Domenica
La
di
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
Repubblica
l’inchiesta
Orfanotrofi, addio alla favola triste
FILIPPO CECCARELLI e MARIA NOVELLA DE LUCA
il racconto
Le feste e l’odio nella Gerusalemme inglese
SANDRO VIOLA
La sua malattia tiene in allarme
il mondo. Ma chi è davvero
Papa Wojtyla? Jerzy Kluger e Krzystof
Zanussi lo conoscono bene
e lo raccontano
Il mio
amico
Karol
FOTO CRISTIANO LARUFFA/AGF
ANTONIO GNOLI
PAOLO RUMIZ
e fosse un racconto di Singer, Wadowice sarebbe
un grande villaggio e i protagonisti della nostra
storia due bambini leggeri come un quadro di
Chagall. Se fosse un dramma di Bernanos, vedremmo le due stesse figure camminare con gli occhi pieni di domande in mezzo a quegli anni terribili che scossero le certezze e resero alla fine la fede più salda. Jurek e Lolek si conobbero all’età di cinque anni. Era il
1925. Jurek e Lolek erano i soprannomi di Jerzy Kluger e di Karol Wojtyla (sopra in una foto recente con la nipotina di Kluger). Non conoscevano nulla l’uno dell’altro. Non sapevano
che erano destinati a fare un lungo tratto di strada assieme,
poi a perdersi e infine ritrovarsi. Ma così è la vita: imprevedibile. Come trovarsi un papa per amico. Oggi Kluger ha 84 anni, la stessa età del pontefice. È un uomo che sembra avere
sulla vita una presa particolare.
(segue nella pagina successiva)
on ne parleremo mica solo perché ha
un raffreddore…», scherza il regista
polacco Krzystof Zanussi, 63 anni,
amico personale di Wojtyla e autore
dell’unico film biografico su di lui. Lo
scherzo è più di una scaramanzia. È
l’esorcismo di chi ha fatto abitudine all’autunno infinito del
grande vecchio, alla sua infermità vittoriosa esposta come
una bandiera. È l’ansia di un popolo che in pochi mesi ha
perduto due grandissimi — Czeslaw Milosz e Jacek Kuron —
e ora non si rassegna al tramonto di chi gli ha dato luce dopo un secolo di piombo. Zanussi lo conosce come pochi. Ha
riso con lui, ascoltato i suoi silenzi, misurato da regista i toni della sua voce e i riflessi del suo corpo. Ha mangiato zuppa di rape rosse alla sua tavola, assistito alle sue preghiere,
imparato a memoria i tempi del suo humour “differito”.
(segue nella pagina successiva)
S
«N
le storie
I bimbi schiavi dei cammelli da corsa
GABRIELE ROMAGNOLI
i luoghi
Las Vegas, la città capovolta
VITTORIO ZUCCONI
le tendenze
La vita è un giro di tavolo
MICHELE SERRA
22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
la copertina
Il Papa malato
Jerzy Kluger ha passato la giovinezza a Wadowice accanto
al piccolo “Lolek”, poi lo ha reincontrato a Roma da papa.
Ora racconta la scuola, lo sport, il teatro, le infatuazioni
di due ragazzini polacchi alle soglie della guerra. E gli
incontri di oggi tra un ebreo e il pontefice dei cattolici,
uniti non dal “compromesso” ma dalla “comprensione”
“Il mio amico Karol Wojtyla”
H
ANTONIO GNOLI
(segue dalla copertina)
a esplorato la sua biografia, costruito film su di lui e
messo in scena le sue opere giovanili. Ancora lavora
alla sua azienda, gioca a
tennis. Rievoca un lontano torneo di Wimbledon cui partecipò
nel 1947: «Nel singolo fui eliminato al
primo turno», dice. Il ricordo lo distoglie
per un attimo dall’apprensione per l’amico Karol. Pensa al peso delle responsabilità, alla malattia che lo ha infragilito fino al punto da metterne a repentaglio la vita. Apprende con sollievo che il
bollettino medico è favorevole. Guarda
una foto che lo ritrae con il pontefice, in
una visita di tanti anni fa. Hanno l’aria
distesa, quasi sorridente. Accanto a una
bambina — la nipotina di Kluger — sembrano due vecchi ragazzi cresciuti in
fretta, complici le strade di Wadowice, il
campetto di calcio, il piccolo teatro, dove Karol amava recitare.
Come vi siete conosciuti?
«Vivevamo nella stessa città, andavamo nella stessa scuola, frequentavamo
la stessa classe. Così ci siamo conosciuti: come due bambini curiosi l’uno dell’altro, felici di frequentarci. Karol viveva vicino a una grande piazza, in un appartamento di un palazzo che apparteneva a un ebreo. Il proprietario era uno
strano personaggio che vendeva biciclette. E ricordo quante volte io e Lolek
abbiamo desiderato averne una per
potercene liberamente andare in giro».
Abitavate nello stesso palazzo?
«No, vivevo all’estremo opposto della piazza. Con i miei genitori occupavamo il primo piano di un edificio che apparteneva a mia nonna».
La sua famiglia era ricca?
«Mio padre era un avvocato, la famiglia di mia madre aveva un commercio
di liquori».
E com’era Karol a cinque anni?
«Non deve pensare a un bambino
speciale. Faceva le cose che l’infanzia
dettava. C’era in lui, forse, una maggiore consapevolezza, una maturità precoce. Ma amava come tutti noi giocare
e divertirsi».
Che genere di giochi praticavate?
«A me piaceva sciare e giocare a ten-
nis. Lolek amava le escursioni in montagna e il calcio. Ricordo che durante il
ginnasio avevamo allestito un squadretta che sfidava le altre classi».
E Karol in che ruolo giocava?
«In porta. Si arrabbiava quando nella
concitazione del gioco, o magari davanti
a qualche scorrettezza, qualcuno esplodeva con ingiurie, in particolare se quelle ingiurie avevano un tono antisemita».
Nella Polonia dei primi anni Trenta
c’erano forme di antisemitismo?
«C’erano, ma a Wadowice non erano
così forti. Lo diventeranno in modo tragico dopo il 1935, con la morte del Maresciallo Pilsudski».
Com’era la famiglia Wojtyla?
«Non era una famiglia ricca, se è questo che vuole chiedermi. Decorosa, sì,
con un padre straordinario».
Che cosa aveva di straordinario?
«Era stato un ufficiale dell’esercito
austriaco che dopo il crollo dell’impero era entrato nell’esercito polacco. La
sua salute cagionevole lo obbligò ad
andare in pensione molto presto. Credo che passasse molto del suo tempo a
leggere. Era un autodidatta, ma ricordo
le sue lezioni di storia. Io e Lolek stavamo ore a sentirlo raccontare le vicende
della storia polacca. Nessun professore
del ginnasio che frequentavamo
avrebbe saputo creare un interesse altrettanto forte in noi ragazzi quanto il
signor Wojtyla con i suoi racconti».
Aveva anche un nome?
«Ovviamente, ma per noi era il signor
Capitano».
Karol era figlio unico?
«No, aveva un fratello più grande,
che morì quando Lolek aveva undici
anni. Diventato medico, fu chiamato in
un istituto di ricerca a Bielsko, nella Slesia. Nel suo laboratorio sperimentavano vaccini contro la scarlattina. E fu il
contagio di questa malattia a portarselo via. Per Karol fu un colpo terribile.
Anni prima aveva già perso la madre e
ora il fratello. Tornò a scuola dopo
qualche giorno e mi colpì la sua grande
maturità nel sopportare il dolore».
Avete percorso assieme un lungo tratto scolastico. Com’era Karol a scuola?
«Bravo, in particolare nelle materie
umanistiche, nelle quali eccelleva. C’è
un episodio che mi torna alla mente e
che riguarda il nostro passaggio al ginnasio, per il quale occorreva un esame
che sostenemmo. Seppi del risultato
favorevole per entrambi e volli comunicarglielo. Quella mattina Lolek si trovava in chiesa a servire messa. Così entrai per la prima volta in una chiesa e lo
vidi che svolgeva le sue funzioni».
Che cosa accadde?
«Mi fece cenno di aspettare la fine. E
in quel momento una vecchia beghina
mi scrutò chiedendomi se ero il figlio
dell’avvocato Kluger, capo della comunità ebraica. Io dissi sì. E lei sbottò dicendo che non capiva per quale motivo
un ebreo entrava in una chiesa. Non risposi e mi allontanai. Quando finì la
messa Lolek si avvicinò e gli comunicai
che entrambi eravamo stati ammessi al
ginnasio. La notizia lo lasciò indifferente. Mi chiese, invece, che cosa mi
avesse chiesto quella donna e quando
glielo riferii, rimase turbato. Quella
donna non ha capito, così disse, che
siamo tutti figli di uno stesso Dio».
Si è spesso ricordato l’amore del
Papa per il teatro, al punto che se non
avesse fatto il prete probabilmente
FOTO WEBPHOTO
Krzystof Zanussi
è il regista dell’unico
film biografico sul
Pontefice: “Amico?
Ho conosciuto altri
papi, questo è il solo
che conosce me.
Il primo che mi invita
a mangiare accanto
a lui. Ed è sempre
un’emozione”
(segue dalla copertina)
S
orride e racconta dell’amico Karol, un Papa
mediatico che in realtà è un grande sconosciuto. Uno che non «mette in vendita» la sua
anima profonda, mistica e di raccoglimento.
Da quanto conosce il Papa?
«Da decenni. Da quando lui era vescovo di
Cracovia e io studente
universitario, nella stessa
città. Ci siamo conosciuti
in casa di un mio compagno di studi, che aveva il
padre professore. Una famiglia di origine italiana,
come la mia, ma molto
più antica. Vetulani si
chiamavano. Immigrati
in Polonia nel Medioevo».
Si considera suo amico?
«Ci sono quaranta milioni di polacchi che si
sentono amici del Papa, e
io sono uno di loro. Certo, ho mangiato alla sua
tavola. Ma non voglio
vantarmi di un rapporto
personale, che tale deve restare. In fondo ho conosciuto direttamente anche Giovanni XXIII, Paolo VI,
Giovanni Paolo I. La differenza è un’altra».
Mi dica, qual è la differenza?
“Un mistico
che sa ridere
con i clown”
PAOLO RUMIZ
«Questo è il primo Papa che conosce me. Il primo che mi
invita a mangiare accanto a lui. Una volta, anche quando
invitava un re, il Papa sedeva a un tavolo separato».
Di lui si sa tutto, anche cosa mangia.
«Si è scritto anche questo. Mangia polacco e italiano.
Una simbiosi naturale, perché l’Italia ha influenzato la
nostra cucina da secoli. L’uso delle verdure l’abbiamo imparato da voi. Ancora oggi si chiamano “roba italiana”».
Esisterà pure un Wojtyla segreto.
«Un lato invisibile di lui è il suo essere profondamente
uomo di preghiera. Il Papa mistico non è mai diventato
figura mediatica. È un aspetto di lui che non appare e non
si vende. Ed è il suo volto più vero, forse».
Lo ha conosciuto quel volto?
«Sì. Parecchie volte. In momenti di grande stanchezza,
digrandepressione.Allorapreferivapregare,perchélapreghiera lo ritemprava, più del riposo. La preghiera è il suo rifugio. Quando prega, qualsiasi altra attività lo infastidisce».
Uomo dai sentimenti forti.
«Questa è la parte di lui che si vede. Tutti abbiamo visto la sua irritazione, nel primo viaggio in Polonia. E la sua
grande allegria, in altri momenti. Un giorno rise fino alle
lacrime, senza controllo, davanti agli artisti di circo e ai
loro giochi di prestigio. C’era autoironia, in questo…».
Cioè?
«L’uomo che doveva vagliare i miracoli veri, quelli dei
santi, rideva dei miracoli falsi, dei saltimbanchi…».
Com’è il Papa nell’intimità della conversazione?
«Ha un senso dell’humour molto particolare, che viaggia su una reazione sfasata. A volte certe mie frasi cadevano nel silenzio, ho quasi creduto che non mi avesse
sentito. Poi, mezz’ora dopo, arrivava la risposta, il commento, sempre molto spiritoso, sorprendente. Con
un’autorità come la sua, il ping-pong di un’intervista è
impossibile. Sceglie sempre lui quando replicare».
Un esempio…
«Non mi sembra giusto rivelare conversazioni private.
Il rischio di essere strumentalizzati è molto forte, la discrezione è indispensabile. Posso parlare solo della tecnica, del suo modo di porsi».
Come lo giudica da regista?
«Wojtyla ha fatto teatro, e si vede. È un grande comunicatore che sa fare anche l’attore. L’impostazione della
voce, il dominio dello spazio, i ritmi: tutto questo lo aveva già in mano fin da sacerdote».
Parli della sua voce.
«Era magnifica, ricchissima di toni, e sapeva usarla.
Oggi non è più così, e per lui è una grande limitazione.
Colpa del Parkinson e delle medicine che prende. In
compenso scrive, più di prima».
E il suo modo di abitare il corpo?
«Mi piace il modo che ha di esporre senza imbarazzo
malattia e vecchiaia. È curioso, i vescovi devono andare in
pensione a 75 anni, i cardinali smettono di votare il Papa a
80. Gli unici che restano a oltranza sono i parroci e il Papa.
Il basso e l’alto della piramide. Oggi Wojtyla è l’unico grande vecchio al mondo che si assume un ruolo di guida».
Anche per i non credenti?
«Anche. Il bisogno di una guida va oltre le confessioni.
Gli ortodossi l’hanno capito. Il culto della forza fisica è
una malattia della modernità. L’Occidente non capisce
che la vecchiaia non è un ostacolo nella fede. Può esser-
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23
FOTO GENTILE CONCESSIONE DE “IL GIORNALE”
COMPAGNI DI CLASSE
Nella foto grande qui sotto,
Wojtyla (cerchiato a sinistra)
e Jerzy Kluger (cerchiato a
destra) in quarta elementare.
A sinistra, il giovane Karol
(secondo da destra
in prima fila) durante il servizio
di leva nel 1939.
A destra, Lech Walesa.
Nella pagina accanto,
Kluger e, sotto, Krzystof
Zanussi e una scena del film
“Da un paese lontano”
Ma lei ebreo e lui cattolico. Dov’era
il punto di compromesso?
«Compromesso è una parola inadeguata. Preferirei parlare di comprensione. La comprensione nasce dall’amore, il compromesso dall’interesse. E
due ragazzi come noi avevano dell’amicizia un’idea disinteressata».
Vi separaste nel 1938, quando vi siete rivisti?
«Fu durante il Concilio Vaticano II,
appresi da un giornale che a Roma, dove nel frattempo io mi ero stabilito, era
arrivato un certo Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia».
E lei che fece?
«Telefonai e presi un appuntamento.
Ricordo che alloggiava nel convento di
suore di via Cavallini. Ci vedemmo in
un pomeriggio di primavera. Non lo
trovavo molto cambiato, salvo forse per
la veste che indossava e che gli conferiva un’autorità particolare. Passeggiamo a lungo per le strade limitrofe al convento. A un certo punto fummo invasi
dalla tristezza al pensiero di coloro che
non ce l’avevano fatta a sopravvivere alle atrocità del nazismo e della guerra.
Ricordo la commozione che ci avvolse
quando parlammo del nostro amico di
infanzia Tadek Czuprynski che saltò su
una mina alla fine della guerra».
E come apprese della sua elezione a
Papa?
«Ero dal dentista, sulla stessa poltrona dove nel 1960 sedeva Cassius Clay
per curarsi un improvviso mal di denti».
Perdoni la digressione che c’entra il
pugile Clay?
«Il fatto è che nel 1960 io ero uno degli interpreti ufficiali accreditati alle
Olimpiadi e accompagnai il pugile dal
dentista. E il dentista, più di vent’anni
dopo, rievocando l’episodio di Clay, all’improvviso mi dice: “Senti? hanno
appena eletto il Papa”. La radio stava
trasmettendo questa bella voce che
mandava un messaggio. Il dentista disse: “Ma che razza di pronuncia ha?” E
io: è la lingua di Wadowice. E lui: “Ma
come fai a dirlo?” Abbiamo fatto la stessa scuola, risposi».
Con il Papa avete continuato a vedervi?
«Sì, con regolarità e compatibilmente con i suoi numerosi impegni internazionali».
“Ma ora deve
darsi tregua”
FOTO ANSA
LECH WALESA
Le grandi responsabilità lo hanno
cambiato?
«Cambiato non è la parola giusta. Angosciato sì, per tutto quello che è accaduto e che sta accadendo nel mondo».
Le ha mai parlato dell’attentato che
subì in piazza San Pietro?
«Non ne ha mai voluto parlare, almeno con me».
Che immagine può darci di Karol
Wojtyla privato?
«Di un uomo straordinariamente
piacevole. Scherzoso, conviviale, con
un senso raffinato dell’umorismo. E
conoscendo questo lato, mi addolora
profondamente vederlo oggi così fragile ed esposto alla malattia».
Le ho chiesto prima qual è il modo
per un ebreo e un cattolico di incontrarsi. E lei ha parlato di comprensione. C’è solo questa?
«Non penso che mi debba soffermare sulle differenze fra le due religioni.
Quando Karol è diventato papa ha fatto
il possibile e l’impossibile per colmare
il divario delle incomprensioni e mi
piace pensare che a questo abbia contribuito la sua gioventù a Wadowice».
lo per un manager. Ma il vescovo di Roma non è un manager, e può delegare la gestione del potere. La sua autorità morale, invece, resta intatta con l’età».
Un Papa guerriero?
«Sicuramente la sua figura non è pacifista, se essere pacifistisignificatollerarelaviolenzaapplicataaglialtri,quella che non tocca il nostro orticello. Noi polacchi abbiamo
sofferto di questo, quando nel 1938 i pacifisti europei non
bloccarono sul nascere l’espansionismo di Hitler. La guerra è un male assoluto, ovvio. Ma a volte è il male minore».
IlPapacombatteancora?Oseguelacorrentedelfiume…
«Essere cristiani significa essere all’opposizione, e lui
resta controcorrente. Due anni fa disse no alla guerra in
Iraq, e non credo che abbia cambiato idea. Anche la sua
posizione contro il consumismo è immutata. Wojtyla è
più vicino ai giovani scontenti che a qualsiasi potente cui
il mondo va benissimo».
Non vede un Papa prigioniero?
«Di che cosa?»
Del Vaticano, di Roma, del portone di bronzo di San
Pietro.
«La sua risposta a questo rischio è stata immediata: i
viaggi. Nessun Papa ha viaggiato tanto. Le sue trasferte
non erano solo il modo per evangelizzare. Erano anche il
suo modo per evitare la dipendenza dall’apparato. Un
modo per dire: non sono un amministratore sedentario.
Sono uno che cerca la gente, senza mediazioni».
Un nomade inquieto...
«Noi polacchi per cinquant’anni non abbiamo potuto
viaggiare, in noi il nomadismo è una reazione alla claustrofobia da regime. Ma il Papa ha viaggiato da sempre, fin
da quando era vescovo di Cracovia. Credo che in lui sia un
istinto speciale. Quello di cercare lontano per immedesimarsi nell’Altro. E per mettere in discussione se stesso».
Il suo è stato un papato spettacolare, televisivo. Non
vede dei rischi in questo?
«Altri papi hanno scoperto la forza della radio, o della
carta stampata… No, non parlerei solo di rischi. Ci sono
anche i vantaggi. La parola scritta ha portato alla laicizzazione del mondo; l’audiovisivo invece consente un
contatto più sensuale, meno intellettuale, con la gente, e
va al cuore dei sentimenti. Questo Papa dice di più con i
suoi passi, i suoi sorrisi, con le sue fermate, che con le sue
encicliche e le parole».
Di nuovo il tono della sua voce.
«Ah, ricorda il suo urlo in Sicilia contro la mafia? Attraverso quell’urlo è passata una scarica di emozioni che
nessuna carta stampata poteva convogliare. Lo dico da
uomo dell’audiovisivo».
Ma la Tv non intercetta le penombre, i misteri della fede.
«Il rischio che spariscano sarebbe reale se la vita della
gente si riducesse allo schermo televisivo. Ma così non è.
Questa possibilità non esiste. La Chiesa stessa non è video-dipendente».
Il Papa ha conosciuto l’amore fisico pieno?
«Non posso dirlo. Certo la mascolinità di Wojtyla è evidente, completa, multiforme. Il suo libro sulla sessualità
fa capire che il celibato è stato per lui una scelta sofferta.
È uno dei pochi sacerdoti che hanno capito fino in fondo
l’immenso potenziale del rapporto uomo-donna».
Il primo che guarda alla teologia dell’amore attraverso il corpo.
«Una cosa è sicura. La divisione manichea tra corpo e
anima che ha segnato la Chiesa per secoli sicuramente in
Wojtyla non si presenta».
Cosa ha capito facendo film su di lui?
«Ho imparato l’impossibilità di raccontare artisticamente un simile personaggio da vivo. Non lo si può esporre in modo interrogativo, investigare sulle sue decisioni.
Così ho lavorato su tutto il resto. Sulla Polonia, prima che su
di lui. Per questo il film si chiama Da un Paese lontano».
La Polonia lo ama. Ma lo capisce?
«In che senso?»
Nel senso che non lo prendono troppo sul serio quando attacca il consumismo neo-liberale.
«È più facile capire la condanna di un regime, come
quello comunista, che vivere seguendo inflessibilmente
i dieci comandamenti, così come vorrebbe lui. Ma a discolpa dei polacchi voglio dire che è facile cadere nella
trappola del consumismo, se per cinquant’anni non hai
consumato».
Le cose cambiano?
«Il primo decennio di libertà è stato di consumo sfrenato. Oggi le cose cambiano. La nuova generazione capisce che esistono altri valori. I giovani sono molto più
profondi dei loro padri. E capiscono meglio il Papa».
Questa Chiesa non è troppo Wojtyla-dipendente?
«Tra il Concilio di Trento e il secolo ventesimo non ci
sono stati papi importanti. Le grandi figure sono una cosa recente. Anche Giovanni XXIII è stato una figura forte… Anche alcuni grandi mistici del medioevo… Il rischio di uno smarrimento, dopo, effettivamente può esserci. Ma la Chiesa è millenaria… Si ancora a ben altro…».
ono passati appena due
mesi dal mio ultimo incontro con il Santo Padre.
Due mesi fa in Vaticano, egli mi
apparve in buone condizioni. E
ora eccomi qui a pregare per lui
ogni momento. Perché abbiamo ancora bisogno di lui che ci
insegnò a non avere paura, di
lui senza la cui forza noi non
avremmo vinto. Lui senza il cui
sorriso sereno e coraggioso
l’Europa di oggi non sarebbe
l’Europa senza muri.
Ricordo ancora quell’ultima delle tante volte che c’incontrammo in questi ventisette anni. Era dicembre, laggiù
da voi a Roma. Fui invitato per
un’udienza privata, ed egli mi
chiese di trattenermi a colazione. Parlammo a lungo, di
Dio e degli uomini, della Polonia e del mondo. Uscii con una
grande gioia da quell’incontro
in Vaticano. Perché con mia
sorpresa, una sorpresa gioiosa
che porto ancora nel cuore,
egli mi sembrò lucido, attento,
e molto più sano, forte, vigoroso di quanto non mi fosse apparso un anno prima, alle celebrazioni per il suo venticinquesimo anno di pontificato.
Mentre prego commosso
per lui, mentre il mio cuore è al
suo fianco sperando nella sua
guarigione, riguardo alla sua
vita straordinaria e specialmente ai suoi ultimi anni. Io
credo che il Santo Padre chieda troppo a se stesso. Il mio augurio, la mia speranza è che
adesso, quando si sarà ristabilito, sappia concedersi un po’
di riposo, una tregua. Non per
egoismo, ma perché c’è ancora molto che egli può fare per
noi. Per tutti noi: non solo per
noi cattolici, per noi cristiani.
