Rovine a cura di Gabriele Boscato Quest'opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione‐Non commerciale‐ Non opere derivate 2.5 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by‐nc‐nd/2.5/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA. Rev00 ‐ 25/06/08 Rovine 2 Rev00 I. Credo che brucerò tutto... sì, farò sparire per sempre tutti i documenti e le carte risalenti a quell'epoca antica, perché è bene che la gente non possa neanche pensare che certe cose talmente orribili e blasfeme possano esistere. La mia stessa vita è stata rovinata senza rimedio da ciò che ho visto e da ciò che mi è successo; forse soltanto l’arrivo della morte potrà darmi pace. L'unica testimonianza di ciò che è stato rimarranno queste mie memorie che sto scrivendo, e che forse dovrò lasciare qui a voi, per indicare il modo in cui il Male può essere evitato. Ora racconterò tutta la vicenda dal principio, in modo che chiunque legga possa avere anche soltanto una piccola idea delle mostruosità che ho affrontato e a cui sono scampato, ma non oserei dire per fortuna... Sì, partirò raccontando del mio viaggio di andata, in quel maledetto pomeriggio di afa infernale. Non potevo certo immaginare cosa mi aspettava… non potevo sapere niente quando mi trovavo su quel treno. I binari correvano dritti sulla terra arida e infuocata, verso est, e a perdita d'occhio non c'era neanche un accenno di curvatura. Nonostante il sole stesse già tramontando fra le nubi rossastre, la calura era ancora opprimente e la mia gola continuava a bruciare. Guardando dai finestrini, cominciavo già a intravvedere alcune sagome contorte che spuntavano in modo irregolare dal terreno, a nordest. Si trattava delle rovine di un antico villaggio, il cui nome si era perso nell'immensità del tempo, e che si pensava fosse stato raso al suolo a causa di una maledizione. Mi sembrava totalmente folle che ai nostri tempi vi fossero ancora certe superstizioni, ma pensai che evidentemente qualcosa di molto strano e misterioso dovesse essere successo davvero, visto che i pochi abitanti rimasti nella provincia tendevano ad evitare di passare da quelle parti e chiamavano ormai da secoli queste rovine col nome di “Borgoblivione”, a testimonianza della voglia di far cadere nell’oblio quel luogo desolato. Il trenino cominciò a rallentare la sua corsa, perché ormai mancava poco alla stazione; allora raccolsi i miei bagagli e mi avvicinai alla porta in attesa dell'arrivo. Non fui sorpreso di notare che nessun'altra persona scendesse a questa fermata; d'altra parte la stazione di Borgoblivione era forse la meno utilizzata dell'intera rete ferroviaria. L'unica ragione per cui non era ancora stata chiusa e abbandonata era perché ogni tanto qualche studioso voleva effettuare delle ricerche scientifiche nell'area delle rovine. Molto tempo fa vi erano anche dei turisti, attratti dal mistero che avvolgeva quella località, ma dopo alcuni casi di persone scomparse o impazzite, nessuno ha più pensato di passare le vacanze in quella zona. Io non ero andato lì come turista, e le ricerche che dovevo compiere erano di carattere tutt'altro che scientifico: pensavo che se le leggende attorno alla mia famiglia avessero avuto almeno un fondo di verità e se gli scritti che avevo trovato Rovine 3 Rev00 nel baule in soffitta a casa dei nonni fossero stati veramente documenti appartenuti a un mio antenato, sarei tornato a casa immensamente ricco e avrei forse scoperto il nome originale di Borgoblivione. II. Il trenino ripartì pochi secondi dopo la mia discesa e, non appena fu lontano, tutto ciò che si poteva udire era il silenzio assoluto, interrotto soltanto dal rumore dei miei passi sulla banchina di cemento. L'edificio della stazione era quasi del tutto spoglio e piuttosto cadente: al suo interno vidi una panchina dalla vernice scrostata, un distributore automatico di biglietti e un telefono a muro. Invece di un cartello con gli orari dei treni, c'era una semplice scritta che diceva: “Il treno per Pozzago passa tutti i giorni alle ore 17.30.”, e su una parete vidi appeso un estintore coperto di polvere, la cui ultima revisione risaliva a 10 anni prima. Uscii dalla stazione e imboccai la strada in terra battuta che portava al villaggio. Lungo il percorso si trovava una sorta di rifugio, costruito molto tempo prima grazie ai finanziamenti di un'associazione scientifica, e lì mi sarei sistemato per qualche giorno, finché fossero durate le mie ricerche. Dopo alcuni minuti di cammino arrivai al rifugio, che distava da Borgoblivione circa due chilometri. L'edificio era spartano ma confortevole: acqua corrente, energia elettrica e linea telefonica arrivavano lì, come alla stazione del treno, dal centro abitato più vicino, Dolligno, situato circa trenta chilometri più a sud. Nella sala più ampia si trovavano anche diversi elettrodomestici, che avrebbero consentito a chiunque di vivere lì fino all'esaurimento delle proprie provviste. Entrai in una camera e sistemai i miei bagagli; poi presi in mano i documenti trovati nel baule dei nonni e alcuni appunti riguardanti la storia della mia famiglia che avevo preso qualche giorno prima e cominciai, per l'ennesima volta, a leggerli... III. Secondo le informazioni che ero riuscito a raccogliere, un mio avo (di cui terrò nascosto il vero nome per evitare che qualcuno, leggendo queste