Maurizio Calvesi Il sogno di Polifilo prenestino Appendice In questa appendice il lettore trova ripubblicato un mio testo del 1965, che avanzava per la prima volta l'identificazione di Francesco Colonna con il signore di Preneste e orientava l'interpretazione dei contenuti intorno al culto della Fortuna Primigenia come mito della Natura e all'ermetismo. Segue un testo di Salvatore Battaglia (1971) che muovendo da tale attribuzione e interpretazione, tracciava da maestro una sintesi dei contenuti del romanzo, lucidamente partecipe, felicemente evocativa, certo in gran parte valida. Quando lessi questo scritto, provai un vivo desiderio di conoscere Salvatore Battaglia; ma egli era mancato poco prima che il suo volume apparisse. M. Calvesi: L'autore del Polifilo * « La maggiore opera fantastica, il solo poema del secolo decimoquinto; il più bel libro illustrato del Rinascimento »; in questi termini, non ingiusti, Domenico Gnoli ricordava la Hypnerotomachia Poliphili, la misteriosa « pugna d'amore in sogno» intorno alla. cui paternità si disputa fittamente da più di due secoli. La splendida veste editoriale, dovuta ai tipi di Aldo Manuzio, in Venezia nel 1499, la suggestione delle ricche illustrazioni unita all'arcano dei significati, l'originalità e oscurità del testo (un personalissimo e musicale volgare saturo di latino). possono, come l'enigma stesso dell'autore, aver giovato alla pubblicità del libro, creandogli attorno un alone di fascino. Ma poi, al grande spiegamento di interesse, non ha corrisposto il giusto apprezzamento, né l'esatta collocazione e illuminazione culturale. Apostolo Zeno, nel 1723, dirottò sul nascere le ricerche, pubblicando una annotazione che, in antico, sarebbe stata apposta da ignota mano su un esemplare del libro; esemplare che mai nessuno ha più trovato, ma che allora si sarebbe conservato nel convento veneziano dei domenicani osservanti delleZatte- re. L'annotazione, che in originale non vide neanche lo Zeno, cui l'avrebbe comunicata il maestro B.M. de Rubeis, è datata 20 giugno 1512 e rivela essere Francesco Colonna Veneto, religioso vivente nel convento di San Giovanni e Paolo, l'autore del libro. La stessa nota spiega come ciò risulti dalle iniziali dei capitoli, che a metterle in fila l'una dopo l'altra danno questa frase: «Poliam Frater Franciscus Columna Peramavit ». libro stampato a Venezia, quando mezza Italia stampava a Venezia, è necessariamente un veneziano? « Fratres» si chiamavano anche i membri della illustre _e misteriosa ,« Accademia Romana », raccoltisi nella seconda metà del Quattrocento intorno a Pornponio Leto. Questi mistici dell'antichità e dell'archeologia erano, tra l'altro, in assiduo rapporto con Venezia. Del resto Manuzio era romano, si trovava a Venezia solo dal '94 ~, prima, era vissuto molti anni a Roma, dove la sua educazione si era fatta. Prima della Hypnerotomachia non aveva stampato che classici. Perché non ricercare .allora, come tanto più logico, il nostro Francesco tra i Colonna-Colonna, cioè tra i Colonna di Roma? Chi poi, se non un signore, avrebbe potuto assumersi l'ingentissima spesa di una simile edizione? Si è sempre detto (e il Pozzi lo ha ben analizzato nel corso del suo utilissimo lavoro di ricerca delle fonti letterarie del Polifilo) che la cultura architettonica del nostro autore si fonda su Vitruvio e sull' Alberti. Ma non è in casa Colonna, a Roma, che avrà sede la cosiddetta « accademia vitruviana»? Ed è per incarico di un Colonna, Prospero, che l'Alberti estrasse la nave sommersa nel lago di Nemi e scrisse il suo opuscolo Navis. Tra i Colonna c'è in effetti un Francesco, in quegli anni: è il signore di Palestrina (l'antica Preneste); ed è colui che nel 1498, come ricorda una lapide sul luogo, fece edificare una costruzione emiciclica (poi modificata dai Barberini) sui resti archeologici del tempio superiore del grande santuario prenestino della Fortuna Primigenia, intenden-' do con ciò restaurare quod vastarunt [errum, fiamma, vetustas. Questo edifieìcio, che ne ripristinava uno antico e lo faceva rivivere, metteva in pratica appunto la concezione albertiana del restauro monumentale. Senno del poi, giacché neanche chi scrive ha seguìto la via più logica