UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE INDIRIZZO MODERNO
Osservazioni sull’esperanto con particolare
riferimento alla morfologia
Tesi di laurea di
Relatore
Rosalba Galati
matricola 0507268
Prof.ssa Luisa Brucale
A. A. 2011/2012
Indice
INTRODUZIONE ......................................................................................................................................1
1. L’ESPERANTO E LE LINGUE PIANIFICATE ...........................................................................................3
1.1 MOMENTI DI STORIA DELLE LINGUE ARTIFICIALI .................................................................................... 3
2. ORIGINE DELL’ESPERANTO. EVOLUZIONE DELL’ESPERANTISMO .......................................................8
2.1 IL PERCORSO E IL PROGETTO DI ZAMENHOF ......................................................................................... 8
2.2 FORMAZIONE E CONSOLIDAMENTO DELLA LINGUA .............................................................................. 11
2.3 CRITICHE E TENDENZE EVOLUTIVE .................................................................................................... 13
3. LA LINGUA ...................................................................................................................................... 19
3.1 IL FUNDAMENTO ......................................................................................................................... 19
3.2 ORTOGRAFIA E FONETICA .............................................................................................................. 21
3.3 SINTASSI .................................................................................................................................... 24
4. LA MORFOLOGIA ............................................................................................................................ 27
4.1 LESSEMI ..................................................................................................................................... 27
4.2 VORTFARADO.............................................................................................................................. 28
4.3 MORFOLOGIA FLESSIVA ................................................................................................................. 32
4.3.1 FLESSIONE NOMINALE........................................................................................................ 33
4.3.2 FLESSIONE VERBALE .......................................................................................................... 33
4.4 MORFOLOGIA DERIVAZIONALE........................................................................................................ 36
4.5 COMPOSIZIONE ........................................................................................................................... 38
4.6 VERSO UNA CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA......................................................................................... 41
5. LA CAPACITÀ ESPRESSIVA IN ESPERANTO ....................................................................................... 46
CONCLUSIONI ...................................................................................................................................... 49
APPENDICE .......................................................................................................................................... 50
TABELLA DEI CORRELATIVI ...................................................................................................................... 50
DERIVATIVI ......................................................................................................................................... 51
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................................... 53
Introduzione
Nel luglio del 1887, il ventisettenne oculista russo-polacco Ludwik Lejzer Zamenhof
pubblica in russo la prima edizione del manuale della Lingvo Internacia, quello che poi
diverrà noto come Unua Libro (Primo Libro). L’autore si cela dietro lo pseudonimo D.ro
Esperanto, che negli anni successivi verrà accolto dalla comunità come nome definitivo
per la lingua descritta nel testo. L’inventore del progetto si proponeva principalmente
due scopi: rendere disponibile uno strumento di comunicazione che fosse veloce da
apprendere e facile da utilizzare, e gettare le basi per un nuovo approccio all’'altro',
basato sul rispetto e la tolleranza delle differenze linguistiche, etniche e religiose.
In oltre centoventi anni di storia, più di tutte le altre lingue cosiddette “artificiali”,
l’esperanto ha saputo attirare un pubblico di curiosi e di affezionati che, in misure
diverse e secondo le capacità e gli interessi personali, hanno imparato la lingua, hanno
partecipato agli incontri e ai convegni, hanno scritto opere letterarie o di saggistica e
hanno portato avanti le idee e i valori di un movimento che, per alcune caratteristiche,
ha assunto i tratti di una vera e propria comunità.
In questo lavoro si tratteranno alcuni degli aspetti salienti di questo fenomeno,
provando a metterne in luce tanto gli elementi originali quanto i punti controversi.
Nel primo capitolo verrà presentata una panoramica sulla storia delle lingue artificiali
che consentirà di comprendere la portata dell’esperanto all’interno di una catena di
tentativi e progetti più o meno sviluppati.
Il secondo capitolo affronterà, invece, le premesse storiche e le prospettive
ideologiche che hanno spinto Zamenhof a elaborare la Lingvo Internacia; verrà quindi
fornito un breve quadro degli sviluppi successivi dell’esperantismo.
Dalla presentazione del “fenomeno esperanto” si passerà, nel terzo capitolo, a una
descrizione delle caratteristiche fonologiche e sintattiche per poi approfondire, nel
quarto capitolo, gli aspetti morfologici della lingua, secondo un approccio prettamente
linguistico.
1
Infine, nell’ultimo capitolo, si traccerà un breve schizzo delle possibilità espressive
dell’esperanto, con riferimento ad alcuni testi utili a cogliere la valenza artisticoespressiva della lingua.
In accordo con le posizioni espresse da Gobbo (1998, p. 55), si è deciso di presentare i
nomi dell’esperanto e delle altre lingue inventate, che hanno ottenuto un certo
successo, utilizzando l’iniziale minuscola, in quanto lingue a tutti gli effetti, non meno
degne di attenzione di quelle storico-naturali; si è conservata la maiuscola, invece,
nelle citazioni originali, per rispettare l’integrità del testo.
2
1. L’esperanto e le lingue pianificate
Il tema delle lingue artificiali, dell’aspirazione a una lingua universale e in generale
dell’utopia linguistica è molto vasto ed è stato il baricentro di diversi studi, fra i quali
occorre almeno menzionare quelli di Pellerey (1992) e di Eco (1993).
Il fatto che fra tutte le lingue pianificate, soltanto l’esperanto ha attratto un’ampia
comunità di parlanti, merita particolare attenzione in quanto consente la
comprensione del suo ruolo specifico all’interno di una catena di tentativi, progetti
abbozzati o altamente sviluppati, di portata generale o volti a una comunità specifica
di destinatari.
1.1 Momenti di storia delle lingue artificiali
La pianificazione linguistica come creazione di una lingua artificiale nasce inizialmente
con scopi avulsi dall’ausiliarietà e riconducibili a intenti filosofici, sociali e umanitari,
tradizionalmente connessi alla volontà di superare la 'maledizione divina', secondo
l’interpretazione classica della narrazione biblica di Babele (Eco, 1993, p. 16-26).1
Già il Medioevo aveva visto sorgere i primi abbozzi di una lingua artificiale non a
vocazione ausiliaria bensì come ricerca di una lingua universale in grado di rivelare una
presunta isomorfia tra la struttura dei concetti e quella del mondo, tra le quali si
credeva esistesse una relazione biunivoca.2
L’esigenza di una lingua ausiliaria cominciò a essere avvertita nel XVII secolo
parallelamente al crescente bisogno di semplificare i contatti linguistici tra parlanti L1
diverse. Il tentativo di creare lingue artificiali perse il carattere mistico e magico del
periodo precedente per trasformarsi nella ricerca di un codice di comunicazione, che
soppiantasse, o almeno affrancasse, un latino sempre meno conosciuto, in assenza di
1
È stato osservato che il Medioevo islamico, sebbene mostri molte analogie con quello europeo, non
conobbe lingue inventate a vocazione ausiliaria. Questo perché il mondo musulmano non sperimentò
alcunché di simile al disfacimento del latino: i dialetti arabi mai assursero a dignità di lingue (Bausani,
1974, p. 98).
2
Raymundus Lullus, un francescano catalano vissuto tra il 1232 e il 1316 a Maiorca, crocevia, all’epoca,
delle culture cristiana, islamica ed ebraica, si era cimentato nella creazione di una lingua filosofica
universale. Il suo progetto di lingua filosofica mirava alla conversione degli infedeli e aspirava
all’universalità, in quanto “universale è la combinatoria matematica che articola il suo piano
dell’espressione, e universale il sistema di idee comuni a tutte le genti che Lullus elabora sul piano del
contenuto” (Eco, 1993, p. 61).
3
una lingua etnico-nazionale ad alta diffusione. L’intento era di guardare a questa lingua
come a una costruzione logico-filosofica capace di riorganizzare la conoscenza umana3.
Eppure, l’interesse dei filosofi al problema linguistico fu stimolato non soltanto dalla
presa di coscienza circa la pluralità e la differenza delle lingue e non soltanto dalla
ridotta idoneità del latino, ma anche da una fondamentale insoddisfazione verso ogni
lingua naturale. Essi dubitavano del valore epistemologico della parola come mezzo di
pensiero e di conoscenza, e alcuni ritenevano che lo studio delle lingue fosse più
dannoso che utile, poiché richiamava l’attenzione sulle parole e non sulla realtà.
L’intento era quello di costruire un sistema universale di conoscenza nel quale le
parole o i simboli avessero una regola logica invece di una relazione arbitraria priva di
coerenza con le cose reali (Janton, 1996). Per questo motivo, inizialmente si
concentrarono su progetti a priori, lingue che cioè non ricalcavano i modelli di quelle
esistenti e non riutilizzavano, rielaborandoli, i materiali lessicali di queste ultime, ma
creavano autonomamente le unità semantiche necessarie.
Fra i documenti chiave per comprendere questa fase, indicativa è la lettera di Cartesio
a Mersenne del 1629, che contiene molti elementi cruciali che caratterizzeranno la
riflessione interlinguistica successiva. Cartesio proponeva di creare una lingua dalla
grammatica semplificata e dalla semantica univoca, senza irregolarità ed eccezioni, da
lui percepite come corruzioni. Tuttavia, pur riconoscendone il grande valore in termini
di apprendibilità, Cartesio osservava che la necessità di imparare parole artificiali
avrebbe presentato difficoltà analoghe a quelle richieste per lo studio di parole di
lingue nazionali, salvo che si potessero derivare le une dalle altre attraverso una
successione logica rispecchiante la struttura razionale della mente.
Cartesio rilevava anche gli inconvenienti di un’operazione di riforma linguistica: “Ciò
che si può fare è evitare questo sgradevole incontro di sillabe in una o due lingue. Così
la sua lingua universale varrebbe solo per un paese, mentre noi non abbiamo bisogno
di apprendere una nuova lingua per parlare soltanto con i Francesi. Il secondo
inconveniente riguarda la difficoltà di imparare le parole di questa lingua. […] sarebbe
3
Georges Dalgarno, un maestro di scuola scozzese che insegnò per la maggior parte della sua vita in una
scuola privata di grammatica di Oxford, nella sua opera Ars signorum sottolinea i due aspetti distinti che
una lingua universale deve contemplare: una classificazione del sapere, opera del filosofo, e una
grammatica che organizzi il piano dell’espressione, compito del linguista (Eco, 1993, p. 245).
4
molto più facile far sì che tutti gli uomini si mettessero d’accordo ad imparare il latino
o qualche altra lingua tra quelle in uso, e non questa, nella quale non vi sono ancora
libri scritti attraverso i quali ci si possa esercitare, né uomini che la conoscano e con i
quali si possa acquisire l’abitudine di parlarla.” (Descartes, 2005, p. 95-97)
Cartesio indicava, inoltre, la direzione da prendere nella ricerca di una lingua razionale
e internazionale, definendo tre punti essenziali:
1.
la lingua deve essere facile da scrivere e pronunciare, così da essere
appresa in poco tempo;
2.
la relazione tra parole e pensieri deve essere ordinata e combinabile
mediante regole;
3.
i pensieri vanno scomposti in “idee semplici” che poi vengono combinate
mediante operazioni logiche.
Nonostante i dubbi espressi da Cartesio, i tre principi elencati sono i criteri guida che
muoveranno i glottoteti delle lingue ausiliarie alla ricerca del principio di regolarità
mediante la pianificazione di una grammatica semplice e isomorfica o mediante
l’adozione di parole già note, per non caricare la memoria degli utilizzatori,
rinunciando però parzialmente alla regolarità.
Nel secolo dell’Illuminismo, i principali sistemi linguistici proposti continuano ad avere
caratteristiche affini alle lingue a priori secentesche, distinguendosi esclusivamente
per quanto riguarda le motivazioni: scompare, infatti, qualsiasi afflato religioso a
favore di motivazioni puramente pratiche.
Quello che preoccupa non è tanto la ricerca di una lingua perfetta quanto una “terapia
delle lingue esistenti” (Eco, 1993, p. 310) come vigile controllo del processo
comunicativo, piuttosto che come riforma del sistema della lingua. Questo accade
perché la cultura settecentesca cambia radicalmente il proprio punto di vista nei
confronti del linguaggio, arrivando a sostenere che pensiero e linguaggio procedono di
pari passo e, eventualmente, che è il linguaggio a modificare il pensiero e non
5
viceversa4. Crolla così l’ipotesi di una grammatica universale e stabile che i vari
linguaggi in qualche modo riflettono: la lingua, al contrario, concorre a formare
l’universo delle idee. È evidente che, sebbene la creazione di queste lingue sorga da un
desiderio razionale e illuministico di semplificare le comunicazioni tra parlanti di
madrelingua diversa, siamo ancora nell’ambito della ricerca linguistica mediante il
calcolo combinatorio e le logiche matematiche, dunque nell’ambito della pasigrafia e
non della lingua ausiliaria.
È l’Ottocento il secolo in cui vedono la luce la maggior parte dei progetti di lingue
inventate5, la cui vocazione ausiliaria è determinata, come sostiene Bausani, 1974, da
una matrice non di carattere sacro ma certamente di carattere pratico e utilitaristico.
Tali progetti, infatti, sono volti alla creazione di uno strumento linguistico di rapido
apprendimento, facile da pronunciare e da scrivere, destinato a parlanti L1 diversa e a
fini soprattutto commerciali.
Questo cambiamento di prospettiva è determinato da un contesto socio-culturale in
continuo fermento: è il secolo del telegrafo, della macchina da scrivere e dei nuovi
mezzi di comunicazione; la stampa perde il suo monopolio, e la possibilità di conoscere
si allarga anche ai ceti più bassi e agli analfabeti attraverso il cinematografo, il
grammofono e il fumetto. La cultura resta sempre riservata ad un ambito socialmente
privilegiato ma prende vita “il lento processo di alfabetizzazione universale” (Ortoleva,
1955, p. 40) che porterà, nei secoli successivi, all’estensione su larga scala
dell’istruzione e, di conseguenza, della conoscenza.
L’Ottocento è anche il secolo della Nazione, concetto nato con la rivoluzione francese e
le guerre napoleoniche e premessa dello Stato moderno, unitario in tutti i suoi aspetti,
incluso anche quello linguistico.
4
Jean Delormel, nel suo Projet d’une langue universelle, scrive: “I Lumi ravvicinano e conciliano in ogni
modo gli uomini, e questa lingua, facilitandone la comunicazione, propagherà i Lumi”. (Delormel, 1795,
p. 50).
5
Nella storia delle lingue pianificate, il Volapük, progetto linguistico del pastore cattolico Joahnn Martin
Schleyer, acquisisce una certa rilevanza determinata dal fatto che fu la prima lingua a passare dallo
studio teorico a quello pratico. Egli, con la finalità dell’unificazione, propose un alfabeto fonetico
universale basato sulla scrittura latina di 28 lettere e una grammatica regolare ma alquanto difficile.
Questa lingua visse un periodo di rapida diffusione, ma quando Schleyer si oppose a qualsiasi modifica,
si creò uno scisma che portò alla rovina. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Janton, 1996 cap 1.5.
6
Il concetto di lingua ausiliaria è imprescindibile da quello di lingua nazionale, poiché il
suo scopo è quello di affiancarsi ad essa e creare uno strato di internazionalità comune
a tutti i paesi. Questo è il motivo per cui, nell’Ottocento, le lingue ausiliarie vengono
dette 'inter-nazionali'. “L’identità nazionale non viene dimenticata ma viene
sublimata in favore di un’identità di tipo nuovo. Se la lingua inventata inizia ad avere
una rilevanza sociolinguistica, si forma una comunità su base etica e non etnica. L’etica
dei parlanti può variare da parlante a parlante, ma ha un tratto in assenza
accomunante: la nazione non è più l’altare su cui tutto può essere sacrificato. Ne
consegue che le lingue a vocazione ausiliaria, pur non essendo necessariamente
antinazionali, sono tutte antinazionaliste”. (Gobbo, 1998, p. 84)
In sintesi, gli elementi che accomunano tutte le lingue ausiliarie a rilevanza
sociolinguistica, sono:

il “puro gioco creativo verbigerante” (Bausani, 1974, p. 116), ossia
l’elemento ludico-espressivo che determina l’invenzione;

la considerazione, di matrice sacra, che il plurilinguismo è la causa dei mali
dell’uomo;

la considerazione, di matrice positivistica, della lingua come strumento di
comunicazione di massa;

“la formazione di un’identità sovrannazionale in conflitto potenziale con
quella nazionale”. (Gobbo, 1998, p. 84).
7
2. Origine dell’esperanto. Evoluzione dell’esperantismo
2.1 Il percorso e il progetto di Zamenhof
La ricerca della propria identità accompagnò tutta la vita dell’inventore dell’esperanto,
al quale la lingua deve la maggior parte della propria ideologia, a cominciare dal nome.
Lejzer Ludwik Zamenhof nasce il 15 dicembre nel 1859 in una famiglia di ebrei lituani
che viveva a Białystok, una cittadina che attualmente si trova in Polonia ma che
all’epoca faceva parte dell’impero zarista. L’Impero russo della seconda metà del XIX
secolo rappresentava, soprattutto nei territori più periferici, un crogiolo di culture,
religioni e tradizioni, un luogo di incontro e, spesso, di scontro, tra uomini di
provenienze ed estrazioni molto diverse. Tadolini, 1989, a proposito della popolazione,
riporta questi dati: 66% ebrei, soprattutto di lingua yiddish, 18% polacchi, 8% russi, 6%
tedeschi e 2% bielorussi.
Il giovane Lejzer, colpito dalla divisione dei suoi concittadini, nella celebre lettera a
Borovko 1895, scrive: “Questo luogo della mia nascita e degli anni della mia
fanciullezza ha impresso il primo corso a tutte le mie aspirazioni successive. […] In tale
città, più che altrove, una natura sensibile percepisce la pesante infelicità della
diversità linguistica e si convince ad ogni passo che la diversità di lingue è la sola causa
o almeno la principale che allontana la famiglia umana e la divide in fazioni nemiche.
Sono stato educato all’idealismo; mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono fratelli e
intanto sulla strada e nel cortile tutto a ogni passo mi ha fatto sentire che non esistono
uomini, esistono soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei, ecc.. Questo ha sempre
tormentato il mio animo infantile […]. Poiché a me allora sembrava che i “grandi”
fossero onnipotenti, mi ripetevo che quando sarei stato grande io senz’altro avrei
eliminato questo male” (Zamenhof L., Leteroj, 1948, vol. 1, p. 343-344).
Si persuade, dunque, che la diversità delle lingue e delle religioni sono le fonti dei mali
dell’umanità e decide di consacrare la sua vita alla ricerca dell’unità perduta, linguistica
e religiosa.
In famiglia Zamenhof parla russo, fuori casa polacco, come studente di ginnasio studia
il tedesco e il francese, il latino e il greco. Conosce elementi di lituano; sotto la guida
8
del padre, competente ebraista, apprende lo yiddish. Tuttavia, l’interesse al problema
linguistico non è suscitato esclusivamente dal suo bagaglio culturale. Nella lettera a
Michaux, 21 febbraio 1905, scrive: “Se io non fossi un ebreo del ghetto, l’idea
sull’unione dell’umanità non mi sarebbe affatto venuta in mente, né mi avrebbe
ossessionato tanto ostinatamente per tutta la vita. Nessuno può sentire così
fortemente l’infelicità della divisione umana come un ebreo del ghetto. Nessuno può
sentire la necessità di una lingua libera dal senso di nazionalità e umanamente
neutrale come la sente un ebreo, obbligato a pregare Dio in una lingua morta già da
lungo tempo, educato e istruito nella lingua di un popolo che lo respinge” (Zamenhof L.
, Leteroj, 1948,vol.1, p. 107).
Nel 1874, dopo il trasferimento della famiglia a Varsavia, frequenta il Secondo Ginnasio
Maschile della città, dove impara il greco e comincia a prendere appunti sui processi di
formazione delle parole, oltre a raccogliere materiale sulle affinità di suoni e significati
fra lingue lontane nello spazio e nel tempo. In questa fase, Zamenhof porta avanti il
suo progetto di ricerca realizzando un corpus di dati sulle lingue del mondo e
delineando una lingua comune per il popolo ebraico che avesse una grammatica e un
vocabolario facili, per favorirne l'apprendimento; che consentisse di esprimere il
pensiero umano in tutti i campi; che fosse in grado di seguire un’evoluzione naturale.
L’intuizione, che è alla base di uno dei principali fondamenti della lingua, ossia la libera
combinabilità delle radici, scaturisce dall'osservazione di alcune insegne lungo le vie
cittadine: se parole come 'pasticceria' e 'portineria' sono costituite da un frammento
che comunica l'idea di luogo, il procedimento potrebbe essere generalizzato e si
potrebbe individuare un numero sufficiente di affissi capaci di veicolare un
determinato numero di idee fondamentali (Lamberti, 1991). La ricerca, dunque,
prevede non l’invezione di suffisi e prefissi, bensì la verifica, sulle grammatiche e i
vocabolari, della presenza e del numero di affissi comuni già esistenti.
La stessa metodica viene utilizzata per isolare le radici comuni, anche con qualche
differenza ortografica, all'interno delle lingue europee: analizzando un elenco di 700
parole preselezionate, Zamenhof consulta i vocabolari e, se una certa radice ricorre in
9
almeno cinque di questi, viene considerata una possibile candidata per l'inserimento
nel suo progetto di lingua internazionale.
Il 1878 è l’anno che vede la nascita ufficiale della Lingwe Universala¸il primo embrione
del futuro esperanto, completo di grammatica, vocabolario e di alcune poesie originali
e tradotte. Per l’occasione, Zamenhof, insieme ad alcuni compagni di classe, intona un
inno nel nuovo idioma, di cui ci resta il seguente frammento (Zamenhof L. , 1929, p.
417-422):
Malamikete de las nacjes
Kadò, kadò, jam temp’ està!
La tot’ homoze in familje
Konunigare so debà.
Inimicizia delle nazioni,
Cadi, cadi, è tempo ormai!
Tutta l’umanità in una famiglia,
Unificare si deve.
Tuttavia, il progetto subisce una radicale interruzione. Infatti, quando, nel 1879,
Ludwik finisce il ginnasio e si trasferisce a Mosca per frequentare la facoltà di
Medicina, l’unica accessibile anche agli ebrei, il padre, conscio delle opportunità che
l'istruzione universitaria poteva offrire al figlio e timoroso che i suoi interessi linguistici
potessero pregiudicare la sua futura carriera di medico o ingenerare sospetti nella
rigida polizia russa, incline a ritenere sovversive occupazioni di quel genere, gli impone
di lasciare a casa tutto il materiale accumulato e di sospendere la sua ricerca almeno
fino al conseguimento della laurea. Intanto, a insaputa del suo autore, il manoscritto
viene bruciato.
Nel marzo 1881 viene assassinato a Mosca lo zar Alessandro II e a questo segue un
duro momento per gli ebrei russi: in tutto il territorio si intensificano i pogrom e gli atti
di violenza contro le comunità ebraiche, con la compiacenza delle autorità e
dell’esercito; viene inoltre propagandata la loro immagine di sfruttatori e sediziosi e
proposta la loro espulsione.
Gli ebrei, oggetto di tanto odio, comprendono dolorosamente che il progetto di
integrazione è fallito e che il popolo russo non li accetterà mai.
10
Per protestare contro quella politica, il giovane Zamenhof partecipa attivamente, dal
1882 al 1887, all’interno del movimento sionista Ĥibat Sion6.
Durante questi anni di duro conflitto, egli matura la consapevolezza che il progetto di
una lingua comune non è sufficiente per riunificare in modo pacifico i popoli e,
parallelamente, comincia a elaborare un ideale di religione universale.
A Varsavia il governo zarista fomenta l’antisemitismo. Per protesta il giovane partecipa
attivamente al movimento sionista Hibat Sion dal 1882 al 1887. Durante questi anni si
convince che una lingua comune non basta per eliminare le incomprensioni sociali e,
mentre lavora ad un secondo progetto di lingua universale, pensa anche ad elaborare
una religione filosofica universale, che rendesse il mondo la casa di tutti gli uomini, con
un solo credo e una sola lingua; a questo proposito cerca di analizzare le ragioni
dell'infelicità del popolo ebraico e della tensione con quello palestinese, e invoca una
riforma dell'ebraismo ispirata ai principi dell'hilelismo7, basato sull'amore per il
prossimo (Zamenhof L., 1929).
Nel 1886 si specializza in oftalmologia e l’anno seguente incomincia ad esercitare la
professione a Varsavia. Nel 1887 sposa Carla Zilbernik e, nello stesso anno, dà alle
stampe un opuscolo dal titolo Internacia Lingvo, prima in russo e successivamente in
polacco, francese, tedesco e inglese. Questo libretto di appena 40 pagine si rivela di
importanza fondamentale per la nascita dell’esperanto, in quanto comprende le 16
regole fondamentali, un vocabolario contenente circa 900 radici, esperimenti linguistici
ed esempi di traduzione e di composizione originale, sia in prosa che in poesia.
2.2 Formazione e consolidamento della lingua
La 'Lingua Internazionale', malgrado la censura, si diffonde velocemente e diventa nota
sotto lo pseudonimo dell’inventore, Doktoro Esperanto, il 'dottore che spera'. Nello
stesso anno esce il primo periodico, un mensile denominato La Esperantisto,
interamente in esperanto dopo pochi numeri. La rivista diviene presto il luogo di
6 Il nome del movimento significa 'Amore per Sion', ma esso è conosciuto anche come Hovevei Zion. Il
progetto di questo gruppo era quello di far rivivere uno Stato ebraico in Palestina.
7 Il termine deriva dal nome del rabbino Hillel (vissuto all’epoca di Erode il Grande, quindi più o meno
contemporaneo di Cristo). La successiva evoluzione di questa dottrina è l’Homaranismo: mentre il primo
è stato pensato per gli ebrei, il secondo "riguarda tutti i popoli e le religioni” (Zamenhof L. , Originala
verkaro, 1929, p. 324).
11
dibattiti sulle possibili riforme strutturali: Zamenhof le raccoglie e le sistematizza in un
progetto di riforma organico.
Per attirare un pubblico su scala mondiale, alla fine dell’opuscolo Zamenhof inserisce
otto pagine formate ciascuna da 4 schede riportanti il seguente testo: “Promessa. Io
sottoscritto prometto di imparare la lingua internazionale proposta dal Dott.
Esperanto, se sarà dimostrato che dieci milioni di persone abbiano fatto
pubblicamente la stessa promessa. Nome e indirizzo”.
I primi 1000 indirizzi pervenuti, vengono pubblicati da Zamenhof nel 1889
nell’Adresaro, ovvero nell’'indirizzario', inaugurando così una tradizione che, ancora
oggi, rimane uno dei mezzi di propaganda più efficaci dell’organizzazione esperantista.
Nel 1888 Zamenhof pubblica il Dua libro de l’Lingvo Internacia, ovvero il 'Secondo Libro
della Lingua Internazionale', che consiste in un sostanzale ampliamento del volume del
1887. Nel 1889 viene pubblicato l’Aldono al la Dua libro de l’Lingvo Internacia, cioè un
'Supplemento al Secondo Libro della Lingua Internazionale', che rappresenta un punto
di svolta in quanto, da questo momento in avanti, la lingua sarà ufficialmente
considerata un patrimonio universale e non una proprietà esclusiva del suo autore.
Impoveritosi a causa della pubblicazione dei suoi opuscoli, Zamenhof trasferisce il suo
ambulatorio da una città all’altra per stabilirsi definitivamente a Varsavia nel 1898. In
questo periodo egli produce gli scritti più importanti sull’esperanto. Nel 1894 pubblica
l’Universala vortaro, 'Vocabolario Universale', con traduzioni del lessico esperanto in 5
lingue. Nello stesso anno presenta una raccolta di esercizi, Eksercaro, e nel 1903
pubblica il Fundamenta Krestomatio, ovvero una 'Antologia Fondamentale',
comprendente esercizi, articoli, discorsi, aneddoti, poesie e prose, originali e tradotte.
Una tappa fondamentale nella storia della lingua e del movimento è il primo Congresso
Universale, organizzato nel 1905 a Boulogne-sur-Mer, che otterrà un buon successo,
grazie a circa 700 partecipanti provenienti da 20 paesi, dando inizio alla tradizione dei
congressi mondiali di esperanto. I punti della 'dichiarazione sull’esperantismo'
elaborata in quella sede sono uno statuto che illumina l'essenza e le finalità della
lingua, enunciando ma contemporaneamente lasciando in secondo piano il suo
carattere pacifista e internazionalista, che poteva suscitare critiche di varia natura e
12
tagliare le ali all’intero progetto: “L’esperantismo è un impegno di diffondere nel
mondo intero l’uso di una lingua umana neutrale che senza pretendere di inserirsi
negli affari interni dei popoli e senza mirare assoutamente ad eliminare le lingue
nzionali esistenti, permetterebbe agli uomini di differenti nazionalità di capirsi tra loro,
che potrebbe servire come lingua di pacificazione presso le istituzioni pubbliche nei
paesi dove etnie diverse lottano tra di loro a causa della lingua, e nella quale
potrebbero essere pubblicate opere che si rivelano di uguale interesse per tutti i
popoli. Ogni altra idea o aspirazione che qualsiasi esperantista voglia associare con
l’esperantismo sarà cosa puramente priva di cui l’esperantismo non sarà responsabile”
(Zamenhof L. , 1929, p. 237).
Nello stesso anno appare il Fundamento de Esperanto8 il quale riprende le 16 regole
della Lingvo Internacia ma comprende anche una serie di esercizi ed un vocabolario.
2.3 Critiche e tendenze evolutive
L’Antaŭparolo, ovvero l’introduzione al Fundamento, pur confermando l'orientamento
fin qui proposto, non legittima un’ottica eccessivamente rigida, che avrebbe potuto
impedire lo sviluppo della lingua e l’espansione del movimento: “Malgraŭ la severa
netuŝebleco de la fundamento, nia lingvo havos la plenan eblon ne sole konstante
riĉiĝadi, sed eĉ konstate pliboniĝadi kaj perfektiĝadi; la netuŝebleco de la fundamento
nur garantios al ni konstante, ke tiu perfektiĝado fariĝados ne per arbitra, interbatala
kaj ruiniga rompado kaj ŝanĝado […], sed per vojo natura, senkonfuza kaj sendanĝera”9
(Zamenhof L. , 1905).
Tali preoccupazioni non risulteranno infondate; infatti, già in questa fase si intravede
“la lotta intestina per conservare l’identità dottrinaria” (Lamberti, 1991, p. 244) che
condurrà allo scisma.
Intanto, nell’impero, la situazione storica si fa sempre più complicata per gli ebrei e
Zamenhof, sconvolto dagli avvenimente e sempre fortemente motivato a dare il
8
Per un approfondimento si rimanda al paragrafo 1.4, p. 15.
'Malgrado la severa intoccabilità del fondamento, la nostra lingua avrà la piena possibilità non soltanto
di arricchirsi costantemente, ma anche di migliorarsi e perfezionarsi continuamente; l’intoccabilità del
fondamento ci garantirà pure costantemente che questo perfezionamento si svolgerà non con uno
spaccamento e un cambiamento arbitrari, dovuti a dispute e rovinosi, ma per via naturale, non confusa
e non pericolosa' (la traduzione è mia).
9
13
proprio contributo, fa pubblicare l’opuscolo anonimo Homaranismo, plibonigita kaj
plikompletigita eldono de la dogmoj de Hilelismo (Homaranismo, edizione ampliata e
migliorata dei dogmi dell’Hillelismo), che de Beaufront aveva stroncato perché pensava
occorresse tenere distinto l’esperanto da ogni sistema religioso filosofico e sociale,
pena compromettere quelle dichiarazioni teoriche di neutralità del primo congresso.
L’idea di Zamenhof è invece quella di introdurre i principi dell’Homaranismo dapprima
in Francia (patria dei diritti dell’uomo), nella consapevolezza che all’inizio verrà
dileggiato, ma poi riuscirà a farsi strada.
Il secondo congresso ha luogo a Ginevra nell’agosto del 1906. Zamenhof specifica che
questo loro incontro non ha niente a che fare con la politica, ma che non si può
ignorare l’odio razziale, che pervade la Russia, e le conseguenti violenze, determinati
non dai popoli in sé, ma dalle calunnie diffuse in vario modo perché le persone,
parlando lingue diverse, non riescono spiegarsi e capirsi.
È evidente, in questa sua analisi, la componente più profonda dell’esperantismo,
