L’INDIPENDENTE ❖ domenica 27 novembre 2005
DI
A
LIBERALI al bivio
UN MERCATO
DA PROTEGGERE
S ERGIO S OAVE
fino a qualche
mese fa di avere una visione del mondo da turboliberlista, Giulio Tremonti riceve ora rimbrotti di segno diametralmente opposto. Lo si accomuna addirittura a Toni Negri, teorico della
ribellione delle “moltitudini”
contro il pensiero unico liberista, che sarebbe alla base del
nuovo “Impero”.
Il nodo della questione verte sulla concezione critica, espressa dal ministro dell’Economia nel suo Rischi Fatali
(Mondadori), del «mercatismo», considerata una sorta di
bestemmia dalle vestali del
pensiero liberista (che non è sinonimo di quello liberale).
Forse se Tremonti avesse impiegato il termine classico di
“mercantilismo”, invece del
neologismo un po’ preziosistico “mercatismo”, buona parte
delle polemiche si sarebbe potuta evitare.
Infatti è bene ricordare che
il testo principe del liberismo,
La ricchezza delle nazioni di
Adam Smith, fu scritto non in
polemica con lo statalismo, ma
appunto contro il mercantilismo. Il punto di partenza di
Smith è la negazione del preconcetto che, considerando
fonti di ricchezza oro e argento – i segni monetari dei suoi
tempi – deduceva dal fatto che
«l’oro non produce oro» la
conseguenza che l’economia
fosse a somma zero. Quindi
che il guadagno di una persona è la perdita di un’altra.
Questo assunto – che vieta
la teoria mercantilista, non il
liberismo – è quello che si riverbera nella concezione, centrale nella regolamentazione
economica dell’Unione euroCCUSATO
DI
G
3
pea e soprattutto delle sue autorità monetarie, di una centralità “mercantilistica” della
base monetaria. Della quale
l’espressione più evidente è il
rovinoso patto di Maastricht.
Sostenere che il neomercantilismo di Maastricht (o quello
che Tremonti chiama mercatismo e che gli somiglia moltissimo) sia l’espressione moderna del liberismo, rappresenta
un travisamento e quasi un capovolgimento dell’originaria
teoria liberista, che appunto
per combattere il mercantilismo fu elaborata. Basta leggere
gli scritti di Sergio Ricossa, che
del liberismo è il maggiore
esperto italiano (e a parere di
chi scrive non solo italiano)
per rendersene conto.
La “mano invisibile”
Sul piano storico e politico il
liberismo è stato sempre più
vantaggioso per i Paesi sviluppati e contrastato dagli altri,
che tentano di ridurre gli effetti della loro inferiorità con manovre protezionistiche. Questa non è una teoria, è un fatto,
che peraltro si declina in modo
diverso in relazione ai diversi
settori produttivi. L’Inghilterra
divenne liberista (dopo essere
stata ferreamente mercantilista) quando acquisì l’egemonia sul commercio internazionale. L’America e in realtà anche l’Europa sono diventate liberiste per i prodotti industriali nel secondo dopoguerra
CARLO LOTTIERI
IULIO TREMONTI È, per così dire, uno e bi-
no. Un doctor Jekyll che a più riprese
lascia trasparire il mister Hyde che è in
lui: l’intellettuale à la page preoccupato di citare Karl Marx e al tempo stesso
il politico navigato, anche capace di fare
quei tagli di bilancio che i predecessori avevano sempre rinviato. Alla luce del suo ultimo libro, Rischi fatali (Mondadori), c’è
però da dubitare che la parte migliore di
Tremonti sia da riconoscersi nell’analista
degli scenari contemporanei.
In particolare appare davvero sorprendente il modo in cui egli va trattando quella che è – di tutta evidenza – una delle poche
buone notizie degli ultimi tempi, ovvero sia
e, contemporaneamente, sono
diventate protezioniste per
quelli agricoli. Ora, con il passaggio della prevalenza dall’industria al terziario, si vedono sintomi consistenti di protezionismo industriale, dal tessile all’acciaio, mentre c’è un
divario nella spinta, più forte
in America e meno in Europa,
alla liberalizzazione del terziario. Al centro del quale si
colloca l’intermediazione finanziaria e quindi il sistema
bancario e assicurativo.
