UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN LETTERE INDIRIZZO MODERNO Osservazioni sull’esperanto con particolare riferimento alla morfologia Tesi di laurea di Relatore Rosalba Galati matricola 0507268 Prof.ssa Luisa Brucale A. A. 2011/2012 Indice INTRODUZIONE ......................................................................................................................................1 1. L’ESPERANTO E LE LINGUE PIANIFICATE ...........................................................................................3 1.1 MOMENTI DI STORIA DELLE LINGUE ARTIFICIALI .................................................................................... 3 2. ORIGINE DELL’ESPERANTO. EVOLUZIONE DELL’ESPERANTISMO .......................................................8 2.1 IL PERCORSO E IL PROGETTO DI ZAMENHOF ......................................................................................... 8 2.2 FORMAZIONE E CONSOLIDAMENTO DELLA LINGUA .............................................................................. 11 2.3 CRITICHE E TENDENZE EVOLUTIVE .................................................................................................... 13 3. LA LINGUA ...................................................................................................................................... 19 3.1 IL FUNDAMENTO ......................................................................................................................... 19 3.2 ORTOGRAFIA E FONETICA .............................................................................................................. 21 3.3 SINTASSI .................................................................................................................................... 24 4. LA MORFOLOGIA ............................................................................................................................ 27 4.1 LESSEMI ..................................................................................................................................... 27 4.2 VORTFARADO.............................................................................................................................. 28 4.3 MORFOLOGIA FLESSIVA ................................................................................................................. 32 4.3.1 FLESSIONE NOMINALE........................................................................................................ 33 4.3.2 FLESSIONE VERBALE .......................................................................................................... 33 4.4 MORFOLOGIA DERIVAZIONALE........................................................................................................ 36 4.5 COMPOSIZIONE ........................................................................................................................... 38 4.6 VERSO UNA CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA......................................................................................... 41 5. LA CAPACITÀ ESPRESSIVA IN ESPERANTO ....................................................................................... 46 CONCLUSIONI ...................................................................................................................................... 49 APPENDICE .......................................................................................................................................... 50 TABELLA DEI CORRELATIVI ...................................................................................................................... 50 DERIVATIVI ......................................................................................................................................... 51 BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................................... 53 Introduzione Nel luglio del 1887, il ventisettenne oculista russo-polacco Ludwik Lejzer Zamenhof pubblica in russo la prima edizione del manuale della Lingvo Internacia, quello che poi diverrà noto come Unua Libro (Primo Libro). L’autore si cela dietro lo pseudonimo D.ro Esperanto, che negli anni successivi verrà accolto dalla comunità come nome definitivo per la lingua descritta nel testo. L’inventore del progetto si proponeva principalmente due scopi: rendere disponibile uno strumento di comunicazione che fosse veloce da apprendere e facile da utilizzare, e gettare le basi per un nuovo approccio all’'altro', basato sul rispetto e la tolleranza delle differenze linguistiche, etniche e religiose. In oltre centoventi anni di storia, più di tutte le altre lingue cosiddette “artificiali”, l’esperanto ha saputo attirare un pubblico di curiosi e di affezionati che, in misure diverse e secondo le capacità e gli interessi personali, hanno imparato la lingua, hanno partecipato agli incontri e ai convegni, hanno scritto opere letterarie o di saggistica e hanno portato avanti le idee e i valori di un movimento che, per alcune caratteristiche, ha assunto i tratti di una vera e propria comunità. In questo lavoro si tratteranno alcuni degli aspetti salienti di questo fenomeno, provando a metterne in luce tanto gli elementi originali quanto i punti controversi. Nel primo capitolo verrà presentata una panoramica sulla storia delle lingue artificiali che consentirà di comprendere la portata dell’esperanto all’interno di una catena di tentativi e progetti più o meno sviluppati. Il secondo capitolo affronterà, invece, le premesse storiche e le prospettive ideologiche che hanno spinto Zamenhof a elaborare la Lingvo Internacia; verrà quindi fornito un breve quadro degli sviluppi successivi dell’esperantismo. Dalla presentazione del “fenomeno esperanto” si passerà, nel terzo capitolo, a una descrizione delle caratteristiche fonologiche e sintattiche per poi approfondire, nel quarto capitolo, gli aspetti morfologici della lingua, secondo un approccio prettamente linguistico. 1 Infine, nell’ultimo capitolo, si traccerà un breve schizzo delle possibilità espressive dell’esperanto, con riferimento ad alcuni testi utili a cogliere la valenza artisticoespressiva della lingua. In accordo con le posizioni espresse da Gobbo (1998, p. 55), si è deciso di presentare i nomi dell’esperanto e delle altre lingue inventate, che hanno ottenuto un certo successo, utilizzando l’iniziale minuscola, in quanto lingue a tutti gli effetti, non meno degne di attenzione di quelle storico-naturali; si è conservata la maiuscola, invece, nelle citazioni originali, per rispettare l’integrità del testo. 2 1. L’esperanto e le lingue pianificate Il tema delle lingue artificiali, dell’aspirazione a una lingua universale e in generale dell’utopia linguistica è molto vasto ed è stato il baricentro di diversi studi, fra i quali occorre almeno menzionare quelli di Pellerey (1992) e di Eco (1993). Il fatto che fra tutte le lingue pianificate, soltanto l’esperanto ha attratto un’ampia comunità di parlanti, merita particolare attenzione in quanto consente la comprensione del suo ruolo specifico all’interno di una catena di tentativi, progetti abbozzati o altamente sviluppati, di portata generale o volti a una comunità specifica di destinatari. 1.1 Momenti di storia delle lingue artificiali La pianificazione linguistica come creazione di una lingua artificiale nasce inizialmente con scopi avulsi dall’ausiliarietà e riconducibili a intenti filosofici, sociali e umanitari, tradizionalmente connessi alla volontà di superare la 'maledizione divina', secondo l’interpretazione classica della narrazione biblica di Babele (Eco, 1993, p. 16-26).1 Già il Medioevo aveva visto sorgere i primi abbozzi di una lingua artificiale non a vocazione ausiliaria bensì come ricerca di una lingua universale in grado di rivelare una presunta isomorfia tra la struttura dei concetti e quella del mondo, tra le quali si credeva esistesse una relazione biunivoca.2 L’esigenza di una lingua ausiliaria cominciò a essere avvertita nel XVII secolo parallelamente al crescente bisogno di semplificare i contatti linguistici tra parlanti L1 diverse. Il tentativo di creare lingue artificiali perse il carattere mistico e magico del periodo precedente per trasformarsi nella ricerca di un codice di comunicazione, che soppiantasse, o almeno affrancasse, un latino sempre meno conosciuto, in assenza di 1 È stato osservato che il Medioevo islamico, sebbene mostri molte analogie con quello europeo, non conobbe lingue inventate a vocazione ausiliaria. Questo perché il mondo musulmano non sperimentò alcunché di simile al disfacimento del latino: i dialetti arabi mai assursero a dignità di lingue (Bausani, 1974, p. 98). 2 Raymundus Lullus, un francescano catalano vissuto tra il 1232 e il 1316 a Maiorca, crocevia, all’epoca, delle culture cristiana, islamica ed ebraica, si era cimentato nella creazione di una lingua filosofica universale. Il suo progetto di lingua filosofica mirava alla conversione degli infedeli e aspirava all’universalità, in quanto “universale è la combinatoria matematica che articola il suo piano dell’espressione, e universale il sistema di idee comuni a tutte le genti che Lullus elabora sul piano del contenuto” (Eco, 1993, p. 61). 3 una lingua etnico-nazionale ad alta diffusione. L’intento era di guardare a questa lingua come a una costruzione logico-filosofica capace di riorganizzare la conoscenza umana3. Eppure, l’interesse dei filosofi al problema linguistico fu stimolato non soltanto dalla presa di coscienza circa la pluralità e la differenza delle lingue e non soltanto dalla ridotta idoneità del latino, ma anche da una fondamentale insoddisfazione verso ogni lingua naturale. Essi dubitavano del valore epistemologico della parola come mezzo di pensiero e di conoscenza, e alcuni ritenevano che lo studio delle lingue fosse più dannoso che utile, poiché richiamava l’attenzione sulle parole e non sulla realtà. L’intento era quello di costruire un sistema universale di conoscenza nel quale le parole o i simboli avessero una regola logica invece di una relazione arbitraria priva di coerenza con le cose reali (Janton, 1996). Per questo motivo, inizialmente si concentrarono su progetti a priori, lingue che cioè non ricalcavano i modelli di quelle esistenti e non riutilizzavano, rielaborandoli, i materiali lessicali di queste ultime, ma creavano autonomamente le unità semantiche necessarie. Fra i documenti chiave per comprendere questa fase, indicativa è la lettera di Cartesio a Mersenne del 1629, che contiene molti elementi cruciali che caratterizzeranno la riflessione interlinguistica successiva. Cartesio proponeva di creare una lingua dalla grammatica semplificata e dalla semantica univoca, senza irregolarità ed eccezioni, da lui percepite come corruzioni. Tuttavia, pur riconoscendone il grande valore in termini di apprendibilità, Cartesio osservava che la necessità di imparare parole artificiali avrebbe presentato difficoltà analoghe a quelle richieste per lo studio di parole di lingue nazionali, salvo che si potessero derivare le une dalle altre attraverso una successione logica rispecchiante la struttura razionale della mente. Cartesio rilevava anche gli inconvenienti di un’operazione di riforma linguistica: “Ciò che si può fare è evitare questo sgradevole incontro di sillabe in una o due lingue. Così la sua lingua universale varrebbe solo per un paese, mentre noi non abbiamo bisogno di apprendere una nuova lingua per parlare soltanto con i Francesi. Il secondo inconveniente riguarda la difficoltà di imparare le parole di questa lingua. […] sarebbe 3 Georges Dalgarno, un maestro di scuola scozzese che insegnò per la maggior parte della sua vita in una scuola privata di grammatica di Oxford, nella sua opera Ars signorum sottolinea i due aspetti distinti che una lingua universale deve contemplare: una classificazione del sapere, opera del filosofo, e una grammatica che organizzi il piano dell’espressione, compito del linguista (Eco, 1993, p. 245). 