Rovine
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Gabriele
Boscato
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300,
San
Francisco,
California,
94105,
USA.
Rev00
‐
25/06/08
Rovine
2
Rev00
I.
Credo
che
brucerò
tutto...
sì,
farò
sparire
per
sempre
tutti
i
documenti
e
le
carte
risalenti
a
quell'epoca
antica,
perché
è
bene
che
la
gente
non
possa
neanche
pensare
che
certe
cose
talmente
orribili
e
blasfeme
possano
esistere.
La
mia
stessa
vita
è
stata
rovinata
senza
rimedio
da
ciò
che
ho
visto
e
da
ciò
che
mi
è
successo;
forse
soltanto
l’arrivo
della
morte
potrà
darmi
pace.
L'unica
testimonianza
di
ciò
che
è
stato
rimarranno
queste
mie
memorie
che
sto
scrivendo,
e
che
forse
dovrò
lasciare
qui
a
voi,
per
indicare
il
modo
in
cui
il
Male
può
essere
evitato.
Ora
racconterò
tutta
la
vicenda
dal
principio,
in
modo
che
chiunque
legga
possa
avere
anche
soltanto
una
piccola
idea
delle
mostruosità
che
ho
affrontato
e
a
cui
sono
scampato,
ma
non
oserei
dire
per
fortuna...
Sì,
partirò
raccontando
del
mio
viaggio
di
andata,
in
quel
maledetto
pomeriggio
di
afa
infernale.
Non
potevo
certo
immaginare
cosa
mi
aspettava…
non
potevo
sapere
niente
quando
mi
trovavo
su
quel
treno.
I
binari
correvano
dritti
sulla
terra
arida
e
infuocata,
verso
est,
e
a
perdita
d'occhio
non
c'era
neanche
un
accenno
di
curvatura.
Nonostante
il
sole
stesse
già
tramontando
fra
le
nubi
rossastre,
la
calura
era
ancora
opprimente
e
la
mia
gola
continuava
a
bruciare.
Guardando
dai
finestrini,
cominciavo
già
a
intravvedere
alcune
sagome
contorte
che
spuntavano
in
modo
irregolare
dal
terreno,
a
nordest.
Si
trattava
delle
rovine
di
un
antico
villaggio,
il
cui
nome
si
era
perso
nell'immensità
del
tempo,
e
che
si
pensava
fosse
stato
raso
al
suolo
a
causa
di
una
maledizione.
Mi
sembrava
totalmente
folle
che
ai
nostri
tempi
vi
fossero
ancora
certe
superstizioni,
ma
pensai
che
evidentemente
qualcosa
di
molto
strano
e
misterioso
dovesse
essere
successo
davvero,
visto
che
i
pochi
abitanti
rimasti
nella
provincia
tendevano
ad
evitare
di
passare
da
quelle
parti
e
chiamavano
ormai
da
secoli
queste
rovine
col
nome
di
“Borgoblivione”,
a
testimonianza
della
voglia
di
far
cadere
nell’oblio
quel
luogo
desolato.
Il
trenino
cominciò
a
rallentare
la
sua
corsa,
perché
ormai
mancava
poco
alla
stazione;
allora
raccolsi
i
miei
bagagli
e
mi
avvicinai
alla
porta
in
attesa
dell'arrivo.
Non
fui
sorpreso
di
notare
che
nessun'altra
persona
scendesse
a
questa
fermata;
d'altra
parte
la
stazione
di
Borgoblivione
era
forse
la
meno
utilizzata
dell'intera
rete
ferroviaria.
L'unica
ragione
per
cui
non
era
ancora
stata
chiusa
e
abbandonata
era
perché
ogni
tanto
qualche
studioso
voleva
effettuare
delle
ricerche
scientifiche
nell'area
delle
rovine.
Molto
tempo
fa
vi
erano
anche
dei
turisti,
attratti
dal
mistero
che
avvolgeva
quella
località,
ma
dopo
alcuni
casi
di
persone
scomparse
o
impazzite,
nessuno
ha
più
pensato
di
passare
le
vacanze
in
quella
zona.
Io
non
ero
andato
lì
come
turista,
e
le
ricerche
che
dovevo
compiere
erano
di
carattere
tutt'altro
che
scientifico:
pensavo
che
se
le
leggende
attorno
alla
mia
famiglia
avessero
avuto
almeno
un
fondo
di
verità
e
se
gli
scritti
che
avevo
trovato
Rovine
3
Rev00
nel
baule
in
soffitta
a
casa
dei
nonni
fossero
stati
veramente
documenti
appartenuti
a
un
mio
antenato,
sarei
tornato
a
casa
immensamente
ricco
e
avrei
forse
scoperto
il
nome
originale
di
Borgoblivione.
II.
Il
trenino
ripartì
pochi
secondi
dopo
la
mia
discesa
e,
non
appena
fu
lontano,
tutto
ciò
che
si
poteva
udire
era
il
silenzio
assoluto,
interrotto
soltanto
dal
rumore
dei
miei
passi
sulla
banchina
di
cemento.
L'edificio
della
stazione
era
quasi
del
tutto
spoglio
e
piuttosto
cadente:
al
suo
interno
vidi
una
panchina
dalla
vernice
scrostata,
un
distributore
automatico
di
biglietti
e
un
telefono
a
muro.
