Pubblicazione Semestrale N°4 Luglio 2012
LA VOCE
Distribuzione gratuita
di Limina
Organo Semestrale di informazione per soci e simpatizzanti
della Societá Operaia Liminese
Editoriale
CULTURA
UNA LEZIONE ED UN COMPAGNO DI STRADA-4
L`ULTIMO PREMONITORE
RICORDO DI PEPPINO
CAVARRA-6
GIUSEPPE CAVARRA RICERCATORE SUL TERRENO-8
CAVARRA E LA PAROLA-9
LA VOLTA DI CAVARRA-10
ALL`AMICO PEPPINO CAVARRA-11
GIUSEPPE CAVARRA-12
IL PROFESSORE CHE VOLEVA
INSEGNARE A FARE LA VERA
STORIA-13
L`IRONIA ANTROLOPOGICA-15
RICORDO DEL PROF. CAVARRA-16
ADDIO PROF. CAVARRA-17
AL MIO CARO E INDIMINTICABILE AMICO -18
AL NOSTRO CARO AMICO-19
POLITICA
LA GALLERIA DEGLI
ERRORI-20
NEL NOSTRO PAESINO-21
LE NOSTRE COMUNITÀ
RISPOSTA AL SINDACO-22
LA VOCE DI LIMINA
EDITORIAL
N
ell`estate del 1977 ci siamo rincontrati per la prima volta
a Limina in occasione delle vacanze estive.Quel ritorno
al paese natale ci aveva rigenerato il gusto del passato
e dei ricordi e da quel momento si era consolidata la nostra
amicizia con le piacevoli chiacchierate in un ambiente di chietudine e di rilasso che solo nel nostro paese si può trovare,
circondati di gente e luoghi che ci facevano ricordare la fanciullezza, la scuola, sino al completamento delle Elementari,
le campagne spesso aride, che si dovevano raggiungere a
piedi o a cavallo di asini e muli, per chi li possedeva, le belle e
le avverse stagioni con Limina intensamente popolata e con
la sua vigorosa attività agricola e artigianale che si vantava di
essere un paese autosufficiente
Durante le lunghe giornate, che si prolungavano sino
all`alba nella piazzetta del paese, i nostri argomenti non si
esaurivano facilmente. Si parlava, sopratutto della cultura
orale di Limina..
Era il periodo in cui stava per finire il manoscritto del suo
libro “Cultura Popolare Liminese”. Mi raccontava il suo arduo
lavoro di ricerca ed era pienamente soddisfatto di questa
opera che presto vedrà la luce per “testimoniare il mio interesse alle poche gioie e alle molte sofferenze della nostra
gente” come soleva dire. Questo ricco lavoro di Giuseppe
Cavarra, dopo una breve attesa, venne editato nel 1978 da
Carbone Editore di Messina. Il libro che aveva riscosso molta
recezione di lettori in Limina ed altrove, venne da chi questa
nota scrive, nel 1979, ristampato a Caracas con una serie di
stupende immagini di epoca e distribuito in dono ai liminesi
del Venezuela.
Nel 1973, Sebastiano Saglimbeni residente a Verona si era
fatto carico a pubblicare a Giuseppe Cavarra con l`Editrice
Universitaria di Verona il libro Gli americanismi liminesi. Sebastiano Saglimbeni già era autore di Domineddio un libro
di racconti, e del romanzo La ferita del Nord e delle sue più
note sillogi poetiche, Catàbasi e lezione di umiltà edita nel
1977,
Anche se Cavarra svolgeva la sua principale attività culturale
a Messina da dove sono usciti le opere più importanti della
sua fruttifera carriera di uomo di cultura che lo hanno portato varie volte como vincitore di importanti premi della Sicilia, mi ricordo ancora la passione particolare con cui lavorava
sui progetti culturali di Limina. Al premio Bizzeffi, ai murales, all`Associazione Culturale .Nuova Limina e alla Rivista Il
Puntale gli aveva dedicato tempo ed entusiasmo per il bene
del suo amato paese. Da far sapere a chi non sa che il nostro uomo instancabile aveva più volte chiesto di istituire a
Limina un museo della memoria, ma L`Amministrazione comunale, alla quale aveva fatto richiesta, fece, come si suol
dire, orecchio da mercante . Quel museo della memoria, reclamato per la nostra Limina, venne proposto da Cavarra e
istituito nel comune di Savoca diventando il più importante
Museo nella Valle D`Agrò . Laddove avrebbe dovuto sorgere, il Museo di Limina, ora si può ammirare una oscena mole
di cemento armato con un corridoio pieno di fotografie.
Avevo sempre ammirato la sua statura intellettuale, la sua
instancabile capacità di lavoro e di creatività culturale ed io
aproffittandome di questa suo talento lo stimolavo a scrivere su Limina ed è stato così che per molti anni abbiamo
presentato a Limina molti suoi libri, anche alcuni di Sebastiano Saglimbeni. Nell`estate del 2000 assieme a Sebastiano
Calabrò residente in USA, parlavamo dei liminesi sparsi per
il mondo e dei loro discendenti molti dei quali non conoscevano la lingua italiana e conoscevano ben poco della
cultura del paese dei loro padri e dei loro nonni. Fu allora che
nacque l`iniziativa di tradurre alcuni libri riguardanti Limina
LA VOCE di Limina
in lingua spagnola e in lingua inglese per farli arrivare nei
paesi dove ci sono più discendenti di liminesi. Nell`estate
del 2001 abbiamo presentato a Limina l`opera di Cavarra La
Spiga Nana Limina e la sua cultura, il primo libro con traduzione in inglese e spagnolo.
Nelle nostre conversazioni sul tema dell`emigrazione era
particolarmente sensibile e sentiva un profondo interesse
sui nostri emigranti sparsi per il mondo. Ricordava racconti e
poesie in dialetto di vecchi emigranti liminesi del 1900, epoca triste di discriminazione e sofferenze. Io gli dicevo che l`
emigrazione del dopo la II guerra mondiale è stata differente
e gli parlavo del Venezuela dove i nostri padri non avevano
sentito tanto il dramma dell`emigrazione e la sofferenza che
avevano subìto altri emigranti che sono arrivati in paesi di
radici culturali diverse.
Giuseppe Cavarra nel 1999 si era deciso di compiere un viaggio a Caracas dove rimase più di un mese . Durante il suo
soggiorno gli ho fatto conoscere molti poeti venezuelani alcuni in persona altri attraveso i libri. Nei versi di Vicente Gerbasi, di Santos Lòpez, di Juan Liscano, di Luis Alberto Crespo,
di Rafael Arraiz, “ritrovai la vocazione degli antichi umanisti
con la loro convinzione che nulla di ciò che è umano è estraneo all`uomo” mi diceva. Si era portato con sè un manoscritto di sue poesie in dialetto liminese che venne tradotto
in spagnolo, assieme ad altre poesie di questi poeti venezuelani si è pubblicato il libro Parole-Palabras “dando vita ad
un incontro tra sensibilità e culture che si scoprono simili,
in nome della terra e dell`amore, della memoria e della parola. Un incontro che sa di sorpresa allorchè il dialetto liminese, tradotto in spagnolo, conserva gli stessi ritmi e la stessa
forza espressiva. Miracoli che appartengono alla poesia” Così
scrisse la rivista culturale Quartiere di Messina. Durante la
sua permanenza in Caracas volle incontrarsi con la comunità
dei liminesi per parlare con tanti di loro e visitare le loro case
in particolare con le vecchie donne emigranti, le più forti e
coraggiose della nostra emigrazione, che hanno stimolato il
progresso delle famiglie liminesi e con i giovani figli di limi-
LA VOCE di Limina
CULTURA
nesi nati in Venezuela aggrupati attorno alla pubblicazione
del giornale L`Attualità dei Liminesi in Venezuela fondata
nel dicembre del 1995. L`ho portato al Teatro Teresa Carreño
dove si eseguiva un concerto dell` Orchestra Sinfonica di
Caracas diretta dal maestro Rodolfo Saglimbeni in quel periodo il più giovane e prestigioso direttore di orchestra del
Venezuela con il quale dopo lo spettacolo abbiamo avuto
una lunga conversazione, parlando anche della Banda Musicale di Limina dove il nonno di Rodolfo e il padre di Peppino
erano musicanti attivi. In seguito, un`entusiasta comitiva di
paesani organizzò una cena nel notissimo ristorante Via Appia del liminese Pippo Fallone. Giuseppe Cavarra fu fatto accomodare sulla sedia che abitualmente usava Gabriel Garcia
Marquez, Premio Nobel della letteratura ed amico personale
del ristoratore. Era felicissimo di vedere una comunità liminese unita, apprezzata dai venezuelani e con una significativa
presenza in tutti i settori della vita nazionale. Ha conosciuto
Cua, Maracay e Puerto La Cruz e l`ho portato nel quartiere
di Petare per fargli conoscere da vicino la gente che vive nei
“ranchos” (barracche) che sono l`altra faccia della moneta
di una grande città latinoamericana come Caracas, dai tanti
contrasti e ingiustizie sociali.
Un`altra visita suggestiva nel quartiere Chacao dove abitavano moltissimi liminesi, ispirò a Giuseppe Cavarra i seguenti versi in dialetto liminese
Stigghjola,Ramagneddha,
a figghja i Zzammaruni,
u figghju i mastru Jàrfiu,
i Faddhuneddhi,
a Bbrisca, i Carvuni, l`Africani
Vi nni jistu Parramu
Nta l`arba bbrafustiati.
Cchiù di jeri ca di oj
Nan chjudistu occhju e-vvi nèsciunu di ucchi
e i pinzeri di ddha notti paroli ca nan jannu
appressu v`i purtastu vostru stissu sangu
Era nnuulatu Vi mancunu i paroli
u celu du Carvariu. pi-ttutti ssi rriordi
ca nan còddhunu mai.
Vi nni jistu
e-ssapìu Parramu
sulu chiddhu ca lassau. e na mani sbadata
stenni nigghjceddha
Caminu e-mmi pari supra munti Avila:
ca sempri cci ha passiatu a stissa
nta sti strati di Chacau ddha matina cci mmucciava
a facci e cosi
supra munti Kalfa
Stigghjola, Ramagneddha, la figlia di Zzammaruni, il figlio di
Alfio, i Falloni, la Bbrisca, i Carboni, gli Africani Ve ne andaste
/ sul far dell àlba delusi. // Non chiudeste occhio / e i pensieri
di quella notte / dietro ve li portaste / Era nuvoloso / il cielo
del Calvario / Ve ne andaste / e sapevate / solo quello che lasciavate // Cammino e mi pare / di aver sempre passeggiato
/ per queste strade di Chacao // Parliamo / più di ieri che di
oggi / e vi escono dalle bocche / parole / per tutti i ricordi /
che non tramontano mai // Parliamo / e una mano sbadata /
stende nebbiolina / sul monte Avila / la stessa / quella mattina nascondeva / la faccia alle cose / sul monte Kalfa.
Cuando ritornò a Messina, sazio di sapori venezuelani,
scrisse e dedicò al poeta venezuelano Santos Lopez la poesia dal titolo Venezuela, la quale recita:
3
VENEZUELA
Terra lontana divenuta vicina
millenni di storia
salutano i tuoi cinquecento anni:
un mattino brumoso,
un inizio volto alla speranza
di protrarre all`infinito
l`occaso della breve giornata.
che non si fà memoria
Muove il tuo cammino
Parti bene:
non puoi fermarti
a guardare i rapaci che volteggiano
nel cielo di Maracay
o il rio rischiarato da una luna svogliata
nei canali artificiali di Puerto La Cruz.
Non devi fermarti,
terra lontana divenuta vicina.
Come me te lo dicono
i fratelli venuti alle tue sponde
chiedendoti un destino
in nome dell`amore e della solidarietà
Tu per tutti
hai saputo essere patria.
Ora
invochi gli orizzonti perduti
e le macchine ringhiano forte,
trafiggendo il buio della notte
che non si fà memoria
per le strade di Caracas.
Se una sola è la storia degli uomini,
in questa storia voglio anche te,
Venezuela,
col tuo nome italiano,
con le tue energie divenute essere
da meta raggiunta.
Il diritto alla presenza
t`impone di non fermarti
fino a quando i bambini di Petare
-nei ranchos ci sono i tuoi figlinon conoscono in nome del rispetto
l`ascesa dell`infimo al sublime.
L`estate scorsa del 2011, prima che presentassimo il libro Filippo Restifo- Una vita avversa al servilismo, curato
da Sebastiano Saglimbeni con scritti di Giuseppe Cavarra,
eravamo seduti al solito posto all`angolo del Bar di Natale.
C`erano come sempre i fratelli Sebastiano e Giuseppe Calabrò, Angelo Salimbene con la sua compagna, Giuseppe Saglimbeni residente a Mira (Venezia) ed alcuni simpatizzanti
della Società Operaia. Mancava Nino Cuglituri, il colto sarto
che aveva vissuto a lungo a Milano e che sapeva con ironia
dire la sua. Ed ancora una semina di memorie su tempi lontani della Limina contadina e i suoi uomini. Più in là da noi,
poichè la conversazione con finiva mai, un gruppo di persone del Governo liminese distribuiva certe occhiate sinistre
forse pensando che parlevamo della politica locale.
Con la vitalità che ha caratterizzato ogni momento della sua
vita Giuseppe Cavarra ha affrontato anche la malattia che
ha occupato il suo corpo distruggendolo. Ma solo quello. Le
parole che ci ha regalato restano miracolosamente impresse
nelle pagine dei suoi libri. Ognuna di quelle parole ci dice
che Peppino è vivo, che è tra noi, che non ci ha mai lasciato.
Ascoltiamo la sua risata e rivediamo il suo sguardo complice
ed ironico. No, la morte non è riuscita a portarlo via.
Noi continuiamo a lavorare per una
Limina possibile
Eligio Restifo
[email protected]
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LA VOCE di Limina
CULTURA
UNA LEZIONE ED UN COMPAGNO DI STRADA
A
senso occuparsi della cultura
dialettale in questa nostra
èra, vorticosamente tecnologica ed
industriale, con la ricchezza della nostra
lingua italiana, da tanto e da tanti praticata?
