di Ceglie Messapica”, assumendo il nome di “Banca Popolare di Lecce”, nome con cui si intendeva dare un più ampio respiro alla dimensione non più strettamente locale dell’Istituto. Proprio in occasione della mutazione del nome, coincidente con il centenario della Fondazione della primigenia Banca, in quel più recente 1988, l’allora Presidente, Dott. Luigi Vinci, sulle pagine di quella splendida opera che rimane “Paesi e Figure del Vecchio Salento” (più volte citata in questo intervento), affermava che “…rimane ferma la intenzione dell’Istituto, che ho l’onore di presiedere, di rendere omaggio a Ricorrenze 13 tutte le sedi in cui opera, quale atto di promozione culturale e di identificazione sociale nel segno di uno stile ormai collaudato in un secolo di vita”. Ora che ormai da oltre 14 anni la “vecchia” Banca Popolare di Parabita, fondendosi con la Banca Popolare Sud Puglia, ha assunto la denominazione di Banca Popolare Pugliese, affermandosi tra i gruppi bancari più importanti del Sud Italia, vogliamo credere e sperare che questo “stile” non sia andato perduto e che, a questa ricorrenza, venga dato il giusto risalto ed il dovuto ricordo. Un invito, quindi, più che un monito, alla dirigenza attuale dell’Istituto, per ricordare il lavoro di 120 anni di storia: siamo ancora in tempo, la Banca aprì lo sportello il 1° gennaio 1889, e qualcosa di bello si può ancora preparare. Probabilmente sarà irripetibile e inarrivabile l’iniziativa di “Paesi e Figure del Vecchio Salento”, lavoro da cui non si può prescindere per affrontare uno studio completo dei centri salentini contenuti nell’opera, ma non può essere abbandonata nel dimenticatoio la memoria di quell’atto coraggioso, di un gruppo di persone, che credette nello sviluppo economico e sociale di questo estremo lembo d’Italia, distinguendosi in Terra d’Otranto, per industria ed intraprendenza, e che quel lontano 15 settembre 1888 “…alle ore 5 pomeridiane, in Parabita…” non redassero un semplice “atto notarile” ma scrissero un “pezzo di storia” che deve rimanere indelebile nella memoria di tutti i parabitani, passati, presenti e, soprattutto, futuri! Editoria storica Quarta tappa del viaggio tra l’editoria e la pubblicistica locale Poeti parabitani (parte seconda) N ell’elenco dei più grandi poeti che Parabita abbia mai avuto, non può mancare il “maestro” Rocco Cataldi. La sua poesia ha attraversato gli ultimi sessanta anni del secolo scorso, ed ancora oggi rivive attuale e “vera” come nei giorni in cui è stata scritta. In più di mezzo secolo si racconta una poesia, quella di Rocco Cataldi, maestro di vita e di cultura, poeta del mondo contadino. E’ datata marzo 1949 la prima opera pubblicata dal poeta parabitano, il quale dalle rovine di una guerra appena conclusa trovava l’ispirazione per far conoscere la sua lirica, la sua “nobile” penna. “Parabbita è chiantata su n’artura/ E se standicchia janca cu lle vie/ Te menzu monte finu a lla pianura/ Tra fiche, ficalindie e tra l’ulì'ece…”. E’ il verso con cui Cataldi, allora appena ventiduenne, apre “Rrobba Noscia” (Castrovillari, Editrice Bruzia, 1949) riservando un doveroso atto d’amore alla terra natìa, alla sua Parabita che ha sempre amato, ed alle tradizioni della quale si è costantemente riferito nella lunghissima sua produzione poetica tra pubblicazioni edite in lingua ed in vernacolo. La poesia ereditata da Rocco Cataldi oggi si legge con quella semplice particolarità che ha contraddistinto l’intera opera letteraria del “maestro”, costituita da un narrare per la gloria dell’animo, per il gusto di dare ad una penna e ad un foglio il libero sfogo alle emozioni. Giacché tutto quanto è stato venalmente guadagnato per l’ingegno della sua arte e per le sue rime, Rocco di Daniele Greco Cataldi lo ha generosamente sempre devoluto in beneficenza. Cataldi ha saputo dare corpo alle passioni di una lirica che racconta le minute vicende di una storia contadina che, come tutte le vicende legate alla terra, è povera nella materia, ma ricca, ricchissima, nei valori. Ed è per questo che la sua arte è diretta e naturale, per quel saper raccontare con praticità fatti e situazioni che circondano, avvolgono e spesso travolgono la quotidianità della vita. Sono, quelle di Cataldi, parole che incorniciate dal dialetto parabitano incidono ed aggrediscono maggiormente. E quindi diventano vive, come le poesie che disegnano. Per tutto questo la cultura parabitana deve molto al “suo” poeta. Ad un maestro di vita, di cultura e di umiltà. Che alla vita di artista ha dato tanto. Ricevendo in cambio molto, molto più di “nu nome onurato