SPAZIO LIBERO Numero 29 – ottobre 2006 Anno III RUBRICHE: Editoriale Mondo filiali Attualità C’era una volta Cinema e cultura Flash EDITORIALE PROSPETTIVE Solo due numeri fa, pochi giorni prima dell’annuncio del progetto di fusione Intesa San Paolo, scrivemmo che l’aumento delle dimensioni dei gruppi bancari in Italia era il fattore più importante di crescita, ancora più della redditività e, ovviamente, siamo ancora di tale opinione. Ma, nella vera e propria “orgia” di commenti volti a magnificare acriticamente la bontà e quasi la “bellezza estetica” del matrimonio San Paolo Intesa, si ha il dovere, posatasi la polvere del conformismo interessato, di ragionare sui fatti per gestire, come Sindacato, le ricadute per i lavoratori. In termini se possibile puramente tecnici, i due partner sono i peggio assortiti tra quelli che potevano incontrarsi perché, per molti aspetti, troppo simili: due banche che fanno, verso la clientela, tutto e dunque non complementari, non potendosi affermare che Intesa non sia presente in un settore dove c’è San Paolo e viceversa; due banche presenti su tutto il territorio nazionale e, pertanto, sovrapponibili; due banche quindi senza diversificazione delle fonti dei ricavi, costrette, per dare un senso all’operazione, a risparmiare sui costi. Ma nelle aziende di servizi i costi sono essenzialmente quelli del personale e quello coinvolto in questa fusione raggiunge la cifra di 100.000 persone e ciò porta già la prima conseguenza. 100.000 lavoratori sono, infatti, un terzo dei 300.000 bancari italiani e quel che accade loro riguarda non solo i due gruppi coinvolti, ma l’intero settore del credito; in altre parole quello che accadrà ad un terzo degli addetti, concentrati in un unico gruppo, ha conseguenze generali. La seconda conseguenza, in termini sindacali è che alle future trattative parteciperanno non solo i responsabili dei sindacati aziendali, ma anche i responsabili nazionali di categoria, a significare la grande attenzione sulla vicenda e a miglior garanzia dei lavoratori. % EDITORIALE segue: Prospettive Ciò appare tanto più opportuno se consideriamo le inevitabili tensioni, che potrebbero portare ad una terza, sciagurata, conseguenza: la divisione tra lavoratori. Per scansare ciò bisogna evitare che ciascuno si richiami alla sua “patria” d’origine e in questo senso i lavoratori del gruppo San Paolo porteranno la loro significativa esperienza di sintesi tra diversità, di capacità di andare oltre i localismi. Siamo giunti infatti a istituti normativi e a livelli economici di assoluta garanzia per tutte le banche commerciali del gruppo, all’interno di un unico contratto di cui ci siamo sforzati, nelle assemblee, di spiegarne l’assoluta valenza strategica e che ora, in un periodo difficile, ci tornerà utilissimo. La nuova banca dovrà esser raggiunta senza intenti egemonici o, peggio, di annullamento, ma aver come traguardo una realtà diversa rispetto ai due vecchi gruppi, dove ognuno, non rinunciando alla propria esperienza, alla propria cultura, alla propria storia, sappia reinterpretarla, mettendola a disposizione degli altri: colleghi, clienti, imprese, territorio di riferimento. A tendere, l’obiettivo sarà lo stesso già raggiunto in passato: l’omologazione dei trattamenti e delle garanzie affinché anche i lavoratori traggano vantaggio da un’operazione che, per riuscire realmente, per non rimanere meschinamente ristretta a pochi oligarchi, deve vedere una convergenza di volontà, a cominciare proprio dai lavoratori, attraverso le proprie rappresentanze sindacali. MONDO FILIALI A proposito di un sondaggio Il latino - si sa - è ormai una lingua sepolta e dimenticata, ma capita ancora, a chi ne conserva qualche reminiscenza scolastica, di trovarlo molto efficace per esprimere le ragioni e i sentimenti che ci agitano in un mondo così travolto dalla globalizzazione (un eufemismo per dire di chi corre sempre più veloce, dimenticando per strada il senso e il significato della stessa velocità ). Talvolta qualche frase in latino è molto espressiva per decifrare e meglio capire le cose che succedono, piuttosto che cercare lumi in qualche dozzina di ore di esposizione alla “cattiva maestra televisione”. “Nomina sunt consequentia rerum”- diceva qualcuno molti secoli fa (ed era anche imperatore) , cioè i nomi sono conseguenza delle cose. Lo stesso che affermare: uno