Con questo interrogativo l’incipit del
discorso che segue sulla bellezza e la
devozione alla donna contemplata nei
canti dialettali di una comunità chiamata
Limina. Al quesito va risposto che vale in
vero parlare di dialetti, di cultura popolare
o - come viene definita - subalterna, che
fu il patrimonio espressivo difensivo
delle classi sociali di un tempo povere ed
analfabete strumentali, che sottostavano
ad altre classi più abbienti e subivano
sfruttamenti ed offese, come è stato
tante volte scritto, persino dalla recente
Chiesa che prova ora a riacquistare certa
palingenesi, dopo i suoi secolari misfatti.
Gli interessi di studi dei dialetti e della
cultura popolare, da un cinquantennio a
questa parte, non si sono affievoliti, ma
è venuto meno certo rigore filologico
e, conseguentemente, abbiamo letto
scritture vacue, di diletto. A proposito,
Maksim Gorkij, un vagabondo, un
emarginato, che subì il carcere più volte, e
assurse, poi, ad uno dei più grandi scrittori
della Russia, scriveva: “Raccogliete il vostro
folclore, studiatelo, elaboratelo”. Antonio
Gramsci dalle dure prigioni del regime
fascista annotava nei suoi Quaderni dal
carcere rigorosamente: “Il folclore non
dev’essere concepito come una bizzarria,
una stranezza o un elemento pittoresco,
ma come una cosa seria e da prendere sul
serio”. In ogni comunità, grande e piccola
del nostro Paese e di altri del pianeta, non
mancano studiosi, etnologi, dialettologi,
sociologi, che intendono, curano
appassionatamente le tradizioni popolari.
Per la regione veneta, dove dimoro da
molti anni, cito solo un nome, quello di
Dino Coltro, della provincia di Verona,
per la sua opera monumentale Paese
perduto, in quattro tomi, illustrata sulla
copertina da Andreina Robotti, divulgata
da Giorgio Bertani, singolare ed audace
editore decaduto. Coltro, colse nella Bassa
veronese i detti popolari, di amore, di
risposta, di saggezza; li studiò. Fra l’altro,
scrisse: “Il dialetto, come linguaggio
Sebastiano Saglimbeni
autonomo, è immediato, legato alla
realtà, non ricorre alla mediazione”.
Per la regione Sicilia - visto che il tema
riguarda soprattutto il dialetto e la cultura
popolare di Limina - dovrei citare più di
uno studioso, ma mi limito ai più noti,
a partire dalla seconda metà del 1800
ad oggi; e, pertanto, Luigi Capuana,
Salomone Marino, famoso per aver curato
la leggenda storica polare della Barunissi
di Carini a Valguarnera di Ràgali nel
1874, Giuseppe Pitrè, Antonio Pagliaro,
Giuseppe Cocchiara e Giuseppe Cavarra.
Quest’ultimo, quando gli ho donato i
volumi di Paese Perduto, scoppiò di gioia,
immerso com’era nella scoperta della
cultura popolare della sua e della mia
Limina e di altre comunità.
Ora, prima che io indichi alcuni testi
popolari, “i canzuni”, nel dialetto di
Limina, debbo fare un distinguo tra il
dialetto dei contadini, quello di ieri, della
civiltà preindustriale, e il neo-dialetto di
oggi, usato da gente che sa leggere e sa
scrivere, come, per fare qualche esempio,
Andrea Zanzotto di Treviso, Andrea
Genovese. Un autore, questo, singolare,
di versi e di prosa, vivente in Francia,
dove non ha sperduto il dialetto del
quartiere Giostra di Messina, dove è nato
e dove ritorna. Voglio dire che il dialetto
incorpora neologismi.
I testi popolari sono“canzuni”nel dialetto
di diversi anni or sono. La “canzuna” è
un componimento lirico monostrofico
che, nella sua costituzione metrica
abituale, conta otto versi endecasillabi
a rima alternata per quattro volte. Nelle
“canzuni” di Limina è cantata, fra l’altro,
la bellezza della donna e la devozione
alla donna, prima accennavo, e il tema ci
riconduce all’epoca della Scuola Poetica
Siciliana, del “Contrasto” di Cielo d’Alcamo
e del Dolce Stil Novo. I poeti popolari di
Limina, di estrazione sociale umile e,
soprattutto, quelli emigrati, subito dopo
l’ultimo conflitto mondiale, in Argentina,
negli Stati Uniti d’America, in Venezuela
e in Australia, sentivano, come se fossero
ritornati alle radici dell’ anima, alla stessa
maniera del greco-siculo Teocrito, il primo
poeta della diaspora, al quale attinse il
mantovano Virgilio per le sue egloghe.
Allo stesso Teocrito nel nostro Settecento
si era ispirato il poeta dialettale Giovanni
Meli per la Buccolica. I Canti popolari o le
“canzuni”, che ho trascritto e inserito nella
mia silloge di poesie Catàbasi e lezione
d’umiltà, edita da Guanda 1977 e riedita
nel 1999, con un criterio di trascrizione
scientifica, sono di autori anonimi; alcuni
mi sono stati recitati da parenti contadini,
altri sono stati ritenuti oralmente, durante
le serate invernali quando li eseguivano
alcuni giovani innamorati, chiamati
“cantaturi”, sotto le finestre delle donne
al suono di un organetto: io studiavo
il greco e il latino allora, all’inizio degli
anni Cinquanta, e smettevo di applicarmi
alla conoscenza delle due grammatiche,
rapito da quel suono dello strumento e
dalle parole cantate. Studiavano come
me altri, ma insensibili al linguaggio
pacchiano dei poeti dialettali, non,
tra questi, Giuseppe Cavarra che si
commoveva al suono dell’organetto,
quasi lacrimava. Di lì, da quelle
impressioni, egli si mosse ed eresse, nel
tempo, come un monumento consistente
in quella sua ricerca estenuante, fatta
di dialoghi e di interrogazioni ai vecchi
del paese, che conservavano in mente
l’oralità dei testi, e di trascrizioni di questi,
in dialetto, e di commenti. Intitolò la
ricerca Cultura popolare liminese, che
editò Giuseppe Carbone di Messina.
Avrei dovuto pubblicarla io questa sua
ricerca quando Niccolò Giannotta mi
aveva affidato a Verona la direzione di
una collana della sua omonima editrice
traballante economicamente. Non ho
potuto farla passare, ma mi ero potuto
consolare di aver fatto pubblicare i suoi
Americanismi liminesi con la piccola
Editrice Universitaria e, dopo alcuni anni,
La lingua tra i denti, una silloge delle
“canzuni” di Bizzeffi, che volle dedicarmi.
Se non l’avessi fatto, da fondatore delle
Edizioni del Paniere, non mi avrebbe più
rivolto la parola. Alcuni anni fa, i canti
amebei delle egloghe virgiliane, che ho
tradotto più volte per alcuni editori, mi
avevano ricondotto a quelle “canzuni”
che si eseguivano a Limina e che avevano
alimentato pure la mia vena di poeta.
Dicevo prima delle “canzuni” inserite nella
LA VOCE di Limina
mia raccolta poetica e aggiungo che in
apertura della sezione avevo citato uno
studioso di tradizioni popolari, un poeta,
uno scrittore, un cineasta, Pier Paolo
Pasolini, il quale, a proposito di dialetti,
scrisse: “Il dialetto è come la mammella di
una madre a cui tutti hanno succhiato, ed
ora ci sputano sopra....”.
Ed ora da alcuni canti popolari liminesi
che qui riporto, la bellezza della donna
e la devozione alla donna che i poeti
del popolo ardentemente esprimevano
o in atto di innamoramento o in atto di
rispetto. Spero che questo dialetto, come
quello di diverse parti d’Italia, non suoni
come “lingua abietta e buffona”, così
come l’aveva definito il grande poeta
romanesco Giuseppe Gioacchino Belli.
I Spunta lu suli e tu, bella, t’affacci
e lu tratteni cu li to’ billizzi;
du’ puma russi porti a la to’ facci,
du’ cannòla d’arcentu a li to’ trizzi.
A cu’ ti ‘ncontra la risposta dacci:
dicci ca su’ pi mia li to’ billizzi.
Si’ cacciatura ca ‘stu cori cacci:
oh, chi scerma d’amuri! oh, chi Billizzi!
II
La bella a la finestra si ‘ffacciau:
fici ‘nzinga cu l’occhi e si nni ìu;
e ‘n-pumu muzzicatu mi ittàu:
-Te’ , mancitìllu pi l’amuri miuNo’ fu pummu, no, no, ca mi dunàu:
fu vampa ca ‘vvampàu lu cori miu.
Lu focu a Muncibbèddu si ‘stutàu,
ma no’ si ‘stuta cchiù lu cori miu.
III
O rosa carricata di billizzi,
comu ‘na rama lu misi di màiu;
all’ atri cci li fai milli carizzi
e iò ca mi li mèrutu no’ l’hàiu;
tu resti chiusa ‘nta li cuntintizzi
e iò mortu di pena mi nni vàiu.Figghiola, no’
nni fari chiù stranizzi,
cà mi basta la còllira ca iàiu
Nel primo testo, la donna che si affaccia
alla finestra ed intrattiene il sole, grazie
alle sue bellezze; sul suo volto la freschezza
di due mele rosse; i suoi capelli sono stati
raccolti in due cannoli; le sue bellezze
debbono appartenere a colui che la sta
cantando. Alle qualità della bellezza
naturale, l’appellativo di cacciatrice, che
preda il cuore dell’uomo, ed è un incanto
“sciarma”, un francesismo, da “charme”.
Nel secondo testo, la donna è ancora
bella e che si affaccia ancora alla finestra,
ma per lanciare una mela morsicchiata
ad un giovane. Quella mela non fu per
l’uomo un dono, ma una vampata che
CULTURA
infiammò il suo cuore. Se il potente fuoco
del Mongibello, l’Etna, si era potuto
spegnere, il cuore dell’uomo è rimasto ad
ardere. La mela ricorre nella terza egloga
virgiliana. E’ Galatea, una vivace fanciulla,
che la lancia al maschio e si nasconde, ma
prima vuole essere notata. Per significare
che l’oralità si può alimentare della
cultura istituzionale.
Nel terzo testo, la donna è una rosa
traboccante di bellezze, simile ad un ramo
quando esplode la primavera. Così pure
chiamava la sua donna Nazim Hikmet
(“Amarti, mia rosa, somiglia / all’aspirare
l’aria in un bosco di pini”). L’uomo si
lamenta ricorrendo ad un’iperbole,
consistente nelle mille carezze che
lei esprime per altri, mentre trascura
colui che se le merita. Il testo si chiude
con l’invocazione alla figliola perché
non faccia più stranezze, in quanto il
vero innamorato è già in preda a un
risentimento incontrollato.
Quanto sopra io l’ho trasmesso durante
una mia sorta di lezione il primo febbraio
del 2012, lezione agile, preparata per
un gruppo di donne che frequentano
l’Università popolare di Verona. E ho
pensato al grande lavoro del collega
Giuseppe Cavarra, agli anni insieme
delle scuole elementari, delle medie, del
ginnasio, frequentato privatamente a
Limina, e del liceo frequentato a Santa
Teresa di Riva, dove, a 16 chilometri da
Limina, ci eravamo accasati a pigione
presso la famiglia Mondello. Da qui, ogni
tanto, a fine settimana, rientravamo in
famiglia, a piedi, lungo il tratto di uno
stradale incompiuto. Anni - mi limito a
ricordarli, senza navigare tanto nell’ossario
del passato - molto amari, dopo quella
tragica guerra che aveva soprattutto
offeso ed impoverito i poveri. Ma noi ed
altri riuscimmo, come si suol dire. Io e
Peppino, che qualcuno ci considerava
come dei cani, l’uno contro l’altro,
abbiamo potuto sperdere quell’amarezza
e quei sacrifici, grazie al ricorso della
scrittura; altri compagni diversamente.
Avevo cominciato un decennio prima
di lui a firmare qualche libro e la pura
gelosia di Giuseppe mi incitò a far meglio,
a non aver fretta nel divulgare le mie
impressioni creative.
Dieci anni or sono, gli amici Sebastiano
Calabrò ed Eligio Restifo hanno voluto
che io e Giuseppe non polemizzassimo
e stessimo insieme nei pochi giorni
estivi liminesi e dicessimo e scrivessimo
della nostra comunità. Nel 2011 siamo
5
riusciti a scrivere a quattro mani la storia
dell’antifascista Filippo Restifo.
Abbiamo solennizzato il titolo, edito a
Caracas, dentro la Società Operaia, che
frequentarono i nostri padri. Verso le
21, Giuseppe partì per Nizza Sicilia, io
rimasi qualche giorno ancora al paese.
Un abbraccio. Che è stato in vero il
primo, durante tutta la nostra esistenza,
e l’ultimo.
Ricordo che alla fine del 1970, Giuseppe
aveva voluto che io, ritornato in Messina,
dormissi un paio di sere a casa sua,
insegnava alla Scuola media unificata
di Rometta Superiore. Voleva ricambiare
l’ospitalità che avevo dato a Verona
assieme alla moglie Melina Altadonna. E’
stato in quell’incontro che, fra le altre carte
singolari che custodiva, mi ha mostrato
un opuscolo raro che testimoniava il
sacrificio di Francesco Lo Sardo. Me l’ha
donato ed è stato per me uno stimolo
quell’opuscolo che mi ha fatto scoprire un
grande italiano della Sicilia. Uno stimolo
che tuttora mi infiamma, dopo la mia
ricerca dell’ epistolario ed altro negletti di
quell’uomo che, come ancora ho scritto,
morì nelle carceri fasciste. Giuseppe,
ultimamente, mi celiava, diceva ch’ero
diventato famoso, grazie a quel lavoro
che ho fatto conoscere ad alcuni storici.
Mentre partecipavo la lezione, di cui
sopra, pensavo a tutte quelle ricche,
sulla cultura popolare, tenute in Messina
e nelle piccole comunità da Giuseppe.
Egli la scrisse, la riscrisse, la rese di
pubblico dominio la cultura popolare.
Un’estenuante ed appassionata fatica, la
sua, che resterà e testimonierà i patimenti,
le gioie, i sentimenti e la resistenza della
nostra classe subalterna.
Egli ora riposa a Calipò e nel mio
pensiero, mentre ancora vivo, dopo un
brutto male, che scruto, ma che pure
mi consente a dire, a scrivere. Come per
lui, il mio compagno di strada Giuseppe,
che ha prescelto di riposare sulla nostra
collina di Limina, che ha
studiato in tanti modi, pure afflitto, perché
sempre più si spopola.