mie memorie, sia tentato di scoprire qualcosa a suo riguardo) fu uno dei primi pirati delle Antille. Partito giovanissimo per l’America centrale in cerca di fortuna, riuscì in pochi anni ad accumulare un patrimonio considerevole grazie alla pirateria. Questo mio antenato, nel corso degli anni, sarebbe entrato in contatto con alcuni stregoni di Haiti e Rovine 4 Rev00 sarebbe stato iniziato alle pratiche magiche Vodou, avvolgendosi così in un alone di mistero. Divenne quindi molto temibile e immensamente ricco, perciò fu soprannominato “Demone dell'oro” dagli altri pirati. Nessuno sapeva dove egli nascondesse il suo tesoro ma pare che ogni tanto sparisse dalla circolazione per diversi mesi e tornasse nel Vecchio Mondo per depositare in un luogo segreto i proventi di anni di pirateria. Il “Demone”, quando raggiunse una certa età, decise di abbandonare la pirateria e di trascorrere in modo un po' più tranquillo gli anni che gli restavano da vivere. Ritornò, quindi, nella sua terra natia – stavolta definitivamente – e cominciò una nuova vita: si fece costruire un'elegante villa nella periferia della sua città e si fidanzò con una giovane donna appartenente alla piccola nobiltà del luogo, la quale sembrava essere enormemente affascinata dall'ex‐pirata, nonostante la differenza di età. Quando arrivò il momento di chiederla in sposa a suo padre, quest'ultimo non ebbe niente da obiettare, perché il mio avo era particolarmente benestante, ma anche per paura della magia nera, in cui sembrava fosse coinvolto, stando alle voci che circolavano tra i contadini. Si diceva che ogni tanto qualcosa di fuori dal comune accadesse nei dintorni della villa, come sparizioni di capi di bestiame; strani suoni simili a urli, dalla dubbia provenienza, e inspiegabili fenomeni meteorologici che interessavano la zona: si parlava, per esempio, di brevi nevicate nel mese di luglio, concentrate esclusivamente nel cortile retrostante la casa, mentre nel resto del paese il caldo afoso era insopportabile. Tante erano le cose che si dicevano, ma la vita in quella casa sembrava continuare nel modo più normale possibile. La coppia ebbe tre figli, due maschi e una femmina, e ciò contribuì a rendere sempre meno credibili le voci che circolavano tra la gente e a sminuire sensibilmente l'oscuro alone di mistero che circondava la figura del “Demone”: ormai sembrava che l'unico segreto rimasto riguardasse il luogo ove doveva trovarsi l'oro accumulato durante gli anni della pirateria. Tuttavia, gli anni passavano, e il mio avo, invecchiando, appariva ogni giorno più accigliato e meditabondo. Riprese i suoi studi sull'occultismo, che ormai aveva interrotto da molto tempo, e ogni giorno rimaneva rintanato nel suo studio per ore e ore. A nessuno era concesso sapere cosa facesse di preciso. Perfino a sua moglie era proibito entrare quando stava studiando. Le cose continuarono così per diversi mesi, fino a quando, un giorno, sul volto del “Demone” tornò il sorriso, che era sparito da parecchio tempo. A chiunque gli chiedesse delle spiegazioni in merito, egli rispondeva che i suoi studi ormai erano terminati e le sue preoccupazioni erano svanite, perciò si riteneva soddisfatto. Dopo un certo periodo di tranquillità, però, ricominciarono a circolare delle voci riguardo a sparizioni di capi di bestiame al pascolo nei dintorni della villa. La maggior parte della gente, comunque, tendeva a dare poca importanza a queste storie, fino Rovine 5 Rev00 al giorno in cui un giovane pastore, uscito la mattina per condurre al pascolo il suo piccolo gregge di pecore, fece ritorno a notte inoltrata, senza animali e in stato di shock. Era febbricitante e, tra un delirio e l'altro, parlava di uno spaventoso luogo sotterraneo in cui “le pareti sono vive e mangiano qualunque cosa vi capiti attraverso”. I genitori misero a letto il ragazzo che, in preda alle convulsioni, era dolorante e continuava a dimenarsi. La mattina seguente, prima che i dottori potessero diagnosticare qualcosa, il giovane morì e il fatto suscitò un certo clamore nel villaggio. Anche se non fu mai chiarito cosa avesse a che vedere il mio avo con questo fatto, la gente cominciò ad evitare di frequentare la zona e il vecchio non si fece più vedere in giro. Anche della moglie non si seppe più niente; i figli, invece, furono mandati a studiare all'estero. Gli unici abitanti della villa che continuavano a circolare tra la gente erano i servitori, che si occupavano degli acquisti, ma nessuno parlava con loro. IV. Quelle erano le informazioni in mio possesso. Non riuscii, fino a quel momento, a raccogliere altri fatti salienti riguardanti la vita del “Demone”, se si esclude una lettera inviata ai figli, quasi sicuramente scritta da egli stesso, in cui raccomanda loro di non tornare al villaggio, perché “...il male sta prendendo il sopravvento e risucchierà la vita dalle persone e dagli animali; anche la terra non darà più frutti in questo luogo...”