Pubblicazione Semestrale N°4 Luglio 2012 LA VOCE Distribuzione gratuita di Limina Organo Semestrale di informazione per soci e simpatizzanti della Societá Operaia Liminese Editoriale CULTURA UNA LEZIONE ED UN COMPAGNO DI STRADA-4 L`ULTIMO PREMONITORE RICORDO DI PEPPINO CAVARRA-6 GIUSEPPE CAVARRA RICERCATORE SUL TERRENO-8 CAVARRA E LA PAROLA-9 LA VOLTA DI CAVARRA-10 ALL`AMICO PEPPINO CAVARRA-11 GIUSEPPE CAVARRA-12 IL PROFESSORE CHE VOLEVA INSEGNARE A FARE LA VERA STORIA-13 L`IRONIA ANTROLOPOGICA-15 RICORDO DEL PROF. CAVARRA-16 ADDIO PROF. CAVARRA-17 AL MIO CARO E INDIMINTICABILE AMICO -18 AL NOSTRO CARO AMICO-19 POLITICA LA GALLERIA DEGLI ERRORI-20 NEL NOSTRO PAESINO-21 LE NOSTRE COMUNITÀ RISPOSTA AL SINDACO-22 LA VOCE DI LIMINA EDITORIAL N ell`estate del 1977 ci siamo rincontrati per la prima volta a Limina in occasione delle vacanze estive.Quel ritorno al paese natale ci aveva rigenerato il gusto del passato e dei ricordi e da quel momento si era consolidata la nostra amicizia con le piacevoli chiacchierate in un ambiente di chietudine e di rilasso che solo nel nostro paese si può trovare, circondati di gente e luoghi che ci facevano ricordare la fanciullezza, la scuola, sino al completamento delle Elementari, le campagne spesso aride, che si dovevano raggiungere a piedi o a cavallo di asini e muli, per chi li possedeva, le belle e le avverse stagioni con Limina intensamente popolata e con la sua vigorosa attività agricola e artigianale che si vantava di essere un paese autosufficiente Durante le lunghe giornate, che si prolungavano sino all`alba nella piazzetta del paese, i nostri argomenti non si esaurivano facilmente. Si parlava, sopratutto della cultura orale di Limina.. Era il periodo in cui stava per finire il manoscritto del suo libro “Cultura Popolare Liminese”. Mi raccontava il suo arduo lavoro di ricerca ed era pienamente soddisfatto di questa opera che presto vedrà la luce per “testimoniare il mio interesse alle poche gioie e alle molte sofferenze della nostra gente” come soleva dire. Questo ricco lavoro di Giuseppe Cavarra, dopo una breve attesa, venne editato nel 1978 da Carbone Editore di Messina. Il libro che aveva riscosso molta recezione di lettori in Limina ed altrove, venne da chi questa nota scrive, nel 1979, ristampato a Caracas con una serie di stupende immagini di epoca e distribuito in dono ai liminesi del Venezuela. Nel 1973, Sebastiano Saglimbeni residente a Verona si era fatto carico a pubblicare a Giuseppe Cavarra con l`Editrice Universitaria di Verona il libro Gli americanismi liminesi. Sebastiano Saglimbeni già era autore di Domineddio un libro di racconti, e del romanzo La ferita del Nord e delle sue più note sillogi poetiche, Catàbasi e lezione di umiltà edita nel 1977, Anche se Cavarra svolgeva la sua principale attività culturale a Messina da dove sono usciti le opere più importanti della sua fruttifera carriera di uomo di cultura che lo hanno portato varie volte como vincitore di importanti premi della Sicilia, mi ricordo ancora la passione particolare con cui lavorava sui progetti culturali di Limina. Al premio Bizzeffi, ai murales, all`Associazione Culturale .Nuova Limina e alla Rivista Il Puntale gli aveva dedicato tempo ed entusiasmo per il bene del suo amato paese. Da far sapere a chi non sa che il nostro uomo instancabile aveva più volte chiesto di istituire a Limina un museo della memoria, ma L`Amministrazione comunale, alla quale aveva fatto richiesta, fece, come si suol dire, orecchio da mercante . Quel museo della memoria, reclamato per la nostra Limina, venne proposto da Cavarra e istituito nel comune di Savoca diventando il più importante Museo nella Valle D`Agrò . Laddove avrebbe dovuto sorgere, il Museo di Limina, ora si può ammirare una oscena mole di cemento armato con un corridoio pieno di fotografie. Avevo sempre ammirato la sua statura intellettuale, la sua instancabile capacità di lavoro e di creatività culturale ed io aproffittandome di questa suo talento lo stimolavo a scrivere su Limina ed è stato così che per molti anni abbiamo presentato a Limina molti suoi libri, anche alcuni di Sebastiano Saglimbeni. Nell`estate del 2000 assieme a Sebastiano Calabrò residente in USA, parlavamo dei liminesi sparsi per il mondo e dei loro discendenti molti dei quali non conoscevano la lingua italiana e conoscevano ben poco della cultura del paese dei loro padri e dei loro nonni. Fu allora che nacque l`iniziativa di tradurre alcuni libri riguardanti Limina LA VOCE di Limina in lingua spagnola e in lingua inglese per farli arrivare nei paesi dove ci sono più discendenti di liminesi. Nell`estate del 2001 abbiamo presentato a Limina l`opera di Cavarra La Spiga Nana Limina e la sua cultura, il primo libro con traduzione in inglese e spagnolo. Nelle nostre conversazioni sul tema dell`emigrazione era particolarmente sensibile e sentiva un profondo interesse sui nostri emigranti sparsi per il mondo. Ricordava racconti e poesie in dialetto di vecchi emigranti liminesi del 1900, epoca triste di discriminazione e sofferenze. Io gli dicevo che l` emigrazione del dopo la II guerra mondiale è stata differente e gli parlavo del Venezuela dove i nostri padri non avevano sentito tanto il dramma dell`emigrazione e la sofferenza che avevano subìto altri emigranti che sono arrivati in paesi di radici culturali diverse. Giuseppe Cavarra nel 1999 si era deciso di compiere un viaggio a Caracas dove rimase più di un mese . Durante il suo soggiorno gli ho fatto conoscere molti poeti venezuelani alcuni in persona altri attraveso i libri. Nei versi di Vicente Gerbasi, di Santos Lòpez, di Juan Liscano, di Luis Alberto Crespo, di Rafael Arraiz, “ritrovai la vocazione degli antichi umanisti con la loro convinzione che nulla di ciò che è umano è estraneo all`uomo” mi diceva. Si era portato con sè un manoscritto di sue poesie in dialetto liminese che venne tradotto in spagnolo, assieme ad altre poesie di questi poeti venezuelani si è pubblicato il libro Parole-Palabras “dando vita ad un incontro tra sensibilità e culture che si scoprono simili, in nome della terra e dell`amore, della memoria e della parola. Un incontro che sa di sorpresa allorchè il dialetto liminese, tradotto in spagnolo, conserva gli stessi ritmi e la stessa forza espressiva. Miracoli che appartengono alla poesia” Così scrisse la rivista culturale Quartiere di Messina. Durante la sua permanenza in Caracas volle incontrarsi con la comunità dei liminesi per parlare con tanti di loro e visitare le loro case in particolare con le vecchie donne emigranti, le più forti e coraggiose della nostra emigrazione, che hanno stimolato il progresso delle famiglie liminesi e con i giovani figli di limi- LA VOCE di Limina CULTURA nesi nati in Venezuela aggrupati attorno alla pubblicazione del giornale L`Attualità dei Liminesi in Venezuela fondata nel dicembre del 1995. L`ho portato al Teatro Teresa Carreño dove si eseguiva un concerto dell` Orchestra Sinfonica di Caracas diretta dal maestro Rodolfo Saglimbeni in quel periodo il più giovane e prestigioso direttore di orchestra del Venezuela con il quale dopo lo spettacolo abbiamo avuto una lunga conversazione, parlando anche della Banda Musicale di Limina dove il nonno di Rodolfo e il padre di Peppino erano musicanti attivi. In seguito, un`entusiasta comitiva di paesani organizzò una cena nel notissimo ristorante Via Appia del liminese Pippo Fallone. Giuseppe Cavarra fu fatto accomodare sulla sedia che abitualmente usava Gabriel Garcia Marquez, Premio Nobel della letteratura ed amico personale del ristoratore. Era felicissimo di vedere una comunità liminese unita, apprezzata dai venezuelani e con una significativa presenza in tutti i settori della vita nazionale. Ha conosciuto Cua, Maracay e Puerto La Cruz e l`ho portato nel quartiere di Petare per fargli conoscere da vicino la gente che vive nei “ranchos” (barracche) che sono l`altra faccia della moneta di una grande città latinoamericana come Caracas, dai tanti contrasti e ingiustizie sociali. Un`altra visita suggestiva nel quartiere Chacao dove abitavano moltissimi liminesi, ispirò a Giuseppe Cavarra i seguenti versi in dialetto liminese Stigghjola,Ramagneddha, a figghja i Zzammaruni, u figghju i mastru Jàrfiu, i Faddhuneddhi, a Bbrisca, i Carvuni, l`Africani Vi nni jistu Parramu Nta l`arba bbrafustiati. Cchiù di jeri ca di oj Nan chjudistu occhju e-vvi nèsciunu di ucchi e i pinzeri di ddha notti paroli ca nan jannu appressu v`i purtastu vostru stissu sangu Era nnuulatu Vi mancunu i paroli u celu du Carvariu. pi-ttutti ssi rriordi ca nan còddhunu mai. Vi nni jistu e-ssapìu Parramu sulu chiddhu ca lassau. e na mani sbadata stenni nigghjceddha Caminu e-mmi pari supra munti Avila: ca sempri cci ha passiatu a stissa nta sti strati di Chacau ddha matina cci mmucciava a facci e cosi supra munti Kalfa Stigghjola, Ramagneddha, la figlia di Zzammaruni, il figlio di Alfio, i Falloni, la Bbrisca, i Carboni, gli Africani Ve ne andaste / sul far dell àlba delusi. // Non chiudeste occhio / e i pensieri di quella notte / dietro ve li portaste / Era nuvoloso / il cielo del Calvario / Ve ne andaste / e sapevate / solo quello che lasciavate // Cammino e mi pare / di aver sempre passeggiato / per queste strade di Chacao // Parliamo / più di ieri che di oggi / e vi escono dalle bocche / parole / per tutti i ricordi / che non tramontano mai // Parliamo / e una mano sbadata / stende nebbiolina / sul monte Avila / la stessa / quella mattina nascondeva / la faccia alle cose / sul monte Kalfa. Cuando ritornò a Messina, sazio di sapori venezuelani, scrisse e dedicò al poeta venezuelano Santos Lopez la poesia dal titolo Venezuela, la quale recita: 3 VENEZUELA Terra lontana divenuta vicina millenni di storia salutano i tuoi cinquecento anni: un mattino brumoso, un inizio volto alla speranza di protrarre all`infinito l`occaso della breve giornata. che non si fà memoria Muove il tuo cammino Parti bene: non puoi fermarti a guardare i rapaci che volteggiano nel cielo di Maracay o il rio rischiarato da una luna svogliata nei canali artificiali di Puerto La Cruz. Non devi fermarti, terra lontana divenuta vicina. Come me te lo dicono i fratelli venuti alle tue sponde chiedendoti un destino in nome dell`amore e della solidarietà Tu per tutti hai saputo essere patria. Ora invochi gli orizzonti perduti e le macchine ringhiano forte, trafiggendo il buio della notte che non si fà memoria per le strade di Caracas. Se una sola è la storia degli uomini, in questa storia voglio anche te, Venezuela, col tuo nome italiano, con le tue energie divenute essere da meta raggiunta. Il diritto alla presenza t`impone di non fermarti fino a quando i bambini di Petare -nei ranchos ci sono i tuoi figlinon conoscono in nome del rispetto l`ascesa dell`infimo al sublime. L`estate scorsa del 2011, prima che presentassimo il libro Filippo Restifo- Una vita avversa al servilismo, curato da Sebastiano Saglimbeni con scritti di Giuseppe Cavarra, eravamo seduti al solito posto all`angolo del Bar di Natale. C`erano come sempre i fratelli Sebastiano e Giuseppe Calabrò, Angelo Salimbene con la sua compagna, Giuseppe Saglimbeni residente a Mira (Venezia) ed alcuni simpatizzanti della Società Operaia. Mancava Nino Cuglituri, il colto sarto che aveva vissuto a lungo a Milano e che sapeva con ironia dire la sua. Ed ancora una semina di memorie su tempi lontani della Limina contadina e i suoi uomini. Più in là da noi, poichè la conversazione con finiva mai, un gruppo di persone del Governo liminese distribuiva certe occhiate sinistre forse pensando che parlevamo della politica locale. Con la vitalità che ha caratterizzato ogni momento della sua vita Giuseppe Cavarra ha affrontato anche la malattia che ha occupato il suo corpo distruggendolo. Ma solo quello. Le parole che ci ha regalato restano miracolosamente impresse nelle pagine dei suoi libri. Ognuna di quelle parole ci dice che Peppino è vivo, che è tra noi, che non ci ha mai lasciato. Ascoltiamo la sua risata e rivediamo il suo sguardo complice ed ironico. No, la morte non è riuscita a portarlo via. Noi continuiamo a lavorare per una Limina possibile Eligio Restifo [email protected] 4 LA VOCE di Limina CULTURA UNA LEZIONE ED UN COMPAGNO DI STRADA A senso occuparsi della cultura dialettale in questa nostra èra, vorticosamente tecnologica ed industriale, con la ricchezza della nostra lingua italiana, da tanto e da tanti praticata? Con questo interrogativo l’incipit del discorso che segue sulla bellezza e la devozione alla donna contemplata nei canti dialettali di una comunità chiamata Limina. Al quesito va risposto che vale in vero parlare di dialetti, di cultura popolare o - come viene definita - subalterna, che fu il patrimonio espressivo difensivo delle classi sociali di un tempo povere ed analfabete strumentali, che sottostavano ad altre classi più abbienti e subivano sfruttamenti ed offese, come è stato tante volte scritto, persino dalla recente Chiesa che prova ora a riacquistare certa palingenesi, dopo i suoi secolari