decide cosa deve essere e cosa vuole fare e di conseguenza viene il nome. Facevo questa riflessione nel leggere il risultati (provvisori) di un sondaggio via e-mail del Sole 24 Ore, “autorevole” giornale economico e finanziario, a proposito del nome da dare alla Banca che nascerà dalla Fusione del San Paolo-Imi con Banca Intesa, Con grande sorpresa il 39% di quelli che partecipano hanno risposto Banca Commerciale Italiana, mentre il 33% San Paolo-Intesa e il restante 28% Intesa-San Paolo. Quale è il significato da dare a tali risposte: lettori burloni o nostalgici? Né l’uno e né l’altro. In verità, forse il significato è molto più semplice e banale: di fronte al nuovo che avanza travolgendo cose e persone e senza guardare in faccia a niente e nessuno, ai più viene quasi naturale rifugiarsi in un passato che non passa, piuttosto che in un futuro già vissuto, diffidando - come diceva il poeta - delle magnifiche sorti e progressive. Soprattutto se queste sono affidate a mani e menti rapaci. Se a scrivere la storia sono i vincitori, è chi comanda invece a rappresentarla, piegandola ai propri interessi. Una banca con troppi nomi è una banca senza nome. Se dipendesse da me la chiamerei Banca Yunus, dal nome del premio Nobel per la pace 2006, inventore del microcredito; così potremmo finalmente avere davanti un modello “etico e pratico” da emulare. Perché come dicevano sempre i latini: nomen est omen. Le lamentele dei soliti noti (ma ignoti al fisco) C’è in Italia un’emergenza salariale che riguarda pubblici dipendenti, insegnanti, apprendisti nelle varie categorie (anche in banca), monoredditi di tutti i mestieri con moglie e figli a carico, che diviene la “sindrome” da ultima settimana del mese per i pensionati, patologia sociale che già attanagliava quella che una volta si chiamava la classe operaia. Fiumi di inchiostro e di immagini si sono sprecate negli ultimi anni sulle nuove povertà che hanno intaccato lo standard di vita delle prime categorie citate (quello è il ceto medio!!). Ebbene, a fronte di una finanziaria che, secondo noi ancora timidamente, dà comunque un minimo di sollievo a quell’emergenza, i soliti noti si lamentano: padroncini con Suv a carico e immigrato clandestino nella “fabrichetta”, immobiliaristi dalle origini e fortune opoache, pseudo artigiani preoccupati di non poter mantenere l’amante, farmacisti che dovranno abbassare dello 0,20% il prezzo della “Novalgina” per la concorrenza delle Coop rosse, ovviamente politici di riferimento, grandi e grassi ricchi spaventati da una piccolissima inversione di tendenza, incapaci di farsi carico degli interessi generali della società, confermandosi, contrariamente ad altri paesi, dominanti economicamente, ma non classe dirigente; tutti impauriti da uno Stato che mette, a detta loro, le mani in tasca, dimenticando quanto la loro infedeltà fiscale ha messo mano nelle tasche di tutti noi. Mentre a Vicenza i soliti noti protestavano contro il principio costituzionale della progressività dell’imposta, scimmiottando grottescamente la già citata classe operaia, in Puglia si svolgeva ben altra manifestazione volta a riconoscere i diritti degli “invisibili” lavoratori dei campi, dei ristoranti, delle latrine (che i nostri figli mai si sognerebbero di pulire), dei cantieri edili, sfruttati, stuprati e ammazzati da caporali senza scrupoli, Cos’hanno da spartire le due manifestazioni? All’apparenza NIENTE, essendo la prima una indegna farsa e la seconda la affermazione al diritto a esistere come esseri umani: ma a ben vedere chissà quanto del benessere e dell’opulenza dei primi si basa sulla “schiavitù” dei secondi. Dino Buzzati Cento anni fa, il 16 ottobre 1906, nasceva il grande giornalista e scrittore bellunese, un autore che sapeva “vedere” quello che nessun altro vedeva. “una goccia d’acqua (…) di notte viene su per le scale. Tic, tic, misteriosamente. Di gradino in gradino. E perciò si ha paura.” Immaginiamo un evento normale. Un suono che fa parte del nostro quotidiano. Ma qualcosa non va. Qualcosa ci fa intendere che non tutto è come al solito. È il mistero, l’impossibile che bussa alla nostra coscienza e ci scompiglia le poche certezze che la vita concede. Non è tanto l’evento straordinario a sconvolgere, quanto il minimo scarto, l’impercettibile frattura nel bozzolo delle nostre sicurezze. È difficile vivere, ci dice Buzzati