. Tra i vari fogli ingialliti e divorati dal tempo, trovai anche una carta geografica dell'epoca, raffigurante la contea di Dolligno. Osservandola bene, notai che a nord di Dolligno, nell'attuale “Borgoblivione”, si trovava un centro abitato, cerchiato con dell'inchiostro: evidentemente quello era il villaggio dove viveva il mio avo. Peccato soltanto che il nome di questo paese fosse illeggibile, perché in quel punto la carta era piuttosto lacera, essendo vecchia di secoli. In una biblioteca, invece, avevo trovato un vecchio opuscolo turistico con una mappa che rappresentava la struttura delle rovine del villaggio: grazie a quella mi sarei potuto orientare facilmente. Guardandola attentamente, però, non riuscivo a capire dove si trovassero i resti della villa del mio avo, per cui avrei dovuto per prima cosa compiere una ricerca. Avevo un solo elemento che mi poteva aiutare: si trattava dello stemma di famiglia ideato dal “Demone” stesso: un Jolly Roger incoronato, che era disegnato sulle sue bandiere usate ai tempi della pirateria. Rovine 6 Rev00 V. Quando ebbi finito di riguardare tutti i documenti e gli appunti, cenai con del pollo con patate e un po' d'acqua. Avevo provviste sufficienti per circa una settimana, ma pensavo di tornare prima. Dopo cena, uscii a prendere un po' d'aria. Il cielo era limpido e le stelle stavano già cominciando a popolarlo. L'aria era fresca, anche se fino a poche ore prima si moriva di caldo. Mi sembrava strano come una zona abitata da contadini fosse diventata arida e semidesertica, rimanendo in quelle condizioni per secoli. E mentre ero assorto nei miei pensieri, all’improvviso un rumore ruppe il silenzio di quella serata. Il suono proveniva da lontano, in direzione nord, ed era simile a un lamento, ma aveva un che di sinistro. In quel momento non avrei saputo dire che cosa ci fosse di così strano in quel suono, a parte il fatto che nel raggio di chilometri il territorio era in pratica del tutto desertificato e quindi privo di vita... o forse mi sbagliavo; magari qualche animale notturno si era svegliato ed era uscito dalla sua tana sotterranea... forse era semplicemente il buio a rendermi inquieto, pensai. Non sapendo cosa fare, andai a prendere una torcia a lungo raggio che avevo portato con me, e uscii a perlustrare la zona vicina al rifugio. Imboccai il sentiero per il villaggio abbandonato e camminai per qualche minuto, fino quasi a raggiungere le rovine. Puntando il faro in tutte le direzioni, non vidi niente di anomalo; verso nord tutto sembrava tranquillo. La visione delle rovine antiche, illuminate dalla luce della torcia, era spettrale e non mi invogliava di certo a proseguire il cammino; decisi quindi di tornare alla base, visto che, comunque, non c'era nulla di insolito da vedere. Ormai stava cominciando a essere tardi, perciò andai a dormire: volevo cominciare la ricerca la mattina presto, in modo da poter stare in quel posto per il minor tempo possibile; non avevo alcuna intenzione di prolungare la mia permanenza più del necessario. Per il resto della serata non sentii altri strani suoni, e presi sonno abbastanza in fretta. VI. Il giorno successivo mi alzai di buon’ora; il sole era ancora basso a est quando, zaino in spalla, uscii dal rifugio per coprire i due chilometri di distanza che mi separavano dalle rovine. In pochi minuti arrivai sul posto e tirai fuori dalla tasca il vecchio depliant turistico con la mappa del luogo. Anche se non mi forniva indicazioni specifiche, quella cartina era in ogni caso un ottimo riferimento che mi consentiva di Rovine 7 Rev00 orientarmi tra le macerie, che viste da vicino, alla luce del sole, sembravano tutte uguali. Erano anche indicate quelle che, secondo i ricercatori, dovevano essere le vie del centro abitato. Nel giro di circa tre ore riuscii a esplorare tutte le vie di Borgoblivione che erano indicate sull’opuscolo ma notai che alcuni cumuli di rovine isolati non erano segnalati sulla cartina, quindi presi nota su un foglio di tutti i punti non inclusi ripromettendomi di visitarli più tardi. Anche se non sapevo con precisione dove andare a cercare, sicuramente dovevo allontanarmi dal centro del complesso di rovine, poiché la villa del mio avo, stando ai documenti che avevo recuperato, sorgeva in periferia. Decisi di cominciare l’ispezione delle rovine isolate procedendo in senso orario, partendo da quelle che si trovavano più a sud. Il lavoro di ricerca non era certo incoraggiante, perché quei cumuli di macerie sembravano tutti uguali e, sebbene io cercassi qualche segno distintivo o delle particolarità, analizzando pazientemente i sassi più grossi, pareva che i miei sforzi fossero totalmente inutili. Nel primo pomeriggio, per di più, cominciò anche a piovere. Il terreno arido e sabbioso non impiegò molto tempo a trasformarsi in una fanghiglia giallastra che, oltre a sporcare, rendeva poco agevole il cammino. In quel momento stavo visitando i resti di un edificio che si trovava a nord‐ovest rispetto al centro; doveva trattarsi di una fattoria o di una grossa villa, pensai. Alcune parti del muro di cinta erano ancora in piedi e, nel punto in cui doveva trovarsi l’ingresso del cortile, c’era ancora un arco che, nonostante tutto, aveva ancora una parvenza di solidità. Decisi di andare là sotto a ripararmi, nella speranza che smettesse di piovere. Quando fui al coperto, appoggiai lo zaino a terra e pranzai con un po’ di pane e salame. Dopo mangiato, presi in mano il foglio dove mi ero segnato i punti isolati rimasti da esplorare e calcolai rapidamente che mi mancava da visitare ancora poco più di metà delle rovine. Se il tempo si fosse rimesso, avrei potuto farcela a terminare il giro prima di sera, mentre se avesse continuato a piovere sarebbe