misfatti. Gli interessi di studi dei dialetti e della cultura popolare, da un cinquantennio a questa parte, non si sono affievoliti, ma è venuto meno certo rigore filologico e, conseguentemente, abbiamo letto scritture vacue, di diletto. A proposito, Maksim Gorkij, un vagabondo, un emarginato, che subì il carcere più volte, e assurse, poi, ad uno dei più grandi scrittori della Russia, scriveva: “Raccogliete il vostro folclore, studiatelo, elaboratelo”. Antonio Gramsci dalle dure prigioni del regime fascista annotava nei suoi Quaderni dal carcere rigorosamente: “Il folclore non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa seria e da prendere sul serio”. In ogni comunità, grande e piccola del nostro Paese e di altri del pianeta, non mancano studiosi, etnologi, dialettologi, sociologi, che intendono, curano appassionatamente le tradizioni popolari. Per la regione veneta, dove dimoro da molti anni, cito solo un nome, quello di Dino Coltro, della provincia di Verona, per la sua opera monumentale Paese perduto, in quattro tomi, illustrata sulla copertina da Andreina Robotti, divulgata da Giorgio Bertani, singolare ed audace editore decaduto. Coltro, colse nella Bassa veronese i detti popolari, di amore, di risposta, di saggezza; li studiò. Fra l’altro, scrisse: “Il dialetto, come linguaggio Sebastiano Saglimbeni autonomo, è immediato, legato alla realtà, non ricorre alla mediazione”. Per la regione Sicilia - visto che il tema riguarda soprattutto il dialetto e la cultura popolare di Limina - dovrei citare più di uno studioso, ma mi limito ai più noti, a partire dalla seconda metà del 1800 ad oggi; e, pertanto, Luigi Capuana, Salomone Marino, famoso per aver curato la leggenda storica polare della Barunissi di Carini a Valguarnera di Ràgali nel 1874, Giuseppe Pitrè, Antonio Pagliaro, Giuseppe Cocchiara e Giuseppe Cavarra. Quest’ultimo, quando gli ho donato i volumi di Paese Perduto, scoppiò di gioia, immerso com’era nella scoperta della cultura popolare della sua e della mia Limina e di altre comunità. Ora, prima che io indichi alcuni testi popolari, “i canzuni”, nel dialetto di Limina, debbo fare un distinguo tra il dialetto dei contadini, quello di ieri, della civiltà preindustriale, e il neo-dialetto di oggi, usato da gente che sa leggere e sa scrivere, come, per fare qualche esempio, Andrea Zanzotto di Treviso, Andrea Genovese. Un autore, questo, singolare, di versi e di prosa, vivente in Francia, dove non ha sperduto il dialetto del quartiere Giostra di Messina, dove è nato e dove ritorna. Voglio dire che il dialetto incorpora neologismi. I testi popolari sono“canzuni”nel dialetto di diversi anni or sono. La “canzuna” è un componimento lirico monostrofico che, nella sua costituzione metrica abituale, conta otto versi endecasillabi a rima alternata per quattro volte. Nelle “canzuni” di Limina è cantata, fra l’altro, la bellezza della donna e la devozione alla donna, prima accennavo, e il tema ci riconduce all’epoca della Scuola Poetica Siciliana, del “Contrasto” di Cielo d’Alcamo e del Dolce Stil Novo. I poeti popolari di Limina, di estrazione sociale umile e, soprattutto, quelli emigrati, subito dopo l’ultimo conflitto mondiale, in Argentina, negli Stati Uniti d’America, in Venezuela e in Australia, sentivano, come se fossero ritornati alle radici dell’ anima, alla stessa maniera del greco-siculo Teocrito, il primo poeta della diaspora, al quale attinse il mantovano Virgilio per le sue egloghe. Allo stesso Teocrito nel nostro Settecento si era ispirato il poeta dialettale Giovanni Meli per la Buccolica. I Canti popolari o le “canzuni”, che ho trascritto e inserito nella mia silloge di poesie Catàbasi e lezione d’umiltà, edita da Guanda 1977 e riedita nel 1999, con un criterio di trascrizione scientifica, sono di autori anonimi; alcuni mi sono stati recitati da parenti contadini, altri sono stati ritenuti oralmente, durante le serate invernali quando li eseguivano alcuni giovani innamorati, chiamati “cantaturi”, sotto le finestre delle donne al suono di un organetto: io studiavo il greco e il latino allora, all’inizio degli anni Cinquanta, e smettevo di applicarmi alla conoscenza delle due grammatiche, rapito da quel suono dello strumento e dalle parole cantate. Studiavano come me altri, ma insensibili al linguaggio pacchiano dei poeti dialettali, non, tra questi, Giuseppe Cavarra che si commoveva al suono dell’organetto, quasi lacrimava. Di lì, da quelle impressioni, egli si mosse ed eresse, nel tempo, come un monumento consistente in quella sua ricerca estenuante, fatta di dialoghi e di interrogazioni ai vecchi del paese, che conservavano in mente l’oralità dei testi, e di trascrizioni di questi, in dialetto, e di commenti. Intitolò la ricerca Cultura popolare liminese, che editò Giuseppe Carbone di Messina. Avrei dovuto pubblicarla io questa sua ricerca quando Niccolò Giannotta mi aveva affidato a Verona la direzione di una collana della sua omonima editrice traballante economicamente. Non ho potuto farla passare, ma mi ero potuto consolare di aver fatto pubblicare i suoi Americanismi liminesi con la piccola Editrice Universitaria e, dopo alcuni anni, La lingua tra i denti, una silloge delle “canzuni” di Bizzeffi, che volle dedicarmi. Se non l’avessi fatto, da fondatore delle Edizioni del Paniere, non mi avrebbe più rivolto la parola. Alcuni anni fa, i canti amebei delle egloghe virgiliane, che ho tradotto più volte per alcuni editori, mi avevano ricondotto a quelle “canzuni” che si eseguivano a Limina e che avevano alimentato pure la mia vena di poeta. Dicevo prima delle “canzuni” inserite nella LA VOCE di Limina mia raccolta poetica e aggiungo che in apertura della sezione avevo citato uno studioso di tradizioni popolari, un poeta, uno scrittore, un cineasta, Pier Paolo Pasolini, il quale, a proposito di dialetti, scrisse: “Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, ed ora ci sputano sopra....”. Ed ora da alcuni canti popolari liminesi che qui riporto, la bellezza della donna e la devozione alla donna che i poeti del popolo ardentemente esprimevano o in atto di innamoramento o in atto di rispetto. Spero che questo dialetto, come quello di diverse parti d’Italia, non suoni come “lingua abietta e buffona”, così come l’aveva definito il grande poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli. I Spunta lu suli e tu, bella, t’affacci e lu tratteni cu li to’ billizzi; du’ puma russi porti a la to’ facci, du’ cannòla d’arcentu a li to’ trizzi. A cu’ ti ‘ncontra la risposta dacci: dicci ca su’ pi mia li to’ billizzi. Si’ cacciatura ca ‘stu cori cacci: oh, chi scerma d’amuri! oh, chi Billizzi! II La bella a la finestra si ‘ffacciau: fici ‘nzinga cu l’occhi e si nni ìu; e ‘n-pumu muzzicatu mi ittàu: -Te’ , mancitìllu pi l’amuri miuNo’ fu pummu, no, no, ca mi dunàu: fu vampa ca ‘vvampàu lu cori miu. Lu focu a Muncibbèddu si ‘stutàu, ma no’ si ‘stuta cchiù lu cori miu. III O rosa carricata di billizzi, comu ‘na rama lu misi di màiu; all’ atri cci li fai milli carizzi e iò ca mi li mèrutu no’ l’hàiu; tu resti chiusa ‘nta li cuntintizzi e iò mortu di pena mi nni vàiu.Figghiola, no’ nni fari chiù stranizzi, cà mi basta la còllira ca iàiu Nel primo testo, la donna che si affaccia alla finestra ed intrattiene il sole, grazie alle sue bellezze; sul suo volto la freschezza di due mele rosse; i suoi capelli sono stati raccolti in due cannoli; le sue bellezze debbono appartenere a colui che la sta cantando. Alle qualità della bellezza naturale, l’appellativo di cacciatrice, che preda il cuore dell’uomo, ed è un incanto “sciarma”, un francesismo, da “charme”. Nel secondo testo, la donna è ancora bella e che si affaccia ancora alla finestra, ma per lanciare una mela morsicchiata ad un giovane. Quella mela non fu per l’uomo un dono, ma una vampata che CULTURA infiammò il suo cuore. Se il potente fuoco del Mongibello, l’Etna, si era potuto spegnere, il cuore dell’uomo è rimasto ad ardere. La mela ricorre nella terza egloga virgiliana. E’ Galatea, una vivace fanciulla, che la lancia al maschio e si nasconde, ma prima vuole essere notata. Per significare che l’oralità si può alimentare della cultura istituzionale. Nel terzo testo, la donna è una rosa traboccante di bellezze, simile ad un ramo quando esplode la primavera. Così pure chiamava la sua donna Nazim Hikmet (“Amarti, mia rosa, somiglia / all’aspirare l’aria in un bosco di pini”). L’uomo si lamenta ricorrendo ad un’iperbole, consistente nelle mille carezze che lei esprime per altri, mentre trascura colui che se le merita. Il testo si chiude con l’invocazione alla figliola perché non faccia più stranezze, in quanto il vero innamorato è già in preda a un risentimento incontrollato. Quanto sopra io l’ho trasmesso durante una mia sorta di lezione il primo febbraio del 2012, lezione agile, preparata per un gruppo di donne che frequentano l’Università popolare di Verona. E ho pensato al grande lavoro del collega Giuseppe Cavarra, agli anni insieme delle scuole elementari, delle medie, del ginnasio, frequentato privatamente a Limina, e del liceo frequentato a Santa Teresa di Riva, dove, a 16 chilometri da Limina, ci eravamo accasati a pigione presso la famiglia Mondello. Da qui, ogni tanto, a fine settimana, rientravamo in famiglia, a piedi, lungo il tratto di uno stradale incompiuto. Anni - mi limito a ricordarli, senza navigare tanto nell’ossario del passato - molto amari, dopo quella tragica guerra che aveva soprattutto offeso ed impoverito i poveri. Ma noi ed altri riuscimmo, come si suol dire. Io e Peppino, che qualcuno ci considerava come dei cani, l’uno contro l’altro, abbiamo potuto sperdere quell’amarezza e quei sacrifici, grazie al ricorso della scrittura; altri compagni diversamente. Avevo cominciato un decennio prima di lui a firmare qualche libro e la pura gelosia di Giuseppe mi incitò a far meglio, a non aver fretta nel divulgare le mie impressioni creative. Dieci anni or sono, gli amici Sebastiano Calabrò ed Eligio Restifo hanno voluto che io e Giuseppe non polemizzassimo e stessimo insieme nei pochi giorni estivi liminesi e dicessimo e scrivessimo della nostra comunità. Nel 2011 siamo 5 riusciti a scrivere a quattro mani la storia dell’antifascista Filippo Restifo. Abbiamo solennizzato il titolo, edito a Caracas, dentro la Società Operaia, che frequentarono i nostri padri. Verso le 21, Giuseppe partì per Nizza Sicilia, io rimasi qualche giorno ancora al paese. Un abbraccio. Che è stato in vero il primo, durante tutta la nostra esistenza, e l’ultimo. Ricordo che alla fine del 1970, Giuseppe aveva voluto che io, ritornato in Messina, dormissi un paio di sere a casa sua, insegnava alla Scuola media unificata di Rometta Superiore. Voleva ricambiare l’ospitalità che avevo dato a Verona assieme alla moglie Melina Altadonna. E’ stato in quell’incontro che, fra le altre carte singolari che custodiva, mi ha mostrato un opuscolo raro che testimoniava il sacrificio di Francesco Lo Sardo. Me l’ha donato ed è stato per me uno stimolo quell’opuscolo che mi ha fatto scoprire un grande italiano della Sicilia. Uno stimolo che tuttora mi infiamma, dopo la mia ricerca dell’ epistolario ed altro negletti di quell’uomo che, come ancora ho scritto, morì nelle carceri fasciste. Giuseppe, ultimamente, mi celiava, diceva ch’ero diventato famoso, grazie a quel lavoro che ho fatto conoscere ad alcuni storici. Mentre partecipavo la lezione, di cui sopra, pensavo a tutte quelle ricche, sulla cultura popolare, tenute in Messina e nelle piccole comunità da Giuseppe. Egli la scrisse, la riscrisse, la rese di pubblico dominio la cultura popolare. Un’estenuante ed appassionata fatica, la sua, che resterà e testimonierà i patimenti, le gioie, i sentimenti e la resistenza della nostra classe subalterna. Egli ora riposa a Calipò e nel mio pensiero, mentre ancora vivo, dopo un brutto male, che scruto, ma che pure mi consente a dire, a scrivere. Come per lui, il mio compagno di strada Giuseppe, che ha prescelto di riposare sulla nostra collina di Limina, che ha studiato in tanti modi, pure afflitto, perché sempre più si spopola. Sulla collina di Limina, distante dalla mefitica Messina, dove Giuseppe ha studiato e vissuto, a maggio di ogni anno gli arriverà, recato dalla pura brezza, l’effluvio delle ginestre in fiore, una poesia, che né io, né lui, nessun altro saprà scrivere. Noi abbiamo provato, come mille altri, di cogliere parole brillanti come le stelle, eterne come il tempo. 