In sostanza il liberismo è
uno (non l’unico) strumento
Cavalcare la Tigre (cinese)
Nel libro si parla della Cina sempre e solo
per alludere a un disastro. Quello che la parola Islam è nei testi di Oriana Fallaci è ormai il termine Cina negli scritti del ministro.
Eppure egli sa bene che se l’Italia ha qualche
chance e se gli ultimi dati economici non sono così negativi lo si deve a una crescita economica mondiale abbastanza sostenuta, “tirata” prevalentemente dalle nuove economie: l’India, l’Europa centro-orientale e, senza dubbio, la Cina stessa. Se poi guardiamo
zione, e il tentativo di integrare tra loro all’interno di questo
processo le economie di venticinque Paesi europei, che si
trovano a livelli di sviluppo
diversi e talora molto diversi.
L’idea che autonome forze del
mercato possano risolvere i
L’elogio
per la creazione del mercato,
che come tutte le realtà umane
è concreta realizzazione storica e politica, non l’estrinsecazione automatica di un mito.
Certo, esiste una mitologia del
mercato, con tanto di apparizioni magiche come quella
della “mano invisibile”. Come
ogni mitologia questa consiste
nel dare un nome riconoscibile
a un fenomeno del quale si vedono gli effetti ma non si conoscono le cause. Imputare a
Giove tonante la causa dei
dezza della fisica classica.
Se non fosse così, se ci fossero vere e proprie “leggi
di mercato”, gli economisti
sarebbero miliardari, e non
risulta che tutti lo siano. Le
circostanze concrete alle
quali si rifà di Tremonti consistono in due processi determinati: l’ampliamento del
mercato, chiamato globalizza-
I RISCHI FATALI
DI UNA CHIUSURA
alla vecchia Europa occidentale, è del tutto
chiaro che la crescita delle importazioni
(tanto enfatizzata da Tremonti) tutto può indicare meno una crisi economica. Per Tremonti però la Cina è «fatale».
Così egli sottolinea che nel momento in
cui essa è entrata nel mercato globale siamo
stati buttati entro un contesto nuovo, caratterizzato da una concorrenza «senza regole»,
cioè sleale. Le imprese europee (caricate da
Il dubbio
l’uscita della Cina dal letargo in cui comunismo l’aveva cacciata e l’arrivo delle sue
merci a buon mercato in tutte le nostre bancarelle rionali. Di fronte a massaie e impiegati che comprano jeans a cinque euro e domani – speriamo – vetture utilitarie a 2mila,
Tremonti vede solo quello che certa stampa
anticapitalista si ostina a enfatizzare.
lampi ha lo stesso senso di invocare la “mano invisibile”
per definire la dinamica dei
mercati e la loro tendenza all’equilibrio. In realtà la dinamica dei mercati risponde a
tali e tanti condizionamenti da
non potersi trattare come gran-
Di fronte alla globalizzazione
l’Europa si è troppo scoperta.
E Tremonti auspica contrappesi
alla sua deriva «mercatistica»
ogni genere di oneri) devono infatti
competere con imprese che si muovono in un contesto economicamente assai più favorevole. Di fronte a
questa constatazione, non del tutto
falsa, quale è la risposta suggerita? Ci
si aspetterebbero che, preso atto del
fallimento socialdemocratico dell’Europa, proponga di abbassare imposte e altri oneri, limitare il potere
dei sindacati, ridurre il numero dei dipendenti pubblici e degli intralci che
essi causano alla libera iniziativa. E
invece Tremonti propone in primo luogo che ci si chiuda di fronte al gigante
asiatico. E questo fino a quando la Cina
non avrà adottato ogni bizzarria uscita
dalle perverse menti dei nostri pianificatori. Mentre bisognerebbe liberare l’Europa da
norme e regolamenti, egli chiede di socializzare la Cina. E si erge in cattedra a spiegare
lo statalismo ai dirigenti del Partito comunista cinese.