Per tutti egli sa essere la massima autorità morale.
Mentre prego, ripenso a
questi anni straordinari per la
mia Polonia e per il mondo,
questi anni con lui alla guida
della Chiesa. Ricordo le prime
udienze che egli concesse a me
e ai miei compagni nella lotta
per la libertà. Eravamo incerti,
spesso confusi. Fu lui a dirci di
non avere paura, fu lui a insegnarci il coraggio e l’ottimismo, lui fece capire a tutti la
forza della non violenza. Senza di lui non avremmo sconfitto il comunismo, senza di lui
Berlino sarebbe ancora divisa
dal Muro, senza di lui la nostra
patria e tutte le nazioni
dell’“altra Europa” oggi non
sarebbero libere. Senza quest’uomo straordinario, lasciatemi insistere, in questa parte
del mondo non sarebbe mai
avvenuto nulla. Le conquiste e
le vittorie di noi leader politici,
di semplici uomini come me,
non sarebbero state possibili.
Nulla è a volte l’azione, se non
ha dietro di sé il Verbo.
Questa è l’immagine del
Santo Padre forte e vincitore,
che abbiamo nei cuori. Oggi il
suo ruolo di massima autorità
e guida morale non è certo meno importante, né facile di ieri.
E oggi, chi ricorda il Papa forte
e vincitore di allora ama questo
grande uomo ancora di più. Un
sentimento quasi di tenerezza,
di affetto per l’uomo anziano e
provato, rendono l’amore per
lui e il suo messaggio ancora
più grandi. L’altro giorno, a
Danzica, alla festa della Candelora le chiese erano ancora
più piene del solito. Anche da
noi in Polonia la società si fa più
laica, ma questa evoluzione
non affievolisce i sentimenti
verso di lui. Seppe insegnarci il
coraggio, l’ottimismo, il valore
della vita allora e sa farlo anche
oggi mentre soffre. Proprio per
questo, spero che egli sappia
concedersi un po’ più di respiro anziché esigere ancora troppo da se stesso.
(testo raccolto
da Andrea Tarquini)
S
FOTO CRISTIANO LARUFFA/AGF
avrebbe fatto l’attore. È vero?
«Non credo che avrebbe mai potuto
fare qualcosa di diverso da ciò che gli
dettava la sua vocazione profondamente religiosa. Certo amava il teatro e
recitava straordinariamente bene con
una voce meravigliosa. Aveva avuto come maestra di recitazione Ginka Beer,
un’affascinante ragazza di qualche anno più grande di noi, molto bella, della
quale c’eravamo un po’ invaghiti. A un
certo punto lei lasciò la Polonia. Era
ebrea e sionista e per questo aveva deciso di andare a vivere in Palestina».
Quando le vostre strade si sono separate?
«Alla fine del ginnasio. Lui andò all’Università di Cracovia per studiare
storia e io al Politecnico di Varsavia per
fare ingegneria».
Sentiva di aver perso un amico?
«Non avevo l’impressione di averlo
perso. Ma gli anni ai quali andavamo
incontro erano terribili».
E che tipo di amicizia era stata fra voi
due fino a quel momento?
«Era un’intesa molto bella fra due ragazzi cresciuti assieme».
L’ex presidente polacco
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
l’inchiesta
Fine di un’epoca
Conto alla rovescia per gli “istituti per i minori”:
alla fine del 2006 i 24mila ragazzini ospiti
dovranno essere trasferiti in case famiglia
o in famiglie affidatarie. Ma sono troppi
e molti sindaci stanno già pensando agli “affidi
professionali”, una forma moderna di baliatico
Orfanotrofi
S
aranno chiusi per legge il 31 dicembre del 2006. L’Italia dovrebbe dire addio per
sempre agli “istituti per i minori”, quelle “strutture protette” un tempo albergo degli orfani poi sempre di più residenze per bambini e ragazzi provenienti da famiglie in difficoltà. La legge che sancisce lo storico cambiamento, già in parte avvenuto
con la nascita di piccole comunità che hanno cercato di replicare contesti sempre più
simili alle famiglie naturali, è stata approvata nel 2001. Ad oggi però, mentre la scadenza si avvicina, i conti non tornano. Gli ultimi dati Istat disponibili segnalano che tra istituti, comunità e case famiglia, ci sono ancora 23.825 minori in attesa di una sistemazione diversa, e a questi si aggiungono i piccoli immigrati che arrivano clandestinamente sulle nostre coste senza genitori, e che la legge classifica come “minori non accompagnati”. Dietro il (nobile) progetto di chiusura degli orfanotrofi c’è l’intento di potenziare l’istituto dell’affido familiare, ossia l’inserimento di un bambino che ha una famiglia d’origine e dunque non può essere dichiarato adottabile in una “famiglia
affidataria”, che si impegni ad allevarlo, a farlo studiare, in attesa, se mai se ne verificassero le condizioni, di restituirlo al suo nucleo parentale.
La realtà però è ben diversa. Le famiglie disponibili, seppure in crescita, sono ancora
pochissime rispetto al numero di bambini in istituto, e infatti da alcuni mesi sono partite in tutta Italia campagne informative e pubblicitarie sull’affido familiare, mentre in
molti comuni sono stati avviati corsi di formazione per gli “affidi professionali”. Si tratta, in concreto, di coppie a cui verrà offerto uno stipendio mensile per prendersi cura di
bambini che altrimenti resterebbero in istituto.
Trovatelli d’Italia
una favola triste
I
MARTINITT
Nelle foto, in alto Pietro Nenni
all’orfanotrofio di Faenza
nel 1903. Sotto, Leonardo
Del Vecchio “martinitt”
nel 1950. Qui in basso,
Angelo Rizzoli senior,
a 16 anni, aspirante tipografo
FOTO GIOVANNI GIOVANNETTI /EFFIGIE
l massimo della tristezza, il massimo della poesia. Lungo questi
due estremi, attraverso fiabe di
riscatto e letteratura da fogliettone, orrori di cronaca ed esorcismi cinematografici, si tenta, o ci
si illude forse di misurare l’immaginario orfanotrofico italiano. Immaginario in via di esaurimento, si spera.
Picchi e abissi della memoria, intanto. Dall’antica “ruota” dei conventi ai
gradini delle chiese, fino ai cassonetti;
dalle prime istituzioni della carità religiosa ai bigi casermoni dell’assistenzialismo statale; e poi le botte dei maestri, i
libretti rossi dei «trovatelli», o «esposti»,
«gettatelli», «proietti», «bastardelli» : così vennero a lungo chiamati i piccoli
ospiti. Le loro nere
divise troppo larghe o strette, tozzi
di pane induriti, i
cori delle bambine
co, di fronte a questa materia la pietà
è un prezzo che
nessun’anima, né
alcun impegno civile riusciranno
mai a sperperare.
Perché l’orfanotrofio non sembra
solo storia morta,
ma anche ricordo
vivente, e luminosa letteratura, e incrocio di vicende
personali con i destini di un’intera società e dei suoi illustri protagonisti.
Magro e minuto, all’indomani della
morte del papà, per intercessione di una
contessa, Pietro Nenni entrò a cinque
anni nell’orfanotrofio di Faenza. Era l’inizio del secolo scorso: «Mi fu messa la
corda al collo in un’età in cui niente è
meno tonico di una disciplina servile».
Giudizio senza speranze: «L’orfanotrofio fu per me una galera». E peggio, o meglio, forse: «A quella clausura devo un
certo complesso di rivoltoso che non mi
ha più abbandonato». E ancora oggi il riverbero di quell’acerba prigionia suona
come una maledizione biblica: «Dei delitti della società — scrisse Nenni — nessuno è più atroce di quello di cui essa si
macchia privando tanti fanciulli della
voglia di vivere».
Vero è che il giovane ribelle prese a
scappare, di notte, d’accordo con il giardiniere, di fede repubblicana, che gli faceva trovare la scala appoggiata al muro
dell’ospizio. Però un giorno scoprirono
sotto il materasso di Nenni opuscoli di
Mazzini e altre diavolerie propagandistiche. Fu dunque cacciato. Era il 1908,
eppure mai la libertà riuscì a placare in
lui quell’«alito di tempesta».
Nenni è uno che ce l’ha fatta. Ne esistono altri, per cui il solo fatto di venire
FOTO OMEGA
FILIPPO CECCARELLI
dall’orfanotrofio, e ciò nonostante di
aver avuto successo nella vita, costituisce la prova di una forza morale enorme,
sigillo e compimento di una autentica
favola di redenzione sociale. Cesare
Mori, «il Prefetto di ferro», uno dei pochissimi che per conto dello Stato diede
un colpo terribile alla mafia, è venuto su
in un orfanotrofio di Pavia, riconosciuto dai suoi genitori naturali soltanto a
sette anni. Angelo Rizzoli, mecenate,
produttore, capostipite di una dinastia
editoriale, l’uomo che trasformava in
oro tutto quello che toccava e chiedeva
a Federico Fellini di mettere sempre «un
raggio di luce» nei suoi film, uscì anche
lui dall’orfanotrofio, a Milano. Era un
“martinitt”, proprio come è stato “martinitt”, in tempi più recenti, un personaggio di straordinario ingegno e volontà come Leonardo Del Vecchio, classe 1935, fondatore e guida della “Luxottica”, uno dei 55 imprenditori più ricchi
del mondo.
Sono esempi che valgono nella loro
più misteriosa eccezionalità. Mentre i
bimbi infelici, destinati a divenire uomini ancora più infelici, purtroppo non
si contano.
Inevitabile destino. La miseria, la fame, l’ignoranza, la vergogna, la vita selvaggia: tutto questo è alla base del brefotrofio. La guerra, com’è ovvio, ci mette
del suo, instancabile fabbrica di piccoli
disgraziati, ma anche di santi che se ne
fanno carico, li accolgono, li ricoverano,
s’improvvisano portentosi organizzatori di cura, di amore. E qui senz’altro
vale ricordare i don Gnocchi, i don Zeno
Saltini, i don Minozzi. Quest’ultimo,
prete amatriciano, nel dicembre del
1950 si carica una croce in spalla e porta
1.500 orfanelli a Roma, visita a San Pietro, poi al Quirinale, da Einaudi. Struggenti appaiono anche solo le descrizioni delle immagini del cortometraggio
Incom, utilmente disponibile on line
sull’archivio dell’Istituto Luce (www.
archivioluce.com): «I bambini in fila entrano ordinatamente nel Palazzo. Sala
da ballo del Quirinale. Guardano con
stupore il soffitto, i lampadari di cristallo, le cornici dorate, si fermano a parlare con i corazzieri. Siedono attorno alle
tavole imbandite. Una suora con cappello bianco si aggira tra i bimbi. Uno di
loro mangia di gusto un piatto di lasagne. Il presidente Einaudi poggia la mano sulla spalla del bambino...». Era un’Italia a suo modo dignitosa e affamata,
piena di necessità e di sogni. Di solito sono proprio le istituzioni chiuse, i luoghi
di pena, a misurare il destino, le speranze, i peccati di un paese, di un popolo.
Sull’orfanotrofio, in qualche modo,
c’è un racconto agghiacciante di Pirandello, ambientato in un paese neanche
troppo immaginario della Sicilia più
estrema, sulle rive del «mare africano».
S’intitola Il libretto rosso e crudamente
rivela le modalità con cui, secondo una
pratica che ormai s’era fatta abitudine,
il locale ospizio dei trovatelli metteva in
vendita i bambini. Chi li acquistava — il
loro possesso era appunto certificato da
un libretto rosso — riceveva 30 lire al
mese. Ma poi, pur non avendo di che
nutrire le creature, gli stessi acquirenti
rivendevano bimbi e libretti di baliatico
a mercanti di stoffe maltesi che ne facevano incetta, del tutto indifferenti alla
sorte del trovatello comprato: «Il quale,
se muore, a chi fa male? e chi se ne lagna,
se patisce?».
L’ombra dell’immondo e crudele
mercato descritto da Pirandello si
proietta a lungo nel tempo, fino a lambire un paese ormai ufficialmente progredito e comunque toccato dal boom.
É l’amara scoperta degli orrori consumati da certi frati ai danni dei “celestini”
di Prato (1969), come pure le sevizie di
Suor Maria Diletta Pagliuca (1971). Storie cupe. Dietro ai nomi degli istituti religiosi, Santa Rita o Maria Vergine Assunta in Cielo, si nascondono in realtà
terribili e avidi aguzzini. Ma partono in
quegli anni anche le prime battaglie civili, le denunce dei radicali contro «l’ap-
Per alcuni che ce
l’hanno fatta, da
Nenni a Rizzoli e a
Del Vecchio, non
si contano i bimbi
infelici destinati
a diventare uomini
ancora più infelici
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
23.825
12
È il numero complessivo
fornito dall’Istat sui minori
presenti negli istituti, nelle
case famiglia e nelle
comunità. Le strutture
ospitano bambini e
adolescenti. L’assistenza
finisce con la maggiore età
300
Secondo la nuova legge
d’ora in poi le strutture per
i minori non potranno ospitare
più di dodici bambini, e
dovranno essere sempre più
simili a “famiglie allargate”
Molti vecchi istituti si stanno
riconvertendo
L’Aibi, Associazione amici
dei bambini, ha denunciato
che oggi negli istituti ci sono
ben trecento bambini al di
sotto dei sei anni, e sempre
più minori stranieri non
accompagnati, arrivati
clandestinamente in Italia
Laura.Così ho unito
il mio cuore diviso
D
FOTO OLYCOM/PUBLIFOTO
TRIESTE
palto del bambino povero», reso d’oro
da convenzioni, assegnazioni e ricoveri
che fondano il «racket clericale e democristiano».
Casi sporadici, che però fanno effetto. Condizioni igieniche disastrose, vicende di maltrattamenti, abusi sessuali. Alcuni bimbi addirittura crepano, lì
dentro: «Maurizio, Francesco, Mario...
Quanti sono? Non basterebbero tutte le
piazze d’Italia a ricordarli» scrive Marco
Pannella nella prefazione di Un ragazzo
all’inferno (Napoleone, 1975), l’autobiografia di Mario Appignani, il futuro
“Cavallo Pazzo”, che ha già girato un’infinità di istituti e fatto in tempo ad assaggiare le cure della Pagliuca.
A questo torbido mondo rende indimenticabile testimonianza l’Alberto
Sordi de Il Giudizio Universale, il più cinico trafficante di bambini che sia dato
di ricordare. Il cinema, in effetti, come
d’altra parte il romanzo d’appendice
con i suoi intrecci, i suoi scambi di neonati in culla, le sue “agnitiones”, da sempre gira intorno all’orfanotrofio, fantastica risorsa emotiva, perfino da umori-
smo nero, luogo di dolore, certo, ma anche di tenerezza, terribile e al tempo
stesso appassionato, irreale.
Così, com’è nelle leggi inviolabili dello spettacolo, si ride e si piange. Ecco
Totò ne I due orfanelli (l’altro è Carlo
Campanini); ecco la Magnani, soubrette e rivale d’amore di un’orfanella in Teresa Venerdì. Ma ecco soprattutto il protagonista di Miracolo a Milano di De Sica, la più straordinaria e poetica figura
cui abbia dato vita Cesare Zavattini, un
trovatello angelico, anzi un vero angelo
in divisa da orfanello, abbandonato sotto un cavolo, cresciuto in orfanotrofio, e
tuttavia così buono da chiamarsi appunto “Totò il Buono”. Una specie di
Charlot che saluta tutti togliendosi il
cappello dell’uniforme che lo inchioderebbe al suo destino, e a tutti augura
buon giorno, emissario più o meno occulto di «un regno dove buon giorno
vuol dire veramente buon giorno», e per
scaldarsi basta appena un raggio di luce, di tanto in tanto, solo quando il sole
buca le nuvole e fa un cerchio di calore
per terra.
i sua madre parla con un
amore protettivo e tenero, come si fa con le persone fragili, di quelle che
nella vita hanno fatto errori e incontrato amori sbagliati. Si vedono al parco, in
biblioteca, più spesso nei caffè, perché
Laura in casa della madre e del suo convivente non può entrare, e in quei momenti rubati si dicono tutto, chiacchierano a lungo, a volte ridono, a volte
scherzano, a volte sono tristi. Quando si
salutano Laura torna al sogno di tutti i
giorni: se prima o poi farà fortuna come
cantante si comprerà un appartamento
che guarda il mare e andrà ad abitarci
con la madre, una casa solo per loro due,
in una pace domestica che insieme non
hanno mai provato.
Laura ha 17 anni ed è una ragazza in
affido. Ha una madre “naturale”, un padre che l’ha dimenticata molti anni fa,
una sorella più piccola, ma da quando
aveva sei anni vive con Luciana e Mario,
da quando cioè il tribunale l’ha allontanata dalla famiglia per farla crescere in
un ambiente diverso, e Luciana e Mario,
due figli già grandi e oggi addirittura
nonni, l’hanno accolta con loro. Una di
quelle curve fortunate della vita senza la
quale per Laura si sarebbero aperte le
porte dell’istituto. Ed è qui, in questa casa ordinata e luminosa al quarto piano
di un vecchio palazzo di Trieste che
Laura torna ad avere 17 anni, quando
discute con Luciana degli orari di “rientro” del sabato sera o ride di cuore agli
scherzi di Mario, che ha una faccia strapazzata dalle rughe, il dono della battuta veloce e dell’ironia in allerta.
«Fin da piccolissima ho capito di essere diversa dagli altri bambini. Non
potevo vivere con i miei genitori, non
potevo tornare a casa mia la sera. Avevo una famiglia, ma abitavo con un’altra... La notte mi svegliavo, tutta sudata, con una fortissima nostalgia di mia
madre. A scuola ero tremenda. Non seguivo niente, con la testa ero lontana,
assente, la mia angoscia la sfogavo attirando l’attenzione delle maestre, saltavo sui banchi, urlavo, ero una delle peggiori della classe. Poi per fortuna è arrivato lo psicologo, e piano piano mi sono abituata a questa doppia vita. Stavo
qui, con Luciana e Mario dal lunedì al
venerdì, poi il sabato e la domenica li
passavo con mia madre».
Usa parole asciutte, frasi brevi Laura,
come se prosciugare un discorso l’aiutasse a mitigare un passato segnato da
abbandono e solitudine. Anni di altalena, di cuore diviso a metà, tra il desiderio di restare accanto alla madre, in una
casa dove ormai c’era la guerra e dove
oggi lei non può più entrare nemmeno
per vedere la sorellina, e la serenità dei
giorni con Luciana e Mario, una vita
“normale” fatta di scuola, compiti,
amici, canto, musica, chitarra, volontariato, sport, regole e impegni, divertimento e rigore. «Ecco la mia stanza, la
mia tana, qui studio, leggo, scrivo canzoni, e Luciana si arrabbia moltissimo
perché sono troppo disordinata», dice
Laura mostrando un “rifugio” a dire il
vero quasi perfetto, tappezzato di ritratti di Bob Marley e pupazzi di peluche, con la collezione di cd di Withney
Houston e Laura Pausini, un luogo dove convivono infanzia e adolescenza, le
passioni di una teenager e l’orgoglio di
pensare «appena trovo un lavoro vado
a vivere da sola».
«Quando sono troppo irrequieta mi
chiudo qui dentro, quando i pensieri
vanno all’indietro, al mio passato, a
mia madre, a mia sorella, allora cerco di
concentrarmi e di mettere in pratica il
consiglio che mi ha dato l’anno scorso
il prof d’italiano, di guardare ogni giorno davanti a me, al presente e al futuro,
come fosse un esercizio per la felicità,
oppure se sono davvero giù telefono allo psicologo. Mi conosce da sempre, ho
iniziato a fare terapia che avevo sei anni e ho continuato per quattro anni, è
stato un modo per reagire al dolore, per
integrarmi nella società, ora ogni tanto
passo a trovarlo».
Laura è la testimonianza di un affido
familiare riuscito. Una famiglia d’origi-
ne con cui i rapporti sono stabili anche
se difficili (la madre abita nello stesso
isolato, a cinque minuti di distanza a
piedi) e una famiglia affidataria che con
l’aiuto dei servizi sociali ha di fatto allevato Laura. Una vera e reale alternativa
all’istituto, così come prevede la legge
che nel 2001 con un bel po’ di ottimismo ha decretato la chiusura degli orfanotrofi, in nome del progetto (o sogno)
di dare ad ogni minore in difficoltà una
famiglia, dei genitori “a tempo” che
possano offrirgli un passaggio verso
l’età adulta. Qualcosa di molto semplice e di molto grande però, un equilibrio
delicatissimo che richiede dedizione
totale, nessun desiderio di possesso e la
tenacia di occuparsi di giovanissimi
spesso difficili, diffidenti, chiusi. Semplici eroismi quotidiani insomma. Come stanno facendo da più di dieci anni
Luciana e Mario, che dopo aver cresciuto due figli, sempre e soltanto con il
solo stipendio di Mario, ex idraulico
dell’azienda municipale, hanno deciso
di occuparsi di Laura.
«Mi fanno da genitori, e per me questo è un posto sicuro. Con gli amici non
ho problemi, tutti conoscono la mia situazione, e so anche che non c’è nulla di
cui vergognarsi. Mia madre dice spesso
che vorrebbe riportarmi a casa, ma qui
con Mario e Luciana posso costruire il
‘‘
Diversa
Fin da piccolissima
ho capito di essere
diversa dagli altri
coetanei. Non potevo
vivere con mia madre
Avevo una famiglia
ma abitavo con un’altra
FOTO MARINO STERLE
MARIA NOVELLA DE LUCA
Doppia vita
Piano piano mi sono
abituata a questa doppia
vita. Mia mamma parla
di riportarmi a casa,
ma qui posso costruirmi
il futuro. L’alternativa
era l’istituto, per fortuna
non è andata così
mio futuro, mi mancano due anni per
finire la scuola, frequento un istituto
professionale per i servizi sociali, vorrei
lavorare con i bambini ma anche continuare con la musica. La chitarra me
l’hanno regalata Luciana e Mario, la tastiera mia madre, lei sogna di vedermi
in televisione, la sera spesso già canto
nei locali di karaoke, nei pub, ma so che
è meglio rimanere con i piedi per terra»,
e Laura ha uno sguardo indulgente,
adulto, quando parla di sua madre,
mentre torna ad essere “figlia” con Luciana, in un rapporto che si evince affettuoso e dialettico nello stesso tempo.
«Credo che lei ci veda un po’ come i
suoi controllori — scherza Luciana —
perché qui ci sono delle regole da rispettare, ma è consapevole del percorso fatto, a scuola ha sempre avuto l’insegnante di sostegno, poi l’aiuto dello
psicologo, figura fondamentale anche
per noi, anzi se in tutti questi anni abbiamo retto è stato grazie a lui, che si è
occupato anche di andare a parlare con
i professori, con i servizi sociali, con la
nostra associazione, l’Anfaa. Abbiamo
avuto degli aiuti economici, soprattutto all’inizio, non molto, ma sufficienti
per la terapia e i corsi di musica. Adesso
i contributi non ci sono quasi più, nelle
scuole hanno tolto gli insegnanti di sostegno, così le ripetizioni di matematica e le lezioni di canto le paghiamo noi.
L’anno prossimo, a 18 anni, i contributi finiranno del tutto, a meno che i servizi sociali non facciano un progetto ad
hoc per Laura. Ma davanti a noi ci sono
ancora due anni di scuola, e la vita tutta
da costruire…».