e na poesia”. (4. continua) nuovalba 12/2008 14 Ambiente Inciviltà Parabitana: discariche e sporcizia “Made in Parabita” di Alessandro Tornesello N. I.M.B.Y. (acronimo inglese di: “Not in my back yard”…tradotto in italiano: “non dietro il mio giardino”) L’acronimo inglese N.I.M.B.Y. è la spiegazione dei problemi che hanno recentemente ridotto in ginocchio Napoli e la Campania. Nessuno vuole una discarica vicino il suo giardino! Ancor di più se parliamo di mega discariche per tonnellate di immondizia! A Parabita “è stata avviata una procedura alternativa”: ossia, centinaia di piccoli cumuli di rifiuti speciali disseminati nelle nostre stupende (ormai non più!) campagne, e anche a ridosso di alcune zone produttive o addirittura abitate! Televisori, frigoriferi, mobilia, lavandini, materassi, pneumatici e soprattutto ancora tante lastre di amianto! Nonostante l’agevolazione allo smaltimento, l’amianto, materiale cancerogeno, è sempre più depositato ai bordi delle strade o addirittura in altre proprietà, per far si che venga prelevato senza dover pagare un soldo. Non solo il problema amianto! I vecchi elettrodomestici ad esempio. Quanti di noi sanno che si possono far prelevare a domicilio in particolari giorni? E i materassi o le batterie delle auto? Non perdiamo tempo a farci domande: “buttiamo tutto in una discarica “regolarmente” abusiva!” Questo ahimè, è il pensiero di molti nostri concittadini! Eppure la colpa non è tutta loro! Da novembre dello scorso anno è partita la campagna per la raccolta differenziata porta a porta. Nonostante le prime difficoltà, grazie ad una forte sensibilizzazione, e alla paura generata dal caso “Napoli e Campania”, ora la gente risponde positivamente e la percentuale dei rifiuti differenziati aumenta sempre più. L’eliminazione totale dei vecchi cassonetti e dei grossi contenitori per la differenziata, mettono però in crisi tantissima gente! Il televisore rotto nel mio bidoncino verde non va!!! ...allora lo butto in campagna! Questo è il pensiero errato di qualcuno di noi! nuovalba 12/2008 Ritengo che sarebbe stato ideale far partire, parallelamente alla raccolta porta a porta, la realizzazione di un’isola ecologica permanente, in cui il cittadino deposita il rifiuto speciale, che viene poi raccolto e smaltito da ditte competenti. In molte città, l’isola ecologica ha drasticamente ridotto la quantità di discariche abusive, rendendo anche un comodo servizio alla cittadinanza. Nel caso in cui il Comune non disponga di spazi propri per la suddetta realizzazione, ha il dovere, insieme a una ditta specializzata, di avviare una raccolta differenziata porta a porta anche per il rifiuto speciale, magari effettuandola solo in certi giorni e con certe modalità! Anche in questo caso è fondamentale un’adeguata comunicazione, da parte dell’Amministrazione Comunale e della ditta appaltatrice del servizio, a sensibilizzare la gente a rispettare queste semplici regole. Consentitemi di parlare di un altro problema relativo alla “spazzatura parabitana”…anzi, non chiamiamola spazzatura perché difatti non viene più spazzata! A parte qualche strada principale che viene pulita dal mezzo meccanico, il quale è costretto anche ad uno slalom tra le auto parcheggiate, tutte le strade meno trafficate sono invece invase da carta, plastica e tanta tanta erbaccia! Conseguenza: ognuno di noi si deve adoperare quotidianamente a ripulire lo spazio antistante il proprio portone di casa!... e personalmente, spero che qualche mio vicino vinca finalmente al “Gratta e Vinci” per non dover raccogliere i pezzi dei suoi biglietti perdenti, strappati e gettati per strada! Tutto ciò non è solo una questione amministrativa e/o organizzativa, è anche una questione di civiltà ed educazione verso la propria terra, e ognuno di noi deve contribuire a renderla più pulita! A Parabita, ci sono tante persone, professionisti, volontari e realtà associative che spendono tempo, denaro ed energie per valorizzare e rilanciare il territorio; ed è mortificante essere criticati da amici e turisti che amano Parabita e il Salento, per le colpe di chi non ha rispetto per gli altri…e nemmeno per se stesso! Ambiente 15 Per rendere un fine a questo articolo, il sottoscritto e la redazione di nuovAlba vi fornisce delle INFORMAZIONI che vi saranno SICURAMENTE UTILI. Numero verde IGECO: 800 968 979 per particolari esigenze di smaltimento di rifiuti speciali. oppure Depositate fuori casa il vostro rifiuto speciale il mercoledì sera, avvisate l’Ufficio di Polizia Municipale e il rifiuto sarà prelevato il giovedì mattina. Collaboriamo tutti per