quella Interna ideo che rimarà pregnante nella storia dello stesso, in quanto ne
costituisce l’aspetto ideale anche se non obbligatorio: “Per il timore di riuscir sgraditi a
quelle persone che vogliono usare l’Esperanto solo per scopi pratici, noi dobbiamo
sradicare dal nostro cuore quella parte dell’Esperantismo che è la piu importante, la
piu santa, quell’idea che è lo scopo principale del movimento esperantista, che è stata
la stella che ha sempre guidato tutti i combattenti per l’Esperanto! Oh no, no,
giammai! Noi rigettiamo questa pretesa con tutte le nostre forze. Se si obbligherà noi, i
primi combattenti per l’Esperanto, a togliere dalla nostra azione tutto ciò che è ideale,
noi stracceremo e bruceremo con indignazione tutto ciò che abbiamo scritto per
l’Esperanto, distruggeremo con dolore i lavori e i sacrifici di tutta la nostra vita,
getteremo lontano la stella verde che riposa sul nostro petto e grideremo con
abominazione: "Con un simile Esperanto, che deve servire esclusivamente a fini di
commercio e di utilità pratica, noi non vogliamo avere niente in comune!"” (Zamenhof
L. , 1929, p. 371-372).
14
In questa fase de Beaufront accetta apparentemente un simile orientamento, ma in
realtà prepara la strada per la sua riforma, che passerà dall’Adjuvanto per arrivare
all’ido10, il 'figlio' dell’esperanto finalmente libero dal controllo di Zamenhof.
Nell’estate del 1907 si tiene a Cambridge il terzo congresso e Zamenhof ne approfitta
per ribadire quello che secondo lui è il vero significato di questi appuntamenti: non
tanto fare pratica della lingua o fare propaganda, quanto incontrare samideanoj,
ovvero 'coloro che condividono la stessa idea', e ricordare il valore dell’esperantismo
per l’umanità.
Questo rinnovato appello può essere facilmente spiegato prendendo in considerazione
alcuni eventi precedenti a quell’anno. Nel 1894, a seguito di una consultazione
generale sulla base di un sondaggio condotto dalla rivista La Esperantisto, e
successivamente, durante il congresso mondiale di Ginevra del 1906, si era stabilita
l’intoccabilità del Fundamento de Esperanto11. In principio, Zamenhof con grande
umiltà aveva preso in considerazione qualsiasi proposta migliorativa, ed anzi fu lui
stesso ad incoraggiare i lettori dei suoi libri a proporre soluzioni alternative ai tratti più
problematici. La maggior parte degli esperantisti si era dichiarata a favore del
mantenimento della lingua così come essa era stata ideata, ma questo non fermò
movimenti riformatori. Per fronteggiare questo problema Zamenhof ripropose nel
1907 una semplificazione della lingua che prevedeva l’abolizione di consonanti con
soprassegno, che sarebbero state sostituite da una h subito dopo la consonante
interessata; la sostituzione di ĥ con k; l’abolizione dell’accusativo; l’invariabilità
dell’aggettivo attributivo.
Queste modifiche avrebbero indubbiamente semplificato la lingua, tuttavia non furono
accolte dagli esperantisti che, abituati già alla grammatica, si opposero alla riforma.
La tensione interna al movimento è crescente e lo scisma diventa inevitabile.
Malgrado qualche perplessità, Zamenhof aveva scelto de Beaufront e Couturat come
rappresentanti dell’esperanto presso il comitato della Delegazione per la Scelta di una
lingua internazionale, che stava per riunirsi. Dopo aver valutato e scartato varie
10
Il suffisso –id- in esperanto serve proprio a indicare il “figlio”, o “il cucciolo” di qualcuno.
Durante questo congresso si adottò, infatti, la dichiarazione sulla neutralità dei congressi di Esperanto
(Janton, 1996, cap. 2.3).
11
15
proposte, il comitato approva l’esperanto, ma de Beaufront e Couturat annunciano
che intendono proporre un progetto parzialmente modificato. Nonostante
l’opposizione del linguista De Courtenay, de Beaufront annuncia ufficialmente la
nascita dell’Ido12. Appresa la notizia, Zamenhof si sente oltraggiato, poiché riteneva
che il plenum del congresso avrebbe dovuto prima valutare tali proposte ed esprimersi
al riguardo. Alla fine quella riforma non ottiene molto seguito e l’esperanto ne esce in
qualche misura rafforzato.
Nel corso quarto congresso tenuto a Dresda nel 1908, Zamenhof, in riferimento alle
turbolenze dell’anno precedente, ribadisce che le proposte di cambiamento sono ben
accette, ma devono essere attentamente valutate dal Comitato linguistico (quello che
poi prenderà il nome di Accademia d’Esperanto), che ha il compito di tutelare la lingua
dall’anarchia. Inoltre è consapevole che l’esperanto è ancora troppo legato alla sua
persona, dunque medita di ritirarsi: dal quinto congresso, quello di Barcellona, egli non
è più il capo dell’esperantismo, ma un appassionato in mezzo ai tanti.
Al congresso di Berna (1913) dirà: “L’Esperanto non dipende più, oramai, da un solo
uomo nè da un qualsiasi gruppo di uomini, per il suo successo. Gli uomini possono
andare e venire, ma l’Esperanto continuerà fino a che l’ideale di una lingua
internazionale, unendo tutti i popoli con il legame di una comune comprensione, non
sarà realizzato per il bene dell’umanità.” (Lamberti, 1991, p. 326)
La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria battuta d’arresto per
l’evoluzione del movimento, e Zamenhof non vivrà abbastanza a lungo per vedere
realizzato il suo sogno, visto che morirà il 14 aprile del 1917.
Dopo il 1917 il movimento entra in una fase d’assestamento, durante la quale si adatta
alle nuove condizioni del mondo ridefinendo i suoi scopi. Più di prima acquisisce
rilevanza l’ideale di pace, che peraltro, alla fine della guerra, si diffonde anche tra i non
esperantisti, come è evidente dalla Costituzione della Lega delle Nazioni. La
comunanza morale degli scopi della Lega e dell’esperantismo costringe allora il
12
L’ido, in realtà, è solo uno dei primi tentativi di riforma strutturale del progetto di Zamenhof; ad esso
ne sono seguiti numerosi altri, ma l’ido rimane quello più famoso, nonché quello che ha ottenuto il
successo e la diffusione maggiori.
16
movimento a distinguersi con la soluzione del problema linguistico, di cui la Lega non si
occupava.
Da allora il movimento esperantista esalta tale aspetto come la sua principale funzione
sociale, con l’intento di dimostrare il sostegno dell’esperanto alla pace.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’esperantismo volge in particolar modo la sua
attenzione all’aspetto linguistico. Tuttavia, l’istituzione nel 1954 di relazioni consultive
tra l’UNESCO e l’UEA accosta nuovamente il movimento esperantista alle
organizzazioni officiali aventi medesimi scopi sociali. Poiché l’interna idea, almeno per
quanto riguarda l’ideale di giustizia e di fraternità, è riconosciuta da quelle
organizzazioni, l’esperantismo è costretto ancora una volta a insistere sulle finalità
linguistiche.
Attualmente, la tendenza prevalente trasferisce del tutto l’interna ideo ad istituzioni
estranee al movimento e, in compenso, accentua maggiormente il valore
dell’esperanto per la comunicazione.
La sistematica persecuzione di esperantisti da parte di alcuni dittatori a partire dalla
seconda guerra mondiale dimostra che per quegli uomini l’esperanto non era soltanto
una lingua. Se le parole di giustizia e di fraternità sono diventate talmente comuni nella
retorica politica da non sembrare pericolose, l’internazionalismo era una cosa ben
diversa, particolarmente dopo la costituzione delle associazini esperantiste dei
lavoratori e dei soggetti privi di nazionalità. Poiché l’appropriazione popolare
dell’internazionalismo coincise con l’ascesa della potenza statunitense, gli operatori
finanziari ed economici trascurarono di sostenere il movimento esperantista. La loro
sfiducia in una lingua internazionale popolare, oltre all’adozione generalizzata
dell’inglese, si riflette nell’atteggiamento ufficiale delle democrazie occidentali e di
importanti istituzioni verso una lingua internazionale neutra.
Per esempio, il 6 ottobre 1966 fu presentata all’ONU una petizione, non superiore alle
11 righe, in favore dell’esperanto. Essa recava più di un milione di firme individuali così
come quelle di circa 4000 organizzazioni, che rappresentavano complessivamente 70
milioni di aderenti in circa 80 Paesi (Lapenna, Lins, & Carlevaro, 1974, p. 778-791).
Tuttavia, la segreteria la respinse, senza metterne a conoscenza gli stati membri.
17
Anche oggi cifre simili sarebbero rare per petizioni scaturite da iniziative private, prive
di connessioni economiche, politiche o religiose. Attualmente, per quanto sia diffuso in
seno al Parlamento Europeo (nel 2004 vari deputati appartenenti a Paesi diversi hanno
firmato l’ennesima petizione, bocciata per soli due voti), l’esperanto non riesce ancora
ad imporsi all’attenzione degli enti governativi, che probablmente temono le
potenzialità storiche e sociali della lingua.
18
3. La lingua
3.1 Il Fundamento
Nel 1905 Zamenhof pubblica a Parigi il Fundamento de Esperanto, che fissa la lingua
nella forma apparsa nel 1887. Dal Congresso di Boulogne, costituisce per gli
esperantisti il riferimento grammaticale di base. Il quarto paragrafo della
'Dichiarazione sull’essenza dell’esperantismo' recita: “L’unico fondamento della lingua
esperanto obbligatorio per tutti gli esperantisti è il libro Fundamento de Esperanto al
quale nessunon ha il diritto di fare cambiamenti” (Zamenhof 1929, p. 238).
Come appare dalla prefazione, l’opera ha lo scopo di tutelare la lingua da iniziative
discutibili, pur non impedendo qualsiasi evoluzione. Zamenhof, seppur favorevole
all’introduzione di neologismi, è convinto che l’esperanto possa sopravvivere soltanto
evolvendosi secondo principi rigorosamente definiti ed obbligati fintantoché,
riconosciuto ufficialmente, sia protetto legalmente da ogni capriccio personale. Allora
un comitato internazionale potrà procedere alle riforme necessarie. Fino a quel giorno,
il Fundamento sarà vincolante per tutti gli esperantofoni, incluso lo stesso autore.
Di seguito sono elencate, nella forma citata da Janton (1996 cap. 3.1.2), le sedici
regole13 base della lingua che costituiscono la matrice immodificabile su cui si
innestano e si intrecciano le successive evoluzioni dell’esperanto:
1.
“L’articolo indefinito non esiste, esiste soltanto l’articolo determinativo
invariabile la, per tutti i generi, casi e numeri.
2.
Il sostantivo è caratterizzato dalla finale -o. Per formare il plurale si aggiunge la
finale –j. Esistono soltanto due casi: nominativo e accusativo, il secondo deriva dal
nominativo con l’aggiunta della finale -n. Gli altri casi sono espressi mediante
preposizioni.
3.
L’aggettivo termina con la -a finale. Casi e numeri come per il sostantivo. Il
comparativo si forma con pli e la congiunzione ol, il superlativo con plej e la
congiunzione el.
13
Tali regole forniscono una prima introduzione al funzionamento dell’esperanto, un sistema che, per
quanto concerne l’aspetto morfologico, sarà illustrato più accuratamente nel capitolo successivo.
19
4.
I numerali fondamentali (che non sono declinati) sono: unu, du, tri, kvar, kvin,
ses, sep, ok, naǔ, dek, cent, mil, nul. Le decine e le centinaia si formano con la semplice
unione dei numerali. Per indicare i numeri ordinali si aggiunge la finale dell’aggettivo,
per i moltiplicativi il suffisso -obl-, per i frazionari il suffisso -on-, per i collettivi si
aggiunge il suffisso -op-; per i distributivi si usa la preposizione po. I numerali possono
anche essere usati come sostantivi e avverbi.
5.
I pronomi personali sono: mi, vi, li (riferito al genere maschile), ŝi (riferito al
genere femminile), ĝi (riferito al genere neutro, per animali o cose), si (riflessivo), ni, vi,
ili, oni (indefinito). In espressioni poetiche e famigliari il pronome di 2 a persona
singolare può essere: ci. I pronomi o gli aggettivi possessivi si formano con l’aggiunta
della finale dell’aggettivo. La declinazione è come per i sostantivi.
6.
Il verbo non si modifica secondo persone o numeri. Forme del verbo: il tempo
presente termina in -as, il tempo passato in -is, il tempo futuro in -os, il modo
condizionale in -us, il modo imperativo in -u, il modo infinito in -i. I participi (con senso
di aggettivo o di avverbio) hanno, se attivi, il suffisso -ant- per il presente, -int- per il
passato, -ont, per il futuro; se passivi il suffisso -at- per il presente, -it- per il passato, ot- per il futuro. Tutte le forme del passivo sono composte dal corrispondente tempo
del verbo ausiliare esti e dal participio del verbo da esprimere; la preposizione che
accompagn il passivo (complemento d’agente) è de.
7.
Gli avverbi derivati terminano in –e, i gradi di comparazione come per gli
aggettivi.
8.
Tutte le preposizioni reggono il nominativo.
9.
Ogni parola si pronuncia come è scritta, col suono proprio di ciascuna lettera.
10.
L’accento tonico cade sempre sulla penultima sillaba o vocale.
11.
Le parole composte sono formate dalla semplice unione delle parole (la parola
principale sta per ultima); le finali grammaticali sono considerate anche come parole
autonome.
12.
Nella frase si tralascia la parola ne se esiste un’altra parola negativa.
13.
Per indicare una direzione le parole prendono la finale dell’accusativo.
20
14.
Ogni preposizione ha un significato preciso e costante, ma se si deve usare una
preposizione e non è chiaro quale preposizione dobbiamo usar, allora si usa la
preposizione je, che non ha un significato proprio. In tal caso si può anche usare
l’accusativo senza preposizione.
15.
Le cosiddette parole straniere, che nella maggior parte delle lingua sono derivate
da una stessa fonte, sono usate in esperanto senza variazione e assumono di questa
linua soltanto l’ortografia.
16.
Si possono tralasciare le vocali finali del sostantivo del sostantivo e dell’articolo e
sostituirle con un apostrofo”.
3.2 Ortografia e fonetica
La nona regola del Fundamento recita che ogni parola deve essere pronunciata com’è
scritta, col suono proprio di ciascuna lettera. Questo principio, che è alla base
dell’ortografia fonetica dell’esperanto, stabilisce una corrispondenza biunivoca tra
grafia e fonetica tale da facilitare la pronuncia, nonché la trascrizione, di qualsiasi
parola.
L’alfabeto dell’esperanto14 si compone di 28 lettere, ovvero 21 consonanti, 5 vocali e 2
semivocali:
a b c ĉ d e f g ĝ h ĥ i j ĵ k l m n o p q r s ŝ t u v z
Possiamo facilmente osservare la presenza di sei grafemi provvisti di diacritici
(supersignoj), nella forma di un accento circonflesso (ĉapelo) o di un segno breve
(haketo).
Per dimostrare come l’esperanto si adatti alla fonetica delle lingue naturali (l’efficacia
della metodologia didattica è molto importante per una lingua artificiale), si
contestualizzeranno determinati foni in parole italiane che ne esemplificano la
pronuncia.
14
I nomi delle lettere dell’alfabeto vengono citati con l’ausilio della vocale o, suffisso distintivo del
sostantivo.
21
a
b
c
ĉ
d
e
f
g
ĝ
h
[a]
[bo]
[le’tsjo:ne]
[‘ʧenʧo]
[do]
[e]
[fo]
[go]
[‘ʤunʤere]
(legg. aspirata)
ĥ
i
j
ĵ
k
l
m
n
o
(ch tedesco)
[i]
[‘pja:no] (semicons.)
[ʒur’nal] (francese)
[‘ko:mico]
[lo]
[mo]
[no]
[o]
p
r
s
ŝ
t
u
ŭ
v
z
[po]
[ro]
[‘se:me]
[‘ʃa:me]
[to]
[u]
[‘wo:mo] (semicons.)
[vo]
[te’soro]
Per quanto riguarda la classificazione delle consonanti secondo i tre parametri
fondamentali (luogo di articolazione, modo di articolazione,presenza/assenza di
sonorità), si può tracciare il seguente schema, utilizzando i fonemi dell’alfabeto
fonetico internazionale IPA:
OCCLUSIVE
LABIALI
LABIO-DENTALI
DENTALI
PALATALI
VELARI
Sord./Son.
Sord./Son.
Sord./Son.
Sord./Son.
Sord./Son.
p
AFFRICATE
t
f
FRICATIVE
NASALI
b
v
ts
s
m
d
z
k
ʧ
ʤ
ʃ
ʒ
x
GLOTTIDALI
Sord./Son.
g
h
n
LATERALI
l
VIBRANTi
r
La maggior parte di questi suoni risulta familiare al parlante italiano; gli elementi cui il
neofita deve prestare maggiore attenzione sono i seguenti:

/c/ e /ĉ/: poiché ogni grafema ha un suono predefinito che non è
condizionato dal contesto linguistico in cui si trova, si pronunciano
rispettivamente [ts] e [tʃ], come in 'azione' e 'cena';

/g/ e /ĝ/: si pronunciano sempre [g] e [ʤ], come in 'gatto' e 'gelato'. Poiché
i foni [ʎ] e [ɲ] non esistono, ogni componente dei gruppi consonantici /gl/ e
/gn/ va pronunciato separatamente;

/ŝ/ si pronuncia con la [ʃ] di 'scena', e /ĵ/ con la [Ʒ] del francese jour;
22

/h/ non è muta, ma prevede una leggera aspirazione; /ĥ/, che peraltro si
incontra assai di rado, corrisponde a suoni presenti in lingue come il tedesco e
l’ebraico, che Zamenhof ben conosceva.
Delle due semivocali (duonvokaloj) /j/ e ŭ/ la prima ha frequenza maggiore,poiché
consente di formare il plurale di sostantivi e aggettivi, mentre la seconda costituisce
spesso l’elemento finale dei cosiddetti avverbi primitivi, cioè quelli non derivati da un
aggettivo, come hodiaŭ e baldaŭ. Entrambe comunque ricorrono solo come secondo
membro di un dittongo e, pertanto, non possono mai essere accentate.
Qualitativamente non differiscono molto dal corrispondente suono vocalico ma, nel
suo Plena Manlibro de Esperanta Gramatiko, Wennergren (2005, p.27) sottolinea che
/i/, anche quando è atona, dovrebbe avere una lunghezza maggiore di /j/, così da
poter distinguere termini altrimenti omonimi come mielo (miele) e mjelo (midollo).
Tuttavia, nella pratica tale distinzione viene ignorata.
Il triangolo vocalico comprende solo cinque membri che, a differenza dell’italiano, non
si distinguono per la qualità vocalica. Secondo Wells (1989, p. 19), i tratti
caratterizzanti sono anteriore/posteriore e alto/basso, mentre la rotondità non è un
tratto fonologicamente distintivo. Lo stesso autore evidenzia un ulteriore aspetto
interessante: l’esistenza di un sistema vocalico ridotto consente ai parlanti della lingua
una certa libertà nella realizzazione, senza timore di ingenerare confusione. Questo
margine di tolleranza consente ai parlanti L1 diverse di adoperare ciascuno la propria
variante senza compromettere in alcun modo la comunicazione. Nella retorica
esperantista, questo è uno dei punti in cui viene maggiormente rimarcato il contrasto
con l’inglese, il cui complesso sistema fonologico richiede la capacità di cogliere
sfumature anche molto sottili.
Non è raro che in esperanto il criterio razionale di fondo e l’uso pratico di tutti i giorni
giungano a un compromesso. In effetti, Wells (1989, p. 25) riassume la questione
indicando tre criteri per definire quale sia la pronuncia corretta:

pratico: è preferibile qualunque pronuncia consenta l’intercomprensione
tra esperantisti di diversa L1;
23

linguistico: la buona pronuncia è quella che riflette il carattere fonologico
dell’Esperanto, ovvero quella che minimizza il numero degli allofoni (minumigas
pluralofonecon);

geografico: è accettabile quella pronuncia che risulti geograficamente
neutrale, che non riveli il luogo di appartenenza.
In virtù dell’eterogeneità della comunità esperantista, Zamenhof decise di rendere
invariabile la posizione dell’accento di parola, che cade sempre sulla penultima sillaba,
ad eccezione naturalmente dei monosillabi. Data la loro natura di semivocali, /j/ /ŭ/
non spostano l’accento tonico, per cui al singolare e al plurale la sillaba accentata è
sempre la penultima: [‘homo], [‘homoj] (uomo, uomini). Tuttavia, anche per quanto
riguarda gli accenti, la pratica si rivela più composita della teoria. Wennergren (2005,
p. 29) infatti, precisa che, se la regola per l’accento principale è quella ben definita
dalla decima regola del Fundamento, per gli accenti secondari (kromakcentoj), presenti
in parole lunghe come i composti, i parlanti sono liberi di attenersi alle proprie
preferenze; si potrà dunque oscillare tra [‘maten’manʤo] e [ma’ten’manʤo]
(colazione).
Secondo quanto definito dalla sedicesima regola del Fundamento, la –o finale del
sostantivo o la –a dell’articolo possono subire l’elisione a vantaggio dell’aspetto
prosodico della lingua, la quale può modificarsi dal ritmo anfibraco ( – ) o trocaico
(– ), a quello giambico ( –)ed anapestico (  –), favorendo una maggiore varietà
ritmica15.
3.3 Sintassi
Per quanto riguarda la costruzione delle frasi affermative, e in particolare l’ordine dei
costituenti (quando S e O sono sostantivi o sintagmi nominali, non pronomi), quello
largamente più diffuso è SVO (Wells, 1989, p. 40), ma è necessario distinguere le lingue
in cui la successione degli elementi frasali è rigidamente fissata da quelle in cui c’è
maggiore libertà; in queste ultime, ordini differenti veicolano sfumature di significato o
enfasi diverse. L’esperanto ha questa possibilità, perché l’oggetto è sempre
15
Esempio: espero ( – ), esper’ ( –), malesper’ (  –) (Janton, 1996, cap. 3.2.3).
24
chiaramente distinguibile dal soggetto mediante la marca dell’accusativo che
conferisce alla sintassi maggiore flessibilità e libertà di espressione. I vantaggi che
questo ordine apporta sono vari e significativi: consente al principiante la facoltà di
attenersi all’ordine sintattico della propria lingua madre, che probabilmente riflette il
flusso naturale dei suoi pensieri; permette di mettere in rilievo e conferire enfasi di
volta in volta a elementi diversi (tion mi ne faris! Quello non l’ho fatto io!); rende
possibile la collocazione di un costrutto particolarmente lungo e complesso in fondo
alla frase, per non appesantirla16. Dunque, la possibilità di deviare dall’ordine SVO
permette una differente tematizzazione dell’informazione anche senza il ricorso a
risorse esterne come l’intonazione.
Un discorso analogo vale per le frasi predicative, del tipo soggetto – copula –
predicato, in cui l’ordine è altrettanto modificabile (ruĝa estis tiu plumo, rossa era
quella penna), tranne quando S e P sono due sostantivi in rapporto di iperonimia,
poiché si potrebbero ingenerare ambiguità17.
Per quanto concerne la struttura della frase interrogativa, si possono individuare due
tipi di domande:

totali, che richiedono una risposta affermativa o negativa. In molte lingue,
le domande totali si ottengono col cambio di intonazione o con l’inversione di
alcuni elementi della frase; l’esperanto adotta invece la strategia di inserire una
parola, ĉu, con lo specifico compito di trasformare un’affermazione in un
domanda: Vi venos morgaı / Ĉu vi venos morgaı? (Domani verrai / Verrai
domani?);

parziali, che richiedono una risposta più articolata. Si tratta delle KI-
demandoj, le parole della serie ki- dei correlativi, che introducono proposizioni
interrogative del tipo Kiel vi fartas? (Come stai?), Kion vi volas? (Che cosa
vuoi?), Kiom da pomoj vi havas? (Quante mele hai?).
In merito alla frase negativa, come prescritto dalla dodicesima regola del Fundamento,
l’esperanto non ammette la doppia negazione; dunque, in presenza di un correlativo
16
Questo può accadere anche in una frase intransitiva, se il soggetto è un articolato sintagma: malaperis
tiu stranga viro kun nigra ĉapelo (scomparve quell’uomo strano col cappello nero) (Wells, 1989, p. 42)
17
Dire leono estas besto(il leone è un animale) è diverso da besto estas leono (animale è un leone).
25
della serie neni- si elimina la particella ne: mi vidis neniun (non ho visto nessuno),
nenial mi iros ien (non ci andrò per nessun motivo).
Wells (1989, p. 47) individua ulteriori caratteristiche sintattiche e adotta le
rappresentazioni ad albero per fornire gli indicatori sintagmatici utili ad illustrare la
struttura tipica della frase esperanto; per quanto riguarda ad esempio l’ordine degli
elementi all’interno del sintagma nominale, l’articolo si trova invariabilmente prima
del sostantivo, tranne nella costruzione 'nome di persona/articolo/aggettivo
qualificativo o numerale' (Reĝo Luizo la Dekkvara, re Luigi XIV). L’articolo non si trova
mai insieme ad altri determinanti, siano essi correlativi o aggettivi possessivi (mia
hundo, il mio cane). L’aggettivo invece può precedere o seguire il sostantivo per
ottenere effetti semantici o stilistici; frasi come Mi estas certa, ke brilan vi havos
sukceson mostrano un iperbato per cui il sintagma nominale è addirittura spezzato a
metà, senza che tuttavia ciò generi ambiguità sul significato. I sintagmi preposizionali e
le frasi relative solitamente seguono il SN cui si riferiscono (Li estas amiko de mia
patro, egli è amico di mio padre; jen litero, kiun mi ĵus trovis, ecco la lettera che ho
appena trovato).
In definitiva, Wells conclude che l’esperanto, dal punto di vista sintattico, presenta le
caratteristiche delle lingue statisticamente più diffuse del pianeta, ma gode di una
flessibilità tale da ridurre le difficoltà che i parlanti delle altre lingue incontrano
durante il processo di apprendimento.
26
4. La morfologia
4.1 Lessemi
I lessemi18 dell’esperanto provengono per il 75% dal latino e dalle lingue romanze (in
particolare dal latino e dal francese), e per il 20% da quelle germaniche. Per il resto, si
tratta di prestiti dal greco (soprattutto radici di termini scientifici e tecnici), dal russo e
di lessemi derivanti dallo yiddish, dall’arabo, dal giapponese e da altre lingue ancora
(Janton, 1996, cap 3.3.1).
Rispetto ad altre lingue pianificate, i lessemi dell’esperanto si differenziano per il loro
grado di monomorfismo (uniformità) e per “l’integrità dei lessemi derivati” (Janton,
1996, cap 3.3.1). Tuttavia, in quest’ultimo caso, si registrano delle eccezioni per le
seguenti motivazioni:

per evitare casi di omofonia: ad esempio, per distinguere il termine
tedesco locken dal latino locus, si opta per log- nel primo caso, lok nel secondo;

per evitare la confusione tra lessema e morfema: ad esempio, il sostantivo
francese cigarette si trasforma in esperanto in cigarendo, in modo da evitare il
suffisso diminutivo-et;

per evitare parole polisemiche, prestando particolare attenzione a termini
appartenenti a lingue diverse, convergenti sul piano del significante ma
divergenti su quello del significato;

per alleggerire espressioni complesse: ad esempio nepre dal russo
nepremenno.
Da rilevare, inoltre, è la differenza tra le radici in esperanto e quelle in altra lingua.
Quella che gli esperantologi chiamano 'radice' non sempre corrisponde alla
terminologia usuale per descrivere le lingue etniche. Pur verificandosi numerosi casi di
corrispondenza (es. vid-i dal latino vid-ere), talvolta la radice comprende vari morfemi
e corrisponde al radicale secondo una lingua nazionale. Ad esempio, nella radice
18
Si utilizza il termine 'lessema' secondo la definizione data da Janton (1996, cap3.3), ovvero “I lessemi
sono le parole che danno il senso, cioè mostrano un significato generale: sun, teler, manĝ, util, ĵus,
hodiaŭ, ecc.”.
27
esperanto inspir- non si distingue il prefisso latino in- dalla radice spir-, ma questi due
elementi vengono fusi in un nuovo lessema. Ciò dimostra che le radici in esperanto
non si basano sull’etimologia nazionale della parola, ma costituiscono ciascuna una
nuova unità.
Sulla scorta dei lessicologi ebraici, Zamenhof considerò i lessemi invariabili per
classificare sotto ciascuno di essi le parole derivate (sotto man- ha classificato mano,
mana, maneto, mane). Ricavò radici verbali e nominali comparando i lessemi in cinque
lingue (francese, inglese, tedesco, russo, polacco), per esempio, acet- (comprare):
acheter / buy / kaufen / pokupat / kupowac. A tal proposito, Zamenhof non ritenne
opportuno distinguere lessemi verbali e nominali, perché avrebbe utilizzato categorie
non rigorose. In ogni caso, i lessemi concorrono a formare verbi o sostantivi quando si
uniscono a morfemi verbali o sostantivali indicanti la funzione grammaticale (rapid-:
rapid-a, rapid-o, rapid-e, rapid-i).
4.2 Vortfarado
Janton (1996, cap. 3), nel suo fondamentale testo sulla lingua, la letteratura e il
movimento esperantista, afferma che a suo avviso la tradizionale classificazione dei
morfemi usata per descrivere le lingue europee non dà adeguatamente conto delle
peculiarità di questa lingua. Infatti, generalmente gli esperantologi riconoscono tre
categorie di morfemi:

le radici, che “significano qualche concetto”;

gli affissi, che “modificano il senso della radice alla quale si uniscono, senza
influire sul suo carattere grammaticale né sulla sua funzione compositiva”;

le finali, che forniscono informazioni di natura grammaticale sulla parola in
questione (Janton, 1996, cap 3.3).
Per chiarire, esaminiamo una parola di esempio nei suoi componenti costitutivi. In
nemanĝeblaj (immangiabili) possiamo individuare i seguenti morfemi:

ne-, prefisso che determina una negazione;

manĝ-, radice del verbo corrispondente all’italiano mangiare;

-ebl-, suffisso che indica la possibilità;
28

-a-, morfema derivativo che classifica la parola come aggettivo;

-j, morfema flessivo che identifica il plurale.
Dunque, nemanĝeblaj sarebbe formato dalla giustapposizione di due affissi, una radice
e due finali. Tali analisi, che trova riscontro in alcuni manuali per l’apprendimento della
lingua (si veda Broccatelli, 1995), non può dirsi pienamente soddisfacente, poiché ha il
solo obiettivo di presentare la lingua ai discenti e agli studiosi mediante una
terminologia che, soprattutto all’epoca di Zamenhof, era più comune nella descrizione
morfologica. Questa classificazione, sebbene abbia indiscussi vantaggi pratici poiché
consente a chi vuole apprendere la lingua di attingere a un consolidato bagaglio di
conoscenze grammaticali, tuttavia, non tiene in considerazione l’originale natura delle
vortoj (parole) dell’esperanto, che, secondo la teoria dello stesso Zamenhof espressa
nel Fundamento Krestomatio, sono totalmente scomponibili in parole indipendenti “in
modo che l’insieme della lingua non consista di parole sotto diverse forme
grammaticali, ma esclusivamente di parole invariabili. […] così per esempio la parola
fratino (sorella) in effetti consiste di tre parole: frat (concetto di fratello), in
(concetto di femmina), o (concetto di cosa o idea esistente), dunque fratello +
femmina = sorella. Ma nel manuale la parola fratino è spiegata come segue: fratello =
frat, poiché ogni sostantivo al nominativo finisce per o, si ha frato; per formare il
femminile dello stesso concetto si inserisce il suffisso in, perciò sorella = frat-in-o (i
trattini sono apposti per mostrare le diverse parti grammaticali costitutive della
parola). In questa maniera l’analisi della lingua non mette in difficoltà lo studente, il
quale non suppone che le parole chiamate desinenze o prefisso o suffisso siano parole
del tutto indipendenti che mantengono sempre il rispettivo senso, qualunque sia la
loro posizione alla fine o all’inizio di un’altra parola o se siano usate in forma
autonoma. Perciò ogni parola ha uguale valore per essere usata come radicale o come
parte grammaticale” (citata in Janton, 1996, cap. 3.3).
Renè De Saussure fu il primo ad esporre una teoria organica del sistema di creazione
delle parole (vortfarado). Nel suo La vorto-strukturo en Esperanto (1916), lo studioso
espone la sua argomentazione, per cui l’esperanto non segue regole di derivazione
come tali, bensì modalità razionali di composizione delle parole secondo il principio di
29
necessità e di sufficienza: esistono, dunque, solo parole composte e non derivate 19. In
base al suddetto principio, ogni parola deve contenere tutti gli elementi necessari per
evocare (con o senza laiuto del contesto) l’idea che essa deve esprimere (Principio di
necessità) e ogni parola deve contenere soltanto gli elementi necessari per evocare
l’idea che essa deve esprimere: è bene perciò escludere ogni idea estranea a quella da
esprimere e evitare i “pleonasmi inutili” (Principio di sufficienza) (Saussure, 1916, p.
11-12). Quindi, per l’analisi del significato di una parola, è necessario eliminare
innanzitutto le componenti pleonastiche: ad esempio, in frato la finale -o, che marca il
sostantivo, non aggiunge alcuna nuova informazione rispetto al significato espresso
dalla radice, se non che si tratta di un singolare senza accusativo; ugualmente in skribi,
la finale -i esprime esclusivamente il modo/tempo della coniugazione.
l principi di necessità e di sufficienza trovano applicazione anche in un caso specifico di
composizione delle parole, ovvero quello che prevede l’inserimento di affissi. Ad
esempio, il suffisso -in- rende femminili parole che non veicolano già questa idea
(knabo/knabino, ragazzo/ragazza), tuttavia è ridondante nel caso in cui già la radice
esprima il seme di tale idea (nimfo, ninfa). Il medesimo ragionamento vale per -ej-,
suffisso che indica un luogo (lernejo, luogo in cui si studia, cioè scuola, ma domo, casa).
Merita una particolare attenzione il suffisso -il-, che si riferisce a uno strumento e che
può indurre in errore coloro che si apprestano all’apprendimento della lingua. In
questo caso, è molto importante sapere se una determinata radice ha una natura
nominale o verbale, perché si danno due ipotesi distinte: se l’oggetto deriva da una
forma verbale, il suffisso è indispensabile e avremo, ad esempio, segilo (sega) da segi
(segare)20; se invece la stessa radice esprime l’idea di oggetto, il suffisso è pleonastico
ed avremo forko, broso (forchetta, matita).
Malgrado la ragionevolezza del sistema di Saussure, l’Akademio, l’autorità preposta al
controllo dell’evoluzione dell’esperanto, non l’ha approvato ufficialmente, ma ha
riconosciuto la validità dei principi di necessità e sufficienza. Kalman Kalocsay, nel
19
Ciò accade perché, come mostra l’undicesima regola del Fundamento, anche le finali devono essere
considerate come parole indipendenti che non si limitano ad apportare una marca sintattica.
20
Di fatto, questa ipotesi mostra come sia necessaria la conoscenza mnemonica della categoria lessicale
cui è riconducibile ogni radice.
30
saggio La gramatika karaktero de la Esperantaj radikoj (1938), insiste invece sulla
coerenza della teoria saussuriana, considerata come l’unico sistema realmente capace
non solo di descrivere la lingua, ma anche di prevederne ed impostarne l’evoluzione, e
fornisce il suo contributo per chiarirne la portata. In effetti, le uniche radici a non avere
carattere nominale, verbale o aggettivale (categoria che comprende anche gli avverbi
derivati) sono le preposizioni e le congiunzioni. A differenza della parola, il carattere
della radice non è mai variabile; quando carattere grammaticale della parola e della
radice convergono, la vocale finale è pleonastica dal punto di vista del significato e ha
una funzione solo sintattica. Kalocsay introduce il concetto di 'parelemento', in grado
di chiarire il processo di composizione delle parole nei casi in cui questa coincidenza
non si verifichi. Vediamo l’esempio citato dallo stesso autore ungherese: martelo
(martello) è una radice nominale; per realizzare il verbo (martellare) è necessario
semplicemente modificare la finale, marteli; per continuare la composizione, dando un
nome all’'atto del martellare' si deve aggiungere ancora una volta la terminazione del
sostantivo, *martel-i-o; tuttavia, una singola parola non può contenere due vocali
finali, dunque la prima, in questo caso la -i-, viene sostituita da un parelemento, una
sorta di sinonimo funzionale, il suffisso -ad-: martelado (il martellare)21.
La validità del sistema viene provata anche procedendo in direzione inversa, ovvero
partendo dall’uso concreto: c’è una parte del significato grammaticale che non è
riconducibile alla finale che di volta in volta viene applicata, e che qundi non può che
essere contenuta nella radice, accanto al significato lessicale. In effetti, la conoscenza
del carattere grammaticale di una radice consente di muoversi più facilmente nella
valutazione dei suffissi e delle finali necessari ad operare le trasformazioni.
Ciò nonostante, la teoria del carattere grammaticale delle radici è stata spesso messa
in discussione. Per esempio, Auld (Pri la Naturo deEsperanto, in AA. VV., 1993, p.161 e
segg.) ritiene che si tratti di un equivoco generato dal fatto che i primi vocabolari
esperanto erano bilingui, quindi accostavano il lemma esperanto a una traduzione con
un termine tedesco, francese o russo. La conseguenza di ciò è che la radice viene in
21
Per accennare a un altro esempio, si veda la seguente serie: homo (uomo), homa (umano), *homao
(umanità), -ec- è il parelemento della finale -a, dunque homeco (umanità, come qualità, distinta da
homaro, intesa come collettività).
31
qualche modo ricompresa nelle categorie note, nelle parti del discorso classiche; ad
esempio: frukt- è un sostantivo che significa frutto, blu- è un aggettivo che significa
blu, e così via; tuttavia, una concezione del genere vedrebbe frukt sinonimo di frukto, e
blu sinonimo di blua, come se la finale fosse un orpello non necessario, mentre la
regola fondamentale dichiara che ogni radice mantiene in qualunque caso il proprio
valore e il proprio ruolo, in qualsiasi posizione o contesto si trovi. Secondo Auld, questa
teoria gode di una considerazione tale da essere divenuta lo strumento base per
spiegare i processi di derivazione delle parole, ed effettivamente ha una certa praticità,
ma ha il limite che costringe a memorizzare l’appartenenza grammaticale di tutte le
radici22.
4.3 Morfologia flessiva
La flessione è quel processo morfologico che 'aggiunge' alla parola di base informazioni
concernenti genere, numero, caso (flessione nominale), tempo, modo, diatesi, persona
(flessione verbale) (Scalise & Bisetto, 2008, p. 145).
In esperanto, per indicare la classe grammaticale o la funzione del monema 23, in casi
determinati, si aggiunge un morfema. Gli identificativi di classe flessivi sono: -o per
indicare il sostantivo, -a per indicare l’aggettivo, -e per indicare l’avverbio. Per quanto
concerne il verbo, i morfemi verbali che lo caratterizzano sono: -i, -as, -is, -os, -us, -u24.
Alcuni lessemi sono privi dell’identificativo di classe; come ad esempio:

i correlativi (pronomi, aggettivi, avverbi) costituiti da una sillaba iniziale,
avente un preciso senso caratteristico, a cui si aggiunge un morfema derivato25;

i numerali e ogni elemento in parola composta eccetto l’ultimo elemento
(es.: okulvitro, manlabori);
22
L’uso concreto dei parlanti, comunque, allo stato attuale fa pensare che le radici mantengano un
carattere grammaticale (sostantivale, aggettivale o verbale) sostanzialmente ereditato dalle lingue
fonte, come rispecchiano le regole di agglutinazione degli affissi.
23
“Seguendo Martinet noi chiamiamo monemi quelle minime parole autonome. Esse si differenziano tra
loro secondo il ruolo nella frase” Janton (1996, cap. 3.3).
24
Per un ulteriore approfondimento sui flessivi verbali si veda il paragrafo 4.3.1, p. 33
25
Per la tabella dei correlativi si veda l’Appendice p.50.
32
Un lessema senza identificativo prende quello risultante dalla classe con cui si colloca
nella frase: mi > mia, dek > deko > deka; un lessema con identificativo cambia lo stesso
quando cambia la classe: deko > deka, fino > finis. Poiché la funzione grammaticale non
ha sempre uno speciale identificativo, l’identificativo di classe può assumere il ruolo di
identificativo di funzione: -o indica che si tratta di un nome e che quel nome è in caso
soggettivo o prepositivo: la komenco estas bona (l’inizio è buono), je la komenco
(dall’inizio) (Janton, 1996, cap. 3.3.2.1).
4.3.1 Flessione nominale
La formazione del plurale è regolare e preveda l’aggiunta finale del morfema –j; il
verbo ha la marca Ø.
Il caso (accusativo, in esperanto anche con valore illativo e allativo) ha la marca -n in
relazione con il sostantivo, l’aggettivo, i pronomi e gli avverbi derivati.
Il genere si riferisce al sostantivo. Esiste un suffisso soltanto per il genere femminile,
come vir-o, vir-in-o (cfr. l’ebraico –ish, -isha); patr-o, patr-in-o (cfr. l’arabo waalid,
waalida).
Il pronome indefinito si differenzia tra forma neutra (io) e forma maschile e femminile
(iu).
Il pronome personale distingue tre generi alla terza persona singolare: li, ŝi, ĝi.
4.3.2 Flessione verbale
I morfi flessivi verbali sono sei: -i per indicare l’infinito, -as per il presente indicativo, -is
per il passato indicativo (che corrisponde sia all’imperfetto, sia al passato remoto
dell’italiano), -os per il futuro, -us per il condizionale e -u per l’imperativo. Dunque, non
esistono finali autonome per il congiuntivo, che viene reso dalle altre forme a seconda
delle situazioni: mi pensas, ke li ne pravas (penso che non abbia ragione); mi volas, ke
vi legu (voglio che tu legga); se vi venus, mi estus feliĉa (se venissi sarei contento);
questi esempi mostrano anche che la preposizione secondaria, di qualunque tipo essa
sia, viene sempre introdotta da una virgola.
Poiché il flessivo verbale è invariabile, fatta eccezione per l’imperativo alla seconda
persona (Iru!), il pronome personale deve essere sempre espresso e varia secondo la
persona(mi iras, vi iras, li iras, ...):
33
Singolari
1
2
Mi
Vi
3
Li (mas.)
Ŝi (fem.)
Ĝi (neut.)
Ci (poet.)
Plurali
Ni
Vi
Ili
Singolari e
Si (rifl.)
plurali
Oni (indef.)
Per quanto attiene l’aspetto verbale, soltanto il participio veicola la differenza tra
imperfettivo e perfettivo.
Per quel che riguarda i participi, l’esperanto presenta un sistema molto ricco e
complesso. Presentiamo qui lo schema delle forme base:
Attivo
Passivo
Passato
-int-
-it-
Presente
-ant-
-at-
Futuro
-ont-
-ot-
Quindi, ad esempio, manĝinta significa 'che ha mangiato', manĝita 'che è stato
mangiato', manĝanta 'che mangia', manĝata 'che viene mangiato', manĝonta 'che
mangerà', manĝota 'che sarà mangiato'. Inoltre, applicando la terminazione avverbiale
si costruisce una forma pressappoco analoga al nostro gerundio: manĝinte, 'avendo
mangiato'; manĝate' essendo mangiato', e così via. Attraverso la finale -o, invece, si ha
il participio sostantivato, di uso più frequente del corrispettivo italiano: la leganto, 'il
lettore'; la skribinto, 'lo scrittore'; la alparolotoj, 'coloro cui verrà rivolto un discorso',
ossia l’uditorio di una conferenza.
Insieme alla copula esti il participio serve nella costruzione di forme perifrastiche
molto utili a esprimere con precisione la collocazione temporale ed aspettuale di un
evento.
Vediamo qui lo schema delle sole forme attive:
34
Part. Pass.
Passato
Part. Pres.
Mi estis manĝinta
Mi estis manĝanta
Stavo mangiando
Avevo mangiato /
finito di mangiare
Presente
Futuro
Part. Fut.
Mi estis
manĝanta
Stavo mangiando
Mi estas
Mi estas manĝanta
Mi estas
manĝinta
Sto mangiando
manĝonta
Ho mangiato /
Sto per
finito di mangiare
mangiare
Mi estos
Mi estos manĝanta
Mi estos
manĝinta
Staro mangiando
manĝonta
Avro mangiato /
Sto per
finito di mangiare
mangiare
Con il participio passivo, invece, si costruisce la forma passiva; ad esempio: ŝi estas
amata, 'lei e amata'; ŝi estos amita, 'lei sarà stata amata'. Oltre a queste, sono possibili
costruzioni con l’infinito (esti manĝanta, stare mangiando) e con il condizionale (mi
estus manĝinta, avrei mangiato; se ŝi estus amita, se lei fosse stata amata).
Janton (1996, cap. 3.3.2.2), relativamente al tema dell’aspetto verbale, identifica
almeno il seguente schema:

Incoativo: l’inizio di un’azione è reso dal prefisso ek-: ekparoli (cominciare a
parlare); ekliteraturo (letteratura nascente).

Durativo–iterativo: il suffisso –ad- indica un’azione o condizione continuata
o ripetuta, come paroli (parlare) > paroladi (discorrere); agi (fare) > agadi
(agire).

Causativo: il suffisso –ig- designa che qualcosa o qualcuno causa l’azione o
la condizione (igi = far diventare), come veni (venire) > venigi (far venire);
blanka (bianco) > blankigi (rendere bianco, imbiancare).

Traslativo: il suffisso –iĝ (iĝi = diventare) indica la modificazione della
condizione verso il concetto espresso dal radicale, per es. malsani (essere
ammalato) malsaniĝi (diventare malato, ammalarsi).
35
4.4 Morfologia derivazionale
Si definisce derivazione quel processo morfologico che forma 'parole nuove' mediante
affissazione, cioè l’aggiunta ad una base di affissi (prefissi o suffissi) (Scalise & Bisetto,
2008, p. 81).
L’esperanto possiede un sistema di affissi altamente produttivi, di cui alcuni possono
essere aggiunti solamente a una base avente specifico carattere grammaticale (prefissi
generici), altri, invece, si legano alla base a prescindere da esso26.
In merito, Gobbo opera la seguente categorizzazione (Gobbo, 2009, p. 203-214):

Prefissi generici (mal-, ne-, …). Il prefisso mal-, premesso a una base,
istituisce una relazione di antonimia e può legarsi a qualsiasi lessema:
aggettivale (bon-a/mal-bon-a, buono/cattivo), verbale (akcept-i/mal-akcept-i,
acettare/rifiutare), stativo (ord-o/mal-ord-o, ordine/disordine), circostanziale
(tro/mal-tro, troppo/non abbastanza). In alcuni casi l’antonimia è interna allo
stesso lessema, come ad esempio: memor-i/forges-i (ricordare/dimenticare),
tag-o/nokt-o (giorno/notte)

Suffissi generici (-aĉ-, -eg-, -et-,…). Il suffisso -aĉ-, che è un calco dallo
Yiddish, indica il disprezzo per qualità materiali: dom-aĉ-o (tugurio), mol-aĉ-a
(viscido).
Il suffisso -eg- è un accrescitivo e può essere applicato a qualsiasi base: dom-ego (una casa grande), bel-eg-a (bellissimo).
Il suffisso -et- è un complementare valido sia per i sostantivi che per gli
aggettivi: dom-et-o (casetta), varm-et-a (tiepido).

Prefissi verbanti (dis-, ek-, …). Il prefisso dis- indica divisione, separazione:
dis-don-i (distribuire), dis-kur-i (correre via).
Il prefisso ek- determina l’inizio di un’azione o di uno stato: ek-rid-i (cominciare
a ridere), ek-flug-o (decollo).

Suffissi verbanti (-ebl-, -end-, …). Il suffisso -ebl- è un calco dal latino –ibilis
e indica la possibilità passiva: manĝ-ebl-a (commestibile), trink-ebl-a (potabile);
26
Per l’elenco completo degli affissi ufficiali vedi Appendice p.51.
36
può inoltre essere usato come lessema: ebl-ec-o (possibilità), ne-ebl-a
(impossibile).
Il suffisso -end- è anch’esso un calco dal latino e indidica la necessità passiva:
leg-end-a (da leggere), pag-end-a (da pagare).

Prefissi stativi (ĉef-, …). Il suffisso ĉef- è semanticamente affine a –estr-,
che indica la persona che dirige, ma può legarsi solo a lessemi stativi: ĉefredaktor-o (capo redattore), ĉef-strat-o (strada principale).