Sulla collina di Limina, distante dalla
mefitica Messina, dove Giuseppe ha
studiato e vissuto, a maggio di ogni anno
gli arriverà, recato dalla pura brezza,
l’effluvio delle ginestre in fiore, una
poesia, che né io, né lui, nessun altro
saprà scrivere.
Noi abbiamo provato, come mille altri,
di cogliere parole brillanti come le stelle,
eterne come il tempo.
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LA VOCE di Limina
CULTURA
L’ultimo premonitore ricordo di Peppino Cavarra
Carmelo Duro
Una morte attesa quella di Peppino Cavarra. Attesa sin da
domenica sera, 29 gennaio 2012, allorchè i medici del Policlinico
di Messina dettero il loro amaro responso: trombosi, emorragia
cerebrale. Non ci si salva. La notizia si diffuse rapidamente presso
tutti gli amici e i conoscenti e, ognuno, ricevette telefonate da
diverse e varie parti, ricevette, anzi, più telefonate: gli amici di
Peppino Cavarra volevano rendere partecipi tutti del dramma
che stava vivendo.
Il giorno dopo e nei giorni successivi le notizie continuavano
ad accavallarsi ed erano, nella loro tragica coerenza, sempre
più negative: questione di ore, forse qualche giorno. Il venerdì
precedente la sua scomparsa parlo con la moglie Melina per
telefono. E’ una telefonata molto lunga. Le racconto un bel
sogno: la notte precedente, quella sul giovedì, avevo sognato
Peppino: eravamo con la mia macchina e andavamo lungo una
non identificabile strada di montagna ma il viaggio era piacevole,
si chiacchierava e si rideva. Lui raccontava qualcosa e cercava
il mio sorriso e il mio consenso. Stava bene, era compiaciuto,
soddisfatto.
Dissi pure a Melina che l’ultima volta ci eravamo visti alla
Università delle Tre Età a Santa Teresa. Era venuto due volte di
seguito, invitato da noi: il 10 gennaio quando aveva tenuto una
lezione su “Memoria, cultura, territorio”, e due giorni dopo, il 12,
per ricordare la figura di Nino Nicotra nel primo anniversario
LA VOCE di Limina
CULTURA
della sua scomparsa. Sua moglie, ovviamente, lo sapeva.
Non sapeva però che in ambedue le occasioni Peppino
aveva detto due cose, una pubblica ed una privata. In quella
pubblica aveva ricordato, in ambedue le circostanze, i primi
anni dell’insegnamento a Todi in Umbria dove, in località
vicine, insegnavano anche Santino Spadaro e Nino Nicotra.
Loro, comunisti tutti e tre, si incontravano in terra straniera e
discutevano della Sicilia e di politica. Raccontava, Peppino, questi
incontri e quegli anni con molta tenerezza e partecipazione:
“Adesso - aveva detto ad un certo punto - loro non ci sono
più….sono rimasto solo io… “. E il suo viso aveva assunto un
atteggiamento di mestizia.
Quel“sono rimasto solo io”mi aveva fatto riflettere a lungo perché,
soprattutto per il tono col quale era stato detto, accompagnato
dall’annuire triste della testa, si prestava a due interpretazioni.
La prima era il rammarico, il dolore, la sofferenza, per aver
perduto anzitempo due cari amici con i quali lui condivideva
pareri, considerazioni, giudizi, l’altra interpretazione era più
drammatica: “sono rimasto solo io”, come a voler dire: “perché?
Cosa sono rimasto a fare? La mia presenza a cosa può servire?”.
A questa seconda interpretazione, però, non volevo dare molto
valore perché sapeva di rassegnazione. Peppino Cavarra non era
una persona che si rassegnava o si lasciava andare. Era caparbio,
orgoglioso, capace, forte di una cultura indiscutibile che,
mentre lo poneva una spanna al di sopra di tutto e di tutti, gli
forniva quella sicurezza nelle sue idee e nei suoi progetti che gli
consentiva di affrontare e superare ostacoli, difficoltà, diffidenze.
Quindi non poteva sapere di rassegnazione quella frase che era
stata buttata giù nel contesto del suo discorso, sicuramente,
non a caso. Rivedendo, poi, come in un filmato lo svolgersi di
quei due incontri e il ribadire di quella frase, qualche dubbio
sulla “rassegnazione” mi è venuto. Chissà! In ogni caso nessuno
ha avuto possibilità di parlare con lui dopo quella domenica del
29 gennaio 2012 per cui nessuna verifica si è potuta fare. Il senso
vero di quell’espressione l’ha portato con se. A noi possono
rimanere le supposizioni.
La cosa privata la chiese a me il 10 gennaio e la riprese il 12. Voleva
che gli suggerissi una biblioteca comunale capace di ospitare i
suoi libri, libri importanti, di valore, alcuni unici. Discutemmo
di ciò in maniera anche fortemente critica sullo stato delle
biblioteche nel nostro territorio ed io il mio suggerimento glielo
diedi. La discussione finì con un “ne riparleremo presto”.
E’ molto raro che si verifichino situazioni come queste. Penso:
Chissà se il mio sogno, la sua osservazione sull’essere “rimasto
solo” dopo la morte di Spadaro e Nicotra, e la richiesta e
relativa discussione sul dove sistemare i libri siano stati una
premonizione! Che ci si creda o no, questi fatti hanno le
caratteristiche di un qualcosa che, inconsapevolmente per noi
umani, si stava preparando.
Al termine di questo racconto telefonico, sua moglie, che aveva
ascoltato con interesse e, credo, anche con qualche sorpresa,
queste “rivelazioni”, per i libri mi disse che lui ne aveva parlato
pure con lei senza, però, giungere ad una conclusione. Mi disse,
però, con la serenità di chi sa come affrontare l’ineluttabile che “è
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tutto sistemato”. E si riferiva alle cose da fare subito dopo l’ormai
prossima morte: agenzia funebre, necrologio, manifesti murali
nei vari paesi, la chiesa di S. Nicolò per i funerali a Messina, il
trasferimento della salma a Limina. Mi disse pure che avrebbe
voluto che venisse sepolto a Santa Teresa ma non era possibile:
lui voleva andare a Limina, il suo paese, dove c’è la tomba di
famiglia, quindi andava bene Limina anche per lei.
L’attesa della notizia finisce di essere tale sabato 4 febbraio
2012, poco dopo le nove.
La voce si sparge tempestivamente quanto rapidamente: sms,
mail, telefonate, si incrociano e, in un tempo inimmaginabile
per la sua brevità, sono portatori della ferale notizia: “E’ morto
Cavarra”. E già, il prof. Giuseppe Cavarra, dialettologo e ricercatore
meticoloso nei gangli della cultura popolare, curatore di
innumerevoli testi, autore di pregiate opere letterarie, poetiche,
di narrativa e per il teatro, non è più. Aveva 78 anni e la sua
scomparsa, repentina quanto inattesa per tanti e certa per gli
amici più vicini, lascia sgomenti amici, estimatori e quanti, di
volta in volta, hanno avuto modo di essere partecipi delle sue
molteplici attività.
Voglio ricordare, anche perché mi hanno visto suo collaboratore:
il premio di poesia dialettale “Bizzeffi” di Limina e l’Associazione
Culturale “Pagnocco”, editrice dell’omonima rivista di cui Cavarra
era Direttore scientifico, tutti e due fondati da lui. E voglio
ricordare anche come, assieme all’arch. Salvatore Coglitore,
ha curato la ristampa di “Santa Teresa” di Saitta e Raccuglia e,
assieme all’autore di questa nota, “Forza d’Agrò” di Stefano
Bottari.
La sua ultima opera, “Epopea popolare messinese”, è stata
presentata al Palazzo della Provincia a Messina il 22 dicembre
2011 ed è stata scritta insieme al dott. Michele Spadaro di Patti
(questi scomparso pochi giorni prima della presentazione).
Amante della sua terra, la Sicilia, coltivava un amore profondo
ed inestimabile per il suo paese, Limina, e per la Valle d’Agrò.
La lingua liminese, per Cavarra, era una sorta di mistero sempre
da esplorare: “non si finisce mai – diceva – di capire perché ogni
parola, come ogni motto, per altri incomprensibili, possono
risultare utili ai fini della conoscenza della vita di una comunità
esclusa dalla storia e diventare essi stessi la vita della storia”. Con
Giuseppe Cavarra, Pippo, Peppino, per gli amici, scompare un
caposaldo della cultura agrillina e non solo.
Io sono molto grato a Peppino Cavarra per le tante cose fatte
insieme, per ciò che mi ha insegnato e perché quasi tutte le
mie pubblicazioni portano la sua firma nella prefazione e nella
pubblica presentazione.
La sua dipartita non lascia soltanto un vuoto incolmabile
(“Adesso manca l’interlocutore”, mi ha detto il suo compaesano
amico, scrittore, poeta e critico Sebastiano Saglimbeni da
Verona), la sua dipartita impoverisce senza rimedio perché
viene a mancare, oltretutto, quell’uomo di cultura che con
umiltà, generosità, disponibilità, arricchiva chi gli si accostava.
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LA VOCE di Limina
CULTURA
Giuseppe Cavarra, ricercatore sul terreno
Mario Bolognari
H
o conosciuto il prof. Giuseppe
Cavarra molti anni fa, ai tempi della
pubblicazione del suo volume
Cultura Popolare Liminese. Era il 1978.
Quando, qualche anno dopo, mi recai a
Toronto per un periodo di ricerca e lezioni
alla York University, Peppino mi pregò di
consegnare una copia del suo libro a un
paesano che viveva tra Dufferin Avenue
e St Claire Street, punto di aggregazione
degli italiani. Quell’emigrato, di nome
Filippo, faceva il calzolaio e la sua bottega
era un punto di riferimento per i liminesi
della città.
In quel gesto gentile potei misurare
l’amore che Cavarra aveva per Limina e
per i liminesi sparsi per il mondo. Come
se la sua comunità si fosse estesa in una
dimensione globale e il piccolo paesino
fosse esploso lanciando le sue schegge ai
quattro angoli del mondo.
Come faceva Cavarra a pensare a questo
mondo globale? Poteva pensarlo e capirlo
perché Cavarra aveva una conoscenza
profonda del suo popolo e della sua terra.
Aveva un legame viscerale con i luoghi
della sua vita: Limina, Messina, la Sicilia. Il
suo essere totalmente locale lo rendeva
capace di essere anche globale, senza che
tra le due dimensioni si manifestasse un
conflitto. Anzi.
Lo incontrai il 15 dicembre 2011, in
occasione di una giornata di studio, e
mi fece dono dell’ultimo suo lavoro, un
libro sui personaggi atipici di Messina;
con il suo consueto fervore intellettuale
mi sollecitava a fare qualcosa insieme.
Non potevo immaginare che quella
sarebbe stata l’ultima volta che avrei
visto quel sorridente uomo siciliano
dalle mille intuizioni e dalla esplosiva
intelligenza. Peppino era un animatore
culturale instancabile: ha dato vita a
riviste, collane editoriali, associazioni
culturali; organizzava convegni, seminari,
conferenze; coinvolgeva giovani e meno
giovani; concepiva il lavoro intellettuale in
modo organico, pensiero e azione, teoria
e prassi.
L’uomo era straordinario, ma lo studioso
non gli era da meno. Scrisse poesie in
italiano e in dialetto, racconti, monografie,
saggi, commedie teatrali, articoli su
quotidiani e riviste; e poi si occupava
di teatro, etnomusicologia, etnografia.
Il suo eclettismo era lo specchio della
sua curiosità infinita. Tra i tanti lavori di
Cavarra, scelgo tre monumenti: La cultura
strozzata (1985), Pezzi di vangelo (1989)
e La leggenda di Colapesce (1998). Sono
tre monografie su Messina, nate da una
meticolosa e ricchissima etnografia, una
raccolta del repertorio culturale di una
delle città più massacrate dalla natura
e dagli uomini, alla ricerca continua di
un’identità perduta. Cavarra ha saputo
restituire quella profonda introspezione
che solo gli usi e i costumi, i proverbi e il
mito possono garantire.
Cavarra ha fatto un uso corretto degli
informatori, un classico strumento
della ricerca antropologica sul terreno,
citandoli,
elencandone
i
nomi,
riportando le loro caratteristiche sociali
e generazionali. Esemplare è l’elenco
di circa centocinquanta informatori
contenuto in due dei volumi, testi ricavati
dalla viva voce di persone anziane dei
quartieri e dei villaggi di Messina; una
prova di correttezza nei confronti di quelle
persone e dei lettori, ai quali il professore
forniva tutte le fonti delle sue ricerche.
Un raro esempio di buona etnografia,
insegnamento per i giovani che volessero
intraprendere questo mestiere.
In questi
lavori Cavarra dimostra
la pazienza del raccoglitore di dati
etnoantropologicio e sociologici e
l’intuizione del cacciatore di interpretazioni
scientifiche. Questa capacità e maturità
metodologiche ha consentito a Cavarra
di sfuggire alla sorte di solito riservata
agli studiosi di cose locali, quella di
descrivere senza spiegare, di rinchiudersi
in una localistica esaltazione dell’identità
specifica, senza una visione d’insieme.
Questo difetto si chiama nativismo, cioè
una chiusura autarchica del sapere, inutile
e dannosa. Cavarra, invece, ha sempre
inserito le sue ricerche in una visione
teorica più generale, ha comparato, ha
messo a frutto la letteratura scientifica
internazionale sui diversi argomenti. Le
sue citazioni sono sempre state colte,
segno di una conoscenza non superficiale
della riflessione disciplinare e di un
aggiornamento continuo. “L’attenzione
verso il mondo popolare – scrive in Cultura
Popolare Liminese – è andata crescendo in
questi ultimi anni, ma spesso le analisi,
muovendosi al di fuori dei più recenti
sviluppi teorici e metodologici, non
hanno rilevanza sul piano dell’impegno
scientifico, né mancano equivoci,
deviazioni, ritardi”. D’altra parte, egli fa più
volte esplicito riferimento alla tradizione
di studi alla quale si ispira: De Martino,
Cirese, Lombardi Satriani, ma soprattutto
Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Danilo Dolci,
Elio Vittorini che, come Cavarra, erano
anche letterati.