Dietro questo cammino dunque c’è
stata una rete di servizi che ha funzionato, un “welfare” che oltre alla generosità di Luciana e Mario ha reso possibile il “progetto Laura”. Quegli stessi
sostegni che oggi però iniziano a mancare, con i tagli fuori e dentro le scuole,
nelle asl, nei comuni. Una contraddizione di intenti quindi, mentre si avvicina la data di chiusura degli istituti, e in
ogni città partono campagne “pubblicitarie” per invitare le famiglie ad accogliere in casa minori in difficoltà.
«A volte mi sono sentita Penelope —
confessa Luciana — ricostruire ogni
giorno quello che poteva perdersi in
un’ora. Non saprei dire perché Mario
ed io abbiamo iniziato questa avventura, forse perché avevamo avuto i figli
tanto da giovani, ed è stata un’esperienza bella, faticosa, appassionante.
Certo, ci ha uniti. Io poi ho sempre fatto la mamma e la casalinga a tempo pieno e abbiamo sentito che nella nostra
vita c’era spazio per Laura, e in fondo
anche per sua madre, che è un po’ il senso dell’affido familiare, non separare,
ma laddove è possibile creare un ponte
tra le famiglie».
Ecco la sfida. Creare per 24mila bambini e ragazzi, tanti sono i minori ospitati in istituti e comunità, un percorso
fatto di “famiglie in rete”. Un’impresa
veramente difficile se si pensa che in
molti comuni sono iniziati i corsi per gli
“affidi professionali”, ossia coppie che
verranno addirittura pagate per accogliere in famiglia dei ragazzi “dismessi”
dagli istituti. Ma come si fa a prendersi
cura di qualcuno senza, in cambio, desiderarne il possesso, soprattutto se si
tratta di un figlio? Luciana alla domanda sorride e si emoziona. È qualcosa,
quel sentimento, con cui si è confrontata. «Il senso di possesso non l’ho mai
avuto, nemmeno per i miei figli. Mario
ed io siamo cattolici, i figli sono un dono ricevuto da Dio e noi genitori li abbiamo in “gestione” con il compito di
educarli e amarli al meglio. Ma c’è una
cosa che ho detto in alcune riunioni
dell’Anfaa e molti si sono scandalizzati:
per Laura in certi momenti ho faticato
così tanto, il mio investimento è stato
così grande, che mi è sembrato, alla fin
fine, di amarla di più».
La risposta di Laura è una grande voglia di vivere e di incontrare il futuro.
«La mia alternativa era l’istituto, per
fortuna non è andata così. In comunità,
lo so, ci si sente soli. Continuo a soffrire
quando lascio mia madre, ma adesso
ho imparato a convivere con tanti affetti diversi. Appena posso vado a vivere
da sola. Ora — scherza Laura — non mi
sento più diversa dagli altri bambini».
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
il racconto
Terra promessa
Il grand hotel è il simbolo del Mandato
britannico in Palestina: lungo i suoi
saloni si muovono Lawrence d’Arabia,
belle donne, militari e avventurieri.
Ma è dietro il sipario di questa
scintillante vita coloniale, che esplode
il lungo conflitto tra arabi ed ebrei
SANDRO VIOLA
I
GERUSALEMME
l King David fu inaugurato con un
memorabile “garden party” a
metà giugno del 1930. Nel giardino, la banda d’un reggimento
scozzese suonò un po’ di Haendel, i motivi di qualche canzone allora di moda, e
concluse col “God save the king”. L’albergo era con lo Shepheard del Cairo il più
lussuoso del Medio Oriente. E se lo
Shepheard aveva sul davanti una bellissima vista sul Nilo, il King David ne aveva
sul retro, dove s’affacciavano la metà delle stanze, una anche più maestosa: le mura di Solimano attorno alla vecchia città
araba, e più lontano, sulla destra, i fumi di
Gerico e le biancheggianti colline della
Giudea.
Da qualche giorno sto cercando di ricostruire, con l’ausilio di qualche libro,
d’una raccolta di fotografie dell’epoca e
d’un paio di amici che mi guidano per la
città, gli anni del Mandato britannico sulla Palestina. Non abito al King David (vi
abitavo, ogni volta che ero a Gerusalemme, nei Settanta e Ottanta), ma se la giornata è bella e non fa freddo, ci vado ogni
tanto a prendere un caffè sulla terrazza
che guarda le mura. Non c’è infatti un altro edificio, in città, che ricordi e riassuma come quest’albergo il trentennio della presenza inglese
in Palestina.
Mi interesso al periodo del
Mandato per vari motivi. Intanto perché Gerusalemme fu
in quegli anni, riscossasi dal
torpore levantino e dall’incuria in cui era stata immersa durante la dominazione ottomana, un va e vieni di personaggi
straordinari se non romanzeschi. Una città più cosmopolita
che mediorientale, in cui l’immigrazione ebraica (in specie
quella austro-tedesca) trasferì
tra i Venti e i Trenta un vasto patrimonio di cultura europea.
Secondo, perché fu durante il
Mandato che prima si posero le
premesse, e poi bruciarono le
micce, del conflitto tra arabi ed
ebrei. Terzo, perché fu allora,
col fallimento dei tentativi
compiuti dai governi di Londra
per arginare il conflitto, che cominciarono a cedere le fondamenta della potenza inglese.
Ma torniamo al King David
del 1930. Con l’apertura del
nuovo albergo, la vita mondana di Gerusalemme si fece più
intensa. Ai ricevimenti nelle residenze dell’Alto commissario
e del governatore militare, ai
pranzi in abito da sera al Circolo ufficiali o al Sodom and Gommorrah
Golf club, s’aggiungevano adesso — nei
saloni o sulla terrazza del King David — i
balli annuali dei vari reggimenti e quello
del Ramle Jackal Hounds — il club della
caccia alla volpe e allo sciacallo — con gli
uomini in giacca rossa e le signore in lungo. E quando nel ’31 il posto d’Alto commissario per la Palestina venne preso dal
generale Arthur Wauchope, uno scozzese scapolo, molto ricco e con la passione
delle feste (tanto che in un certo mese, fece sapere a Washington il console americano, Wauchope aveva avuto «non meno
di seicento ospiti, e sempre con un fiume
di champagne»), le sere di Gerusalemme
divennero ancora più animate e brillanti.
Einstein e gli altri “turisti”
I protagonisti della vita sociale erano ovviamente gli inglesi, ufficiali e alti funzionari, i consoli stranieri e i turisti di maggior riguardo. Ma con essi c’erano poi i
membri delle famiglie palestinesi più importanti, a formare una società per molti
versi anglo-araba. Le personalità sioniste
erano invece, sulla scena mondana, piuttosto rare. Richard Crossman, un noto
giornalista e politico inglese, se ne accorse la sera che venne invitato a pranzo da
Georges e Katy Antonius, una delle coppie palestinesi più eleganti. «È evidente scrisse - che gli inglesi preferiscono l’élite araba agli ebrei. Questi arabi sono di
cultura francese, molto civili e divertenti… Al loro confronto gli ebrei appaiono
invece tesi, e con i tratti tipici della piccola borghesia centro-europea».
In quel passaggio tra i Venti e i Trenta,
giungevano di continuo visitatori famosi: Albert Einstein, Rudyard Kipling,
George Bernard Shaw, Arturo Toscanini,
Thomas Mann. E tutti erano affascinati
dalla città, dalle immagini che vi si coglievano, dalla bellezza dei dintorni. I tramonti sul deserto (il deserto che secondo
Renan ha partorito il monoteismo), le
IL BLITZ DI ALLENBY
CONQUISTA LA CITTÀ
Con la disgregazione dell’impero
ottomano, nel dicembre 1917
Gerusalemme viene occupata
dalle truppe del generale inglese
Allenby e passa sotto il controllo
britannico, poi trasformato in
mandato dalla Società delle
Nazioni nel 1922. Londra,
impegnatasi contraddittoriamente
a soddisfare sia le richieste arabe
di uno stato indipendente, sia le
aspirazioni sioniste di uno stato
ebraico, favorisce tuttavia la
continua immigrazione di ebrei
nella regione. Ciò suscita un forte
risentimento tra gli arabi e mette
fine alla pacifica convivenza tra
arabi ed ebrei: si moltiplicano
invece gli scontri, sino alla grande
sollevazione araba del ’36, finché,
nel 1947, incapace di mediare tra
le opposte richieste, la Gran
Bretagna rimette il mandato
all’Onu che decide per la
spartizione della Palestina. Ma gli
arabi respingono la decisione e
attaccano Israele: inizia così la
prima guerra arabo-israeliana
KingLeDavid
feste e l’odio nella
LA VITA SOTTO
IL PROTETTORATO
Nella foto in alto,
soldati britannici di
pattuglia per le strade
di Gerusalemme. Qui
sopra, uno scorcio
del quartiere ebraico.
A destra, militari
inglesi cercano di
superare un blocco
degli arabi all’ingresso
della città. A sinistra,
due preti ortodossi
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
LA CITTÀ VECCHIA
Due donne camminano per le vie
del quartiere ebraico della città
vecchia. Sullo sfondo la sinagoga
Nissan Bak
ebrei vedevano infatti nella fine ormai
Bianco che prevedeva come assetto defiprossima dell’impero ottomano la brecnitivo uno stato unico, dunque a maggiocia attraverso la quale si sarebbero realizranza araba. Fu allora che il terrorismo
zati i propri progetti nazionali. I sionisti
sionista prese di mira anche obbiettivi
erano già bene impiantati tra Jaffa, Gerubritannici. Anni d’agguati e di bombe, sisalemme e Haifa, e pochi mesi prima delno all’attentato del ’46 al King David che
l’arrivo di Allenby avevano avuto da Lonne fece crollare un’ala uccidendo novandra, per bocca del ministro degli Esteri
ta persone: ed ecco perché dicevo che
Lord Balfour, l’assicurazione che la Gran
l’albergo è una specie d’epitome del
Bretagna era favorevole alla nascita d’uMandato.
na patria ebraica in Palestina. È vero che
Bene amministrata dai vari governatola guerra non era ancora finita, e che non
ri militari, nei Trenta Gerusalemme s’era
si sapeva in che modo gli alleati si sarebingrandita di nuovi quartieri. Un archibero spartite le spoglie dell’impero turco.
tetto immigrato dalla Germania, Richard
Ma ora che l’esercito inglese occupava
Kaufmann, aveva progettato il quartiere
Gerusalemme, i leader sionisti erano cerdi Rehavia e allargato quello di Talbieh
ti che dalle parole della cosiddetta Diinnestandovi gli elementi essenziali delchiarazione Balfour si sarebbe presto
la lezione Bauhaus. Si trattava di zone depassato ai fatti. Vale a dire una Palestina
stinate agli ebrei tedeschi in fuga dal naebraica.
zismo, che erano riusciti a portare in PaNei lunghi anni dell’agonia ottomana,
lestina una parte dei loro patrimoni. Le
era però sorto un po’ ovunque nei paesi
case erano infatti decorose, in genere di
di popolazione araba — dalla Siria all’Idue piani, intervallate dalle ville orientaraq, dal Libano alla Palestina — un movileggianti delle grandi famiglie palestinemento nazionalista che aspirava all’indisi cristiane o mussulmane. Case e ville
pendenza dei vari territori sottoposti alche sono andato a vedere strada per stral’impero. In Palestina il movimento aveda in questi giorni, e che costituiscono
va avuto radici a Nablus, ma nel ’17 s’era
ancora (nella via Markus, per esempio,
ormai diffuso nelle altre città e cittadine,
nella Alkalay, nella Hovevei Sion) il meGerusalemme compresa. Tanto che già
glio dell’architettura in tutto il versante
prima dell’occupazione inglese, i sospetoccidentale della città.
ti, l’ostilità, i contrasti tra arabi ed ebrei
Beninteso, il mondo di Rehavia e Tals’erano manifestati con un certo numero
bieh costituiva l’élite dell’immigrazione.
di fucilate e di morti.
Mentre diverso era per coloro che sbarAd esasperare gli
cavano senza mezarabi era il continuo
zi, alloggiati dall’Aingrossarsi dell’imgenzia ebraica in
migrazione sionimiseri appartasta. Dagli ultimi anmenti dei brutti
ni Ottanta dell’Otquartieri che stavano sorgendo a Tel
tocento sino alla
Grande guerra, deAviv, a Gerusalemcine di migliaia d’eme, ad Haifa. Ma
brei avevano infatti
benché differenti
raggiunto la Paleper cultura e origini
stina: la «terra senza
sociali, uno stato
popolo» — come rid’animo accomupeteva la propanava gli ebrei ricchi
ganda sionista —
o poveri che arriva«per un popolo senvano — non per una
za terra». Il governo
chiara scelta sioniturco aveva prosta, ma spinti dal
mulgato alcune legpresentimento delgi per limitare gli arla catastrofe — all’irivi e la vendita di
nizio degli anni
terre arabe ai nuovi
Trenta.
venuti: ma i funzioQuello stato d’anari locali, pronti a
nimo pervade lunfarsi corrompere
ghe parti dell’ultiDa I SETTE PILASTRI
dalle organizzaziomo, struggente roDELLA SAGGEZZA
ni sioniste, non le
manzo di Amos Oz,
avevano quasi mai
Una storia di amore
applicate. Sicché i
e di tenebra. Cioè a
nazionalisti arabi speravano che sarebdire il doloroso spaesamento di uomini e
bero stati gli inglesi, adesso, a stagnare
donne che venivano dai climi freddi, dai
l’afflusso degli immigrati in provenienza
grandi boschi, dalle città e cittadine della
dall’Europa centrorientale.
Mitteleuropa, e trovavano il caldo inferQuesto fu l’equivoco che ammorbò la
nale, le sabbie del deserto, i reticolati che
Palestina per tutti i trent’anni in cui vendividevano i quartieri arabi da quelli
ne amministrata dalla Gran Bretagna:
ebraici: e niente caffè di calco viennese,
ambedue gli avversari, arabi ed ebrei,
teatri o sale da concerto. Di quest’urto tra
credettero di poter prevalere gli uni sugli
realtà tanto diverse, della nostalgia per
altri con l’aiuto inglese. E i governi di Lonl’Europa, si poteva morire, e infatti la madra fecero molto poco per rendere meno
dre di Oz ne morì.
ambigua la situazione. Da Allenby in poi,
Né c’era, in Palestina, la sicurezza che
militari e politici parvero infatti incapaci
gli immigrati erano venuti a cercare. Perdi cogliere la peculiarità e gravità della
ché per tutti gli anni Trenta, e in specie
contesa, e di controllarne — quando ebcon l’insurrezione araba del ’36-’38 scabero inizio — le convulsioni.
tenata dal Mufti di Gerusalemme, Hadj
Certo, come potenza mandataria in
Amin el-Husseini, il terrorismo e i massaPalestina (il Mandato le era stato confericri non conobbero pause. Poi, curiosamente, lo scoppio della Seconda guerra
to nel ’22 dalla Società delle Nazioni),
l’Inghilterra tentò a lungo e pazientemondiale portò una certa calma. I leader
mente di smorzare i primi fuochi dell’inarabi (alcuni dei quali erano in contatto
cendio. Ma se non vi riuscì, fu anche percon gli agenti dell’Asse) avevano scelto
ché ondeggiò continuamente da uno aluna posizione attendista, e tra ’41 e ’45 sol’altro versante della contesa senza mai
lo gli ebrei della banda Stern continuarodecidersi a una scelta definitiva tra le rino a piazzare le loro bombe contro arabi
chieste degli uni e quelle degli altri. Non a
e inglesi.
caso l’Alto commissario Wauchope, l’inCome retrovia della guerra in Africa
stancabile organizzatore di pranzi e
settentrionale, Gerusalemme visse alloparty, raccontava di sentirsi come un
ra il suo periodo più animato e cosmopoacrobata da circo costretto a cavalcare
lita. Con Rommel che avanzava nel dedue cavalli allo stesso tempo.
serto egiziano, l’estate del ’42 giunsero
Il nodo più intricato restava quello delinfatti una quantità di personaggi sinall’immigrazione sionista. Secondo molti
lora rifugiati al Cairo: re Giorgio di Grecia,
degli alti funzionari del Mandato, la dire Pietro di Jugoslavia, Haile Selassie, michiarazione Balfour aveva messo l’Innistri di vari governi in esilio con mogli e
ghilterra con le spalle al muro. A Londra e
amanti, generali degli eserciti sconfitti
a Gerusalemme ci si rendeva conto, cioè,
dalla Wermarcht, ricchi levantini, avvendei pericoli rappresentati dal continuo
turieri e spie. In Città alla deriva, un roaumento degli ebrei che giungevano in
manzo di Stratis Tsirkas che Guanda
Palestina (60.000 nel solo 1933), ma la Dipubblicò tre anni fa, c’è un bel ritratto di
chiarazione del ’17 obbligava ad un atquel momento. I pranzi all’hotel Astoria
teggiamento favorevole verso il progetto
o al Queens, gli incontri al caffè Alaska o
d’una patria ebraica. Allo stesso tempo,
al Trocadero, le sere al bar Fink’s, l’unico
gli imperativi politici e strategici emersi
di quei posti che ancora sopravviva.
Poi, finita la Guerra mondiale, riconegli anni Trenta — soprattutto dopo
minciò la guerra tra arabi ed ebrei. Ormai
l’avvento di Hitler al potere — spingevagli inglesi volevano solo andarsene, e il
no a non alienarsi gli arabi.
più presto possibile. Lasciarono la PaleGli inglesi finirono così col procedere a
stina il venerdì 14 maggio 1948, mentre
tentoni. Partiti dalla dichiarazione
già crepitavano le mitragliatrici. Ci fu
Balfour e dal progetto d’una patria ebraiuna frettolosa cerimonia dinanzi al paca, passarono invece nel ’37, con la Comlazzo dell’ultimo governatore, sir Alan
missione Peel, all’idea di due stati indiCunnigham, quindi iniziò l’evacuazione
pendenti, uno ebraico e l’altro arabo. Ma
delle truppe. La Città santa era pronta
nel ’39 l’idea della spartizione venne abper nuove carneficine.
bandonata, e Londra pubblicò un Libro
‘‘
FOTO TRATTE DAL LIBRO JERUSALEM DI NACHUM TIM GIDAL
Lawrence d’Arabia
Io intendevo creare
una Nazione nuova,
ristabilire un’influenza
decaduta, dare a venti
milioni di Semiti la base
sulla quale costruire
un ispirato palazzo
di sogni per il loro
pensiero nazionale
Gerusalemme inglese
passeggiate sui bastioni, le visite ai kibbutz e al primo nucleo dell’università
ebraica. I riti pittoreschi dei cristiani d’Oriente, lo spettacolo dei patriarchi e vescovi cattolici, ortodossi, armeni, siriaci,
maroniti o copti, preceduti dai servitori
in costumi azzurro e oro che battevano in
terra le mazze con l’impugnatura d’argento. Ma interessanti erano anche le
mésaillances che scaturivano dal particolarissimo intreccio etnico, religioso e
sociale della città: come la relazione d’un
ricco magistrato palestinese, Abcarius
Bey, con una bellissima ebrea di trent’anni più giovane, Leah Tannenbaum, i quali ricevevano frequentemente in una lussuosa villa di Talbieh dove qualche tempo dopo sarebbe andato ad abitare il deposto imperatore d’Etiopia, Haile Selassie.
Ma questa scintillante vita di colonia
non era che un sipario: dietro il sipario, in
quell’avvio dei Trenta, la Palestina era un
vulcano prossimo all’eruzione. A Gerusalemme e a Hebron, nell’agosto ’29, l’ostilità tra arabi ed ebrei aveva prodotto le
prime due delle tante carneficine che sa-
rebbero seguite negli anni successivi.
Sessantasette ebrei e una decina d’arabi
erano rimasti sul terreno, i feriti erano
stati dozzine: e s’era subito capito quanto sarebbe stato difficile, per gli inglesi,
contenere lo scontro tra i sionisti e il movimento nazionalista arabo-palestinese.
Perché di questo, ormai, si trattava: non
più di attacchi sporadici e limitati,
com’era stato sin allora, bensì d’uno
scontro aperto. O per meglio dire, delle
avvisaglie d’una guerra inevitabile. La
guerra che sarebbe esplosa nel ’48 — dopo quasi due decenni d’ininterrotto, feroce terrorismo sionista e arabo —, al
momento della partenza degli inglesi. E
che seppure in forme diverse, dura tuttora.
La rinascita della città
Quando il King David aprì i battenti, gli
inglesi erano in Palestina ormai da tredici anni. In una fredda e ventosa mattina
del dicembre 1917, dopo che le truppe
turche e tedesche si erano ritirate, il generale Allenby aveva fatto il suo ingresso
a Gerusalemme dalla porta di Jaffa, fian-
cheggiato da Lawrence d’Arabia e da un
gruppo d’ufficiali francesi e italiani. La
città aveva allora circa 55.000 abitanti
(due terzi dei quali ebrei) e appariva piuttosto mal ridotta. Nell’ultimo scorcio di
governo turco, e in particolare negli anni
della guerra, le strade, l’illuminazione, il
sistema fognario avevano infatti conosciuto un continuo degrado.
Sir Edmund Allenby era un buon cristiano, un metodico lettore delle Scritture, e tali erano anche molti dei suoi ufficiali. Fu perciò con profonda e malcelata
emozione che misero piede nella Città
Santa. L’idea del “metter piede” non fu
tuttavia del Toro, come Allenby veniva
chiamato dalle sue truppe, ma del Colonial Office. Che la sera prima dell’ingresso a Gerusalemme spedì un telegramma
con cui si consigliava d’entrarvi non a cavallo, come avevano fatto lungo i secoli i
molti conquistatori della città, ma più rispettosamente a piedi. Il consiglio venne
ovviamente accolto, e anche da esso derivò l’accoglienza calorosa che ebrei e
arabi tributarono agli inglesi.
Paradossalmente, sia gli arabi sia gli
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
le storie/1
IL PARADISO DELLO STRIP
Il Crazy Horse apre i battenti il 19
maggio 1951, avenue George V,
nel sottosuolo di un palazzo
borghese: lo fonda Alain
Bernardin, pittore senza fortuna,
ammiratore dei saloon americani.
All’inizio non ci sono coreografie,
Miti d’altri tempi
ma un violento nudo integrale. Negli
anni ’60 lo show diventa collettivo. Il
marchio che lo rende famoso nel
mondo è scoprire il corpo delle
ragazze per vestirle con raggi di luce
colorata: una delle massime dive del
Crazy Horse è Lova Moor (nella foto)
Crazy Horse, nude senza peccato
I
PARIGI
n fila sotto la pioggia. Avenue George V, marciapiede, lato desiderio.
Tempio del nudo. Guardi le facce:
normali, da provincia del mondo.
Non vedi voglia, eccitazione, desiderio.
Solo tiepida stanchezza. Tutti uguali:
giapponesi, americani, francesi, italiani.
Ieri su questo stesso marciapiede: Fellini e
De Sica, curiosi e vitali; l’altro ieri: Dalì e
Duchamp, pazzi e geniali. Stessa gioia di
poter vedere, assistere, sognare. Oggi: gente comune,
in giacconi, jeans,
maglioni. Ti chiedi: ma questi sognano ancora il
nudo? Il triangolo,
sì. Del pube. Che
oggi viene classificato come full
frontal. Quello che
una volta Alain
Bernardin, creatore del Crazy Horse,
misurava con precisione. Lui, da vero cultore, ne aveva
canonizzato densità, colore, misure. Alle sue ballerine imponeva un
triangolo equilatero di 12 centimetri,
rigorosamente nero, anche in caso di
capigliatura bionda o rossa.
Leggi il cartello
all’ingresso: «Gli
italiani sono pregati di non portare
le ballerine a casa».