Non basteranno però poche lezioni, ma ci
vorranno anni e anni di corsi universitari,
data la mole delle regole obbrobriose alle
quali gli europei sono tanto affezionati. Tremonti non nega che vi sia la necessità di sfoltire la nostra legislazione, ma al tempo stesso prevede più Stato e chiede ulteriori barriere insieme con nuovi piani di investi-
problemi senza un intervento
consapevole della politica, se
non si intende male, è quello
che chiama concretamente
mercatismo. Quando si è aperta la porta senza vincoli alle esportazioni cinesi in Europa,
per esempio, si è compiuto un
atto “mercatista” e se ne sono
viste le conseguenze.
Contrasti orientali
Si può dire, e con ragione, che
questo dipende dal fatto che
l’economia cinese è un’economia di mercato solo per quel
che riguarda (e con numerose
restrizioni) i capitali, mentre
non c’è un mercato del lavoro basato sulla libera
contrattazione sindacale.
Questo però è un fatto
che si potrà forse superare con un’azione politica, non per effetto
automatico delle
forze di mercato in Cina o sulla Cina.
Dall’altra
parte sta il
rapporto economico tra Europa e America, che
esprime la competizione
tra un sistema nel quale ogni
lavoratore deve mantenere un
pensionato o un disoccupato e
uno dove questo rapporto è ridotto alla metà. La pura e semplice azione delle tendenze di
mercato, in queste condizioni, determina un crescente in-
debolimento relativo del Vecchio continente, che lo si voglia o no chiamare declino. In
terzo luogo c’è l’integrazione
interna all’Europa, che lasciata alle tendenze di mercato,
cui si somma l’inettitudine
mercantilistica delle autorità
monetarie, ha prodotto la crisi
delle istituzioni che avevano il
compito di realizzarla. Sono
tutti fatti reali, che sembrano
mostrare come la costruzione
del mercato globale, come di
quello europeo, abbia bisogno
del liberismo, ma non si possa
accontentare solo di quello.
L’accentuazione antimercantile che Tremonti dà al suo
liberismo, nelle circostanze
date, appare più un atto di realismo che un tradimento ideologico. Il liberalismo poi non
c’entra quasi per niente. Il liberalismo comprende il liberismo, ma non si esaurisce in
esso. In una celebre polemica
con Luigi Einaudi Benedetto
Croce interpretò il liberismo
come «pertinente a ciò che è
utile», non a ciò che è giusto,
inserendolo in un campo subordinato a quello etico, proprio del liberalismo. È dubbio
che Croce avesse ragione nel
merito. La libertà economica si
è dimostrata condizione indispensabile per la libertà civile
e di questo Tremonti è senza
dubbio convinto.
Una cosa è la libertà dell’individuo, sempre da salvaguardare, un’altra quella delle
grandi aggregazioni bancarie e
finanziarie, che si difendono
fin troppo da sé. Il loro peso è
lecito, e probabilmente anche
utile, in un sistema di libero
mercato, ma deve trovare qualche contrappeso nella politica
e non bisogna essere no global
per rendersene conto: basta
considerare quanto costa un
semplice conto corrente.
menti pubblici (i soldi non dovremmo spenderli noi, ma farli spendere dai politici).
Non ci siamo proprio.
La sua tesi è che il libero mercato – per vivere – ha bisogno di regole uniformi, che
mettano tutti i soggetti economici nelle medesime situazioni. Ma le cose non stanno così. Perché un italiano e un americano possano interagire economicamente, scambiando prodotti di moda contro computer (o
prosciutti contro sciroppo d’acero), non è affatto necessario che tassazione, regole sindacali o altro siano uguali in Italia e negli
Usa. Al contrario, per avere minori regole è
una buona cosa che Italia e Usa siano del tutto indipendenti e che gli attori locali usino
tutta la loro forza per ottenere una riduzione del potere pubblico.