6 LA VOCE di Limina CULTURA L’ultimo premonitore ricordo di Peppino Cavarra Carmelo Duro Una morte attesa quella di Peppino Cavarra. Attesa sin da domenica sera, 29 gennaio 2012, allorchè i medici del Policlinico di Messina dettero il loro amaro responso: trombosi, emorragia cerebrale. Non ci si salva. La notizia si diffuse rapidamente presso tutti gli amici e i conoscenti e, ognuno, ricevette telefonate da diverse e varie parti, ricevette, anzi, più telefonate: gli amici di Peppino Cavarra volevano rendere partecipi tutti del dramma che stava vivendo. Il giorno dopo e nei giorni successivi le notizie continuavano ad accavallarsi ed erano, nella loro tragica coerenza, sempre più negative: questione di ore, forse qualche giorno. Il venerdì precedente la sua scomparsa parlo con la moglie Melina per telefono. E’ una telefonata molto lunga. Le racconto un bel sogno: la notte precedente, quella sul giovedì, avevo sognato Peppino: eravamo con la mia macchina e andavamo lungo una non identificabile strada di montagna ma il viaggio era piacevole, si chiacchierava e si rideva. Lui raccontava qualcosa e cercava il mio sorriso e il mio consenso. Stava bene, era compiaciuto, soddisfatto. Dissi pure a Melina che l’ultima volta ci eravamo visti alla Università delle Tre Età a Santa Teresa. Era venuto due volte di seguito, invitato da noi: il 10 gennaio quando aveva tenuto una lezione su “Memoria, cultura, territorio”, e due giorni dopo, il 12, per ricordare la figura di Nino Nicotra nel primo anniversario LA VOCE di Limina CULTURA della sua scomparsa. Sua moglie, ovviamente, lo sapeva. Non sapeva però che in ambedue le occasioni Peppino aveva detto due cose, una pubblica ed una privata. In quella pubblica aveva ricordato, in ambedue le circostanze, i primi anni dell’insegnamento a Todi in Umbria dove, in località vicine, insegnavano anche Santino Spadaro e Nino Nicotra. Loro, comunisti tutti e tre, si incontravano in terra straniera e discutevano della Sicilia e di politica. Raccontava, Peppino, questi incontri e quegli anni con molta tenerezza e partecipazione: “Adesso - aveva detto ad un certo punto - loro non ci sono più….sono rimasto solo io… “. E il suo viso aveva assunto un atteggiamento di mestizia. Quel“sono rimasto solo io”mi aveva fatto riflettere a lungo perché, soprattutto per il tono col quale era stato detto, accompagnato dall’annuire triste della testa, si prestava a due interpretazioni. La prima era il rammarico, il dolore, la sofferenza, per aver perduto anzitempo due cari amici con i quali lui condivideva pareri, considerazioni, giudizi, l’altra interpretazione era più drammatica: “sono rimasto solo io”, come a voler dire: “perché? Cosa sono rimasto a fare? La mia presenza a cosa può servire?”. A questa seconda interpretazione, però, non volevo dare molto valore perché sapeva di rassegnazione. Peppino Cavarra non era una persona che si rassegnava o si lasciava andare. Era caparbio, orgoglioso, capace, forte di una cultura indiscutibile che, mentre lo poneva una spanna al di sopra di tutto e di tutti, gli forniva quella sicurezza nelle sue idee e nei suoi progetti che gli consentiva di affrontare e superare ostacoli, difficoltà, diffidenze. Quindi non poteva sapere di rassegnazione quella frase che era stata buttata giù nel contesto del suo discorso, sicuramente, non a caso. Rivedendo, poi, come in un filmato lo svolgersi di quei due incontri e il ribadire di quella frase, qualche dubbio sulla “rassegnazione” mi è venuto. Chissà! In ogni caso nessuno ha avuto possibilità di parlare con lui dopo quella domenica del 29 gennaio 2012 per cui nessuna verifica si è potuta fare. Il senso vero di quell’espressione l’ha portato con se. A noi possono rimanere le supposizioni. La cosa privata la chiese a me il 10 gennaio e la riprese il 12. Voleva che gli suggerissi una biblioteca comunale capace di ospitare i suoi libri, libri importanti, di valore, alcuni unici. Discutemmo di ciò in maniera anche fortemente critica sullo stato delle biblioteche nel nostro territorio ed io il mio suggerimento glielo diedi. La discussione finì con un “ne riparleremo presto”. E’ molto raro che si verifichino situazioni come queste. Penso: Chissà se il mio sogno, la sua osservazione sull’essere “rimasto solo” dopo la morte di Spadaro e Nicotra, e la richiesta e relativa discussione sul dove sistemare i libri siano stati una premonizione! Che ci si creda o no, questi fatti hanno le caratteristiche di un qualcosa che, inconsapevolmente per noi umani, si stava preparando. Al termine di questo racconto telefonico, sua moglie, che aveva ascoltato con interesse e, credo, anche con qualche sorpresa, queste “rivelazioni”, per i libri mi disse che lui ne aveva parlato pure con lei senza, però, giungere ad una conclusione. Mi disse, però, con la serenità di chi sa come affrontare l’ineluttabile che “è 7 tutto sistemato”. E si riferiva alle cose da fare subito dopo l’ormai prossima morte: agenzia funebre, necrologio, manifesti murali nei vari paesi, la chiesa di S. Nicolò per i funerali a Messina, il trasferimento della salma a Limina. Mi disse pure che avrebbe voluto che venisse sepolto a Santa Teresa ma non era possibile: lui voleva andare a Limina, il suo paese, dove c’è la tomba di famiglia, quindi andava bene Limina anche per lei. L’attesa della notizia finisce di essere tale sabato 4 febbraio 2012, poco dopo le nove. La voce si sparge tempestivamente quanto rapidamente: sms, mail, telefonate, si incrociano e, in un tempo inimmaginabile per la sua brevità, sono portatori della ferale notizia: “E’ morto Cavarra”. E già, il prof. Giuseppe Cavarra, dialettologo e ricercatore meticoloso nei gangli della cultura popolare, curatore di innumerevoli testi, autore di pregiate opere letterarie, poetiche, di narrativa e per il teatro, non è più. Aveva 78 anni e la sua scomparsa, repentina quanto inattesa per tanti e certa per gli amici più vicini, lascia sgomenti amici, estimatori e quanti, di volta in volta, hanno avuto modo di essere partecipi delle sue molteplici attività. Voglio ricordare, anche perché mi hanno visto suo collaboratore: il premio di poesia dialettale “Bizzeffi” di Limina e l’Associazione Culturale “Pagnocco”, editrice dell’omonima rivista di cui Cavarra era Direttore scientifico, tutti e due fondati da lui. E voglio ricordare anche come, assieme all’arch. Salvatore Coglitore, ha curato la ristampa di “Santa Teresa” di Saitta e Raccuglia e, assieme all’autore di questa nota, “Forza d’Agrò” di Stefano Bottari. La sua ultima opera, “Epopea popolare messinese”, è stata presentata al Palazzo della Provincia a Messina il 22 dicembre 2011 ed è stata scritta insieme al dott. Michele Spadaro di Patti (questi scomparso pochi giorni prima della presentazione). Amante della sua terra, la Sicilia, coltivava un amore profondo ed inestimabile per il suo paese, Limina, e per la Valle d’Agrò. La lingua liminese, per Cavarra, era una sorta di mistero sempre da esplorare: “non si finisce mai – diceva – di capire perché ogni parola, come ogni motto, per altri incomprensibili, possono risultare utili ai fini della conoscenza della vita di una comunità esclusa dalla storia e diventare essi stessi la vita della storia”. Con Giuseppe Cavarra, Pippo, Peppino, per gli amici, scompare un caposaldo della cultura agrillina e non solo. Io sono molto grato a Peppino Cavarra per le tante cose fatte insieme, per ciò che mi ha insegnato e perché quasi tutte le mie pubblicazioni portano la sua firma nella prefazione e nella pubblica presentazione. La sua dipartita non lascia soltanto un vuoto incolmabile (“Adesso manca l’interlocutore”, mi ha detto il suo compaesano amico, scrittore, poeta e critico Sebastiano Saglimbeni da Verona), la sua dipartita impoverisce senza rimedio perché viene a mancare, oltretutto, quell’uomo di cultura che con umiltà, generosità, disponibilità, arricchiva chi gli si accostava. 8 LA VOCE di Limina CULTURA Giuseppe Cavarra, ricercatore sul terreno Mario Bolognari H o conosciuto il prof. Giuseppe Cavarra molti anni fa, ai tempi della pubblicazione del suo volume Cultura Popolare Liminese. Era il 1978. Quando, qualche anno dopo, mi recai a Toronto per un periodo di ricerca e lezioni alla York University, Peppino mi pregò di consegnare una copia del suo libro a un paesano che viveva tra Dufferin Avenue e St Claire Street, punto di aggregazione degli italiani. Quell’emigrato, di nome Filippo, faceva il calzolaio e la sua bottega era un punto di riferimento per i liminesi della città. In quel gesto gentile potei misurare l’amore che Cavarra aveva per Limina e per i liminesi sparsi per il mondo. Come se la sua comunità si fosse estesa in una dimensione globale e il piccolo paesino fosse esploso lanciando le sue schegge ai quattro angoli del mondo. Come faceva Cavarra a pensare a questo mondo globale? Poteva pensarlo e capirlo perché Cavarra aveva una conoscenza profonda del suo popolo e della sua terra. Aveva un legame viscerale con i luoghi della sua vita: Limina, Messina, la Sicilia. Il suo essere totalmente locale lo rendeva capace di essere anche globale, senza che tra le due dimensioni si manifestasse un conflitto. Anzi. Lo incontrai il 15 dicembre 2011, in occasione di una giornata di studio, e mi fece dono dell’ultimo suo lavoro, un libro sui personaggi atipici di Messina; con il suo consueto fervore intellettuale mi sollecitava a fare qualcosa insieme. Non potevo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto quel sorridente uomo siciliano dalle mille intuizioni e dalla esplosiva intelligenza. Peppino era un animatore culturale instancabile: ha dato vita a riviste, collane editoriali, associazioni culturali; organizzava convegni, seminari, conferenze; coinvolgeva giovani e meno giovani; concepiva il lavoro intellettuale in modo organico, pensiero e azione, teoria e prassi. L’uomo era straordinario, ma lo studioso non gli era da meno. Scrisse poesie in italiano e in dialetto, racconti, monografie, saggi, commedie teatrali, articoli su quotidiani e riviste; e poi si occupava di teatro, etnomusicologia, etnografia. Il suo eclettismo era lo specchio della sua curiosità infinita. Tra i tanti lavori di Cavarra, scelgo tre monumenti: La cultura strozzata (1985), Pezzi di vangelo (1989) e La leggenda di Colapesce (1998). Sono tre monografie su Messina, nate da una meticolosa e ricchissima etnografia, una raccolta del repertorio culturale di una delle città più massacrate dalla natura e dagli uomini, alla ricerca continua di un’identità perduta. Cavarra ha saputo restituire quella profonda introspezione che solo gli usi e i costumi, i proverbi e il mito possono garantire. Cavarra ha fatto un uso corretto degli informatori, un classico strumento della ricerca antropologica sul terreno, citandoli, elencandone i nomi, riportando le loro caratteristiche sociali e generazionali. Esemplare è l’elenco di circa centocinquanta informatori contenuto in due dei volumi, testi ricavati dalla viva voce di persone anziane dei quartieri e dei villaggi di Messina; una prova di correttezza nei confronti di quelle persone e dei lettori, ai quali il professore forniva tutte le fonti delle sue ricerche. Un raro esempio di buona etnografia, insegnamento per i giovani che volessero intraprendere questo mestiere. In questi lavori Cavarra dimostra la pazienza del raccoglitore di dati etnoantropologicio e sociologici e l’intuizione del cacciatore di interpretazioni scientifiche. Questa capacità e maturità metodologiche ha consentito a Cavarra di sfuggire alla sorte di solito riservata agli studiosi di cose locali, quella di descrivere senza spiegare, di rinchiudersi in una localistica esaltazione dell’identità specifica, senza una visione d’insieme. Questo difetto si chiama nativismo, cioè una chiusura autarchica del sapere, inutile e dannosa. Cavarra, invece, ha sempre inserito le sue ricerche in una visione teorica più generale, ha comparato, ha messo a frutto la letteratura scientifica internazionale sui diversi argomenti. Le sue citazioni sono sempre state colte, segno di una conoscenza non superficiale della riflessione disciplinare e di un aggiornamento continuo. “L’attenzione verso il mondo popolare – scrive in Cultura Popolare Liminese – è andata crescendo in questi ultimi anni, ma spesso le analisi, muovendosi al di fuori dei più recenti sviluppi teorici e metodologici, non hanno rilevanza sul piano dell’impegno scientifico, né mancano equivoci, deviazioni, ritardi”. D’altra parte, egli fa più volte esplicito riferimento alla tradizione di studi alla quale si ispira: De Martino, Cirese, Lombardi Satriani, ma soprattutto Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Danilo Dolci, Elio Vittorini che, come Cavarra, erano anche letterati. Negli scritti di carattere etnoantropologico non troviamo espliciti riferimenti all’ideologia politica e alla visione della società che egli privatamente esponeva con grande chiarezza. Tuttavia, è evidente che la sua fonte di ispirazione era il popolo; l’aggettivo popolare ricorre in quasi tutti i titoli della sua vasta produzione. Per Cavarra, popolare significava “una cosa seria e da prendere sul serio”; laddove l’uomo si esprimeva “nella sua dimensione sociale e nei suoi conflitti”; espressione della “molteplicità delle culture”. Rinvii culturali che chiariscono una scelta di campo ben precisa: la cultura popolare è l’espressione dei lavoratori, soprattutto contadini e braccianti, artigiani e piccoli commercianti, che la storia voleva mettere da parte e che la ricerca folklorica ha prepotentemente rimesso al centro della