4 molto più facile far sì che tutti gli uomini si mettessero d’accordo ad imparare il latino o qualche altra lingua tra quelle in uso, e non questa, nella quale non vi sono ancora libri scritti attraverso i quali ci si possa esercitare, né uomini che la conoscano e con i quali si possa acquisire l’abitudine di parlarla.” (Descartes, 2005, p. 95-97) Cartesio indicava, inoltre, la direzione da prendere nella ricerca di una lingua razionale e internazionale, definendo tre punti essenziali: 1. la lingua deve essere facile da scrivere e pronunciare, così da essere appresa in poco tempo; 2. la relazione tra parole e pensieri deve essere ordinata e combinabile mediante regole; 3. i pensieri vanno scomposti in “idee semplici” che poi vengono combinate mediante operazioni logiche. Nonostante i dubbi espressi da Cartesio, i tre principi elencati sono i criteri guida che muoveranno i glottoteti delle lingue ausiliarie alla ricerca del principio di regolarità mediante la pianificazione di una grammatica semplice e isomorfica o mediante l’adozione di parole già note, per non caricare la memoria degli utilizzatori, rinunciando però parzialmente alla regolarità. Nel secolo dell’Illuminismo, i principali sistemi linguistici proposti continuano ad avere caratteristiche affini alle lingue a priori secentesche, distinguendosi esclusivamente per quanto riguarda le motivazioni: scompare, infatti, qualsiasi afflato religioso a favore di motivazioni puramente pratiche. Quello che preoccupa non è tanto la ricerca di una lingua perfetta quanto una “terapia delle lingue esistenti” (Eco, 1993, p. 310) come vigile controllo del processo comunicativo, piuttosto che come riforma del sistema della lingua. Questo accade perché la cultura settecentesca cambia radicalmente il proprio punto di vista nei confronti del linguaggio, arrivando a sostenere che pensiero e linguaggio procedono di pari passo e, eventualmente, che è il linguaggio a modificare il pensiero e non 5 viceversa4. Crolla così l’ipotesi di una grammatica universale e stabile che i vari linguaggi in qualche modo riflettono: la lingua, al contrario, concorre a formare l’universo delle idee. È evidente che, sebbene la creazione di queste lingue sorga da un desiderio razionale e illuministico di semplificare le comunicazioni tra parlanti di madrelingua diversa, siamo ancora nell’ambito della ricerca linguistica mediante il calcolo combinatorio e le logiche matematiche, dunque nell’ambito della pasigrafia e non della lingua ausiliaria. È l’Ottocento il secolo in cui vedono la luce la maggior parte dei progetti di lingue inventate5, la cui vocazione ausiliaria è determinata, come sostiene Bausani, 1974, da una matrice non di carattere sacro ma certamente di carattere pratico e utilitaristico. Tali progetti, infatti, sono volti alla creazione di uno strumento linguistico di rapido apprendimento, facile da pronunciare e da scrivere, destinato a parlanti L1 diversa e a fini soprattutto commerciali. Questo cambiamento di prospettiva è determinato da un contesto socio-culturale in continuo fermento: è il secolo del telegrafo, della macchina da scrivere e dei nuovi mezzi di comunicazione; la stampa perde il suo monopolio, e la possibilità di conoscere si allarga anche ai ceti più bassi e agli analfabeti attraverso il cinematografo, il grammofono e il fumetto. La cultura resta sempre riservata ad un ambito socialmente privilegiato ma prende vita “il lento processo di alfabetizzazione universale” (Ortoleva, 1955, p. 40) che porterà, nei secoli successivi, all’estensione su larga scala dell’istruzione e, di conseguenza, della conoscenza. L’Ottocento è anche il secolo della Nazione, concetto nato con la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche e premessa dello Stato moderno, unitario in tutti i suoi aspetti, incluso anche quello linguistico. 4 Jean Delormel, nel suo Projet d’une langue universelle, scrive: “I Lumi ravvicinano e conciliano in ogni modo gli uomini, e questa lingua, facilitandone la comunicazione, propagherà i Lumi”. (Delormel, 1795, p. 50). 5 Nella storia delle lingue pianificate, il Volapük, progetto linguistico del pastore cattolico Joahnn Martin Schleyer, acquisisce una certa rilevanza determinata dal fatto che fu la prima lingua a passare dallo studio teorico a quello pratico. Egli, con la finalità dell’unificazione, propose un alfabeto fonetico universale basato sulla scrittura latina di 28 lettere e una grammatica regolare ma alquanto difficile. Questa lingua visse un periodo di rapida diffusione, ma quando Schleyer si oppose a qualsiasi modifica, si creò uno scisma che portò alla rovina. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Janton, 1996 cap 1.5. 6 Il concetto di lingua ausiliaria è imprescindibile da quello di lingua nazionale, poiché il suo scopo è quello di affiancarsi ad essa e creare uno strato di internazionalità comune a tutti i paesi. Questo è il motivo per cui, nell’Ottocento, le lingue ausiliarie vengono dette 'inter-nazionali'. “L’identità nazionale non viene dimenticata ma viene sublimata in favore di un’identità di tipo nuovo. Se la lingua inventata inizia ad avere una rilevanza sociolinguistica, si forma una comunità su base etica e non etnica. L’etica dei parlanti può variare da parlante a parlante, ma ha un tratto in assenza accomunante: la nazione non è più l’altare su cui tutto può essere sacrificato. Ne consegue che le lingue a vocazione ausiliaria, pur non essendo necessariamente antinazionali, sono tutte antinazionaliste”. (Gobbo, 1998, p. 84) In sintesi, gli elementi che accomunano tutte le lingue ausiliarie a rilevanza sociolinguistica, sono: il “puro gioco creativo verbigerante” (Bausani, 1974, p. 116), ossia l’elemento ludico-espressivo che determina l’invenzione; la considerazione, di matrice sacra, che il plurilinguismo è la causa dei mali dell’uomo; la considerazione, di matrice positivistica, della lingua come strumento di comunicazione di massa; “la formazione di un’identità sovrannazionale in conflitto potenziale con quella nazionale”. (Gobbo, 1998, p. 84). 7 2. Origine dell’esperanto. Evoluzione dell’esperantismo 2.1 Il percorso e il progetto di Zamenhof La ricerca della propria identità accompagnò tutta la vita dell’inventore dell’esperanto, al quale la lingua deve la maggior parte della propria ideologia, a cominciare dal nome. Lejzer Ludwik Zamenhof nasce il 15 dicembre nel 1859 in una famiglia di ebrei lituani che viveva a Białystok, una cittadina che attualmente si trova in Polonia ma che all’epoca faceva parte dell’impero zarista. L’Impero russo della seconda metà del XIX secolo rappresentava, soprattutto nei territori più periferici, un crogiolo di culture, religioni e tradizioni, un luogo di incontro e, spesso, di scontro, tra uomini di provenienze ed estrazioni molto diverse. Tadolini, 1989, a proposito della popolazione, riporta questi dati: 66% ebrei, soprattutto di lingua yiddish, 18% polacchi, 8% russi, 6% tedeschi e 2% bielorussi. Il giovane Lejzer, colpito dalla divisione dei suoi concittadini, nella celebre lettera a Borovko 1895, scrive: “Questo luogo della mia nascita e degli anni della mia fanciullezza ha impresso il primo corso a tutte le mie aspirazioni successive. […] In tale città, più che altrove, una natura sensibile percepisce la pesante infelicità della diversità linguistica e si convince ad ogni passo che la diversità di lingue è la sola causa o almeno la principale che allontana la famiglia umana e la divide in fazioni nemiche. Sono stato educato all’idealismo; mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono fratelli e intanto sulla strada e nel cortile tutto a ogni passo mi ha fatto sentire che non esistono uomini, esistono soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei, ecc.. Questo ha sempre tormentato il mio animo infantile […]. Poiché a me allora sembrava che i “grandi” fossero onnipotenti, mi ripetevo che quando sarei stato grande io senz’altro avrei eliminato questo male” (Zamenhof L., Leteroj, 1948, vol. 1, p. 343-344). Si persuade, dunque, che la diversità delle lingue e delle religioni sono le fonti dei mali dell’umanità e decide di consacrare la sua vita alla ricerca dell’unità perduta, linguistica e religiosa. In famiglia Zamenhof parla russo, fuori casa polacco, come studente di ginnasio studia il tedesco e il francese, il latino e il greco. Conosce elementi di lituano; sotto la guida 8 del padre, competente ebraista, apprende lo yiddish. Tuttavia, l’interesse al problema linguistico non è suscitato esclusivamente dal suo bagaglio culturale. Nella lettera a Michaux, 21 febbraio 1905, scrive: “Se io non fossi un ebreo del ghetto, l’idea sull’unione dell’umanità non mi sarebbe affatto venuta in mente, né mi avrebbe ossessionato tanto ostinatamente per tutta la vita. Nessuno può sentire così fortemente l’infelicità della divisione umana come un ebreo del ghetto. Nessuno può sentire la necessità di una lingua libera dal senso di nazionalità e umanamente neutrale come la sente un ebreo, obbligato a pregare Dio in una lingua morta già da lungo tempo, educato e istruito nella lingua di un popolo che lo respinge” (Zamenhof L. , Leteroj, 1948,vol.1, p. 107). Nel 1874, dopo il trasferimento della famiglia a Varsavia, frequenta il Secondo Ginnasio Maschile della città, dove impara il greco e comincia a prendere appunti sui processi di formazione delle parole, oltre a raccogliere materiale sulle affinità di suoni e significati fra lingue lontane nello spazio e nel tempo. In questa fase, Zamenhof porta avanti il suo progetto di ricerca realizzando un corpus di dati sulle lingue del mondo e delineando una lingua comune per il popolo ebraico che avesse una grammatica e un vocabolario facili, per favorirne l'apprendimento; che consentisse di esprimere il pensiero umano in tutti i campi; che fosse in grado di seguire un’evoluzione naturale. L’intuizione, che è alla base di uno dei principali fondamenti della lingua, ossia la libera combinabilità delle radici, scaturisce dall'osservazione di alcune insegne lungo le vie cittadine: se parole come 'pasticceria' e 'portineria' sono costituite da un frammento che comunica l'idea di luogo, il procedimento potrebbe essere generalizzato e si potrebbe individuare un numero sufficiente di affissi capaci di veicolare un determinato numero di idee fondamentali (Lamberti, 1991). La ricerca, dunque, prevede non l’invezione di suffisi e prefissi, bensì la verifica, sulle grammatiche e i vocabolari, della presenza e del numero di affissi comuni già esistenti. La stessa metodica viene utilizzata per isolare le radici comuni, anche con qualche differenza ortografica, all'interno delle lingue europee: analizzando un elenco di 700 parole preselezionate, Zamenhof consulta i vocabolari e, se una certa radice ricorre in 9 almeno cinque di questi, viene considerata una possibile candidata per l'inserimento nel suo progetto di lingua internazionale. Il 1878 è l’anno che vede la nascita ufficiale della Lingwe Universala¸il primo embrione del futuro esperanto, completo di grammatica, vocabolario e di alcune poesie originali e tradotte. Per l’occasione, Zamenhof, insieme ad alcuni compagni di classe, intona un inno nel nuovo idioma, di cui ci resta il seguente frammento (Zamenhof L. , 1929, p. 417-422): Malamikete de las nacjes Kadò, kadò, jam temp’ està! La tot’ homoze in familje Konunigare so debà. Inimicizia delle nazioni, Cadi, cadi, è tempo ormai! Tutta l’umanità in una famiglia, Unificare si deve. Tuttavia, il progetto subisce una radicale interruzione. Infatti, quando, nel 1879, Ludwik finisce il ginnasio e si trasferisce a Mosca per frequentare la facoltà di Medicina, l’unica accessibile anche agli ebrei, il padre, conscio delle opportunità che l'istruzione universitaria poteva offrire al figlio e timoroso che i suoi interessi linguistici potessero pregiudicare la sua futura carriera di medico o ingenerare sospetti nella rigida polizia russa, incline a ritenere sovversive occupazioni di quel genere, gli impone di lasciare a casa tutto il materiale accumulato e di sospendere la sua ricerca almeno fino al conseguimento della laurea. Intanto, a insaputa del suo autore, il manoscritto viene bruciato. Nel marzo 1881 viene assassinato a Mosca lo zar Alessandro II e a questo segue un duro momento per gli ebrei russi: in tutto il territorio si intensificano i pogrom e gli atti di violenza contro le comunità ebraiche, con la compiacenza delle autorità e dell’esercito; viene inoltre propagandata la loro immagine di sfruttatori e sediziosi e proposta la loro espulsione. Gli ebrei, oggetto di tanto odio, comprendono dolorosamente che il progetto di integrazione è fallito e che il popolo russo non li accetterà mai. 10 Per protestare contro quella politica, il giovane Zamenhof partecipa attivamente, dal 1882 al 1887, all’interno del movimento sionista Ĥibat Sion6. Durante questi anni di duro conflitto, egli matura la consapevolezza che il progetto di una lingua comune non è sufficiente per riunificare in modo pacifico i popoli e, parallelamente, comincia a elaborare un ideale di religione universale. A Varsavia il governo zarista fomenta l’antisemitismo. Per protesta il giovane partecipa attivamente al movimento sionista Hibat Sion dal 1882 al 1887. Durante questi anni si convince che una lingua comune non basta per eliminare le incomprensioni sociali e, mentre lavora ad un secondo progetto di lingua universale, pensa anche ad elaborare una religione filosofica universale, che rendesse il mondo la casa di tutti gli uomini, con un solo credo e una sola lingua; a questo proposito cerca di analizzare le ragioni dell'infelicità del popolo ebraico e della tensione con quello palestinese, e invoca una riforma dell'ebraismo ispirata ai principi dell'hilelismo7, basato sull'amore per il prossimo (Zamenhof L., 1929). Nel 1886 si specializza in oftalmologia e l’anno seguente incomincia ad esercitare la professione a Varsavia. Nel 1887 sposa Carla Zilbernik e, nello stesso anno, dà alle stampe un opuscolo dal titolo Internacia Lingvo, prima in russo e successivamente in polacco, francese, tedesco e inglese. Questo libretto di appena 40 pagine si rivela di importanza fondamentale per la nascita dell’esperanto, in quanto comprende le 16 regole fondamentali, un vocabolario contenente circa 900 radici, esperimenti linguistici ed esempi di traduzione e di composizione originale, sia in prosa che in poesia. 2.2 Formazione e consolidamento della lingua La 'Lingua Internazionale', malgrado la censura, si diffonde velocemente e diventa nota sotto lo pseudonimo dell’inventore, Doktoro Esperanto, il 'dottore che spera'. Nello stesso anno esce il primo periodico, un mensile denominato La Esperantisto, interamente in esperanto dopo pochi numeri. La rivista diviene presto il luogo di 6 Il nome del movimento significa 'Amore per Sion', ma esso è conosciuto anche come Hovevei Zion. Il progetto di questo gruppo era quello di far rivivere uno Stato ebraico in Palestina. 