Statalismo, il vero nemico
Il guaio è che Tremonti sembra credere che
le “regole” possano essere create solo dalla
politica e che il diritto in quanto tale sia un
prodotto politico. Fortunatamente non è
necessariamente così, e non è sempre così.
Il nuovo diritto privato internazionale che va
oggi rinverdendo i fasti dell’antica lex mercatoria emerge dal mercato e sulla base
delle esigenze degli attori economici. Sorge e si consolida senza che vi siano ministri che dettano la loro volontà. Tremonti ha ragione quando evidenzia la
crisi dell’Europa – che non data da oggi – ma affonda le proprie radici nel
trionfo delle logiche stataliste. Così, è
fin dalla fine dell’Ottocento che il
Nord America ha superato – prima
economicamente, e poi in ogni settore – la vecchia Europa. E se gli
yankees hanno vinto è perché (pur tra
molte reticenze e con troppe concessioni al New Deal di Roosevelt e alla
Great Society di Johnson) hanno difeso proprio quel modello liberale che
Tremonti tanto maltratta.
Egli vede bene quando denuncia il
carattere elitario e illiberale dell’Unione
europea, in questo degna erede dei sistemi politici nazionali e delle loro logiche
perverse. Ma proprio per questo non dovrebbe prometterci nuova spesa pubblica
(magari nella forma di eurobond…) quale
motore dello sviluppo e al contrario impe-
gnarsi a costruire un consenso sulla necessità di riformare il Welfare State, aprire i mercati, liberalizzare le professioni.
Per quello che fu un tempo il paladino del
“popolo delle partite Iva”, però, l’origine di
tutti i male è il mercato, anzi, quello che
chiama il “mercatismo”, e che egli considera il superamento ideologico del comunismo. In qualche modo, la sua reincarnazione. C’è un senso logico e politologico in
tutto ciò? Per nulla. E il fatto che una piccola parte della sinistra italiana ed europea abbia abbandonato parte delle proprie preclusioni verso la libertà di mercato non dimostra nulla. Avrebbe senso sostenere che il liberalismo è la reincarnazione sotto altre spogli del fascismo, solo perché una parte di
quanti vengono dalla destra post fascista ha
sinceramente compreso le ragioni della libertà individuale e dell’economia capitalista? Non avrebbe senso. Così come non lo ha
riciclare la verbosa retorica del movimento
altermondista solo per mettere sotto processo chi si guadagna da vivere con il proprio
lavoro: a Treviso come a Pechino.
Non c’è da stupirsi se qualcuno ha accostato Tremonti a Toni Negri (quest’ultimo in
fondo non è così critico sulla globalizzazione…) e che Giano Accame abbia avvertito
echi degli scritti anticapitalistici di Pound.
Pierluigi Battista ha parlato di «liberalismo
no global». Capiamo il riferimento ai no global, ma perché usare la parola “liberalismo”?
domenica 27 novembre 2005 ❖ L’INDIPENDENTE
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TIPI FELSINEI / I “DISPENSATI”
BOLOGNA
DI
S
CI SALVERÀ
IL PARTITO
FANCAZZISTA
DI
A LESSAN DRO O RTENZI
M
OTTO I PORTICI di Bologna è un pomerig-
gio nebbioso, due vigili stanno invitando un gruppo di barboni, che insieme ai loro otto cani bivaccano in una
sporcizia indicibile, ad alzarsi e andarsene. Mugugni, improperi, insofferenza. Ma
quando il loro capo fissa il vigile negli occhi, la condanna è pronunciata senza appello: «Era meglio quando c’era Guazzaloca». Mentre fa i bagagli, un suo amico precisa la sua decisione categorica: «Basta, torno a Cesena. Qui ci sono veramente troppi
fascisti». Sì, perché ormai, a Bologna, si
stava meglio quando si stava peggio; e i
punkabbestia lo dicono schietto: «Quando
c’era lui...». Come è potuto accadere tutto
questo, a Bologna, proprio a Bologna?