Sorridi, ingialliscono anche i peccati. Pensi a Brancati e ai suoi ingravidabalconi. Però
quando Boris Vian
scrisse «Sputerò
sulle vostre tombe», (processo,
condanna, libro
vietato, multa di
centomila franchi)
il desiderio era rosso color sangue,
impaziente, disperato come una
nota di Sidney Bechet. Guardi Ken
Achich, 18 anni,
15esimo arrondissement, maman l’ha
portato qui per festeggiare la maggiore
età. Ha offerto a lui e ai suoi amici un tour
nell’archeologia della Belle Époque, nello
scandalo che non è più. Hanno lo sguardo
serio, i ragazzi, nessun guizzo scurrile. «Il
mistero del mondo è nel visibile, non nell’invisibile», scriveva Wilde. Seni, natiche,
let’s dance. Quante volte figlio mio? Tante, padre, basta cliccare su Internet e resti
a bocca aperta.
Non serve più il Crazy Horse, per capire com’è fatta la donna. E nemmeno leggere Henry Miller che andava in giro per
le strade decadenti di Parigi fra puttane,
alberi tristi e luci fioche, alla ricerca delle
mille occasioni per notte. L’esistenzialismo sessuale non delira più sul destino
dell’uomo. Il teatro è a semicerchio, piccole sedie di velluto, scomode. Taboo, si
chiama lo spettacolo. Balletto d’apertura: God save our bareskin. Dio salvi il nostro nudo. Il modello sono le guardie reali della regina, ciuffo di crine di cavallo
che copre e sobbalza sul pube. Non tutte
vanno a tempo. Ventinove ragazze, 13 a
spettacolo, tra l’1,66 e l’1,72, vietato
l’1,74, età tra i 18 e i 26. Francesi, polacche, russe, rumene, ucraine, francesi,
un’italiana con il nome d’arte di Lucrece
Habanita. Segno zodiacale dominante:
Vergine. Nessuna particolare perversione: Karlotta si sta trasferendo a Bruges
per dare una mano al marito che apre un
ristorante, Anja bionda e russa non parla
una parola di francese.
L’età dell’oro
Devi chiudere gli occhi per capire cosa si
provava ad aprirli allora. Anni Cinquanta e dintorni. Vadim girava con B. B. E Dio
creò la donna, Alain Bernardin la denudava. Discuteva di piacere e desiderio
con Yves Klein, César, Tinguely, Niki de
Saint-Phalle, Arman, Hains, Rotella,
Nel tempio dell’erotismo si potevano incontrare
Fellini e De Sica. Oggi si vedono solo persone comuni,
spinte dalla curiosità ma non dal desiderio:
ecco come si è trasformato il teatro
più trasgressivo di Parigi, dove una tiepida
stanchezza ha preso il posto dell’eccitazione
gazze». Il settore dopo anni di crisi si è ripreso e ora si lancia nell’esportazione. Il
Moulin Rouge ha speso 6 milioni di euro
per la rivista Feerie e ha chiuso il 2004 con
un giro d’affari di circa 40 milioni di euro,
il Lido ha investito 13 milioni di euro per il
nuovo spettacolo Bonheur.
Lova Moor non è più tornata al Crazy da
quando Bernardin, che aveva sposato, è
morto. Come tutti quelli pieni di vita Alain
se l’è tolta, a 78 anni, nel ’94. Rosa Fumetto andò al funerale. «Ci guardavamo strani, ci chiedevamo: chi di noi sarà il prossimo a fare un gesto simile? Era la morte dello strip-tease». Ora
ci sono i figli,
Sophie, Pascal, Didier, a mandare
avanti l’azienda
che ha anche una
succursale a Las
Vegas e per la serie
show a domicilio si
parla anche di
Tokyo e Shanghai.
«Cerchiamo armonia e equilibrio, corpi sottili,
ma con curve. Non
vogliamo stimolare l’occhio, ma lo
spirito. Il sesso è
magnifico soprattutto quando sta in
testa»
spiega
Sophie. Sembra di
sentire Vargas Llosa: «L’erotismo è
un atto di creatività a cui partecipano l’immaginazione e la cultura».
Sarà, ma se non
ti fa dormire di sabato sera è meglio. Fast food che
non ingrassa il
desiderio. E allora
vai, con il balletto
Vestal’s Desire
ispirato all’Egitto
e con Va-VaVoom, numero
dove sulle ragazze
vengono
proiettate luci
optical e i corpi
perdono l’anatomia per diventare
un’illusione di
triangoli, pois,
rombi. E vai anche con il mago
pasticcione Otto
Wessely che maltratta un coniglio
e una colomba di pezza. È il numero più
applaudito. Sissignori, quello del mago. Vestito, vestitissimo, ha anche il papillon. La gente ride, si rilassa, partecipa. Rosa Fumetto sostiene che se la gente impazzisce per il coniglio che esce
dal cilindro c’è qualcosa che non va nell’equilibrio dello spettacolo: «Va bene
che noi oggi chiediamo sempre di più,
ma se uno spogliarello ti distende invece di eccitarti non è buon segno».
FOTO CONTRASTO/CORBIS
EMANUELA AUDISIO
Rauschenberg e Jasper Johns. Di come
svestirlo con Azzaro, Alaïa e Paco Rabanne che fece esordire i suoi primi modelli
metallici proprio al Crazy Horse. Dolce
bassa vita. Il locale apre il 19 maggio 1951
e fin dall’inizio spoglia in scena le più belle ragazze, a cominciare da Miss Fortunia (1952) che si esibisce nel numero della pulce creato da Max Revolt, per arrivare al duo Rita Renoir-Rita Cadillac (1953),
a Victoria Nankin nel primo esperimento di grafica luminosa proiettata sulla
pelle nuda (1960), a Prima Simphony, celebre per il suo spogliarello sulle note di
Svestitemi della Gréco.
Poi la contestazione, anche di quello
che ci si metteva addosso. Il ’68: arrivò,
spogliò, liberò. Le rivoluzioni si fanno
con il corpo. Sulla barricate a Parigi c’era
Rosa Fumetto. Nuda, al Crazy Horse.
Sotto il selciato c’è la spiaggia. Lei ricorda: «Bernardin era un genio, nello spogliarello non cercava la volgarità, ma l’arte. Usava tutto: cinema, tv, pittura, musica. Aveva un vantaggio, era nato a Parigi,
aveva vissuto la guerra, sapeva liberare la
voglia. Era maniacale, controllava tutto,
dai camerini alle toilette. Ma per noi c’erano i sarti, i disegnatori migliori, mai
avuto scarpe così belle. Lo incontrai a Roma in un ristorante, mi offrì il biglietto aereo per un provino. Andai, lui osò con il
resto. Inventò la storia di una donna che
si perdeva dentro il Vesuvio. Ero strapagata, il teatro allora era piccolo, quando
stavi in scena ti sentivi in mezzo al pubblico, e ti saliva l’adrenalina a mille. Volevo essere indispensabile: la gente era
corretta, non allungava le mani, non ricordo le persone che ho stravolto, ma
quelle che hanno eccitato me».
Più ginnastica che seduzione
Lo spettacolo di oggi va avanti, Lezioni di
erotismo, ragazza a cavalcioni, su un divano rosso a forma di labbra. Più ginnastica, che seduzione. A muoversi con vera sinuosità sono i camerieri che scivolano nel buio per le ordinazioni. Pubblico
L’ARTE DI SPOGLIARSI
INVENTATA DA SALOMÈ
Lo strip-tease ha origini
antiche: dalla biblica danza
dei sette veli di Salomè ai nudi
di Frine o Lady Godiva. La
definizione deriva da “to strip”
(svestirsi) e “to tease”
(stuzzicare). Alcuni storici
indicano il 1889 come data
del primo strip-tease,
realizzato da Blanche Cavelli
al café-chantant parigino Le
Divan Japonais sull’aria della
canzone Le Coucher d’Yvette:
la ragazza si spogliava
accanto al letto, di fronte alla
fotografia dell’amato appena
richiamato alle armi. Altri
vedono la teatralizzazione
della canzone napoletana
settecentesca La cammesella
come primo esempio di
spogliarello. La fortuna dello
strip si accresce negli Stati
Uniti tra le due guerre: Gipsy
Rose Lee è la massima diva
dell’epoca. In Inghilterra c’è
Phillis Dixey. In Francia nel
1957 si contano ben 24 locali
in cui vengono presentati
spettacoli di strip
incerto: dov’è il velluto, la vena sottile di
provocazione che si insinua pian piano,
che prende forma in un particolare, che
cresce con la lentezza, che sa farsi desiderare a lungo? Dov’è l’atmosfera, la tempesta che riaccende una voglia spenta?
Tutto era diverso nel ’69 quando Lova
Moor a 18 anni arrivò a Parigi da La Rochelle, città marinara affacciata sull’Oceano e roccaforte protestante nel XVI secolo. Di famiglia povera, Lova studia per
diventare insegnante per bambini difficili, ma il suo sogno è fare la ballerina. Viene scoperta mentre balla in una discoteca dal coreografo del Crazy Horse che la
invita a fare un provino. Bernardin le fa
studiare danza, canto, recitazione. «Alain
era geniale nel riunire donne bellissime,
nell’esaltarne la bellezza con un gioco di
luci particolare, rendendole simili a statue. Severo con noi ragazze, esigente con
tutti, i suoi balletti nascevano spesso da
coreografi americani. Un suo segreto: abbassare il soffitto del palco, in modo che
la ragazza risaltasse al centro della scena,
apparendo più grande».
Già, il Moulin Rouge era can-can e nostalgia, il Lido piume e pailettes, il Crazy
Horse nudo internazionale. «Il bel mondo
non si vergognava di venire, né di farsi vedere. C’era spesso Fellini che diceva sempre che mi avrebbe fatto fare un film, c’era
Alain Delon, con cui ho avuto un’intensa
storia d’amore, ma quella che più mi ha
impressionato è stata Liza Minnelli che
una sera, imbottita di alcol, invaghita del
direttore del locale, salì sul palcoscenico
perché voleva insegnarmi a ballare. Oddio, anche Tony Curtis non scherzò, mi
tenne ferma la testa sulla piattaforma
mentre il mio corpo era in verticale e io
continuavo a cantare e a muovermi. Adesso, gli spettatori non sanno più nulla dell'erotismo. Il sesso visto su Internet non ha
niente a che vedere con il Crazy Horse e anche la televisione ha inflazionato la bellezza femminile. Bernardin accettava le telecamere una sola volta l'anno per lasciare
la voglia e la curiosità di vedere le sue ra-
La morte dell’eros
Allora capisci: l’eros è caduto, vinto,
battuto. L’hai appena visto trascinarsi
stanco sul palco che è stata la sua culla
per un’ora, girarti intorno con parrucche arancioni, verdi e viola, cercare di
convincerti inutilmente con il fondoschiena. Uno spettacolo di luce, ma non
qualcosa che ti scalda il sangue, che ti
rianima voglia e desiderio. Chissà se James G. Ballard è passato di qua, in questo teatro sull’avenue George V, per capire che bisognava cercare sensi e sensualità altrove, quando scrisse Crash
tutti si scandalizzarono perché il sesso
passava per le auto, per l’identificazione totale corpo-macchina, scontroamplesso, mentre lui con la dovuta spigolosità stava solo cercando di provocare una reazione, di far rivivere l’eros,
morto anche nel tempio del Crazy Horse, ucciso dall’abitudine al nudo, dal costume di far diventare tutto hard, dalla
pubblicità dei tostapane a quella dello
yogurt. Taboo, si chiude il sipario. Tutti
a casa, anzi a nanna, per davvero. Senza
sentirsi sporchi o peccatori, ma anche
senza sogni. Se ne va con gli amici anche
Ken, il ragazzo a cui la madre ha regalato la prima notte di trasgressione da
grande. Contento? «Era meglio fare due
tiri a pallone». Forse è vero: l’unico modo per tenersi una cosa è perderla.
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
le storie/2
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
Bambini nel deserto
Hanno dai due ai sette anni, vengono comprati a duemila
dollari nei paesi più poveri dell’Asia e dell’Africa, portati
nel Golfo Persico e trasformati, con la violenza, in fantini.
Un uomo arrivato dal Pakistan ha deciso però di dedicare
la vita alla liberazione, con ogni mezzo, dei quarantamila
bimbi che ogni anno rischiano di morire sulla sella
GABRIELE ROMAGNOLI
La via dei trafficanti
Per prima cosa studiò come funzionava il traffico. I bambini arrivavano dal
suo Pakistan, dallo Sri Lanka, dall’India, dall’Etiopia, dal Sudan. Destinazione: gli Stati del Golfo dove, per tradizione, si tenevano le corse: Qatar,
Kuwait, Oman, ma soprattutto gli Emirati. Avevano la stessa nazionalità dei
domestici a servizio nelle sontuose dimore, ma entravano illegalmente.
Molti venivano rapiti, altri sottratti ai
genitori con l’inganno, promettendo
che sarebbero stati adottati da una famiglia ricca, di cui veniva prodotta la
fotografia: eccoli nel giardino di una
villa, con un cucciolo di cane e questa è
l’altalena che vostro figlio userà. Non
poté non ammettere che altrettanti venivano semplicemente venduti, per fame: duemila dollari, anche meno.
All’aeroporto passavano i controlli
drogati, in braccio a mamme fasulle.
Oppure venivano stipati in un contai-
Dubai, i piccoli schiavi
dei cammelli da corsa
ner, mentre una mancia entrava nelle
tasche dei doganieri. Li attendevano
campi di lavoro come quello davanti a
cui adesso Burney sostava in auto,
aspettando il momento per entrare in
azione. Ne aveva già visti a decine, sempre uguali: baracche e recinti. Niente
elettricità, niente acqua. I bambini
dormivano su una stuoia, ammassati.
Sveglia alle tre del mattino, ritirata alle
nove della sera. Nelle altre diciotto ore
accudivano i cammelli e si allenavano.
Quando erano troppo piccoli venivano
legati al cammello con strisce di velcro.
Se urlavano, la velocità aumentava. Se
andavano piano, venivano battuti. Loro, non i cammelli. All’ora del pasto: tre
biscotti. Oppure: mezza pagnotta. Non
bastava che fossero leggeri perché piccoli, li volevano ultraleggeri perciò denutriti.
Un bambino salvato da Burney ha
raccontato di aver assaggiato il cibo destinato agli animali. Lo stava gustando
quando è stato scoperto: lo hanno frustato e poi collegato a un generatore
provocandogli scosse a tutto il corpo.
Gli allenamenti erano duri e rischiosi. A
quell’età stare per ore in groppa a un
cammello in corsa pregiudica un normale sviluppo degli organi sessuali. Le
cadute erano frequenti, nessun medico accudiva i feriti, perché la loro presenza era clandestina. Qualcuno era
morto. L’avevano trasportato qualche
duna più in là e sepolto senza lasciare
sulla sabbia altro che orme senza memoria. Ashraf e Akram, due fratelli di 5
e 7 anni riportati a Karachi dopo una
lunga schiavitù, hanno raccontato:
«Farsi male era una cosa comune. Abbiamo perso sangue dalla bocca, dal
naso, dallo stomaco e l’abbiamo inghiottito in silenzio. I guardiani non
volevano sentire lamentele. Di giorno
urlavano, di sera tiravano a sorte con
quale di noi divertirsi». Sessualmente,
intendevano abbassando lo sguardo.
Poi raccontarono anche che cosa successe a un bambino caduto in gara: «Lo
riportarono al campo. Lo trascinarono
in una baracca. Più tardi uno venne e,
per punizione, gli bruciò una gamba.
Dopo, non serviva più». Ansar Burney
sapeva che la stessa cosa stava per succedere al bambino che aveva seguito.
Un giorno Ansar
Burney vide Shaid,
tre anni, nella
baracca in cui era
prigioniero. Affrontò
il guardiano, poi lo
prese sulle spalle
e cominciò a correre
FOTO CORBIS/CONTRASTO
L’uomo della liberazione
Il suo nome era Ansar Burney. Nato in
Pakistan, sposato, padre, attivista in difesa dei diritti umani. Sedici anni addietro aveva assistito per la prima volta
a una corsa di cammelli. Come molti
aveva pensato, andandoci, che potesse
essere una buffa esperienza. «Ma non
guardare gli animali — lo avevano avvertito — osserva i fantini. E capirai».
Quando erano sbucati sulla dirittura
aveva strizzato gli occhi: i fantini gli
erano sembrati piccolissimi. Cresceranno avvicinandosi, aveva pensato.
Invece no: erano bambini. Il vincitore,
quando fu fatto scendere, faticava perfino a reggersi: avrà avuto due anni.
Non ritirò alcun premio, sparì barcollando. Da quel giorno Ansar Burney decise di liberare i piccoli schiavi del cammello. Ci sono molti modi di fare l’attivista politico: «La maggior parte si siede a una scrivania e butta giù una dichiarazione. Io vado a cercare di tirare
fuori dai guai chi ci è finito. Non m’importa se ci casco dentro anche io». La
strategia gli parve semplice: riprendere i bambini a chi se li era presi.
FOTO CORBIS/CONTRASTO
Q
DUBAI
uando il cammello prese velocità il bambino in groppa
commise l’errore più grosso: si mise a urlare. L’animale lo considerò un incitamento. Più il bambino piangeva e gridava, più il cammello accelerava. Uscì
dalla curva in testa alla corsa. Gli uomini accalcati in tribuna lo incoraggiarono alzando le braccia infilate nelle
bianche tuniche. Il proprietario della
scuderia sorrise pensando alla vincita
imminente. Poi ci fu uno scossone di
troppo e il minuscolo fantino perse la
presa. Volò sulla pista, nella sabbia. Gli
altri cammelli gli passarono avanti,
sfiorandolo e facendolo ruzzolare. Gli
sguardi della folla proseguirono verso
il traguardo. Il proprietario della scuderia spense il sorriso. I suoi sottoposti
accorsero ad accertarsi che non ci fossero danni. Al cammello. Qualcuno
raccolse il bambino e lo trascinò via,
nessun medico lo visitò, sugli spalti soltanto un uomo restò a guardarlo mentre veniva allontanato, poi scese, andò
al parcheggio, salì in auto e seguì il furgone dove era stato caricato. I grattacieli di Dubai scomparvero dal retrovisore, sul parabrezza apparve il deserto.
Il furgone si fermò dopo qualche chilometro. L’accampamento era fatto di
poche baracche con il tetto di lamiera,
a rosolare sotto un sole da 50 gradi,
senz’ombra. In un recinto si aggirava
lenta una dozzina di cammelli. Tra di
loro, occupati a sfamarli o lustrarli, una
masnada di bambini di età apparente
compresa tra i due e i sei anni. Qualcuno faceva fatica a camminare. Si fermarono un attimo quando il piccolo
fantino caduto in pista fu scaricato e,
per le ascelle, trascinato dentro alla baracca. Un grido secco gli fece riprendere il lavoro, a occhi bassi. Sapevano tutti cosa sarebbe successo al bambino
che era caduto. Lo sapeva anche l’uomo seduto in auto: per questo doveva
intervenire.
L’ANNUNCIO SUL GIORNALE
«Corsa con bimbi di 6 anni»:
l’ultima gara è stata
pubblicizzata il 15 gennaio
sul libanese Daily Star
Salvarne uno in più
In sedici anni ne aveva portati via qualche migliaio, 387 nel solo 2004. Aveva
fatto approvare negli Emirati una legge
che puniva l’uso di fantini sotto i quindici anni o i quarantacinque chili. Ma
non era riuscito a farla rispettare. Allora aveva nascosto una micro-telecamera in un accampamento. Da 24 ore
di registrazioni aveva tratto un documentario trasmesso con scalpore dalla
rete via cavo americana HBO. L’anno
scorso lo sceicco Mohammed bin
Zayed, che guardava la tv più di quel
che succedeva nel suo emirato, decise
di aiutarlo. Inasprì i controlli, creò, ad
Abu Dhabi, un ostello per ospitare i
bambini strappati ai predatori. Il Qatar
annunciò che avrebbe provato l’impiego di mini-robot come fantini.
Ma a Dubai le corse continuano. Gli
annunci sui quotidiani arabi presentano come una speciale attrazione per il
pubblico la possibilità di vedere i piccoli spaventati fantini. Per questo Burney era venuto, nuovamente, fin lì: per
liberare almeno un bambino in più.
Quando davanti alla baracca rimase un
solo guardiano scese e lo affrontò.
L’uomo fece resistenza. Burney mostrò una lettera personale dello sceicco, citò la legge. Il guardiano ribatté che
il bambino aveva quindici anni. Mostrò un passaporto e un visto della federazione che erano stati falsificati o,
peggio, rilasciati a pagamento da un
funzionario corrotto. Burney non vide
altra soluzione: lo spinse nella sabbia,
si caricò il bambino in spalla e scappò
portandolo con sé. Ora non gli restava
che rimpatriarlo, cercare di riconsegnarlo alla famiglia, sperando che non
l’avesse venduto.
Il bambino tremava, disse di avere
tre anni, di chiamarsi Shaid. Burney lo
portò all’ambasciata del suo Paese. Sapeva già che non l’avrebbero aiutato
volentieri. Il funzionario scosse la testa: «Perché si dà tanto da fare? È inutile. Serve solo a mettere nei guai lei e
noi». Avevano cercato di incendiare la
sua casa e il suo ufficio, preso a sassate
la sua automobile. In telefonate notturne i trafficanti di schiavi avevano
minacciato di ucciderlo. E un diplomatico pigro adesso gli diceva che, con la
sua attività, «comprometteva le relazioni tra il suo Paese e quelli del Golfo.
E le sarà chiaro quanto ne abbiamo bisogno». Burney sapeva che cosa dire in
questi casi, l’aveva già fatto altre volte.
Chiamò a sé il bambino che era caduto
in corsa. Disse: «Ogni anno ci sono
trentamila corse con i cammelli. Quarantamila bambini come questo li
montano, rischiando la loro vita, rovinandosi le gambe e le palle per far divertire tutti quegli uomini ricchi, tutti
quegli uomini tanto religiosi che stanno a guardarli. Trentamila gare e quarantamila bambini. Sa quanti bambini
arabi, quanti dei loro figli hanno mai
messo su un cammello da corsa? Neanche uno. Nessuno, mai». Il funzionario
timbrò il documento.
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
Vita d’azzardo
VITTORIO ZUCCONI
C
LAS VEGAS
hi pensa che l’inferno sia
buio, non deve essere mai
stato a Las Vegas. Qui è il
cielo, a essere senza stelle.
La terra è splendente. Ogni volta che ci
atterro di notte — e ci sono atterrato
troppe volte — ho la sensazione di precipitare verso l’alto, perché Las Vegas è
un mondo alla rovescia, dove le stelle
stanno sotto e il buio sta sopra. Forse
l’inferno è un posto così, splendido,
scintillante, succulento, topless, ma
eternamente capovolto. E naturalmente senza vergini, tutte condannate
al paradiso. Quest’anno, in maggio,
l’infernetto nel deserto compirà 100
anni. Non sono proprio l’eternità, ma
bastano per far male.
Qui, dove quasi 40 milioni di anime
entrano ogni anno gonfie di speranza
ed escono disperate dopo avere lasciato 80 miliardi di dollari negli alberghicasinò (l’accento è del tutto optional),
ogni cosa funziona benissimo, ma funziona alla rovescia. La forza di gravità
spinge verso l’alto, nella rincorsa di
mostruosità edilizie sempre più enfatiche, Torri Eifell e Statue della Libertà,
Minareti e monoliti della Mgm, tendoni da circo e ville italiane da 80 piani che
stroncherebbero il povero Palladio se
le potesse vedere. Empietà architettoniche che si rincorrono come rilanci a
un tavolo di poker. Il più nuovo, il
“Wynn Hotel”, intitolato senza più tanti fronzoli al nome dell’uomo più ricco
della città, Steve Wynn, sarà costato,
quando sarà inaugurato questo aprile,
circa un miliardo di dollari. Se appaltassero il ponte sullo Stretto di Messina
a lui, l’avrebbe già costruito, Stretto
compreso.