7 Il termine deriva dal nome del rabbino Hillel (vissuto all’epoca di Erode il Grande, quindi più o meno contemporaneo di Cristo). La successiva evoluzione di questa dottrina è l’Homaranismo: mentre il primo è stato pensato per gli ebrei, il secondo "riguarda tutti i popoli e le religioni” (Zamenhof L. , Originala verkaro, 1929, p. 324). 11 dibattiti sulle possibili riforme strutturali: Zamenhof le raccoglie e le sistematizza in un progetto di riforma organico. Per attirare un pubblico su scala mondiale, alla fine dell’opuscolo Zamenhof inserisce otto pagine formate ciascuna da 4 schede riportanti il seguente testo: “Promessa. Io sottoscritto prometto di imparare la lingua internazionale proposta dal Dott. Esperanto, se sarà dimostrato che dieci milioni di persone abbiano fatto pubblicamente la stessa promessa. Nome e indirizzo”. I primi 1000 indirizzi pervenuti, vengono pubblicati da Zamenhof nel 1889 nell’Adresaro, ovvero nell’'indirizzario', inaugurando così una tradizione che, ancora oggi, rimane uno dei mezzi di propaganda più efficaci dell’organizzazione esperantista. Nel 1888 Zamenhof pubblica il Dua libro de l’Lingvo Internacia, ovvero il 'Secondo Libro della Lingua Internazionale', che consiste in un sostanzale ampliamento del volume del 1887. Nel 1889 viene pubblicato l’Aldono al la Dua libro de l’Lingvo Internacia, cioè un 'Supplemento al Secondo Libro della Lingua Internazionale', che rappresenta un punto di svolta in quanto, da questo momento in avanti, la lingua sarà ufficialmente considerata un patrimonio universale e non una proprietà esclusiva del suo autore. Impoveritosi a causa della pubblicazione dei suoi opuscoli, Zamenhof trasferisce il suo ambulatorio da una città all’altra per stabilirsi definitivamente a Varsavia nel 1898. In questo periodo egli produce gli scritti più importanti sull’esperanto. Nel 1894 pubblica l’Universala vortaro, 'Vocabolario Universale', con traduzioni del lessico esperanto in 5 lingue. Nello stesso anno presenta una raccolta di esercizi, Eksercaro, e nel 1903 pubblica il Fundamenta Krestomatio, ovvero una 'Antologia Fondamentale', comprendente esercizi, articoli, discorsi, aneddoti, poesie e prose, originali e tradotte. Una tappa fondamentale nella storia della lingua e del movimento è il primo Congresso Universale, organizzato nel 1905 a Boulogne-sur-Mer, che otterrà un buon successo, grazie a circa 700 partecipanti provenienti da 20 paesi, dando inizio alla tradizione dei congressi mondiali di esperanto. I punti della 'dichiarazione sull’esperantismo' elaborata in quella sede sono uno statuto che illumina l'essenza e le finalità della lingua, enunciando ma contemporaneamente lasciando in secondo piano il suo carattere pacifista e internazionalista, che poteva suscitare critiche di varia natura e 12 tagliare le ali all’intero progetto: “L’esperantismo è un impegno di diffondere nel mondo intero l’uso di una lingua umana neutrale che senza pretendere di inserirsi negli affari interni dei popoli e senza mirare assoutamente ad eliminare le lingue nzionali esistenti, permetterebbe agli uomini di differenti nazionalità di capirsi tra loro, che potrebbe servire come lingua di pacificazione presso le istituzioni pubbliche nei paesi dove etnie diverse lottano tra di loro a causa della lingua, e nella quale potrebbero essere pubblicate opere che si rivelano di uguale interesse per tutti i popoli. Ogni altra idea o aspirazione che qualsiasi esperantista voglia associare con l’esperantismo sarà cosa puramente priva di cui l’esperantismo non sarà responsabile” (Zamenhof L. , 1929, p. 237). Nello stesso anno appare il Fundamento de Esperanto8 il quale riprende le 16 regole della Lingvo Internacia ma comprende anche una serie di esercizi ed un vocabolario. 2.3 Critiche e tendenze evolutive L’Antaŭparolo, ovvero l’introduzione al Fundamento, pur confermando l'orientamento fin qui proposto, non legittima un’ottica eccessivamente rigida, che avrebbe potuto impedire lo sviluppo della lingua e l’espansione del movimento: “Malgraŭ la severa netuŝebleco de la fundamento, nia lingvo havos la plenan eblon ne sole konstante riĉiĝadi, sed eĉ konstate pliboniĝadi kaj perfektiĝadi; la netuŝebleco de la fundamento nur garantios al ni konstante, ke tiu perfektiĝado fariĝados ne per arbitra, interbatala kaj ruiniga rompado kaj ŝanĝado […], sed per vojo natura, senkonfuza kaj sendanĝera”9 (Zamenhof L. , 1905). Tali preoccupazioni non risulteranno infondate; infatti, già in questa fase si intravede “la lotta intestina per conservare l’identità dottrinaria” (Lamberti, 1991, p. 244) che condurrà allo scisma. Intanto, nell’impero, la situazione storica si fa sempre più complicata per gli ebrei e Zamenhof, sconvolto dagli avvenimente e sempre fortemente motivato a dare il 8 Per un approfondimento si rimanda al paragrafo 1.4, p. 15. 'Malgrado la severa intoccabilità del fondamento, la nostra lingua avrà la piena possibilità non soltanto di arricchirsi costantemente, ma anche di migliorarsi e perfezionarsi continuamente; l’intoccabilità del fondamento ci garantirà pure costantemente che questo perfezionamento si svolgerà non con uno spaccamento e un cambiamento arbitrari, dovuti a dispute e rovinosi, ma per via naturale, non confusa e non pericolosa' (la traduzione è mia). 9 13 proprio contributo, fa pubblicare l’opuscolo anonimo Homaranismo, plibonigita kaj plikompletigita eldono de la dogmoj de Hilelismo (Homaranismo, edizione ampliata e migliorata dei dogmi dell’Hillelismo), che de Beaufront aveva stroncato perché pensava occorresse tenere distinto l’esperanto da ogni sistema religioso filosofico e sociale, pena compromettere quelle dichiarazioni teoriche di neutralità del primo congresso. L’idea di Zamenhof è invece quella di introdurre i principi dell’Homaranismo dapprima in Francia (patria dei diritti dell’uomo), nella consapevolezza che all’inizio verrà dileggiato, ma poi riuscirà a farsi strada. Il secondo congresso ha luogo a Ginevra nell’agosto del 1906. Zamenhof specifica che questo loro incontro non ha niente a che fare con la politica, ma che non si può ignorare l’odio razziale, che pervade la Russia, e le conseguenti violenze, determinati non dai popoli in sé, ma dalle calunnie diffuse in vario modo perché le persone, parlando lingue diverse, non riescono spiegarsi e capirsi. È evidente, in questa sua analisi, la componente più profonda dell’esperantismo, quella Interna ideo che rimarà pregnante nella storia dello stesso, in quanto ne costituisce l’aspetto ideale anche se non obbligatorio: “Per il timore di riuscir sgraditi a quelle persone che vogliono usare l’Esperanto solo per scopi pratici, noi dobbiamo sradicare dal nostro cuore quella parte dell’Esperantismo che è la piu importante, la piu santa, quell’idea che è lo scopo principale del movimento esperantista, che è stata la stella che ha sempre guidato tutti i combattenti per l’Esperanto! Oh no, no, giammai! Noi rigettiamo questa pretesa con tutte le nostre forze. Se si obbligherà noi, i primi combattenti per l’Esperanto, a togliere dalla nostra azione tutto ciò che è ideale, noi stracceremo e bruceremo con indignazione tutto ciò che abbiamo scritto per l’Esperanto, distruggeremo con dolore i lavori e i sacrifici di tutta la nostra vita, getteremo lontano la stella verde che riposa sul nostro petto e grideremo con abominazione: "Con un simile Esperanto, che deve servire esclusivamente a fini di commercio e di utilità pratica, noi non vogliamo avere niente in comune!"” (Zamenhof L. , 1929, p. 371-372). 14 In questa fase de Beaufront accetta apparentemente un simile orientamento, ma in realtà prepara la strada per la sua riforma, che passerà dall’Adjuvanto per arrivare all’ido10, il 'figlio' dell’esperanto finalmente libero dal controllo di Zamenhof. Nell’estate del 1907 si tiene a Cambridge il terzo congresso e Zamenhof ne approfitta per ribadire quello che secondo lui è il vero significato di questi appuntamenti: non tanto fare pratica della lingua o fare propaganda, quanto incontrare samideanoj, ovvero 'coloro che condividono la stessa idea', e ricordare il valore dell’esperantismo per l’umanità. Questo rinnovato appello può essere facilmente spiegato prendendo in considerazione alcuni eventi precedenti a quell’anno. Nel 1894, a seguito di una consultazione generale sulla base di un sondaggio condotto dalla rivista La Esperantisto, e successivamente, durante il congresso mondiale di Ginevra del 1906, si era stabilita l’intoccabilità del Fundamento de Esperanto11. In principio, Zamenhof con grande umiltà aveva preso in considerazione qualsiasi proposta migliorativa, ed anzi fu lui stesso ad incoraggiare i lettori dei suoi libri a proporre soluzioni alternative ai tratti più problematici. La maggior parte degli esperantisti si era dichiarata a favore del mantenimento della lingua così come essa era stata ideata, ma questo non fermò movimenti riformatori. Per fronteggiare questo problema Zamenhof ripropose nel 1907 una semplificazione della lingua che prevedeva l’abolizione di consonanti con soprassegno, che sarebbero state sostituite da una h subito dopo la consonante interessata; la sostituzione di ĥ con k; l’abolizione dell’accusativo; l’invariabilità dell’aggettivo attributivo. Queste modifiche avrebbero indubbiamente semplificato la lingua, tuttavia non furono accolte dagli esperantisti che, abituati già alla grammatica, si opposero alla riforma. La tensione interna al movimento è crescente e lo scisma diventa inevitabile. Malgrado qualche perplessità, Zamenhof aveva scelto de Beaufront e Couturat come rappresentanti dell’esperanto presso il comitato della Delegazione per la Scelta di una lingua internazionale, che stava per riunirsi. Dopo aver valutato e scartato varie 10 Il suffisso –id- in esperanto serve proprio a indicare il “figlio”, o “il cucciolo” di qualcuno. Durante questo congresso si adottò, infatti, la dichiarazione sulla neutralità dei congressi di Esperanto (Janton, 1996, cap. 2.3). 11 15 proposte, il comitato approva l’esperanto, ma de Beaufront e Couturat annunciano che intendono proporre un progetto parzialmente modificato. Nonostante l’opposizione del linguista De Courtenay, de Beaufront annuncia ufficialmente la nascita dell’Ido12. Appresa la notizia, Zamenhof si sente oltraggiato, poiché riteneva che il plenum del congresso avrebbe dovuto prima valutare tali proposte ed esprimersi al riguardo. Alla fine quella riforma non ottiene molto seguito e l’esperanto ne esce in qualche misura rafforzato. Nel corso quarto congresso tenuto a Dresda nel 1908, Zamenhof, in riferimento alle turbolenze dell’anno precedente, ribadisce che le proposte di cambiamento sono ben accette, ma devono essere attentamente valutate dal Comitato linguistico (quello che poi prenderà il nome di Accademia d’Esperanto), che ha il compito di tutelare la lingua dall’anarchia. Inoltre è consapevole che l’esperanto è ancora troppo legato alla sua persona, dunque medita di ritirarsi: dal quinto congresso, quello di Barcellona, egli non è più il capo dell’esperantismo, ma un appassionato in mezzo ai tanti. Al congresso di Berna (1913) dirà: “L’Esperanto non dipende più, oramai, da un solo uomo nè da un qualsiasi gruppo di uomini, per il suo successo. Gli uomini possono andare e venire, ma l’Esperanto continuerà fino a che l’ideale di una lingua internazionale, unendo tutti i popoli con il legame di una comune comprensione, non sarà realizzato per il bene dell’umanità.” (Lamberti, 1991, p. 326) La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria battuta d’arresto per l’evoluzione del movimento, e Zamenhof non vivrà abbastanza a lungo per vedere realizzato il suo sogno, visto che morirà il 14 aprile del 1917. Dopo il 1917 il movimento entra in una fase d’assestamento, durante la quale si adatta alle nuove condizioni del mondo ridefinendo i suoi scopi. Più di prima acquisisce rilevanza l’ideale di pace, che peraltro, alla fine della guerra, si diffonde anche tra i non esperantisti, come è evidente dalla Costituzione della Lega delle Nazioni. La comunanza morale degli scopi della Lega e dell’esperantismo costringe allora il 12 L’ido, in realtà, è solo uno dei primi tentativi di riforma strutturale del progetto di Zamenhof; ad esso ne sono seguiti numerosi altri, ma l’ido rimane quello più famoso, nonché quello che ha ottenuto il successo e la diffusione maggiori. 