Negli scritti di carattere etnoantropologico
non troviamo espliciti riferimenti
all’ideologia politica e alla visione della
società che egli privatamente esponeva
con grande chiarezza. Tuttavia, è evidente
che la sua fonte di ispirazione era il popolo;
l’aggettivo popolare ricorre in quasi tutti
i titoli della sua vasta produzione. Per
Cavarra, popolare significava “una cosa
seria e da prendere sul serio”; laddove
l’uomo si esprimeva “nella sua dimensione
sociale e nei suoi conflitti”; espressione
della “molteplicità delle culture”. Rinvii
culturali che chiariscono una scelta di
campo ben precisa: la cultura popolare
è l’espressione dei lavoratori, soprattutto
contadini e braccianti, artigiani e piccoli
commercianti, che la storia voleva mettere
da parte e che la ricerca folklorica ha
prepotentemente rimesso al centro della
vicenda umana.
Da qualche anno questa riflessione
sull’uomo e sulle sue sofferenze storiche lo
aveva fatto incontrare con gli scritti e con
la biografia di Padre Annibale di Francia,
santo messinese. Un giorno d’estate, a
Savoca, mi disse: “Pensa, un aristocratico,
divenuto prete alla fine dell’Ottocento, in
questa città così codarda e fiacca, si mette
a lavorare con i più poveri, donando tutta
la sua vita agli ultimi. Che grandezza, se
pensiamo alla classe dirigente messinese
di oggi”. Aveva scoperto uno scrigno di
impegno civile e sociale e lo metteva
accanto a Francesco Lo Sardo, in carcere
durante il fascismo per i suoi ideali a
favore dei lavoratori. Peppino mi reg on
ho aggiunto nulla, ho lasciato le parole
e le azioni del Santo così come ci sono
pervenute”.
Il prof. Cavarra era veramente un uomo
diverso dagli altri, un po’ Annibale e un po’
Francesco, una sintesi originale di opposte
visioni del mondo che si ritrovano
nell’azione concreta al servizio delle idee
di libertà, di democrazia e di solidarietà.
LA VOCE di Limina
CULTURA
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CAVARRA E LA PAROLA
Javier Vidal
Mi mancano le parole
per tutti i ricordi
che non tramontano mai
Parliamo e una mano sbadata
stende nebbiolina sul monte Avila
la stessa
quella mattina nascondeva
la faccia alle cose
sul monte Kalfa
(G. Cavarra)
F
u nella remota primavera del1997 del passato secolo
quando ho avuto il privilegio di conoscere il poeta
Giuseppe Cavarra nella migliore maniera che si può
conoscere un poeta, attraverso la sua parola viva nella carne
della sua voce. Visitò questa “terra di Grazia” per condividere
con altri poeti venezuelani che incrociavano parole attraverso
la traduzione della parola che non è altro che la concezione
della cultura. “La parola è civiltà” diceva Thomas Mann, e fu il
libro di poesia PALABRAS a dare inizio all`incrocio di andata
e ritorno di quello che è la cultura e la civiltà. Non ci sarabbe
stato cultura senza la discreditata transculturizzazione.
In questo caso un lungo percorso che attraversa il Mediterraneo
e tutto l`Atlantico fino ad arrivare in questa città che si illumina
tutti i giorni all`alba e che il sole dipinge sul nostro monte
Avila con il suo dorato pennello di scrofe tropicali, lo stesso
che occorre col monte Kalfa nella sua terra natale.
Il libro PALABRAS scoprì le affuenze di diversi poeti, di differenti
convergenze e divergenze in tempi di distenzione politica.
Vicente Gerbasi, Juan Liscano, Rafael Arraiz e “l’indio” Santos
Lòpez alzavano la loro voce di una America ispanoparlante e
una voce siciliana come quella di Cavarra si incrociava alla voce
spagnola. Ancora ricordo quella serata nei calidi e sacrati spazi
dei saloni della Chiesa Nostra Signora di Pompei, leggendo
alcune poesie di Cavarra tradotti in spagnolo e al poeta Cavarra
leggendo poesie del poeta Arraiz in italiano. La sua voce
risuonava come un canto leggendario, misterioso, ancestrale.
Erano parole “divine parole” che nascondevano i suoi visi
dietro le maschere di Dante e Petrarca. Fu una serata magica
e risplendente. IL libro stampato, la sua diffusione e il ricordo
vivo di quelle voci sono l`innalzamento del vero origine delle
culture nella sua egemonica tradizione occidentale: la parola.
Cavarra fu un poeta che cominciò a scrivere in italiano e fu
chiudendo nell`inalterabile labirinto del dialetto siciliano,
variante liminese. Una variante che i loro precettori e custodi,
come il proprio Cavarra, l’hanno elevato alla categoria culta
e accademica dell`idioma. Con dizionario e perfino sintassi
grammaticale. Come tutti i dialetti è stato congelato nel
tempo. Nel suo passo lento per le dirupate pietre di Limina
a scarsi chilometri dal mare Ionico, la sua struttura sintattica
parte dei fonemi di un Paese che ha imparato a cantare con
la natura come Giuseppe Bartolotta e Sebastiano Saglimbeni.
Una terra che si nega a morire. Una terra che è un paese. Un
paese che è gente. Gente che è parola e cultura.
In quei primi incontri poetici con Cavarra potevamo
costruirci una geografia semantica che a farsi corpo e alma
nella nostra prima visita a Limina, assieme alla mia famiglia
Restifo capivamo reciproca e reflessivamente i significati di
quelle parole nella struttura arcaica del verso bianco, rotto e
assonante. Erano momenti dove potevamo percepire il lungo
percorso di un Mediterraneo stanco, che rompeva le leggende
del finale di una terra, del finale di storie di amore e guerre da
contare. Era la voce dell`emigrante, del esiliato che attraversa
l`oceano con un pugno di terra madre nella tasca della sua
giacca. Cavarra sapeva distinguere quella voce eretta dell’
emigrante che tratta di non dimenticarsi della sua terra e si
trasforma in un straniero della vita. Chissà la “globalizzazione”
ha qualcosa di esilio. Chissà sia la migliore maniera di definire
la cultura dell’ esilio.
Però un libro ammirabile per la comprensione e sentimento
della cultura liminese fu La spiga nana (Limina e la sua cultura)
nella versione trilingue dove Cavarra ha realizzato un lavoro
di dimensioni che scappano del domestico, del folklorico e
ordinario. Mi riferisco alla compilazione di voci di quell’ esilio
interno ed esterno che oggi definisce la cultura liminese.
Cavarra raccoglie in questo libro di Editorial Melvin una
dozzina di poeti che cantano un paese lontano incarnato
nell`anima delle mancanze facendoci capire implicitamente
che i paesi non sono solo terre promesse, ma anima di uomini
e donne attraverso il sinuoso percorso della storia. Non voglio
fare comparazione fra i liminesi e il popolo ebreo, però la storia
degli ebrei si sostiene nella diaspora di una terra assente in
piani ed altipiani, geografie e frontiere limitate nelle mappe
da punti e linee. Così succede oggi quando arrivato l’inverno il
paese di Limina si riduce a un centinaia di vicini rinchiusi nelle
loro case.
L’analisi di Cavarra per la cultura liminese, siciliana e per
estensione mediterranea, è precisa e tangibile. Il poeta non
tratta castelli né palazzi, né navi né aeri, né indumenti di lusso
né scarpe di marca milanese. Dota il più concreto che ha l`uomo
nell`apocalisse negli anni a venire: la parola. Ed è nella parola
continua, tangibile, viva sillaba per sillaba che Cavarra si eleva.
Assai dentro della sua anima, di quella pietra chiamata Limina
e di questa Limina che vive con maggiore fragore e vigore fuori
del principato delle Due Sicilie. Nell`ultima e profonda istanza,
la Cultura sempre precede alla politica e mai ci sarà politica
sostenibbile e attiva senza la cultura. Perché? Perché senza la
parola niente è verosimile nel percorso della vita e della storia.
La parola è la traduzione del mondo che viviamo attraverso
i cinque sensi. La parola trapassa il tempo e la dimensione
sconosciuta che solo la menzoniamo di memoria attraverso la
parola stessa e il mondo parallelo che converge nell`infinito.
Cavarra, come i buoni poeti, non morirà, vivirà attraverso il
suo sviluppo di parole che consegnò per sempre a un pezzo di
terra, a un pezzo di cultura che vive fuori della sua terra.. Una
terra che al perdere una delle sue parole, lotta per conservare
l`anima di queste parole che limitano il suo proprio nome, la
sua propria cultura, il suo proprio sentire, la sua propria anima
I fùttiri mi nchjànunu
Quannu cci sentu diri:
Limina, liminoti
Limmina¡ Limminoti¡
Cu ddu emmi, santu diauluni.
U mia è mpaisi picciriddhu:
chi cci livati ddhu picca ca jàvi? (G. Cavarra)
La stizza mi sale/ quando gli sento dire:/ Limina, liminoti/
Lìmmina¡Limminoti¡ Con due emme, santo diavolone!/ Il mio è
un paese piccolino:/ gli togliete quel poco che ha? .
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LA VOCE di Limina
CULTURA
La volta di Cavarra
L
Pietro Saglimbeni
imina non ha archi, colonne o rinomati resti archeologici
le sue antichità sono nelle parole” ricordando il professore
Giuseppe Cavarra mi viene alla mente questa sua frase che
cito a memoria.
Non saprei più riferire in quale occasione delle sue moltissime
attività culturali: presentazione di libri, premi letterari, recita
poetica o musicale, conferenza o altro, lui l’abbia pronunciato
ed io ascoltato tenendola in mente per sempre.
Di ritorno dalla mia emigrazione all’estero ho conosciuto
questo “limminotu”, come lui amava definirsi, quale persona
colta e come cultore di dialetti, di letteratura e di tradizioni di
Limina, della Valdagrò e della Sicilia tutta. Peppino Cavarra ha
studiato e coltivato ogni tema della cultura popolare.
Una cultura fondamentale senza la quale non c’è passato e di
conseguenza non ci può essere futuro.
Il professore, come mi piaceva chiamarlo, nel ricercare questo
passato nei meandri delle nostre tradizioni vicine alla terra,
che ci che hanno fatto nascere e crescere, affrontava per se e
per tutti noi un presente più consapevole e metteva le basi
per la futura memoria, parafrasando Sciascia.
Ogni ragazzo di scuola o studioso delle realtà della nostra
vallata e della Sicilia negli anni a venire, per saperne di più,
dovrà confrontarsi con qualche libro del nostro professore.
Si tratti di poesia, di tradizioni religiose, di musica, ma anche,
la raccolta di artefatti e di fotografie.
Peppino Cavarra amava la sua terra ed il suo lavoro ed
attraverso il suo studio ha fatto amare questa terra le sue
tradizioni a tanti di noi in modo più maturo e critico.
L’opera del Cavarra ha fatto sorgere e crescere, per il nostro
territorio, una colonna di libri e di conoscenze, sostituzione
ideale di quelle colonne archeologiche che non abbiamo mai
avuto.
I suoi testi vanno dal prezioso volumetto “Americanismi
Liminesi” fino a “Carusanza” (poesia dialettale) passando per
“Suite per l’allodola” (in lingua), “Sdirregnu” e “Palori” (poesia
dialettale), “Arghennakron” (teatro).
Molte sono anche le sue “ricerche” quella che personalmente
considero come il dono più prezioso per noi cittadini del
nostro tempo, in questa Valle d’Agrò ed in questa Sicilia, è il
corposo lavoro “Cultura Popolare Liminese”.
Questo è un libro/miniera di cultura che nasce dalla terra di
Limina, dai suoi Mandrazzi, dalle sue Portellerosse, dalle sue
Cannati. Un libro miniera di parole e sentimenti che nasce
dalle sue soglie di pietra arenaria dove sedevano i contadini
stanchi la sera. Un libro che nasce dalle gole arse di “cantaturi”
e “pueti”.
Peppino Cavarra ha il gran pregio di aver girato contrate,
“vaneddi” e case per cercare quelle persone e quelle voci
ancora capaci di ricordare e di parlare.
Ha raccolto tutto, per se stesso, per noi e per tutti quelli che
verranno in futuro.
La grande passione dell’autore, scrittore e poeta Cavarra
sono le parole, non solo quelle dialettali e non soltanto in
lingua italiana ma anche, si fa per dire, quelle “straniere”.
Che per il nostro professore non erano mai aliene perché
riusciva sempre a trovarvi un collegamento vicino a noi, un
collegamento di umanità. Del resto la parola parlata e, dopo,
la parola scritta è tuttora il primo fattore che ci fa essere
umani.
Ho avuto la fortuna di apprezzare da vicino la felicità e la
facilità di Cavarra con e per le parole, in due occasioni che
sono stato membro della giuria del Premio di Poesia Bizzeffi.
Il professore presiedeva la giuria con spontaneità e
leggerezza, le sue letture erano pertinenti e penetranti ed il
nostro lavoro diventava divertimento.
Leggo questo suo amore per le parole in una sua poesia da
“La spiga nana” titolata “Cunzolu”
(sollievo o consolazione) :
Sta matina jàiu supra a mani na palora
cu-ll’òcchju sciruccatu.
Chi-ccunzolu quannu a jàpru
e-nnintra a trou chjina chjina comu n’ou.
Nella traduzione :
Stamattina ho sulla mano una parola
con l’occhio sciroccato.
Che sollievo quando la apro
e dentro la trovo piena piena come un uovo.
Giuseppe Cavarra ha mostrato generosità ed interesse
anche per le “parole altrui”, potremmo dire, per le parole del
prossimo. Questa sua attitudine ha prodotto: “La Lingua tra
i denti” di Bizzeffi ed altri due libri degni di nota pubblicati
dopo la scomparsa degli autori.
“Storia di vita” di Filippo Lapi e “Il dolore della conoscenza” di
Tino Parisi.
Dando così voce ed eternità a persone e storie da non
dimenticare.
Considero l’amico Peppino Cavarra un mio ideale “maestro”
nel significato antico di “magister”, come lo sono Sebastiano
Saglimbeni e Bizzeffi.
Penso a quelle persone che pur non essendo i nostri maestri
naturali come i genitori, i nonni e gli insegnanti che ci
troviamo a scuola lasciano, comunque, una traccia indelebile
dentro di noi.
Persone capaci di creare che seminano memoria.
Si può lasciare memoria con i geni come fanno animali
e piante, o con la cultura, come possono fare soltanto le
persone.