e diretta, ma è passato, quasi fortuitamente, attraverso lo spiraglio aperto da un precedente studio. Questo riguardava la Tempesta di Giorgione, vista come ritrovamento di Mosè, secondo la versione ermetica cara ai dotti del Rinascimento. Mi era sembrato anzi che se un punto di contatto sussiste tra la Tempesta 'e il Sogno di Polifilo (opera che Giorgione, come già appurato, ben conosceva), questo risiede nella concezione ermetica « che doveva identificare la continuità di un'idea religiosa, panica e naturalistica, con l'originaria armonia e ferti- Dell'identificazione del «frater Franciscus Columna », indicato effettivamente dalle iniziali dei capitoli, con il frate di cui parla la fantomatica annotazione, non hanno dubitato neanche gli studiosi più acuti, che pure hanno avvertito quanto la storiella di Apostolo Zeno puzzasse di falso. Giacché, di fatto, un frate Francesco Colonna è ricordato abbondantemente nei registri del convento dei SS. _Giovanni e Paolo. Anzi, a furia di affaticanti indagini d'archivio, si è arrivati ad inzeppare di documenti e notizie un intero volume e 'a tessere, anno per anno, il profilo della lunghissima vita di questo frate; una povera vita, consumata tra i conventi di Venezia e Treviso (Casella-Pozzi, Francesco Colonna, 1959). Gli autori dello studio, per sostenere a spada tratta & difficile tesi che un romanzo di così eccitata e prorompente cultura antiquaria, dai tratti così sovente sacrileghi, sia dovuto alla penna del mediocre frate Colonna, furono tra l'altro costretti (visto che nella biografia non c'è posto per quel viaggio a Roma su cui tutti più o meno avevano giurato) a spiegare una simile erudizione e passione ora con la pura lettura dei classici, ora con la visione dei quadri del Mantegna e delle architetture classicheggianti del Rinascimento veneto. Altri invece (e il più recente e drastico intervento in questo senso è dovuto a Lamberto Donati, in La Bibliofilia, 1962, pp. 247 sg.) si è rifiutato di credere che il frate veneto fosse l'autore; ma, stante che dall'acrosti~o dei capitoli risulta chiaramente che colui che amò Polia (eroina del romanzo) fu « frater Franciscus Columna », il rifiuto non poté spingersi più in là: questo frate Francesco doveva essere almeno il protagonista del libro, cioè Polifilo. Onde, tra l'altro, il colore boccaccesco che la vicenda, eroticamente saporita, prese e sempre mantenne. Eppure, non ci fosse stata l'annotazione del 1512 (autentica o apocrifa che sia) a metter sulla falsa pista, la soluzione dell'enigma sarebbe stata, in fondo, ben semplice. « Frater » sta necessariamente a indicare un frate conventuale? L'autore di un ) 304 Appendice lità della natura, con la pienezza e soavità stessa della vita dei sensi ». Con ciò, inavvertitamente, si sfiorava proprio il mito della «Fortuna primigenia» e soprattutto la teoria epicurea della voluptas, così centrale nel pensiero degli «accademici» romani, e così largamente svolta (come ora mi avvedo) nel Sogno di Polifilo. Un recente studio di C. G. Dempsey su Poussin and Egypt, pubblicato appena dopo il mio studio su Giorgione metteva in evidenza, sulla testimonianza delle parole stesse di Poussin, come questi, per ambientare propriamente lo sfondo paesistico di una sua Sacra Famiglia in Egitto, avesse estratto alcuni dettagli dal mosaico romano di Palestrina, raffigurante la piena del Nilo: uno dei particolari consiste in una torre, sulla sommità della quale sta appollaiato un ibis. Ora, un particolare assai simile è visibile sullo sfondo della Tempesta, dove figurano anche, come nel mosaico prenestino, due torri accoppiate, nonché un'altra torre recante impresso sul prospetto, in alto, un animale araldico: aquila a Palestrina, chimera nella Tempesta. Giorgione allora conosceva il mosaico prenestino? Ma come, se Giorgione non si muoveva da Venezia? O si trattava di una pura combinazione, o doveva esserci un tramite. E questo ipotetico tramite non poteva essere che l'erudito antiquario autore della Hypnerotomachia. Per questo le mie ricerche si spostarono sulle eventuali relazioni tra il Polifiloe le antichità di Palestrina. Queste relazioni sono risultate copiosissime e precise e, in più, è emersa la singolare «omonimia» di Polifilo con il signore di Palestrina. Ma questi, in realtà, è Polifilo, il protagonista (e direi certamente anche l'autore) della Hypnerotomachia. Si era detto, ad esempio, che la descrizione iniziale del Tempio è tratta da quella pliniana del Mausoleo di Alicarnasso: che il Colonna, per qualche dettaglio, avrà pure tenuto presente. Ma perché poi (a parte i punti che non tornano) l'autore avrebbe precisato che il tempio da lui visto faceva impallidire il celebre Mausoleo? I monti, inoltre, con i quali il Tempio descritto dal Colonna fa corpo, mancano affatto nel passo di Plinio; si sarebbe allora trattato, secondo il Pozzi, di un incrocio tra il Mausoleo di Alicarnasso e quello di Augusto, illustrato da Biondo Flavio come «immensa moles firmiter praecincta montibus ». In realtà, il grande tempio che Poli- Appendice 305 filo avvista di lontano e che descrive non già come circondato dai monti, ma come incorporato alla montagna, è appunto il Tempio prenestino della Fortuna Primigenia, che, costruito su uno 'sperone, strapiomba a perpendicolo dalla terr:azza superiore alla cosiddetta «area sacra », che fa da base al complesso: «lo allamento de' quali monti - precisa il Colonna - aequato era perpendicularmente dalla cima giù fino all'area ». Il Tempio del Polifilo ha la forma di una piramide eretta su un plinto quadrangolare che porta un grande obelisco: corrisponde cioè, nonostante i particolari di fantasia (che sembrano inquadrarsi quasi in una immaginaria e generosa « restituzione») alla base del Tempio superiore quale oggi è visibile a Palestrina; manca l'obelisco, ma la grande piramide eretta su un plinto c'è; ci sono la ripida scalea laterale e la paurosa apertura al centro della piramide, ricordate da Colonna. La statua poi, che Polifilo vede sulla punta dell'obelisco, è chiaramente una personificazione della Fortuna; infatti ha in mano una cornucopia (attributo tipico), ha metà del cranio calvo (secondo Andrea Fulvio, autore delle Antichità Romane la Fortuna « è detta calva»), ha la veste mossa dal vento (come il troncone mutilo della statua della Fortuna ancora visibile nel museo di Palestrina), ed è montata 'su un perno, perché possa girare ad ogni soffio di quel vento: «Questa statua - scrive il Colonna - ad qualunque aura flante, facile gyravasi. Cum tale fremito dil trito dilla vacua machina metallina, che tale nunqua dal romano aerario se udite ». Il tintinnio della statua girante sul perno era, dunque, più sonoro che quello di tutti i quattrini dell'erario romano. L'allusione appare tanto più appropriata e pertinente se si pensa che, come testimoniano le iscrizioni, sotto il tempio della Fortuna, in Preneste, era conservato appunto il floridissimo erario pubblico. Le rispondenze tra le antichità descritte nella Hypnerotomachia e il grande complesso prenestino sono molte, e a dame il dettaglio si andr~bbe per le lunghe. Non bisogna credere, certo, che esse esauriscano il ·repertorio antiquario del romanzo; le relazioni già rilevate da precedenti studiosi con altri monumenti romani (poche, ma stringenti, e inutilmente negate o tortuosamente spiegate dal Pozzi) restano valide. E tra queste, particolarmente illuminante appare ora il riferimento (individuato da Ch. Huelsen) al gruppo delle Tre Grazie oggi a Siena, I 306 Appendice che allora si conservava a Roma nel palazzo Colonna. Ugualmente da confermare in massima parte, molte anzi ancora da indicare, le rispondenze già osservate con monumenti illustrati dalle fonti classiche; è da aggiungere, ad esempio, che la descrizione del tempio dedicato a Plutone con i suoi sotterranei e le sue epigrafi è ripresa fedelmente da Festo (anche l'antiquario e poeta Andrea Fulvio, cioè il già ricordato autore delle Antichità Romane, che tra l'altro era nativo di Palestrina e in contatto con la famiglia Colonna, riprende questa descrizione da Festa). Ma per tornare a Preneste e ai suoi ricorsi nella Hypnerotomachia, basterà accennare ad alcune lampanti coincidenze. Intanto Preneste è ricordata dal Colonna per tre volte (almeno per tre volte, giacché non posso dire di aver ancora esplorato ogni rigo del lunghissimo romanzo). Una volta per le sue nocciuòle, accanto a Taranto ed