stato meglio tornare al rifugio e continuare l’esplorazione il giorno successivo. VII. Passai una buona mezz’ora in attesa sotto l’arco, ma sembrava che la pioggia non avesse intenzione di smettere; anzi, sembrava aumentare d’intensità. Grosse pozze d’acqua si stavano formando tutto intorno. A questo punto, ripresi in spalla lo zaino con l’intenzione di tornare verso il rifugio; dopo alcuni passi, però, udii un rumore strano in mezzo al monotono scrosciare della pioggia. Sembrava un mugolio, qualcosa di simile al guaito di un cane ferito. Mi girai di scatto per lo stupore e il suono si ripeté, leggermente prolungato rispetto a prima. Dopo questo rumore, che Rovine 8 Rev00 sembrava provenire da oltre il muro opposto a quello dove si trovava l’arco, ritornò, nella sua solitaria monotonia, lo scrosciare incessante della pioggia. Rimasi fermo qualche istante, con l’orecchio teso a percepire eventuali altri rumori, ma non si sentì più niente. Stavo per riprendermi dallo stato d’inquietudine in cui quei suoni mi avevano mandato, quando il mio occhio cadde su un particolare di fondamentale importanza: la pietra che fungeva da chiave di volta nell’arco sotto il quale avevo trovato riparo, aveva scolpito un bassorilievo rappresentante un teschio e una corona, una figura molto simile al Jolly Roger che usava il mio avo. Non lo avevo notato prima, forse per disattenzione o forse perché era coperto di terra e polvere che erano state spazzate via dalla pioggia; dopo questa scoperta, però, mi si rasserenò lo spirito: dopo aver passato gran parte della giornata in vane ricerche, ero riuscito a trovare quasi per caso il punto dove avrei dovuto continuare i miei lavori. Decisi per prima cosa di disegnare una mappa del luogo, quindi tornai sotto l’arco, all’asciutto; con carta e penna, poi, disegnai in modo approssimativo il muro di cinta, la posizione dove si trovava l’arco e i punti, all’interno del cortile, dove si trovavano i cumuli più grossi di macerie. Anche se il muro di cinta era crollato per gran parte della lunghezza totale, potei stimare che l’appezzamento di terra del mio avo era un quadrato di circa cento metri di lato. L’arco d’ingresso era sul lato est, mentre a sud doveva trovarsi la parte abitata dell’edificio. Le stalle, apparentemente, si trovavano a nord‐ovest, a ridosso dell’angolo del muro di cinta, che in quel punto era ancora in piedi. In quel punto il terreno non era pianeggiante, ma si vedeva una piccola collina alta non più di quattro metri, la cui cima arrotondata si trovava all’interno del confine. Segnai tutti questi dettagli sulla mappa che mi ero disegnato, ma rimandai all’indomani ulteriori perlustrazioni dell’antica proprietà, perché stava cominciando a calare il sole e l’idea di tornare al rifugio al buio in mezzo a tutto quel fango non mi piaceva per niente, tanto più che non mi ero portato la torcia e, con il terreno in quelle condizioni, i movimenti erano più faticosi. VIII. Mancava ancora un po’ di tempo prima del crepuscolo quando varcai la soglia del rifugio, tuttavia il cielo reso scuro dalle nubi non consentiva una buona visibilità, tant’è che guardando dalle finestre a sud si faceva fatica a intravvedere la stazione ferroviaria. In ogni caso, la pioggia cessò un paio d’ore più tardi; approfittai del rientro anticipato per dare una ripulita ai pantaloni e agli stivali, che erano tutti inzuppati di fanghiglia. Pensai che la desertificazione di quel luogo fosse dovuta alle Rovine 9 Rev00 piogge acide, più che a qualche strana maledizione. In serata, dopo aver consumato una cena frugale, passai di nuovo in rassegna tutti i documenti in mio possesso in cerca di qualche altro indizio che potesse essermi sfuggito fino ad allora, soprattutto nei diari scritti dai figli del “Demone” quando erano bambini. In effetti, trovai il racconto di un episodio piuttosto curioso, risalente al periodo in cui il mio avo, ritiratosi a vita privata, aveva ripreso a dedicare molto tempo ai suoi studi sull’occulto. In quelle pagine si raccontava che una sera, a tarda ora, il “Demone” si era chiuso nel suo studio, dopo aver come al solito proibito a chiunque di entrare. L’autore dello scritto era a letto, però non riusciva ad addormentarsi; quindi si alzò e andò in direzione della biblioteca, dove sicuramente avrebbe trovato qualche libro che gli conciliasse il sonno. Quando fu in corridoio, però, con la coda dell’occhio vide qualcosa di strano fuori dalla finestra. Avvicinandosi, vide in fondo al cortile suo padre che si stava allontanando verso le stalle, nell’oscurità; andò quindi dove si trovava l’ingresso dello studio, naturalmente chiuso a chiave; spiando dalla serratura, si accorse che dentro, anche se non c’era nessuno, le candele erano comunque accese. Il giorno dopo, domandò a suo padre come mai fosse andato verso la stalla a quell’ora, ma egli rispose, con tono seccato, che era andato solo per un momento nella stalla a recuperare una cosa che aveva dimenticato nella sua borsa da sella, la quale si trovava, ovviamente, sul cavallo; il ragazzo non disse altro, ma non fu soddisfatto dalla risposta, visto che quella notte aveva tardato a prendere sonno e aveva udito suo padre tornare in casa circa due ore più tardi del momento in cui l’aveva visto allontanarsi. Leggendo questo episodio, mi parve ovvio che ci dovesse essere qualcosa