Invece
di
un
cartello
con
gli
orari
dei
treni,
c'era
una
semplice
scritta
che
diceva:
“Il
treno
per
Pozzago
passa
tutti
i
giorni
alle
ore
17.30.”,
e
su
una
parete
vidi
appeso
un
estintore
coperto
di
polvere,
la
cui
ultima
revisione
risaliva
a
10
anni
prima.
Uscii
dalla
stazione
e
imboccai
la
strada
in
terra
battuta
che
portava
al
villaggio.
Lungo
il
percorso
si
trovava
una
sorta
di
rifugio,
costruito
molto
tempo
prima
grazie
ai
finanziamenti
di
un'associazione
scientifica,
e
lì
mi
sarei
sistemato
per
qualche
giorno,
finché
fossero
durate
le
mie
ricerche.
Dopo
alcuni
minuti
di
cammino
arrivai
al
rifugio,
che
distava
da
Borgoblivione
circa
due
chilometri.
L'edificio
era
spartano
ma
confortevole:
acqua
corrente,
energia
elettrica
e
linea
telefonica
arrivavano
lì,
come
alla
stazione
del
treno,
dal
centro
abitato
più
vicino,
Dolligno,
situato
circa
trenta
chilometri
più
a
sud.
Nella
sala
più
ampia
si
trovavano
anche
diversi
elettrodomestici,
che
avrebbero
consentito
a
chiunque
di
vivere
lì
fino
all'esaurimento
delle
proprie
provviste.
Entrai
in
una
camera
e
sistemai
i
miei
bagagli;
poi
presi
in
mano
i
documenti
trovati
nel
baule
dei
nonni
e
alcuni
appunti
riguardanti
la
storia
della
mia
famiglia
che
avevo
preso
qualche
giorno
prima
e
cominciai,
per
l'ennesima
volta,
a
leggerli...
III.
Secondo
le
informazioni
che
ero
riuscito
a
raccogliere,
un
mio
avo
(di
cui
terrò
nascosto
il
vero
nome
per
evitare
che
qualcuno,
leggendo
queste
mie
memorie,
sia
tentato
di
scoprire
qualcosa
a
suo
riguardo)
fu
uno
dei
primi
pirati
delle
Antille.
Partito
giovanissimo
per
l’America
centrale
in
cerca
di
fortuna,
riuscì
in
pochi
anni
ad
accumulare
un
patrimonio
considerevole
grazie
alla
pirateria.
Questo
mio
antenato,
nel
corso
degli
anni,
sarebbe
entrato
in
contatto
con
alcuni
stregoni
di
Haiti
e
Rovine
4
Rev00
sarebbe
stato
iniziato
alle
pratiche
magiche
Vodou,
avvolgendosi
così
in
un
alone
di
mistero.
Divenne
quindi
molto
temibile
e
immensamente
ricco,
perciò
fu
soprannominato
“Demone
dell'oro”
dagli
altri
pirati.
Nessuno
sapeva
dove
egli
nascondesse
il
suo
tesoro
ma
pare
che
ogni
tanto
sparisse
dalla
circolazione
per
diversi
mesi
e
tornasse
nel
Vecchio
Mondo
per
depositare
in
un
luogo
segreto
i
proventi
di
anni
di
pirateria.
Il
“Demone”,
quando
raggiunse
una
certa
età,
decise
di
abbandonare
la
pirateria
e
di
trascorrere
in
modo
un
po'
più
tranquillo
gli
anni
che
gli
restavano
da
vivere.
Ritornò,
quindi,
nella
sua
terra
natia
–
stavolta
definitivamente
–
e
cominciò
una
nuova
vita:
si
fece
costruire
un'elegante
villa
nella
periferia
della
sua
città
e
si
fidanzò
con
una
giovane
donna
appartenente
alla
piccola
nobiltà
del
luogo,
la
quale
sembrava
essere
enormemente
affascinata
dall'ex‐pirata,
nonostante
la
differenza
di
età.
Quando
arrivò
il
momento
di
chiederla
in
sposa
a
suo
padre,
quest'ultimo
non
ebbe
niente
da
obiettare,
perché
il
mio
avo
era
particolarmente
benestante,
ma
anche
per
paura
della
magia
nera,
in
cui
sembrava
fosse
coinvolto,
stando
alle
voci
che
circolavano
tra
i
contadini.
Si
diceva
che
ogni
tanto
qualcosa
di
fuori
dal
comune
accadesse
nei
dintorni
della
villa,
come
sparizioni
di
capi
di
bestiame;
strani
suoni
simili
a
urli,
dalla
dubbia
provenienza,
e
inspiegabili
fenomeni
meteorologici
che
interessavano
la
zona:
si
parlava,
per
esempio,
di
brevi
nevicate
nel
mese
di
luglio,
concentrate
esclusivamente
nel
cortile
retrostante
la
casa,
mentre
nel
resto
del
paese
il
caldo
afoso
era
insopportabile.
Tante
erano
le
cose
che
si
dicevano,
ma
la
vita
in
quella
casa
sembrava
continuare
nel
modo
più
normale
possibile.