Avellino, un'altra per le sue rose, e un'altra infine per « il lithostrato nel delubro dilla fortuna », cioè proprio per il famoso mosaico cui prima si accennava, dal quale per altro il Colonna, e l'anonimo illustratore, hanno at tinto precisi dettagli: ad esempio quello del « Canapa », ovvero del pergolato sotto al quale si vedono suonatrici di lira e giovani in letizia, raffigurato allo stesso modo tanto nel mosaico prenestina che nel romanzo, dove ritroviamo anche le due panche che corrono lungo i lati, di sagoma e disegno assolutamente rispondenti. Altrove, poi, il Colonna ricorda Tuscolo, e Ariccia con il Tempio di Diana. Altre località laziali che nel romanzo sono nominate (sempre per via di confronto con le visioni che appaiono a Polifilo) sono Cerveteri e Anxur, cioè Terracina. A questo proposito, è necessario ricordare la particolare posizione del Tempio prenestina della Fortuna Primigenia, che guarda verso sud, verso quel tratto di spiaggia compreso tra Anzio e Torre Astura, cui è congiunto da una spaziosa e ininterrotta pianura che si incanala tra dolci colline. Ora, a parte che l'esposizione del Tempio descritto da Poli filo è la medesima (esso ha infatti tre facce: orientale, meridionale e occidentale, e prende sempre il sole; è taciuto i1lato settentrionale che infatti, nel santuario prenestina, corrisponde alla montagna nella quale il tempio si, incastra), l'itinerario che Polifilo percorre in sogno per raggiungere il Tempio s'apre proprio con l'immagine di una spiaggia; 'subito dopo, Poli filo si trova sperduto in una folta foresta di querce (<< corticosi subderi, duri cerri, forti ro~ Appendice 307 buri, et glandulose querce et ilice et di rami abondante »: eroe sempre querce), in preda a una specie di attacco di febbre malarica (calore cocente, a intermittenza, petto in fiamme, sete ardente), ed esposto agli «incanti della malefica Cyrce ». Ora, subito a nord di Torre Astura, c'è appunto, ancor oggi, una grande foresta di querce che doveva certo comunicare, un tempo, con i boschi del Circeo; la grotta di Circe, comunque, è vicina; e la zona, come ben noto, era malarica. Il Colonna si rammenta bene del libro settimo dell'Eneide, degli « inaccessibili boschi» nei quali la voce melodiosa della maga risuona, con il grido ferino degli uomini trasformati da Circe in leoni, cinghiali e lupi. Infatti Polifilo ode nel bosco un canto soave e paventa di essere azzannato appunto da queste stesse fiere. Anche lo stile sembra ricordarsi di Virgilio: «Di novo sotto di questa umbra quercunea, cum patula opacitate degli rami lasciva, i fui di eminente sommo oppresso et sparso per gli membri il dolce sopore, iterum mi parve de dormire ». Polifilo dunque si addormenta nella foresta. Al risveglio si trova su un'amena collina, che potrebbe essere quella di Velletri, dove infatti vede, tra l'altro, olivi e palme (siamo in una delle poche zone d'Italia dove cresce la palma 'Spontanea); dai finachi dell'Ar.emisio, il colle appunto di Velletri, Palestrina è ormai visibile, e di qui in effetti Polifilo avvista di lontano, per la prima volta, il grande Tempio già ricordato, fuso ai monti che dietro di esso 'Si innalzano (« Verso questo aedificamento mirava gli gratiosi monticuli della con valle sempre più levarse: gli quali cum el praelibato aedificio coniuncti vedeva»). Il richiamo alla selva dantesca e al susseguente colle, non è dunque un ricalco di maniera (alcuni storici della letteratura italiana liquidano la Hypnerotomacbia, di cui evidentemente conoscono solo l'attacco, come una imitazione della Divina Commedia!), ma è un modo di rievocare, con precisi richiami, semmai, a Virgilio, luoghi invece reali, e cari (certo anche all'editore Manuzio, che era nativo di Velletri). Ma volevamo procedere per cenni; ricorderemo allora soltanto il ciborio a forma di tempietto rotondo sotto al quale, nel romanzo, si apre un vano cupo e umido. Nel santuario di Palestrina esiste un tempi etto rotondo in tutto simile, delle dimensioni appunto di un ciborio, sotto cui si apriva un pozzo. Oppure ricorderemo la cisterna veduta da Polifilo, contrassegnata da una terribile testa di Medusa, che richiama in modo preciso 308 Appendice una cisterna quattrocentesca