Sembra ieri che in Piazza Maggiore, sui
sorrisi, e anche su qualche lacrima di gioia,
sfarfallavano i coriandoli, c’erano i palloncini e le bandiere della pace, i vecchi militanti del Pci facevano la fila per ritirare ai gazebo la maglietta di Cofferati (solo 5 euro),
i militanti dell’Arci Gay alzavano al vento le
bandiere della pace a sei colori, senza azzurro ovviamente; sopra le teste di studenti e tranvieri, un grato profumo di cannabis
aleggiava con le sue nuvole azzurrine sulla
serenità di ognuno. Aspettavano tutti lui.
Poi lui era arrivato, ad annunciare la seconda liberazione. Che si era avverata.
Ma a dir la verità, qualcosa si era rotto subito. Lui che proprio non si voleva decidere a darlo, questo benedetto elenco degli assessori, mentre in città i nomi dei papabili
ammontavano ormai a molte decine. Nel
partito, quello che una volta era unico, forte di una maggioranza enorme in Consiglio
comunale, anche e soprattutto nei confronti degli alleati, ci si guardava perplessi ma,
in fondo, si aveva ancora fiducia. L’oscuro
responsabile degli uscieri dell’amministrazione provinciale, Anna Patullo, sovieticamente sia loro dirigente che loro rappresentante sindacale, promossa in giunta. Questo
almeno era rassicurante. Poi, siccome a Bologna non chiudere il centro alle auto è da
sempre battaglia qualificante per la destra,
assessorato del Traffico elargito a Rifondazione comunista, insieme alla conseguente
dose di impopolarità, perché in macchina ci
vanno anche a sinistra e le telecamere multano ognuno impietose. Poi i macigni, pesanti e terribili, uno ad uno erano cominciati a cadere con metodica regolarità, fracassando le certezze e i sorrisi.
Le doverose epurazioni dei conniventi
col passato regime di Guazzaloca potevano
intanto cominciare. I dirigenti che la sera festeggiavano lo scampato pericolo con un
brindisi in comune e i sorrisi di chi già li aveva sostituiti, apprendevano la mattina dopo dal giornale di essere stati giubilati. Non
dalle colonne dell’Unità, però. Da quelle di
Repubblica, piuttosto, immediatamente divenuto il nuovo foglio d’ordini della giunta.
Quello dove d’ora in poi si leggeranno, spesso troppo tardi, le decisioni già prese. Allora, quasi increduli, tutti a lavorare a testa
bassa. Cominciando dall’assessore alla Casa, Antonio Amorosi, quota Verdi, insegnante di canto, il quale, ben deciso a mettere
mano dove ce n’è bisogno, denuncia il malcostume di affittare lussuosi appartamenti
comunali ai nuovi dirigenti con pigioni irrisorie. Fra loro, al Comune si nomina per
esempio dirigente del settore Cultura la signora Cristiana Morigi Govi, ex direttrice del
Museo civico archeologico, la stessa che si
era congratulata con l’ignaro in attesa della
stesso incarico, poi silurato.
I misteriosi fiancheggiatori del sindaco
Neanche il tempo di rallegrarsi o preoccuparsi e Cofferati annuncia che non pagherà
la produttività ai dipendenti comunali, perché Guazzaloca ha lasciato le casse vuote.
Sembra nulla, ma nella liturgia del pubblico impiego è una sorta di mistero d’iniquità, è l’abominio della desolazione, la follia.
I sindacalisti dell’Rdb irruppero in consiglio
comunale impavesandolo di mutande, tra
urla, pianti e soprattutto incredulità. Poi la
produttività fu pagata, anche perché la cassa ce l’hanno pur sempre i Ds, anche perché
qui a Bologna uno stipendio un voto è un
dogma, ma l’incanto era rotto per sempre.
Nel frattempo, le contromisure avevano
soprattutto bisogno di disegnare una precisa mappa dei fiancheggiatori del sindaco.
Compito ben presto rivelatosi impossibile.