di strano e misterioso nella stalla, o per lo meno, qualcosa che il “Demone” voleva nascondere a tutti i costi. Decisi, quindi, che il giorno successivo avrei concentrato le mie indagini nell’area dove si trovava la stalla, rovistando tra i sassi e le macerie che ricoprivano il terreno in quel punto. Quella notte tardai a prendere sonno per l’adrenalina dovuta al fatto di aver trovato la strada giusta. Ad un certo punto stavo per assopirmi, quando un altro strano rumore ruppe il silenzio notturno facendomi sussultare, così come era successo la sera precedente e anche quello stesso giorno, quando mi trovavo presso i resti del muro di cinta. Come le altre volte, si trattava del lamento di un animale e la provenienza sembrava essere la medesima. Ci doveva essere qualcosa di molto strano oltre le mura a nord‐ovest delle rovine, pensai tornando a sdraiarmi sul mio giaciglio, ma ancora non potevo immaginare a cosa sarei andato incontro più tardi! Rovine 10 Rev00 IX. L’indomani mattina ripartii di buon’ora per raggiungere i resti dell’antica proprietà del mio avo, impiegando relativamente poco tempo dal momento che ormai conoscevo il percorso e visto che, nonostante l’abbondante pioggia del giorno prima, il terreno era in gran parte asciutto; soltanto alcune pozzanghere più o meno ampie erano sparse sul suolo circostante, a una certa distanza le une dalle altre. Anche se il sole ora splendeva nel cielo limpido riscaldando parecchio l’aria, non potei fare a meno di notare che il terreno aveva assorbito l’acqua più rapidamente di quanto mi aspettassi, tornando addirittura polveroso in certi punti già di prima mattina. Una volta arrivato sul posto, andai come progettato a rovistare tra le macerie e i sassi che un tempo erano la stalla. In quel punto ero abbastanza vicino alla collinetta che si trovava sull’angolo nord‐ovest della proprietà; guardandola attentamente, notai che sulla sua sommità cresceva un po’ d’erba. La cosa mi stupì non poco, visto che già altrove nella zona avevo notato dell’erba, ma si trattava di sporadici ciuffi giallognoli e rinsecchiti, mentre sulla collina si poteva dire che ci fosse un piccolo praticello. Spinto dalla curiosità, salii in cima e potei constatare che in quel punto il terreno era molto più friabile che altrove, oltre che più fertile; la cosa più interessante, però, si trovava oltre le mura di cinta. Guardando oltre i massi che anticamente segnavano il confine della tenuta, si vedeva che l’erba continuava a ricoprire il terreno per qualche metro e addirittura cresceva qualche piccolo arbusto; inoltre, su quel lato, la collinetta scendeva bruscamente e alla base pareva ci fosse un piccolo foro. Sicuramente, pensai, doveva trattarsi dell’ingresso della tana di qualche piccolo roditore. Decisi, in ogni caso, di rimandare le ricerche in quella zona a più tardi, per concentrarmi sulle macerie della stalla. Nonostante fossero passati secoli, le basi dei pilastri che sostenevano la struttura spuntavano ancora fuori dal terreno e due di esse arrivavano a circa un metro di altezza. La parete posteriore coincideva con il muro di cinta e nel mezzo non era rimasto molto: soltanto sassi sparsi sul terreno qua e là. Verso la parete posteriore, comunque, alcune pietre erano ancora coese e davano l’idea che una volta dovessero servire come ripiano per sedersi o per appoggiare gli strumenti da lavoro. Alcuni centimetri sotto lo strato superficiale di terreno c’erano ancora pietre, ma niente di significativo. Pensai allora di continuare a scavare vicino al muro di cinta, andando verso la collinetta aiutandomi con una piccozza di piccole dimensioni che avevo trovato al rifugio. Lungo la parete, andando verso la collina, quella sorta di ripiano continuava a rimanere sullo stesso livello, quindi provai a scavare con la piccozza per alcuni metri in orizzontale lungo la parete, per scoprire dove finiva questo ripiano. Con mia somma sorpresa, dopo aver faticato non poco per scoprire un po’ gli spigoli, notai Rovine 11 Rev00 che il ripiano, ad un certo punto, faceva una svolta ad angolo retto verso il centro del cortile. Dedussi, a quel punto, che esso, in realtà, doveva essere la sommità della stalla, su cui all’epoca era appoggiato il tetto. Se fosse stato così, i pilastri che avevo notato prima dovevano essere ancora pressappoco delle loro dimensioni originali. Questo significava che la collinetta, in realtà, doveva essere una parte di edificio che era rimasta in piedi e poi sepolta o, nella peggiore delle ipotesi, un cumulo di macerie che, col passare dei secoli, si erano ricoperte di terra, però quest’ultima ipotesi mi convinceva poco. Ormai dovevo essere vicino, pensai, e decisi che era arrivato il momento di scoprire cosa nascondeva quella collina. Oltrepassai le mura e mi diressi sul versante opposto dell’altura, dove si trovava l’ingresso della tana che avevo scorto prima. X. Cominciai a scavare e andai avanti per non so quante ore; quasi non mi accorgevo nemmeno di far fatica, preso com’ero dall’euforia e dalla curiosità di sapere cosa, da secoli, era sepolto sotto quell’unico punto di terreno fertile in mezzo al deserto di Borgoblivione, in cui sembrava che la vita fosse stata messa al bando in tutte le sue forme. Ovunque tranne che in quel punto. Lì e solo lì cresceva vegetazione. Lì e solo lì dei piccoli animali