visibile a Palestrina ( e pertinente all'edificio costruito da Francesco Colonna), sulle cui facce appunto si alterna, allo stemma dei Colonna, una testa di Medusa. Tanto più che la cisterna descritta nel romanzo si trova al centro di un edificio circolare con scale, colonnati e lanterna a forma di tempietto, che specie se guardato nella figura che correda la descrizione, ricorda fortemente il tempio emiciclico superiore del santuario prenestino, quale risulta dalle restituzioni grafiche dell'archeologia moderna: proprio quell'emiciclo, cioè che Francesco Colonna « restaurò» trasformandolo in sua residenza e davanti al quale collocò la cisterna. Un ultimo particolare: l'iscrizione leggibile ancora sull'edificio ricorda, come s'é detto, che il restauro fu « eura Francisci Columnigeri ». Ma chi poteva, dal cognome Colonna, creare questa ricercata variante, se non l'autore della Hypnetoromacbia, che ha coniato, con la stesso suffisso, tanti altri aggettivi? Come claoigero, frugigero, [umigero, nubigero, odorigero, pomigero, soporigero, granigero, tridentigero. In parte si tratta, come ha osservato il Pozzi, di vocaboli ripresi da Ovidio, in parte di innovazioni lessicali proprie del Colonna, « che non appartennero mai alla realtà storica del latino o del volgare ». Teniamo dunque per certo che Polifilo deve identificarsi con il signore di Palestrina, e per pacifico che la Hypnerotomaehia non è in nessun modo un testo veneziano (già il Donati aveva sottolineato il fatto che manca, nel romanzo, qualsiasi tratto del dialetto veneziano), ma romano. La famiglia Colonna potrà allineare, a quello di Vittoria, un altro alloro. Rimangono però molti quesiti e problemi, considerati gli scarsissimi dati biografici relativi a Francesco Colonna. Ad esempio, chi poté essere Polia? Se di persona fisica si tratta (e non di una figura allegorica, ma le due cose non si escludono necessariamente) è molto probabile che sia la moglie di Francesco, cioè forse quella Clarina Colonna ricordata come signora di Pale'strina ~el 1495. In effetti più volte, nel romanzo, si allud~ alla condizione di nobile che è propria di Polia; ed è abbastanza significativo che all'esclamazione rivolta da Polifilo a Polia: «Tu sei quella solida eolumna et eolume ditla vita mia », faccia eco, più avanti, una quasi identica frase indirizzata da Polia a Polifil~: «Mia firmatissima columna et eolume ». Dove « eolumna» sembra una reciproca allusione al cognome che li unisce, e « eolume» (che significa ancora colonna, oppure ar- Appendice 309 chitrave, o culmine) corrisponde all'antico nome del paese originario della famiglia Colonna. Altrove poi, Polifilo allude a indissolubili catene che lo legano a Polia, che potrebbero essere appunto quelle matrimoniali. Qual è il significato del romanzo? Esso non è mai stato afferrato, ma si può ricavare. Qui non possiamo, per ragioni di spazio, che fissarne pochi punti. Abbiamo appurato che il Santuario prenestino è l'elemento archeologico centrale; anche il mito della Fortuna Primigenia viene ad assumere una posizio- tDR'\ùNt\ne centrale nel significato generale dell'opera. La Fortuna Pri- t'f\!t'\ l~J}>l1A. migenia è la genitrice degli Dei, la fonte di ogni ricchezza ed energia, e cioè la natura nel suo significato più originario e profondo. Il culto della Fortuna Primigenia è una esaltazione della natura nel miracolo della sua fertilità. Virgilio, del resto, ricorda la montana Preneste come una terra di contadini. Le ninfe che Polifilo incontra celebrano l'agricoltura con la festa dì Vertunno e Pomona. Le spighe, i frutti, il tirso, sono issati, tra gli stendardi, nei « trionfi» cui ancora Polifilo asiste. Qui l'iconografia delle menadi (quale anche ricorre nella maggioranza degli sporadici rilievi emersi dagli scavi di Preneste, in chiara relazione a culti locali) è ripresa inconfondibilmente: le menadi che, in compagnia dei satiri, corrono appunto sui crinali dei monti e che rappresentano il risvegliarsi, nell'eccitazione orgiastica, delle potenze attive della natura. Dai riti dionisiaci ai misteri eleusini, acme nevralgico e arcano del culto classico della natura, il passo è conseguente, e il riferimento mi sembra esplicito nell'iniziatica