La cultura come la intendeva Cavarra, quindi anche quella
popolare, è anche l’unico modo che abbiamo per aspirare
tutti ad un pizzico di immortalità.
Grazie professore!
LA VOCE di Limina
CULTURA
All’Amico PEPPINO CAVARRA
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Vincenzo Mancuso
i potrebbe pensare che tra il mondo dei vivi e
quello dei morti non esistono vie di comunicazioni:
noi siamo, noi esistiamo; essi furono, essi esistono.
Ma essi furono solo per chi non ha ricordi, per chi
non ha agganci con coloro che non sono più, perché
soprattutto non ha amato le persone scomparse,
perché l’amore è l’unica sopravvivenza, l’unico ponte
tra essi e noi. Ed è l’amore, infatti, quello che mi vede
scrivere di Peppino Cavarra e a farlo sentire ancora vivo
in mezzo a noi. La dimenticanza copre spesso d’oblio
uomini e meriti anche di figure maggiori di un passato
recente. Eppure la luminosa figura di Peppino Cavarra
ha profondamente inciso nella cultura, dentro e fuori
i confini della nostra Provincia. Caratteristiche di
questo spirito eletto furono la semplicità, la modestia
del vivere, la prudenza nel giudicare, la giustizia tanto
cara nel costume e nell’agire quotidiano.
Il suo grande valore professionale, la sua notevole
personalità poteva farne un campione, un padrone
della politica del suo tempo e di quella corrente e
ordinistica della nostra Provincia.
Eppure egli non fu tale, per mancanza di autoritarismo,
di spregiudicatezza, di aggressività sia verbali che di
atti, che la sua educazione gli vietava: non usò mai
il proprio prestigio per dominare o imporre interessi
personali, se non quelli di puro merito.
Penso non serva ripercorrere le tappe del nostro
rapporto, né serva citare gli episodi che mi videro
cercare in lui momenti di conforto e spazi di speranza
quando eventi difficili mi hanno portato a chiedere il
suo parere, ogni elogio, ogni citazione mi appaiono
paradossalmente limitativi.
Per capire bisogna averlo conosciuto, essergli stato
accanto anche se per poco. Tessere lodi è come
voler sprecare parole che potrebbero, all’estraneo,
sembrare solo di circostanza.
Le sue doti di lealtà adamantina, associata ad uno
spirito di sacrificio e ad un senso del dovere che
travalicano di molto i confini del comune operato
del docente; il suo codice di comportamento di
fronte a qualsiasi evento, che ha rappresentato per
tutti sicuro modello di riferimento; la sua statura
morale, scientifica e culturale, che tante volte ci
ha lasciato sorpresi ed ammirati di fronte a tanta
ampiezza di orizzonti; quel suo modo di intendere i
valori della famiglia e dell’amicizia; ma, soprattutto,
la sua incommensurabile bontà; quella ammirevole
generosità, della quale tutti abbiamo tratto profitto
a piene mani, non sempre ricompensando, anche in
termini di semplice gratitudine, quanto avevamo da lui
ricevuto; ed ancora, quale sua peculiare prerogativa,
una visione superiore, serena e disinteressata, dei
problemi e delle vicissitudini che quotidianamente
si affollavano nella sua intensa giornata di lavoro.
Il suo atteggiamento era sempre misurato, e non
disgiunto da una sfumatura di umorismo, il che la
dice lunga sullo spessore del personaggio: di fronte
al sottobosco delle beghe quotidiane, degli intrighi,
degli affari e degli interessi con i quali doveva pur
commisurarsi, Peppino lasciava trasparire una sottile
quanto deliberata volontà di prendere la distanza da
ogni grettezza di ambiguità e di inganno: anche se,
proprio in virtù di quella geniale riserva di humor che
arricchiva il suo vivere quotidiano, amava camuffare
questa volontà non accorgendosi – o meglio, facendo
finta di non accorgersi – di quei piccoli stratagemmi
di bassa lega che lo zelante interlocutore di turno gli
prospettava come soluzione vincente per il problema
che gli stava a cuore; sì che un osservatore poco
attento avrebbe potuto scambiare per vulnerabile
ingenuità un comportamento che rispondeva
essenzialmente alla determinazione del rifiuto verso
qualsiasi compromesso.
E’ scomparso in silenzio quasi a non voler dar fastidio;
a non voler pesare, di fronte ad eventi superiori, lo
scomodo di una incombenza dolorosa ancorché
momentanea. In pieno ossequio al suo stile di vita
– improntato a dare sempre, senza lasciare spazio
alcuno alla possibilità di chiedere ad altri qualcosa
per sé – ci ha lasciati, sgomenti ed increduli, dopo
averci consentito di poter accorrere in suo aiuto, lui
che l’aiuto lo aveva sempre prodigato per una vita.
Per quanto personalmente mi riguarda, nel chiudere
il mio commosso omaggio con la sensazione di aver
parlato di una creatura universale, riaffiora nella mia
memoria l’eco di una canzone popolare argentina,
che mal tradotta così si esprime: quando se ne va
un amico – lascia un vuoto – che mai la presenza di
altro amico - potrà colmare ( Cuando un amigo se
va – queda un espacio vacio – que no puede llenar la
presenzia de otro amigo ). Quel vuoto, caro Peppino,
è in noi colmato per sempre dalla luce che prorompe
dal tuo ricordo.
12
I
LA VOCE di Limina
CULTURA
GIUSEPPE CAVARRA
n occasione della scomparsa di
una persona cara o, comunque,
“importante”, è difficile che ci si
sottragga dalla retorica se non
dalla esagerazione.
Gli aggettivi roboanti, le “frasi
fatte” abbondano: la scomparsa
di quella persona “lascia un vuoto
incolmabile”, e similia.
Ebbene: quando, improvvisamente
(ci eravamo visti, “parlati” e salutati
pochi giorni prima), ho appreso
della scomparsa di Giuseppe
Cavarra, a parte il groppo alla
gola
causatomi
dall’evento,
quando ho cercato di dedicargli
qualche espressione di affetto e
di stima, non mi veniva in mente,
sulle labbra, nelle dita che le
compilavano, altro che proprio
quelle “frasi fatte”, proprio quegli
aggettivi enfatici e chiaramente
retorici.
Il fatto è che non potevo farne a
meno, perché quelle frasi, quegli
aggettivi nel caso di Giuseppe
Cavarra erano non solo azzeccati,
ma addirittura inadeguati.
Perché
Giuseppe
Cavarra,
andandosene così presto (la
vecchiaia è l’unico male davvero
incurabile, a causa del quale
tutti i “pazienti” indistintamente
muoiono), ci ha davvero lasciati
orfani, ha davvero lasciato un
vuoto incolmabile che, purtroppo,
allo stato delle cose, non sarà,
certo, più colmabile.
L’apporto del prof. Cavarra alla vita
culturale di Messina, il ruolo che
Nazareno Saitta
Lui si era ritagliato nell’ambiente
dell’Ospe, ossia della cultura
dell’intera città di Messina (tutto
il resto è veramente, il vuoto!)
sono stati di livello altissimo ed
esclusivo.
Se nel premio Vann’Antò in lingua,
il prof. Cavarra si era sempre,
con umiltà forse eccessiva,
defilato lasciando ad altri compiti
organizzativi e valutativi, nella
versione dialettale del Premio il
suo contributo fu sino all’ultimo,
determinante. A questo Premio
egli aveva saputo apportare
una competenza tecnica che Lui
possedeva ai massimi livelli, e non
soltanto per la poesia dialettale
siciliana ma perché “maestro” e
profondo conoscitore delle mille
sfaccettature della poesia dialettale
italiana. Da qui il collegamento
con analoghe iniziative che
andavano proponendosi nelle
varie regioni d’Italia, realizzandosi
una simbiosi che in certo senso
“internazionalizzava” il Premio
Vann’Antò in dialetto siciliano (nei
dialetti siciliani, anzi, variegati
ed innumerevoli), assicurandogli
ulteriore e più larga risonanza e
prestigio.
La “professionalità” (nel senso più
alto del termine) della giuria del
Premio, che Cavarra e Peppino
Miligi ogni volta assemblavano
(nelle ultime edizioni rimase
sempre la stessa: cosa c’era di
meglio?), era la garanzia principale
del livello culturale del Premio.
E come tacere delle manifestazioni
di contorno (si fa per dire, perché
il termine è riduttivo ed offensivo,
mi scusi il lettore), che Giuseppe
Cavarra sapeva ogni volta
realizzare soprattutto come autore
e sapiente recettore di stilemi
musicali? Uno spettacolo nello
spettacolo.
Tutto questo grazie a Giuseppe
Cavarra.
Aggiungo solo una annotazione
di carattere personalissimo: la
decisione - presa all’unisono con
Peppino Miligi – di affiancare,
nell’intestazione del Premio, al
venerando nome di Vann’Antò (mio
maestro di vita e di scuola), quello
di Antonio Saitta, di mio padre, che
nella poesia dialettale (ma anche in
quella in lingua) trovava un motivo
di ulteriore affinità elettiva con i
due “Giuseppe” sopra nominati.
Quella decisione che, chi scrive
accettò con una certa riluttanza,
per ovvie esigenze di delicata
incompatibilità
essendo
presidente del premio, ha
ulteriormente stretto i miei legami
con Giuseppe Miligi e Giuseppe
Cavarra.
Ad entrambi la mia perenne
gratitudine, non soltanto a titolo
personale, ma a nome di quella
piccola ma inimitabile, e difatti
inimitata, insostituibile e difatti
insostituita,
cellula
culturale
dell’Ospe della quale Giuseppe
Cavarra rappresentò una gemma
di valore primario.
LA VOCE di Limina
CULTURA
13
GIUSEPPE CAVARRA:
IL PROFESSORE CHE VOLEVA INSEGNARE A FARE LA VERA STORIA
Basilio Maniaci
C
on il Professore Giuseppe Cavarra ci siamo incontrati per
la prima volta, ufficialmente, agli inizi del Terzo Millennio,
quando già eravamo andati in pensione tutt’e due. Lui,
ex Professore di Italiano e Latino, aveva insegnato al Liceo
Classico “Giuseppe La Farina”, io, ex Vicecapo Correttore, ero
stato dipendente della “Gazzetta del Sud”. Avendo lavorato
per tanti anni nella stessa città chissà quante volte ci eravamo
incontrati, precedentemente, per le vie del centro o in altri
posti del circondario rimanendo, però, sempre sconosciuti l’uno
all’altro. Perché, essendo originari di paesi che si trovano ai lati
opposti della provincia di Messina (lui di Limina, che sorge sul
versante jonico, e io di Piraino, che sorge sul quello tirrenico),
frequentavamo ambienti e amici diversi. Perciò rientrava, e
sarebbe rientrato, nell’ordine naturale delle cose non esserci
conosciuti prima e non conoscerci nemmeno dopo.
Ma, alle volte, anche i punti lontani si incontrano e si uniscono
tra di loro così come accadde nel nostro caso, che, andati in
pensione, ci eravamo messi a far volontariato in nome di una
specie di “pedagogia civile”, cioè al servizio della valorizzazione
e della divulgazione, lui della “retta” informazione, io della “retta”
storia, con lo scambio, libero, autonomo e non concordato
con nessuno, dei nostri ruoli ricoperti precedentemente.
Vale a dire: io, che provenivo dal settore dell’informazione,
ero entrato nel mondo dell’insegnamento come Docente di
Storia Locale all’Università della Terza Età di Messina, lui, che
proveniva dal mondo dell’insegnamento, era entrato nel settore
dell’informazione come Fondatore della rivista “Pagnocco Rassegna quadrimestrale di cultura e informazione”.
Coerentemente al primo postulato della retta della geometria
euclidea secondo il quale, dati due punti, esiste una e una
sola retta che li incrocia e li unisce entrambi, Cavarra in uno
dei primi numeri di Z scrisse: “Noi teniamo molto al retto
ruolo che l’informazione dovrebbe svolgere nella vita di una
comunità, convinti come siamo che tra i primi doveri di chi
intende informare c’è quello di presentare situazioni reali e
prospettare soluzioni grazie alle quali il cittadino possa aspirare
a una migliore posizione professionale e a un più alto prestigio
sociale. Noi ci siamo visti costretti a fondare il nostro periodico
perché abbiamo visto che i responsabili di altre testate, per
soddisfare le ambizioncelle di qualche protagonista locale,
venivano adagiandosi nella comoda posizione dell’asetticità
o del silenzio. Strani i giochi che costoro mettono in atto: da
una parte sostengono che la cultura rappresenta una delle
poche possibilità autonome di cui l’uomo dispone per edificare
una coscienza civile e, dall’altra, nulla fanno perché la cultura
schiuda le prospettive di un sapere capace di fornire a ogni
iniziativa la misura e il posto che le spettano. Così facendo, si
procurano la stima del politico maneggione, ma rinunciano al
ruolo di intellettuali che si battono per un sapere che abbia tra
i suoi perni l’elaborazione di un razionalismo scientifico capace
di proporre valutazioni e suscitare interrogativi. Ciò non aiuta la
gente ad attuare il proprio essere nel mondo”.
Le sue parole e il suo progetto galvanizzarono per subito
l’attenzione e la collaborazione di circa un centinaio di soci-
sostenitori attorno al “Pagnocco” perché ben consapevoli del
fatto che solo il retto incontro con la storia è l’occasione per gli
uomini di capire se stessi, non le tante celebrazioni del passato da
idolatrare a ogni costo, così come sono soliti fare i fanfaroni della
retorica che, per esempio, hanno fatto correre il rischio, persino
alle celebrazioni del centenario del terremoto del 28 dicembre
1908 di Messina, di fargli assumere valenze e interpretazioni
estemporanee. Evitando di far capire che il terremoto divenne
per i messinesi la causa di una serie infinita di …flagelli, non
tanto per le dinamiche naturali scatenate dal sisma, bensì per
quelle messe in atto dalle classi dominanti.