Suffissi stativi (-an-, -id-, …). Il suffisso -an- è utilizzato per marcare il
membro di un gruppo (ŝtatano, cittadino di uno stato), abitante di un luogo
(Parizano, parigino) o adepto di una dottrina (Islamano, musulmano).
Il suffisso -id- è un calco dal greco e indica la discendenza o derivazione: reĝido
(principe), hundido (cucciolo di cane). Una lessicalizzazione è l’espressione
Latin-id-a-lingv-o (lingua romanza).
Nel loro complesso, gli affissi rappresentano la grande invenzione di Zamenhof per
espandere il vocabolario con un numero limitato di elementi da memorizzare (dieci
prefissi, trenta suffissi ufficiali, più alcuni tecnici o non ancora riconosciuti). Tra i diversi
esempi che si potrebbero citare, uno dei più indicativi, per l’alto grado di produttività,
è quello costituito dal verbo manĝi (mangiare), dal quale si possono ricavare: manĝaĵo
(cibo), manĝado (atto del mangiare), manĝejo (luogo dove si mangia, mensa), manĝujo
(recipiente per mangiare, mangiatoia), manĝilaro (strumenti per mangiare, stoviglie),
manĝebla (commestibile); manĝinda (meritevole di essere mangiato, gustoso),
manĝenda (da mangiare), manĝema (incline al mangiare, ghiotto), manĝeto
(spuntino), manĝeti (spizzicare), manĝegi (mangiare a quattro palmenti), manĝaĉi
(trangugiare, ingozzarsi), e diversi altri ancora.
Il sistema degli affissi è in possibile espansione; al momento è privo di affissi adatti a
specificare le modalità verbali, anche se si potrebbero introdurre suffissi derivati dai
verbi servili corrispondenti: per citare gli esempi di Wells (1989, p. 36), una variante
sintetica di mi povus diri (io potrei dire) potrebbe essere mi dirovus (io direi), mentre
mi dirolas e mi direvas affiancherebbero mi volas diri (io voglio dire) e mi devas diri (io
devo dire).
37
4.5 Composizione
La composizione è un processo morfologico che, similmente alla derivazione, forma
parole nuove a partire da parole già esistenti; ma, mentre la derivazione lega un
morfema lessicale a un affisso, la composizione unisce due (o più) morfemi lessicali
(Scalise & Bisetto, 2008, p. 117).
Questo processo è particolarmente produttivo in esperanto, che realizza i composti
seguendo il modello delle lingue-fonti germaniche (Gobbo, 2009, p. 196).
Poiché, in esperanto tutte le radici si combinano con tutte le radici e tutti gli elementi
possono funzionare come prefissi o suffissi, diventa fondamentale, per un adeguato
utilizzo del sistema degli affissi, la conoscenza del valore denotativo della base del
composto, che può esprimere un’idea di sostantivo (persona, cosa concreta o cosa
astratta), di aggettivo (qualità) o di verbo (azione, stato) (Migliorini, 1995, p. 113-114).
A tal proposito, Gobbo (2009, p. 196) identifica: general affixes, affissi che possono
legarsi a qualsiasi lessema; stative affixes, affissi che possono legarsi esclusivamente a
lessemi stativi; verbal affixes, affissi che possono legarsi soltanto a un lessema
verbante27. Ad esempio: salt- (saltare) è un lessema verbante e, pertanto, l’utilizzo del
prefisso verbale ek- è regolare. Di contro, il lessema knab- (ragazzo) è stativo e quindi
l’applicazione del prefisso ek- porta a un non-sense28.
Tuttavia, tali regole di composizione presentano delle eccezioni che sono determinate
dall’influenza del sostrato linguistico greco e latino. Per esempio, hom-manĝi non
corrisponde a manĝi home (mangiare come un uomo), ma a manĝi homojn (mangiare
un uomo, agire come un cannibale), come nella parola derivata dal greco
'antropofagia'. Analogamente, paf-il-eg-o non è 'una pistola (generica)' ma un
'cannone', nonostante esista anche kanon-o; mal-san-ul-ej-o non è 'un luogo (generico)
27 Gobbo (2010, p.47), utilizzando la terminologia di Whorf, definisce “il carattere stativo (che Tesnière
(1959) indicava mediante la lettera O) e quello verbante (indicato mediante I). il primo indicante
qualcosa in potenza, il secondo all’opposto qualcosa in atto […]”.
28
Analogamente, verd- (verde) è, secondo la terminologia utilizzata Gobbo (2009, p. 196), un lessema
aggiuntivo (adjunctive), quindi il suffisso -ul-, che conferisce animazione a tutto ciò che è inanimato, può
essere certamente applicato. Da osservare che anche tabl- (tavolo) è inanimato ma stativo, pertanto il
suffisso -ul- non può essere legato.
38
per gli ammalati', ma un ospedale, sebbene esista anche hospital-o. Tali eccezioni
devono essere trattate come lessicalizzazioni29 (Gobbo, 1998, p. 199-200).
Talvolta, la segmentazione del composto non è chiara e veicola ambiguità. Ad esempio,
la parola konkludo può essere interpretata sia come konklud-o (conclusione), sia come
konk-lud-o (gioco con una conchiglia). Anche la parola che dà il nome alla lingua,
esperanto può essere analizzata come esperant-o (la lingua esperanto), o esper-ant-o
(colui che spera).
Janton (1996, cap. 3.3.3) ha identificato una lista delle possibilità combinatorie in
esperanto:
1. Composizione di lessemi (L + L…); processo molto comune: okul-vitro
(vetro per occhi = occhiale), akvo plena (colmo d’acqua), sam-maniere (allo
stesso modo), dek-unu (dieci + uno = undici). All’interno di questa categoria si
distinguono due casi particolari:
a) reduplicazione del lessema: foj-foje (di tanto in tanto), plen-plena
(colmo), rug-ruga (rosso vivo);
b) composizione del verbo + complemento: man-premi iun (stringere la
mano a qualcuno), mort-bati iun (picchiare a morte qualcuno), lukt-akiri ion
(conquistare qualcosa lottando).
2. Composizione di morfemi (M + M…): ar-ig-i (riunire), iom-et-e (un
pochino), ac-ul-in-o (donna cattiva), re-dis-ig-int-e (dopo essersi di nuovo
separati).
3. Composizione di lessemi e morfemi: è la categoria più produttiva grazie
alla notevole efficacia dei derivativi e alla frequenza del morfema femminile -in.
Oltre al caso più semplice (L + M) come vir-in-o, si trovano combinazioni più
complesse:
a) L + M +M: vir-in-et-o (una donnina);
29
La parola fer-voj-o non indica 'una strada di ferro' ma una 'stazione'. Se fervoj non venisse considerata
una lessicalizzazione, in che modo la parola fervoj-ist-o potrebbe essere interpretata come
'capostazione'? (Gobbo, 2009, p. 200) In questo caso, l’influenza del sostrato delle fonti linguistiche è
evidente: fervojo è un calco dal francese chemin de fer, così come malsanulejo è un calco dal tedesco
Krankenhaus..
39
b) L + M + M + M…: blond-ul-in-et-o (una biondina);
c) L + L + M: man-labor-aĵ-o (oggetto lavorato a mano);
d) L + L + … + M + M: man-labor-ist-in-o (lavoratrice manuale).
4. Composizione di morfemi e lessemi (M… + L)
a) Prefisso e lessema. Fra tutti i prefissi -mal è il più economico, perché
consente di formare tutti i contrari procurando una schematizzazione
difficilmente eguagliabile: granda/malgranda (grande/piccolo),juna/maljuna
(giovane/vecchio), varma / malvarma (caldo/freddo), ecc.…
b) Morfemi diversi dai derivativi. Tutte le categorie di morfemi possono
combinarsi con lessemi: civesper-e (stasera), cio-pov-a (onnipotente), ek-amo (amore nascente), ne-re-ven-a (non di ritorno), as-temp-o (tempo
presente). Nella formazione delle parole hanno grande importanza anche le
preposizioni, che caratterizzano due tipi di composizioni: la forma composta
è una parola con un nuovo significato, come in labori > kun-labori
(lavorare/collaborare), porti > elporti (portare/portare fuori), iri > eniri
(andare/entrare); la nuova forma funge da complemento di un’altra parola,
come in por-esperanta agado = agado por esperanto (attività in favore
dell’esperanto), en-urba trafiko = trafiko en la urbo (traffico cittadino), dummilite = dum la milito (durante la guerra). I primi due esempi sono una
composizione semantica, il terzo è grammaticale.
5. Composizioni miste (M… + L + M…): pli-grand-ig-i (ampliare), mal-jun-ul-o
(un vecchio), mal-pli-grand-ig-i (rimpicciolire), en-ter-ig-o (interramento,
sepoltura), mal-san-ul-ej-o (luogo per malati, ospedale), ne-pri-zorg-em-ul-o
(individuo non disposto ad interessarsi ad aiutare). All’interno di questa
categoria molto frequente, ne esistono altre meno numerose:
a) L… + M… + L: franc-de-ven-a (di origine franca);
b) L + M + L + M + M: son-el-vok-iv-ec-o (potere evocativo dei suoni).
6. Composizioni di numerali: i numerali si formano combinando i semplici
unu, du, tri, kvar, kvin, ses, sep, ok, naŭ con dek, cent, mil (10, 100, 1000); se
40
collocati prima si moltiplicano, se collocati dopo si sommano: kvin-dek (50),
dek-kvin (= 15). Il numerale riferito ad altro elemento anche sottinteso diventa
ordinale e prende la finale dell’aggettivo -a: la du-dekkvina de aprilo (il 25
aprile).
4.6 Verso una classificazione tipologica
Tradizionalmente si riconoscono due possibili criteri di classificazione di una lingua:
quello genealogico, che diacronicamente identifica due o più lingue appartenenti alla
stessa 'famiglia linguistica' se derivano da una stessa lingua madre, e quello tipologico,
che invece sincronicamente riconosce due o più lingue appartenenti allo stesso 'tipo'
sulla base di caratteristiche morfologiche e/o sintattiche comuni (Graffi & Scalise,
2002, p. 53).
L’esperanto, considerata la sua natura di lingua pianificata, non ha una storia condivisa
con altre lingue, ma può comunque essere ritenuta un membro della famiglia
indoeuropea grazie alla presenza quasi preponderante delle lingue romanze,
germaniche e slave tra le fonti cui Zamenhof attinse nel suo processo creativo.
La questione attinente alla tipologia morfosintattica è, invece, più rilevante.
Prendendo come parametri i tipi morfologici tradizionalmente riconosciuti (isolante,
flessivo, agglutinante e polisintetico), l’esperanto viene tradizionalmente inserito nella
categoria delle lingue agglutinanti. Come spiega Cherpillod (1988, p. 10-15), infatti,
esso presenta delle caratteristiche che inducono a considerarla una lingua
agglutinante, come e più del turco e dell’ungherese, considerati membri altamente
rappresentativi della categoria:
1.
il principio fondamentale è quello dell’aggiunta, non del cambiamento, e gli
elementi che compongono le parole possono comparire anche in altre,
mantenendo lo stesso significato. In particolare, non c’è un’uscita distinta per
l’accusativo singolare e per quello plurale (cfr. homon / homojn vs. latino
hominem / homines);
2.
c’è una sola declinazione e una sola coniugazione;
41
3.
l’informazione sul genere viene veicolata una sola volta nella frase, senza
inutili ridondanze (si confronti tiu virino estas panisto e di contro cette femme
est boulangere). C’è invece accordo fra aggettivo e sostantivo, e in questo
l’esperanto funziona come una lingua flessiva (viaj belaj nigraj okuloj);
4.
non ci sono fenomeni di interferenza fra elementi vicini (ad esempio radici
e marche morfosintattiche finali), come accade talvolta anche in lingue
agglutinanti meno radicali, come il finlandese;
5.
i morfemi possono essere usati autonomamente, senza appoggiarsi a una
radice lessicale (aĵo, ree).
Una caratteristica che invece differenzia l’esperanto dalle lingue agglutinanti è di
essere più analitica che sintetica, peculiarità che consente una struttura frasale più
agile e flessibile.
Pur considerato che Zamenhof non dichiarò mai di avere elaborato una lingua
agglutinante, è opportuno ricordare che le riflessioni di Cherpillod sono finalizzate a far
risaltare i presunti vantaggi dell’esperanto rispetto ad altre possibili soluzioni
linguistiche.
Infatti,
seguendo
la
sua
argomentazione,
le
lingue
flessive
presenterebbero delle difficoltà: le declinazioni e le coniugazioni generano
frequentemente irregolarità, rendendo impossibile ricondurre un significato specifico
(quale ad esempio 'plurale', 'femminile' o 'genitivo') ai vari morfemi che si alternano
nei paradigmi. Al contrario, nelle lingue agglutinanti, la scomposizione delle parole in
elementi che conservano il proprio significato nelle varie combinazioni in cui
compaiono è facilmente realizzabile. Dunque, se le lingue flessive sono fondate sul
cambiamento,
quelle
agglutinanti
vedono
come
processo
fondamentale
l’incatenamento. La conclusione cui giunge Cherpillod è che la presenza simultanea di
un lessico in prevalenza neolatino e di una struttura essenzialmente agglutinante
rende l’esperanto relativamente facile da imparare per parlanti L1 diverse (Cherpillod,
1988, p. 20-23).
Osservando il fenomeno da una prospettiva diversa, Piron (1993, p. 142) afferma che è
impossibile identificare una classificazione tipologica dell’esperanto senza distinguere
almeno tre livelli: profondo (morfologico), intermedio (sintattico) e superficiale
42
(lessicale e fonetico). Adottando quest’ottica, a livello profondo l’esperanto è isolante,
nel senso che è centrale il principio dell’invariabilità dei morfemi, tranne casi
estremamente rari (vedi, ad esempio, l’uso dei suffissi come parole autonome).
Tuttavia, se le lingue isolanti sono caratterizzate da una quasi totale assenza di
morfologia, in esperanto questo non accade; infatti, è sempre possibile analizzare la
struttura della parola in modo trasparente, tratto questo più vicino alle lingue
agglutinanti.
A livello intermedio, l’esperanto ha aspetti in comune con le lingue slave, dunque
flessive.
A livello superficiale, la maggior parte delle radici provengono da lingue neolatine o
germaniche, mentre il sistema fonetico è particolarmente affine a quello italiano, con
l’aggiunta di qualche tratto proprio delle lingue dell’Europa orientale.
La ragione di tale eterogeneità, che giustifica l’impressione di artificialità che alcuni
provano al primo contatto con questa lingua, secondo Piron risiede nel fatto che, a
fronte delle critiche ricevute, soprattutto negli ambienti intellettuali dell’Europa
occidentale, Zamenhof si sentì forzato a mitigare le sue posizioni e ad accogliere
principi più affini alle strutture linguistiche dell’Europa occidentale, cosa che spiega i