cerimonia nel Tempio di Venere cui Poli filo e Polia 'sono introdotti da sette vergini. Basterebbe a indicarlo l'appellativo di « Ierophantia» (attributo tipicamente eleusino) rivolto alla sacerdotessa e il termine di «mystagogia» usato per indicare la cerimonia stessa. Ha luogo anche il cerimoniale, caratteristico dei « misteri », dell'acqua versata dal vaso. Ma questo è uno dei punti dove più chiaramente può avvertirsi l'innesto della cultura ermetica, magico-alchimistica, del Colonna; l'acqua di mare è infatti, anche, uno dei tanti simboli della materia prima che ricorrono nelle fasi dell'« opus » alchimistico. La rivelazione eleusina (che si è sempre ignorato quale fosse e in che cosa consistesse) è per il Colonna, ben coerentemente alla sua visione di uomo rinascimentale, la rivelazionealchimistica. Non possono sussistere dubbi: le trasfor- 310 ALCkA Appendice mazioni che si compiono sull'ara, dall'elemento primo dell'acqua al bambino luminoso ed alato (Mercurio) che sortisce con il fumo e dalle sue ceneri al roseto e alle tortorelle, sono allusioni tr~ppo precise, confermate del resto dalla grande quantità di figure alchimistiche che è sparsa per tutto il romanzo (anche se darne la spiegazione sarebbe troppo lungo) e ne permea profondamente lo spirito: dall'apparizione del «sorice» e del drago all'ingresso del tempio, al ricorrere dei simboli contrari del sole e della luna e del simbolo unificante del « rotondo », all'allegoria del re giovane e del re vecchio, o del lupo, dell'aquila e del leone che divorano a fanciulla, o del serpente che si mangia la coda, fino a quei particolari che hanno contribuito a creare l'atmosfera « boccaccesca » del romanzo e che invece, spiegati, la disperdono di colpo. Così il putto che fa pipì sulla testa di Polifilo (il bambino che fa pipì è un altro simbolo mercuriale della materia prima), e così l'amplesso di Polifilo e Polia che corona la già ricordata cerimonia, e che è prima di tutto un simbolo fondamentale di coniunctio, cioè dell'unione del maschile e del femminile, come chiarisce il confronto subito portato dall'autore con i serpenti intrecciati del caduceo di Ermete, che rappresenta appunto la coniunctio. L'alchimia, come oggi si comincia a capire, era una forma (M.I di filosofia mi~t~ca che investiva il pro?lema stesso .della crea~ zione e dell'origine del mondo; della rispondenza micro-macrocosmica tra le parti dell'universo; dell'uomo, delle sue angosce e della sua salvezza nell'ambito di questa fondamentale illuminazione che, insieme a quella dell'astrologia, era centrale nel pensiero ermetico del Rinascimento. L'Alchimia, come Ermete, ha un lato maledetto, demuniaco-angoscioso, cui corrisponde in parte lo stato di nigredo, ed uno altamente spirituale e rasserenante. Lo equus infoelicitatis che Polifilo descrive all'ingresso del tempio come un cavallo alato con dei putti che vi giuocano senza riuscire a cavalcarlo, è un'allego.ria dell'Alchi~ mia nel momento iniziale di nigredo o melanosi (o ancora di « melencolia» come avrebbe detto Diìrer, la cui celebre incisione così intitolata è, nonostante che Panofsky non se ne sia accorto, una trasparentissima raffigurazione dell'opus alchimistico): .mentre il vicino elefante (nel cui ventre troviamo il simbolo alchimistico dell' occiput) rappresenta il momento della meditazione e della saggezza, necessario principio dell'opus. Infine, la forma stessa di « sogno» data al romanzo è (come già aveva A Appendice 311 incidentalmente notato Jung) un contrassegno che accomuna il Polifilo a trattati alchimistici come quello del Nazari e dell'Ostano o come la Visio Arislei. La spiegazione alchimistica (insieme all'identificazione dell'autore come laico) elude il presunto accento boccacce sco del romanzo, ma non ne annulla di certo, anzi ne inquadra, la significazione erotica. Se il Colonna attribuisce alla rievocazione antiquaria del culto della Fortuna primigenia, dei riti bacchici e dei misteri eleusini il contenuto più « moderno» del pensiero ermetico-alchimistico (del resto al concetto di Fortuna, colei che alla nascita determina il destino di ciascuno, è legato anche quel determinismo così vicino al sottinteso stoico della magia e dell'ermetismo