Subito dopo il terremoto del 1908, nel nuovo “Quartiere
Americano” – allestito dagli americani con il pregiato legno
di pitch-pine fatto arrivare dalle loro disboscate foreste,
come dimostrazione pratica della loro solidarietà derivante
dall’ideologia messianica del “destino manifesto” dell’America,
e dove si erano trasferiti la maggior parte dei superstiti dal
magistrato al postino, dall’avvocato all’infermiere, dall’artigiano
al maestro elementare, dal negoziante all’impiegato statale,
dal piccolo industriale al barbiere, dal dirigente d’azienda
al falegname, dal farmacista all’idraulico, dal professore
universitario allo spazzino –, il mondo ante-terremoto messinese,
con le sue antiche distinzioni e distanze sociali, era scomparso
per sempre e ne era nato uno nuovo in cui ogni occasione era
buona per manifestare la propria solidarietà a chi si trovava in
situazioni difficili. Nel “Quartiere Americano”, strutturato con
tutta la dote infrastrutturale della “civiltà” americana, crebbero
e si formarono quasi tutti i “figli del terremoto” che in seguito
divennero esponenti non solo della intellettualità cittadina
ma elementi di spicco della cultura nazionale e internazionale:
Salvatore Quasimodo, Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti,
Antonino Giuffrè, Giuseppe Raneri, Guido Ghersi, ecc.
Ma, a poco a poco, i vecchi ceti dominanti riuscirono a rifondare
il proprio mondo, imponendo non solo il vecchio ordine sociale
classista, ma anche una solidarietà classista, una ricostruzione
con una urbanizzazione e infrastrutturazione classista,
un’informazione classista, ecc.
Toccò al “Pagnocco” ricordare la storia della “solidarietà classista”
già denunciata, nel 1910, da Giacomo Longo, in “Un duplice
flagello: il terremoto del 28 dicembre 1908 e il governo italiano”:
“In media, ogni superstite avrebbe dovuto vedersi recapitare
mille lire, ma ci fu chi ricevette un sussidio di cinquanta lire annue
come chi diecimila. E non sempre chi riceveva di più presentava
un maggior bisogno: inspiegabilmente la signora Giulia
Catanzaro, vedova Trigona, ricevette un sussidio di diecimila
lire annue, vedendosi piombare una fortuna nelle sue tasche,
mentre la signora Bonanzinga, vedova senza alcuna proprietà,
ricevette un sussidio di appena cinquanta lire; la vedova del
facoltoso colonnello Cappuccio, ebbe un sussidio di cinquemila
lire annue, pur godendo di una rendita familiare di trentamila
lire annue; la vedova del “milionario” Pulejo, proprietario dei
Molini Gazzi, e quella del ricco Trombetta, ebbero entrambe
sussidi di cinquemila lire annue. E cifre più ricche arrivarono
nelle tasche dei professori Buscemi e Oliva. Il colmo fu raggiunto
14
CULTURA
allorquando tre signore di Castroreale, le sorelle Licari, pur non
essendo state coinvolte nel terremoto e non avendo perso alcun
familiare a Messina (solo un paio di botteghe), ricevettero dal
Governo un sussidio di ben mille lire pro capite”.
Così come toccò pure al “Pagnocco” ricordare la storia della
ricostruzione di Messina, che – dopo una dura battaglia tra il
politico messinese di statura nazionale, on., avv., Ludovico Fulci,
capo indiscusso della potente massoneria giustinianea in Sicilia;
il catanese, avv. Gabriello Carnazza, ministro dei Lavori Pubblici;
l’arcivescovo di Messina, Mons. Angelo Paino; e Benito Mussolini,
capo del Governo Fascista –, ebbe luogo nella seconda metà
degli anni ’20 con una “urbanizzazione e infrastrutturazione
gerarchizzata” prettamente della “civiltà” fascista. Infatti, dopo
l’incendio (doloso?) dell’ex “Quartiere Americano” del 10 luglio
1924, il Governo Fascista con R.D. del 4 settembre del 1924
dispose la creazione di una “Direzione Generale dei Servizi
Speciali” presso il Mistero dei LL.PP. che, dopo “speciali studi”,
divise la popolazione messinese in tre grandi categorie (oltre
a quelle degli impiegati statali e degli ordini religiosi): medioalto ceto, popolare e ultrapopolare. Anche la tipologia delle
case, dell’allocazione, dei servizi, ecc., fu decisa da quest’organo
centrale creato nella capitale romana, posto sotto il controllo
diretto del duce.
Per la categoria “medio-alto ceto” furono ricostruiti, al centro,
palazzi antisimici e di un certo pregio, fra cui alcuni ancora
fanno bella mostra di sé. Per la categoria degli “impiegati statali”
si provvide con le cosiddette case Incis, con criteri separati e
ben definiti adeguati alle loro esigenze. Per quanto riguarda gli
ordini religiosi, l’arcivescovo, Mons. Angelo Paino, confessò in
un’intervista al “Popolo d’Italia”: “Ebbi dal Duce più di quanto mi
aspettassi, più ancora di quanto richiedessi. Dovevo imporre un
limite alle mie richieste, visto che lui non sapeva porre un limite
alle sue concessioni”. Per la categoria “popolare” si costruirono, in
zone semicentrali, “fabbricati bassi, brutti e tristi che – così come
scrisse Alberto Moravia, nel 1959, sulla rivista “Il Mondo” –, non
fanno pensare alle monarchie normanne, aragonesi, spagnole,
borboniche, ma allo Stato italiano, quello dei ‘Sali e Tabacchi’,
del chinino…”. Per la popolazione appartenente alla categoria
“ultrapopolare” furono costruiti 28 rioni fuori del Prg – i cui nomi
sono: 1) Fondo Matteotti, 2) S. Licandro, 3) Fondo De Pasquale,
4) Fondo Basile, 5) Ritiro, 6) Fondo Lauritano, 7) Fondo Polimeni,
8) Fondo Tornatola, 9) Fondo Basicò, 10) Fondo Ruggeri, 11)
Bisconte, 12) Camaro, 13) Fondo Martinez, 14) Fondo Pulejo, 15)
Fondo Ragusa, 16) Fondo Romeo, 17) Fondo Pugliatti, 18) Fondo
Genovese, 19) Fondo Saccà e Picardi, 20) Valle degli Angeli; 21)
Ferrovieri, 22) Mangialupi Vecchio, 23) Villa Quiete, 24) Gazzi
Ultrapopolare, 25) Fondo Cassibile, 26) Gazzi 27) Gazzi Rione
Taormina, 28) Fondo Granata –, con casette-baracche senza
alcun servizio e/o opere pubbliche “civili” e con superfici che
costrinsero (e continuano a costringere) diverse generazioni di
messinesi a vivere in spazi angusti, in completa promiscuità e in
condizioni igieniche malsane, generando la cosiddetta “sindrome
della baracca” (che alcuni vogliono addebitare a una specie di
particolare Dna dei messinesi), ma che, invece, è stata provocata
dalle condizioni particolarmente degradanti e umilianti create
dalla gerarchizzazione urbana attuata dal Governo Fascista che
a distanza di un secolo fa sentire ancora appiccicata addosso
(sia a coloro che ancora vivono nelle casette-baracche e sia a
coloro che, nel frattempo, sono riusciti a diventare proprietari
di appartamenti di nuova costruzione), la scomoda etichetta di
LA VOCE di Limina
“abitante delle baracche” o “discendente delle baracche”.
“La storia che ci è pervenuta – ha scritto lo storico Carlo
Ginzburg in una sua preziosa annotazione – è stata scritta
sempre secondo i quadri di riferimento dei ceti dominanti. La
cultura dominante e la cultura popolare hanno giocato sempre
una partita ineguale, in cui i dati sono truccati. Dato che la
storia riflette i rapporti di forza tra le classi di una società, le
possibilità che la cultura popolare lasciasse una traccia di sé, sia
pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo era ancora
così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, continuare ad
accettare i consueti criteri di verificabilità e di celebrazione del
passato, significa continuare a esagerare indebitamente il peso
della cultura dominante”.
Lo stesso concetto il Professore Cavarra lo espresse in una delle
sue tante poesie, composte in dialetto liminese: “Nni fannu storia i
palori? \ I libbra sunnu chjini di palori: \ forsi màncunu sulu chiddhi
\ ca fannu a vera storia. \ Ntà storia nan ci sunnu i mataruni \ ca
nan sannu cantari \ e stràzzunu a sintina, \ nan ci sunnu l’aceddhigabbiani \ ca nan hannu nitu e-nnan sannu \ ca jia dòrmiri a-ssonnu
funnu, \ nan ci sunnu i ddhraunari \ ca pàssunu e scippunu cu-ttutti
ì rràdichi \ l’arbureddhi ca dòrmunu a-ssonnu chjinu, \ nan ci sunnu
i lamenti di ggroi \ ca stanchi si trascinunu celu celu, \ nan ci sunnu
i viòli can tè bbòschira si jàprunu e-nnuddhu sapi \ sa-ppòrtunu
a-cquacchi bbanna. \ Ntà storia com’è-fatta \ manca puru u ventu
ca cci scippa \ certi notti l’ali è stiddhi, \ i sfarina e i jètta ntè marri.
Menu mali ca unni manca a storia \ nèsciunu i paràbbuli”.
Traduzione: “Ne fanno storia le parole? \ I libri sono pieni di
parole: \ forse mancano solo quelle \ che fanno la vera storia.
\ Nella storia non ci sono le ghiandaie \ che non sanno cantare
\ e lacerano l’udito, \ non ci sono i gabbiani \ che non hanno
nido e non sanno \ cosa sia dormire a sonno profondo, non ci
sono gli uragani \ che passano e portano via con tutte le radici
\ gli alberi che dormono a sonno pieno, \ non ci sono i lamenti
delle gru \ che stanche si trascinano cielo cielo, \ non ci sono i
viottoli 1 che si aprono nei boschi \ e nessuno sa \ se portano
da qualche parte. \ nella storia così com’è fatta \ manca pure il
vento che strappa \ certe notti le ali alle stelle, \ le farina e le
butta nelle pozzanghere. \ Meno male che dove viene meno la
storia \ spuntano le parabole”.
Il Professore Cavarra si riferiva alla parabola del Libro
dell’Apocalisse, paragrafo 21, che dice: “Allora Dio dal suo
trono disse: ‘Ora faccio nuova ogni cosa”, perché il Professore
Cavarra sapeva che agli storici è consegnata una piccola forza
messianica: la rivelazione della verità sugli avvenimenti del
passato. “Il futuro – scrisse Walter Benjamin – diventò per gli ebrei
un tempo attraverso il quale poteva entrare il Messia. Lo storico
non deve trarre minore aspettativa nell’entrare in una stanza
del passato che bisogna strappare con un balzo di tigre perché
ha luogo in un’area in cui comanda la classe dominante”. Ma
siccome molti storici – che specie dopo la perdita del Professore
Giuseppe Cavarra che voleva insegnare a fare la vera storia
tramite il “Pagnocco” – continuano a rifuggire più di prima dal
loro dovere di fare i veri “storici”, per l’avvento del nuovo mondo
forse bisognerà aspettare una rivoluzione\sconvolgimento che
non arriverà dall’uomo ma dalla natura che sa riprodurre come
per calco l’ordine naturale delle cose in ogni tempo
LA VOCE di Limina
CULTURA
15
GIUSEPPE CAVARRA E L’IRONIA ANTROPOLOGICA
Francesco Cuzari
C
omporre in forma scritta un ricordo sarebbe facile
qualora si trattasse soltanto di lasciar scorrere il fiume
della memoria e abbandonarsi ad esso. E’, invece,
una missione improba quando sottintende la maturata
consapevolezza che ciò che è stato ha smesso di essere;
che, dunque, la pacata e straordinariamente fresca voce di
Peppino non sarà più all’altro capo del telefono.
Genera rabbioso sconcerto l’idea che a strapparcelo
sia stato, per un destino che sa di beffa, proprio il supporto
biologico della sua mente fuori dall’ordinario, quasi abbia
ceduto per troppa conoscenza della realtà. Alle soglie degli
ottant’anni, la sua brillante persona era la dimostrazione
tautologica che la giovinezza – ben lungi dal ridursi a
mero fattore numerico, cronologico, anagrafico – è uno
stato interiore, un luogo dello spirito. Lo incontravo in
momenti prodighi di vento (amava ascoltarlo e lasciarsene
avvolgere), sempre incline a esporre, con entusiasmo,
nuovi progetti. Dei quali era un’autentica fucina, da
intellettuale consapevole dell’importanza del dato storico
ma, soprattutto, di come questo dovesse rimanere al
posto che la logica gli assegna. Un passato da apprendere
e rammentare e che, tuttavia, è pur sempre una congerie
di eventi trascorsi; dal cui fondamento (e insegnamento)
muovere per proiettarsi, con slancio, verso il presente e il
futuro, guardando avanti e non indietro.
A colloquio nel suo studio lo ascoltavo, rapito,
mentre descriveva personaggi e situazioni della natia
Limina osservata con occhi da bambino; o gli incontri
con Pugliatti e gli altri della Scocca – di cui, adesso, non
rimangono più superstiti – presso la Libreria dell’OSPE.
Parlava piano, scandiva e e assaporava ogni sillaba delle
sue attualizzate narrazioni, che non disdegnavano toni
sognanti; eppure mai, nemmeno una volta, l’ho visto
indulgere alla malinconia gratuita, al nostalgismo sterile.
Il suo dispiacere scaturiva dal raffronto fra un mondo
perduto e la condizione odierna di una città che era stata
culturalmente fertile e che adesso si crogiola compiaciuta
fra le brume dell’inerzia espressiva e sostanziale. Però
non alzava bandiera bianca. Tramite la rivista “Pagnocco”,
fino all’ultimo, aveva cercato di agire, di svegliare almeno
qualche coscienza in più.
Lo strumento principale di cui si avvaleva, con
abilità innata e fulminante, era la battuta sarcastica, seguita
da una succulenta ilarità che gli si sprigionava dall’intero
viso. Riflettevo – non gliel’ho mai detto – su come il suo
stile rappresentasse la prosecuzione di Pasquino e delle
pasquinate (con la differenza, pregevole, che non si
trincerava dietro l’anonimato). Se qualcuno dei “potenti”
faceva o diceva una stupidaggine in sua presenza lui,
senza abbassarsi a un’invettiva fine a se stessa, ridacchiava
sornione e faceva partire una bordata devastante per
la raffinata sagacia. Un giorno, sentito il mio cagnolino
abbaiare furiosamente, disse che lui avrebbe esternato col
medesimo impeto la rabbia nei confronti dei politici.