vicenda umana. Da qualche anno questa riflessione sull’uomo e sulle sue sofferenze storiche lo aveva fatto incontrare con gli scritti e con la biografia di Padre Annibale di Francia, santo messinese. Un giorno d’estate, a Savoca, mi disse: “Pensa, un aristocratico, divenuto prete alla fine dell’Ottocento, in questa città così codarda e fiacca, si mette a lavorare con i più poveri, donando tutta la sua vita agli ultimi. Che grandezza, se pensiamo alla classe dirigente messinese di oggi”. Aveva scoperto uno scrigno di impegno civile e sociale e lo metteva accanto a Francesco Lo Sardo, in carcere durante il fascismo per i suoi ideali a favore dei lavoratori. Peppino mi reg on ho aggiunto nulla, ho lasciato le parole e le azioni del Santo così come ci sono pervenute”. Il prof. Cavarra era veramente un uomo diverso dagli altri, un po’ Annibale e un po’ Francesco, una sintesi originale di opposte visioni del mondo che si ritrovano nell’azione concreta al servizio delle idee di libertà, di democrazia e di solidarietà. LA VOCE di Limina CULTURA 9 CAVARRA E LA PAROLA Javier Vidal Mi mancano le parole per tutti i ricordi che non tramontano mai Parliamo e una mano sbadata stende nebbiolina sul monte Avila la stessa quella mattina nascondeva la faccia alle cose sul monte Kalfa (G. Cavarra) F u nella remota primavera del1997 del passato secolo quando ho avuto il privilegio di conoscere il poeta Giuseppe Cavarra nella migliore maniera che si può conoscere un poeta, attraverso la sua parola viva nella carne della sua voce. Visitò questa “terra di Grazia” per condividere con altri poeti venezuelani che incrociavano parole attraverso la traduzione della parola che non è altro che la concezione della cultura. “La parola è civiltà” diceva Thomas Mann, e fu il libro di poesia PALABRAS a dare inizio all`incrocio di andata e ritorno di quello che è la cultura e la civiltà. Non ci sarabbe stato cultura senza la discreditata transculturizzazione. In questo caso un lungo percorso che attraversa il Mediterraneo e tutto l`Atlantico fino ad arrivare in questa città che si illumina tutti i giorni all`alba e che il sole dipinge sul nostro monte Avila con il suo dorato pennello di scrofe tropicali, lo stesso che occorre col monte Kalfa nella sua terra natale. Il libro PALABRAS scoprì le affuenze di diversi poeti, di differenti convergenze e divergenze in tempi di distenzione politica. Vicente Gerbasi, Juan Liscano, Rafael Arraiz e “l’indio” Santos Lòpez alzavano la loro voce di una America ispanoparlante e una voce siciliana come quella di Cavarra si incrociava alla voce spagnola. Ancora ricordo quella serata nei calidi e sacrati spazi dei saloni della Chiesa Nostra Signora di Pompei, leggendo alcune poesie di Cavarra tradotti in spagnolo e al poeta Cavarra leggendo poesie del poeta Arraiz in italiano. La sua voce risuonava come un canto leggendario, misterioso, ancestrale. Erano parole “divine parole” che nascondevano i suoi visi dietro le maschere di Dante e Petrarca. Fu una serata magica e risplendente. IL libro stampato, la sua diffusione e il ricordo vivo di quelle voci sono l`innalzamento del vero origine delle culture nella sua egemonica tradizione occidentale: la parola. Cavarra fu un poeta che cominciò a scrivere in italiano e fu chiudendo nell`inalterabile labirinto del dialetto siciliano, variante liminese. Una variante che i loro precettori e custodi, come il proprio Cavarra, l’hanno elevato alla categoria culta e accademica dell`idioma. Con dizionario e perfino sintassi grammaticale. Come tutti i dialetti è stato congelato nel tempo. Nel suo passo lento per le dirupate pietre di Limina a scarsi chilometri dal mare Ionico, la sua struttura sintattica parte dei fonemi di un Paese che ha imparato a cantare con la natura come Giuseppe Bartolotta e Sebastiano Saglimbeni. Una terra che si nega a morire. Una terra che è un paese. Un paese che è gente. Gente che è parola e cultura. In quei primi incontri poetici con Cavarra potevamo costruirci una geografia semantica che a farsi corpo e alma nella nostra prima visita a Limina, assieme alla mia famiglia Restifo capivamo reciproca e reflessivamente i significati di quelle parole nella struttura arcaica del verso bianco, rotto e assonante. Erano momenti dove potevamo percepire il lungo percorso di un Mediterraneo stanco, che rompeva le leggende del finale di una terra, del finale di storie di amore e guerre da contare. Era la voce dell`emigrante, del esiliato che attraversa l`oceano con un pugno di terra madre nella tasca della sua giacca. Cavarra sapeva distinguere quella voce eretta dell’ emigrante che tratta di non dimenticarsi della sua terra e si trasforma in un straniero della vita. Chissà la “globalizzazione” ha qualcosa di esilio. Chissà sia la migliore maniera di definire la cultura dell’ esilio. Però un libro ammirabile per la comprensione e sentimento della cultura liminese fu La spiga nana (Limina e la sua cultura) nella versione trilingue dove Cavarra ha realizzato un lavoro di dimensioni che scappano del domestico, del folklorico e ordinario. Mi riferisco alla compilazione di voci di quell’ esilio interno ed esterno che oggi definisce la cultura liminese. Cavarra raccoglie in questo libro di Editorial Melvin una dozzina di poeti che cantano un paese lontano incarnato nell`anima delle mancanze facendoci capire implicitamente che i paesi non sono solo terre promesse, ma anima di uomini e donne attraverso il sinuoso percorso della storia. Non voglio fare comparazione fra i liminesi e il popolo ebreo, però la storia degli ebrei si sostiene nella diaspora di una terra assente in piani ed altipiani, geografie e frontiere limitate nelle mappe da punti e linee. Così succede oggi quando arrivato l’inverno il paese di Limina si riduce a un centinaia di vicini rinchiusi nelle loro case. L’analisi di Cavarra per la cultura liminese, siciliana e per estensione mediterranea, è precisa e tangibile. Il poeta non tratta castelli né palazzi, né navi né aeri, né indumenti di lusso né scarpe di marca milanese. Dota il più concreto che ha l`uomo nell`apocalisse negli anni a venire: la parola. Ed è nella parola continua, tangibile, viva sillaba per sillaba che Cavarra si eleva. Assai dentro della sua anima, di quella pietra chiamata Limina e di questa Limina che vive con maggiore fragore e vigore fuori del principato delle Due Sicilie. Nell`ultima e profonda istanza, la Cultura sempre precede alla politica e mai ci sarà politica sostenibbile e attiva senza la cultura. Perché? Perché senza la parola niente è verosimile nel percorso della vita e della storia. La parola è la traduzione del mondo che viviamo attraverso i cinque sensi. La parola trapassa il tempo e la dimensione sconosciuta che solo la menzoniamo di memoria attraverso la parola stessa e il mondo parallelo che converge nell`infinito. Cavarra, come i buoni poeti, non morirà, vivirà attraverso il suo sviluppo di parole che consegnò per sempre a un pezzo di terra, a un pezzo di cultura che vive fuori della sua terra.. Una terra che al perdere una delle sue parole, lotta per conservare l`anima di queste parole che limitano il suo proprio nome, la sua propria cultura, il suo proprio sentire, la sua propria anima I fùttiri mi nchjànunu Quannu cci sentu diri: Limina, liminoti Limmina¡ Limminoti¡ Cu ddu emmi, santu diauluni. U mia è mpaisi picciriddhu: chi cci livati ddhu picca ca jàvi? (G. Cavarra) La stizza mi sale/ quando gli sento dire:/ Limina, liminoti/ Lìmmina¡Limminoti¡ Con due emme, santo diavolone!/ Il mio è un paese piccolino:/ gli togliete quel poco che ha? . 10 LA VOCE di Limina CULTURA La volta di Cavarra L Pietro Saglimbeni imina non ha archi, colonne o rinomati resti archeologici le sue antichità sono nelle parole” ricordando il professore Giuseppe Cavarra mi viene alla mente questa sua frase che cito a memoria. Non saprei più riferire in quale occasione delle sue moltissime attività culturali: presentazione di libri, premi letterari, recita poetica o musicale, conferenza o altro, lui l’abbia pronunciato ed io ascoltato tenendola in mente per sempre. Di ritorno dalla mia emigrazione all’estero ho conosciuto questo “limminotu”, come lui amava definirsi, quale persona colta e come cultore di dialetti, di letteratura e di tradizioni di Limina, della Valdagrò e della Sicilia tutta. Peppino Cavarra ha studiato e coltivato ogni tema della cultura popolare. Una cultura fondamentale senza la quale non c’è passato e di conseguenza non ci può essere futuro. Il professore, come mi piaceva chiamarlo, nel ricercare questo passato nei meandri delle nostre tradizioni vicine alla terra, che ci che hanno fatto nascere e crescere, affrontava per se e per tutti noi un presente più consapevole e metteva le basi per la futura memoria, parafrasando Sciascia. Ogni ragazzo di scuola o studioso delle realtà della nostra vallata e della Sicilia negli anni a venire, per saperne di più, dovrà confrontarsi con qualche libro del nostro professore. Si tratti di poesia, di tradizioni religiose, di musica, ma anche, la raccolta di artefatti e di fotografie. Peppino Cavarra amava la sua terra ed il suo lavoro ed attraverso il suo studio ha fatto amare questa terra le sue tradizioni a tanti di noi in modo più maturo e critico. L’opera del Cavarra ha fatto sorgere e crescere, per il nostro territorio, una colonna di libri e di conoscenze, sostituzione ideale di quelle colonne archeologiche che non abbiamo mai avuto. I suoi testi vanno dal prezioso volumetto “Americanismi Liminesi” fino a “Carusanza” (poesia dialettale) passando per “Suite per l’allodola” (in lingua), “Sdirregnu” e “Palori” (poesia dialettale), “Arghennakron” (teatro). Molte sono anche le sue “ricerche” quella che personalmente considero come il dono più prezioso per noi cittadini del nostro tempo, in questa Valle d’Agrò ed in questa Sicilia, è il corposo lavoro “Cultura Popolare Liminese”. Questo è un libro/miniera di cultura che nasce dalla terra di Limina, dai suoi Mandrazzi, dalle sue Portellerosse, dalle sue Cannati. Un libro miniera di parole e sentimenti che nasce dalle sue soglie di pietra arenaria dove sedevano i contadini stanchi la sera. Un libro che nasce dalle gole arse di “cantaturi” e “pueti”. Peppino Cavarra ha il gran pregio di aver girato contrate, “vaneddi” e case per cercare quelle persone e quelle voci ancora capaci di ricordare e di parlare. Ha raccolto tutto, per se stesso, per noi e per tutti quelli che verranno in futuro. La grande passione dell’autore, scrittore e poeta Cavarra sono le parole, non solo quelle dialettali e non soltanto in lingua italiana ma anche, si fa per dire, quelle “straniere”. Che per il nostro professore non erano mai aliene perché riusciva sempre a trovarvi un collegamento vicino a noi, un collegamento di umanità. Del resto la parola parlata e, dopo, la parola scritta è tuttora il primo fattore che ci fa essere umani. Ho avuto la fortuna di apprezzare da vicino la felicità e la facilità di Cavarra con e per le parole, in due occasioni che sono stato membro della giuria del Premio di Poesia Bizzeffi. Il professore presiedeva la giuria con spontaneità e leggerezza, le sue letture erano pertinenti e penetranti ed il nostro lavoro diventava divertimento. Leggo questo suo amore per le parole in una sua poesia da “La spiga nana” titolata “Cunzolu” (sollievo o consolazione) : Sta matina jàiu supra a mani na palora cu-ll’òcchju sciruccatu. Chi-ccunzolu quannu a jàpru e-nnintra a trou chjina chjina comu n’ou. Nella traduzione : Stamattina ho sulla mano una parola con l’occhio sciroccato. Che sollievo quando la apro e dentro la trovo piena piena come un uovo. Giuseppe Cavarra ha mostrato generosità ed interesse anche per le “parole altrui”, potremmo dire, per le parole del prossimo. Questa sua attitudine ha prodotto: “La Lingua tra i denti” di Bizzeffi ed altri due libri degni di nota pubblicati dopo la scomparsa degli autori. “Storia di vita” di Filippo Lapi e “Il dolore della conoscenza” di Tino Parisi. Dando così voce ed eternità a persone e storie da non dimenticare. Considero l’amico Peppino Cavarra un mio ideale “maestro” nel significato antico di “magister”, come lo sono Sebastiano Saglimbeni e Bizzeffi. Penso a quelle persone che pur non essendo i nostri maestri naturali come i genitori, i nonni e gli insegnanti che ci troviamo a scuola lasciano, comunque, una traccia indelebile dentro di noi. Persone capaci di creare che seminano memoria. Si può lasciare memoria con i geni come fanno animali e piante, o con la cultura, come possono fare soltanto le persone. La cultura come la intendeva Cavarra, quindi anche quella popolare, è anche l’unico modo che abbiamo per aspirare tutti ad un pizzico di immortalità. Grazie professore! LA VOCE di Limina CULTURA All’Amico PEPPINO CAVARRA S 11 Vincenzo Mancuso i potrebbe pensare che tra il mondo dei vivi e quello dei morti non esistono vie di comunicazioni: noi siamo, noi esistiamo; essi furono, essi esistono. Ma essi furono solo per chi non ha ricordi, per chi non ha agganci