astrologico e alchimistico), lo stesso Colonna poi sposa questo pensiero alla concezione epicurea della voluptas propria dell'ambiente «accademico» romano intorno al Leto. I tre passaggi, o innesti, non sono forzati, o puramente personali, ma profondamente coerenti e interdipendenti nell'ambito di un pensiero come quello rinascimentale che esattamente intendeva e riviveva l'antichità nei suoi valori panici di universale contemplazione della natura e di comunicazione con le sue miracolose energie riproduttive. Il tempio rotondo (rispondente a quello superiore del Santuario prenestino) in cui avviene la «iniziazione» di Polifilo e Polia è dedicato a Venere; e l' iconografia « primigenia » della Fortuna prenestina che allatta Giove è ripresa fedelmente dal Colonna (anche con il particolare, tramandato da Cicerone, delle fanciulle in adorazione del gruppo) per rappresentare Vene re che allatta Cupido. Giorgione la riprenderà a sua volta, in qualche modo, per rappresentare la « cingana » che allatta. Si precisano così le varie sfumature (e le varie prese di posizione nei confronti del problema religioso e delle religioni rivelate) di un pensiero « rinascente» che poggiava su basi profondamente unitarie e che voleva essere la continuazione e la reviviscenza di un pensiero antico ed eterno. L'epicureismo rinascimentale, in una delle sue tendenze, « viene individuando come osserva Garin - il valore cosmico della uoluptas, il suo significato divino; è il moto vitale intrinseco alla natura universale, è l'anima delle cose, lo spirito gioioso che porta a espandersi e ad affermarsi, Venere madre } e animatrice dell'essere ». Quale sia poi l'effettiva carica erotica ovvero sessuale impegnata in simili professioni di fede, Y. 312 Appendice è molto' difficile comprendere. Infatti negli epicurei, come scrive ancora Garin, la voluptas « identificata a volte esplicitamente con la vita vivente dell'essere, con l'anima mundi, col divino ~ amore universale, è presente come nuova divinità trionfante \ anche nelle pagine dei pensatori più casti e misurati ». on potrà concludersi questa sommaria esposizione della Hypnerotomachia, dei suoi contenuti come delle sue vicende, senza ricordare le drammatiche sorti della famosa Accademia romana, di cui certo il «frater» Colonna era parte. Agli accademici furono imputate due fondamentali colpe: quella, appunto, di seguire la voluptas Epicuri intesa come piacere carnale, e il rifiuto delle religioni positive come «imposture »: «dicevano che Moyses era stato un grande inganator de homini con sue leze, et Christo uno seductore de popoli ». Nel febbraio del 1468 esplode il famoso processo; gli accademici vengono accusati anche di aver congiurato contro la vita del Pontefice. Il Platina e il Leto, tra gli altri, vengono imprigionati e subiscono torture. La dura lezione varrà a riformare 'radicalmente il carattere dell' Accademia che pure risorgerà costituendosi di nuovo come una sorta di confraternita laica, ma ormai ufficializzata. Sono ignoti i testi degli «accademici» anteriori al fatidico anno 1468 e non si ha quindi nessun ragguaglio sugli arcani riti che gli accademici celebravano, nel loro acceso misticismo pagano; o meglio non si aveva, giacché la Hypnerotomachia, scritta da un accademico della vecchia guardia (il Colonna dovette nascere intorno al 1430) ci apre ora un orizzonte, anche sul pensiero stesso dell'imperscrutabile Pomponio Leto. Una frase del Leto come questa, ad esempio, «Cupido e Fortuna regnano dovunque », può intendersi più profondamente alla luce del Poliiilo. Potranno anche meglio spiegarsi gli appellativi, di cui egli si fregiava, di Fortunatus e di Sabinus [« Sabina» è ancora chiamata la Fortuna). Già il Pozzi aveva capito che il romanzo, edito nel 1499, non poté essere terminato, per varie ragioni, prima del 1490 circa, e che di conseguenza la data del primo maggio 1467 messa a chiusura del testo deve considerarsi «simbolica»; o, come preferirei dire, cornmernorativa, tenendo presente l'intestazione stessa dell'opera che «humana omnia non nisi somnium esse ostendit , atque obiter plurima scitu sane quam digna Appendice 313 commemorat ». Possiamo ora intuire a quali cose questa data alluda. Le