La
coppia
ebbe
tre
figli,
due
maschi
e
una
femmina,
e
ciò
contribuì
a
rendere
sempre
meno
credibili
le
voci
che
circolavano
tra
la
gente
e
a
sminuire
sensibilmente
l'oscuro
alone
di
mistero
che
circondava
la
figura
del
“Demone”:
ormai
sembrava
che
l'unico
segreto
rimasto
riguardasse
il
luogo
ove
doveva
trovarsi
l'oro
accumulato
durante
gli
anni
della
pirateria.
Tuttavia,
gli
anni
passavano,
e
il
mio
avo,
invecchiando,
appariva
ogni
giorno
più
accigliato
e
meditabondo.
Riprese
i
suoi
studi
sull'occultismo,
che
ormai
aveva
interrotto
da
molto
tempo,
e
ogni
giorno
rimaneva
rintanato
nel
suo
studio
per
ore
e
ore.
A
nessuno
era
concesso
sapere
cosa
facesse
di
preciso.
Perfino
a
sua
moglie
era
proibito
entrare
quando
stava
studiando.
Le
cose
continuarono
così
per
diversi
mesi,
fino
a
quando,
un
giorno,
sul
volto
del
“Demone”
tornò
il
sorriso,
che
era
sparito
da
parecchio
tempo.
A
chiunque
gli
chiedesse
delle
spiegazioni
in
merito,
egli
rispondeva
che
i
suoi
studi
ormai
erano
terminati
e
le
sue
preoccupazioni
erano
svanite,
perciò
si
riteneva
soddisfatto.
Dopo
un
certo
periodo
di
tranquillità,
però,
ricominciarono
a
circolare
delle
voci
riguardo
a
sparizioni
di
capi
di
bestiame
al
pascolo
nei
dintorni
della
villa.
La
maggior
parte
della
gente,
comunque,
tendeva
a
dare
poca
importanza
a
queste
storie,
fino
Rovine
5
Rev00
al
giorno
in
cui
un
giovane
pastore,
uscito
la
mattina
per
condurre
al
pascolo
il
suo
piccolo
gregge
di
pecore,
fece
ritorno
a
notte
inoltrata,
senza
animali
e
in
stato
di
shock.
Era
febbricitante
e,
tra
un
delirio
e
l'altro,
parlava
di
uno
spaventoso
luogo
sotterraneo
in
cui
“le
pareti
sono
vive
e
mangiano
qualunque
cosa
vi
capiti
attraverso”.
I
genitori
misero
a
letto
il
ragazzo
che,
in
preda
alle
convulsioni,
era
dolorante
e
continuava
a
dimenarsi.
La
mattina
seguente,
prima
che
i
dottori
potessero
diagnosticare
qualcosa,
il
giovane
morì
e
il
fatto
suscitò
un
certo
clamore
nel
villaggio.
Anche
se
non
fu
mai
chiarito
cosa
avesse
a
che
vedere
il
mio
avo
con
questo
fatto,
la
gente
cominciò
ad
evitare
di
frequentare
la
zona
e
il
vecchio
non
si
fece
più
vedere
in
giro.
Anche
della
moglie
non
si
seppe
più
niente;
i
figli,
invece,
furono
mandati
a
studiare
all'estero.
Gli
unici
abitanti
della
villa
che
continuavano
a
circolare
tra
la
gente
erano
i
servitori,
che
si
occupavano
degli
acquisti,
ma
nessuno
parlava
con
loro.
IV.
Quelle
erano
le
informazioni
in
mio
possesso.
Non
riuscii,
fino
a
quel
momento,
a
raccogliere
altri
fatti
salienti
riguardanti
la
vita
del
“Demone”,
se
si
esclude
una
lettera
inviata
ai
figli,
quasi
sicuramente
scritta
da
egli
stesso,
in
cui
raccomanda
loro
di
non
tornare
al
villaggio,
perché
“...il
male
sta
prendendo
il
sopravvento
e
risucchierà
la
vita
dalle
persone
e
dagli
animali;
anche
la
terra
non
darà
più
frutti
in
questo
luogo...”.
Tra
i
vari
fogli
ingialliti
e
divorati
dal
tempo,
trovai
anche
una
carta
geografica
dell'epoca,
raffigurante
la
contea
di
Dolligno.
Osservandola
bene,
notai
che
a
nord
di
Dolligno,
nell'attuale
“Borgoblivione”,
si
trovava
un
centro
abitato,
cerchiato
con
dell'inchiostro:
evidentemente
quello
era
il
villaggio
dove
viveva
il
mio
avo.
Peccato
soltanto
che
il
nome
di
questo
paese
fosse
illeggibile,
perché
in
quel
punto
la
carta
era
piuttosto
lacera,
essendo
vecchia
di
secoli.
In
una
biblioteca,
invece,
avevo
trovato
un
vecchio
opuscolo
turistico
con
una
mappa
che
rappresentava
la
struttura
delle
rovine
del
villaggio:
grazie
a
quella
mi
sarei
potuto
orientare
facilmente.
Guardandola
attentamente,
però,
non
riuscivo
a
capire
dove
si
trovassero
i
resti
della
villa
del
mio
avo,
per
cui
avrei
dovuto
per
prima
cosa
compiere
una
ricerca.
Avevo
un
solo
elemento
che
mi
poteva
aiutare:
si
trattava
dello
stemma
di
famiglia
ideato
dal
“Demone”
stesso:
un
Jolly
Roger
incoronato,
che
era
disegnato
sulle
sue
bandiere
usate
ai
tempi
della
pirateria.