Il peccato all’ingrosso
Il peccato si vende all’ingrosso, al dettaglio, sciolto, a pacchi in confezione
famiglia, con lo sconto e anche gratis,
ma l’82 per cento dei residenti si definiscono nei sondaggi “religiosi” o “molto
religiosi”. Le donne si vestono per andare a dormire, e si spogliano per andare a lavorare. La terra, con i suoi 23 mila
chilometri di luci al neon, illumina il
cielo, dove le stelle non possono competere e si nascondono. La notte è il
giorno, e solo i profughi degli sconti per
comitive si muovono sotto il sole che
per nove mesi all’anno rosola i corpi. La
gente vera vive di notte, dopo la una,
quando gli alieni del buffet tutto compreso e i colombi dei 180 matrimoni al
giorno nelle cappelle col finto Elvis intrippato in costumi troppo stretti, sono
già a letto, per digerire il buffet o consumare il matrimonio, che all’alba saranno già passati. Una licenza matrimoniale instant e solubile nella luce del
mattino, costa 35 dollari. Una petizione
di divorzio al tribunale ne costa 450.
L’uscita è più cara dell’ingresso, nel
mondo capovolto.
Le cose che si toccano sono tutte false, ma i miraggi sono veri. Uno dei mastodonti più redditizi di Wynn si chiama appunto Mirage. L’acqua non c’è e
infatti zampilla da più fontane di
quante ne abbia Roma, giurano le guide. Il centro della città è in periferia,
nello Strip, nel rettilineo dei colossi,
mentre la periferia sta in centro, decaduto e triste. I soldi non servono a nulla, perché sono troppi, sono semplici
sogni, falsi come le moine delle lap
dancer, delle ottomila professioniste
delle contorsioni erotiche nel grembo
dei clienti a un millimetro dal naso,
che di notte fanno marchette e di giorno dicono tutte di frequentare la facoltà di medicina o di giurisprudenza
presso l’ottima Nevada University pagando la retta con le mance degli arrapati. Una Harvard nel deserto, costruita con i quartini delle slot machine e
dei dollari infilati nei microslip delle
baiadere.
La ricchezza si misura a miliardi,
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
Chi pensa che l’inferno sia buio, non è mai stato qui,
dove è il cielo ad essere senza stelle. Questo è il mondo
alla rovescia: le cose che si toccano con mano
sono false, i miraggi sono veri e le donne si vestono
per andare a letto. Un mondo che compie cent’anni
ma non ha mai smesso di essere post-moderno
Las Vegas
la città capovolta
due milioni di dollari non comprano
niente. Sono bigliettini da Monopoli,
Mickey Mouse Money, valuta immaginaria da Topolinia. Non bastarono
neppure per pagare la stanzetta in un
motel da tossici, naturalmente in centro, dove Stu Ungar, tre volte campione del mondo di poker e fresco vincitore di due milioni, morì da solo nel
1998. Un letto coperto di carte da gioco sparpagliate sulla coperta a fioroni
sporchi, con le coronarie ingolfate dal
cocktail di cocaina e di tranquillanti
che usava ogni giorno per potere vivere la vita alla rovescia. Quando nacque, appunto nella primavera del
1905, la battezzarono Las Vegas che
vuol dire “le verdi pasture”. Chi l’ha
mai vista qui, una verde pastura, da
quando l’ultimo ittiosauro morì, come
Stu Ungar, anche lui solo come una
belva estinta?
Welcome to fabulous Las Vegas, ti accoglie lo stesso cartello stradale gusto
“nostalgia” anni ’50 piantato da
Frankie Old Blue Eyes Sinatra e dai suoi
amici, Dino, Peter, Sammy, quando
non erano troppo sbronzi per stare in
piedi. Da allora, da quando il Rat Pack,
i topi di Frankie si ubriacavano con Jfk
e le dames, le ragazze dei mafiosi, al
Sands, al Riviera, al Dunes, nei vecchi
alberghi demoliti e scomparsi come i
dinosauri e gli indiani Paiute che una
Quasi quaranta
milioni di persone
arrivano ogni anno
cariche di sogni
e se ne vanno
dopo aver lasciato
negli hotel-casinò
ottanta miliardi
di dollari
volta erano padroni di questa valle, tutto è cambiato e tutto è rimasto lo stesso. Non cambia mai la materia prima, il
carburante, il motore che fa girare il
pianeta capovolto e la voglia di degustare un sorso di deliziosa dannazione.
«Certo che se questo è l’inferno» diceva
“Dino”, Dean Martin, prima di stramazzare ubriaco addosso qualche corpo di donna senza nome, «il paradiso
deve essere una noia terribile». Tra parentesi: quel cartello che augura il
“benvenuto a Las Vegas” non sta neppure a Las Vegas, ma fuori, nella contea
chiamata — non avranno molto buon
gusto ma l’ironia non manca — “Contea del paradiso”.
I primi umani ad arrivarci, nel senso
dei primi non Indiani nativi, perché
quando in America si dice i “primi”, degli Indiani ci si scorda sempre, furono
due spagnoli, Antonio Armijo e Rafael
Rivera, che inciamparono in un’oasi
per caso. Avevano talmente sete da
scambiarla, nel loro entusiasmo, per
una verde pastura. Ma di loro è rimasto
soltanto quel nome, che nel mese di
maggio del 1905 venne appiccicato al
grumo di baracche, di stalle, di bordelli, di bische, di cisterne per le locomotive a vapore della prima linea ferroviaria proveniente da Salt Lake City che
osò attraversare il nulla verso la California, quando il signor Clark, barone
delle ferrovie e della speculazione sui
terreni, decise di nobilitare il villaggio e
farne ufficialmente una incorporated
town, una città.
I primi “anglo”, i primi colonizzatori
bianchi non spagnoli, alla fine dell’Ottocento erano stati, sempre per restare
nel mondo del viceversa, quanto di più
lontano si possa immaginare da ciò che
Las Vegas sarebbe diventata. Furono i
Mormoni ad arrivarci, setta tardo cristiana di insaziabili moralisti, astemi rigorosi, accaniti non fumatori, non giocatori, indossatori di cilicio, missionari
implacabili, ma con un solo vizietto,
che forse aiuta a spiegare quanto sarebbe accaduto dopo: la poligamia. La leggenda delle favolose “divorziate”, degli
sciami di signore fresche di sentenza liberatoria che si gettano fameliche su
Las Vegas per riguadagnare il tempo
perduto, quella leggenda che crolla nell’umiliazione del «sono 500 dollari (minimo) tesoro», forse nasce dagli stuoli
di ex mogli che i Mormoni si dovettero
lasciar dietro, quando la poligamia divenne illegale e dovettero trovare da
campare.
La prostituzione naturalmente è
proibita a Las Vegas, nella contea del
Paradiso e nella contea di Clark, dunque è praticata con produttività cinese. Tutto alla rovescia. Per trovare gli
ultimi bordelli autorizzati, gli scanna-
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
‘‘
Dante non ha scritto all’epoca dei centri
commerciali, ma avrebbe riconosciuto Las Vegas
per quel che è: una religione, una malattia, un
incubo, un paradiso per una razza bastarda
FOTO CORBIS
Da Holy City di NICK TOSCHES
Croupier batte Reverendo dieci a uno.
E i casini rendono quasi 10 miliardi di
dollari in entrate fiscali alle casse di
sindaco, ogni anno. Le chiese, che sono tutte non profit, ciccia. A chi andranno le simpatie del primo cittadino?
82%
Sono i residenti che si
definiscono religiosi o
molto religiosi. A Las Vegas
ci sono 160 chiese: altro che
inferno. Molte di più però
sono le case da gioco
toi come quel “Mustang Ranch”, il ranch delle cavalline selvatiche (femministe astenersi) già quotato a Wall Street,
ci si deve avventurare molto fuori, imboccare la strada del nord verso la sorellastra racchia di Las Vegas, Reno.
Stanno dove zampettano gli scorpioni
e scondizolano i rattlers, i serpenti a sonagli, e il deserto duro nasconde i cadaveri di molti bravi ragazzi che avevano pescato la carta sbagliata e fecero la
fine di Bugsy Siegel, il capetto troppo
ambizioso della “Jewish Mafia”, la famiglia mafiosa ebrea di Lansky, che costruì il primo hotel, casinò, resort, il
“Flamingo”, sprecando troppi capitali
e pestando troppi piedoni suscettibili.
Il sindacato della mafia
Oggi la mafia non controlla più Vegas
(così la chiama il popolo della notte, Vegas, senza articolo). Non spadroneggiano più i fondi pensione del sindacato camionisti, i micidiali “Teamsters”,
che negli anni ’50 e ’60 costruivano e
demolivano a piacere, fino a quando il
loro presidente Jimmy Hoffa scomparve e il suo cadavere non fu mai trovato.
Forse sta qui, tra le tarantole e le mignotte, se non è embedded, incastonato nei piloni di cemento di un ponte. I
vecchi pit boss, i capetti che controllano i croupier, i dealer, i giocatori e, guarda la coincidenza, si chiamano ancora
in tanti Toni, Vinny, Carmelo, Salvatore e li riconosci subito dal capello cotonato, laccato e richiamato per coprire
la piazza, lamentano, quando scoprono che sei «’taliano puro te» e hai perso
abbastanza soldi per meritare due
chiacchiere, che ormai è tutto un «bisenisse». È tutta un’industria senza cuore,
pacchetti azionari e big corporation
quotate in Borsa, consigli d’amministrazione e master in economia, controllate da quegli incorruttibili e occhiuti revisori dei conti che già certificarono con tanto rigore i bilanci della
Enron, di Cirio e di Parmalat. La promessa di Micheal Corleone alla moglie,
«tra cinque anni la famiglia sarà legittima» si è avverata.
Il sindaco Oscar Goodman, il 19esimo da quando esiste Vegas, si mette a
sibilare come un serpente se gli parli di
Mafia. Poi leggi la sua biografia e ti accorgi che ha fatto i miliardi come avvocato difensore di tutti i principali
“piezz’e Novanta” di Cosa Nostra,
Mayer Lansky, lo sponsor del giustiziato Bugsy Siegel, compreso. «Difendere
un assassino non fa dell’avvocato un
assassino» sibila lui, giustamente. Ma i
miliardi delle sue parcelle, avvocato,
da dove venivano, da una colletta in
chiesa? «Ci sono 160 chiese a Las Vegas,
altro che inferno». Amen, amen, ma ci
sono 1701 case da gioco autorizzate.
80miliardi
Sono i dollari che, ogni anno,
lasciano negli alberghi-casinò
i quasi 40 milioni di turisti che
entrano in città: 37 milioni i
visitatori nel 2004. Sono 1701
le case da gioco autorizzate
I MILLE VOLTI DI LAS VEGAS
Dalla piramide di Luxor al casinò di Bellagio,
da New York a Parigi al Canal Grande di Venezia:
così Las Vegas ripropone il mondo in una città
La torta più grande
La Camera di Commercio, dove il mondo sembra per un momento raddrizzarsi e tornare alla normale banalità
della propaganda ufficiale, vanta la gloria di questa città nel nulla che cresce
più di ogni altra metropoli americana,
sessantamila residenti legali in più all’anno, più i clandestini, totale un milione e mezzo di abitanti. Qui vive lo
spirito della frontiera, diranno nel
prossimo mese di maggio quando
Wynn preparerà «la torta più grande del
mondo» (vai poi a controllare) per il
centenario, prosperano l’individualismo del cercatore d’oro, la tenacia dei
49ers, i disperati che attraversarono a
piedi il deserto nel 1849 per arrivare, i
superstiti, alla California. Ronald Reagan era adorato e proprio da Las Vegas,
dal motel casinò “Thunderbird”, il dio
indiano del tuono, lanciò (lo so, c’ero
anche io, naturalmente non per giocare, per lavorare) la propria corsa alla Casa Bianca. Repubblicani di ferro, dunque, tutti Dio, patria, ballerine in topless, tavolini da gioco e bombe atomiche guardate dai tetti dei caffè mentre
le esplodevano, crepino le radiazioni,
dunque? E il mondo alla rovescia, lo abbiamo già scordato? Alle elezioni del
novembre scorso, questa fu l’unica
città del Nevada e di tutta la frontiera
del West che votò per John Kerry. Forse
perché, come mi disse una brava madre
di famiglia di mezza età, divorziata con
tre figli, che distribuiva le carte a un tavolo di black jack, «noi
qui i bari li riconosciamo
appena si siedono». O
forse i bravi Vegans si ricordano che se il loro pianeta assurdo esiste e ramazza dollari, non lo deve allo spirito dell’iniziativa privata, ma a quella
diga voluta da Hoover e
costruita da quel “comunista” di Roosevelt che
ferma il Colorado e alimenta con elettricità a
buon mercato tutti i
neon e tutti i condizionatori d’aria della città.
Senza lo statalismo rooseveltiano, qui ancora
correrebbero indisturbati gli Indiani Paiute.
Un inferno privato alimentato dai soldi dei
contribuenti. Una serie
di gironi concentrici che
si alzano verso il cielo, fino alle “balene”, alle
whales, come nel gergo
dei casinò si chiamano i
giocatori, quasi sempre cinesi, giapponesi o arabi che perdono almeno un milione di dollari e le cui carcasse sono
amorevolmente accudite con pasti,
suite, ragazze di scorta (non armata), limousine, biglietti aerei a spese dell’albergo. Ci sono ormai voli di linea non
stop di jumbo da Londra, Francoforte,
Tokyo, Taipei. L’acqua della globalizzazione finisce in questo imbuto.
Una sera del 2000 feci qualche mano
di poker da Binion’s, la Betlemme dove
nacque il mondiale, con Doyle Brunson, il vecchio maestro malato, dimenticando la Prima Legge del Poker («se
non riesci a individuare il pollo seduto
al tuo tavolo, vuol dire che il pollo sei
tu»). Si degnò di rivolgermi anche la parola e di farmi notare ridendo qualcosa
che io — il pollo — non avevo mai notato. Che c’è un solo Re, tra i quattro nel
mazzo, senza i baffi, ed è il Re di Cuori.
E che vuol dire? Vuol dire che lui aveva i
tre coi baffi e io l’unico glabro. Prese il
piatto e io uscii nella notte, a riveder le
stelle sulla terra.
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
Il 12 febbraio settemilacinquecento drappi color
arancio montati su settemilacinquecento “cancelli”
saranno srotolati e vibreranno al vento tutti insieme,
marcando un sentiero effimero, lungo 37 chilometri, nel cuore verde
di New York. Il progetto chiamato The Gates è costato 20 milioni
di dollari e durerà appena sedici giorni ma sta richiamando nella città
americana centinaia di migliaia di nuovi turisti
Un’onda d’oro
su Central Park
Christo
PINO CORRIAS
D
LE OPERE
NEW YORK
ice Christo: «Sarà come un
fiume dorato che appare e
scompare, tra i rami. Sarà
un percorso luminoso.
Un’onda calda. Un nuovo cielo». Sarà
unico, immenso, irripetibile.
Immaginare l’evento da questo punto
preciso, la Billy Johnson Playground, accanto a Fifth Avenue, all’altezza della 67th
Street che taglia in due Central Park: 7.500
drappi color arancio che vibrano al vento.
Il mondo che si ferma per guardare stupefatto. E loro due, Christo e JeanneClaude, gli autori, gli artisti, che si tengono per mano come adesso, appena finito
l’ultimo sopralluogo.
Nessun messaggio, nessuna simbologia, solo arte temporanea. L’arte di passeggiare sotto a un nuovo mondo di stoffa e di luce. Per l’esattezza 37 chilometri di
nuovo mondo, lungo i sentieri spogli, e
adesso innevati, di Central Park. Ai piedi
del cielo atlantico di New York. Dentro alle ferite di New York. Lungo la memoria di
New York. E ai bordi delle ombre precipitate l’11 settembre di tanto tempo fa, non
solo qui, a New York.
Christo e Jeanne-Claude, gli ideatori
del primo grande evento artistico del
2005, lavorano al progetto da 26 anni. Il
progetto si chiama The Gates, i cancelli. È
costato migliaia di pagine scritte, migliaia
di foto, centinaia di disegni, decine di sopralluoghi e 20 milioni di dollari tondi.
Come tutti i progetti di Christo e JeanneClaude anche The Gates è completamente autofinanziato: nessun dollaro pubblico, nessuno sponsor, nessun finanziatore. Dice Christo: «A eccezione di noi, nessuno può comprare i nostri progetti, venderli, modificarli, scegliergli un destino».
I cancelli hanno a che fare con i sogni,
ma poggiano su solide basi di acciaio, e
hanno la struttura indeformabile del vinile. Sono alti 4,8 metri. Sono 7.500. Ognuno è stato fissato lungo i sentieri del parco
alla millimetrica distanza di 3,6 metri dall’altro. Ogni gate, ogni portale, regge un
drappo di stoffa arancio. Tutti i drappi
verranno srotolati nel medesimo istante
il prossimo 12 febbraio, come una gigantesca trappola orizzontale per l’immaginazione e i nuovi sogni degli umani.
La trappola durerà solo 16 giorni. Cioè
una manciata di istanti, in proporzione
agli anni di lavoro impiegati per idearla,
disegnarla, e ai 20 milioni di dollari necessari per costruirla. La sproporzione fa parte dell’opera, quanto la stoffa e lo stupore.
Perché tutto deve essere inimmaginabile
prima e indimenticabile dopo. Dice Jeanne-Claude: «Tutto è temporaneo, irripetibile. Pensi all’arcobaleno. Pensi alla versione terrestre della Cometa di Halley». E
come tutti i minuscoli segni del cielo, una
volta precipitata sulla Terra, anche la loro
cometa arancio produrrà nuovi pensieri,
nuove equivalenze, una nuova prospettiva carica di spaesamento.
Christo e Jeanne-Claude sono i formidabili maghi del perfettamente inutile.
Sono geniali, scenografici, mediatici. Le
loro magie producono eventi planetari.
Gli eventi generano fama e polemiche.
Dice Jeanne-Claude: «Lavoriamo sapendo che migliaia di persone cercheranno
di aiutarci e che altrettante proveranno a
fermarci». Un critico americano ha detto
che Christo e Jeanne-Claude «recitano il
ruolo degli artisti contemporanei, per
WRAPPED TREES
Sono 178 gli alberi
coperti da 55mila
metri quadri di
polipropilene e 23
chilometri di funi:
opera realizzata nel
1998 vicino a Basilea
THE UMBRELLAS
I 3100 ombrelli di
forma ottagonale
per collegare le due
coste del Pacifico:
1340 blu a Ibaraki in
Giappone e 1760
gialli in California
THE PONT NEUF
L’impacchettamento
del Pont Neuf a Parigi
dal 20 settembre al
4 ottobre 1985: usati
40mila metri quadri di
tela e 1300 di corda.
Il progetto è del 1974
WRAPPED REICHSTAG
Uno dei maggiori
successi, iniziato nel
1971 e completato
nel ’95: realizzato con
100mila metri quadri
di tessuto e 15mila
metri di corda blu
SURROUNDED ISLANDS
Undici isole nella
Biscayne Bay, vicino
Miami, sono state
ricoperte con 60 ettari
di tessuto colorato
per soli 15 giorni.
L’opera risale al 1983
gente che non ama l’arte contemporanea». Spesso i giornali popolari li irridono. Polemizzano sui loro budget astronomici. E finiscono sempre per chiedersi, commentando le opere: a quale scopo?
O addirittura: cosa significano?
Per il pubblico, più semplicemente, sono «quelli che impacchettano le cose». Il che è quasi del
tutto vero. In una quarantina di anni, perlustrando il mondo, assecondando il loro sguardo vorace, lui e lei
hanno impacchettato oggetti e concetti di differenti dimensioni, cominciando da un telefono, una sedia, un
albero. Per arrivare, nel 1983, a un
gruppo di isole della Baia di Biscayne,
in Florida, coperte di stoffa rosa. Poi al
Pont Neuf a Parigi. Infine all’intero
Reichstag a Berlino, anno 1995, trasformato dalla stoffa bianca in una gigantesca, indimenticabile, torta nuziale del dopo Muro.
Non solo. Hanno steso sipari di cotone tra le montagne del Colorado, e installato 3.100 giganteschi ombrelli in California e Giappone. Hanno fatto sparire
le Mura Aureliane a Roma, una torre medioevale a Spoleto, la statua di Vittorio
Emanuele a Milano. E hanno fatto apparire un muro di 13mila barili di petrolio a
Oberhausen, in Germania.
In una quarantina di anni, lui e lei, hanno costruito giocattoli immensi per dire
una cosa magari piccolissima, ma talvolta di vitale importanza: ogni oggetto conserva un mistero. Nasconderlo, lo svela finalmente allo sguardo. Lo sguardo diventa il nostro specchio. Lo specchio riflette
una nuova traiettoria che corre verso il
grande enigma della vita.
La vita di Christo e Jeanne-Claude è un
doppio enigma arrivato a coincidere perfettamente. Lui è di origine bulgara. Lei è
nata a Casablanca da famiglia di militari
francesi. Tutti e due sono venuti al mondo
lo stesso giorno dello stesso anno, 13 giugno 1935. La coincidenza è sempre stata
interpretata da Jeanne-Claude come un
destino: «Ci siamo incontrati a Parigi nella primavera del 1958 e da quel giorno non
ci siamo più lasciati. Col tempo, siamo diventati una cosa sola». Unica al punto che,
una decina di anni fa, a un cronista curioso della loro età hanno risposto: «Abbiamo appena compiuto 120 anni».
Abbandonati i cieli di Parigi, si sono
trasferiti a New York nel 1964. I primi
tempi lui firmava le opere, lei le cene.
Nessuno sfuggiva ai loro inviti: Marcel
Duchamp, Jasper Jones, Leo Castelli,
Frank Stella. Inviti così assillanti che un
giorno il critico David Bourdon ha scritto: «A quei tempi organizzavano le loro
dannate cene. Metà della impopolarità
che li circondava dipendeva dall’arte di
Christo, l’altra metà dalle bistecche
troppo cotte di Jeanne-Claude».
Ambiziosi, arrivisti? Probabile. Però anche geniali. E perfettamente liberi. Il loro
modo di finanziarsi, vendendo ai collezionisti i disegni preparatori, i collages, gli
schizzi firmati, li ha resi autonomi, nomadi e infinitamente pazienti. Quando proposero la prima volta The Gates alle autorità di New York era il 1976. Gli risposero,
più o meno, se erano matti. Loro viaggiaronoaltrove,Europa,Oriente,crearonoaltrove e aspettarono. Dieci anni dopo ripresentarono il progetto. E quando uno dell’amministrazione gli offrì zone meno cruciali di Central Park, magari un’alternativa
tipo Coney Island, Jeanne-Claude saltò su
È la prima volta che l’artista di origine bulgara e sua
moglie Jeanne Claude, “quelli che impacchettano le
cose” lavorano nella città in cui vivono. E lei dice:
“Sono emozionata come per la nascita di un figlio”
furiosa e disse: «Le farò una domanda stupida, signore. Lei ha sposato la donna che
si è scelto o una donna alternativa?».
Con l’arrivo di Michael Bloomberg sindaco, nonché loro collezionista, le cose
hanno cominciato a raddrizzarsi. Il via libera è stato firmato nel gennaio del 2003.