Così che giorno dopo giorno ci si è dovuti accorgere che gli amici di Cofferati erano dappertutto e in nessun posto. Nessun ambiente particolare, magari una cara vecchia corrente di partito, oppure qualche losco collaborazionista della minoranza. Niente: chi
sostiene Cofferati ha in comune coi suoi
compagni di avventura solo Cofferati medesimo. Tutti slegati fra di loro, ma invischiati nella tela del ragno astutissimo. Intanto lui
LA CITTÀ
“LIBERATA”
CHE FINÌ
IN ANALISI
Accolsero Cofferati
come Il Giustiziere.
Poi si sono accorti
che lui non stava
ai vecchi giochi.
E ora la sinistra non sa
se è maggioranza
o opposizione
La piazza bolognese aveva accolto la vittoria
di Sergio Cofferati come una seconda Liberazione,
ora fa i conti con una politica della sicurezza che
Guazzaloca non si sarebbe mai sognato di imporre
si guadagna perfino l’amicizia della Chiesa
guazzalochiana. Eccolo infatti in prima linea
nella battaglia dei sindaci le cui squadre di
calcio militano in serie B e non ne vogliono
sapere che le partite si giochino al sabato. Tra
i motivi che spingono Cofferati alla lotta, naturalmente, il rispetto per le attività ecclesiali e di volontariato che si svolgono al sabato. La curia ormai senza Biffi benedice
prontamente. Mentre la Fondazione della
Banca del Monte si sceglie come nuovo presidente un outsider, Marco Cammelli. Solo
L’Indipendente ne previde l’elezione: facile
però, era gradito a Cofferati.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Intanto, fra gli impiegati del Comune, i navigati segretari di assessorati e uffici dirigenziali, si fa strada un sentimento terribile: perché
quella che traspare da sguardi e commenti è
proprio genuina ammirazione. La sicurezza
dello stratega abilissimo,dinanzi allo sconforto e all’insicurezza degli altri. Siano essi
assessori ribelli, capigruppo esautorati, consiglieri autosospesi dalla maggioranza.
Sono passati solo dieci mesi dalla Liberazione e un mattino di maggio la Questura si
trova a sgomberare alcuni occupanti abusivi di alloggi comunali che si rifiutano di lasciar entrare gli occupanti legittimi. Resistono violentemente alla polizia e, a norma di
codice penale, vengono arrestati. I disobbedienti tuttavia non hanno dubbi, Rifondazione comunista nemmeno: dietro la questura c’è l’ispirazione del sindaco. Seguono
proteste e manifestazioni. Stavolta Cofferati l’ha fatta grossa davvero. Ma non grossa
come quel che ancora deve accadere.
Solo pochi giorni fa cominciano a Bologna altri sgomberi: lungo il fiume Reno, alle porte della città, in condizioni indicibili,
dentro baracche di fortuna, alloggiano barboni e senzatetto, intere famiglie, molti extracomunitari, chissà quanti clandestini.
Anche questa volta Bologna è testimone di
un decisionismo dimenticato: si sgombera,
si abbattono le baracche. Tra una ridda infernale di polemiche. Dopo gli sgomberi, gli
scontri. A fine ottobre alcune Facoltà tipicamente di sinistra, Lettere e Scienze politiche, sono occupate. Non si tratta certo di
occupazioni vere come quelle di una volta,
sembra più una vacanza fuori programma,
gli studenti dei primi anni di corso sono
molto emozionati e dopo una sola settimana abbandoneranno le aule di notte lasciando dei teneri messaggi di scuse. «Scusateci,
siamo stanchissimi, non ce la facciamo
più», recita un manifesto a Lettere.
Però almeno una volta ci provano. Provano a entrare in consiglio comunale durante la seduta in cui si discute degli sgomberi, per interromperla, insieme con qualche
disubbidiente più esperto. Hanno ovviamente la peggio, qualcuno si fa male, ma il
risultato mediatico è una bomba: «Cofferati manganella gli studenti di sinistra». Frattanto, in consiglio, Salvatore Caronna, il
capogruppo dei Ds, attacca Rifondazione
perché a suo dire favorisce un’immigrazione incontrollata che genera insicurezza nei
cittadini. Roba che a Bologna non si permette neanche la Lega Nord. Il divide et
impera pensato nell’antica Roma era sicuramente molto meno efficace di così.