avevano scavato la loro dimora. Proprio per questo motivo, il punto in cui avevo cominciato gli scavi si trovava spostato di un paio di metri dall’ingresso della tana; tuttavia, si vede che avevo disturbato i suoi abitanti, perché ad un tratto, udii uno squittio e poco dopo vidi un topolino sbucare fuori dall’imboccatura. Lo guardai con un sorriso, quasi incredulo nel vedere qualcosa che si muovesse dopo giorni che mi trovavo da solo e fui contento di avere un po’ di compagnia; anzi, quando decisi di fare uno spuntino, gli diedi un pezzo di pane, che divorò avidamente. Ripresi a scavare, scavare e scavare; sempre più in basso, sempre di più nel cuore della collina. Altri due topolini uscirono dalla tana e si misero a discutere nel loro linguaggio con il primo che già da un po’ mi teneva compagnia. Io, intanto, continuavo imperterrito nel mio lavoro e, quando il sole cominciò a tramontare, toccai le prime pietre del muro che si trovava sotto la collina. Continuai a scavare, scavare e scavare; sempre più rapidamente, senza curarmi del tempo che passava, senza rendermi conto dello squittire che aumentava intorno a me. Riuscii a portare alla luce una buona parte del muro e cominciai a intravvedere la sommità di un arco. Come prevedevo, sulla pietra di volta un bassorilievo raffigurava un teschio e una corona. I miei sforzi sarebbero presto stati premiati! Ad un tratto, sentii tirarmi i pantaloni dal basso. Guardai a terra e solo allora mi Rovine 12 Rev00 accorsi di essere circondato da una ventina di topi, alcuni dei quali stavano cominciando a rosicchiarmi il bordo dei calzoni. Cominciai dapprima a tentare di allontanarli agitando la piccozza per aria, ma senza alcun successo. Nonostante il mio amore per la natura e la mia contrarietà alla violenza contro gli animali, fui costretto a prendere delle misure estreme, per cui cominciai a eliminare i roditori a colpi di piccozza; i superstiti, noncuranti del sangue dei loro compagni che si stava spargendo tutt’intorno, continuavano ad attaccarsi ai miei calzoni, per cui fui costretto a massacrarli tutti quanti. Poi, finalmente, ci fu silenzio. Mi guardai intorno e rabbrividii pensando allo sterminio che avevo appena compiuto; poi, dopo aver fatto un bel respiro profondo, ripresi il lavoro da dove l’avevo interrotto; intanto il sole, a ovest, aveva cominciato a scendere sotto la linea dell’orizzonte. Quando fu notte, andai avanti a scavare al chiaro di luna e riuscii a delineare completamente l’arco; tuttavia il passaggio rimaneva ostruito da una parete di terra e detriti depositatisi nel corso dei secoli. Pertanto indossai un elmetto protettivo che avevo recuperato al rifugio e proseguii scavando in orizzontale, facendo attenzione a non provocare crolli che avrebbero potuto essermi fatali. Mi inoltrai per circa un metro, poi sentii cedere il muro di terra che mi trovavo davanti. Anche se l’elmetto avrebbe dovuto ripararmi, indietreggiai velocemente temendo il peggio, ma poi mi accorsi che avevo soltanto fatto crollare il diaframma di terra che mi impediva di passare attraverso l’arco. Accesi la mia torcia elettrica ma, appena la puntai verso l’interno, udii uno strillo e un battito di ali che mi fecero sussultare e per poco la pila non mi cascò di mano. Alcuni pipistrelli, disturbati dal fascio di luce, volarono verso l’esterno e si allontanarono. Tornai ad illuminare l’interno e potei constatare che l’arco portava verso una piccola stanza dal soffitto di pietra, che aveva retto per secoli, nonostante quasi tutto, nei dintorni, fosse crollato. Evidentemente, questa parte dell’edificio era stata costruita in modo da essere molto solida e il tempo era riuscito soltanto a seppellirla sotto un cumulo di terra senza distruggerla. Era quasi notte fonda quando varcai la soglia e per la prima volta dopo secoli dei piedi umani tornarono a calcare quel suolo. XI. Mi trovavo in una stanza quadrata di piccole dimensioni, circa quattro metri di lato, completamente costruita con pietre levigate, pareti, soffitto a volta e pavimento. C’era un altro passaggio, nella parete di fronte a quella dove si trovava l’ingresso, che si apriva su una ripida rampa di scale che scendeva nell’oscurità. Dal basso proveniva una corrente d’aria fredda, ed il fatto che ci fossero dei sotterranei Rovine 13 Rev00 piuttosto ampi avrebbe potuto spiegare la presenza dei pipistrelli nell’atrio dove mi trovavo. Senza indugiare oltre, mi apprestai a scendere la ripida rampa di scale, che mi sembrò interminabile. In effetti, una volta giunto in fondo, stimai che dovevo trovarmi a circa una ventina di metri sotto terra; davanti a me partiva uno stretto corridoio, le pareti sempre costruite con pietre levigate, di cui non riuscivo a scorgere il fondo ed in cui la corrente d’aria fredda sembrava soffiare più forte. Forse fu soltanto il fischio del vento in una parte lontana della galleria, ma mi parve in quel momento di udire una sorta di ululato soffocato provenire da lontano. Mi fermai un momento per ascoltare attentamente, nel caso ci fossero altri strani suoni, ma il sibilare della corrente sotterranea non subì mutamenti degni di nota negli istanti successivi, quindi proseguii il mio cammino, torcia in una mano e piccozza nell’altra, in quel tunnel vecchio di secoli. Il corridoio proseguiva dritto, con eleganti colonne di marmo che