Da allora sono stati risolti una infinità di
problemi. Nessun portale danneggerà gli
alberi. Le basi saranno ancorate dal loro
peso, e non più dalle 30mila viti che avrebbero bucherellato il parco. Tutti i materiali, e specialmente i 98mila metri quadrati di stoffa, saranno riciclati.
Messa in moto la macchina, Christo si
è occupato dei 20 milioni di dollari da rastrellare. È salito su al quarto piano della
loro casa-studio che affaccia su Canal
Street, quartiere di Soho, e ha cominciato
a disegnare, ritagliare, incollare foto e
pezzi di stoffa. I disegni hanno prezzi proporzionati alle dimensioni, vanno da
30mila a 600mila dollari. Christo disegna
17 ore al giorno. Scende un paio di volte al
giorno per masticare una decina di spicchi di aglio, sorbire uno yogurt e qualche
volta un bicchiere di latte di soja.
Jeanne-Claude sta al piano terra. Caccia via i curiosi, sgrida i fotografi e mette in
fila i collezionisti. I collezionisti arrivano
da mezzo mondo e sono ammessi solo su
appuntamento. Jeanne-Claude parla
con apprensione del progetto, dice: «Sono emozionata come per la nascita di nostro figlio». Il figlio vero, l’unico, si chiama
Cyril Christo, fa il poeta e vive molto distante da qui, a Santa Fe, New Mexico.
In questi ultimi giorni di gestazione, lui
e lei fanno brevi incursioni al Central Park.
Navigano lenti con limousine e autista.
Poi scendono, seguiti dagli assistenti. Dice Jeanne-Claude: «È la prima volta che lavoriamo senza jet lag. È la prima volta che
lavoriamo a New York. Sono felice». New
York li ripagherà. Dicono arriveranno fotografi e televisioni da tutto il mondo. Dicono che almeno 500mila turisti stiano
modificando le rispettive traiettorie viaggianti per entrare sotto al loro cielo temporaneo,gentile,arancione.Cisaràiltempo di una passeggiata, un po’ di ricordi e
poi un addio per sempre. Come la vita.
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
FOTO CONTRASTO/LAIF
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
FINANZIATO DAI DISEGNI
Qui sotto, un fotomontaggio mostra
la mano di Christo intenta a
completare uno degli schizzi
preparatori che, venduti ai
collezionisti di tutto il mondo, hanno
finanziato il progetto The Gates. A
destra, un altro disegno
Come una festa barocca
Se l’arte
è nomade
ACHILLE BONITO OLIVA
i può negoziare il bello? Si può. Si
può negoziare il bello nella natura e
nella città? Certo che si può. Negoziare significa comunicarlo esteticamente al corpo sociale, costi compresi.
Nella società di massa mediante interventi in scala larga col paesaggio urbano e
quello naturale, bucando la disattenzione
collettiva e piegando l’attenzione individuale verso uno stato di concentrazione e
sorpresa.
Christo e Jeanne-Claude, due corpi e
una sola mente ormai, riescono a tanto
con il bello della diretta. Sviluppano una
strategia di occupazione ed oscuramento
di spazi pubblici e privati con una tecnica
semplice e lampante, il packaging. Oggetti comuni, edifici storici, alberi e vallate
vengono sottratti allo sguardo della collettività e messi in sonno sotto larghi strati di tela ruvida ed industriale che ne impedisce per lunghi periodi il riconoscimento. Prima di arrivare a questo eclatante e produttivo ossimoro (svelar celando),
Christo, artista del Nouveau Réalisme,
realizza da solo opere nelle quali già modifica il concetto stesso di arte e del processo creativo per arrivarvi. All’inizio
adopera la realtà per quello che è, senza
alcuna alterazione, semmai dando misura all’oggetto quotidiano: le cataste di fusti vuoti di benzina, definite secondo la
forma geometrica del triangolo. Inizia così la sua occupazione di suolo pubblico,
stabilendo un’apertura verso l’architettura e scardinando il concetto di riconoscibilità dell’oggetto artistico.
Se la tradizione e il mito dell’avanguardia poggiano sulla sfacciata e esibita frontalità del quotidiano, seppure riconvertito ad altro uso, Christo ne intuisce già la
caduta a merce, a oggetto tranquillizzante. L’artista decide così di operare attraverso il rilevamento dell’oggetto e la sua
esclusione mediante l’impacchettamento che interdice ogni significato ed occlude il conseguente alone. L’involucro accompagna e ricalca la forma, estrovertendo l’ossatura dell’oggetto sottostante e
sospendendone ogni funzionale presenza. Il velo progressivamente steso su ogni
realtà da Christo e la moglie Jeanne-Claude, produttori ormai di un’arte a responsabilità familiare, non è certamente un
velo pietoso. Piuttosto un intervento macroscopico sempre più aperto verso l’architettura che vuole intercettare, secondo
i canoni di una moderna comunicazione,
l’attenzione di massa nella società moderna.
La monumentalità dell’intervento è direttamente proporzionale al bisogno di
globalizzare una visibilità culturale, sociale economica e mediatica. L’impacchettamento non produce nessun’aura
per l’oggetto messo al riparo ed assunto
nella sua pura grammatica di ingombro.
Qui il problema non è certamente quello
di dare significato al mondo, riqualificando l’oggetto attraverso la citazione, ma di
circoscrivere l’area di occupazione del
proprio intervento. Si dà così voluta e
spettacolare visibilità a tutte le procedure
che preparano il progetto e l’esecuzione
dell’opera. Ormai è avvenuto il salto. Ormai non ci si collega più a microstrutture
organizzative (gallerie e musei), ma alle
macrostrutture (città, grandi parchi e istituzioni pubbliche) che possono disporre
di grandi mezzi adatti agli interventi per
progetti sul paesaggio artificiale e naturale.
Il lavoro (dall’ideazione all’esecuzione)
implica rapporti con l’immaginazione e
l’economia, architetti ed operai tutti al
servizio di un movimento creativo in cui i
partecipanti sono produttori diretti di
esperienze, ognuno con un proprio ruolo
autonomo. Lo sforzo comunitario sembra
riprendere le cadenze della bottega rinascimentale o della festa barocca romana,
dove la divisione del lavoro fa di tutti i partecipanti autori e spettatori insieme. Le
7500 porte volanti e svolazzanti, modulari e capricciose, in sinuosa e provvisoria fila indiana nel Central Park di New York,
indicano un’idea nomade dell’arte, una
leggerezza di appropriazione del suolo
pubblico forse più consona alla Grande
Mela dopo l’11 settembre, sicuramente
più della stabile superbia verticale dei
nuovi grattacieli.
S
Parlano Christo e Jeanne Claude: The Gates nasce dall’amore per New York e per i suoi abitanti
“Quarant’anni per battere la burocrazia”
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
P
NEW YORK
erché Central Park?
«Quando siamo arrivati a New York nel 1964 con nostro figlio Cyril,
che aveva quattro anni, restammo molto colpiti dalla skyline, dai
grattacieli di Manhattan. Ci sarebbe piaciuto “impacchettarne” uno e così
andammo dal proprietario di un grande edificio downtown per chiedere il
permesso».
Che grattacielo era?
«Si trova al numero 20 di Exchange Place e al numero 2 di
Broadway, molto, molto downtown. Lui ci rispose che eravamo
pazzi; andammo da un altro e ci rispose allo stesso modo. Contattammo il proprietario del grattacielo sulla 42esima, Times
Square, niente da fare. Chiedemmo il permesso di impacchettare il Museum of Modern Art (MoMA) e il Whitney Museum, niente, nessun permesso».
E allora cosa avete fatto?
«Impacchettammo il primo palazzo a Berna, in Svizzera, nel 1968».
Cosa rappresenta New York per la vostra arte?
«Visto che nei primi anni Settanta lavoravamo molto lontano da New York,
in Australia, in Colorado o in Northern California, quando pensavamo a New
York, quando tornavamo a New York da posti così lontani capivamo che il
nostro interesse artistico non era più per i palazzi di New York ma per la gente di New York. New York è la città al mondo dove si cammina di più. E l’unico posto dove i newyorchesi camminano per piacere e non di fretta è nel parco. Per questo nel 1979 nacque il progetto dei “gates” per Central Park».
Perché “gates”?
«Central Park è completamente circondato da palazzi, è tagliato fuori da
ogni forza naturale. Quando 150 anni fa la città di New York comprò un grande pezzo di terra per costruire il parco, lo circondarono con un muro. Ovviamente costruirono degli ingressi e li chiamarono “gates” perché uno degli architetti ci voleva mettere dei cancelli di acciaio che chiudessero il parco durante la notte».
Cancelli che non esistono più?
«I cancelli non vennero mai messi, ma il nome “gates” rimase, tanto che
ancora oggi si chiamano così. Ogni “gate” ha un nome perché nel diciannovesimo secolo la città di New York creò una commissione per il parco e un
commissario voleva dare a ogni ingresso il nome di un santo. Gli altri dissero no, perché New York non è una città religiosa. Così li chiamarono il “gate”
degli emigranti, degli artisti, dei soldati, dei ragazzi, delle ragazze. Solo uno
— per fare contento quel commissario — venne chiamato il “gate di tutti i
santi”».
Come avete sconfitto la burocrazia di New York?
«Nel 1981 ricevemmo dalla commissione del parco un rifiuto
che ci venne spiegato con un volume di 140 pagine:140 pagine solo per dire no. Da allora non abbiamo più cercato il permesso».
E cosa è successo?
«Che l’ufficio del sindaco di New York Michael Bloomberg ci
contattò nel marzo 2002. Poi ci incontrammo con il sindaco, che
fece venire con sé il nuovo commissario del parco. Fu lui a dirci
che il progetto “si poteva fare”».
Qual è il vostro rapporto con New York?
«È la città dove abbiamo scelto di vivere. Noi abbiamo da 41 anni un unico
e solo indirizzo, che è qui a Manhattan, per la precisione downtown Manhattan. Abbiamo scelto New York perché Parigi non è più da tempo il centro del
mondo dell’arte, questo centro è diventato New York».
Eravate qui l’11 settembre?
«No, eravamo a Berlino per una nostra grande esibizione. Tornammo solo il 17 settembre perché non fu possibile trovare un aereo prima. Fummo
fortunati, la nostra casa non ebbe danni, non puzzava di fumo, né era coperta
di polvere».
Avete mai pensato di fare qualcosa sulle Twin Towers, ovviamente prima dell’11 settembre?
«No, mai, assolutamente mai».
Dopo Central Park lavorerete ancora a New York?
«No, in estate faremo un altro “work in progress” che si chiama “Over the
River”, un progetto sul fiume Arkansas in Colorado».
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
Feste leggendarie e interminabili,
statuette appoggiate distrattamente
sul tavolo o dimenticate nella toilette,
come accadde a Meryl Streep. Gioie, eccessi e retroscena
del super gala di Hollywood raccontati da Graydon
Carter in un libro fotografico che ne celebra il mito.
Le immagini dei vincitori esprimono gioia, eccitazione
e potere, ma anche malinconia e un profondo senso di vuoto
Oscar
Uno sguardo
dietro le quinte
della premiazione
più gloriosa
del cinema Usa,
spiando decennio
dopo decennio
i re di celluloide
nel momento
del trionfo
ANTONIO MONDA
NEW YORK
STELLE DI OGGI
Nella foto qui
sotto, un
giovanissimo
Leonardo
DiCaprio con
Sharon Stone e
Ellen Barkin,
fotografati durante
una festa a Los
Angeles in
occasione degli
Oscar del 1994
FOTO CORTESIA VANITY FAIR
ella mitologia e nella quotidianità hollywoodiana
non esiste nulla di lontanamente paragonabile
all’importanza degli Oscar, e nulla che
serva in eguale misura a consacrare un
mondo luminoso ed insulare, che promette di essere alla portata di tutti ma
che sta ben attento a dimostrarsi irraggiungibile. Dalla lunghissima parata
sul “red carpet” sino alle feste successive alla premiazione, che competono
per glamour e presenze di star, la notte
degli oscar vive nella celebrazione continua del suo stesso mito, ed omologa le
personalità di ogni partecipante: anche le rarissime ribellioni e gli atteggiamenti anticonformisti fanno parte del
gioco, e si trasformano, nel bagliore dei flash e nella rincorsa delle
diverse telecamere, in una
forma di spettacolo squisitamente hollywoodiano.
Un libro monumentale e
divertente, intitolato
Oscar Night, testimonia
attraverso fotografie ed
aneddoti il fascino della
notte delle stelle, con lo
sguardo dell’insider che
vuole condividere alcuni
retroscena ma è ben felice di
ribadire come nella realtà sia
uno dei protagonisti (il testo è
curato da Graydon Carter, direttore di Vanity Fair). Se l’arrivo delle
“stretch limo” di fronte al Kodak Theatre e la sfilata sul tappeto rosso sono vissute ad uso e consumo delle telecamere e la cerimonia immortala in mondovisione l’eterna ripetizione di spasmi,
giubilo e commozione, la notte è soltanto per coloro che dalla fine della premiazione sino alle prime luci dell’alba
sentiranno l’ebbrezza di essere al centro dell’universo e vivranno il rituale
delle feste impareggiabili, degli Oscar
appoggiati distrattamente sul tavolo o
addirittura dimenticati nella toilette,
come accadde a Meryl Streep dopo la
vittoria per Kramer contro Kramer.
La storia delle premiazioni enumera
una lunghissima serie di esclusioni clamorose, scelte causate da motivazioni
prettamente industriali ed episodi di
sconcertante miopia culturale, ma il testo preferisce celebrare gli altrettanto
numerosi momenti di gloria, ed il sapore di festa per pochi eletti. In una vecchia foto in bianco e nero che immortala il ballo al Biltmore vediamo un’attrice di nome Margarita Carmen Cansino
abbracciata all’agente e marito Edward
Judson, che le suggerì di cambiare il nome in Rita Hayworth. Sembra una coppia che si amerà in eterno, e la futura diva sorride con un’innocenza che non
potrebbe mai far prevedere l’esplosione di Gilda né i matrimoni con Orson
Welles ed Ali Kahn.
Nella festa leggendaria offerta dall’Academy nel 1941, James Stewart sorride di fronte all’unico Oscar vinto in
carriera (per Scandalo a Filadelfia)
mentre esita di fronte a un caffè che in
realtà non ha nulla di particolarmente
invitante. Maurice Chevalier canta con
sguardo languido un brano in francese
di cui nessuno capisce le parole, mentre Paul Newman, che esibisce un ele-
FOTO CORBIS/CONTRASTO
L’album segreto
della notte più lunga
N
STELLE DI IERI
gantissimo frac, danza abbracciato alla moglie Joanne Woodward.
Sono gli anni della Hollywood leggendaria, dove anche le battaglie più
sanguinose erano combattute con
classe. Dopo un rapporto sul set segnato dal reciproco disprezzo, Bette Davis
ottenne una candidatura come protagonista per Che fine ha fatto Baby Jane?,
lasciando a bocca asciutta Joan
Crawford, la quale si complimentò calorosamente in pubblico con la rivale
ed iniziò in privato una capillare cam-
pagna pubblicitaria nella quale elogiava la magnifica interpretazione di Ann
Bancroft in Anna dei miracoli, la quale
finì per vincere a sorpresa l’Oscar. La
Davis, che vinse due volte su undici nomination, fu la prima a complimentarsi per l’inaspettata vittoria e citò perennemente l’interpretazione della Bancroft come la migliore del decennio.
Scorrendo le immagini che immortalano la notte dei premi è quasi impossibile distinguere cosa ci sia di sincero e quanto sia fatto ad uso e consu-
Nella foto qui sopra,
Warren Beatty
con la sorella Shirley
MacLaine durante
un ricevimento
per gli Oscar
del 1966. A sinistra,
Audrey Hepburn
stringe in mano
la statuetta: la diva fu
premiata come
migliore attrice
nel 1953 per
“Vacanze romane”.
Nelle altre immagini
di queste pagine,
inviti alle feste
e memorabilia
dei party entrati
nella storia
del cinema
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
mo dell’obiettivo: l’esplosione di gioia
di Sophia Loren in compagnia di Carlo
Ponti è accompagnata da una didascalia che ricorda che Clark Gable disse di
lei «ti fa venire in mente i pensieri più
proibiti», mentre Warren Beatty e Shirley MacLaine si abbracciano come se
non fossero fratello e sorella. C’è qualcosa di autenticamente principesco
nel gesto che fa Grace Kelly di fronte ad
uno dei premi più sorprendenti della
storia degli Oscar: i pronostici erano
tutti per l’interpretazione di Judy Garland in È nata una stella, ed era stata organizzata persino una diretta con l’ospedale Mount Sinai dove quest’ultima aveva dato alla luce il giorno prima
il figlio Joey. Ma i membri dell’Academy preferirono la futura principessa
alla diva con problemi di alcolismo, e
nella sera della vittoria per La ragazza
di campagna Dominick Dunne profetizzò che Grace Kelly era «una ragazza
ricca destinata a diventare una stella».
Una leggenda hollywodiana racconta
che la vittoria di Marisa Tomei per Mio
cugino Vincenzo sia dovuta al fatto che uno sbronzo
Jack Palance, incaricato di
consegnare il premio, abbia letto il suo nome al posto di quello di Judy Davis,
e nessuno ebbe il coraggio
di rettificare. L’imbarazzo
del momento si tramutò in
gioia quando fu chiaro a
tutti che la giovane età della Tomei rappresentava un
investimento molto più
proficuo di quello legato
alla vittoria della straordinaria attrice australiana,
data per trionfatrice certa
della serata.
Molto diverso il caso di
Julie Andrews, caratterizzato per una volta da una solidarietà
corporativa da parte dei votanti dell’Academy di fronte ad un evidente sopruso. Nonostante il trionfale successo a
Broadway, Jack Warner impose che
l’attrice inglese venisse rimpiazzata
con Audrey Hepburn nella versione cinematografica di My Fair Lady. Il film di
George Cukor fu il trionfatore di quella
edizione, ma nel ruolo di protagonista
la Hepburn venne battuta proprio dalla Andrews per Mary Poppins, e lei ringraziò perfidamente Jack Warner.
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
Il rito della grande notte ha un ruolo
talmente importante nella mitologia
hollywoodiana che ogni parola assume
una importanza strategica ed economica. Dopo la delusione della mancata
vittoria per Mask, Cher salì sul podio
per Stregata dalla luna ma dimenticò
di ringraziare gli agenti, i produttori ed
il manager. Il giorno seguente fu costretta ad acquistare tre pagine di pubblicità su Variety nelle quali si scusò
SEX SYMBOL
Sopra, Kim
Basinger,
premio Oscar
nel 1998 come
miglior attrice
per il film
“L.A.
Confidential”
pubblicamente con coloro che non
erano stati citati in mondovisione.
Non mancano episodi di distacco
(Woody Allen rimase a suonare il clarinetto a New York la sera del trionfo di Io
& Annie) e protesta (Marlon Brando
mandò una pellerossa a ritirare il premio per Il Padrino), ma nel grande nulla di Hollywood, il momento del premio può rappresentare ciò che dà il
senso ad un’intera esistenza, e sono
IL GIORNO DOPO
Sopra, Faye Dunaway, miglior attrice
nel 1977 per il film “Network”. La foto è
stata scattata dal fotografo Terry O’Neill
che sarebbe diventato suo marito
passate alla storia la commozione di
Sally Field che ringraziò i votanti perché aveva finalmente compreso di essere apprezzata, e l’emozione paralizzante di Kim Basinger che arrivò a «ringraziare tutte le persone mai incontrate nella mia vita».
Le fotografie esprimono tutte gioia,
eccitazione e potere, e tralasciano momenti imbarazzanti come i due Oscar
vinti da Ian McLellan e Robert Rich,
prestanomi per Dalton Trumbo, il
grande sceneggiatore messo sulla lista
nera all’epoca del maccartismo. Il dolore sembra inconcepibile o addirittura inesistente, ed anche i personaggi
colpiti dalla tragedia appaiono splendenti di una luce innaturale: fa una certa impressione vedere Francis Ford
Coppola che fa stringere l’Oscar vinto
per Il Padrino parte II al figlio Gian Carlo, ed il sorriso di un giovanissimo Sal
Mineo pretende un futuro radioso che
gli è stato negato dalla vita.
I potenti di sempre danzano serenamente con i re per una notte, e la dirompente felicità di qualche ora mette sullo
stesso piano Ted Turner, David Geffen
e Barry Diller con tutti coloro che dal
giorno dopo dovranno sperare in una
loro approvazione per i propri progetti.
Ci sono delle tavolate spettacolari definite con gergo hollywoodiano «A list»
(Steven Spielberg, Bruce Springsteen,
Tom Hanks, Elton John) ed atti sublimi
di snobismo (un Oscar dimenticato accanto al dessert), ma c’è soprattutto la
bellezza, esibita con orgoglio dopo settimane di preparazione, trucco, massaggi e scelta del vestito perfetto. È
straordinariamente bella Demi Moore
alla cerimonia del 1992, lascia senza fiato la Halle Berry di dieci anni dopo ed è
sintomatico notare come nel tempo sia
aumentata drasticamente la presenza
di interpreti di colore.
In questo tripudio di felicità procurano un certo disincanto le effusioni d’amore in stile Hollywood tra Brad Pitt e
Jennifer Aniston, Tom Cruise e Nicole
Kidman, ed è un segno di coraggiosa
sottigliezza l’immagine scelta come
conclusione del libro, che immortala
Faye Dunaway la mattina successiva
alla vittoria mentre contempla a bordo
piscina il suo Oscar con uno sguardo
che esprime, stanchezza, malinconia
ed un profondissimo senso di vuoto.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
l’anniversario
Tempi moderni
Quasi per caso, settant’anni fa, la DuPont scopre una nuova fibra
“resistente come l’acciaio e delicata come una ragnatela”
che consente di rimpiazzare la seta. È il boom della sensualità
e della seduzione a prezzi popolari. Ma passano gli anni e le mode:
il collant accompagna la stagione dell’emancipazione femminile
i nuovi tessuti hi-tech esaltano la praticità e sterilizzano l’erotismo
Nylon
E la calza inventò la donna
donna, giorno dopo giorno, passa attraverso l’indumento più diffuso e anche il
più banale: le calze. Non importa che i
sondaggi sull’immaginario erotico maschile tornino ogni volta a confermare
che sono le gambe, meglio se velate da
calze con la giarrettiera, la principale calamita dell’erotismo: più del seno, più
del fondoschiena, più dello sguardo, più
del sorriso. È il reggicalze ora a diventare
indumento di nicchia, esibito una tantum come arma letale di un supremo arsenale feticista, e non certo per affrontare la vita quotidiana.
Il resto è cronaca dei nostri giorni. Ed
è stata certamente una meteora passeggera la moda, attorno all’anno 2000, di
andare in giro a gambe nude anche con
temperature siberiane, decretata da
tutti gli stilisti e adottata dalle attrici di
Hollywood più che dalle donne normali. Un lusso che possono permettersi in
poche, giovanissime e dalle gambe perfette. La riscossa non si è fatta aspettare:
tramontata la livida moda del piedino
nudo anche quando nevica, le aziende
hanno immesso sul mercato un’impressionante quantità di collant in modelli e anche in materiali d’avanguardia.
I nuovi collant, ma anche le nuove calze
autoreggenti e no, diventano un prolungamento dell’abito, molto più di un
semplice accessorio. Pudichi o sfacciati, sono sofisticatissimi, ricamati, stampati, tempestati di paillettes o spruzzati
di lurex, hanno il logos tatuato o l’intarsio geometrico, il labirinto optical o il
graffito, copiano il tweed, la spina di pesce, lo scozzese, il gessato; sono a righe,
a scacchi, a maglie di rete giganti; hanno
tagli e strappi fatti ad arte, e poi borchie,
ornamenti etnici, disegni in rilievo. Possono essere a vita bassa, come piacciono alle giovanissime, e possono lasciare
il piede nudo per i sandali infradito, come invisibili ghette.