La sindrome dissociativa di Verdi e Prc
Poi, viene il momento di attendere il Documento sulla legalità, scritto di pugno da Cofferati. Neanche il tempo di gustarsi l’attesa,
di preparare la polemica come si deve, che
il sindaco ancora una volta anticipa tutti. Eccolo annunciare che il controllo elettronico
degli accessi al centro verrà sospeso di sabato e in prossimità delle festività natalizie,
traffico libero insomma. Apriti cielo. Contro
sindaco e assessore al Traffico insorgono
comitati, i Verdi e infine Rifondazione. Solo che l’assessore al Traffico è proprio di
Rifondazione (l’unico); e nella giunta c’è
anche un verde, che il suo partito abbandona, precisando che si resta in giunta, riappacificandosi e separandosi di nuovo. Molto meno efficace di così, quel divide et impera dell’antica Roma. La Bologna di sinistra ormai distesa sul lettino dello psicanalista, incapace di capire se sia al governo o
all’opposizione, riceve una precisazione del
sindaco che sta per presentare il Documento sulla legalità: chi non lo sottoscrive è fuori dalla giunta. E quelli che dicevano, dopo
gli sgomberi, di avere «le mani libere», appoggiati della Cgil? Rifondazione e Verdi, insomma? Hanno presentato due documenti
sul tema dei diritti inalienabili dell’uomo,
sui massimi sistemi. Il verde Amorosi, morbidissimo. Zamboni lo commentano sconsolati gli attivisti. «Che possiamo fare? Uscire dalla giunta?». Per liberarsi le mani adesso, con Cofferati che valuterà i documenti tra
una settimana, non basterebbe Houdinì.
L’uomo della strada di sinistra è come in
trance. Vede Strscia la notizia che consegna
un Fez da podestà a Cofferati, e lui ci scherza sopra. Vede una politica sulla sicurezza
che Guazzaloca non ha pensato di fare
nemmeno per un momento. Seguono dibattiti angosciosi. Il traffico in centro, tema che
a Bologna assume valore emblematico, contemporaneamente vietato e concesso, con
Rifondazione contemporaneamente favorevole e contraria. Cariche della polizia per respingere manifestanti di sinistra che assaltano la giunta di sinistra. Il quotidiano di partito disinformato su tutto, incerto su tutto.
I vecchi militanti passeggiano con aria
pensosa, confusi, a testa bassa. Ogni tanto la
rialzano, gli sembra di aver capito: «È perché Cofferati non è di Bologna!». Ma non basta, e risprofondano nei loro pensieri.
Chissà, forse a Roma pensavano davvero
di averlo emarginato, Cofferati, quello che
liberò Bologna per la seconda volta.
I VO G ERMANO
AGARI POTESSIMO ISCRIVERCI. A chi?
A che cosa? Ad un nuovo rassemblement? Non proprio e non
tanto. Alla nuova sintesi postmoderna delle categorie usuali e usurate del costume politico? Acqua.
C’è che “il teatrone della politica”, secondo brillantissima definizione di Filippo Ceccarelli, a Bologna, negli ultimi
tempi, s’è tramutato in saga minore, in
saggio dopolavoristico. Certo, un po’ di
sconcerto Sergio Cofferati l’avrà pure
provocato, pure suscitato molto e convinto consenso, da parte della Bologna
profonda e perenne. Lucio Dalla ne ha
suffragato la serietà del fare politica,
Franco Berardi “Bifo” e Stefano Bonaga
hanno sventagliato, viceversa, perplessità e dubbi. Buttandola sempre in politica, però, rischiamo di non cogliere l’esatta antropologia del “dispensato”, cioè
dei professionisti dell’aperitivo e signori del fancazzismo che durante le ore un
tempo dedicate al vespro, affollano bar e
baretti, presidiando con zelo ed efficienza i tavolini. Il “fungone” da riscaldamento contrassegna il segmento di quelli che danno vita alla liturgia, scendendo
in parata con patinatissimi suv.