con coloro che non sono più, perché soprattutto non ha amato le persone scomparse, perché l’amore è l’unica sopravvivenza, l’unico ponte tra essi e noi. Ed è l’amore, infatti, quello che mi vede scrivere di Peppino Cavarra e a farlo sentire ancora vivo in mezzo a noi. La dimenticanza copre spesso d’oblio uomini e meriti anche di figure maggiori di un passato recente. Eppure la luminosa figura di Peppino Cavarra ha profondamente inciso nella cultura, dentro e fuori i confini della nostra Provincia. Caratteristiche di questo spirito eletto furono la semplicità, la modestia del vivere, la prudenza nel giudicare, la giustizia tanto cara nel costume e nell’agire quotidiano. Il suo grande valore professionale, la sua notevole personalità poteva farne un campione, un padrone della politica del suo tempo e di quella corrente e ordinistica della nostra Provincia. Eppure egli non fu tale, per mancanza di autoritarismo, di spregiudicatezza, di aggressività sia verbali che di atti, che la sua educazione gli vietava: non usò mai il proprio prestigio per dominare o imporre interessi personali, se non quelli di puro merito. Penso non serva ripercorrere le tappe del nostro rapporto, né serva citare gli episodi che mi videro cercare in lui momenti di conforto e spazi di speranza quando eventi difficili mi hanno portato a chiedere il suo parere, ogni elogio, ogni citazione mi appaiono paradossalmente limitativi. Per capire bisogna averlo conosciuto, essergli stato accanto anche se per poco. Tessere lodi è come voler sprecare parole che potrebbero, all’estraneo, sembrare solo di circostanza. Le sue doti di lealtà adamantina, associata ad uno spirito di sacrificio e ad un senso del dovere che travalicano di molto i confini del comune operato del docente; il suo codice di comportamento di fronte a qualsiasi evento, che ha rappresentato per tutti sicuro modello di riferimento; la sua statura morale, scientifica e culturale, che tante volte ci ha lasciato sorpresi ed ammirati di fronte a tanta ampiezza di orizzonti; quel suo modo di intendere i valori della famiglia e dell’amicizia; ma, soprattutto, la sua incommensurabile bontà; quella ammirevole generosità, della quale tutti abbiamo tratto profitto a piene mani, non sempre ricompensando, anche in termini di semplice gratitudine, quanto avevamo da lui ricevuto; ed ancora, quale sua peculiare prerogativa, una visione superiore, serena e disinteressata, dei problemi e delle vicissitudini che quotidianamente si affollavano nella sua intensa giornata di lavoro. Il suo atteggiamento era sempre misurato, e non disgiunto da una sfumatura di umorismo, il che la dice lunga sullo spessore del personaggio: di fronte al sottobosco delle beghe quotidiane, degli intrighi, degli affari e degli interessi con i quali doveva pur commisurarsi, Peppino lasciava trasparire una sottile quanto deliberata volontà di prendere la distanza da ogni grettezza di ambiguità e di inganno: anche se, proprio in virtù di quella geniale riserva di humor che arricchiva il suo vivere quotidiano, amava camuffare questa volontà non accorgendosi – o meglio, facendo finta di non accorgersi – di quei piccoli stratagemmi di bassa lega che lo zelante interlocutore di turno gli prospettava come soluzione vincente per il problema che gli stava a cuore; sì che un osservatore poco attento avrebbe potuto scambiare per vulnerabile ingenuità un comportamento che rispondeva essenzialmente alla determinazione del rifiuto verso qualsiasi compromesso. E’ scomparso in silenzio quasi a non voler dar fastidio; a non voler pesare, di fronte ad eventi superiori, lo scomodo di una incombenza dolorosa ancorché momentanea. In pieno ossequio al suo stile di vita – improntato a dare sempre, senza lasciare spazio alcuno alla possibilità di chiedere ad altri qualcosa per sé – ci ha lasciati, sgomenti ed increduli, dopo averci consentito di poter accorrere in suo aiuto, lui che l’aiuto lo aveva sempre prodigato per una vita. Per quanto personalmente mi riguarda, nel chiudere il mio commosso omaggio con la sensazione di aver parlato di una creatura universale, riaffiora nella mia memoria l’eco di una canzone popolare argentina, che mal tradotta così si esprime: quando se ne va un amico – lascia un vuoto – che mai la presenza di altro amico - potrà colmare ( Cuando un amigo se va – queda un espacio vacio – que no puede llenar la presenzia de otro amigo ). Quel vuoto, caro Peppino, è in noi colmato per sempre dalla luce che prorompe dal tuo ricordo. 12 I LA VOCE di Limina CULTURA GIUSEPPE CAVARRA n occasione della scomparsa di una persona cara o, comunque, “importante”, è difficile che ci si sottragga dalla retorica se non dalla esagerazione. Gli aggettivi roboanti, le “frasi fatte” abbondano: la scomparsa di quella persona “lascia un vuoto incolmabile”, e similia. Ebbene: quando, improvvisamente (ci eravamo visti, “parlati” e salutati pochi giorni prima), ho appreso della scomparsa di Giuseppe Cavarra, a parte il groppo alla gola causatomi dall’evento, quando ho cercato di dedicargli qualche espressione di affetto e di stima, non mi veniva in mente, sulle labbra, nelle dita che le compilavano, altro che proprio quelle “frasi fatte”, proprio quegli aggettivi enfatici e chiaramente retorici. Il fatto è che non potevo farne a meno, perché quelle frasi, quegli aggettivi nel caso di Giuseppe Cavarra erano non solo azzeccati, ma addirittura inadeguati. Perché Giuseppe Cavarra, andandosene così presto (la vecchiaia è l’unico male davvero incurabile, a causa del quale tutti i “pazienti” indistintamente muoiono), ci ha davvero lasciati orfani, ha davvero lasciato un vuoto incolmabile che, purtroppo, allo stato delle cose, non sarà, certo, più colmabile. L’apporto del prof. Cavarra alla vita culturale di Messina, il ruolo che Nazareno Saitta Lui si era ritagliato nell’ambiente dell’Ospe, ossia della cultura dell’intera città di Messina (tutto il resto è veramente, il vuoto!) sono stati di livello altissimo ed esclusivo. Se nel premio Vann’Antò in lingua, il prof. Cavarra si era sempre, con umiltà forse eccessiva, defilato lasciando ad altri compiti organizzativi e valutativi, nella versione dialettale del Premio il suo contributo fu sino all’ultimo, determinante. A questo Premio egli aveva saputo apportare una competenza tecnica che Lui possedeva ai massimi livelli, e non soltanto per la poesia dialettale siciliana ma perché “maestro” e profondo conoscitore delle mille sfaccettature della poesia dialettale italiana. Da qui il collegamento con analoghe iniziative che andavano proponendosi nelle varie regioni d’Italia, realizzandosi una simbiosi che in certo senso “internazionalizzava” il Premio Vann’Antò in dialetto siciliano (nei dialetti siciliani, anzi, variegati ed innumerevoli), assicurandogli ulteriore e più larga risonanza e prestigio. La “professionalità” (nel senso più alto del termine) della giuria del Premio, che Cavarra e Peppino Miligi ogni volta assemblavano (nelle ultime edizioni rimase sempre la stessa: cosa c’era di meglio?), era la garanzia principale del livello culturale del Premio. E come tacere delle manifestazioni di contorno (si fa per dire, perché il termine è riduttivo ed offensivo, mi scusi il lettore), che Giuseppe Cavarra sapeva ogni volta realizzare soprattutto come autore e sapiente recettore di stilemi musicali? Uno spettacolo nello spettacolo. Tutto questo grazie a Giuseppe Cavarra. Aggiungo solo una annotazione di carattere personalissimo: la decisione - presa all’unisono con Peppino Miligi – di affiancare, nell’intestazione del Premio, al venerando nome di Vann’Antò (mio maestro di vita e di scuola), quello di Antonio Saitta, di mio padre, che nella poesia dialettale (ma anche in quella in lingua) trovava un motivo di ulteriore affinità elettiva con i due “Giuseppe” sopra nominati. Quella decisione che, chi scrive accettò con una certa riluttanza, per ovvie esigenze di delicata incompatibilità essendo presidente del premio, ha ulteriormente stretto i miei legami con Giuseppe Miligi e Giuseppe Cavarra. Ad entrambi la mia perenne gratitudine, non soltanto a titolo personale, ma a nome di quella piccola ma inimitabile, e difatti inimitata, insostituibile e difatti insostituita, cellula culturale dell’Ospe della quale Giuseppe Cavarra rappresentò una gemma di valore primario. LA VOCE di Limina CULTURA 13 GIUSEPPE CAVARRA: IL PROFESSORE CHE VOLEVA INSEGNARE A FARE LA VERA STORIA Basilio Maniaci C on il Professore Giuseppe Cavarra ci siamo incontrati per la prima volta, ufficialmente, agli inizi del Terzo Millennio, quando già eravamo andati in pensione tutt’e due. Lui, ex Professore di Italiano e Latino, aveva insegnato al Liceo Classico “Giuseppe La Farina”, io, ex Vicecapo Correttore, ero stato dipendente della “Gazzetta del Sud”. Avendo lavorato per tanti anni nella stessa città chissà quante volte ci eravamo incontrati, precedentemente, per le vie del centro o in altri posti del circondario rimanendo, però, sempre sconosciuti l’uno all’altro. Perché, essendo originari di paesi che si trovano ai lati opposti della provincia di Messina (lui di Limina, che sorge sul versante jonico, e io di Piraino, che sorge sul quello tirrenico), frequentavamo ambienti e amici diversi. Perciò rientrava, e sarebbe rientrato, nell’ordine naturale delle cose non esserci conosciuti prima e non conoscerci nemmeno dopo. Ma, alle volte, anche i punti lontani si incontrano e si uniscono tra di loro così come accadde nel nostro caso, che, andati in pensione, ci eravamo messi a far volontariato in nome di una specie di “pedagogia civile”, cioè al servizio della valorizzazione e della divulgazione, lui della “retta” informazione, io della “retta” storia, con lo scambio, libero, autonomo e non concordato con nessuno, dei nostri ruoli ricoperti precedentemente. Vale a dire: io, che provenivo dal settore dell’informazione, ero entrato nel mondo dell’insegnamento come Docente di Storia Locale all’Università della Terza Età di Messina, lui, che proveniva dal mondo dell’insegnamento, era entrato nel settore dell’informazione come Fondatore della rivista “Pagnocco Rassegna quadrimestrale di cultura e informazione”. Coerentemente al primo postulato della retta della geometria euclidea secondo il quale, dati due punti, esiste una e una sola retta che li incrocia e li unisce entrambi, Cavarra in uno dei primi numeri di Z scrisse: “Noi teniamo molto al retto ruolo che l’informazione dovrebbe svolgere nella vita di una comunità, convinti come siamo che tra i primi doveri di chi intende informare c’è quello di presentare situazioni reali e prospettare soluzioni grazie alle quali il cittadino possa aspirare a una migliore posizione professionale e a un più alto prestigio sociale. Noi ci siamo visti costretti a fondare il nostro periodico perché abbiamo visto che i responsabili di altre testate, per soddisfare le ambizioncelle di qualche protagonista locale, venivano adagiandosi nella comoda posizione dell’asetticità o del silenzio. Strani i giochi che costoro mettono in atto: da una parte sostengono che la cultura rappresenta una delle poche possibilità autonome di cui l’uomo dispone per edificare una coscienza civile e, dall’altra, nulla fanno perché la cultura schiuda le prospettive di un sapere capace di fornire a ogni iniziativa la misura e il posto che le spettano. Così facendo, si procurano la stima del politico maneggione, ma rinunciano al ruolo di intellettuali che si battono per un sapere che abbia tra i suoi perni l’elaborazione di un razionalismo scientifico capace di proporre valutazioni e suscitare interrogativi. Ciò non aiuta la gente ad attuare il proprio essere nel mondo”. Le sue parole e il suo progetto galvanizzarono per subito l’attenzione e la collaborazione di circa un centinaio di soci- sostenitori attorno al “Pagnocco” perché ben consapevoli del fatto che solo il retto incontro con la storia è l’occasione per gli uomini di capire se stessi, non le tante celebrazioni del passato da idolatrare a ogni costo, così come sono soliti fare i fanfaroni della retorica che, per esempio, hanno fatto correre il rischio, persino alle celebrazioni del centenario del terremoto del 28 dicembre 1908 di Messina, di fargli assumere valenze e interpretazioni estemporanee. Evitando di far capire che il terremoto divenne per i messinesi la causa di una serie infinita di …flagelli, non tanto per le dinamiche naturali scatenate dal sisma, bensì per quelle messe in atto dalle classi dominanti. Subito dopo il terremoto del 1908, nel nuovo “Quartiere Americano” – allestito dagli americani con il pregiato legno di pitch-pine fatto arrivare dalle loro disboscate foreste, come dimostrazione pratica della loro solidarietà derivante dall’ideologia messianica del “destino manifesto” dell’America, e dove si erano trasferiti la maggior parte dei superstiti dal magistrato al postino, dall’avvocato all’infermiere, dall’artigiano al maestro elementare, dal negoziante all’impiegato statale, dal piccolo industriale al barbiere, dal dirigente