Le nuove microfibre consentono calze make up altamente tecnologiche, dotate di effetti speciali: possono essere
antibatteriche, antistatiche, antifatica,
antizanzare, anticellulite, traspirantimassaggianti-abbronzanti. Possono
essere antivarici alla centella asiatica,
idratanti-profumate all’olio di albicocca o sapere per esempio di limone al
mattino e di lavanda al pomeriggio. Possono avere l’effetto push up che fa lievitare anche i glutei più stanchi. Possono
lenire il jet-lag e presto anche depilare.
In Giappone, dove non sta bene andare
in giro a gambe nude neanche d’estate,
hanno inventato il collant spray: una
doppia pelle a portata di bomboletta.
Noi continuiamo ad essere i maggiori
produttori di calze da donna del mondo
ma ne consumiamo un po’ meno che in
passato. Per una volta non è colpa dell’effetto euro: è semplicemente che le
calze di oggi, grazie alle nuove fibre tecniche, sono più resistenti. Quanto al loro
carico di seduzione, al loro antico essere
emblema o baluardo di femminilità, più
si allontanano dal concetto di nudo e più
appaiono, ormai, sterilizzate.
FOTO CORBIS/CONTRASTO
S
Per le ragazze passare dai mortificanti
calzettoni a quelle che comunemente
venivano chiamate «calze fini», agognatissime, segnava l’ingresso nell’età adulta. Negli anni del boom le «calze fini»
erano un privilegio del mondo occidentale tecnologicamente avanzato, facilmente accessibili, in vendita in qualunque grande magazzino. Non così oltrecortina: è con le valigie piene di calze,
graditissimo dono, che i giovani italiani
partivano d’estate per i paesi dell’Europa dell’Est, scopo rimorchio.
La seconda rivoluzione data dalla
metà degli anni Sessanta, in concomitanza con l’invenzione, audace e liberatoria, della minigonna. Arrivano — con
la lycra — i primi collant. Tentativi goffi,
più parenti della calzamaglia da paggio o
da sci che delle calze hi-tech di oggi. Comunque un indumento simbolo, apprezzatissimo dalle donne (all’inizio solo dalle ragazze) per la sua dirompente
praticità. E invece osteggiato e antipatizzato dall’universo maschile, che lo ha
sempre vissuto con ostilità, lo ha subìto
come un sopruso defraudante e come
negazione dell’erotismo, ingiusta censura delle prime perlustrazioni se non
tattili, per lo meno visive di ogni uomo
nell’approccio verso l’altro sesso.
Ma quella del collant è una strada senza ritorno, a cambiare costumi, gusti,
abitudini. Considerato con diffidenza
nei primissimi tempi, indumento di nicchia, dilagherà presto in ogni classe sociale e anagrafica. La liberazione della
IL CINEMA
Quattro indimenticabili
immagini di seduzione
sul grande schermo:
immancabile
la calza di nylon
Lo spogliarello di
Sophia Loren in “Ieri,
oggi e domani”
(1963); a destra,
Marilyn Monroe e
Jane Russel in “Gli
uomini preferiscono
le bionde” (1953);
in alto, la celebre
scena da
“Il laureato” (1967)
con Dustin Hoffman
e Anne Bancroft.
Nella foto grande,
Silvana Mangano nel
film “Mambo” (1954)
FOTO WEBPHOTO
ettant’anni in un soffio: è il
fruscio delle calze di nylon.
Pochi oggetti sono così prosaici e così evocativi ad un
tempo. Simbolo assoluto di
femminilità, sembra che esistano da sempre, come la donna.
Niente appare più intimo di una calza. Le vedi una accanto all’altra, le bellissime: icone di seduzione e di meraviglia. Marlène Dietrich, calze scure e giarrettiere, angelo della perdizione. Silvana Mangano mondina piegata sulla risaia. Sophia Loren, era il ’63, che si cimenta in uno spogliarello diventato cult
non solo per la sensualità ma anche per
l’ironia, e si sfila lenta una calza nera facendola oscillare ipnoticamente. Sante
e peccatrici, dive e sex symbol, personaggi dei cartoon come Betty Boop e super oggetti del desiderio come Marilyn
Monroe o il suo peccaminoso contraltare europeo, Brigitte Bardot. Sciantose e
casalinghe, signore e cameriere. Ecco
Laura Antonelli, colf in Malizia, arrampicarsi su una scala regalando l’estatica
visione di quella proibita porzione di
cosce che le calze lasciavano nuda. Ecco Kim Basinger in Nove settimane e
mezzo: che cosa resterebbe del suo leggendario strip-tease senza la veneziana
dello sfondo e la calza di nylon fatta franare quasi al rallentatore?
Sarebbe un peccato estetico, tuttavia,
relegare la fibra artificiale che ha cambiato la vita delle donne a questa galleria
di fotogrammi. Certo: nell’immaginario
collettivo, non solo maschile, le calze
evocano un fremito di sensualità. Molto
più complessa, nella realtà quotidiana
della cronaca, è la marcia verso la libertà,
la comodità, l’emancipazione che le calze di nylon hanno compiuto in settant’anni di storia. Una rivoluzione già
dal loro primo impatto sul mercato, nei
tardi anni Trenta, a decretare la democratizzazione di un indumento fino allora riservato a pochissime.
Prima che nel ’35 la DuPont scoprisse per caso il nuovo polimero chiamato nylon, le calze erano esclusivamente
di seta. Dunque costosissime, riservate
a chi poteva permettersele. Pregiate
ma anche scomode, dure, facevano le
grinze sulle caviglie, si sfilavano con
una facilità vertiginosa e, costando una
fortuna, venivano ciclicamente riparate da valenti rammendatrici.
Ci volle qualche anno perché fossero
prodotte in serie. Si creò una curiosità
enorme attorno a quella nuovissima fibra che i produttori definirono «resistente come l’acciaio e delicata come
una ragnatela». Distribuite nel 1939 in
tutti gli Stati Uniti, furono accompagnate da un imponente battage pubblicitario: solo a New York se ne vendettero
quattro milioni di paia in poche ore. Ma
già l’anno successivo cominciarono i
tempi magri: la produzione di calze in
nylon venne bruscamente interrotta. Si
preferì concentrare l’utilizzo della nuova fibra sintetica su impieghi militari, per
esempio per confezionare paracadute.
L’attrice Betty Grable, fidanzata d’America in giarrettiere, si sfilerà le calze mettendole pubblicamente all’asta per
40mila dollari da destinare all’esercito.
Durante la guerra, soprattutto in Europa, né di seta né di nylon: le calze non c’erano proprio, o comunque erano rarissime, soprattutto nell’Italia autarchica. Così le donne supplirono con la fantasia e
con l’ingegno, disegnandosi sul polpaccio nudo la cucitura, en trompe-l’oeil.
Il primo dopoguerra ma soprattutto gli
anni Cinquanta videro l’esplosione della
calza di nylon come bene di massa, usa e
getta. Comparvero i primi modelli senza
la riga dietro, grazie ai nuovi sistemi di
produzione. Davvero il massimo della
praticità, nonché il primo segnale di
emancipazione: per lo meno dalla schiavitù di dover sempre tenere riga e talloni
sotto controllo, perfettamente allineati.
Dalle giarrettiere di
Marlène Dietrich
alla mondina Silvana
Mangano,
dallo spogliarello
di Sophia Loren
alla cameriera
Laura Antonelli:
una galleria
di icone
indimenticabili
FOTO WEBPHOTO
LAURA LAURENZI
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
L’EVOLUZIONE
LA MAGLIA
Già nelle antiche tombe
dei faraoni egizi
sono stati trovati
frammenti di calze
lavorate a maglia,
mentre i romani
avvolgevano le gambe
con fasce di tela o lana
LA SETA
Le prime calze in seta
compaiono nel
Medioevo: a indossarle
sono esclusivamente
gli uomini. Solo in
seguito diventano
simbolo del lusso
anche per le donne
IL SINTETICO
Nel 1939 vengono
messe in vendita le
prime calze in nylon
alla portata di tutte le
tasche. È subito un
delirio: davanti ai
negozi si formano
lunghe code di donne
IL COLLANT
È la seconda
rivoluzione, nella prima
metà del 1965: con la
minigonna arrivano le
calze alte fino alla vita.
Gli anni Sessanta
verranno ricordati per
calze e collant in pizzo
1 grammo
È il peso di un solo filo
prodotto in
microfibra di nylon
lungo ben 9 mila metri
3,8 milioni
Sono le tonnellate
di nylon prodotte
nel 2003 in tutto
il mondo
400 milioni
II fatturato 2004 di Nylstar
la società mista italofrancese leader europea
della produzione di nylon
FOTO CORBIS/CONTRASTO
LA RETE
La robustezza del nylon
e la resistenza alla
salsedine ne fa il
materiale ideale per
le reti da pesca. La fibra
chimica ha quasi
sostituito le reti in corda
di canapa
AIR BAG
Tra le applicazioni
più recenti della fibra
sintetica c’è l’air-bag
usato per le automobili
Il “plus” del nylon è
costituito dal mix fra la
resistenza del materiale
e la sua elasticità
Vita e ascesa
del superfilo
di Carothers
GIORGIO LONARDI
degno di Hollywood il dramma di
Wallace Hume Carothers, il chimico americano fragile e geniale
che inventò il nylon. Chiamato nel 1928
a soli 31 anni dal colosso industriale
DuPont de Nemours a riorganizzare i
laboratori di Wilmington nel Delaware, Carothers, sofferente di depressione, espresse i suoi timori in una lettera
indirizzata ad un alto dirigente della
corporation: «I miei periodi di nevrosi e
di semi-infermità potrebbero costituire un ostacolo molto più serio in un ambiente industriale che ad Harvard».
La DuPont, però, non mollò la presa
e Carothers, alternando periodi di iperattività e di profonda prostrazione,
non tradì le aspettative. Già nel 1932 il
giovane chimico inventava il neoprene, una gomma sintetica utilizzata ancora oggi per le mute da sub. Poi Wallace Hume si concentrò sulla preparazione per via di sintesi di polimeri (macromolecole) con una struttura simile a
quella della seta e della cellulosa. Il 28
febbraio del 1935 il gruppo di Carothers
produsse la prima fibra completamente sintetica con caratteristiche simili a
quelle delle fibre naturali. Era nato il
nylon che DuPont avrebbe brevettato
nell’aprile del 1937. Tre settimane dopo Carothers, atterrito dal peso della
notorietà e convinto di essere un fallito,
si suicidò con la fiala di cianuro che portava sempre in tasca.
La marcia trionfale di questa fibra robusta ed elastica, che poteva essere facilmente tinta, definita «resistente come l’acciaio e delicata come una ragnatela» fu rapida ed inarrestabile. Nel ’38
DuPont annunciò lo stanziamento di 8
milioni di dollari per la costruzione a
Stanford nel Delaware del primo stabilimento. Due anni dopo, nel 1940, furono vendute nel territorio degli Stati
Uniti 64 milioni di paia di calze di nylon
e le americane fecero la coda per acquistarle.
Intrisa di cultura yankee, creata a ridosso della seconda guerra mondiale,
già nella genesi del nome la creatura di
Carothers avrebbe eccitato nazionalismi e leggende metropolitane. «È nata
una nuova parola e una nuova fibra: il
nylon» recitava la pubblicità di DuPont. Ma per molti cittadini nylon era
l’acronimo di «Now you lousy old nipponese». Una frase il cui significato
cambia a seconda di dove si mette la virgola ma che suona più o meno così:
«Ora sei un pidocchioso, vecchio giapponese». Secondo altri, invece, il nome
nylon nasce dalla contrazione delle due
prime città dove le calze furono messe
in vendita: New York e Londra. Molto
più probabilmente, invece, la scelta finale fu fatta dalla DuPont all’interno di
400 nomi di fantasia già preselezionati.
Il monopolio americano del nylon
durò poco. Nel dopoguerra la nuova fibra fu introdotta in Italia. La produzione in un primo momento fu affidata solo alla società Rhodiatoce mentre dal
1956 entrarono sul mercato anche Snia
e Bemberg. A tirare la volata furono (e
sono) indubbiamente le calze da donna tanto è vero che nella zona di Castelgoffredo si sviluppò un vero e proprio
distretto industriale che avrebbe conquistato l’egemonia del comparto a livello mondiale.
Dopo la crisi del settore delle fibre
chimiche degli anni Settanta e Ottanta
anche il comparto del nylon ha subito
una serie di concentrazioni e di razionalizzazioni. Oggi il maggior fabbricante europeo è la Nylstar (400 milioni
di euro di fatturato), una joint-venture
franco-italiana costituita dai gruppi
Rhodia e Snia che controlla il 40 per
cento del mercato del vecchio continente.
Eppure il nylon non è soltanto il materiale con cui si producono calze e collant. La leggerezza, la resistenza a muffe e batteri combinata alla facilità di
manutenzione ne hanno ampliato il
campo di utilizzazione. Basti citare i costumi da bagno, fabbricati in abbinamento agli elastomeri, un’altra fibra
chimica. Sempre più diffusi anche gli
impieghi tecnici per borse, zaini, corde,
pneumatici, cinture di sicurezza. Ma
non solo. Fra le applicazioni meno conosciute ci sono anche gli air bag delle
automobili.
È
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
le tendenze
Di legno pregiato, in alluminio, acciaio
o cristallo, il “mobile” intorno a cui si riuniscono
amici e famiglie non è solo un elemento di arredo
ma è da sempre simbolo della socialità domestica.
Oggi più che mai il mercato lo riscopre
e propone modelli di nuova generazione
Case da abitare
FOTO ZEFA
La vita è un giro di tavolo
MICHELE SERRA
crisse Natalia Ginzburg che
nell’aldilà avrebbe voluto
portarsi una sedia, nel timore
che tutta quella immensità la
stancasse. Ci aggiungerei (se
non mi allargo troppo) un tavolo, perché se penso al vuoto penso a
una casa senza un tavolo, un giardino
senza un tavolo, un bar senza un tavolo,
una vita senza un tavolo. Pensandoci meglio, un posto senza il tavolo è un posto
che non prevede gli altri: e dell’assenza
degli altri ho paura più della morte (o forse vedo nella morte soprattutto l’irrimediabile assenza degli altri).
Dunque un tavolo, almeno uno, per disporre attorno ai suoi quattro lati, o alla
sua circonferenza, le persone che condividono il mio tempo, il cibo e il bere, il gioco e la conversazione. “Mettere le gambe
sotto un tavolo” non indica mai un gesto
individuale, ma sempre un’intenzione
comune, la spartizione di un momento o
di un atto anche minimo, purché comune. Il tavolo è sempre il testimone di un
“noi”, guai se è addossato al muro come
la solitaria scrivania, richiede intorno a sé
lo spazio del convivio, e non per caso non
amo i tavoli poggiati alla parete, quel lato
monco stona e respinge, decurta le occasioni, attorno ai tavoli si deve poter passare, correre quando si è bambini piccoli
(terribile lo spigolo quando è giusto all’altezza della capoccia), e non per caso la
giusta collocazione del tavolo, quando si
sistema una casa, è una delle questioni
più delicate. Perché il tavolo è come il biliardo (a suo modo il Tavolo dei Tavoli),
prevede intorno a sé l’agio dell’accessibilità e della circolazione, è un punto al quale si deve poter arrivare da ogni punto cardinale, l’approdo ideale dalle diverse
stanze, dalle diverse solitudini.
Se fate il conto (e non sono conti facili)
vi accorgerete che il tavolo, non il letto, è
forse il luogo dove avete speso la maggiore percentuale di amore e di dolore, di fatica intellettuale e di felice intesa, lungo le
infinite conversazioni delle vostre stanze
di vita. Perché a tavola ci si guarda negli
occhi, ci si dicono le cose che altrimenti
possono scivolare via per la casa, al tavolo non si scantona. Èattorno al tavolo (dei
ristoranti, in genere) che si costruisce
ogni amore.
Di tanti tavoli, quello patriarcale (interminabile, di noce) della
casa di mia bisnonna, tutt’ora in auge
(non la bisnonna, ma la casa e il tavolo) è
per me il più caro, e significativo. Il capo-
S
LASCIA O RADDOPPIA
Il tavolo Morris di Bontempi Casa
si raddoppia. Per tutti i single
che amano ospitare tanti amici
ALLUMINIO MON AMOUR
Flat è un tavolo tutto in alluminio
e completamente smontabile
Di Giuseppe Bavuso per Rimadesio
JOLLY E I SUOI FRATELLI
Ha la sobrietà del grande protagonista;
Jolly è in policarbonato colorato
e trasparente. Palesemente di Kartell
tavola è sempre stato il più anziano, poi
via via, a scalare lungo il vecchio legno familiare, i più giovani, fino ai bambini, a far
casino in fondo, all’altro capo del tavolo e
del tempo. Ho risalito quel tavolo, lungo
gli anni, fino a ritrovarmi quasi a capotavola, e ormai è poco il margine che mi separa da quell’approdo, perché le generazioni, attorno ai tavoli, trascorrono veloci. Ma se attorno a quel tavolo aleggia
l’ombra degli scomparsi, quando le luci
della sera sono tutte accese e il legno è imbandito (e il tavolo diventa tavola, femmina nutrice) è la vita che trionfa, è il vino
che brilla, la conversazione che rimbalza,
allietata dagli equivoci che la sordità degli anziani — presto la mia… — genera,
dai racconti mai veramente desolati che
si fanno sul passato e sui morti. Se penso
a quanta vita e quante parole, quanti sentimenti e liti, discussioni politiche, parole d’amore quel tavolo ha assorbito (in
italiano, in francese, in inglese) dico che è
un altare. Ci hanno mangiato e scherzato, ai primi del secolo, ragazzi poi morti
ventenni nelle Ardenne, in quella carneficina idiota e orrenda che fu la Grande
Guerra. Ci hanno litigato severi professori antifascisti e psicologie più disponibili
al compromesso, signore con le sottovesti e le gonne lunghe e teen-agers in minigonna (ora madri di altre teen-agers col
piercing). Quando le sedie rinserrano le
persone attorno a quella tavola da pranzo, è come se si ricomponesse una storia
collettiva che il tempo vorrebbe destrutturare, ma la parentela (perfino quel dubbio vincolo non sempre sincero che è la
parentela) ricompone ogni estate.
Infine, apparecchiare la tavola per gli
amici e le persone care è da sempre, per
me, uno dei gesti più allegri e sacri. Allegro e sacro non sempre vanno a braccetto, pensate dunque che privilegio ha la
tavola quando li riassume entrambi, la
tavola che è abbondanza e ringraziamento, memoria dei commensali scomparsi e omaggio al vigoroso appetito dei
vivi. La sola preghiera che mi manca
davvero, che vorrei tanto saper pronunciare, è quella che si fa a tavola e che precede il pasto, la gratitudine per il pane e
soprattutto per il companatico. Sì, ogni
tavolo è un altare, e se non lo diventa è
solo per la nostra colpevole distrazione.
GEOMETRIE IN CODICE
Geometrie essenziali e praticità è la scelta
di Feg per il tavolo allungabile Code,
realizzato in legno di teak
AGGIUNGI UN POSTO
Per chi della convivialità non può fare a meno
Il tavolo Hollywood offre un’ampia scelta
di forme e misure. Di Tacchini
LAMIERA SAGOMATA
Il tavolo Less Molteni, in lamiera sagomata
sottilissima, è nato dal progetto di Jean
Nouvel per la fondazione Cartier
QUESTIONE
DI STATURA
Piano è il più
piccolo e Altipiano
il più alto: i nomi
dei tavolini
Rexite giocano
sulle differenti
altezze.
Entrambi
in versione
quadrata
e rotonda
RIUNIONE AL TOP
Il designer Luca Scacchetti ha
firmato Corinthia, tavolo da riunione
caratterizzato dalla sezione centrale
in cristallo e dalla struttura
di sostegno in tubolare d’acciaio.
Di Poltrona Frau
L’OGGETTO MISTERIOSO
Katava, il tavolo-consolle
d’alluminio disegnato
da Satyendra Pakhalé per
Duepuntosette, è prodotto in
edizione limitata a soli trenta pezzi
Difficile relegarlo in un angolo
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
i sapori
Tavolette, torte, sfoglie di cacao purissimo: i maestri
cioccolatieri italiani continuano a sperimentare con
successo nuove delizie per i più golosi. Fondente e
gianduiotti vengono contaminati con spezie esotiche ed
aromi rubati alla cucina e seducono il palato e i sensi dei più
esigenti. Ecco una carrellata delle ultime tendenze
Dolci passioni
itinerari
Silvia Imparato, ex fotografa di origine napoletana,
produce uno dei migliori rossi italiani, il
Montevetrano, un vero e proprio “SuperCampan” da
uve Aglianico, Cabernet Sauvignon e Merlot, prodotto
in provincia di Salerno. È innamorata della sua terra
e del cioccolato fondente
Positano
TORTA CAPRESE
Il suo segreto - ingredienti nordici
(a partire dal burro), niente
farina,croccante all’esterno e
morbida al cuore - fu trafugato al
bar Vuotto di Capri direttamente
dalla residenza di Maxim Gorki.
Esiste anche in una versione,
meno affascinante e più leggera,
con i limoni della costiera
amalfitana
DOVE DORMIRE
CASA ALBERTINA, via Tavolozza 3
telefono 089-875143. Positano
(Salerno). Camera doppia
da 130 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
AL PALAZZO, via dei Mulini 23
telefono 089-875177. Aperto tutti
i giorni, solo a cena, da marzo a
novembre: 45 euro, vini esclusi
Positano (Salerno)
DOVE COMPRARE
PASTICCERIA LA ZAGARA
via dei Mulini 8
telefono 089-875964
Positano (Salerno)
www.lazagara.com
Prato
TORTA PISTOCCHI
La ricetta della sottrazione. Niente
farina, uova, zucchero, burro.
E nemmeno grassi vegetali,
conservanti, ogm. Solo cioccolato
fondente (buonissimo), cacao
amaro in polvere e pochissima
crema di latte fresca. Eppure, la
creazione del fiorentino Claudio
Pistocchi è straordinaria. Esistono
due varianti: peperoncino e
amarene
DOVE DORMIRE
B&B RESIDENZA JOHANNA
via Cinque Giornate 12, telefono
055- 473377. Firenze
Camera doppia a 85 euro,
colazione inclusa
Vignola
TORTA BAROZZI
Uno strepitoso assemblaggio
di mandorle, cioccolato e polvere
di caffè, elaborato dalla famiglia
Gollini, giunta alla quarta
generazione di arte pasticciera.