Il tutto sotto lo sguardo e, forse, la verità di Ahmed, che sta contrattando un
cd pirata di Eros e Anastasia con due
studentelli tignosi che, più per convenzione sociale che per convinzione economica, “tirano sul prezzo”. E quelle ragazzine che, allo stesso tempo, discettano di scazzi d’amore ingenerati da cretinetti superficiali e del loro luccicantissimo iPod saranno, sinceramente, interessate ai destini della governance, oppure,
del dibattito sulla legalità? Forse alle loro smart e mini rigorosamente posteggiate in doppia fila, tali da meritarsi le intemerate di un conducente di autobus.
Più che una spasmodica e divorante
ansia di riforma radicale di ogni dimensione della vita quotidiana, Bologna reinterpreta un nichilismo vestito a festa.
Chiedo ragione di tutto ciò a Zefram Cochrane, animatore intellettuale del più
significativo blog cittadino, ricevendone
un piccolo appunto di tarda serata: «Qua
tutti stanno dando le dimensioni volontarie, in nome della schiavitù del teenagering, cultura imperiosa e vischiosa».
Intramoenia, al dibattito, si sostituisce
la comoda e facile posa da divulgazione
letteraria ed opuscolo da pro loco. Una
confortevole e apatica stagnazione, dettata dalla “dittatura del luogo comune e
della banalità”, cui maggioranza, opposizione e strati intermedi, benevolmente
s’adeguano. Un tratto somatico che, grazie a Dio, non è di un Enrico Brizzi, con
il suo libro sulle strade dell’anima e di un
Cesare Cremonini, grazie alla stupefacente Maggese che, a parere di Camillo
Langone, rappresenta il più bel titolo di
canzone degli ultimi vent’anni; ancor
più dei Gem Boy, monellacci della canzone pop e Angela Baraldi, cantante e attrice sopraffina. A non dire di Alessandro Bergonzoni, unico maestro dada, Vittorio Riguzzi, dandy affatto decadente e
crepuscolare, oppure, Eduardo Zarelli,
pensatore dell’“ecologia del profondo”.
Ci fosse stato qualcuno, tra i sapienti
analisti dell’industria culturale, che, almeno, li avesse contattati, ricevendo magari una sacra sinfonia del tempo nuovo
e non risposte fisiognomiche o curricolari. Circolano invece i soliti tratteggi, bozzetti, istantanee, sussurri e una certa dose di luoghi comuni, traiettorie già segnate sul cosiddetto “modello emiliano”.
Resiste, questo sì, la perfetta consonanza fra valori effimeri e normalità efficiente e pragmatica, puntualmente assorbita da un diffuso civismo e da una
precisa cifra nel regolar le cose del mondo. Sindaci e masse convocate in eventi
liturgicamente politici: i comizi, le sezioni, il porta a porta, le pacche sulle spalle, i pionieri, i fedeli alla linea e i deviazionisti, il ’77, Il Mulino. E poi Vasco, Ligabue, Dalla e Guccini, persino Giovanni Lindo Ferretti e il gruppo da lui fondato, i Cccp, uniti a chi si reca ai girotondi
con l’auto blu e alla sterminata pattuglia
di “fuori corso” universitari e competitivi sociali “fuori tempo massimo”.
Meno male che, massicciamente, il
poeta postcontemporaneo Valerio “Falko” Zecchini, vive e lotta insieme a noi
contro chi non ha mai goduto un brodino caldo del modernariato politico e
ideologico, a forza di aforismi scolpiti
nella roccia della tanz elettronica senza
«piegarsi alle esigenze della mentalità
impiegatizia e sedentaria» e non seguendo «i dettami del collettivismo del
benessere e della felicità». Semplice, no?
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