Rovine
6
Rev00
V.
Quando
ebbi
finito
di
riguardare
tutti
i
documenti
e
gli
appunti,
cenai
con
del
pollo
con
patate
e
un
po'
d'acqua.
Avevo
provviste
sufficienti
per
circa
una
settimana,
ma
pensavo
di
tornare
prima.
Dopo
cena,
uscii
a
prendere
un
po'
d'aria.
Il
cielo
era
limpido
e
le
stelle
stavano
già
cominciando
a
popolarlo.
L'aria
era
fresca,
anche
se
fino
a
poche
ore
prima
si
moriva
di
caldo.
Mi
sembrava
strano
come
una
zona
abitata
da
contadini
fosse
diventata
arida
e
semidesertica,
rimanendo
in
quelle
condizioni
per
secoli.
E
mentre
ero
assorto
nei
miei
pensieri,
all’improvviso
un
rumore
ruppe
il
silenzio
di
quella
serata.
Il
suono
proveniva
da
lontano,
in
direzione
nord,
ed
era
simile
a
un
lamento,
ma
aveva
un
che
di
sinistro.
In
quel
momento
non
avrei
saputo
dire
che
cosa
ci
fosse
di
così
strano
in
quel
suono,
a
parte
il
fatto
che
nel
raggio
di
chilometri
il
territorio
era
in
pratica
del
tutto
desertificato
e
quindi
privo
di
vita...
o
forse
mi
sbagliavo;
magari
qualche
animale
notturno
si
era
svegliato
ed
era
uscito
dalla
sua
tana
sotterranea...
forse
era
semplicemente
il
buio
a
rendermi
inquieto,
pensai.
Non
sapendo
cosa
fare,
andai
a
prendere
una
torcia
a
lungo
raggio
che
avevo
portato
con
me,
e
uscii
a
perlustrare
la
zona
vicina
al
rifugio.
Imboccai
il
sentiero
per
il
villaggio
abbandonato
e
camminai
per
qualche
minuto,
fino
quasi
a
raggiungere
le
rovine.
Puntando
il
faro
in
tutte
le
direzioni,
non
vidi
niente
di
anomalo;
verso
nord
tutto
sembrava
tranquillo.
La
visione
delle
rovine
antiche,
illuminate
dalla
luce
della
torcia,
era
spettrale
e
non
mi
invogliava
di
certo
a
proseguire
il
cammino;
decisi
quindi
di
tornare
alla
base,
visto
che,
comunque,
non
c'era
nulla
di
insolito
da
vedere.
Ormai
stava
cominciando
a
essere
tardi,
perciò
andai
a
dormire:
volevo
cominciare
la
ricerca
la
mattina
presto,
in
modo
da
poter
stare
in
quel
posto
per
il
minor
tempo
possibile;
non
avevo
alcuna
intenzione
di
prolungare
la
mia
permanenza
più
del
necessario.
Per
il
resto
della
serata
non
sentii
altri
strani
suoni,
e
presi
sonno
abbastanza
in
fretta.
VI.
Il
giorno
successivo
mi
alzai
di
buon’ora;
il
sole
era
ancora
basso
a
est
quando,
zaino
in
spalla,
uscii
dal
rifugio
per
coprire
i
due
chilometri
di
distanza
che
mi
separavano
dalle
rovine.
In
pochi
minuti
arrivai
sul
posto
e
tirai
fuori
dalla
tasca
il
vecchio
depliant
turistico
con
la
mappa
del
luogo.
Anche
se
non
mi
forniva
indicazioni
specifiche,
quella
cartina
era
in
ogni
caso
un
ottimo
riferimento
che
mi
consentiva
di
Rovine
7
Rev00
orientarmi
tra
le
macerie,
che
viste
da
vicino,
alla
luce
del
sole,
sembravano
tutte
uguali.
Erano
anche
indicate
quelle
che,
secondo
i
ricercatori,
dovevano
essere
le
vie
del
centro
abitato.
Nel
giro
di
circa
tre
ore
riuscii
a
esplorare
tutte
le
vie
di
Borgoblivione
che
erano
indicate
sull’opuscolo
ma
notai
che
alcuni
cumuli
di
rovine
isolati
non
erano
segnalati
sulla
cartina,
quindi
presi
nota
su
un
foglio
di
tutti
i
punti
non
inclusi
ripromettendomi
di
visitarli
più
tardi.
Anche
se
non
sapevo
con
precisione
dove
andare
a
cercare,
sicuramente
dovevo
allontanarmi
dal
centro
del
complesso
di
rovine,
poiché
la
villa
del
mio
avo,
stando
ai
documenti
che
avevo
recuperato,
sorgeva
in
periferia.
Decisi
di
cominciare
l’ispezione
delle
rovine
isolate
procedendo
in
senso
orario,
partendo
da
quelle
che
si
trovavano
più
a
sud.
Il
lavoro
di
ricerca
non
era
certo
incoraggiante,
perché
quei
cumuli
di
macerie
sembravano
tutti
uguali
e,
sebbene
io
cercassi
qualche
segno
distintivo
o
delle
particolarità,
analizzando
pazientemente
i
sassi
più
grossi,
pareva
che
i
miei
sforzi
fossero
totalmente
inutili.
Nel
primo
pomeriggio,
per
di
più,
cominciò
anche
a
piovere.