Il dolce, dalla ricetta segretissima
e senza punti vendita se non il
laboratorio originale, è dedicato
al celebre architetto vignolese
Jacopo Barozzi
DOVE DORMIRE
ALLA ROCCA, via Matteotti 76
telefono 051-831217, Bazzano
(Bologna). Camera doppia
a 130 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
FUSION BAR (Gallery Hotel Art)
vicolo dell'Oro 5, telefono
055- 27263. Chiuso il lunedì,
menù da 35 euro, vini esclusi
DOVE MANGIARE
HOSTERIA GIUSTI
vicolo Squallore 46, telefono
059-222533. Modena. Chiuso
domenica e lunedì. Cena su
prenotazione. Menù da 40 euro,
vini esclusi
DOVE COMPRARE
L'ANTICA GASTRONOMIA
via degli Artisti 58r
telefono 055- 578460. Firenze
www.tortapistocchi.it
DOVE COMPRARE
PASTICCERIA GOLLINI
via Garibaldi 1N, telefono
059-771079 Vignola (Modena)
www.tortabarozzi.it
4 kg
Il consumo di cioccolato
procapite ogni anno in Italia
Cioccolata
Piaceri dell’altro mondo
LICIA GRANELLO
appuntamento è vecchiotto, usurato ma ineludibile. Lunedì 14 febbraio, giorno di San Valentino, riuscirà difficile
far finta di nulla. Archiviato il brillante e rinnegata la pelliccia,
esaurita la scelta di cravatte e dopobarba, a far la differenza più che il
costo sarà l’idea. Con il cioccolato, per esempio, non si sbaglia mai. Ma si rischia la banalità. A meno che, messi da
parte i cioccolatini da agiografia pubblicitaria, ci si addentri nel territorio golosissimo (e ancora poco conosciuto) delle nuove praline, delle torte-culto, delle supertavolette seducenti come una scollatura velata.
Questione di palato e di allenamento.
Abbiamo importato il cioccolato dal
Messico quattro secoli fa attraverso i
conquistadores spagnoli. Lo abbiamo riscattato dalle ruvidezze originali (coperte dall’uso massiccio di spezie) grazie ai sofisticati cioccolatieri torinesi, allievi dei grandi “maitres patissieres”
francesi (a metà Ottocento, fare il cioccolatiere era considerata un’arte tanto
L’
Sacher Torte
La madre di tutte le torte al
cioccolato è stata inventata nel
1832 dal pasticcere austriaco
Sacher, in servizio alla corte
del principe austriaco von
Metternich
Winnesburg
L’elaborazione,
a base di
materie prime
da pasticceria
classiche – farina,
burro, zucchero,
uova, cioccolato – si
contraddistingue per
la farcia di marmellata
d’albicocche e la lucida
glassatura
a base di cioccolato
remunerativa che le carrozze dei più
bravi rivaleggiavano in lusso con quelle
reali). E negli anni abbiamo imparato
che la tipologia al latte è un po’ come per
l’astemio bere un bicchiere di Moscato
d’Asti: una tappa di avvicinamento facile e goduriosa al paradiso dei Grandi Golosi. Dove si mangia quasi solo fondente, purché di alta qualità.
Siamo diventati così bravi, in Italia,
da aver bagnato il naso ai francesi,
strappando loro l’esclusiva di Chuao e
Porcelana, due nomi-mito del pianetacioccolato. Merito dei fratelli Tessieri,
proprietari di una fabbrica-bomboniera alle porte di Pontedera, cuore di quella Chocolate Valley, meta di pellegrinaggi devoti da tutto il mondo. Dalla
“Amedei”, infatti, il percorso si snoda irresistibile tra i laboratori-culto di Catinari (Agliana), Slitti (Monsummano
Terme), De Bondt (Pisa), Molina (Quarrata), Mannori (Prato). Come una ciliegina sulla torta (è il caso di dirlo, dopo
aver assaggiato la torta al cioccolato e
amarene) la new entry del fiorentino
Claudio Pistocchi.
Sono loro, insieme a una manciata di
“esterni” – Guido Gobino, Corrado Assenza, Franco Rizzati, Domori, Franco
Ruta – a fare del cioccolato un gioiello da
gustare senz’altri sensi di colpa che
quelli legati alla quantità. Perché in accordo perfetto con nutrizionisti e scienziati, basta limitare i dosaggi per trasformare l’oscuro oggetto del desiderio
gourmand in una medicina miracolosa:
euforizzante, digestiva, tonificante,
afrodisiaca, a secondo delle esigenze (e
delle convinzioni). I cioccolatieri si sono
adeguati rapidamente: le tavolette sono
sottili e lievi, le minisfoglie non superano i sei grammi di peso, le praline poco
di più. Meno facile trattenersi davanti a
una delle torte elette a oggetto di culto
dal passaparola dei buongustai. È il caso
della torta Barozzi, inventata da un pasticcere emiliano oltre un secolo fa: ricetta segreta, distribuzione negata, durata limitata. Chi l’ha assaggiata, non la
dimentica più.
Ma il cioccolato, si può conoscere anche da molto, molto vicino. Se vi sentite
ispirati e vogliosi di fai-da-te, la ChocoTravels organizza veri e propri week end
didattici per imparare i segreti dei cioccolatieri direttamente nei loro laboratori. Dopo lo stage dal piemontese Giacomo Giraudi (creatore di una meravigliosa crema al cioccolato: la “Giacometta”), il prossimo corso si terrà a casa De
Bondt il 19 e 20 febbraio. Potete immaginare un modo più goloso di festeggiare San Valentino?
ZUCCA
Il ferrarese Franco
Rizzati ha sfruttato
l’ortaggio principe
della sua terra candito ad arte per ammorbidire
il gusto deciso del
fondente. Nella
sua offelleria, si
realizzano anche
i cioccolatini con
lo zenzero candito
in proprio. Ultime sue
creazione: due
nuove tipologie
di cioccolato
affumicato
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
FOTO ZEFA
1528
‘‘
CARLO GOLDONI
Che bevanda delicata
Che diletto mi dà!
Viva pur la cioccolata
Che dà gusto e sanità
Viva pur la cioccolata
E colui che l’ha inventata
da LA CONVERSAZIONE
‘‘
GABRIEL GARCIA MARQUEZ
Un momento (...) ora assisteremo
ad una prova irrefutabile
dell’esistenza di Dio. Il ragazzo che
aveva servito messa gli portò una
tazza di cioccolato spesso e
fumante che egli bevve d’un fiato
da CENT’ANNI DI SOLITUDINE
È l’anno in cui arriva
il cioccolato in Europa
25 mila
Sono i laboratori artigianali
di cioccolato in Italia
5 mln
Le tonnellate di cioccolato
prodotte nel 2004 nel mondo
Dopo il mix europeo con lo zucchero
Tornano le ricette
dei sacerdoti Maya
MASSIMO MONTANARI
40 mila
“C
Sono i cioccolatieri
che lavorano in Italia
ROSMARINO
A pochi chilometri
da Pistoia, i fratelli
Lunardi hanno messo
a punto un’inedita
fusione di gusti tra
gli odori dell’orto rosmarino e salvia e il cioccolato.
I “cretti” sono
profumati, suadenti.
Dall’orto al laboratorio,
sempre in regime
di alimentazione
naturale, sono state
create anche
le gustose praline
alla frutta
ASSENZIO
La storica azienda
torinese Leone,
famosa per le mitiche
pastiglie realizzate
con ingredienti
naturali, estratti e oli
essenziali, ha
recuperato il liquore
maledetto (ingentilito)
per sposarlo al
cioccolato al 70%,
inventando un gusto
complesso e suadente
I Leone producono
anche un interessante
cioccolato privo
di zucchero
PEPERONCINO
Il più antico degli
“additivi” del
cioccolato, secondo
ricetta azteca, è
riproposto dalla
Dolceria Bonajuto
di Modica,
impreziosito dallo
zucchero in cristalli.
Fedeli alla ricetta
originaria pure
gli assemblaggi con
vaniglia e cannella,
che caratterizzano
le tavolette, senza
snaturare i gusti
primari del cacao
SALE
Una coppia toscoolandese, Cecilia e
Paul De Bondt, ha
eletto a prelibatezza
l’associazione tra
cioccolato in due
sfoglie (al latte e
fondente) e cristalli di
sale (fleur de sal), che
temperano l’acidità del
cacao, esaltandone la
morbidezza e gli aromi
Oltre a spezie come il
pepe nero, esistono
varianti con rosa,
anice stellato,
gelsomino
acahuaquchtl”. Così gli antichi maya chiamarono una pianta dell’America centrale
i cui noccioli, una volta abbrustoliti, sbucciati, frantumati e ridotti in polvere, venivano bolliti in acqua caldissima con l’aggiunta di pepe, peperoncino, zenzero, miele, farina di mais. La bevanda
che ne risultava, dal sapore aspro e pungente, era
consumata dai sacerdoti durante i riti religiosi ed era
offerta agli déi, che, si diceva, la preferivano a ogni altra bevanda.
Quando gli europei invasero l’America, la bevanda al cacao suscitò subito la loro curiosità, ma non
incontrò il loro gusto. Essi infatti, in quei secoli, erano tutti presi dalla moda dello zucchero e dei sapori
dolci. La loro cucina ridondava di zucchero, un prodotto allora sconosciuto in America, che gli arabi
avevano portato in Europa durante il Medioevo e
che era rapidamente diventato un segno di prestigio
sociale. I menù delle corti rinascimentali si aprivano
con zuccherini e questo sapore accompagnava poi
l’intera successione dei piatti: carni intrise di zucchero, pasta spolverizzata di zucchero, torte dolcisalate, e così via, fino alla confetteria finale. Cuochi,
gastronomi, dietologi, scienziati erano tutti d’accordo che “il zuccaro fa compagnia ad ogni altra cosa”
e che “nessuna vivanda lo rifiuta”.
Nessuna sorpresa, dunque, se anche la cioccolata
fu accolta in Europa solo a patto di
essere ammorbidita e addolcita. Le
spezie forti della tradizione americana (pepe, peperoncino, zenzero) furono sostituite da aromi più
delicati: vaniglia, muschio, ambra.
Ma, soprattutto, fu il massiccio impiego di zucchero a trasformare il
sapore della bevanda, che tuttavia
conservò l’antico nome maya di
“chacahoua”, da cui derivarono lo
spagnolo e l’inglese “chocolate”, il
francese “chocolat”, l’italiano “cioccolata”.
In Europa, come già in America, la cioccolata rimase per lungo tempo una bevanda per pochi. Soprattutto i ceti aristocratici la adottarono, e poiché
gli alimenti non sono solo alimenti ma anche immagini sociali, essa diventò, nel XVII-XVIII secolo,
quasi un simbolo dell’ozio nobiliare, a cui la cultura borghese contrapponeva l’operosità dei mercanti, la produttività degli industriali e l’acume degli intellettuali illuminati, che si celebravano piuttosto
nella “bottega del caffé”. I due prodotti, la cioccolata e il caffé, finirono per rappresentare stili di vita opposti. La cioccolata incontrò un notevole successo
anche tra i religiosi, dato che, in quanto bevanda
(ma con una capacità nutritiva decisamente insolita), ne fu consentito il consumo nei giorni di digiuno. In certi paesi, come la Spagna, si continuò a prepararla con l’acqua, secondo l’uso americano. Altrove, come in Italia o in Inghilterra, si preferì sostituire l’acqua con il latte. Nel XIX secolo apparve la
cioccolata solida, destinata a enorme fortuna.
Attorno alla cioccolata le sperimentazioni non si
sono mai fermate. Nel Settecento vi fu chi propose
di mescolare il cacao con il vino o con la birra, con il
caffé o con il tè, con l’acquavite, col brodo di carne.
Le “novità” che abbiamo oggi sotto gli occhi (cioccolate con altissime percentuali di cacao e poco
zucchero, cioccolate con aromi piccanti e spezie
forti) paiono in qualche modo riportarci là dove
questa storia era cominciata, nelle foreste dell’America centrale dove maya e aztechi celebravano i
loro riti con bevande al cacao mescolato con zenzero e peperoncino.
ZAFFERANO
Il cioccolatiere torinese
Guido Gobino, celebre
per avere reintegrato
la ricetta del
gianduiotto senza
latte, ha creato una
pralina dal carattere
speziato
e persistente, con
fondente al 60% ,
zafferano di Navelli e
Vaniglia Bourbon. Da
gustare anche il
ginger&lemon
e il Pinguino,
minigianduiotto
“foderato” di fondente
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005
l’incontro
Testimoni della storia
Alla soglia dei suoi novant’anni
il rabbino capo emerito di Roma
racconta il Novecento che ha
attraversato prima come studente
universitario perseguitato perché
ebreo, poi come
partigiano e infine
come guida religiosa:
il secolo breve
dei totalitarismi,
delle leggi razziali
e della Shoah.
Ma anche il secolo,
ci dice, che ha aperto una strada
di pace e tolleranza da cui non
è più possibile tornare indietro
Elio Toaff
«H
ROMA
o visto le più grandi tragedie del secolo passato. I
drammi e le violenze delle guerre, delle sopraffazioni e
della povertà. Ho visto le tragedie della
Shoah, i morti innocenti di Auschwitz,
di Dachau e degli altri campi di concentramento. Ho visto bambini ammazzati, gente impiccata, feti strappati dal ventre della madre e uccisi a colpi
di pistola. Ho visto tante, troppe persone umiliate dalle leggi razziali, dall’antisemitismo, dall’odio apparentemente inspiegabile verso l’ebreo. Ma la speranza non l’ho persa mai. E oggi, alle soglie dei miei novant’anni, malgrado
tutto, guardo al futuro con fiducia, rincuorato anche dalla ritrovata vitalità
del dialogo ebraico-cristiano che, grazie in particolare a un papa come Giovanni Paolo II, ha imboccato una strada fatta di reciproca comprensione e di
fraterna intesa. Un dialogo fruttuoso
che nessuno più riuscirà a spezzare».
Elio Toaff, rabbino capo emerito della comunità ebraica di Roma, la più antica d’Europa, lo racconta così il Novecento, il secolo “breve”, il secolo delle
grandi tragedie dell’umanità. L’occasione è doppia: i novant’anni che compirà alla fine del prossimo aprile ma anche il sessantesimo anniversario, appena passato, dell’apertura dei cancelli di Auschwitz. Novant’anni, una meta
che — assicura — «attraverserò guardando sempre avanti». Ma che offre
l’opportunità, per una volta, di girare lo
sguardo sul secolo passato, attraversato di corsa, sempre in prima linea, prima come studente universitario perseguitato dalle leggi razziali, poi come padre di famiglia, docente, rabbino e, anche, partigiano. «Ma la cosa di cui sono
più sono fiero — confessa — è l’essere
stato testimone dello sviluppo di questo paese, nel quale la comunità ebraica ha svolto un ruolo sempre più rilevante e condiviso, malgrado un passato fatto anche di leggi razziali, di campi
di concentramento, di persecuzioni».
Toaff parla con un inconfondibile accento toscano — o, meglio, livornese —
e accompagna le parole con un sorriso
vivace, a tratti nervoso, ma sempre
spontaneo. Anche quando evoca eventi tristi. Negli occhi brilla sempre una
luce, come se le antiche tragedie fossero ormai dimenticate. Ma è solo apparenza.
«Sono nato a Livorno — racconta —
il 30 aprile del 1915 e la mia famiglia, come quelle di tutti gli ebrei italiani, ben
presto fu costretta a fare i conti con le
leggi razziali». Figlio del rabbino della
città toscana Alfredo Sabato Toaff e di
Alice Yarch, il giovane Elio studia al collegio rabbinico di Livorno e si laurea all’università di Pisa. Ha una sorella, Pia,
e due fratelli, Cesare e Renzo che si rifugiano in Israele. «Renzo — ricorda oggi
—, un bravo chirurgo, fu letteralmente
cacciato dall’ospedale mentre era alle
prese con un intervento. “Me ne andrò
solo dopo aver terminato l’operazione”, disse. E così fece».
La laurea in giurisprudenza è una
scommessa vinta quasi per caso. «A
causa delle leggi razziali nessun docente era disposto a farmi da relatore. Alla
fine solo un professore accettò. Si chiamava Lorenzo Mossa e mi affidò una tesi sul conflitto di leggi in Palestina, frutto dell’incontro della tradizione ottomana, inglese ed ebrea. Ma al momento della discussione della tesi, il presidente Cesarini Sforza se ne andò, buttando la toga sul tavolo, arrabbiato
perché ero ebreo. Mossa, senza farsi intimorire, decise di continuare e mi laureai con un 105. Era il 1939».
Ma la vera vocazione del giovane
Toaff non è la magistratura. Mentre
studia all’università continua l’impegno religioso all’interno della comunità ebraica livornese. E nel 1940 viene
nominato rabbino. «Mio padre non voleva», ricorda con un sorriso. «In famiglia, mi diceva, di rabbino ce n’è già
uno, che basta e avanza. In realtà, aveva timore per me, avendo annusato la
brutta aria che in Italia si respirava già
da anni. Non lo ascoltai. Ed eccomi
qua». Il primo incarico arriva nel ’41
con la nomina a rabbino capo della comunità ebraica di Ancona. «Fu una
esperienza interessante, molto formativa, a tratti anche dura. All’inizio, i momenti più difficili. Appena arrivato —
dice — seppi che una famiglia di ebrei
stava per convertirsi al cristianesimo.
Senza esitazioni, li andai subito a trovare poche ore prima della celebrazione.
Dissi al padre che stavano per fare un
passo vigliacco, inutile e poco dignitoso. In un primo momento non fui capito, ma sarà stato per la mia foga, per la
mia sincerità o forse la passione con cui
parlai, alla fine nessuno si convertì. Anzi, il padre diventò presidente della
consulta umanitaria della comunità».
Sono anni difficili per il giovane rabbino. Un giorno Toaff va in ospedale
per portare il conforto religioso a un pa-
ziente ebreo. «Appena mi presentai fui
cacciato via da due infermieri. Senza
scoraggiarmi andai dal maresciallo dei
carabinieri che, con grande determinazione, mi fece scortare da quattro carabinieri, assicurandomi che avrei potuto sempre rivolgermi a lui per qualsiasi
problema. Un galantuomo». Ad Ancona, anche la comunità ebraica vive il
dramma della guerra: «La gente partecipava alle preghiere del tempio, ma
senza fare molta vita comunitaria.
Quando arrivarono i tedeschi, chiusi la
Sinagoga, anche in occasione della
grande festa del Kippur, e insieme a tutta la popolazione mettemmo in salvo la
comunità nelle case e nelle parrocchie.
I ragazzi e i bambini li imbarcammo su
una nave in direzione del Sud, dove erano arrivati gli alleati».
Nel ’43, il matrimonio con Lia Luperini, insegnante di lettere, dalla quale
avrà quattro figli: Ariel, Miriam, Daniel
e Godiel. L’arrivo dei nazisti costringe i
Toaff a cercare rifugio in Versilia, a Val
di Castello. Si salvano grazie a un par-
A Sant’Anna di
Stazzema ho visto
un feto strappato
dal ventre della
madre e finito con
un colpo di pistola.
Ecco perché
dalla Germania non
sono mai passato
neppure in aereo
roco, don Francalanci: «Ci nascose per
molto tempo nella sua parrocchia.
Dormivamo in chiesa, mio padre sui
gradini dell’altare maggiore, noialtri
sulle panche». Con l’arrivo degli alleati,
la famiglia Toaff può tirare un sospiro di
sollievo. Ma durante un nuovo rastrellamento delle Ss, il rabbino — insieme
ad altre persone — viene catturato. «Mi
salvai per sbaglio mentre mi stavo scavando la fossa. Gli altri furono fucilati:
io, per ordine di un comandante austriaco con cui avevo scambiato un po’
di parole in francese, fui salvato. Prima
di andarmene pregai sui corpi dei compagni che non avevano avuto la mia
stessa fortuna».
La scelta partigiana è un passo obbligato, che Toaff compie unendosi alle
brigate versiliane e che, tra l’altro, lo
porterà, armi in pugno, ad essere uno
dei testimoni oculari della strage di
Sant’Anna di Stazzema. «Entrammo in
città quando i tedeschi se ne erano già
andati. Trovammo un deserto spettrale — ricorda — poi davanti ai nostri occhi apparvero i corpi privi di vita di 505
persone fucilate». Ma all’orrore non c’è
fine, negli anni più bui del ventesimo
secolo. È un’altra la scena che segna
Elio Toaff per tutta la vita: «Con altri
partigiani entrai in un casolare e vidi
una donna appoggiata al tavolo come
se dormisse. Non era così. Era morta.
Aveva la pancia squarciata dall’alto in
basso. Accanto a lei trovammo il feto
che le era stato strappato dal ventre,
morto, con la testa traforata da un colpo di arma da fuoco. Quell’immagine
mi ha cambiato l’esistenza. E da allora
— confessa — non ho avuto più la forza
di toccare il suolo della Germania, né di
sorvolarlo con l’aereo. Non l’ho più fatto, anche se qui a Roma ho accettato
l’invito dell’ambasciata tedesca. Devo
aggiungere che da partigiano non ho
mai sparato e, tantomeno, ucciso».
Finita la guerra, nel 1945 arriva la nomina a rabbino capo della comunità
ebraica di Venezia, che guiderà per sei
anni. «Anche quella fu una esperienza
bellissima. Trovai una comunità vivace, vogliosa di crescere, specialmente
dal punto di vista culturale e scolastico,
ben inserita nel tessuto cittadino. Tra
gli episodi più curiosi di quel periodo,
l’invio nel ’48 di un carro armato abbandonato dai tedeschi al nascente
Stato di Israele. Un dono simbolico, ma
fu il primo carro armato dell’esercito
israeliano». Nel ’51, «inaspettatamente», la nomina a rabbino capo di Roma,
incarico che coprirà per cinquant’anni.
«Ricordo che all’inizio qualche rabbino
si lamentò per il mio arrivo, perché non
ero romano. Poi ci conoscemmo bene e
non ci furono più problemi». Nella capitale il primo problema in quegli anni
era la povertà: «Con le ferite della guerra e delle deportazioni ancora aperte, la
comunità era in grande difficoltà. Ma
piano piano, lavorando sodo, senza
mai scoraggiarci, cominciammo a crescere e a camminare».
Non senza difficoltà. «Il momento
più terribile che ho vissuto da rabbino
capo di Roma è stato l’attentato alla Sinagoga del 1982, quando i terroristi palestinesi del gruppo di Abu Nidal provocarno la morte del piccolo Stefano
Tasché e il ferimento di quaranta persone. Un episodio triste e drammatico
frutto di un clima politico antiebraico,
come denunciai al presidente Pertini.
Un clima che spero non torni mai più».
Ma il Novecento di Toaff è anche
quello del dialogo. Nel suo mezzo secolo romano, il rabbino è stato dirimpettaio di cinque papi. Ma solo uno è diventato suo amico personale, quasi un
fratello: papa Wojtyla. «Con Pio XII non
ci furono mai contatti, nemmeno istituzionali — racconta Toaff — purtroppo era il clima del tempo. Con Giovanni XXIII incominciò la svolta: con il
Concilio che cancellò l’accusa di deicidio al popolo ebraico e con lo stesso
Roncalli che abolì quell’espressione di
“perfidi giudei” in uso per secoli tra i
cristiani. Giovanni XXIII fu poi autore
di un gesto che emozionò tutta la comunità: un giorno fece fermare la sua
auto davanti alla Sinagoga per benedire gli ebrei che uscivano dal tempio. Fu
un momento bellissimo, commovente:
dopo duemila anni, per la prima volta,
un papa aveva benedetto un gruppo di
ebrei».
«Con Paolo VI — ricorda Toaff — non
ci furono incontri, ma iniziò il dialogo
ebraico-cristiano grazie a figure come
il vescovo Clemente Riva, uno dei silenziosi artefici della storica visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga, l’indimenticabile visita contrassegnata da quella
felicissima espressione di “fratelli maggiori” con cui il Papa definì il popolo
ebreo. Questo papa — al quale auguro
una pronta guarigione e che spero di incontrare presto — ha veramente fatto
tanto per la reciproca conoscenza tra
ebrei e cristiani. Ha chiesto sinceramente scusa per le colpe storiche dei
cristiani nelle persecuzioni ebraiche,
ha allacciato le relazioni diplomatiche
tra Vaticano e Israele, ha visitato la Sinagoga. Per questo, dico, i rapporti tra
ebrei e cristiani si sono ormai avviati
verso una felice strada senza ritorno».
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ORAZIO LA ROCCA
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