d’azienda al falegname, dal farmacista all’idraulico, dal professore universitario allo spazzino –, il mondo ante-terremoto messinese, con le sue antiche distinzioni e distanze sociali, era scomparso per sempre e ne era nato uno nuovo in cui ogni occasione era buona per manifestare la propria solidarietà a chi si trovava in situazioni difficili. Nel “Quartiere Americano”, strutturato con tutta la dote infrastrutturale della “civiltà” americana, crebbero e si formarono quasi tutti i “figli del terremoto” che in seguito divennero esponenti non solo della intellettualità cittadina ma elementi di spicco della cultura nazionale e internazionale: Salvatore Quasimodo, Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti, Antonino Giuffrè, Giuseppe Raneri, Guido Ghersi, ecc. Ma, a poco a poco, i vecchi ceti dominanti riuscirono a rifondare il proprio mondo, imponendo non solo il vecchio ordine sociale classista, ma anche una solidarietà classista, una ricostruzione con una urbanizzazione e infrastrutturazione classista, un’informazione classista, ecc. Toccò al “Pagnocco” ricordare la storia della “solidarietà classista” già denunciata, nel 1910, da Giacomo Longo, in “Un duplice flagello: il terremoto del 28 dicembre 1908 e il governo italiano”: “In media, ogni superstite avrebbe dovuto vedersi recapitare mille lire, ma ci fu chi ricevette un sussidio di cinquanta lire annue come chi diecimila. E non sempre chi riceveva di più presentava un maggior bisogno: inspiegabilmente la signora Giulia Catanzaro, vedova Trigona, ricevette un sussidio di diecimila lire annue, vedendosi piombare una fortuna nelle sue tasche, mentre la signora Bonanzinga, vedova senza alcuna proprietà, ricevette un sussidio di appena cinquanta lire; la vedova del facoltoso colonnello Cappuccio, ebbe un sussidio di cinquemila lire annue, pur godendo di una rendita familiare di trentamila lire annue; la vedova del “milionario” Pulejo, proprietario dei Molini Gazzi, e quella del ricco Trombetta, ebbero entrambe sussidi di cinquemila lire annue. E cifre più ricche arrivarono nelle tasche dei professori Buscemi e Oliva. Il colmo fu raggiunto 14 CULTURA allorquando tre signore di Castroreale, le sorelle Licari, pur non essendo state coinvolte nel terremoto e non avendo perso alcun familiare a Messina (solo un paio di botteghe), ricevettero dal Governo un sussidio di ben mille lire pro capite”. Così come toccò pure al “Pagnocco” ricordare la storia della ricostruzione di Messina, che – dopo una dura battaglia tra il politico messinese di statura nazionale, on., avv., Ludovico Fulci, capo indiscusso della potente massoneria giustinianea in Sicilia; il catanese, avv. Gabriello Carnazza, ministro dei Lavori Pubblici; l’arcivescovo di Messina, Mons. Angelo Paino; e Benito Mussolini, capo del Governo Fascista –, ebbe luogo nella seconda metà degli anni ’20 con una “urbanizzazione e infrastrutturazione gerarchizzata” prettamente della “civiltà” fascista. Infatti, dopo l’incendio (doloso?) dell’ex “Quartiere Americano” del 10 luglio 1924, il Governo Fascista con R.D. del 4 settembre del 1924 dispose la creazione di una “Direzione Generale dei Servizi Speciali” presso il Mistero dei LL.PP. che, dopo “speciali studi”, divise la popolazione messinese in tre grandi categorie (oltre a quelle degli impiegati statali e degli ordini religiosi): medioalto ceto, popolare e ultrapopolare. Anche la tipologia delle case, dell’allocazione, dei servizi, ecc., fu decisa da quest’organo centrale creato nella capitale romana, posto sotto il controllo diretto del duce. Per la categoria “medio-alto ceto” furono ricostruiti, al centro, palazzi antisimici e di un certo pregio, fra cui alcuni ancora fanno bella mostra di sé. Per la categoria degli “impiegati statali” si provvide con le cosiddette case Incis, con criteri separati e ben definiti adeguati alle loro esigenze. Per quanto riguarda gli ordini religiosi, l’arcivescovo, Mons. Angelo Paino, confessò in un’intervista al “Popolo d’Italia”: “Ebbi dal Duce più di quanto mi aspettassi, più ancora di quanto richiedessi. Dovevo imporre un limite alle mie richieste, visto che lui non sapeva porre un limite alle sue concessioni”. Per la categoria “popolare” si costruirono, in zone semicentrali, “fabbricati bassi, brutti e tristi che – così come scrisse Alberto Moravia, nel 1959, sulla rivista “Il Mondo” –, non fanno pensare alle monarchie normanne, aragonesi, spagnole, borboniche, ma allo Stato italiano, quello dei ‘Sali e Tabacchi’, del chinino…”. Per la popolazione appartenente alla categoria “ultrapopolare” furono costruiti 28 rioni fuori del Prg – i cui nomi sono: 1) Fondo Matteotti, 2) S. Licandro, 3) Fondo De Pasquale, 4) Fondo Basile, 5) Ritiro, 6) Fondo Lauritano, 7) Fondo Polimeni, 8) Fondo Tornatola, 9) Fondo Basicò, 10) Fondo Ruggeri, 11) Bisconte, 12) Camaro, 13) Fondo Martinez, 14) Fondo Pulejo, 15) Fondo Ragusa, 16) Fondo Romeo, 17) Fondo Pugliatti, 18) Fondo Genovese, 19) Fondo Saccà e Picardi, 20) Valle degli Angeli; 21) Ferrovieri, 22) Mangialupi Vecchio, 23) Villa Quiete, 24) Gazzi Ultrapopolare, 25) Fondo Cassibile, 26) Gazzi 27) Gazzi Rione Taormina, 28) Fondo Granata –, con casette-baracche senza alcun servizio e/o opere pubbliche “civili” e con superfici che costrinsero (e continuano a costringere) diverse generazioni di messinesi a vivere in spazi angusti, in completa promiscuità e in condizioni igieniche malsane, generando la cosiddetta “sindrome della baracca” (che alcuni vogliono addebitare a una specie di particolare Dna dei messinesi), ma che, invece, è stata provocata dalle condizioni particolarmente degradanti e umilianti create dalla gerarchizzazione urbana attuata dal Governo Fascista che a distanza di un secolo fa sentire ancora appiccicata addosso (sia a coloro che ancora vivono nelle casette-baracche e sia a coloro che, nel frattempo, sono riusciti a diventare proprietari di appartamenti di nuova costruzione), la scomoda etichetta di LA VOCE di Limina “abitante delle baracche” o “discendente delle baracche”. “La storia che ci è pervenuta – ha scritto lo storico Carlo Ginzburg in una sua preziosa annotazione – è stata scritta sempre secondo i quadri di riferimento dei ceti dominanti. La cultura dominante e la cultura popolare hanno giocato sempre una partita ineguale, in cui i dati sono truccati. Dato che la storia riflette i rapporti di forza tra le classi di una società, le possibilità che la cultura popolare lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, continuare ad accettare i consueti criteri di verificabilità e di celebrazione del passato, significa continuare a esagerare indebitamente il peso della cultura dominante”. Lo stesso concetto il Professore Cavarra lo espresse in una delle sue tante poesie, composte in dialetto liminese: “Nni fannu storia i palori? \ I libbra sunnu chjini di palori: \ forsi màncunu sulu chiddhi \ ca fannu a vera storia. \ Ntà storia nan ci sunnu i mataruni \ ca nan sannu cantari \ e stràzzunu a sintina, \ nan ci sunnu l’aceddhigabbiani \ ca nan hannu nitu e-nnan sannu \ ca jia dòrmiri a-ssonnu funnu, \ nan ci sunnu i ddhraunari \ ca pàssunu e scippunu cu-ttutti ì rràdichi \ l’arbureddhi ca dòrmunu a-ssonnu chjinu, \ nan ci sunnu i lamenti di ggroi \ ca stanchi si trascinunu celu celu, \ nan ci sunnu i viòli can tè bbòschira si jàprunu e-nnuddhu sapi \ sa-ppòrtunu a-cquacchi bbanna. \ Ntà storia com’è-fatta \ manca puru u ventu ca cci scippa \ certi notti l’ali è stiddhi, \ i sfarina e i jètta ntè marri. Menu mali ca unni manca a storia \ nèsciunu i paràbbuli”. Traduzione: “Ne fanno storia le parole? \ I libri sono pieni di parole: \ forse mancano solo quelle \ che fanno la vera storia. \ Nella storia non ci sono le ghiandaie \ che non sanno cantare \ e lacerano l’udito, \ non ci sono i gabbiani \ che non hanno nido e non sanno \ cosa sia dormire a sonno profondo, non ci sono gli uragani \ che passano e portano via con tutte le radici \ gli alberi che dormono a sonno pieno, \ non ci sono i lamenti delle gru \ che stanche si trascinano cielo cielo, \ non ci sono i viottoli 1 che si aprono nei boschi \ e nessuno sa \ se portano da qualche parte. \ nella storia così com’è fatta \ manca pure il vento che strappa \ certe notti le ali alle stelle, \ le farina e le butta nelle pozzanghere. \ Meno male che dove viene meno la storia \ spuntano le parabole”. Il Professore Cavarra si riferiva alla parabola del Libro dell’Apocalisse, paragrafo 21, che dice: “Allora Dio dal suo trono disse: ‘Ora faccio nuova ogni cosa”, perché il Professore Cavarra sapeva che agli storici è consegnata una piccola forza messianica: la rivelazione della verità sugli avvenimenti del passato. “Il futuro – scrisse Walter Benjamin – diventò per gli ebrei un tempo attraverso il quale poteva entrare il Messia. Lo storico non deve trarre minore aspettativa nell’entrare in una stanza del passato che bisogna strappare con un balzo di tigre perché ha luogo in un’area in cui comanda la classe dominante”. Ma siccome molti storici – che specie dopo la perdita del Professore Giuseppe Cavarra che voleva insegnare a fare la vera storia tramite il “Pagnocco” – continuano a rifuggire più di prima dal loro dovere di fare i veri “storici”, per l’avvento del nuovo mondo forse bisognerà aspettare una rivoluzione\sconvolgimento che non arriverà dall’uomo ma dalla natura che sa riprodurre come per calco l’ordine naturale delle cose in ogni tempo LA VOCE di Limina CULTURA 15 GIUSEPPE CAVARRA E L’IRONIA ANTROPOLOGICA Francesco Cuzari C omporre in forma scritta un ricordo sarebbe facile qualora si trattasse soltanto di lasciar scorrere il fiume della memoria e abbandonarsi ad esso. E’, invece, una missione improba quando sottintende la maturata consapevolezza che ciò che è stato ha smesso di essere; che, dunque, la pacata e straordinariamente fresca voce di Peppino non sarà più all’altro capo del telefono. Genera rabbioso sconcerto l’idea che a strapparcelo sia stato, per un destino che sa di beffa, proprio il supporto biologico della sua mente fuori dall’ordinario, quasi abbia ceduto per troppa conoscenza della realtà. Alle soglie degli ottant’anni, la sua brillante persona era la dimostrazione tautologica che la giovinezza – ben lungi dal ridursi a mero fattore numerico, cronologico, anagrafico – è uno stato interiore, un luogo dello spirito. Lo incontravo in momenti prodighi di vento (amava ascoltarlo e lasciarsene avvolgere), sempre incline a esporre, con entusiasmo, nuovi progetti. Dei quali era un’autentica fucina, da intellettuale consapevole dell’importanza del dato storico ma, soprattutto, di come questo dovesse rimanere al posto che la logica gli assegna. Un passato da apprendere e rammentare e che, tuttavia, è pur sempre una congerie di eventi trascorsi; dal cui fondamento (e insegnamento) muovere per proiettarsi, con slancio, verso il presente e il futuro, guardando avanti e non indietro. A colloquio nel suo studio lo ascoltavo, rapito, mentre descriveva personaggi e situazioni della natia Limina osservata con occhi da bambino; o gli incontri con Pugliatti e gli altri della Scocca – di cui, adesso, non rimangono più superstiti – presso la Libreria dell’OSPE. Parlava piano, scandiva e e assaporava ogni sillaba delle sue attualizzate narrazioni, che non disdegnavano toni sognanti; eppure mai, nemmeno una volta, l’ho visto indulgere alla malinconia gratuita, al nostalgismo sterile. Il suo dispiacere scaturiva dal raffronto fra un mondo perduto e la condizione odierna di una città che era stata culturalmente fertile e che adesso si crogiola compiaciuta fra le brume dell’inerzia espressiva e sostanziale. Però non alzava bandiera bianca. Tramite la rivista “Pagnocco”, fino all’ultimo, aveva cercato di agire, di svegliare almeno qualche coscienza in più. Lo strumento principale di cui si avvaleva, con abilità innata e fulminante, era la battuta sarcastica, seguita da una succulenta ilarità che gli si sprigionava dall’intero viso. Riflettevo – non gliel’ho mai detto – su come il suo stile rappresentasse la prosecuzione di Pasquino e delle pasquinate (con la differenza, pregevole, che non si trincerava dietro l’anonimato). Se qualcuno dei “potenti” faceva o diceva una stupidaggine in sua presenza lui, senza abbassarsi a un’invettiva fine a se stessa, ridacchiava sornione e faceva partire una bordata devastante per la raffinata sagacia. Un giorno, sentito il mio cagnolino abbaiare furiosamente, disse che lui avrebbe esternato col medesimo impeto la rabbia nei confronti dei politici. Ma, al di là dello squisito sense of humor, in questo modo di fare si celava una ragione in più. Peppino aveva capito che una frecciata carica d’arguzia era l’arma più valida in un contesto in cui l’ironia è merce rara (stendendo un velo pietoso sulla pressoché ignota autoironia). Ne conosceva bene la forza propulsiva, che dosava mirando e prima di far fuoco; non tanto, o non solo, per rispondere all’interlocutore quanto per lanciare un destabilizzante elemento di frattura in un sistema statico, sovvertire l’immobilismo e scuotere. Un gesto di sana irriverenza che lui, uomo libero, poteva permettersi; e che, da antropologo esperto qual era, valutava poi nell’impatto sociale, collettivo. Talvolta parlavamo di letteratura (ad esempio scambiando considerazioni estetiche su Dante) e io soffrivo, poiché avrei fatto follie per esser stato suo allievo a scuola e percorrerne con lui l’intera storia, dalle origini. Quindi capitava che declamasse una sua poesia, estimatore di un vernacolo delle cui più singolari forme faceva il calco (indagandone l’origine, la permanenza linguistica e l’eventuale mutamento sematico). Con naturalezza e senza ostentazione vanitosa; che pure gli sarebbe spettata a pieno titolo essendo, fra l’altro, tra i pochi autori contemporanei dialettali menzionati dal Battaglia. Nel suo mondo interiore non mancava la musica; per canzone preferita indicava “Il cielo in una stanza”, esaltando il repertorio di Mina e il “Rigoletto”. Rispettoso della fede ma non incline al fideismo clericalistico, appariva sul punto di commuoversi onorando modelli di vita quali Annibale di Francia e Luigi Orione, di cui si occupò più volte; per la maniera, sempre moderna e mai anacronistica, in cui avevano servito la causa religiosa, tramite opere quotidiane di altruismo e concreta santità. “La morte, che disonore! Diventare di colpo oggetto...” scrisse Emil Cioran. Senza contare che dopo, quando una figura così carismatica non è più tra noi, la solitudine insanabile, senza rimedio, resta ad affliggerci. 