nei suoi racconti, perché non ci è dato conoscere il mistero che sta alla base della nostra stessa esistenza. E l’uomo, piccolo e impotente, si crea un suo mondo di effimere difese, e sogna. Attende ostinato l’evento che possa dare una svolta a quel lento e soffocato rotolare del tempo. Sogna il successo, innanzi tutto, come Giovanni Drogo, il protagonista de “ Il deserto dei Tartari”, che per tutta la vita attende il decisivo scontro con i tartari, che, nella sua mente, farà sicuramente di lui un eroe. Ma questo romanzo ci parla anche di quella semplice esperienza che consiste nello scacco in cui il mondo ci tiene prigionieri. Per il nostro la consapevolezza di questa sconfitta si realizza nel lavoro. In tal senso questo romanzo rappresenta molto bene la metafora del Buzzati giornalista, dove il tenente Dogo è lui stesso e la fortezza è la redazione del giornale, nella quale lui, giovane cronista impara il mestiere nella speranza di raccontare cose mirabolanti e di sperimentare così finalmente il fascino promesso dalla professione. Nessuno, credo, ha mai descritto la condizione del giornalista nel modo in cui lo ha fatto Buzzati: nobilitandola cioè per quella sua umanissima povertà, che è l’attesa. È così, ecco come vanno le cose: in attesa dei grandi eventi, la vita si consuma nella routine. Oppure aspetta la rivalsa, come Barnabo che nelle oscure vallate delle sue montagne attende il momento per dimostrare al mondo il suo coraggio. E in questa attesa, sempre, il tempo si consuma. Poi è tardi, per tutto. La quotidianità grigia e inconcludente regala però anche un’illusione di sicurezza. Finchè l’imprevisto non si insinua. Fin troppo facile ricordare Kafka, ma l’assurdo in Buzzati assume venature più sottili, meno eclatanti. Non c’entrano impressionanti trasformazioni o assurde macchine burocratiche che annientano la personalità del singolo. Basta la paura in se stessa. L’idea dell’ignoto, che è poi la paura della morte. Durante la sua vita Dino Buzzati fu spesso tacciato dalla critica di essere giornalista anche nello scrivere racconti di narrativa. % segue: Dino Buzzati La letteratura di Buzzati giunge a noi da un mondo lontano. Non solo perché il mestiere del giornalista è cambiato, ma perché sono cambiate le facce della gente. Le storie di questo scrittore sono piene di facce particolari, modellate dall’artigianalità del lavoro. Facce di gente che non conosceva le palestre, e se aveva due bicipiti “così” era perché portava sacchi di cemento dalla mattina alla sera. Aprite un romanzo di oggi, uno di quei romanzi scritti da giornalisti, da impiegati editoriali, da uomini politici,insomma dai veri scrittori di oggi, dai veri interpreti del mondo, e provate a immaginare come sono la faccia e la voce dei personaggi, e poi ditemi se non sono le stesse facce palestrate che incontrate ogni giorno alla TV, sulle riviste gossip, alla guida di un Suv. Gli si rimproverava uno stile troppo asciutto, diretto. Eppure oggi la critica riconosce che è proprio grazie alla sua prosa così chiara e essenziale che lo scrittore è riuscito a definire, con poche parole misurate, una situazione, uno stato d’animo, indagando la paure più segrete dell’uomo moderno. L’impossibilità di difendersi davanti a un ignoto evento catastrofico, l’impotenza a cui ci si sente condannati; il destino a cui non si può sfuggire, la sofferenza insita nella vita, sono tutti temi che oggi, a trentacinque anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 28 gennaio 1972, sono ancora più che mai attuali, pur nella concitazione di una società che ha subito e sta subendo trasformazioni difficilmente immaginabili soltanto tre, quattro decenni fa. Ma indubbiamente Buzzati seppe rappresentare molto bene anche ciò per cui da sempre migliaia di scrittori hanno versato fiumi d’inchiostro: l’ amore. Infatti nel romanzo Un amore esperienze autobiografiche e finzione danno vita ad un’invenzione letteraria che, come sottolineò lo scrittore e critico letterario Carlo Bo, è uno dei tentativi più spontanei e riusciti da parte di un autore italiano di delineare, sviscerare con coraggio, un sentimento non ricambiato, seppure consumato carnalmente. L’amore viene messo a nudo nelle sue debolezze, ingenuità, nelle sue origini, nelle sue speranze, continuamente disattese con malizia e spregiudicatezza. È’ un amore disperato, a senso