interrompevano ad intervalli regolari le pareti; evidentemente la loro funzione era quella di sorreggere il soffitto del tunnel, tuttavia era innegabile che quel passaggio fosse stato costruito in quel modo per essere gradevole alla vista. Il mio avo, considerando anche l’epoca, non aveva badato a spese per la costruzione di quel budello. Fui sorpreso, infatti, quando ad un certo punto, tale eleganza terminò con un altro arco di pietra, attraversato il quale mi trovai nella nuda roccia; sembrava essere l’ingresso di una grotta naturale. Mi stupii ancora di più quando, esaminando la roccia delle pareti, notai alcune macchie di muschio. In questa grotta, evidentemente, si raccoglieva tutta l’umidità che veniva assorbita dal territorio circostante. Andando avanti, nell’esplorazione della caverna, incontrai ancora topi e pipistrelli, che in quel punto avevano parecchio spazio per vivere e non mi stavano addosso; ogni tanto trovai anche dei residui organici, escrementi di animali e piccole ossa. Quello che nel corridoio era semplicemente odore di chiuso, lì a volte si mescolava alla puzza di marcio. Provando a seguire percorsi diversi, alla fine trovai l’entrata di un’altra galleria artificiale, leggermente più larga del corridoio che avevo attraversato in precedenza, ma costruita in modo più grezzo; lì le pareti erano rivestite con pietre non levigate e ogni tanto erano interrotte da fenditure larghe almeno una spanna e lunghe circa un metro. Quest’altra galleria era ampia, ma piuttosto tortuosa; per percorrere i primi cinquanta metri dovetti cambiare direzione almeno quattro volte. Andai avanti per qualche altra decina di metri fino a quando, svoltata l’ennesima curva, vidi la luce. Pensai dapprima che fosse qualche strano riflesso, ma spegnendo la torcia eliminai qualunque dubbio: più avanti si trovava una fonte luminosa. Una curva più avanti c’era la fine del tunnel e, varcata l’uscita, vidi l’essenza di ciò Rovine 14 Rev00 che non dovrebbe esistere, una sorgente di Morte, qualcosa che la mente umana più malvagia non potrebbe nemmeno immaginare. XII. L’orrore che provocava in me quel luogo è qualcosa che difficilmente si può esprimere a parole, perché va ben al di là di quelle che sono le percezioni dei nostri cinque sensi, è qualcosa che soltanto vivendo ciò che ho passato io (e altri prima di me, nel corso dei secoli) si può capire. E’ qualcosa che scava nel profondo dell’anima, che esiste dentro di noi dalla nascita, ma che normalmente dorme per tutta la durata della vita; visitando quel luogo, questo orrore si sveglia e quando succede, ci si accorge che questa cosa terribile era in noi già dall’inizio, ci conosce da sempre e da quel momento ci tormenterà fino alla morte. Ma forse è inutile che io stia a descrivere cose impossibili da capire, quindi mi limiterò a raccontare ciò che di concreto ho visto e sentito, che, benché si tratti di cose oscene, terribili e spaventose, non sono niente in confronto all’orrore disumano che mi accompagnerà finché vivrò. Appena fuori dal tunnel più largo si trovava una grotta immensa, ben più ampia di quella che avevo precedentemente esplorato e al centro della quale si trovava un lago di liquido fosforescente, che illuminava l’ambiente quasi a giorno; ovunque mi girassi, vedevo vegetazione lussureggiante, in netto contrasto con il deserto che si trovava all’esterno, molti metri più in alto. C’erano anche animali di diverse specie, come ebbi modo di vedere; più che altro c’erano roditori, ma anche alcuni mammiferi di altre specie, come cani e lupi, che mi guardai bene dall’avvicinare. Nell’aria vidi volare diversi uccelli e sul terreno erboso vidi anche qualche lucertola; era come un piccolo mondo sotterraneo, che all’inizio mi riempì di meraviglia. Decisi poi di avvicinarmi a quello strano lago fosforescente per capire di che strano tipo di sostanza si trattasse, ma quando fui a pochi metri dalla riva, fui quasi accecato dal bagliore che emanava e sentii dentro la mia testa qualcosa che pulsava; capii a quel punto che un’entità malvagia si era introdotta nella mia mente. Cominciai allora ad avere alcune visioni; prima di tutto esse erano sagome non ben definite con sfumature di colori non appartenenti a questo mondo, ma le mie percezioni, poi, si fecero più chiare. Vidi una figura umana che si avvicinava lentamente. Quando arrivò a pochi passi di distanza, indietreggiai stupefatto, vedendo me stesso, come se fossi davanti ad uno specchio. La mia proiezione fu quindi attraversata da un fascio di luce e si disintegrò con una fragorosa esplosione, mentre nel frattempo sentivo dolori in tutto il corpo. Dopo alcuni istanti, il dolore Rovine 15 Rev00 cessò e ripresi a vedere normalmente. Mi accorsi, quindi, di alcuni grugniti che rimbombavano tra le pareti della grotta. All’inizio, guardandomi in giro non vidi niente di minaccioso; alcuni minuti dopo, però, vidi alcuni cinghiali che, da lontano, stavano correndo nella mia direzione, seguiti da cani selvatici, lupi e altre belve. In preda al terrore, cominciai a correre più veloce che potevo verso il tunnel da cui ero arrivato. Avevo il cuore in gola e le mie gambe si muovevano a ritmo forsennato, ma guardandomi indietro, le bestie erano sempre più vicine. In preda al panico, lasciai cadere a terra il mio zaino per correre più velocemente e, finalmente, raggiunsi