16 LA VOCE di Limina CULTURA Ricordo del Prof. Giuseppe Cavarra P. Pietro Cifuni L a scomparsa improvvisa del carissimo Prof. Giuseppe Cavarra, avvenuta solo qualche mese fa, ci rende inquieti e quasi increduli di non averlo più con noi, maestro ed amico. Ma la sua presenza resterà sempre viva tra noi. Ho avuto il bene di conoscere il Professore, circa quattro anni fa, attraverso la mediazione del Dr. Enzo Mancuso, che mi portava le ultime edizioni della rivista Pagnocco. A pensarci bene non ricordo nemmeno quali siano state le occasioni dei nostri primi incontri. Resta il fatto che son venuto a contatto con una parte eletta ed intellettuale della nostra Città. A S. Nicolò, la mattina dei funerali del Professore, ho avuto modo di esprimere, tra le voci degli ultimi saluti, la mia persuasione di trovarmi, nell’incontro del Prof. Cavarra, davanti a una persona meravigliosa, Sacerdote di cultura e di umanesimo, Buon Operaio della Vigna del Signore. Esprimevo anche la convinzione che il Professore aveva potuto presentare a Dio, alla fine della lunga giornata della sua vita, il suo compito perfetto consistente nella realizzazione di una vita ricca e di una missione finalizzata alla formazione umana di tante generazioni di giovani, che lo circondavano con stima ed affetto, proprio come fa il candidato, nell’immaginazione poetica del nostro Ferrau, che presenta il suo compito al Professore, allo scoccare del tempo della prova. Esprimevo anche, in qualità di Rogazionista dell’Istituto e del Santuario S. Antonio di Messina, la mia grande soddisfazione per il fatto che il Professore era entrato a far parte nel mondo di “Quelli del Quartiere Avignone”, che è il titolo del noto romanzo di Giuseppe De Lorenzo, che descrive la storia di S. Annibale Di Francia. Lasciando ad altri, che più a lungo lo hanno conosciuto, il compito di ricordare la ricchezza della sua vita familiare, la sua vocazione per l’insegnamento effettuato in vari Istituti Scolastici ed in varie Città, il suo legame con la terra di origine e di appartenenza, che lo ha portato al canto ed alla scoperta dei valori e delle tradizioni proprie, voglio riservarmi di mettere in evidenza un altro lato del Professore. Egli, cultore delle cose e della storia di Messina, aveva scoperto in P. Annibale, l’uomo figlio di Messina, il Santo della Carità e della Preghiera per le Vocazioni e l’Apostolo che partendo da Messina aveva irradiato nel mondo i sentimenti della solidarietà e la certezza che tutti possiamo fare molto a favore della fascia della povertà. Ho riscontrato il lui le stesse persuasioni sul P. Annibale, descritte da Anastasio Majolino, nel suo bel libro “ Lo Stretto, i Miti e la Psicologia dei Messinesi”, in cui si parla di Padre Annibale come uno dei personaggi immagine della nostra Città… un prezioso patrimonio culturale da cui trarre elementi di arricchimento dell’identità collettiva di questa Città, ed ancora il personaggio di Messina più conosciuto nel mondo, in quanto ambasciatore di santità e di messinesità”. Il Professore entra nella vita e nella spiritualità di P. Annibale, ne scopre l’identità la ricchezza della missione, che invade il cuore della Città. L’osservazione che fa il Professore, e che risponde un po’ a verità, è che mentre parte di Messina segue lo spirito del suo Apostolo con fervore, devozione ed entusiasmo, un’altra parte resta distante, con una valutazione molto superficiale, se non falsa, delle Opere di S. Annibale, che vengono guardate a distanza, come sola pertinenza di Quelli del Quartiere Avignone. Il Professore vuole uscire da questa sottoesposizione fatta sì di amore ma anche di indifferenza e vuole riportare la Città ad una presa di coscienza del suo Apostolo e Profeta ed anche all’orgoglio di avere tra le sue mura un Santo che dallo Stretto si è proiettato verso gli spazi universali del mondo e della Chiesa, attraverso il messaggio chiaro della Carità e del Rogate che è preghiera per le Vocazioni di Buoni Operai in ogni campo e Carisma che ha il suo abbrivo dallo Stretto di Messina e raggiunge il cuore della Chiesa e del mondo. Basterebbe riflettere poi che nel campo della Carità, il Fondatore delle Opere Antoniane e creatore della rivista Dio e il Prossimo, che arriva ad una tiratura di oltre 700.000 copie, crea un polo di attrazione in Sicilia, chiamando S. Antonio di Padova, a diventare, attraverso un riuscito gemellaggio, S. Antonio di Messina. Il Professore concepisce un libro su P. Annibale, intitolato “La sublime Missione”. Il valore dell’elaborazione del libro non si manifesta subito al primo contatto. Potrebbe sembrare una raccolta di piccole storie dalla ricca letteratura su P. Annibale, ma alla fine risulta una interpretazione personale ed originale della missione del Santo della carità di Messina. Il libro viene dato alle stampe, nel 1910, per i tipi dell’Editrice Antonello, e viene presentato nel Santuario di S. Antonio il 20 novembre dello stesso anno. Nel mio intervento in quella presentazione accennavo alla piccola storia delle nostre relazioni e alla genesi del libro e non mancavo di tracciare un profilo del Cavarra sulla scorta delle impressioni avute nei nostri incontri, in cui si parlava immancabilmente del Santo di Messina, sulla scorta dell’iter del detto libro, della partecipazione in Limina, suo paese natale, alla rappresentazione della sua “Tamariciana”, che veramente, pur non disprezzando i magnifici ambienti di Limina, avrebbe meritato gli spalti del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, ed anche sulla scora della gestazione di un’altra sua opera su P. Annibale, un dramma in tre atti intitolato “ Panem non habent” in cui l’Autore percorre la storia di P. Annibale, soffusa questa volta dal soffio dell’arte e dalla presentazione scenica piena di poesia e di musica. Il Professore contatta gli Artisti per la sua realizzazione, ne suggerisce l’ambientazione. Ho una scheda tecnica, di Melo Freni, dello spettacolo “Verso la luce - Padre Annibale Maria Di Francia”, liberamente ricostruito dal testo di Giuseppe Cavarra. Varie difficoltà hanno impedito la realizzazione del lavoro entro il 2011. Vogliamo sperare che esso possa essere realizzato al più presto con la sponsorizzazione del Teatro Vittorio Emanuele e con la cortesia del suo Presidente Luciano Ordile, che Cavarra mi aveva fatto incontrare proprio al fine di organizzare la realizzazione del lavoro teatrale. Nella memoria santa del Professore che difficilmente si può dimenticare per il suo spessore di vita e di virtù, dobbiamo riconoscere il suo ricco percorso nel campo della formazione giovanile, umanistica e cristiana, nell’amore per la sua terra e per la città di Messina con le sue tradizioni ed anche per il suo messaggio che nella geografia e storia della Città, sgorga, frutto del genio dei suoi Figli, accanto alla Madonnina della Lettera, accanto alla Santa Smeralda Eustochia, il P. Annibale che della sua Città ha interpretato la vocazione quasi istintiva di una grande industriosità e accoglienza, di una fede forte, di un’apertura all’altro e di una carità universale, di una profonda pazienza e grande inventiva per risorgere dalle sue storiche difficoltà. Virtù che la interpellano anche ora, come nei corsi e ricorsi della storia. LA VOCE di Limina CULTURA 17 Addio Prof. Cavarra Enza Maria Galati U n amico mi ha chiesto di scrivere un ricordo del Professore Cavarra. Non è cosa mia, ho pensato subito, io scrivo formule, come posso parlare di un poeta, di uno che sa scrivere e si fa leggere da tanti. Ma il sorriso del Professore è qui davanti a me e allora tento, mi cimento in quest’impresa di raccontare quello che ho capito io di Giuseppe Cavarra. Non è facile, non so dove troverò le parole per esprimere la stima che ho di lui, e soprattutto il rimpianto per non averlo frequentato di più e per non avere cercato altre occasioni per sentirlo parlare. Mi aveva telefonato, io non lo conoscevo, per chiedermi “il permesso”, proprio così si espresse, di pubblicare certe rime che avevo scritto per ridere e che un’amica gli aveva sottoposto, a mia insaputa naturalmente. Rimasi di stucco. Il permesso? Professore che dice? Pubblicare? Ma io ho messo tre parole in fila, senza pretese e, ripeto, per scherzo, per vincere la noia.. e sì, a volte in dialetto, questa lingua musicale, tra il siciliano e il calabrese che parlano a Messina..e mai ho pensato di pubblicare.. Ma il Prof. insisteva, ci teneva ad ospitare quelle mie rime su Pagnocco e … decida lei Professore, per me è un onore già parlare con lei, dicevo e nel frattempo mi ero documentata su Google, uno scrittore vero e della Messina ionica, un ricercatore delle radici culturali di questa città smarrita. Ne fu contento, anzi voleva leggere altri miei scritti, ma, gli dissi, io spiego farmaci, che fanno bene e male contemporaneamente, mi occupo di sostanze naturali, non so scrivere di altro. Ma l’idea delle sostanze naturali lo incuriosiva e cominciò a chiedermi di partecipare ad un convegno cultural-musicale che aveva organizzato a Nizza. Non potevo rifiutare e in un pomeriggio ventoso mi ritrovai con tanti suoi amici a sentire musiche del folklore calabro e a parlare, io, di cibi colorati, altamente salutari a quanto pare, e ad esprimere l’idea che siamo quello che mangiamo, anche se intimamente convinta che siamo quello che pensiamo. E il prof. si entusiasmò agli argomenti che presentavo, perché si interessava a tutto; in seguito mi disse che gli piaceva l’idea del mangiare colorato, e me ne rallegrai, anche se sapevo che le sue preferenze andavano ad una “cucina” più sanguigna e saporita, fatta di “ghiotte” di pesce stocco e melanzane alla parmigiana. Ecco, era così Giuseppe Cavarra, curioso della vita, degli uomini, del mondo. Era sempre pronto a cogliere ogni legame tra il passato e il futuro e, con la consapevolezza che il mito non tramonta mai, aveva scritto una elaborazione del dramma di Medea. La scorsa estate mi invitò alla rappresentazione a Forte Ogliastri, nello scenario dello stretto di Messina. Rimasi incantata da quella donna feroce e debole, che vagava, pazza di odio verso se stessa, tra l’odore salmastro del mare e il profumo delle ginestre. Ma Giuseppe Cavarra ha ricostruito anche altri miti: la favola del giovane Colapesce, che abita lo stretto e lo protegge, e la “Sublime Missione” di Sant’Annibale. Il primo salva la città dal disastro naturale, l’altro dal disastro dell’indifferenza e dell’egoismo. Entrambi sono come dovrebbero essere tutti i messinesi, pronti ad ogni sacrificio per salvare la città e per ricostruire quel bagaglio di umanità che trasforma gli uomini in fratelli. E ne avrebbe bisogno, di questi tempi, Messina di eroi e di santi! Attraverso i suoi scritti, Giuseppe Cavarra ci indica la via per ritrovare le radici storicoculturali che hanno vivificato questo territorio nei tempi passati. Oggi Messina sembra dormire, forse si scuoterà dal torpore che l’avvolge da tempo, e ogni parola del Prof. Cavarra potrà contribuire al suo risveglio. Addio Prof. Cavarra, e mi dispiaci pi chiddi chi non ti conuscèru (e mi dispiace per quelli che non ti hanno conosciuto) 18 LA VOCE di Limina CULTURA Al mio caro e indimenticabile amico Peppino Cavarra P rofessore, sono passati già alcuni giorni dalla sua scomparsa, ma la tristezza e l’incredulità si fanno sempre più forti. Da giorni cerco di trovare le parole che possano esprimere gli innumerevoli pensieri che affollano la mia mente... Abbiamo perso un punto di riferimento