16 movimento a distinguersi con la soluzione del problema linguistico, di cui la Lega non si occupava. Da allora il movimento esperantista esalta tale aspetto come la sua principale funzione sociale, con l’intento di dimostrare il sostegno dell’esperanto alla pace. Dopo la seconda guerra mondiale, l’esperantismo volge in particolar modo la sua attenzione all’aspetto linguistico. Tuttavia, l’istituzione nel 1954 di relazioni consultive tra l’UNESCO e l’UEA accosta nuovamente il movimento esperantista alle organizzazioni officiali aventi medesimi scopi sociali. Poiché l’interna idea, almeno per quanto riguarda l’ideale di giustizia e di fraternità, è riconosciuta da quelle organizzazioni, l’esperantismo è costretto ancora una volta a insistere sulle finalità linguistiche. Attualmente, la tendenza prevalente trasferisce del tutto l’interna ideo ad istituzioni estranee al movimento e, in compenso, accentua maggiormente il valore dell’esperanto per la comunicazione. La sistematica persecuzione di esperantisti da parte di alcuni dittatori a partire dalla seconda guerra mondiale dimostra che per quegli uomini l’esperanto non era soltanto una lingua. Se le parole di giustizia e di fraternità sono diventate talmente comuni nella retorica politica da non sembrare pericolose, l’internazionalismo era una cosa ben diversa, particolarmente dopo la costituzione delle associazini esperantiste dei lavoratori e dei soggetti privi di nazionalità. Poiché l’appropriazione popolare dell’internazionalismo coincise con l’ascesa della potenza statunitense, gli operatori finanziari ed economici trascurarono di sostenere il movimento esperantista. La loro sfiducia in una lingua internazionale popolare, oltre all’adozione generalizzata dell’inglese, si riflette nell’atteggiamento ufficiale delle democrazie occidentali e di importanti istituzioni verso una lingua internazionale neutra. Per esempio, il 6 ottobre 1966 fu presentata all’ONU una petizione, non superiore alle 11 righe, in favore dell’esperanto. Essa recava più di un milione di firme individuali così come quelle di circa 4000 organizzazioni, che rappresentavano complessivamente 70 milioni di aderenti in circa 80 Paesi (Lapenna, Lins, & Carlevaro, 1974, p. 778-791). Tuttavia, la segreteria la respinse, senza metterne a conoscenza gli stati membri. 17 Anche oggi cifre simili sarebbero rare per petizioni scaturite da iniziative private, prive di connessioni economiche, politiche o religiose. Attualmente, per quanto sia diffuso in seno al Parlamento Europeo (nel 2004 vari deputati appartenenti a Paesi diversi hanno firmato l’ennesima petizione, bocciata per soli due voti), l’esperanto non riesce ancora ad imporsi all’attenzione degli enti governativi, che probablmente temono le potenzialità storiche e sociali della lingua. 18 3. La lingua 3.1 Il Fundamento Nel 1905 Zamenhof pubblica a Parigi il Fundamento de Esperanto, che fissa la lingua nella forma apparsa nel 1887. Dal Congresso di Boulogne, costituisce per gli esperantisti il riferimento grammaticale di base. Il quarto paragrafo della 'Dichiarazione sull’essenza dell’esperantismo' recita: “L’unico fondamento della lingua esperanto obbligatorio per tutti gli esperantisti è il libro Fundamento de Esperanto al quale nessunon ha il diritto di fare cambiamenti” (Zamenhof 1929, p. 238). Come appare dalla prefazione, l’opera ha lo scopo di tutelare la lingua da iniziative discutibili, pur non impedendo qualsiasi evoluzione. Zamenhof, seppur favorevole all’introduzione di neologismi, è convinto che l’esperanto possa sopravvivere soltanto evolvendosi secondo principi rigorosamente definiti ed obbligati fintantoché, riconosciuto ufficialmente, sia protetto legalmente da ogni capriccio personale. Allora un comitato internazionale potrà procedere alle riforme necessarie. Fino a quel giorno, il Fundamento sarà vincolante per tutti gli esperantofoni, incluso lo stesso autore. Di seguito sono elencate, nella forma citata da Janton (1996 cap. 3.1.2), le sedici regole13 base della lingua che costituiscono la matrice immodificabile su cui si innestano e si intrecciano le successive evoluzioni dell’esperanto: 1. “L’articolo indefinito non esiste, esiste soltanto l’articolo determinativo invariabile la, per tutti i generi, casi e numeri. 2. Il sostantivo è caratterizzato dalla finale -o. Per formare il plurale si aggiunge la finale –j. Esistono soltanto due casi: nominativo e accusativo, il secondo deriva dal nominativo con l’aggiunta della finale -n. Gli altri casi sono espressi mediante preposizioni. 3. L’aggettivo termina con la -a finale. Casi e numeri come per il sostantivo. Il comparativo si forma con pli e la congiunzione ol, il superlativo con plej e la congiunzione el. 13 Tali regole forniscono una prima introduzione al funzionamento dell’esperanto, un sistema che, per quanto concerne l’aspetto morfologico, sarà illustrato più accuratamente nel capitolo successivo. 19 4. I numerali fondamentali (che non sono declinati) sono: unu, du, tri, kvar, kvin, ses, sep, ok, naǔ, dek, cent, mil, nul. Le decine e le centinaia si formano con la semplice unione dei numerali. Per indicare i numeri ordinali si aggiunge la finale dell’aggettivo, per i moltiplicativi il suffisso -obl-, per i frazionari il suffisso -on-, per i collettivi si aggiunge il suffisso -op-; per i distributivi si usa la preposizione po. I numerali possono anche essere usati come sostantivi e avverbi. 5. I pronomi personali sono: mi, vi, li (riferito al genere maschile), ŝi (riferito al genere femminile), ĝi (riferito al genere neutro, per animali o cose), si (riflessivo), ni, vi, ili, oni (indefinito). In espressioni poetiche e famigliari il pronome di 2 a persona singolare può essere: ci. I pronomi o gli aggettivi possessivi si formano con l’aggiunta della finale dell’aggettivo. La declinazione è come per i sostantivi. 6. Il verbo non si modifica secondo persone o numeri. Forme del verbo: il tempo presente termina in -as, il tempo passato in -is, il tempo futuro in -os, il modo condizionale in -us, il modo imperativo in -u, il modo infinito in -i. I participi (con senso di aggettivo o di avverbio) hanno, se attivi, il suffisso -ant- per il presente, -int- per il passato, -ont, per il futuro; se passivi il suffisso -at- per il presente, -it- per il passato, ot- per il futuro. Tutte le forme del passivo sono composte dal corrispondente tempo del verbo ausiliare esti e dal participio del verbo da esprimere; la preposizione che accompagn il passivo (complemento d’agente) è de. 7. Gli avverbi derivati terminano in –e, i gradi di comparazione come per gli aggettivi. 8. Tutte le preposizioni reggono il nominativo. 9. Ogni parola si pronuncia come è scritta, col suono proprio di ciascuna lettera. 10. L’accento tonico cade sempre sulla penultima sillaba o vocale. 11. Le parole composte sono formate dalla semplice unione delle parole (la parola principale sta per ultima); le finali grammaticali sono considerate anche come parole autonome. 12. Nella frase si tralascia la parola ne se esiste un’altra parola negativa. 13. Per indicare una direzione le parole prendono la finale dell’accusativo. 20 14. Ogni preposizione ha un significato preciso e costante, ma se si deve usare una preposizione e non è chiaro quale preposizione dobbiamo usar, allora si usa la preposizione je, che non ha un significato proprio. In tal caso si può anche usare l’accusativo senza preposizione. 15. Le cosiddette parole straniere, che nella maggior parte delle lingua sono derivate da una stessa fonte, sono usate in esperanto senza variazione e assumono di questa linua soltanto l’ortografia. 16. Si possono tralasciare le vocali finali del sostantivo del sostantivo e dell’articolo e sostituirle con un apostrofo”. 3.2 Ortografia e fonetica La nona regola del Fundamento recita che ogni parola deve essere pronunciata com’è scritta, col suono proprio di ciascuna lettera. Questo principio, che è alla base dell’ortografia fonetica dell’esperanto, stabilisce una corrispondenza biunivoca tra grafia e fonetica tale da facilitare la pronuncia, nonché la trascrizione, di qualsiasi parola. L’alfabeto dell’esperanto14 si compone di 28 lettere, ovvero 21 consonanti, 5 vocali e 2 semivocali: a b c ĉ d e f g ĝ h ĥ i j ĵ k l m n o p q r s ŝ t u v z Possiamo facilmente osservare la presenza di sei grafemi provvisti di diacritici (supersignoj), nella forma di un accento circonflesso (ĉapelo) o di un segno breve (haketo). Per dimostrare come l’esperanto si adatti alla fonetica delle lingue naturali (l’efficacia della metodologia didattica è molto importante per una lingua artificiale), si contestualizzeranno determinati foni in parole italiane che ne esemplificano la pronuncia. 14 I nomi delle lettere dell’alfabeto vengono citati con l’ausilio della vocale o, suffisso distintivo del sostantivo. 21 a b c ĉ d e f g ĝ h [a] [bo] [le’tsjo:ne] [‘ʧenʧo] [do] [e] [fo] [go] [‘ʤunʤere] (legg. aspirata) ĥ i j ĵ k l m n o (ch tedesco) [i] [‘pja:no] (semicons.) [ʒur’nal] (francese) [‘ko:mico] [lo] [mo] [no] [o] p r s ŝ t u ŭ v z [po] [ro] [‘se:me] [‘ʃa:me] [to] [u] [‘wo:mo] (semicons.) [vo] [te’soro] Per quanto riguarda la classificazione delle consonanti secondo i tre parametri fondamentali (luogo di articolazione, modo di articolazione,presenza/assenza di sonorità), si può tracciare il seguente schema, utilizzando i fonemi dell’alfabeto fonetico internazionale IPA: OCCLUSIVE LABIALI LABIO-DENTALI DENTALI PALATALI VELARI Sord./Son. Sord./Son. Sord./Son. Sord./Son. Sord./Son. p AFFRICATE t f FRICATIVE NASALI b v ts s m d z k ʧ ʤ ʃ ʒ x GLOTTIDALI Sord./Son. g h n LATERALI l VIBRANTi r La maggior parte di questi suoni risulta familiare al parlante italiano; gli elementi cui il neofita deve prestare maggiore attenzione sono i seguenti: /c/ e /ĉ/: poiché ogni grafema ha un suono predefinito che non è condizionato dal contesto linguistico in cui si trova, si pronunciano rispettivamente [ts] e [tʃ], come in 'azione' e 'cena'; /g/ e /ĝ/: si pronunciano sempre [g] e [ʤ], come in 'gatto' e 'gelato'. Poiché i foni [ʎ] e [ɲ] non esistono, ogni componente dei gruppi consonantici /gl/ e /gn/ va pronunciato separatamente; /ŝ/ si pronuncia con la [ʃ] di 'scena', e /ĵ/ con la [Ʒ] del francese jour; 22 /h/ non è muta, ma prevede una leggera aspirazione; /ĥ/, che peraltro si incontra assai di rado, corrisponde a suoni presenti in lingue come il tedesco e l’ebraico, che Zamenhof ben conosceva. Delle due semivocali (duonvokaloj) /j/ e ŭ/ la prima ha frequenza maggiore,poiché consente di formare il plurale di sostantivi e aggettivi, mentre la seconda costituisce spesso l’elemento finale dei cosiddetti avverbi primitivi, cioè quelli non derivati da un aggettivo, come hodiaŭ e baldaŭ. Entrambe comunque ricorrono solo come secondo membro di un dittongo e, pertanto, non possono mai essere accentate. Qualitativamente non differiscono molto dal corrispondente suono vocalico ma, nel suo Plena Manlibro de Esperanta Gramatiko, Wennergren (2005, p.27) sottolinea che /i/, anche quando è atona, dovrebbe avere una lunghezza maggiore di /j/, così da poter distinguere termini altrimenti omonimi come mielo (miele) e mjelo (midollo). Tuttavia, nella pratica tale distinzione viene ignorata. Il triangolo vocalico comprende solo cinque membri che, a differenza dell’italiano, non si distinguono per la qualità vocalica. Secondo Wells (1989, p. 19), i tratti caratterizzanti sono anteriore/posteriore e alto/basso, mentre la rotondità non è un tratto fonologicamente distintivo. Lo stesso autore evidenzia un ulteriore aspetto interessante: l’esistenza di un sistema vocalico ridotto consente ai parlanti della lingua una certa libertà nella realizzazione, senza timore di ingenerare confusione. Questo margine di tolleranza consente ai parlanti L1 diverse di adoperare ciascuno la propria variante senza compromettere in alcun modo la comunicazione. Nella retorica esperantista, questo è uno dei punti in cui viene maggiormente rimarcato il contrasto con l’inglese, il cui complesso sistema fonologico richiede la capacità di cogliere sfumature anche molto sottili. Non è raro che in esperanto il criterio razionale di fondo e l’uso pratico di tutti i giorni giungano a un compromesso. In effetti, Wells (1989, p. 25) riassume la questione indicando tre criteri per definire quale sia la pronuncia corretta: pratico: è preferibile qualunque pronuncia consenta l’intercomprensione tra esperantisti di diversa L1; 23 linguistico: la buona pronuncia è quella che riflette il carattere fonologico dell’Esperanto, ovvero quella che minimizza il numero degli allofoni (minumigas pluralofonecon); geografico: è accettabile quella pronuncia che risulti geograficamente neutrale, che non riveli il luogo di appartenenza. In virtù dell’eterogeneità della comunità esperantista, Zamenhof decise di rendere invariabile la posizione dell’accento di parola, che cade sempre sulla penultima sillaba, ad eccezione naturalmente dei monosillabi. Data la loro natura di semivocali, /j/ /ŭ/ non spostano l’accento tonico, per cui al singolare e al plurale la sillaba accentata è sempre la penultima: [‘homo], [‘homoj] (uomo, uomini). Tuttavia, anche per quanto riguarda gli accenti, la pratica si rivela più composita della teoria. Wennergren (2005, p. 29) infatti, precisa che, se la regola per l’accento principale è quella ben definita dalla decima regola del Fundamento, per gli accenti secondari (kromakcentoj), presenti in parole lunghe come i composti, i parlanti sono liberi di attenersi alle proprie preferenze; si potrà dunque oscillare tra [‘maten’manʤo] e [ma’ten’manʤo] (colazione). Secondo quanto definito dalla sedicesima regola del Fundamento, la –o finale del sostantivo o la –a dell’articolo possono subire l’elisione a vantaggio dell’aspetto prosodico della lingua, la quale può modificarsi dal ritmo anfibraco ( – ) o trocaico (– ), a quello giambico ( –)ed anapestico ( –), favorendo una maggiore varietà ritmica15. 3.3 Sintassi Per quanto riguarda la costruzione delle frasi affermative, e in particolare l’ordine dei costituenti (quando S e O sono sostantivi o sintagmi nominali, non pronomi), quello largamente più diffuso è SVO (Wells, 1989, p. 40), ma è necessario distinguere le lingue in cui la successione degli elementi frasali è rigidamente fissata da quelle in cui c’è maggiore libertà; in queste ultime, ordini differenti veicolano sfumature di significato o enfasi diverse. L’esperanto ha questa possibilità, perché l’oggetto è sempre 15 Esempio: espero ( – ), esper’ ( –), malesper’ ( –) (Janton, 1996, cap. 3.2.3). 