punti in cui il sistema risulta meno coerente.
All’interno dell’esperanto, dunque, si possono distinguere tensioni diverse,
potenzialità più o meno realizzate, volontà di conservarsi fedeli alla norma o di
esplorare dimensioni nuove e dinamiche contrastanti che vengono arricchite dal
sostrato linguistico dei parlanti, che portano nella loro particolare varietà di esperanto
le caratteristiche assorbite dalla loro L1. L’insieme di questo quadro, pur comportando
aree di criticità, è prova della vitalità della lingua.
Anche Wells parla di eterogeneità della lingua (1989, p. 29): ad esempio, -j- e –n-, così
come -is-, -as- e -os-, sono morfemi flessivi, segno che l’esperanto è una lingua di tipo
misto. Tuttavia si tratta di un fenomeno quantitativamente limitato rispetto alla ricca
morfologia di lingue come il greco e il russo. L’esperanto inoltre occuperebbe una
posizione intermedia fra lingue analitiche, come l’inglese, e quelle sintetiche, come il
latino. Si tratta di due parametri distinti: per 'sintesi' (sintezeco) si intende il grado in
43
cui i morfemi si uniscono nella stessa parola, per 'flessività' (fandeco) il grado in cui i
morfemi si uniscono nello stesso morfo. In effetti, la distinzione fra lingue agglutinanti,
flessive e isolanti ha punti deboli e non è sempre efficace nel rendere conto dei
fenomeni linguistici, anche per la parziale sovrapposizione e confusione fra questi due
fattori.
A questo proposito, affrontando la questione con un approccio puramente numericostatistico, secondo il modello di Greenberg, Wells (1989, p. 33-34) cita due indicatori:
l’indice di agglutinazione e l’indice di sintesi. Il primo, l’indico de aglutineco, è il
rapporto tra costrutti agglutinati (A), cioè morfi o morfemi invariabili o con variazione
automatica nella parola, e giunture di morfo (J), cioè le barre usate per separare i
morfemi all’interno di una parola, in 100 parole (= 0,50 ≤ x < 1). Ad esempio, homon è
scomponibile in tre morfemi e quindi due giunti; l’indice di agglutinazione di questa
parola è 2/2, cioè 1,00. In questa scala, l’esperanto risulta estremamente agglutinante,
visto che sfiora il valore 1,0030.
L’indico de sintezeco, invece, riguarda il rapporto fra numero dei morfemi (M) e
numero delle parole in un testo (V = 100), e dà all’esperanto un valore compreso tra
1,80 e 2,05, che lo classifica come 'moderatamente sintetico' (Wells, 1989, p. 35)31
L’esperanto, dunque, può essere considerato come lingua agglutinante, che contiene,
tuttavia, anche elementi propri delle lingue isolanti, parole composte da un solo
morfema non ulteriormente analizzabile (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni,
numerali e avverbi primitivi). Un segno di flessività, invece, è dato dai karesaj sufiksoj
(suffissi ipocoristici) -ĉj- e -nj- che mutano la radice cui si attaccano, troncandola: patro
(padre) diventa paĉjo (papà), mentre patrino (madre) diventa panjo (mamma). In tutti
gli altri casi, la morfologia di una parola è sempre trasparente.
In conclusione, la pluralità di vedute consente di classificare l’esperanto come lingua
prevalentemente agglutinante, ma è opportuno ricordare che non si tratta di una
categorizzazione assoluta: una lingua può appartenere a un tipo, ma mostrare le
30
Per un confronto: lo swahili presenta il valore medio 0,67, l’inglese 0,30, sanscrito 0,09, persiano 0,34
(Wells, 1989, p. 34).
31
Per un confronto: lo swahili ha una media di 2,55, l’inglese di 1,68, mentre l’eschimese, lingua
notoriamente polisintetica, di 3,72 (Wells, 1989, p. 35).
44
caratteristiche di un altro in determinati settori. In definitiva, si tratta di una
classificazione con una componente di arbitrarietà difficilmente eliminabile.
45
5. La capacità espressiva in esperanto
Zamenhof ha creato un progetto, la comunità esperantista ne ha fatto una lingua
vivente attraverso l’uso nelle diverse scienze e come lingua letteraria artistica.
Nel 1924, molti scienziati, tra cui 42 membri dell’Accademia scientifica francese, hanno
richiamato l’attenzione sull’idoneità dell’esperanto come mezzo di comunicazione
scientifica e come lingua ufficiale nei congressi e nelle pubblicazioni ad indirizzo
scientifico. Già prima del 1914 esistevano 15 pubblicazioni specialistiche e
l’Enciklopedio Vortareto Esperanta (Lessico enciclopedico di esperanto) di Ch. Vérax
riuniva più di 12.000 parole di tutte le scienze32 (Janton, 1996, cap. 4.2).
Parallelamente all’interesse scientifico si è sviluppato quello letterario. Già Zamenhof,
nel primo opuscolo di esperanto pubblicato nel 1887, aveva inserito tre poesie e nel
Fundamenta Krestomatio (Antologia fondamentale) aveva dedicato una sezione alla
poesia, mostrando particolare attenzione all’aspetto estetico33 e al valore emozionale
della lingua.
La duttilità della lingua, la svariata possibilità di comporre i morfemi e la flessibilità
sintattica hanno fatto sì che l’esperanto si sia evoluto da lingua utilitaria a lingua
artistica: i nomi composti, la variabilità di posizione dell’aggettivo, la possibilità di
invertire il soggetto, l’uso di preposizioni immediatamente successive, concorrono a
creare un ritmo, a far risaltare rime, a intessere compattezza e suggestività.
Tale estensione di plasticità ha un notevole vantaggio, ossia quello di far sentire
fedelmente gli effetti originali delle lingue nazionali per cui spesso la traduzione in
esperanto supera persino le tradizioni più accurate34. A tal proposito, Janton (1996,
32
Oggi sono disponibili 160 vocabolari in 50 specialità comprendenti cibernetica, matematica,
informatica, diritto, medicina, teologia, chimica, meteorologia, gastronomia, ecc. (Janton, 1996, cap.
4.2).
33
La notevole flessibilità e la varietà delle composizioni rende possibile una rilevante economia di
parole: iri (andare) > supreniri (salire) > malsupreniri (scendere), ma al vantaggio pratico non
corrisponde un effetto letterario, per cui sono stati formati elenchi paralleli di sinonimi mediante i quali
esprimere le sfumature preferite e raggiungere gli effetti voluti, ammettendo forme naturalistiche come
ascendi (salire), descendi (scendere), olda (vecchio) (Janton, 1996, cap. 4.2.1).
34
Lo stesso Zamenhof si dedicò a un’intesa attività traduttiva: Amleto di Shakespeare (1894), Ifigenia in
Tauride di Goethe (1908), I Masnadieri di Schiller (1908), Giorgio Dandin di Molière (1908), ecc..
46
cap. 4.2.2) riporta due esempi di traduzione di alcune terzine dantesche tratte dalla
Divina Commedia (Inferno, canto V, vv.127-142):
“Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.
E caddi come corpo morto cade.”
Traduzione di Giovanni Peterlongo
Traduzione di Kálmán Kalocsay
Iam pri Lanceloto ni por distro
Ni, solaj, iun tagon legis pri la
legadis kiel lin amor’ ekkaptis;
kreskanta am’ de Lancelot. Suspektis
salaj ni esti, tute sen suspekto.
nenion ni en la duop’ trankvila.
Ofte ŝovetis ja okulojn niajn
Rigardon ni multfoje interplektis
tiu legado, kaj paligis fruntojn;
dum lego, kun vizaĝo paligita,
sed jen, la sola punkto nin venkinta.
sed jen la punkto, kiu nin infektis:
Kiam ni legis, ke l’dezira rido
kiam ni legis pri l’ridet’ ekscita
47
esti kisata de amanto tia,
de l’ kisderiz’, pri ĝia dolĉa vibro,
li, kiu jam de mi ne plu disiĝos,
li, por eterne jam al mi ligita,
buŝon kisis al mi tute tremanta.
buŝkisis min kum trem’ en ĉiu fibro.
Galeot’ estis libro kaj verkinto:
Galeotto iĝis libro kaj aǔtoro,
dum tiu tago ni plu ne legadis.
ĉi-tage ni ne legis plu de l’ libro.
Dum unu el spiritoj tion diris,
Dum ŝi parolis, la kunul’ kun ploro
la dua ploris; tial, pro kompato,
lamentis tiel, ke mi tute palis,
tiel mi svenis, kiel se mi mortus,
kaj sentis kvazaǔ morton ĉirkau l’ koro,
kaj falis kiel korpo morta falas.
kaj kvazaǔ morta korp’ mi terenfalis.
Nella sua traduzione, Giovanni Peterlongo riproduce, con accurata rispondenza
all’originale, immagini e sfumature di ogni verso, con qualche licenza soltanto di natura
prosodica.
Kálmán Kalocsay, autore della seconda traduzione, raggiunge, invece, una perfetta
riproduzione della forma prosodica dantesca con l’uso di endecasillabi a terza rima,
concedendosi una certa libertà sul piano dell’espressione.
48
Conclusioni
Il primo interesse per l’esperanto si è manifestato a seguito di alcuni colloqui con un
mio docente di filosofia ai tempi del liceo. Poiché, allora, di questa lingua conoscevo
ben poco ho maturato la decisione di iscrivermi ad un sito che consentiva di scaricare
un programma con un corso di grammatica di base ed affidava un tutor con il compito
di seguire il percorso di apprendimento. Questo primo approccio mi ha dato non solo
la possibilità di sperimentare la versatilità e la creatività della lingua, ma ha anche
incrementato a tal punto il mio interesse da spingermi ad aderire alla FEI (Federazione
Esperantista Italiana).
Il contatto decisivo si è verificato in occasione del 79° Congresso di Esperanto, tenutosi
a Mazara del Vallo dal 18 al 25 agosto del 2012. La città, che ha visto la presenza di
circa 500 partecipanti provenienti da tutto il mondo, è stata, per una settimana, il
cuore pulsante dell’esperanto accogliendo in sé il meglio della cultura esperantista e
offrendo ai partoprenantoj (partecipanti) la possibilità di sperimentare sul campo la
lingua mediante la realizzazione di seminari, corsi di lingua per principianti e di livello
avanzato, spettacoli musicali e rappresentazioni teatrali, visite guidate e situazioni
comunicative reali.
Tutto questo, unito alla mia passione per la linguistica, mi ha portato alla stesura di
questa tesi di laurea, il cui obiettivo è stato duplice: in primo luogo, fornire un piccolo
contributo alla discussione sull’esperanto e sull’esperantismo, nei limiti consentiti da
questa tipologia testuale, e, in secondo luogo, fornire una descrizione della lingua
utilizzando le categorie della linguistica teorica.
Certamente, un percorso ulteriore condurrebbe alla scoperta e alla conoscenza di
aspetti anche molto specifici del mondo esperantista, tuttavia, il mio attuale lavoro
vuole essere un tassello di un mosaico molto più ampio e articolato, sulla scia
dell’appello lanciato, decenni or sono, da Bruno Migliorini: “A quelli che credono
ancora l’esperanto un’utopia, noi domandiamo soltanto di guardarlo un po’ davvicino”
(citato in Vitali, 1998, p. 15).
49
Appendice
Tabella dei correlativi
ki-
-u
-o
-a
-es
-al
-am
-e
-el
-om
individuo
cosa
qualità
possesso
causa
tempo
luogo
modo
quantità
Kiu
kio
kia
kies
kial
kiam
kie
kiel
kiom
cosa?
di che
di chi (?)
perché(?)
quando (?)
dove (?)
come (?)
quanto (?)
interrogativi e chi(?), che
relativi
(rel.)
tipo(?)
i-
iu
io
ia
ies
ial
iam
ie
iel
iom
indefiniti
qualcuno
qualcosa
di qualche
di qualcuno
per qualche
una
in qualche
in qualche
un po’
luogo
modo
tipo
motivo
volta
ti-
tiu
tio
tia
ties
tial
tiam
tie
tiel
tiom
dimostrativi
quello
ciò
tale
di quello
perciò
allora
là
così
tanto
ĉi
ĉiu
ĉio
ĉia
ĉies
ĉial
ĉiam
ĉie
ĉiel
ĉiom
universali
ognuno
tutto
di ogni tipo
di ognuno
per ogni
sempre
ovunque
in ogni
del tutto
motivo
modo
neni-
neniu
nenio
nenia
nenies
nenial
neniam
nenie
neniel
neniom
negativi
nessuno
niente
di nessun
di nessuno
per nessun
mai
in nessun
in nessun
per niente
luogo
modo
tipo
motivo
50
Derivativi
Parte degli affissi furono proposti da Zamenhof, gli altri furono decisi dall’Accademia
d’esperanto in occasione del Congresso Universale a Dresda del 1908 (Janton, 1996,
cap 3.3.2.4):
a.
Prefissi:
bo- parentela acquisita con matrimonio
(patro / bopatro)
dis- separazione, dispersione
(iri / disiri)
ek- inizio di azione o di condizione
(ekrii / ekkrii)
eks- fine di azione o di condizione
(propra / eksproprii)
fi- disprezzo per qualità morali
(ago / fiago)
ge- unione concettuale di sessi diversi
(patro / gepatroj)
mal- contrario, opposto
(bela / malbela)
mis- errore, inesattezza
(aĝo / misaĝo)
pra- relazione lontana di tempo o parentela
(avo / praavo)
re- ripetizione di azione
(gardi / regardi)
retro- inversione di direzione
(gardi / retrogardi)
semi- riduzione di metà
(dio / semidio)
b.
Suffissi - infissi:
-aĉ- disprezzo per qualità materiali
(knabo / knabaĉo)
-ad- azione ripetuta con frequenza
(turni / turnadi)
-aĵ- cosa concreta, sensibile
(trinki / trinkaĵo)
-an- membro, abitante, seguace
(klubo / klubano)
-ar- insieme di elementi della stessa specie
(vorto / vortaro)
-ebl- possibilità
(trinki / trinkebla)
-ec- idea astratta
(bela / beleca)
-eg- ingrandimento, rafforzamento (oltre il superlativo)
(bela / belega)
-ej- luogo dell’azione
(abato / abatejo)
-em- tendenza, abitudine
(paroli / parolema)
51
-end- obbligatorietà, dovere
(legi / legenda)
-er- parte di tutto omogeneo
(pluvo / pluvero)
-estr- persona che dirige
(urbo / urbestro)
-et- diminuzione, riduzione, indebolimento
(knabo / knabeto)
-id- discendenza, derivazione
(hundo / hundido)
-ig- far diventare
(turni / turnigi)
-iĝ- diventare
(turni / turniĝi)
-il- strumento, mezzo
(komputi/ komputilo)
-in- genere femminile
(viro / virino)
-ind- meritevole
(admir/ admirinda)
-ing- contenitore parziale della cosa
(cigaro / cigaringo)
-ism- dottrina, sistema, maniera
(Islamo / islamismo)
-ist- esercente abituale di un’attività
(labori / laboristo)
-iv- capacità, idoneità
(akto / aktiva)
-iz- applicazione di sostanza o metodo
(pasteuro/pasteurizi)
-obl- moltiplicativo
(du / duobla)
-on- frazionario
(du / duona)
-op- collettivo di gruppo
(du / duopa)
-uj- contenitore totale della cosa, albero da frutto
(piro / pirujo)
-ul- persona che ha la qualità relativa
(klera / klerulo)
-um- relazione generica
(aceti / acetumi).
Esistono, inoltre, due affissi affettivi (ĉj- per il maschile e -nj- per il femminile), che si
inseriscono dopo il lessema non senza casi di sincope (patro/paĉjo; filo/filĉjo;
patrino/panjo).
52
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54
Scarica

Osservazioni sull`esperanto con particolare riferimento alla morfologia