Ma, al di là dello squisito sense of humor, in questo
modo di fare si celava una ragione in più. Peppino aveva
capito che una frecciata carica d’arguzia era l’arma più
valida in un contesto in cui l’ironia è merce rara (stendendo
un velo pietoso sulla pressoché ignota autoironia). Ne
conosceva bene la forza propulsiva, che dosava mirando
e prima di far fuoco; non tanto, o non solo, per rispondere
all’interlocutore quanto per lanciare un destabilizzante
elemento di frattura in un sistema statico, sovvertire
l’immobilismo e scuotere. Un gesto di sana irriverenza
che lui, uomo libero, poteva permettersi; e che, da
antropologo esperto qual era, valutava poi nell’impatto
sociale, collettivo.
Talvolta parlavamo di letteratura (ad esempio
scambiando considerazioni estetiche su Dante) e io
soffrivo, poiché avrei fatto follie per esser stato suo
allievo a scuola e percorrerne con lui l’intera storia, dalle
origini. Quindi capitava che declamasse una sua poesia,
estimatore di un vernacolo delle cui più singolari forme
faceva il calco (indagandone l’origine, la permanenza
linguistica e l’eventuale mutamento sematico). Con
naturalezza e senza ostentazione vanitosa; che pure gli
sarebbe spettata a pieno titolo essendo, fra l’altro, tra
i pochi autori contemporanei dialettali menzionati dal
Battaglia. Nel suo mondo interiore non mancava la musica;
per canzone preferita indicava “Il cielo in una stanza”,
esaltando il repertorio di Mina e il “Rigoletto”.
Rispettoso della fede ma non incline al fideismo
clericalistico, appariva sul punto di commuoversi onorando
modelli di vita quali Annibale di Francia e Luigi Orione, di
cui si occupò più volte; per la maniera, sempre moderna e
mai anacronistica, in cui avevano servito la causa religiosa,
tramite opere quotidiane di altruismo e concreta santità.
“La morte, che disonore! Diventare di colpo oggetto...”
scrisse Emil Cioran. Senza contare che dopo, quando una
figura così carismatica non è più tra noi, la solitudine
insanabile, senza rimedio, resta ad affliggerci.
16
LA VOCE di Limina
CULTURA
Ricordo del Prof. Giuseppe Cavarra
P. Pietro Cifuni
L
a scomparsa improvvisa del carissimo Prof. Giuseppe
Cavarra, avvenuta solo qualche mese fa, ci rende inquieti
e quasi increduli di non averlo più con noi, maestro ed
amico. Ma la sua presenza resterà sempre viva tra noi.
Ho avuto il bene di conoscere il Professore, circa quattro anni fa,
attraverso la mediazione del Dr. Enzo Mancuso, che mi portava
le ultime edizioni della rivista Pagnocco. A pensarci bene non
ricordo nemmeno quali siano state le occasioni dei nostri primi
incontri. Resta il fatto che son venuto a contatto con una parte
eletta ed intellettuale della nostra Città.
A S. Nicolò, la mattina dei funerali del Professore, ho avuto modo
di esprimere, tra le voci degli ultimi saluti, la mia persuasione di
trovarmi, nell’incontro del Prof. Cavarra, davanti a una persona
meravigliosa, Sacerdote di cultura e di umanesimo, Buon
Operaio della Vigna del Signore.
Esprimevo anche la convinzione che il Professore aveva potuto
presentare a Dio, alla fine della lunga giornata della sua vita, il
suo compito perfetto consistente nella realizzazione di una vita
ricca e di una missione finalizzata alla formazione umana di
tante generazioni di giovani, che lo circondavano con stima ed
affetto, proprio come fa il candidato, nell’immaginazione poetica
del nostro Ferrau, che presenta il suo compito al Professore, allo
scoccare del tempo della prova.
Esprimevo anche, in qualità di Rogazionista dell’Istituto e del
Santuario S. Antonio di Messina, la mia grande soddisfazione per
il fatto che il Professore era entrato a far parte nel mondo di
“Quelli del Quartiere Avignone”, che è il titolo del noto romanzo
di Giuseppe De Lorenzo, che descrive la storia di S. Annibale Di
Francia.
Lasciando ad altri, che più a lungo lo hanno conosciuto, il
compito di ricordare la ricchezza della sua vita familiare, la
sua vocazione per l’insegnamento effettuato in vari Istituti
Scolastici ed in varie Città, il suo legame con la terra di origine e
di appartenenza, che lo ha portato al canto ed alla scoperta dei
valori e delle tradizioni proprie, voglio riservarmi di mettere in
evidenza un altro lato del Professore.
Egli, cultore delle cose e della storia di Messina, aveva scoperto
in P. Annibale, l’uomo figlio di Messina, il Santo della Carità e
della Preghiera per le Vocazioni e l’Apostolo che partendo da
Messina aveva irradiato nel mondo i sentimenti della solidarietà
e la certezza che tutti possiamo fare molto a favore della fascia
della povertà.
Ho riscontrato il lui le stesse persuasioni sul P. Annibale, descritte
da Anastasio Majolino, nel suo bel libro “ Lo Stretto, i Miti e la
Psicologia dei Messinesi”, in cui si parla di Padre Annibale come
uno dei personaggi immagine della nostra Città… un prezioso
patrimonio culturale da cui trarre elementi di arricchimento
dell’identità collettiva di questa Città, ed ancora il personaggio
di Messina più conosciuto nel mondo, in quanto ambasciatore
di santità e di messinesità”.
Il Professore entra nella vita e nella spiritualità di P. Annibale, ne
scopre l’identità la ricchezza della missione, che invade il cuore
della Città.
L’osservazione che fa il Professore, e che risponde un po’ a verità,
è che mentre parte di Messina segue lo spirito del suo Apostolo
con fervore, devozione ed entusiasmo, un’altra parte resta
distante, con una valutazione molto superficiale, se non falsa,
delle Opere di S. Annibale, che vengono guardate a distanza,
come sola pertinenza di Quelli del Quartiere Avignone.
Il Professore vuole uscire da questa sottoesposizione fatta sì
di amore ma anche di indifferenza e vuole riportare la Città ad
una presa di coscienza del suo Apostolo e Profeta ed anche
all’orgoglio di avere tra le sue mura un Santo che dallo Stretto
si è proiettato verso gli spazi universali del mondo e della
Chiesa, attraverso il messaggio chiaro della Carità e del Rogate
che è preghiera per le Vocazioni di Buoni Operai in ogni campo
e Carisma che ha il suo abbrivo dallo Stretto di Messina e
raggiunge il cuore della Chiesa e del mondo.
Basterebbe riflettere poi che nel campo della Carità, il Fondatore
delle Opere Antoniane e creatore della rivista Dio e il Prossimo,
che arriva ad una tiratura di oltre 700.000 copie, crea un polo di
attrazione in Sicilia, chiamando S. Antonio di Padova, a diventare,
attraverso un riuscito gemellaggio, S. Antonio di Messina.
Il Professore concepisce un libro su P. Annibale, intitolato “La
sublime Missione”. Il valore dell’elaborazione del libro non si
manifesta subito al primo contatto. Potrebbe sembrare una
raccolta di piccole storie dalla ricca letteratura su P. Annibale,
ma alla fine risulta una interpretazione personale ed originale
della missione del Santo della carità di Messina.
Il libro viene dato alle stampe, nel 1910, per i tipi dell’Editrice
Antonello, e viene presentato nel Santuario di S. Antonio il 20
novembre dello stesso anno.
Nel mio intervento in quella presentazione accennavo alla
piccola storia delle nostre relazioni e alla genesi del libro e
non mancavo di tracciare un profilo del Cavarra sulla scorta
delle impressioni avute nei nostri incontri, in cui si parlava
immancabilmente del Santo di Messina, sulla scorta dell’iter
del detto libro, della partecipazione in Limina, suo paese natale,
alla rappresentazione della sua “Tamariciana”, che veramente,
pur non disprezzando i magnifici ambienti di Limina, avrebbe
meritato gli spalti del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, ed
anche sulla scora della gestazione di un’altra sua opera su P.
Annibale, un dramma in tre atti intitolato “ Panem non habent”
in cui l’Autore percorre la storia di P. Annibale, soffusa questa
volta dal soffio dell’arte e dalla presentazione scenica piena di
poesia e di musica.
Il Professore contatta gli Artisti per la sua realizzazione, ne
suggerisce l’ambientazione. Ho una scheda tecnica, di Melo
Freni, dello spettacolo “Verso la luce - Padre Annibale Maria Di
Francia”, liberamente ricostruito dal testo di Giuseppe Cavarra.
Varie difficoltà hanno impedito la realizzazione del lavoro entro
il 2011. Vogliamo sperare che esso possa essere realizzato al più
presto con la sponsorizzazione del Teatro Vittorio Emanuele e
con la cortesia del suo Presidente Luciano Ordile, che Cavarra
mi aveva fatto incontrare proprio al fine di organizzare la
realizzazione del lavoro teatrale.
Nella memoria santa del Professore che difficilmente si può
dimenticare per il suo spessore di vita e di virtù, dobbiamo
riconoscere il suo ricco percorso nel campo della formazione
giovanile, umanistica e cristiana, nell’amore per la sua terra e
per la città di Messina con le sue tradizioni ed anche per il suo
messaggio che nella geografia e storia della Città, sgorga, frutto
del genio dei suoi Figli, accanto alla Madonnina della Lettera,
accanto alla Santa Smeralda Eustochia, il P. Annibale che della sua
Città ha interpretato la vocazione quasi istintiva di una grande
industriosità e accoglienza, di una fede forte, di un’apertura
all’altro e di una carità universale, di una profonda pazienza e
grande inventiva per risorgere dalle sue storiche difficoltà. Virtù
che la interpellano anche ora, come nei corsi e ricorsi della storia.
LA VOCE di Limina
CULTURA
17
Addio Prof. Cavarra
Enza Maria Galati
U
n amico mi ha chiesto di
scrivere un ricordo del
Professore Cavarra. Non è cosa
mia, ho pensato subito, io scrivo
formule, come posso parlare di
un poeta, di uno che sa scrivere e
si fa leggere da tanti. Ma il sorriso
del Professore è qui davanti a
me e allora tento, mi cimento in
quest’impresa di raccontare quello
che ho capito io di Giuseppe
Cavarra.
Non è facile, non so dove troverò le
parole per esprimere la stima che
ho di lui, e soprattutto il rimpianto
per non averlo frequentato di
più e per non avere cercato altre
occasioni per sentirlo parlare.
Mi aveva telefonato, io non lo
conoscevo, per chiedermi “il
permesso”, proprio così si espresse,
di pubblicare certe rime che avevo
scritto per ridere e che un’amica gli
aveva sottoposto, a mia insaputa
naturalmente. Rimasi di stucco. Il
permesso? Professore che dice?
Pubblicare? Ma io ho messo tre
parole in fila, senza pretese e,
ripeto, per scherzo, per vincere la
noia.. e sì, a volte in dialetto, questa
lingua musicale, tra il siciliano e il
calabrese che parlano a Messina..e
mai ho pensato di pubblicare.. Ma il
Prof. insisteva, ci teneva ad ospitare
quelle mie rime su Pagnocco e …
decida lei Professore, per me è un
onore già parlare con lei, dicevo e
nel frattempo mi ero documentata
su Google, uno scrittore vero e
della Messina ionica, un ricercatore
delle radici culturali di questa
città smarrita. Ne fu contento,
anzi voleva leggere altri miei
scritti, ma, gli dissi, io spiego
farmaci, che fanno bene e male
contemporaneamente, mi occupo
di sostanze naturali, non so scrivere
di altro. Ma l’idea delle sostanze
naturali lo incuriosiva e cominciò
a chiedermi di partecipare ad un
convegno cultural-musicale che
aveva organizzato a Nizza.
Non potevo rifiutare e in un
pomeriggio ventoso mi ritrovai con
tanti suoi amici a sentire musiche
del folklore calabro e a parlare, io,
di cibi colorati, altamente salutari
a quanto pare, e ad esprimere
l’idea che siamo quello che
mangiamo, anche se intimamente
convinta che siamo quello che
pensiamo. E il prof. si entusiasmò
agli argomenti che presentavo,
perché si interessava a tutto; in
seguito mi disse che gli piaceva
l’idea del mangiare colorato, e me
ne rallegrai, anche se sapevo che
le sue preferenze andavano ad una
“cucina” più sanguigna e saporita,
fatta di “ghiotte” di pesce stocco e
melanzane alla parmigiana. Ecco,
era così Giuseppe Cavarra, curioso
della vita, degli uomini, del mondo.
Era sempre pronto a cogliere ogni
legame tra il passato e il futuro e,
con la consapevolezza che il mito
non tramonta mai, aveva scritto
una elaborazione del dramma di
Medea. La scorsa estate mi invitò
alla rappresentazione a Forte
Ogliastri, nello scenario dello
stretto di Messina. Rimasi incantata
da quella donna feroce e debole,
che vagava, pazza di odio verso
se stessa, tra l’odore salmastro del
mare e il profumo delle ginestre.
Ma Giuseppe Cavarra ha ricostruito
anche altri miti: la favola del
giovane Colapesce, che abita lo
stretto e lo protegge, e la “Sublime
Missione” di Sant’Annibale. Il
primo salva la città dal disastro
naturale, l’altro dal disastro
dell’indifferenza e dell’egoismo.
Entrambi sono come dovrebbero
essere tutti i messinesi, pronti ad
ogni sacrificio per salvare la città
e per ricostruire quel bagaglio di
umanità che trasforma gli uomini
in fratelli. E ne avrebbe bisogno,
di questi tempi, Messina di eroi
e di santi! Attraverso i suoi scritti,
Giuseppe Cavarra ci indica la via
per ritrovare le radici storicoculturali che hanno vivificato
questo territorio nei tempi passati.
Oggi Messina sembra dormire,
forse si scuoterà dal torpore che
l’avvolge da tempo, e ogni parola
del Prof. Cavarra potrà contribuire
al suo risveglio.