24 chiaramente distinguibile dal soggetto mediante la marca dell’accusativo che conferisce alla sintassi maggiore flessibilità e libertà di espressione. I vantaggi che questo ordine apporta sono vari e significativi: consente al principiante la facoltà di attenersi all’ordine sintattico della propria lingua madre, che probabilmente riflette il flusso naturale dei suoi pensieri; permette di mettere in rilievo e conferire enfasi di volta in volta a elementi diversi (tion mi ne faris! Quello non l’ho fatto io!); rende possibile la collocazione di un costrutto particolarmente lungo e complesso in fondo alla frase, per non appesantirla16. Dunque, la possibilità di deviare dall’ordine SVO permette una differente tematizzazione dell’informazione anche senza il ricorso a risorse esterne come l’intonazione. Un discorso analogo vale per le frasi predicative, del tipo soggetto – copula – predicato, in cui l’ordine è altrettanto modificabile (ruĝa estis tiu plumo, rossa era quella penna), tranne quando S e P sono due sostantivi in rapporto di iperonimia, poiché si potrebbero ingenerare ambiguità17. Per quanto concerne la struttura della frase interrogativa, si possono individuare due tipi di domande: totali, che richiedono una risposta affermativa o negativa. In molte lingue, le domande totali si ottengono col cambio di intonazione o con l’inversione di alcuni elementi della frase; l’esperanto adotta invece la strategia di inserire una parola, ĉu, con lo specifico compito di trasformare un’affermazione in un domanda: Vi venos morgaı / Ĉu vi venos morgaı? (Domani verrai / Verrai domani?); parziali, che richiedono una risposta più articolata. Si tratta delle KI- demandoj, le parole della serie ki- dei correlativi, che introducono proposizioni interrogative del tipo Kiel vi fartas? (Come stai?), Kion vi volas? (Che cosa vuoi?), Kiom da pomoj vi havas? (Quante mele hai?). In merito alla frase negativa, come prescritto dalla dodicesima regola del Fundamento, l’esperanto non ammette la doppia negazione; dunque, in presenza di un correlativo 16 Questo può accadere anche in una frase intransitiva, se il soggetto è un articolato sintagma: malaperis tiu stranga viro kun nigra ĉapelo (scomparve quell’uomo strano col cappello nero) (Wells, 1989, p. 42) 17 Dire leono estas besto(il leone è un animale) è diverso da besto estas leono (animale è un leone). 25 della serie neni- si elimina la particella ne: mi vidis neniun (non ho visto nessuno), nenial mi iros ien (non ci andrò per nessun motivo). Wells (1989, p. 47) individua ulteriori caratteristiche sintattiche e adotta le rappresentazioni ad albero per fornire gli indicatori sintagmatici utili ad illustrare la struttura tipica della frase esperanto; per quanto riguarda ad esempio l’ordine degli elementi all’interno del sintagma nominale, l’articolo si trova invariabilmente prima del sostantivo, tranne nella costruzione 'nome di persona/articolo/aggettivo qualificativo o numerale' (Reĝo Luizo la Dekkvara, re Luigi XIV). L’articolo non si trova mai insieme ad altri determinanti, siano essi correlativi o aggettivi possessivi (mia hundo, il mio cane). L’aggettivo invece può precedere o seguire il sostantivo per ottenere effetti semantici o stilistici; frasi come Mi estas certa, ke brilan vi havos sukceson mostrano un iperbato per cui il sintagma nominale è addirittura spezzato a metà, senza che tuttavia ciò generi ambiguità sul significato. I sintagmi preposizionali e le frasi relative solitamente seguono il SN cui si riferiscono (Li estas amiko de mia patro, egli è amico di mio padre; jen litero, kiun mi ĵus trovis, ecco la lettera che ho appena trovato). In definitiva, Wells conclude che l’esperanto, dal punto di vista sintattico, presenta le caratteristiche delle lingue statisticamente più diffuse del pianeta, ma gode di una flessibilità tale da ridurre le difficoltà che i parlanti delle altre lingue incontrano durante il processo di apprendimento. 26 4. La morfologia 4.1 Lessemi I lessemi18 dell’esperanto provengono per il 75% dal latino e dalle lingue romanze (in particolare dal latino e dal francese), e per il 20% da quelle germaniche. Per il resto, si tratta di prestiti dal greco (soprattutto radici di termini scientifici e tecnici), dal russo e di lessemi derivanti dallo yiddish, dall’arabo, dal giapponese e da altre lingue ancora (Janton, 1996, cap 3.3.1). Rispetto ad altre lingue pianificate, i lessemi dell’esperanto si differenziano per il loro grado di monomorfismo (uniformità) e per “l’integrità dei lessemi derivati” (Janton, 1996, cap 3.3.1). Tuttavia, in quest’ultimo caso, si registrano delle eccezioni per le seguenti motivazioni: per evitare casi di omofonia: ad esempio, per distinguere il termine tedesco locken dal latino locus, si opta per log- nel primo caso, lok nel secondo; per evitare la confusione tra lessema e morfema: ad esempio, il sostantivo francese cigarette si trasforma in esperanto in cigarendo, in modo da evitare il suffisso diminutivo-et; per evitare parole polisemiche, prestando particolare attenzione a termini appartenenti a lingue diverse, convergenti sul piano del significante ma divergenti su quello del significato; per alleggerire espressioni complesse: ad esempio nepre dal russo nepremenno. Da rilevare, inoltre, è la differenza tra le radici in esperanto e quelle in altra lingua. Quella che gli esperantologi chiamano 'radice' non sempre corrisponde alla terminologia usuale per descrivere le lingue etniche. Pur verificandosi numerosi casi di corrispondenza (es. vid-i dal latino vid-ere), talvolta la radice comprende vari morfemi e corrisponde al radicale secondo una lingua nazionale. Ad esempio, nella radice 18 Si utilizza il termine 'lessema' secondo la definizione data da Janton (1996, cap3.3), ovvero “I lessemi sono le parole che danno il senso, cioè mostrano un significato generale: sun, teler, manĝ, util, ĵus, hodiaŭ, ecc.”. 27 esperanto inspir- non si distingue il prefisso latino in- dalla radice spir-, ma questi due elementi vengono fusi in un nuovo lessema. Ciò dimostra che le radici in esperanto non si basano sull’etimologia nazionale della parola, ma costituiscono ciascuna una nuova unità. Sulla scorta dei lessicologi ebraici, Zamenhof considerò i lessemi invariabili per classificare sotto ciascuno di essi le parole derivate (sotto man- ha classificato mano, mana, maneto, mane). Ricavò radici verbali e nominali comparando i lessemi in cinque lingue (francese, inglese, tedesco, russo, polacco), per esempio, acet- (comprare): acheter / buy / kaufen / pokupat / kupowac. A tal proposito, Zamenhof non ritenne opportuno distinguere lessemi verbali e nominali, perché avrebbe utilizzato categorie non rigorose. In ogni caso, i lessemi concorrono a formare verbi o sostantivi quando si uniscono a morfemi verbali o sostantivali indicanti la funzione grammaticale (rapid-: rapid-a, rapid-o, rapid-e, rapid-i). 4.2 Vortfarado Janton (1996, cap. 3), nel suo fondamentale testo sulla lingua, la letteratura e il movimento esperantista, afferma che a suo avviso la tradizionale classificazione dei morfemi usata per descrivere le lingue europee non dà adeguatamente conto delle peculiarità di questa lingua. Infatti, generalmente gli esperantologi riconoscono tre categorie di morfemi: le radici, che “significano qualche concetto”; gli affissi, che “modificano il senso della radice alla quale si uniscono, senza influire sul suo carattere grammaticale né sulla sua funzione compositiva”; le finali, che forniscono informazioni di natura grammaticale sulla parola in questione (Janton, 1996, cap 3.3). Per chiarire, esaminiamo una parola di esempio nei suoi componenti costitutivi. In nemanĝeblaj (immangiabili) possiamo individuare i seguenti morfemi: ne-, prefisso che determina una negazione; manĝ-, radice del verbo corrispondente all’italiano mangiare; -ebl-, suffisso che indica la possibilità; 28 -a-, morfema derivativo che classifica la parola come aggettivo; -j, morfema flessivo che identifica il plurale. Dunque, nemanĝeblaj sarebbe formato dalla giustapposizione di due affissi, una radice e due finali. Tali analisi, che trova riscontro in alcuni manuali per l’apprendimento della lingua (si veda Broccatelli, 1995), non può dirsi pienamente soddisfacente, poiché ha il solo obiettivo di presentare la lingua ai discenti e agli studiosi mediante una terminologia che, soprattutto all’epoca di Zamenhof, era più comune nella descrizione morfologica. Questa classificazione, sebbene abbia indiscussi vantaggi pratici poiché consente a chi vuole apprendere la lingua di attingere a un consolidato bagaglio di conoscenze grammaticali, tuttavia, non tiene in considerazione l’originale natura delle vortoj (parole) dell’esperanto, che, secondo la teoria dello stesso Zamenhof espressa nel Fundamento Krestomatio, sono totalmente scomponibili in parole indipendenti “in modo che l’insieme della lingua non consista di parole sotto diverse forme grammaticali, ma esclusivamente di parole invariabili. […] così per esempio la parola fratino (sorella) in effetti consiste di tre parole: frat (concetto di fratello), in (concetto di femmina), o (concetto di cosa o idea esistente), dunque fratello + femmina = sorella. Ma nel manuale la parola fratino è spiegata come segue: fratello = frat, poiché ogni sostantivo al nominativo finisce per o, si ha frato; per formare il femminile dello stesso concetto si inserisce il suffisso in, perciò sorella = frat-in-o (i trattini sono apposti per mostrare le diverse parti grammaticali costitutive della parola). In questa maniera l’analisi della lingua non mette in difficoltà lo studente, il quale non suppone che le parole chiamate desinenze o prefisso o suffisso siano parole del tutto indipendenti che mantengono sempre il rispettivo senso, qualunque sia la loro posizione alla fine o all’inizio di un’altra parola o se siano usate in forma autonoma. Perciò ogni parola ha uguale valore per essere usata come radicale o come parte grammaticale” (citata in Janton, 1996, cap. 3.3). Renè De Saussure fu il primo ad esporre una teoria organica del sistema di creazione delle parole (vortfarado). Nel suo La vorto-strukturo en Esperanto (1916), lo studioso espone la sua argomentazione, per cui l’esperanto non segue regole di derivazione come tali, bensì modalità razionali di composizione delle parole secondo il principio di 29 necessità e di sufficienza: esistono, dunque, solo parole composte e non derivate 19. In base al suddetto principio, ogni parola deve contenere tutti gli elementi necessari per evocare (con o senza laiuto del contesto) l’idea che essa deve esprimere (Principio di necessità) e ogni parola deve contenere soltanto gli elementi necessari per evocare l’idea che essa deve esprimere: è bene perciò escludere ogni idea estranea a quella da esprimere e evitare i “pleonasmi inutili” (Principio di sufficienza) (Saussure, 1916, p. 11-12). Quindi, per l’analisi del significato di una parola, è necessario eliminare innanzitutto le componenti pleonastiche: ad esempio, in frato la finale -o, che marca il sostantivo, non aggiunge alcuna nuova informazione rispetto al significato espresso dalla radice, se non che si tratta di un singolare senza accusativo; ugualmente in skribi, la finale -i esprime esclusivamente il modo/tempo della coniugazione. l principi di necessità e di sufficienza trovano applicazione anche in un caso specifico di composizione delle parole, ovvero quello che prevede l’inserimento di affissi. Ad esempio, il suffisso -in- rende femminili parole che non veicolano già questa idea (knabo/knabino, ragazzo/ragazza), tuttavia è ridondante nel caso in cui già la radice esprima il seme di tale idea (nimfo, ninfa). Il medesimo ragionamento vale per -ej-, suffisso che indica un luogo (lernejo, luogo in cui si studia, cioè scuola, ma domo, casa). Merita una particolare attenzione il suffisso -il-, che si riferisce a uno strumento e che può indurre in errore coloro che si apprestano all’apprendimento della lingua. In questo caso, è molto importante sapere se una determinata radice ha una natura nominale o verbale, perché si danno due ipotesi distinte: se l’oggetto deriva da una forma verbale, il suffisso è indispensabile e avremo, ad esempio, segilo (sega) da segi (segare)20; se invece la stessa radice esprime l’idea di oggetto, il suffisso è pleonastico ed avremo forko, broso (forchetta, matita). Malgrado la ragionevolezza del sistema di Saussure, l’Akademio, l’autorità preposta al controllo dell’evoluzione dell’esperanto, non l’ha approvato ufficialmente, ma ha riconosciuto la validità dei principi di necessità e sufficienza. Kalman Kalocsay, nel 19 Ciò accade perché, come mostra l’undicesima regola del Fundamento, anche le finali devono essere considerate come parole indipendenti che non si limitano ad apportare una marca sintattica. 20 Di fatto, questa ipotesi mostra come sia necessaria la conoscenza mnemonica della categoria lessicale cui è riconducibile ogni radice. 