insostituibile, un Maestro, un Amico, un Parente di cuore, un uomo che aveva nell’anima e nella mente la nostra terra, il suo amato paese, “Limmina”. La Sicilia, le deve moltissimo per le sue opere, non solo perché ha portato alla luce testimonianze di grande rilevanza storica e culturale del nostro territorio, ma perché fino ad oggi si è battuto per la salvaguardia del patrimonio storico-culturale della nostra bella Sicilia. Mancherà tanto a tutti noi, ma resterà sempre vivo nei nostri ricordi. Abbiamo perso un pezzo di storia ma abbiamo acquistato un Grande Angelo. Grazie Prof., non potrò mai dimenticare quel suo sguardo così accogliente e quel sorriso rassicurante, che infondeva tranquillità in chi la guardava parlare… Ho sempre seguito con interesse le sue le sue storie, le sue ricerche e vorrei poterla ascoltare ancora e fare tesoro di quei suoi preziosi consigli, sempre attenti e ragionati, che mi hanno lasciato un insegnamento, che va oltre il contenuto di un libro o di un quaderno... La sua impronta, come quella di qualsiasi altro essere umano, rimarrà a lungo nella storia di molti. Mi sembra che Keynes abbia detto una volta: una corda si può tirare, non si può spingere. Così sembra che la vita, almeno quella terrena, abbia smesso di tirare. Adesso la immagino in Paradiso a scherzare con San Pietro... quante volte tra infinite risate lei e mio padre, con la storia dei “du cumpari”, che dovevano brevettare una nuova invenzione: “piantare il grano nello Stretto di Messina”, improvvisavate questi dialoghi e finivate sempre con l’incontro tra San Pietro e Padre Tano… era veramente una gioia ascoltarvi… L’ultimo atto di questa grande opera, che è la vita, poteva attendere, perché c’erano tante e tante opere da scrivere e portare in scena. Ora la scena è vuota, il sipario si chiude... Ciao Prof., è veramente difficile abituarsi all’idea di non averla più qui con noi… le abbiamo voluto bene davvero! Tiziana Lo Turco A CAMPANA ‘Nduluri mi ttinagghia u cori? Na campana leggiu leggiu sona, l’ura non ia dill’Anciulu o menzuiornu: non ia l’Avimarìa e mancu u centu. Sta campana, ca ddu corpa a vota batti, tristi e sulenni lenta lenta sona. Ogni corpu ‘nta l’arma mi ribbumba, comu na uci ca cianci e si lamenta. Cci sunnu o munnu campagni spapànati di bbàlucu, sammucu e jinistrari? Ranni chianuri e ortara suliggiati, chini di partualla, persichi e rranati? All’ura, chiù da gioia e da vita, cia quacchi cosa chiù dulurusa e forti? Sta campana câ cianciri nni ‘nvita, e nni mmunisci nomi di la morti. Moriri voli diri non vidiri chiù u suli, non curriri chiù tra trizzeri e boscàra, supra u maniu di urpa e cunigghi: non vidiri chiù a nivi jianca, e llampa, e a sdraunara ca nni fa scantari. Moriri voli diri?…lassari u munnu, iri nta na notti niura a lu tunnu, pi ‘nsinteru scunusciutu e funnu. LA CAMPANA – Un dolore mi tormenta il cuore? \ Una campana con lentezza suona, \ l’ora non è dell’Angelus o mezzodì: \ non è l’Ave Maria e nemmeno mezzanotte. \\ Questa campana, che due volte tanto rintocca, \ triste e solenne con lentezza risuona. \\ Ogni colpo nell’’anima mi rimbomba, \ come una voce che piange e si lamenta. \\ Ci sono nell’universo campi fioriti \ di violacciocche, sambuco e ginestre? \ raggianti pianure e orti soleggiati, \ pieni di arance, pesche e melograni? \ Quindi, più della gioia e della vita, \ c’è qualche cosa più triste e ostinata da sopportare? \ Questa campana che a piangere c’invita, \ e ci ammonisce in nome della morte. \\ Morire vuol dire non vedere più il sole, \ non correre più traverso viottoli e boschi, \ sopra le orme di volpi e conigli: \ non vedere più la neve bianca, e i lampi; \ e la tempesta che ci fa atterrire. \\ Morire vuol dire?… lasciare il mondo, \ andare in una notte buia e senza luna, \ per un sentiero sconosciuto e senza confine. Giovanni Lo Turco LA VOCE di Limina CULTURA Al nostro caro amico Peppino Cavarra C on la scomparsa del caro amico, professor Peppino Cavarra, Limina ha perduto un illustre personaggio come era effettivamente Peppino. Anche noi che viviamo all’estero e che lo abbiamo conosciuto sentiamo la sua perdita. Io l’ho conosciuto dall’infanzia perche’ spesso veniva a casa nostra. Era amico di mio fratello Sebastiano. Fra noi c’era una grande e affettuosa amicizia. Infatti e’ stato testimone al mio matrimonio. Nel mese di ottobre del 2010, io e I miei cognati abbiamo deciso di fare un libro sulla vita dello zio, professor Filippo Restifo. Abbiamo sollecitato l’iniziativa dei cari amici, scrittori liminesi Giuseppe Cavarra e Sebastiano Saglimbeni a scrivere un libro sul prof. Restifo. Dalle informazioni ricavate, da carte, documenti e altro I nostri due hanno compilato un libro dal titolo: “Filippo Restifo. Una vita avversa al servilismo”. Il libro e’ stato pubblicato dal cugino editore, Eligio Restifo.-Editorial Melvin. Caracas, Venezuela. Il libro e’ stato presentato l’anno scorso nella Societa’ Operaia, dove ha avuto un grande successo, come anche all’estero dove vivono liminesi. Io e I miei cognati desideriamo manifestare la nostra gratitudine alla memoria dell’amico Peppino. Ricordare Peppino fa sempre piacere. Giuseppe Calabro’ C 19 on Giuseppe Cavarra, -“valentissimo poeta del messinese” - “autore, saggista, dialettologo” - che e’ mort oil 4 febbraio 2012 c’e’ stata sempre una affettuosa amicizia che durava da tutta lavita.Siamo vissuti lontani. Negli ultimi quindici anni andavo a Limina quasi ogni anno durante l’estate. Ci siamo rivisti per l’ultima volta l’anno scorso nell’estate. Mi ha fatto avere molti dei libri che ha scritto- e qualche volta con dedica: “A Sebastiano con affettuosa amicizia”. “Peppino” Ha dedicato moltissimi anni della sua operosa e produttiva vita all’insegnamento. Ha istituito il premio Bizzeffi a Limina per la pesia diallettale. Ha vinto anche dei premi letterari per I suoi scritti e per le sue poesie, -numerosi da elencare-. Recentemente una sua opera e’ stata rappresentata in teatro. La chiesa di Messina, la citta dove viveva e svolgeva attivita’ letteraria era gremita di gente. Lo hanno pianto la moglie, la sorella , I nipoti, gli amici e tutti quelli che lo hanno conosciuto. Ha lasciato un vuoto nella vita dei suoi cari e degli amici. Io credo che con le sue opere lasci un segno positivo nella storia di Limina, il paese natio che ha tanto amato. Sebastiano Calabro’ 20 LA VOCE di Limina Politica La Galleria Degli Errori Casa albergo per anziani Costo 4 miliardi di vecchie lire La scala d`oro- progetto e costruzione €13.000 Acquistati alcuni anni fa per un importo di € 15.000 -Abbandonati Costo dell`opera € 676.000 Centro diurno per anziani da anni abbandonato Area Artigianale 1o Lotto Costo dell`opera € 1.150.000 Scala costruita in una proprietà privata con i soldi del Comune LA VOCE di Limina Politica 21 Nel nostro paesino Sebastiano Musumeci N el nostro paesino tanti sono i commenti inappropriati sui più variegati argomenti del vivere quotidiano che a vario titolo vengono fatti circolare in piazza, nelle case, tra la popolazione. Tra le materie più discusse c’è sicuramente la politica. Sulla politica i commenti variano al variare degli interessi perseguiti dai singoli relatori (o delatori). Esiste infatti una cerchia di persone, abbastanza ristretta, vicine all’amministrazione attiva che nutrendo forti interessi personali, anche economici, a vario titolo cercano di mettersi in mostra nella consapevolezza che più si è esposti o servili meglio si può essere ricompensati. Costoro cercano di scegliere e gestire i temi su cui commentare, gettano ami tra la gente, cercando di fare abboccare “il pesce” utilizzabile ai loro nefasti fini. E pur se falliscono ancora candidamente cercano di giustificare anche l’ingiustificabile cercando artatamente di nascondere i mille difetti di una amministrazione deficitaria nei risultati e deficiente nella programmazione di un possibile sviluppo, tutti indistintamente schierati alla strenua difesa del loro proprio orticello. A costoro si rivolge nelle prime pagine della relazione annuale il Sindaco cercando di determinare sponde politiche importanti per la propria politica miope e dannosa per il nostro paese per gli uomini, le donne ed i giovani di oggi e di domani. Questi non sono né bersaglieri né tantomeno fanti. Ladri sono, che con destrezza rubano il futuro alla nostra gente. Leggo tra pag 3 e 4 della relazione 2012 del Sindaco testualmente: “Arroganza, abusi, promesse, incapacità, attentati, divisioni, raggiri, apatia, inadeguatezza, nepotismo, autocelebrazioni, mistificazioni, propaganda, pigrizia, negligenze e quant’altro sono tutti termini di comodo che vorrebbero camuffare o peggio ancora giustificare comportamenti impropri da parte di chi aspira a guidare le sorti di questo paese e non solo”. Quest’inciso presente nella relazione annuale del Sindaco da solo ben sintetizza il comportamento tenuto in questi bui anni della sua amministrazione. Ma la cosa che più lascia perplessi è il tentativo continuo di nascondere l’incapacità a governare di questa pseudo amministrazione attraverso la delegittimazione dell’opposizione che da argomento secondario diventa argomento principale. Secondo questa teoria ad esempio non vengono realizzate le borse lavoro, non per la miopia dell’amministrazione, ma per la incapacità della minoranza di imporre tale scelta. Fatto questo di per sé, anche numericamente, impossibile. Se ad esempio non funziona il depuratore o sorgono seri dubbi sulla gestione delle sorgenti dell’acquedotto o sulla discarica dismessa di C/da Mauro e se la minoranza segnala agli organi competenti tali mancanze o inadempienze con calma si cerca di risistemare le cose alla “meno peggio” (sfruttando anche qualche sponda istituzionale) e poi – dopo - semplicemente si aspetta la prima occasione utile per iniziare il solito piagnisteo sull’eliminazione fisica del Sindaco (inutile e dannoso!). Ed i cittadini come reagiscono? Semplice. I primi appartenenti alla cerchia ristretta, reagiscono con indignazione, a difesa della maggioranza, contro l’operato della opposizione, la quale evidentemente intralcia il regolare corso dei loro interessi. Interessi che prevedono l’esistenza di un Sindaco (inutile e dannoso!). Parte della restante cittadinanza reagisce sempre contro l’operato della opposizione (non della maggioranza !!!!) addebitandogli la responsabilità di un’azione politica “tenera” e per niente intransigente. Come se la colpa della sua permanenza al potere fosse da addebitare non a chi l’ho ha eletto e sostenuto ma (udite! udite!) a chi dal primo momento l’ha ritenuto inadeguato a ricoprire quel ruolo. Il gruppo politico “Insieme per la Rinascita di Limina” intende ribadire, nella sua totalità, che intende continuare l’attività legittima di controllo e di critica politica sull’operato dell’Amministrazione comunale, con la libertà ideologica di potere decidere a chi, e come, segnalare le eventuali disfunzioni, le eventuali mancanze o le eventuali violazioni di legge. Il gruppo politico “Insieme per la Rinascita di Limina” intende proseguire nel perseguimento degli obiettivi politici e programmatici facenti parte del programma elettorale sottoposto agli elettori di questa nostra comunità. Noi siamo per il rispetto della legalità, per la solidarietà sociale, aperti al dialogo e alla collaborazione, al confronto, ma non chiedete di caricarci l’asino addosso…. infatti… Per le vie di un piccolo paesino un vecchio faceva il cammino con il figlio giovinetto e un unico piccolo asinello. Mentre il vecchietto andava a piedi e sulla groppa dell’asinello stava il bambino i passanti li schernivano:“Ma guardate lì che scena! Il vecchietto che non può neanche camminare va a piedi, mentre il bambino, che potrebbe correre, va a cavallo!” Il vecchietto, sentiti i discorsi di quel gruppo di gente, per non dare adito ad altre dicerie, fece smontare il bambino per farlo andare a piedi e montò lui in groppa all’asino. I tre proseguirono, così, nel loro cammino, ma ecco un altro gruppo di persone: “Che ingiustizia!… il bambino con le sue piccole e tenere gambine va a piedi, mentre il vecchio, che può benissimo camminare, sta comodamente seduto in groppa.” L’anziano contadino, vinto dalla vergogna decise di far salire anche il bambino in groppa all’asino. Proseguirono, così, entrambi sul quadrupede. Il borbottio dei passanti e l’indignazione però aumentò: “Hai visto quei due lì? Che vergogna!! Con un asinello così piccolo, gli stanno sopra entrambi, finiranno per sfiancarlo …” Il vecchietto, sentiti quei commenti, pensò bene che sarebbero andati a piedi sia lui che il suo piccolo nipotino. Ecco allora esplodere lo scherno e il riso di tutti: “Guardate quei tre asini, mentre ne risparmiano uno, non risparmiano se stessi. Quel vecchio e quel bambino potrebbero andare comodamente in groppa e invece vanno a piedi!!”. Il povero ed esasperato vecchietto disse allora al giovinetto.“Caro mio se continuiamo a dar retta alla gente finiremo sicuramente con il portare l’asino sulle nostre spalle”.