Il
terreno
arido
e
sabbioso
non
impiegò
molto
tempo
a
trasformarsi
in
una
fanghiglia
giallastra
che,
oltre
a
sporcare,
rendeva
poco
agevole
il
cammino.
In
quel
momento
stavo
visitando
i
resti
di
un
edificio
che
si
trovava
a
nord‐ovest
rispetto
al
centro;
doveva
trattarsi
di
una
fattoria
o
di
una
grossa
villa,
pensai.
Alcune
parti
del
muro
di
cinta
erano
ancora
in
piedi
e,
nel
punto
in
cui
doveva
trovarsi
l’ingresso
del
cortile,
c’era
ancora
un
arco
che,
nonostante
tutto,
aveva
ancora
una
parvenza
di
solidità.
Decisi
di
andare
là
sotto
a
ripararmi,
nella
speranza
che
smettesse
di
piovere.
Quando
fui
al
coperto,
appoggiai
lo
zaino
a
terra
e
pranzai
con
un
po’
di
pane
e
salame.
Dopo
mangiato,
presi
in
mano
il
foglio
dove
mi
ero
segnato
i
punti
isolati
rimasti
da
esplorare
e
calcolai
rapidamente
che
mi
mancava
da
visitare
ancora
poco
più
di
metà
delle
rovine.
Se
il
tempo
si
fosse
rimesso,
avrei
potuto
farcela
a
terminare
il
giro
prima
di
sera,
mentre
se
avesse
continuato
a
piovere
sarebbe
stato
meglio
tornare
al
rifugio
e
continuare
l’esplorazione
il
giorno
successivo.
VII.
Passai
una
buona
mezz’ora
in
attesa
sotto
l’arco,
ma
sembrava
che
la
pioggia
non
avesse
intenzione
di
smettere;
anzi,
sembrava
aumentare
d’intensità.
Grosse
pozze
d’acqua
si
stavano
formando
tutto
intorno.
A
questo
punto,
ripresi
in
spalla
lo
zaino
con
l’intenzione
di
tornare
verso
il
rifugio;
dopo
alcuni
passi,
però,
udii
un
rumore
strano
in
mezzo
al
monotono
scrosciare
della
pioggia.
Sembrava
un
mugolio,
qualcosa
di
simile
al
guaito
di
un
cane
ferito.
Mi
girai
di
scatto
per
lo
stupore
e
il
suono
si
ripeté,
leggermente
prolungato
rispetto
a
prima.
Dopo
questo
rumore,
che
Rovine
8
Rev00
sembrava
provenire
da
oltre
il
muro
opposto
a
quello
dove
si
trovava
l’arco,
ritornò,
nella
sua
solitaria
monotonia,
lo
scrosciare
incessante
della
pioggia.
Rimasi
fermo
qualche
istante,
con
l’orecchio
teso
a
percepire
eventuali
altri
rumori,
ma
non
si
sentì
più
niente.
Stavo
per
riprendermi
dallo
stato
d’inquietudine
in
cui
quei
suoni
mi
avevano
mandato,
quando
il
mio
occhio
cadde
su
un
particolare
di
fondamentale
importanza:
la
pietra
che
fungeva
da
chiave
di
volta
nell’arco
sotto
il
quale
avevo
trovato
riparo,
aveva
scolpito
un
bassorilievo
rappresentante
un
teschio
e
una
corona,
una
figura
molto
simile
al
Jolly
Roger
che
usava
il
mio
avo.
Non
lo
avevo
notato
prima,
forse
per
disattenzione
o
forse
perché
era
coperto
di
terra
e
polvere
che
erano
state
spazzate
via
dalla
pioggia;
dopo
questa
scoperta,
però,
mi
si
rasserenò
lo
spirito:
dopo
aver
passato
gran
parte
della
giornata
in
vane
ricerche,
ero
riuscito
a
trovare
quasi
per
caso
il
punto
dove
avrei
dovuto
continuare
i
miei
lavori.
Decisi
per
prima
cosa
di
disegnare
una
mappa
del
luogo,
quindi
tornai
sotto
l’arco,
all’asciutto;
con
carta
e
penna,
poi,
disegnai
in
modo
approssimativo
il
muro
di
cinta,
la
posizione
dove
si
trovava
l’arco
e
i
punti,
all’interno
del
cortile,
dove
si
trovavano
i
cumuli
più
grossi
di
macerie.
Anche
se
il
muro
di
cinta
era
crollato
per
gran
parte
della
lunghezza
totale,
potei
stimare
che
l’appezzamento
di
terra
del
mio
avo
era
un
quadrato
di
circa
cento
metri
di
lato.
L’arco
d’ingresso
era
sul
lato
est,
mentre
a
sud
doveva
trovarsi
la
parte
abitata
dell’edificio.
Le
stalle,
apparentemente,
si
trovavano
a
nord‐ovest,
a
ridosso
dell’angolo
del
muro
di
cinta,
che
in
quel
punto
era
ancora
in
piedi.
In
quel
punto
il
terreno
non
era
pianeggiante,
ma
si
vedeva
una
piccola
collina
alta
non
più
di
quattro
metri,
la
cui
cima
arrotondata
si
trovava
all’interno
del
confine.