30 saggio La gramatika karaktero de la Esperantaj radikoj (1938), insiste invece sulla coerenza della teoria saussuriana, considerata come l’unico sistema realmente capace non solo di descrivere la lingua, ma anche di prevederne ed impostarne l’evoluzione, e fornisce il suo contributo per chiarirne la portata. In effetti, le uniche radici a non avere carattere nominale, verbale o aggettivale (categoria che comprende anche gli avverbi derivati) sono le preposizioni e le congiunzioni. A differenza della parola, il carattere della radice non è mai variabile; quando carattere grammaticale della parola e della radice convergono, la vocale finale è pleonastica dal punto di vista del significato e ha una funzione solo sintattica. Kalocsay introduce il concetto di 'parelemento', in grado di chiarire il processo di composizione delle parole nei casi in cui questa coincidenza non si verifichi. Vediamo l’esempio citato dallo stesso autore ungherese: martelo (martello) è una radice nominale; per realizzare il verbo (martellare) è necessario semplicemente modificare la finale, marteli; per continuare la composizione, dando un nome all’'atto del martellare' si deve aggiungere ancora una volta la terminazione del sostantivo, *martel-i-o; tuttavia, una singola parola non può contenere due vocali finali, dunque la prima, in questo caso la -i-, viene sostituita da un parelemento, una sorta di sinonimo funzionale, il suffisso -ad-: martelado (il martellare)21. La validità del sistema viene provata anche procedendo in direzione inversa, ovvero partendo dall’uso concreto: c’è una parte del significato grammaticale che non è riconducibile alla finale che di volta in volta viene applicata, e che qundi non può che essere contenuta nella radice, accanto al significato lessicale. In effetti, la conoscenza del carattere grammaticale di una radice consente di muoversi più facilmente nella valutazione dei suffissi e delle finali necessari ad operare le trasformazioni. Ciò nonostante, la teoria del carattere grammaticale delle radici è stata spesso messa in discussione. Per esempio, Auld (Pri la Naturo deEsperanto, in AA. VV., 1993, p.161 e segg.) ritiene che si tratti di un equivoco generato dal fatto che i primi vocabolari esperanto erano bilingui, quindi accostavano il lemma esperanto a una traduzione con un termine tedesco, francese o russo. La conseguenza di ciò è che la radice viene in 21 Per accennare a un altro esempio, si veda la seguente serie: homo (uomo), homa (umano), *homao (umanità), -ec- è il parelemento della finale -a, dunque homeco (umanità, come qualità, distinta da homaro, intesa come collettività). 31 qualche modo ricompresa nelle categorie note, nelle parti del discorso classiche; ad esempio: frukt- è un sostantivo che significa frutto, blu- è un aggettivo che significa blu, e così via; tuttavia, una concezione del genere vedrebbe frukt sinonimo di frukto, e blu sinonimo di blua, come se la finale fosse un orpello non necessario, mentre la regola fondamentale dichiara che ogni radice mantiene in qualunque caso il proprio valore e il proprio ruolo, in qualsiasi posizione o contesto si trovi. Secondo Auld, questa teoria gode di una considerazione tale da essere divenuta lo strumento base per spiegare i processi di derivazione delle parole, ed effettivamente ha una certa praticità, ma ha il limite che costringe a memorizzare l’appartenenza grammaticale di tutte le radici22. 4.3 Morfologia flessiva La flessione è quel processo morfologico che 'aggiunge' alla parola di base informazioni concernenti genere, numero, caso (flessione nominale), tempo, modo, diatesi, persona (flessione verbale) (Scalise & Bisetto, 2008, p. 145). In esperanto, per indicare la classe grammaticale o la funzione del monema 23, in casi determinati, si aggiunge un morfema. Gli identificativi di classe flessivi sono: -o per indicare il sostantivo, -a per indicare l’aggettivo, -e per indicare l’avverbio. Per quanto concerne il verbo, i morfemi verbali che lo caratterizzano sono: -i, -as, -is, -os, -us, -u24. Alcuni lessemi sono privi dell’identificativo di classe; come ad esempio: i correlativi (pronomi, aggettivi, avverbi) costituiti da una sillaba iniziale, avente un preciso senso caratteristico, a cui si aggiunge un morfema derivato25; i numerali e ogni elemento in parola composta eccetto l’ultimo elemento (es.: okulvitro, manlabori); 22 L’uso concreto dei parlanti, comunque, allo stato attuale fa pensare che le radici mantengano un carattere grammaticale (sostantivale, aggettivale o verbale) sostanzialmente ereditato dalle lingue fonte, come rispecchiano le regole di agglutinazione degli affissi. 23 “Seguendo Martinet noi chiamiamo monemi quelle minime parole autonome. Esse si differenziano tra loro secondo il ruolo nella frase” Janton (1996, cap. 3.3). 24 Per un ulteriore approfondimento sui flessivi verbali si veda il paragrafo 4.3.1, p. 33 25 Per la tabella dei correlativi si veda l’Appendice p.50. 32 Un lessema senza identificativo prende quello risultante dalla classe con cui si colloca nella frase: mi > mia, dek > deko > deka; un lessema con identificativo cambia lo stesso quando cambia la classe: deko > deka, fino > finis. Poiché la funzione grammaticale non ha sempre uno speciale identificativo, l’identificativo di classe può assumere il ruolo di identificativo di funzione: -o indica che si tratta di un nome e che quel nome è in caso soggettivo o prepositivo: la komenco estas bona (l’inizio è buono), je la komenco (dall’inizio) (Janton, 1996, cap. 3.3.2.1). 4.3.1 Flessione nominale La formazione del plurale è regolare e preveda l’aggiunta finale del morfema –j; il verbo ha la marca Ø. Il caso (accusativo, in esperanto anche con valore illativo e allativo) ha la marca -n in relazione con il sostantivo, l’aggettivo, i pronomi e gli avverbi derivati. Il genere si riferisce al sostantivo. Esiste un suffisso soltanto per il genere femminile, come vir-o, vir-in-o (cfr. l’ebraico –ish, -isha); patr-o, patr-in-o (cfr. l’arabo waalid, waalida). Il pronome indefinito si differenzia tra forma neutra (io) e forma maschile e femminile (iu). Il pronome personale distingue tre generi alla terza persona singolare: li, ŝi, ĝi. 4.3.2 Flessione verbale I morfi flessivi verbali sono sei: -i per indicare l’infinito, -as per il presente indicativo, -is per il passato indicativo (che corrisponde sia all’imperfetto, sia al passato remoto dell’italiano), -os per il futuro, -us per il condizionale e -u per l’imperativo. Dunque, non esistono finali autonome per il congiuntivo, che viene reso dalle altre forme a seconda delle situazioni: mi pensas, ke li ne pravas (penso che non abbia ragione); mi volas, ke vi legu (voglio che tu legga); se vi venus, mi estus feliĉa (se venissi sarei contento); questi esempi mostrano anche che la preposizione secondaria, di qualunque tipo essa sia, viene sempre introdotta da una virgola. Poiché il flessivo verbale è invariabile, fatta eccezione per l’imperativo alla seconda persona (Iru!), il pronome personale deve essere sempre espresso e varia secondo la persona(mi iras, vi iras, li iras, ...): 33 Singolari 1 2 Mi Vi 3 Li (mas.) Ŝi (fem.) Ĝi (neut.) Ci (poet.) Plurali Ni Vi Ili Singolari e Si (rifl.) plurali Oni (indef.) Per quanto attiene l’aspetto verbale, soltanto il participio veicola la differenza tra imperfettivo e perfettivo. Per quel che riguarda i participi, l’esperanto presenta un sistema molto ricco e complesso. Presentiamo qui lo schema delle forme base: Attivo Passivo Passato -int- -it- Presente -ant- -at- Futuro -ont- -ot- Quindi, ad esempio, manĝinta significa 'che ha mangiato', manĝita 'che è stato mangiato', manĝanta 'che mangia', manĝata 'che viene mangiato', manĝonta 'che mangerà', manĝota 'che sarà mangiato'. Inoltre, applicando la terminazione avverbiale si costruisce una forma pressappoco analoga al nostro gerundio: manĝinte, 'avendo mangiato'; manĝate' essendo mangiato', e così via. Attraverso la finale -o, invece, si ha il participio sostantivato, di uso più frequente del corrispettivo italiano: la leganto, 'il lettore'; la skribinto, 'lo scrittore'; la alparolotoj, 'coloro cui verrà rivolto un discorso', ossia l’uditorio di una conferenza. Insieme alla copula esti il participio serve nella costruzione di forme perifrastiche molto utili a esprimere con precisione la collocazione temporale ed aspettuale di un evento. Vediamo qui lo schema delle sole forme attive: 34 Part. Pass. Passato Part. Pres. Mi estis manĝinta Mi estis manĝanta Stavo mangiando Avevo mangiato / finito di mangiare Presente Futuro Part. Fut. Mi estis manĝanta Stavo mangiando Mi estas Mi estas manĝanta Mi estas manĝinta Sto mangiando manĝonta Ho mangiato / Sto per finito di mangiare mangiare Mi estos Mi estos manĝanta Mi estos manĝinta Staro mangiando manĝonta Avro mangiato / Sto per finito di mangiare mangiare Con il participio passivo, invece, si costruisce la forma passiva; ad esempio: ŝi estas amata, 'lei e amata'; ŝi estos amita, 'lei sarà stata amata'. Oltre a queste, sono possibili costruzioni con l’infinito (esti manĝanta, stare mangiando) e con il condizionale (mi estus manĝinta, avrei mangiato; se ŝi estus amita, se lei fosse stata amata). Janton (1996, cap. 3.3.2.2), relativamente al tema dell’aspetto verbale, identifica almeno il seguente schema: Incoativo: l’inizio di un’azione è reso dal prefisso ek-: ekparoli (cominciare a parlare); ekliteraturo (letteratura nascente). Durativo–iterativo: il suffisso –ad- indica un’azione o condizione continuata o ripetuta, come paroli (parlare) > paroladi (discorrere); agi (fare) > agadi (agire). Causativo: il suffisso –ig- designa che qualcosa o qualcuno causa l’azione o la condizione (igi = far diventare), come veni (venire) > venigi (far venire); blanka (bianco) > blankigi (rendere bianco, imbiancare). Traslativo: il suffisso –iĝ (iĝi = diventare) indica la modificazione della condizione verso il concetto espresso dal radicale, per es. malsani (essere ammalato) malsaniĝi (diventare malato, ammalarsi). 35 4.4 Morfologia derivazionale Si definisce derivazione quel processo morfologico che forma 'parole nuove' mediante affissazione, cioè l’aggiunta ad una base di affissi (prefissi o suffissi) (Scalise & Bisetto, 2008, p. 81). L’esperanto possiede un sistema di affissi altamente produttivi, di cui alcuni possono essere aggiunti solamente a una base avente specifico carattere grammaticale (prefissi generici), altri, invece, si legano alla base a prescindere da esso26. In merito, Gobbo opera la seguente categorizzazione (Gobbo, 2009, p. 203-214): Prefissi generici (mal-, ne-, …). Il prefisso mal-, premesso a una base, istituisce una relazione di antonimia e può legarsi a qualsiasi lessema: aggettivale (bon-a/mal-bon-a, buono/cattivo), verbale (akcept-i/mal-akcept-i, acettare/rifiutare), stativo (ord-o/mal-ord-o, ordine/disordine), circostanziale (tro/mal-tro, troppo/non abbastanza). In alcuni casi l’antonimia è interna allo stesso lessema, come ad esempio: memor-i/forges-i (ricordare/dimenticare), tag-o/nokt-o (giorno/notte) Suffissi generici (-aĉ-, -eg-, -et-,…). Il suffisso -aĉ-, che è un calco dallo Yiddish, indica il disprezzo per qualità materiali: dom-aĉ-o (tugurio), mol-aĉ-a (viscido). Il suffisso -eg- è un accrescitivo e può essere applicato a qualsiasi base: dom-ego (una casa grande), bel-eg-a (bellissimo). Il suffisso -et- è un complementare valido sia per i sostantivi che per gli aggettivi: dom-et-o (casetta), varm-et-a (tiepido). Prefissi verbanti (dis-, ek-, …). Il prefisso dis- indica divisione, separazione: dis-don-i (distribuire), dis-kur-i (correre via). Il prefisso ek- determina l’inizio di un’azione o di uno stato: ek-rid-i (cominciare a ridere), ek-flug-o (decollo). Suffissi verbanti (-ebl-, -end-, …). Il suffisso -ebl- è un calco dal latino –ibilis e indica la possibilità passiva: manĝ-ebl-a (commestibile), trink-ebl-a (potabile); 26 Per l’elenco completo degli affissi ufficiali vedi Appendice p.51. 36 può inoltre essere usato come lessema: ebl-ec-o (possibilità), ne-ebl-a (impossibile). Il suffisso -end- è anch’esso un calco dal latino e indidica la necessità passiva: leg-end-a (da leggere), pag-end-a (da pagare). Prefissi stativi (ĉef-, …). Il suffisso ĉef- è semanticamente affine a –estr-, che indica la persona che dirige, ma può legarsi solo a lessemi stativi: ĉefredaktor-o (capo redattore), ĉef-strat-o (strada principale). Suffissi stativi (-an-, -id-, …). Il suffisso -an- è utilizzato per marcare il membro di un gruppo (ŝtatano, cittadino di uno stato), abitante di un luogo (Parizano, parigino) o adepto di una dottrina (Islamano, musulmano). Il suffisso -id- è un calco dal greco e indica la discendenza o derivazione: reĝido (principe), hundido (cucciolo di cane). Una lessicalizzazione è l’espressione Latin-id-a-lingv-o (lingua romanza). Nel loro complesso, gli affissi rappresentano la grande invenzione di Zamenhof per espandere il vocabolario con un numero limitato di elementi da memorizzare (dieci prefissi, trenta suffissi ufficiali, più alcuni tecnici o non ancora riconosciuti). Tra i diversi esempi che si potrebbero citare, uno dei più indicativi, per l’alto grado di produttività, è quello costituito dal verbo manĝi (mangiare), dal quale si possono ricavare: manĝaĵo (cibo), manĝado (atto del mangiare), manĝejo (luogo dove si mangia, mensa), manĝujo (recipiente per mangiare, mangiatoia), manĝilaro (strumenti per mangiare, stoviglie), manĝebla (commestibile); manĝinda (meritevole di essere mangiato, gustoso), manĝenda (da mangiare), manĝema (incline al mangiare, ghiotto), manĝeto (spuntino), manĝeti (spizzicare), manĝegi (mangiare a quattro palmenti), manĝaĉi (trangugiare, ingozzarsi), e diversi altri ancora. Il sistema degli affissi è in possibile espansione; al momento è privo di affissi adatti a specificare le modalità verbali, anche se si potrebbero introdurre suffissi derivati dai verbi servili corrispondenti: per citare gli esempi di Wells (1989, p. 36), una variante sintetica di mi povus diri (io potrei dire) potrebbe essere mi dirovus (io direi), mentre mi dirolas e mi direvas affiancherebbero mi volas diri (io voglio dire) e mi devas diri (io devo dire). 