l’imboccatura della galleria larga. Appena mossi i primi passi al suo interno sentii un rumore assordante, qualcosa di vagamente simile al barrito di un elefante, ma amplificato di diverse volte; i brividi percorrevano il mio corpo e mi stavano facendo impazzire. Sentivo i cinghiali, dietro di me, che si avvicinavano sempre di più. Udii un altro mostruoso barrito e sentii il terreno vibrare sotto i miei piedi. Incespicando, continuai la mia fuga, seguendo le curve della tortuosa galleria, col suolo che mi tremava sotto i piedi. Guardai un’altra volta all’indietro e vidi i cinghiali ormai vicinissimi, a meno di venti metri da me. Urlai dalla disperazione, ma continuai a correre, conscio dell’inutilità dei miei movimenti. Un altro verso bestiale, molto più forte dei precedenti, fu sprigionato dalle viscere della terra e le fenditure che si trovavano sulle pareti della galleria si aprirono in abissali bocche assetate di sangue, ingoiando le belve che mi inseguivano. Il terreno oscillava sotto i miei piedi, mentre cercavo di sfuggire al massacro. Denti di pietra e fango macinavano gli animali dietro di me, e intanto si levavano urla e ululati di primitiva disperazione, suoni abominevoli che non avrei mai potuto dimenticare. Fu in quel frangente che mi ricordai di quella frase che diceva “le pareti sono vive e mangiano qualunque cosa vi capiti attraverso”, che avevo letto nelle antiche carte trovate in casa dei nonni. Ora avevo visto tutto questo! Avevo vissuto l’orrore! Dopo un’altra corsa che mi parve interminabile raggiunsi la grotta più piccola, dove si trovavano ratti e pipistrelli, poi un luccichio, sprigionatosi da un punto non ben definito nell’oscurità, mi abbagliò ed ebbero inizio altre visioni. Fui colto dalle vertigini e caddi per terra, quando davanti agli occhi vidi un’altra immagine del mio corpo mentre veniva tagliato in due. Urlai per il dolore con tutto il fiato che avevo in corpo e per diversi minuti rimasi per terra, paralizzato dal terrore, mentre il mio sguardo girava tutto intorno, abbracciando la volta della caverna illuminata dalla mia torcia, con i pipistrelli che volteggiavano in circolo strillando e con i topi che mi camminavano sopra. Al limite della pazzia, cominciai ad agitare la piccozza a caso, colpendo qualche animale e spruzzando di rosso le pareti. Ad un certo punto riuscii ad alzarmi in piedi e ripresi a correre a perdifiato, ma ormai avevo completamente perso il lume della ragione e non saprei dire con precisione cosa accadde poi. Rovine 16 Rev00 XIII. Mi risvegliai all’aperto, sdraiato sotto il sole di mezzogiorno che bruciava la terra arida e i sassi delle rovine, sparsi qua e là. Ero febbricitante e avevo braccia e gambe coperte di polvere e sangue rappreso; sulla mia destra la mia torcia era ancora accesa, ma la batteria era ormai arrivata quasi alla fine e la lampada all’interno produceva una luce fioca, quasi invisibile sotto il sole splendente. Mi rialzai in piedi, ancora tremante, e mi trascinai lentamente verso il rifugio, zoppicando per il dolore. Evidentemente, durante la fuga, ero caduto urtando il ginocchio contro un sasso. La mia mente era completamente offuscata dagli orrori che avevo vissuto e ancora non riuscivo a formulare dei pensieri sensati. La mia testa continuava a pulsare e la febbre aumentava, senza darmi tregua. Barcollando, riuscii a guadagnare l’ingresso del rifugio; sebbene avessi raggiunto un riparo, non ebbi alcuna sensazione di conforto, perché ormai il Male si era impadronito di me. Ormai stentavo a rimanere in piedi e, dopo aver serrato l’uscio, mi abbandonai ad un sonno senza sogni sulla brandina. Adesso sono sveglio e mi sento leggermente meglio, anche se la febbre è sempre molto alta; per lo meno riesco a stare in piedi senza soffrire eccessivamente. Ho appena raccolto tutte le vecchie carte e i documenti antichi che parlavano del mio avo e, appena avrò finito di scrivere queste mie memorie, le farò sparire tra le fiamme, sperando che a nessun altro mai venga in mente di indagare sul “Demone dell’oro”, magari pensando di trovare un tesoro sepolto e arricchirsi. L’unica ricchezza rimasta è rappresentata dal Male; dall’entità occulta a cui il mio avo si era votato e a cui ha dovuto soccombere e che tuttora dimora sotto terra, assorbendo come un parassita la vita da questo territorio, desertificando tutto. Appena avrò bruciato le carte, se le forze rimaste me lo concederanno, tornerò all’ingresso dell’inferno e lo seppellirò così com’era prima del mio arrivo, sigillando sotto la terra e le pietre quel luogo blasfemo e abominevole per il tempo più lungo possibile. Spero di farcela, ma credo che non sopravvivrò ancora a lungo; nei racconti scritti sulle mie carte, chi nei tempi passati era uscito vivo da quel luogo, era sempre stato trovato febbricitante ed in preda al delirio e moriva dopo poco tempo. Nel caso in cui io non dovessi tornare, prego chiunque legga questo mio resoconto di chiudere per sempre la bocca dell’inferno. Il punto dove si trova è indicato sulla mappa che ho lasciato sul tavolino. E’ una mappa disegnata in modo approssimativo, ma è semplice da interpretare. Lo ripeto: se trovate queste pagine nel rifugio di Borgoblivione, prendete subito un badile e andate a seppellire la porta dell’inferno nella speranza che rimanga chiusa per sempre. Vi prego!