Segnai
tutti
questi
dettagli
sulla
mappa
che
mi
ero
disegnato,
ma
rimandai
all’indomani
ulteriori
perlustrazioni
dell’antica
proprietà,
perché
stava
cominciando
a
calare
il
sole
e
l’idea
di
tornare
al
rifugio
al
buio
in
mezzo
a
tutto
quel
fango
non
mi
piaceva
per
niente,
tanto
più
che
non
mi
ero
portato
la
torcia
e,
con
il
terreno
in
quelle
condizioni,
i
movimenti
erano
più
faticosi.
VIII.
Mancava
ancora
un
po’
di
tempo
prima
del
crepuscolo
quando
varcai
la
soglia
del
rifugio,
tuttavia
il
cielo
reso
scuro
dalle
nubi
non
consentiva
una
buona
visibilità,
tant’è
che
guardando
dalle
finestre
a
sud
si
faceva
fatica
a
intravvedere
la
stazione
ferroviaria.
In
ogni
caso,
la
pioggia
cessò
un
paio
d’ore
più
tardi;
approfittai
del
rientro
anticipato
per
dare
una
ripulita
ai
pantaloni
e
agli
stivali,
che
erano
tutti
inzuppati
di
fanghiglia.
Pensai
che
la
desertificazione
di
quel
luogo
fosse
dovuta
alle
Rovine
9
Rev00
piogge
acide,
più
che
a
qualche
strana
maledizione.
In
serata,
dopo
aver
consumato
una
cena
frugale,
passai
di
nuovo
in
rassegna
tutti
i
documenti
in
mio
possesso
in
cerca
di
qualche
altro
indizio
che
potesse
essermi
sfuggito
fino
ad
allora,
soprattutto
nei
diari
scritti
dai
figli
del
“Demone”
quando
erano
bambini.
In
effetti,
trovai
il
racconto
di
un
episodio
piuttosto
curioso,
risalente
al
periodo
in
cui
il
mio
avo,
ritiratosi
a
vita
privata,
aveva
ripreso
a
dedicare
molto
tempo
ai
suoi
studi
sull’occulto.
In
quelle
pagine
si
raccontava
che
una
sera,
a
tarda
ora,
il
“Demone”
si
era
chiuso
nel
suo
studio,
dopo
aver
come
al
solito
proibito
a
chiunque
di
entrare.
L’autore
dello
scritto
era
a
letto,
però
non
riusciva
ad
addormentarsi;
quindi
si
alzò
e
andò
in
direzione
della
biblioteca,
dove
sicuramente
avrebbe
trovato
qualche
libro
che
gli
conciliasse
il
sonno.
Quando
fu
in
corridoio,
però,
con
la
coda
dell’occhio
vide
qualcosa
di
strano
fuori
dalla
finestra.
Avvicinandosi,
vide
in
fondo
al
cortile
suo
padre
che
si
stava
allontanando
verso
le
stalle,
nell’oscurità;
andò
quindi
dove
si
trovava
l’ingresso
dello
studio,
naturalmente
chiuso
a
chiave;
spiando
dalla
serratura,
si
accorse
che
dentro,
anche
se
non
c’era
nessuno,
le
candele
erano
comunque
accese.
Il
giorno
dopo,
domandò
a
suo
padre
come
mai
fosse
andato
verso
la
stalla
a
quell’ora,
ma
egli
rispose,
con
tono
seccato,
che
era
andato
solo
per
un
momento
nella
stalla
a
recuperare
una
cosa
che
aveva
dimenticato
nella
sua
borsa
da
sella,
la
quale
si
trovava,
ovviamente,
sul
cavallo;
il
ragazzo
non
disse
altro,
ma
non
fu
soddisfatto
dalla
risposta,
visto
che
quella
notte
aveva
tardato
a
prendere
sonno
e
aveva
udito
suo
padre
tornare
in
casa
circa
due
ore
più
tardi
del
momento
in
cui
l’aveva
visto
allontanarsi.
Leggendo
questo
episodio,
mi
parve
ovvio
che
ci
dovesse
essere
qualcosa
di
strano
e
misterioso
nella
stalla,
o
per
lo
meno,
qualcosa
che
il
“Demone”
voleva
nascondere
a
tutti
i
costi.
Decisi,
quindi,
che
il
giorno
successivo
avrei
concentrato
le
mie
indagini
nell’area
dove
si
trovava
la
stalla,
rovistando
tra
i
sassi
e
le
macerie
che
ricoprivano
il
terreno
in
quel
punto.
Quella
notte
tardai
a
prendere
sonno
per
l’adrenalina
dovuta
al
fatto
di
aver
trovato
la
strada
giusta.
Ad
un
certo
punto
stavo
per
assopirmi,
quando
un
altro
strano
rumore
ruppe
il
silenzio
notturno
facendomi
sussultare,
così
come
era
successo
la
sera
precedente
e
anche
quello
stesso
giorno,
quando
mi
trovavo
presso
i
resti
del
muro
di
cinta.
Come
le
altre
volte,
si
trattava
del
lamento
di
un
animale
e
la
provenienza
sembrava
essere
la
medesima.
Ci
doveva
essere
qualcosa
di
molto
strano
oltre
le
mura
a
nord‐ovest
delle
rovine,
pensai
tornando
a
sdraiarmi
sul
mio
giaciglio,
ma
ancora
non
potevo
immaginare
a
cosa
sarei
andato
incontro
più
tardi!