Addio Prof. Cavarra, e mi dispiaci
pi chiddi chi non ti conuscèru (e
mi dispiace per quelli che non ti
hanno conosciuto)
18
LA VOCE di Limina
CULTURA
Al mio caro e indimenticabile amico Peppino Cavarra
P
rofessore, sono passati già alcuni giorni dalla sua scomparsa,
ma la tristezza e l’incredulità si fanno sempre più forti. Da
giorni cerco di trovare le parole che possano esprimere gli
innumerevoli pensieri che affollano la mia mente... Abbiamo
perso un punto di riferimento insostituibile, un Maestro, un
Amico, un Parente di cuore, un uomo che aveva nell’anima e
nella mente la nostra terra, il suo amato paese, “Limmina”. La
Sicilia, le deve moltissimo per le sue opere, non solo perché
ha portato alla luce testimonianze di grande rilevanza storica
e culturale del nostro territorio, ma perché fino ad oggi si è
battuto per la salvaguardia del patrimonio storico-culturale
della nostra bella Sicilia. Mancherà tanto a tutti noi, ma resterà
sempre vivo nei nostri ricordi. Abbiamo perso un pezzo di storia
ma abbiamo acquistato un Grande Angelo. Grazie Prof., non
potrò mai dimenticare quel suo sguardo così accogliente e quel
sorriso rassicurante, che infondeva tranquillità in chi la guardava
parlare… Ho sempre seguito con interesse le sue le sue storie, le
sue ricerche e vorrei poterla ascoltare ancora e fare tesoro di quei
suoi preziosi consigli, sempre attenti e ragionati, che mi hanno
lasciato un insegnamento, che va oltre il contenuto di un libro o
di un quaderno... La sua impronta, come quella di qualsiasi altro
essere umano, rimarrà a lungo nella storia di molti. Mi sembra
che Keynes abbia detto una volta: una corda si può tirare, non
si può spingere. Così sembra che la vita, almeno quella terrena,
abbia smesso di tirare.
Adesso la immagino in Paradiso a scherzare con San Pietro...
quante volte tra infinite risate lei e mio padre, con la storia dei
“du cumpari”, che dovevano brevettare una nuova invenzione:
“piantare il grano nello Stretto di Messina”, improvvisavate
questi dialoghi e finivate sempre con l’incontro tra San Pietro e
Padre Tano… era veramente una gioia ascoltarvi…
L’ultimo atto di questa grande opera, che è la vita, poteva
attendere, perché c’erano tante e tante opere da scrivere e
portare in scena.
Ora la scena è vuota, il sipario si chiude...
Ciao Prof., è veramente difficile abituarsi all’idea di non averla
più qui con noi… le abbiamo voluto bene davvero!
Tiziana Lo Turco
A CAMPANA
‘Nduluri mi ttinagghia u cori?
Na campana leggiu leggiu sona,
l’ura non ia dill’Anciulu o menzuiornu:
non ia l’Avimarìa e mancu u centu.
Sta campana, ca ddu corpa a vota batti,
tristi e sulenni lenta lenta sona.
Ogni corpu ‘nta l’arma mi ribbumba,
comu na uci ca cianci e si lamenta.
Cci sunnu o munnu campagni spapànati
di bbàlucu, sammucu e jinistrari?
Ranni chianuri e ortara suliggiati,
chini di partualla, persichi e rranati?
All’ura, chiù da gioia e da vita,
cia quacchi cosa chiù dulurusa e forti?
Sta campana câ cianciri nni ‘nvita,
e nni mmunisci nomi di la morti.
Moriri voli diri non vidiri chiù u suli,
non curriri chiù tra trizzeri e boscàra,
supra u maniu di urpa e cunigghi:
non vidiri chiù a nivi jianca, e llampa,
e a sdraunara ca nni fa scantari.
Moriri voli diri?…lassari u munnu,
iri nta na notti niura a lu tunnu,
pi ‘nsinteru scunusciutu e funnu.
LA CAMPANA – Un dolore mi tormenta il cuore? \ Una campana
con lentezza suona, \ l’ora non è dell’Angelus o mezzodì: \ non
è l’Ave Maria e nemmeno mezzanotte. \\ Questa campana, che
due volte tanto rintocca, \ triste e solenne con lentezza risuona.
\\ Ogni colpo nell’’anima mi rimbomba, \ come una voce che
piange e si lamenta. \\ Ci sono nell’universo campi fioriti \ di
violacciocche, sambuco e ginestre? \ raggianti pianure e orti
soleggiati, \ pieni di arance, pesche e melograni? \ Quindi, più
della gioia e della vita, \ c’è qualche cosa più triste e ostinata
da sopportare? \ Questa campana che a piangere c’invita, \ e ci
ammonisce in nome della morte. \\ Morire vuol dire non vedere
più il sole, \ non correre più traverso viottoli e boschi, \ sopra le
orme di volpi e conigli: \ non vedere più la neve bianca, e i lampi;
\ e la tempesta che ci fa atterrire. \\ Morire vuol dire?… lasciare il
mondo, \ andare in una notte buia e senza luna, \ per un sentiero
sconosciuto e senza confine.
Giovanni Lo Turco
LA VOCE di Limina
CULTURA
Al nostro caro amico Peppino Cavarra
C
on la scomparsa del caro amico, professor Peppino
Cavarra, Limina ha perduto un illustre personaggio
come era effettivamente Peppino. Anche noi che
viviamo all’estero e che lo abbiamo conosciuto sentiamo la
sua perdita. Io l’ho conosciuto dall’infanzia perche’ spesso
veniva a casa nostra. Era amico di mio fratello Sebastiano.
Fra noi c’era una grande e affettuosa amicizia. Infatti e’
stato testimone al mio matrimonio. Nel mese di ottobre
del 2010, io e I miei cognati abbiamo deciso di fare un libro
sulla vita dello zio, professor Filippo Restifo. Abbiamo
sollecitato l’iniziativa dei cari amici, scrittori liminesi
Giuseppe Cavarra e Sebastiano Saglimbeni a scrivere
un libro sul prof. Restifo. Dalle informazioni ricavate, da
carte, documenti e altro I nostri due hanno compilato
un libro dal titolo: “Filippo Restifo. Una vita avversa al
servilismo”. Il libro e’ stato pubblicato dal cugino editore,
Eligio Restifo.-Editorial Melvin. Caracas, Venezuela. Il libro
e’ stato presentato l’anno scorso nella Societa’ Operaia,
dove ha avuto un grande successo, come anche all’estero
dove vivono liminesi. Io e I miei cognati desideriamo
manifestare la nostra gratitudine alla memoria dell’amico
Peppino. Ricordare Peppino fa sempre piacere.
Giuseppe Calabro’
C
19
on Giuseppe Cavarra, -“valentissimo poeta del
messinese” - “autore, saggista, dialettologo” - che
e’ mort oil 4 febbraio 2012 c’e’ stata sempre una
affettuosa amicizia che durava da tutta lavita.Siamo vissuti
lontani. Negli ultimi quindici anni andavo a Limina quasi
ogni anno durante l’estate. Ci siamo rivisti per l’ultima volta
l’anno scorso nell’estate. Mi ha fatto avere molti dei libri
che ha scritto- e qualche volta con dedica: “A Sebastiano
con affettuosa amicizia”. “Peppino” Ha dedicato moltissimi
anni della sua operosa e produttiva vita all’insegnamento.
Ha istituito il premio Bizzeffi a Limina per la pesia diallettale.
Ha vinto anche dei premi letterari per I suoi scritti e per le
sue poesie, -numerosi da elencare-. Recentemente una
sua opera e’ stata rappresentata in teatro. La chiesa di
Messina, la citta dove viveva e svolgeva attivita’ letteraria
era gremita di gente. Lo hanno pianto la moglie, la sorella
, I nipoti, gli amici e tutti quelli che lo hanno conosciuto.
Ha lasciato un vuoto nella vita dei suoi cari e degli amici.
Io credo che con le sue opere lasci un segno positivo nella
storia di Limina, il paese natio che ha tanto amato.
Sebastiano Calabro’
20
LA VOCE di Limina
Politica
La Galleria Degli Errori
Casa albergo per anziani Costo 4 miliardi di vecchie lire
La scala d`oro- progetto e costruzione
€13.000
Acquistati alcuni anni fa per un importo
di € 15.000 -Abbandonati
Costo dell`opera € 676.000
Centro diurno per anziani
da anni abbandonato
Area Artigianale 1o Lotto Costo dell`opera € 1.150.000
Scala costruita in una proprietà privata
con i soldi del Comune
LA VOCE di Limina
Politica
21
Nel nostro paesino
Sebastiano Musumeci
N
el nostro paesino tanti sono i commenti inappropriati sui
più variegati argomenti del vivere quotidiano che a vario
titolo vengono fatti circolare in piazza, nelle case, tra la
popolazione.
Tra le materie più discusse c’è sicuramente la politica. Sulla
politica i commenti variano al variare degli interessi perseguiti
dai singoli relatori (o delatori). Esiste infatti una cerchia di
persone, abbastanza ristretta, vicine all’amministrazione attiva
che nutrendo forti interessi personali, anche economici, a vario
titolo cercano di mettersi in mostra nella consapevolezza che
più si è esposti o servili meglio si può essere ricompensati.
Costoro cercano di scegliere e gestire i temi su cui commentare,
gettano ami tra la gente, cercando di fare abboccare “il pesce”
utilizzabile ai loro nefasti fini. E pur se falliscono ancora
candidamente cercano di giustificare anche l’ingiustificabile
cercando artatamente di nascondere i mille difetti di una
amministrazione deficitaria nei risultati e deficiente nella
programmazione di un possibile sviluppo, tutti indistintamente
schierati alla strenua difesa del loro proprio orticello.
A costoro si rivolge nelle prime pagine della relazione annuale il
Sindaco cercando di determinare sponde politiche importanti
per la propria politica miope e dannosa per il nostro paese per
gli uomini, le donne ed i giovani di oggi e di domani. Questi
non sono né bersaglieri né tantomeno fanti.
Ladri sono, che con destrezza rubano il futuro alla nostra gente.
Leggo tra pag 3 e 4 della relazione 2012 del Sindaco testualmente:
“Arroganza, abusi, promesse, incapacità, attentati, divisioni,
raggiri, apatia, inadeguatezza, nepotismo, autocelebrazioni,
mistificazioni, propaganda, pigrizia, negligenze e quant’altro
sono tutti termini di comodo che vorrebbero camuffare o
peggio ancora giustificare comportamenti impropri da parte
di chi aspira a guidare le sorti di questo paese e non solo”.
Quest’inciso presente nella relazione annuale del Sindaco da
solo ben sintetizza il comportamento tenuto in questi bui anni
della sua amministrazione.
Ma la cosa che più lascia perplessi è il tentativo continuo
di nascondere l’incapacità a governare di questa pseudo
amministrazione attraverso la delegittimazione dell’opposizione
che da argomento secondario diventa argomento principale.
Secondo questa teoria ad esempio non vengono realizzate
le borse lavoro, non per la miopia dell’amministrazione, ma
per la incapacità della minoranza di imporre tale scelta. Fatto
questo di per sé, anche numericamente, impossibile.
Se ad esempio non funziona il depuratore o sorgono seri dubbi
sulla gestione delle sorgenti dell’acquedotto o sulla discarica
dismessa di C/da Mauro e se la minoranza segnala agli organi
competenti tali mancanze o inadempienze con calma si cerca
di risistemare le cose alla “meno peggio” (sfruttando anche
qualche sponda istituzionale) e poi – dopo - semplicemente si
aspetta la prima occasione utile per iniziare il solito piagnisteo
sull’eliminazione fisica del Sindaco (inutile e dannoso!).
Ed i cittadini come reagiscono? Semplice. I primi appartenenti
alla cerchia ristretta, reagiscono con indignazione, a difesa
della maggioranza, contro l’operato della opposizione, la quale
evidentemente intralcia il regolare corso dei loro interessi.
Interessi che prevedono l’esistenza di un Sindaco (inutile e
dannoso!).
Parte della restante cittadinanza reagisce sempre contro
l’operato della opposizione (non della maggioranza !!!!)
addebitandogli la responsabilità di un’azione politica “tenera”
e per niente intransigente. Come se la colpa della sua
permanenza al potere fosse da addebitare non a chi l’ho ha
eletto e sostenuto ma (udite! udite!) a chi dal primo momento
l’ha ritenuto inadeguato a ricoprire quel ruolo.
Il gruppo politico “Insieme per la Rinascita di Limina”
intende ribadire, nella sua totalità, che intende continuare
l’attività legittima di controllo e di critica politica sull’operato
dell’Amministrazione comunale, con la libertà ideologica
di potere decidere a chi, e come, segnalare le eventuali
disfunzioni, le eventuali mancanze o le eventuali violazioni di
legge.
Il gruppo politico “Insieme per la Rinascita di Limina” intende
proseguire nel perseguimento degli obiettivi politici e
programmatici facenti parte del programma elettorale
sottoposto agli elettori di questa nostra comunità. Noi siamo
per il rispetto della legalità, per la solidarietà sociale, aperti al
dialogo e alla collaborazione, al confronto, ma non chiedete di
caricarci l’asino addosso…. infatti…
Per le vie di un piccolo paesino un vecchio faceva il cammino
con il figlio giovinetto e un unico piccolo asinello.
Mentre il vecchietto andava a piedi e sulla groppa dell’asinello
stava il bambino i passanti li schernivano:“Ma guardate lì che
scena! Il vecchietto che non può neanche camminare va a
piedi, mentre il bambino, che potrebbe correre, va a cavallo!”
Il vecchietto, sentiti i discorsi di quel gruppo di gente, per non
dare adito ad altre dicerie, fece smontare il bambino per farlo
andare a piedi e montò lui in groppa all’asino.
I tre proseguirono, così, nel loro cammino, ma ecco un altro
gruppo di persone: “Che ingiustizia!… il bambino con le sue
piccole e tenere gambine va a piedi, mentre il vecchio, che può
benissimo camminare, sta comodamente seduto in groppa.”
L’anziano contadino, vinto dalla vergogna decise di far salire
anche il bambino in groppa all’asino.
Proseguirono, così, entrambi sul quadrupede.
Il borbottio dei passanti e l’indignazione però aumentò: “Hai
visto quei due lì? Che vergogna!! Con un asinello così piccolo,
gli stanno sopra entrambi, finiranno per sfiancarlo …”
Il vecchietto, sentiti quei commenti, pensò bene che sarebbero
andati a piedi sia lui che il suo piccolo nipotino. Ecco allora
esplodere lo scherno e il riso di tutti: “Guardate quei tre asini,
mentre ne risparmiano uno, non risparmiano se stessi. Quel
vecchio e quel bambino potrebbero andare comodamente in
groppa e invece vanno a piedi!!”.
Il povero ed esasperato vecchietto disse allora al giovinetto.“Caro
mio se continuiamo a dar retta alla gente finiremo sicuramente
con il portare l’asino sulle nostre spalle”.
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La voce di Limina Edicion No 4 ITALIANO