37 4.5 Composizione La composizione è un processo morfologico che, similmente alla derivazione, forma parole nuove a partire da parole già esistenti; ma, mentre la derivazione lega un morfema lessicale a un affisso, la composizione unisce due (o più) morfemi lessicali (Scalise & Bisetto, 2008, p. 117). Questo processo è particolarmente produttivo in esperanto, che realizza i composti seguendo il modello delle lingue-fonti germaniche (Gobbo, 2009, p. 196). Poiché, in esperanto tutte le radici si combinano con tutte le radici e tutti gli elementi possono funzionare come prefissi o suffissi, diventa fondamentale, per un adeguato utilizzo del sistema degli affissi, la conoscenza del valore denotativo della base del composto, che può esprimere un’idea di sostantivo (persona, cosa concreta o cosa astratta), di aggettivo (qualità) o di verbo (azione, stato) (Migliorini, 1995, p. 113-114). A tal proposito, Gobbo (2009, p. 196) identifica: general affixes, affissi che possono legarsi a qualsiasi lessema; stative affixes, affissi che possono legarsi esclusivamente a lessemi stativi; verbal affixes, affissi che possono legarsi soltanto a un lessema verbante27. Ad esempio: salt- (saltare) è un lessema verbante e, pertanto, l’utilizzo del prefisso verbale ek- è regolare. Di contro, il lessema knab- (ragazzo) è stativo e quindi l’applicazione del prefisso ek- porta a un non-sense28. Tuttavia, tali regole di composizione presentano delle eccezioni che sono determinate dall’influenza del sostrato linguistico greco e latino. Per esempio, hom-manĝi non corrisponde a manĝi home (mangiare come un uomo), ma a manĝi homojn (mangiare un uomo, agire come un cannibale), come nella parola derivata dal greco 'antropofagia'. Analogamente, paf-il-eg-o non è 'una pistola (generica)' ma un 'cannone', nonostante esista anche kanon-o; mal-san-ul-ej-o non è 'un luogo (generico) 27 Gobbo (2010, p.47), utilizzando la terminologia di Whorf, definisce “il carattere stativo (che Tesnière (1959) indicava mediante la lettera O) e quello verbante (indicato mediante I). il primo indicante qualcosa in potenza, il secondo all’opposto qualcosa in atto […]”. 28 Analogamente, verd- (verde) è, secondo la terminologia utilizzata Gobbo (2009, p. 196), un lessema aggiuntivo (adjunctive), quindi il suffisso -ul-, che conferisce animazione a tutto ciò che è inanimato, può essere certamente applicato. Da osservare che anche tabl- (tavolo) è inanimato ma stativo, pertanto il suffisso -ul- non può essere legato. 38 per gli ammalati', ma un ospedale, sebbene esista anche hospital-o. Tali eccezioni devono essere trattate come lessicalizzazioni29 (Gobbo, 1998, p. 199-200). Talvolta, la segmentazione del composto non è chiara e veicola ambiguità. Ad esempio, la parola konkludo può essere interpretata sia come konklud-o (conclusione), sia come konk-lud-o (gioco con una conchiglia). Anche la parola che dà il nome alla lingua, esperanto può essere analizzata come esperant-o (la lingua esperanto), o esper-ant-o (colui che spera). Janton (1996, cap. 3.3.3) ha identificato una lista delle possibilità combinatorie in esperanto: 1. Composizione di lessemi (L + L…); processo molto comune: okul-vitro (vetro per occhi = occhiale), akvo plena (colmo d’acqua), sam-maniere (allo stesso modo), dek-unu (dieci + uno = undici). All’interno di questa categoria si distinguono due casi particolari: a) reduplicazione del lessema: foj-foje (di tanto in tanto), plen-plena (colmo), rug-ruga (rosso vivo); b) composizione del verbo + complemento: man-premi iun (stringere la mano a qualcuno), mort-bati iun (picchiare a morte qualcuno), lukt-akiri ion (conquistare qualcosa lottando). 2. Composizione di morfemi (M + M…): ar-ig-i (riunire), iom-et-e (un pochino), ac-ul-in-o (donna cattiva), re-dis-ig-int-e (dopo essersi di nuovo separati). 3. Composizione di lessemi e morfemi: è la categoria più produttiva grazie alla notevole efficacia dei derivativi e alla frequenza del morfema femminile -in. Oltre al caso più semplice (L + M) come vir-in-o, si trovano combinazioni più complesse: a) L + M +M: vir-in-et-o (una donnina); 29 La parola fer-voj-o non indica 'una strada di ferro' ma una 'stazione'. Se fervoj non venisse considerata una lessicalizzazione, in che modo la parola fervoj-ist-o potrebbe essere interpretata come 'capostazione'? (Gobbo, 2009, p. 200) In questo caso, l’influenza del sostrato delle fonti linguistiche è evidente: fervojo è un calco dal francese chemin de fer, così come malsanulejo è un calco dal tedesco Krankenhaus.. 39 b) L + M + M + M…: blond-ul-in-et-o (una biondina); c) L + L + M: man-labor-aĵ-o (oggetto lavorato a mano); d) L + L + … + M + M: man-labor-ist-in-o (lavoratrice manuale). 4. Composizione di morfemi e lessemi (M… + L) a) Prefisso e lessema. Fra tutti i prefissi -mal è il più economico, perché consente di formare tutti i contrari procurando una schematizzazione difficilmente eguagliabile: granda/malgranda (grande/piccolo),juna/maljuna (giovane/vecchio), varma / malvarma (caldo/freddo), ecc.… b) Morfemi diversi dai derivativi. Tutte le categorie di morfemi possono combinarsi con lessemi: civesper-e (stasera), cio-pov-a (onnipotente), ek-amo (amore nascente), ne-re-ven-a (non di ritorno), as-temp-o (tempo presente). Nella formazione delle parole hanno grande importanza anche le preposizioni, che caratterizzano due tipi di composizioni: la forma composta è una parola con un nuovo significato, come in labori > kun-labori (lavorare/collaborare), porti > elporti (portare/portare fuori), iri > eniri (andare/entrare); la nuova forma funge da complemento di un’altra parola, come in por-esperanta agado = agado por esperanto (attività in favore dell’esperanto), en-urba trafiko = trafiko en la urbo (traffico cittadino), dummilite = dum la milito (durante la guerra). I primi due esempi sono una composizione semantica, il terzo è grammaticale. 5. Composizioni miste (M… + L + M…): pli-grand-ig-i (ampliare), mal-jun-ul-o (un vecchio), mal-pli-grand-ig-i (rimpicciolire), en-ter-ig-o (interramento, sepoltura), mal-san-ul-ej-o (luogo per malati, ospedale), ne-pri-zorg-em-ul-o (individuo non disposto ad interessarsi ad aiutare). All’interno di questa categoria molto frequente, ne esistono altre meno numerose: a) L… + M… + L: franc-de-ven-a (di origine franca); b) L + M + L + M + M: son-el-vok-iv-ec-o (potere evocativo dei suoni). 6. Composizioni di numerali: i numerali si formano combinando i semplici unu, du, tri, kvar, kvin, ses, sep, ok, naŭ con dek, cent, mil (10, 100, 1000); se 40 collocati prima si moltiplicano, se collocati dopo si sommano: kvin-dek (50), dek-kvin (= 15). Il numerale riferito ad altro elemento anche sottinteso diventa ordinale e prende la finale dell’aggettivo -a: la du-dekkvina de aprilo (il 25 aprile). 4.6 Verso una classificazione tipologica Tradizionalmente si riconoscono due possibili criteri di classificazione di una lingua: quello genealogico, che diacronicamente identifica due o più lingue appartenenti alla stessa 'famiglia linguistica' se derivano da una stessa lingua madre, e quello tipologico, che invece sincronicamente riconosce due o più lingue appartenenti allo stesso 'tipo' sulla base di caratteristiche morfologiche e/o sintattiche comuni (Graffi & Scalise, 2002, p. 53). L’esperanto, considerata la sua natura di lingua pianificata, non ha una storia condivisa con altre lingue, ma può comunque essere ritenuta un membro della famiglia indoeuropea grazie alla presenza quasi preponderante delle lingue romanze, germaniche e slave tra le fonti cui Zamenhof attinse nel suo processo creativo. La questione attinente alla tipologia morfosintattica è, invece, più rilevante. Prendendo come parametri i tipi morfologici tradizionalmente riconosciuti (isolante, flessivo, agglutinante e polisintetico), l’esperanto viene tradizionalmente inserito nella categoria delle lingue agglutinanti. Come spiega Cherpillod (1988, p. 10-15), infatti, esso presenta delle caratteristiche che inducono a considerarla una lingua agglutinante, come e più del turco e dell’ungherese, considerati membri altamente rappresentativi della categoria: 1. il principio fondamentale è quello dell’aggiunta, non del cambiamento, e gli elementi che compongono le parole possono comparire anche in altre, mantenendo lo stesso significato. In particolare, non c’è un’uscita distinta per l’accusativo singolare e per quello plurale (cfr. homon / homojn vs. latino hominem / homines); 2. c’è una sola declinazione e una sola coniugazione; 41 3. l’informazione sul genere viene veicolata una sola volta nella frase, senza inutili ridondanze (si confronti tiu virino estas panisto e di contro cette femme est boulangere). C’è invece accordo fra aggettivo e sostantivo, e in questo l’esperanto funziona come una lingua flessiva (viaj belaj nigraj okuloj); 4. non ci sono fenomeni di interferenza fra elementi vicini (ad esempio radici e marche morfosintattiche finali), come accade talvolta anche in lingue agglutinanti meno radicali, come il finlandese; 5. i morfemi possono essere usati autonomamente, senza appoggiarsi a una radice lessicale (aĵo, ree). Una caratteristica che invece differenzia l’esperanto dalle lingue agglutinanti è di essere più analitica che sintetica, peculiarità che consente una struttura frasale più agile e flessibile. Pur considerato che Zamenhof non dichiarò mai di avere elaborato una lingua agglutinante, è opportuno ricordare che le riflessioni di Cherpillod sono finalizzate a far risaltare i presunti vantaggi dell’esperanto rispetto ad altre possibili soluzioni linguistiche. Infatti, seguendo la sua argomentazione, le lingue flessive presenterebbero delle difficoltà: le declinazioni e le coniugazioni generano frequentemente irregolarità, rendendo impossibile ricondurre un significato specifico (quale ad esempio 'plurale', 'femminile' o 'genitivo') ai vari morfemi che si alternano nei paradigmi. Al contrario, nelle lingue agglutinanti, la scomposizione delle parole in elementi che conservano il proprio significato nelle varie combinazioni in cui compaiono è facilmente realizzabile. Dunque, se le lingue flessive sono fondate sul cambiamento, quelle agglutinanti vedono come processo fondamentale l’incatenamento. La conclusione cui giunge Cherpillod è che la presenza simultanea di un lessico in prevalenza neolatino e di una struttura essenzialmente agglutinante rende l’esperanto relativamente facile da imparare per parlanti L1 diverse (Cherpillod, 1988, p. 20-23). Osservando il fenomeno da una prospettiva diversa, Piron (1993, p. 142) afferma che è impossibile identificare una classificazione tipologica dell’esperanto senza distinguere almeno tre livelli: profondo (morfologico), intermedio (sintattico) e superficiale 42 (lessicale e fonetico). Adottando quest’ottica, a livello profondo l’esperanto è isolante, nel senso che è centrale il principio dell’invariabilità dei morfemi, tranne casi estremamente rari (vedi, ad esempio, l’uso dei suffissi come parole autonome). Tuttavia, se le lingue isolanti sono caratterizzate da una quasi totale assenza di morfologia, in esperanto questo non accade; infatti, è sempre possibile analizzare la struttura della parola in modo trasparente, tratto questo più vicino alle lingue agglutinanti. A livello intermedio, l’esperanto ha aspetti in comune con le lingue slave, dunque flessive. A livello superficiale, la maggior parte delle radici provengono da lingue neolatine o germaniche, mentre il sistema fonetico è particolarmente affine a quello italiano, con l’aggiunta di qualche tratto proprio delle lingue dell’Europa orientale. La ragione di tale eterogeneità, che giustifica l’impressione di artificialità che alcuni provano al primo contatto con questa lingua, secondo Piron risiede nel fatto che, a fronte delle critiche ricevute, soprattutto negli ambienti intellettuali dell’Europa occidentale, Zamenhof si sentì forzato a mitigare le sue posizioni e ad accogliere principi più affini alle strutture linguistiche dell’Europa occidentale, cosa che spiega i punti in cui il sistema risulta meno coerente. All’interno dell’esperanto, dunque, si possono distinguere tensioni diverse, potenzialità più o meno realizzate, volontà di conservarsi fedeli alla norma o di esplorare dimensioni nuove e dinamiche contrastanti che vengono arricchite dal sostrato linguistico dei parlanti, che portano nella loro particolare varietà di esperanto le caratteristiche assorbite dalla loro L1. L’insieme di questo quadro, pur comportando aree di criticità, è prova della vitalità della lingua. Anche Wells parla di eterogeneità della lingua (1989, p. 29): ad esempio, -j- e –n-, così come -is-, -as- e -os-, sono morfemi flessivi, segno che l’esperanto è una lingua di tipo misto. Tuttavia si tratta di un fenomeno quantitativamente limitato rispetto alla ricca morfologia di lingue come il greco e il russo. L’esperanto inoltre occuperebbe una posizione intermedia fra lingue analitiche, come l’inglese, e quelle sintetiche, come il latino. Si tratta di due parametri distinti: per 'sintesi' (sintezeco) si intende il grado in 43 cui i morfemi si uniscono nella stessa parola, per 'flessività' (fandeco) il grado