Rovine
10
Rev00
IX.
L’indomani
mattina
ripartii
di
buon’ora
per
raggiungere
i
resti
dell’antica
proprietà
del
mio
avo,
impiegando
relativamente
poco
tempo
dal
momento
che
ormai
conoscevo
il
percorso
e
visto
che,
nonostante
l’abbondante
pioggia
del
giorno
prima,
il
terreno
era
in
gran
parte
asciutto;
soltanto
alcune
pozzanghere
più
o
meno
ampie
erano
sparse
sul
suolo
circostante,
a
una
certa
distanza
le
une
dalle
altre.
Anche
se
il
sole
ora
splendeva
nel
cielo
limpido
riscaldando
parecchio
l’aria,
non
potei
fare
a
meno
di
notare
che
il
terreno
aveva
assorbito
l’acqua
più
rapidamente
di
quanto
mi
aspettassi,
tornando
addirittura
polveroso
in
certi
punti
già
di
prima
mattina.
Una
volta
arrivato
sul
posto,
andai
come
progettato
a
rovistare
tra
le
macerie
e
i
sassi
che
un
tempo
erano
la
stalla.
In
quel
punto
ero
abbastanza
vicino
alla
collinetta
che
si
trovava
sull’angolo
nord‐ovest
della
proprietà;
guardandola
attentamente,
notai
che
sulla
sua
sommità
cresceva
un
po’
d’erba.
La
cosa
mi
stupì
non
poco,
visto
che
già
altrove
nella
zona
avevo
notato
dell’erba,
ma
si
trattava
di
sporadici
ciuffi
giallognoli
e
rinsecchiti,
mentre
sulla
collina
si
poteva
dire
che
ci
fosse
un
piccolo
praticello.
Spinto
dalla
curiosità,
salii
in
cima
e
potei
constatare
che
in
quel
punto
il
terreno
era
molto
più
friabile
che
altrove,
oltre
che
più
fertile;
la
cosa
più
interessante,
però,
si
trovava
oltre
le
mura
di
cinta.
Guardando
oltre
i
massi
che
anticamente
segnavano
il
confine
della
tenuta,
si
vedeva
che
l’erba
continuava
a
ricoprire
il
terreno
per
qualche
metro
e
addirittura
cresceva
qualche
piccolo
arbusto;
inoltre,
su
quel
lato,
la
collinetta
scendeva
bruscamente
e
alla
base
pareva
ci
fosse
un
piccolo
foro.
Sicuramente,
pensai,
doveva
trattarsi
dell’ingresso
della
tana
di
qualche
piccolo
roditore.
Decisi,
in
ogni
caso,
di
rimandare
le
ricerche
in
quella
zona
a
più
tardi,
per
concentrarmi
sulle
macerie
della
stalla.
Nonostante
fossero
passati
secoli,
le
basi
dei
pilastri
che
sostenevano
la
struttura
spuntavano
ancora
fuori
dal
terreno
e
due
di
esse
arrivavano
a
circa
un
metro
di
altezza.
La
parete
posteriore
coincideva
con
il
muro
di
cinta
e
nel
mezzo
non
era
rimasto
molto:
soltanto
sassi
sparsi
sul
terreno
qua
e
là.
Verso
la
parete
posteriore,
comunque,
alcune
pietre
erano
ancora
coese
e
davano
l’idea
che
una
volta
dovessero
servire
come
ripiano
per
sedersi
o
per
appoggiare
gli
strumenti
da
lavoro.
Alcuni
centimetri
sotto
lo
strato
superficiale
di
terreno
c’erano
ancora
pietre,
ma
niente
di
significativo.
Pensai
allora
di
continuare
a
scavare
vicino
al
muro
di
cinta,
andando
verso
la
collinetta
aiutandomi
con
una
piccozza
di
piccole
dimensioni
che
avevo
trovato
al
rifugio.
Lungo
la
parete,
andando
verso
la
collina,
quella
sorta
di
ripiano
continuava
a
rimanere
sullo
stesso
livello,
quindi
provai
a
scavare
con
la
piccozza
per
alcuni
metri
in
orizzontale
lungo
la
parete,
per
scoprire
dove
finiva
questo
ripiano.
Con
mia
somma
sorpresa,
dopo
aver
faticato
non
poco
per
scoprire
un
po’
gli
spigoli,
notai
Rovine
11
Rev00
che
il
ripiano,
ad
un
certo
punto,
faceva
una
svolta
ad
angolo
retto
verso
il
centro
del
cortile.
Dedussi,
a
quel
punto,
che
esso,
in
realtà,
doveva
essere
la
sommità
della
stalla,
su
cui
all’epoca
era
appoggiato
il
tetto.
Se
fosse
stato
così,
i
pilastri
che
avevo
notato
prima
dovevano
essere
ancora
pressappoco
delle
loro
dimensioni
originali.
Questo
significava
che
la
collinetta,
in
realtà,
doveva
essere
una
parte
di
edificio
che
era
rimasta
in
piedi
e
poi
sepolta
o,
nella
peggiore
delle
ipotesi,
un
cumulo
di
macerie
che,
col
passare
dei
secoli,
si
erano
ricoperte
di
terra,
però
quest’ultima
ipotesi
mi
convinceva
poco.