unico, vigliacco ma onesto, disciolto in una metropoli, Milano, degradata nello spirito. Non potremmo congedarci da questo autore non parlando del suo amore viscerale per la montagna, anzi , per le Montagne per antonomasia, per quelle Dolomiti che all’alba e al tramonto assumono colori non descrivibili a chi non le ha mai viste. Quelle montagne trapelano nei suoi scritti, nei suoi quadri, nei suoi disegni e schizzi. La montagna è stata il suo grande antidoto al dolore di vivere, l’ha vissuta da escursionista e scalatore esperto, nei ritagli di tempo dal lavoro La sua fine prematura sembra l’epilogo di uno dei suoi tanti racconti che ti lasciano sgomento e solo; morì, infatti, a 65 anni per un cancro al pancreas, lo stesso male che aveva ucciso il padre e che lui, Dino, per tutta la vita aveva temuto. GILLO PONTECORVO La settimana scorsa Gillo Pontecorvo, regista italiano, ultrasettantenne, affermato come uno dei maggiori e conosciuti cineasti della cinematografia mondiale ci ha lasciato. La sua dipartita significa, per il cinema italiano, la perdita di un modo di fare cinema che ha impregnato la cinematografia italiana degli anni 60/70: un cinema “politicamente impegnato” a raccontare le tragedie e gli eroismi che nascevano negli uomini sui fronti creati, nel pianeta, dal colonialismo e dalla guerra tra i popoli, come in “La battaglia di Algeri”, “Queimada” (con Marlon Brando) e “Kapò”. Aiutato nel compito dalle sceneggiature di Franco Solinas, il cinema di Pontecorvo ha posseduto un grande respiro internazionale suscitando sempre grandi discussioni e polemiche. I temi trattati sono sempre forti, descritti attraverso grandi contrasti sia nel raccontare i temi strettamente “politici” che quelli strettamente “umani” dei personaggi delle storie. Il pregio dei suoi film è stato, pertanto, mettere sempre al centro delle storie questioni che,a quei tempi, venivano sempre evitate o, semmai, raccontate come dettaglio di sfondo o come contesto, mai sviluppate in modo diretto. Per questo, i suoi film hanno avuto una forza dirompente negli spettatori che li vedevano al cinema e, poi, nella pubblica opinione. Hanno suscitato emozioni forti, discussioni; per questo, seppur indirettamente, hanno saputo creare “coscienza morale e politica” nel senso più generale del termine sui temi trattati. Di contro e proprio perché i film di Pontecorvo hanno la caratteristica di raccontare in modo forte di “cosa” si parla, possiedono, però, il difetto di disinteressarsi del “come” dirlo: possiedono un linguaggio cinematografico sconnesso, poco attento alle sfumature della scrittura cinematografica, codificata e non. Una scrittura che potesse mettere in risalto, proprio attraverso queste sfumature, le intime convinzioni dei personaggi è, a nostro giudizio, la qualità mancante nei film di Pontecorvo. % segue: Gillo Pontcorvo La nostra opininone, in questo giudizio di valore, è che “il come” determina e significa “cosa” si racconta. In verità, molta cinematografia italiana, venuta dopo Pontecorvo, ha questo difetto ma non si può certamente additare Pontecorvo come padre, seppur nobile, di essa. Tale difetto, di molti, presunti, cineasti italiani, ha invece, come padre e madre, la poca professionalità e la poca tensione “morale” nel descrivere la realtà italiana e mondiale; tensione, al contrario, appartenuta, comunque al defunto Pontecorvo che non è mai sceso a compromessi nè con se stesso né con il mondo del cinema; era, infatti persona “integerrima”. Quello che possiamo auspicare, infine, per il cinema italiano è la nascita di talenti che sappiano coniugare le caratteristiche “morali” e “politiche” possedute da Gillo Pontecorvo assieme alla sapienza narrativa di un cinema che sappia come raccontare, nella convinzione che questa è la miscela vincente, all’altezza di un cinema che possa affrontare e raccontare i miti, le culture e le vicende degli uomini del mondo ormai globalizzato. FLASH La Redazione partecipa intensamente al lutto del compagno ed amico Giorgio Campo, nostro disegnatore, per la morte della madre. Questo mese, quindi, non pubblicheremo vignette. La Redazione Giorgio Campo Alfredo Conte Antonio Coppola Antonio D’Antonio Mario De Marinis Antonio Forzin Amedeo Frezza Rosalia Lopez Raffaele Meo Italo Nobile Maria Teresa Rimedio Anna Maria Russo puoi leggerci anche su: cgil.it/fisac.sanpaolo/bancodinapoli