una Parabita più pulita! Volontariato Come vola il tempo Q uante volte vi è capitato di riflettere su un determinato fatto, avvenimento, momento bello o brutto della vostra vita e come per incanto vi accorgete che è trascorso tanto di quel tempo che sembra essere volato… Come vola il tempo, è vero; però ciò significa che le giornate non scorrono inutilmente, vuote e prive di cose da fare, altrimenti sembrerebbero interminabili. E invece quando si è presi dal proprio lavoro, dai propri interessi, la sera arriva come se il giorno non ci sia stato, e non è un male. E’ proprio quello che è accaduto a noi volontari del Servizio Civile Nazionale 2007/2008, vincitori del bando “Parchi Culturali”, conclusosi da pochissimi giorni. Quanto entusiasmo e quanta voglia di fare c’era in ognuno di noi quel lontano 3 dicembre 2007, quando ci presentammo al Comune di Parabita, per dare inizio a quella che in seguito si è rivelata, forse, l’esperienza più significativa ed interessante di ciascuno di noi, sia sotto il profilo della crescita individuale che intellettuale. In realtà, i buoni risultati raggiunti nell’arco di quest’anno vanno attribuiti, oltre al nostro costante impegno in quello che facevamo, alla figura che in tutti questi mesi ha creduto in noi, tanto da coinvolgerci (e per questo lo ringraziamo) nelle sue attività; attività che, anche se si discostavano tra di esse, avevano comunque un unico punto d’arrivo, l’amore per la Cultura. Non avevamo idea della mole di materiale presente nell’Archivio Storico Parabitano e di quanto, nel corso della nostra esperienza, ne è arrivato. Dai documenti risalenti alla fine dell’800 ai libri antichi, alla sezione dedicata alla Questione Meridionale, a tutto ciò che riguarda Parabita e i suoi scrittori (ricordo ancora oggi l’espressione di ognuno di noi quando sfogliammo il primo numero dell’“ALBA”, che emozione!), agli oggetti, allora a noi sconosciuti, del Museo Etnografico, a quel delizioso palmento che oggi ne è diventato un Museo (se vi capita di andarci provate a chiudere gli occhi e la sensazione sarà quella di tornare indietro nel tempo, - a proposito di tempo! -, a quando le persone vi lavoravano l’uva; luogo ancora impregnato di quell’odore tipico del vino e, dai visi consumati dalla fatica di quei lavoratori, potrete scorgere se l’annata fosse stata buona o meno, e quando riaprirete gli occhi la gioia non sarà altro di aver immaginato, seppur per un istante, uno scorcio di vita parabitana…). Non potremmo certamente scordare quelle interessantissime visite guidate per il centro storico, dai Palazzi alle Chiese, al Castello e alla sua affascinante storia, all’unico esempio di casa cannicciata che sorge nei pressi dell’area frequentata dai monaci basiliani più di mille anni fa; come vola il tempo… O come potremmo non ricordare la bellissima veduta panoramica che dal tetto del convento degli Alcantarini, se provavi ad allungare la mano, sembrava di bagnarsi le mani nello Jonio…; e la Chiesa dell’Umiltà? Alcuni di noi se la ricordavano solo per alcune feste organizzate al suo interno quando eravamo ancora dei ragazzini… Per non parlare poi della Grotta delle Veneri, del canale del Cirlicì e dell’intero sito archeologico al confine con Tuglie… E delle menti parabitane o che a Parabita ci hanno lavorato nel corso dei secoli, chi ne sapeva qualcosa? Chi era Renato Leopizzi? o Alfredo De Gregorio? Chi è stato Napoleone Pagliarulo? o Agesilao Flora? E il Riccardi? Cosa mai fosse questo “OronteGigante” scritto da un certo Antonino Lenio detto “Il Salentino”? Di quante cose siamo venuti a conoscenza in un anno e che purtroppo prima ignoravamo! Quest’esperienza ha vinto e c’è riuscita perché noi abbiamo voluto che vincesse. Abbiamo lavorato duro affinché lasciassimo qualcosa alla comunità e, per fortuna, in un modo o nell’altro, ci siamo riusciti e lo abbiamo fatto rimboccandoci le maniche sin dal primo giorno, immergendoci con il massimo impegno in tutte le attività che andavamo a svolgere. Il legame d’amicizia che si è instaurato lo porteremo come esempio ai prossimi volontari e a tutti coloro che si trovano a lavorare in gruppo; la collaborazione, le iniziative, gli spunti di riflessione, i confronti di idee, in un mondo che ormai comunica solo telematicamente, sono l’arma necessaria affinché ci sia sviluppo, personale e collettivo, senza mai più tralasciare la memoria storica, indispensabile per conoscere il passato di un popolo, per correggerla nel presente, affinché ci sia un futuro migliore per noi e per i nostri figli. I volontari del S.C.N. 2007/2008 nuovalba 12/2008