calende di maggio sono una festa di antica tradizione, celebrativa del lavoro dei campi, e della natura nella sua fioritura di primavera; poté essere una data cara agli « accademici » che, sappiamo, tenevano in auge e celebravano ricorren-ze pagane, come le Palilia, che cadevano il 21 aprile, nel giorno del « Natale di Roma »; le Palilia erano feste in onore di Pales, dea dei pascoli, creduta madre degli Dei (qualcosa, ancora, di affine alla «Fortuna primigenia »). In relazione con i riti delle Palilia era il sacrificio di un cavallo, e nel corso della festa dell'agricoltura descritta dal Colonna viene appunto immolato un asinello. Se tra il 21 aprile e il primo maggio del 1467 gli « accademici» si riunirono (magari a Palestrina) per una celebrazione annuale, questa fu l'ultima primavera pagana che festeggiarono; nel febbraio del '68, infatti, la « eodalità » degli accademici fu brutalmente cancellata e non poté rinascere (ma in edizione censuratissima) che nel 1478. Non molte notizie abbiamo sui componenti dell'Accademia, che si appellavano per pseudonimo. I capi della presunta congiura del '68 furono, con il Platina, Callimaco Esperiente e un certo Glauco; sia Callimaco che Glauco come anche Lucio Esculapio, Scauro, Hircius, Astreo (altri :nembri dell'Accade~ mia) sono qua è la ricordati, sia pure come personaggi mitologici o storici e non, ovviamente, come « sodales », nel romanzo del Colonna. Un'altra allusione può essere quella della «toga» portata da Polifilo, che il Pozzi cerca di spiegare come veste sacerdotale, ma che invece si riferisce di certo al costume antico-~o~ano che vestivano alcuni «accademici ». Tipiche degli scntti degli accademici sono poi le dediche a Giove Ottimo ~assimo, che ricorrono nella Hypnerotomacbia, sotto forma di rebus. Infine, lo scabroso soggetto del romanzo e il fondato timore delle ire papali spiegano assai logicamente (insieme al gusto stesso della forma oscura, tipico dell'errnetismo) gli accorgimenti usati per mascherare, oltre che il significato stesso dell'?pera, il nome dell'autore. I sospetti poterono anche intenz10naimente esser dirottati sul modesto frate veneto omoni~o del nobile romano. Quanto agli spostamenti che l'attribuZione della Hypnerotomachia alla cultura romana provoca nella val~tazione di alcuni fatti storico-artistici connessi con il gusto anUquariale del Rinascimento, è tema di un discorso che va condotto a parte. Note dell' appendice (*) Apparso in «Europa Letteraria» n. 35 (3 deII'anno VI, giugno 1965 pp. 9-20 con il titolo redazionale Identificato l'autore del Polifilo. Questo scritto, redatto nel 1964, non poté giovarsi dell'edizione critica della Hypnerotomacbia di G. Pozzi e L. A. Ciapponi, che appariva in quello stesso anno; tuttavia poté tener conto del punto di vista del Pozzi attraverso la citata monografia del 1959. Molte delle argomentazioni svolte nel presente libro, sono qui anticipate sia pure sommariamente. In un paio di casi ho portato modifiche: per quanto riguarda la data presumibile di nascita di Francesco Colonna (che qui era ipotizzata intorno al 1430), e per l'aIIegoria del cavallo che, sebbene iscrivibile nella « nerezza» della prima fase dell'iniziazione sapienzale, non può considerarsi rappresentativa deIIa stessa « nerezza» alchimistica, bensì della « Sfortuna» primigenia. Per la lettura deIIa Tempesta di Giorgione che in seguito ho modificato, pur mantenendo l'orientamento ermetico e le connessioni con il Sogno di Polifilo, vedi i miei interventi su Giorgione del 1970 e del 1978, raccolti in un volume di saggi di prossima pubblicazione a Milano, Feltrinelli; vi sarà raccolto anche il saggio del 1969 su Melencolia I di Di.irer, che sviluppava la proposta d'interpretazione alchemica della celebre incisione, già avanzata in questo scritto. (*,,) Pubblicato in S. Battaglia, La letteratura italiana - Medioevo e Uma-: nesimo, Firenze, Sansoni 1971, pp. 428-436. Nel testo, va corretta una lieve imprecisione a proposito deII'ubicazione di alcune scritte riportate da Polifilo: « ineffabile », « inseparabile », « imperscrutabile» sono parole tracciate, in greco, sulle tre facce della guglia; « incomprensibile» sta scritto invece sulla base quadrangolare.