in cui i morfemi si uniscono nello stesso morfo. In effetti, la distinzione fra lingue agglutinanti, flessive e isolanti ha punti deboli e non è sempre efficace nel rendere conto dei fenomeni linguistici, anche per la parziale sovrapposizione e confusione fra questi due fattori. A questo proposito, affrontando la questione con un approccio puramente numericostatistico, secondo il modello di Greenberg, Wells (1989, p. 33-34) cita due indicatori: l’indice di agglutinazione e l’indice di sintesi. Il primo, l’indico de aglutineco, è il rapporto tra costrutti agglutinati (A), cioè morfi o morfemi invariabili o con variazione automatica nella parola, e giunture di morfo (J), cioè le barre usate per separare i morfemi all’interno di una parola, in 100 parole (= 0,50 ≤ x < 1). Ad esempio, homon è scomponibile in tre morfemi e quindi due giunti; l’indice di agglutinazione di questa parola è 2/2, cioè 1,00. In questa scala, l’esperanto risulta estremamente agglutinante, visto che sfiora il valore 1,0030. L’indico de sintezeco, invece, riguarda il rapporto fra numero dei morfemi (M) e numero delle parole in un testo (V = 100), e dà all’esperanto un valore compreso tra 1,80 e 2,05, che lo classifica come 'moderatamente sintetico' (Wells, 1989, p. 35)31 L’esperanto, dunque, può essere considerato come lingua agglutinante, che contiene, tuttavia, anche elementi propri delle lingue isolanti, parole composte da un solo morfema non ulteriormente analizzabile (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni, numerali e avverbi primitivi). Un segno di flessività, invece, è dato dai karesaj sufiksoj (suffissi ipocoristici) -ĉj- e -nj- che mutano la radice cui si attaccano, troncandola: patro (padre) diventa paĉjo (papà), mentre patrino (madre) diventa panjo (mamma). In tutti gli altri casi, la morfologia di una parola è sempre trasparente. In conclusione, la pluralità di vedute consente di classificare l’esperanto come lingua prevalentemente agglutinante, ma è opportuno ricordare che non si tratta di una categorizzazione assoluta: una lingua può appartenere a un tipo, ma mostrare le 30 Per un confronto: lo swahili presenta il valore medio 0,67, l’inglese 0,30, sanscrito 0,09, persiano 0,34 (Wells, 1989, p. 34). 31 Per un confronto: lo swahili ha una media di 2,55, l’inglese di 1,68, mentre l’eschimese, lingua notoriamente polisintetica, di 3,72 (Wells, 1989, p. 35). 44 caratteristiche di un altro in determinati settori. In definitiva, si tratta di una classificazione con una componente di arbitrarietà difficilmente eliminabile. 45 5. La capacità espressiva in esperanto Zamenhof ha creato un progetto, la comunità esperantista ne ha fatto una lingua vivente attraverso l’uso nelle diverse scienze e come lingua letteraria artistica. Nel 1924, molti scienziati, tra cui 42 membri dell’Accademia scientifica francese, hanno richiamato l’attenzione sull’idoneità dell’esperanto come mezzo di comunicazione scientifica e come lingua ufficiale nei congressi e nelle pubblicazioni ad indirizzo scientifico. Già prima del 1914 esistevano 15 pubblicazioni specialistiche e l’Enciklopedio Vortareto Esperanta (Lessico enciclopedico di esperanto) di Ch. Vérax riuniva più di 12.000 parole di tutte le scienze32 (Janton, 1996, cap. 4.2). Parallelamente all’interesse scientifico si è sviluppato quello letterario. Già Zamenhof, nel primo opuscolo di esperanto pubblicato nel 1887, aveva inserito tre poesie e nel Fundamenta Krestomatio (Antologia fondamentale) aveva dedicato una sezione alla poesia, mostrando particolare attenzione all’aspetto estetico33 e al valore emozionale della lingua. La duttilità della lingua, la svariata possibilità di comporre i morfemi e la flessibilità sintattica hanno fatto sì che l’esperanto si sia evoluto da lingua utilitaria a lingua artistica: i nomi composti, la variabilità di posizione dell’aggettivo, la possibilità di invertire il soggetto, l’uso di preposizioni immediatamente successive, concorrono a creare un ritmo, a far risaltare rime, a intessere compattezza e suggestività. Tale estensione di plasticità ha un notevole vantaggio, ossia quello di far sentire fedelmente gli effetti originali delle lingue nazionali per cui spesso la traduzione in esperanto supera persino le tradizioni più accurate34. A tal proposito, Janton (1996, 32 Oggi sono disponibili 160 vocabolari in 50 specialità comprendenti cibernetica, matematica, informatica, diritto, medicina, teologia, chimica, meteorologia, gastronomia, ecc. (Janton, 1996, cap. 4.2). 33 La notevole flessibilità e la varietà delle composizioni rende possibile una rilevante economia di parole: iri (andare) > supreniri (salire) > malsupreniri (scendere), ma al vantaggio pratico non corrisponde un effetto letterario, per cui sono stati formati elenchi paralleli di sinonimi mediante i quali esprimere le sfumature preferite e raggiungere gli effetti voluti, ammettendo forme naturalistiche come ascendi (salire), descendi (scendere), olda (vecchio) (Janton, 1996, cap. 4.2.1). 34 Lo stesso Zamenhof si dedicò a un’intesa attività traduttiva: Amleto di Shakespeare (1894), Ifigenia in Tauride di Goethe (1908), I Masnadieri di Schiller (1908), Giorgio Dandin di Molière (1908), ecc.. 46 cap. 4.2.2) riporta due esempi di traduzione di alcune terzine dantesche tratte dalla Divina Commedia (Inferno, canto V, vv.127-142): “Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea; sì che di pietade io venni men così com'io morisse. E caddi come corpo morto cade.” Traduzione di Giovanni Peterlongo Traduzione di Kálmán Kalocsay Iam pri Lanceloto ni por distro Ni, solaj, iun tagon legis pri la legadis kiel lin amor’ ekkaptis; kreskanta am’ de Lancelot. Suspektis salaj ni esti, tute sen suspekto. nenion ni en la duop’ trankvila. Ofte ŝovetis ja okulojn niajn Rigardon ni multfoje interplektis tiu legado, kaj paligis fruntojn; dum lego, kun vizaĝo paligita, sed jen, la sola punkto nin venkinta. sed jen la punkto, kiu nin infektis: Kiam ni legis, ke l’dezira rido kiam ni legis pri l’ridet’ ekscita 47 esti kisata de amanto tia, de l’ kisderiz’, pri ĝia dolĉa vibro, li, kiu jam de mi ne plu disiĝos, li, por eterne jam al mi ligita, buŝon kisis al mi tute tremanta. buŝkisis min kum trem’ en ĉiu fibro. Galeot’ estis libro kaj verkinto: Galeotto iĝis libro kaj aǔtoro, dum tiu tago ni plu ne legadis. ĉi-tage ni ne legis plu de l’ libro. Dum unu el spiritoj tion diris, Dum ŝi parolis, la kunul’ kun ploro la dua ploris; tial, pro kompato, lamentis tiel, ke mi tute palis, tiel mi svenis, kiel se mi mortus, kaj sentis kvazaǔ morton ĉirkau l’ koro, kaj falis kiel korpo morta falas. kaj kvazaǔ morta korp’ mi terenfalis. Nella sua traduzione, Giovanni Peterlongo riproduce, con accurata rispondenza all’originale, immagini e sfumature di ogni verso, con qualche licenza soltanto di natura prosodica. Kálmán Kalocsay, autore della seconda traduzione, raggiunge, invece, una perfetta riproduzione della forma prosodica dantesca con l’uso di endecasillabi a terza rima, concedendosi una certa libertà sul piano dell’espressione. 48 Conclusioni Il primo interesse per l’esperanto si è manifestato a seguito di alcuni colloqui con un mio docente di filosofia ai tempi del liceo. Poiché, allora, di questa lingua conoscevo ben poco ho maturato la decisione di iscrivermi ad un sito che consentiva di scaricare un programma con un corso di grammatica di base ed affidava un tutor con il compito di seguire il percorso di apprendimento. Questo primo approccio mi ha dato non solo la possibilità di sperimentare la versatilità e la creatività della lingua, ma ha anche incrementato a tal punto il mio interesse da spingermi ad aderire alla FEI (Federazione Esperantista Italiana). Il contatto decisivo si è verificato in occasione del 79° Congresso di Esperanto, tenutosi a Mazara del Vallo dal 18 al 25 agosto del 2012. La città, che ha visto la presenza di circa 500 partecipanti provenienti da tutto il mondo, è stata, per una settimana, il cuore pulsante dell’esperanto accogliendo in sé il meglio della cultura esperantista e offrendo ai partoprenantoj (partecipanti) la possibilità di sperimentare sul campo la lingua mediante la realizzazione di seminari, corsi di lingua per principianti e di livello avanzato, spettacoli musicali e rappresentazioni teatrali, visite guidate e situazioni comunicative reali. Tutto questo, unito alla mia passione per la linguistica, mi ha portato alla stesura di questa tesi di laurea, il cui obiettivo è stato duplice: in primo luogo, fornire un piccolo contributo alla discussione sull’esperanto e sull’esperantismo, nei limiti consentiti da questa tipologia testuale, e, in secondo luogo, fornire una descrizione della lingua utilizzando le categorie della linguistica teorica. Certamente, un percorso ulteriore condurrebbe alla scoperta e alla conoscenza di aspetti anche molto specifici del mondo esperantista, tuttavia, il mio attuale lavoro vuole essere un tassello di un mosaico molto più ampio e articolato, sulla scia dell’appello lanciato, decenni or sono, da Bruno Migliorini: “A quelli che credono ancora l’esperanto un’utopia, noi domandiamo soltanto di guardarlo un po’ davvicino” (citato in Vitali, 1998, p. 15). 49 Appendice Tabella dei correlativi ki- -u -o -a -es -al -am -e -el -om individuo cosa qualità possesso causa tempo luogo modo quantità Kiu kio kia kies kial kiam kie kiel kiom cosa? di che di chi (?) perché(?) quando (?) dove (?) come (?) quanto (?) interrogativi e chi(?), che relativi (rel.) tipo(?) i- iu io ia ies ial iam ie iel iom indefiniti qualcuno qualcosa di qualche di qualcuno per qualche una in qualche in qualche un po’ luogo modo tipo motivo volta ti- tiu tio tia ties tial tiam tie tiel tiom dimostrativi quello ciò tale di quello perciò allora là così tanto ĉi ĉiu ĉio ĉia ĉies ĉial ĉiam ĉie ĉiel ĉiom universali ognuno tutto di ogni tipo di ognuno per ogni sempre ovunque in ogni del tutto motivo modo neni- neniu nenio nenia nenies nenial neniam nenie neniel neniom negativi nessuno niente di nessun di nessuno per nessun mai in nessun in nessun per niente luogo modo tipo motivo 50 Derivativi Parte degli affissi furono proposti da Zamenhof, gli altri furono decisi dall’Accademia d’esperanto in occasione del Congresso Universale a Dresda del 1908 (Janton, 1996, cap 3.3.2.4): a. Prefissi: bo- parentela acquisita con matrimonio (patro / bopatro) dis- separazione, dispersione (iri / disiri) ek- inizio di azione o di condizione (ekrii / ekkrii) eks- fine di azione o di condizione (propra / eksproprii) fi- disprezzo per qualità morali (ago / fiago) ge- unione concettuale di sessi diversi (patro / gepatroj) mal- contrario, opposto (bela / malbela) mis- errore, inesattezza (aĝo / misaĝo) pra- relazione lontana di tempo o parentela (avo / praavo) re- ripetizione di azione (gardi / regardi) retro- inversione di direzione (gardi / retrogardi) semi- riduzione di metà (dio / semidio) b. Suffissi - infissi: -aĉ- disprezzo per qualità materiali (knabo / knabaĉo) -ad- azione ripetuta con frequenza (turni / turnadi) -aĵ- cosa concreta, sensibile (trinki / trinkaĵo) -an- membro, abitante, seguace (klubo / klubano) -ar- insieme di elementi della stessa specie (vorto / vortaro) -ebl- possibilità (trinki / trinkebla) -ec- idea astratta (bela / beleca) -eg- ingrandimento, rafforzamento (oltre il superlativo) (bela / belega) -ej- luogo dell’azione (abato / abatejo) -em- tendenza, abitudine (paroli / parolema) 51 -end- obbligatorietà, dovere (legi / legenda) -er- parte di tutto omogeneo (pluvo / pluvero) -estr- persona che dirige (urbo / urbestro) -et- diminuzione, riduzione, indebolimento (knabo / knabeto) -id- discendenza, derivazione (hundo / hundido) -ig- far diventare (turni / turnigi) -iĝ- diventare (turni / turniĝi) -il- strumento, mezzo (komputi/ komputilo) -in- genere femminile (viro / virino) -ind- meritevole (admir/ admirinda) -ing- contenitore parziale della cosa (cigaro / cigaringo) -ism- dottrina, sistema, maniera (Islamo / islamismo) -ist- esercente abituale di un’attività (labori / laboristo) -iv- capacità, idoneità (akto / aktiva) -iz- applicazione di sostanza o metodo (pasteuro/pasteurizi) -obl- moltiplicativo (du / duobla) -on- frazionario (du / duona) -op- collettivo di gruppo (du / duopa) -uj- contenitore totale della cosa, albero da frutto (piro / pirujo) -ul- persona che ha la qualità relativa (klera / klerulo) -um- relazione generica (aceti / acetumi). Esistono, inoltre, due affissi affettivi (ĉj- per il maschile e -nj- per il femminile), che si inseriscono dopo il lessema non senza casi di sincope (patro/paĉjo; filo/filĉjo; patrino/panjo). 52 Bibliografia AA. VV. (1993). Studoj pri Esperanto. Pechino: Ĉina Esperanto-Eldonejo. Bausani, A. (1974). Le lingue inventate - Linguaggi artificiali, linguaggi segreti, linguaggi universali. Roma: Trauben (su licenza Ubaldini). Broccatelli, U. (1995). Nuovo Corso di Esperanto per allievi e autodidatti. Milano: COEDES. Cherpillod, A. (1988). La aglutinaj lingvoj kaj Esperanto. Courgenard: André Cherpillod . Delormel, J. (1795). Projet d'une langue universelle presentée a la Convention nationale. Paris: Chez l'auteur. Descartes, R. (2005). Tutte le lettere 1619-1650. (G. Belgioioso, A cura di) Milano: Bompiani. Eco, U. (1993). La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea. Roma-Bari: Laterza. Gobbo, F. (1998). Il dilemma dell'esperanto – Tra vocazione ausiliaria e naturalizzazione. 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