Ormai
dovevo
essere
vicino,
pensai,
e
decisi
che
era
arrivato
il
momento
di
scoprire
cosa
nascondeva
quella
collina.
Oltrepassai
le
mura
e
mi
diressi
sul
versante
opposto
dell’altura,
dove
si
trovava
l’ingresso
della
tana
che
avevo
scorto
prima.
X.
Cominciai
a
scavare
e
andai
avanti
per
non
so
quante
ore;
quasi
non
mi
accorgevo
nemmeno
di
far
fatica,
preso
com’ero
dall’euforia
e
dalla
curiosità
di
sapere
cosa,
da
secoli,
era
sepolto
sotto
quell’unico
punto
di
terreno
fertile
in
mezzo
al
deserto
di
Borgoblivione,
in
cui
sembrava
che
la
vita
fosse
stata
messa
al
bando
in
tutte
le
sue
forme.
Ovunque
tranne
che
in
quel
punto.
Lì
e
solo
lì
cresceva
vegetazione.
Lì
e
solo
lì
dei
piccoli
animali
avevano
scavato
la
loro
dimora.
Proprio
per
questo
motivo,
il
punto
in
cui
avevo
cominciato
gli
scavi
si
trovava
spostato
di
un
paio
di
metri
dall’ingresso
della
tana;
tuttavia,
si
vede
che
avevo
disturbato
i
suoi
abitanti,
perché
ad
un
tratto,
udii
uno
squittio
e
poco
dopo
vidi
un
topolino
sbucare
fuori
dall’imboccatura.
Lo
guardai
con
un
sorriso,
quasi
incredulo
nel
vedere
qualcosa
che
si
muovesse
dopo
giorni
che
mi
trovavo
da
solo
e
fui
contento
di
avere
un
po’
di
compagnia;
anzi,
quando
decisi
di
fare
uno
spuntino,
gli
diedi
un
pezzo
di
pane,
che
divorò
avidamente.
Ripresi
a
scavare,
scavare
e
scavare;
sempre
più
in
basso,
sempre
di
più
nel
cuore
della
collina.
Altri
due
topolini
uscirono
dalla
tana
e
si
misero
a
discutere
nel
loro
linguaggio
con
il
primo
che
già
da
un
po’
mi
teneva
compagnia.
Io,
intanto,
continuavo
imperterrito
nel
mio
lavoro
e,
quando
il
sole
cominciò
a
tramontare,
toccai
le
prime
pietre
del
muro
che
si
trovava
sotto
la
collina.
Continuai
a
scavare,
scavare
e
scavare;
sempre
più
rapidamente,
senza
curarmi
del
tempo
che
passava,
senza
rendermi
conto
dello
squittire
che
aumentava
intorno
a
me.
Riuscii
a
portare
alla
luce
una
buona
parte
del
muro
e
cominciai
a
intravvedere
la
sommità
di
un
arco.
Come
prevedevo,
sulla
pietra
di
volta
un
bassorilievo
raffigurava
un
teschio
e
una
corona.
I
miei
sforzi
sarebbero
presto
stati
premiati!
Ad
un
tratto,
sentii
tirarmi
i
pantaloni
dal
basso.
Guardai
a
terra
e
solo
allora
mi
Rovine
12
Rev00
accorsi
di
essere
circondato
da
una
ventina
di
topi,
alcuni
dei
quali
stavano
cominciando
a
rosicchiarmi
il
bordo
dei
calzoni.
Cominciai
dapprima
a
tentare
di
allontanarli
agitando
la
piccozza
per
aria,
ma
senza
alcun
successo.
Nonostante
il
mio
amore
per
la
natura
e
la
mia
contrarietà
alla
violenza
contro
gli
animali,
fui
costretto
a
prendere
delle
misure
estreme,
per
cui
cominciai
a
eliminare
i
roditori
a
colpi
di
piccozza;
i
superstiti,
noncuranti
del
sangue
dei
loro
compagni
che
si
stava
spargendo
tutt’intorno,
continuavano
ad
attaccarsi
ai
miei
calzoni,
per
cui
fui
costretto
a
massacrarli
tutti
quanti.
Poi,
finalmente,
ci
fu
silenzio.
Mi
guardai
intorno
e
rabbrividii
pensando
allo
sterminio
che
avevo
appena
compiuto;
poi,
dopo
aver
fatto
un
bel
respiro
profondo,
ripresi
il
lavoro
da
dove
l’avevo
interrotto;
intanto
il
sole,
a
ovest,
aveva
cominciato
a
scendere
sotto
la
linea
dell’orizzonte.
Quando
fu
notte,
andai
avanti
a
scavare
al
chiaro
di
luna
e
riuscii
a
delineare
completamente
l’arco;
tuttavia
il
passaggio
rimaneva
ostruito
da
una
parete
di
terra
e
detriti
depositatisi
nel
corso
dei
secoli.
Pertanto
indossai
un
elmetto
protettivo
che
avevo
recuperato
al
rifugio
e
proseguii
scavando
in
orizzontale,
facendo
attenzione
a
non
provocare
crolli
che
avrebbero
potuto
essermi
fatali.
Mi
inoltrai
per
circa
un
metro,
poi
sentii
cedere
il
muro
di
terra
che
mi
trovavo
davanti.
Anche
se
l’elmetto
avrebbe
dovuto
ripararmi,
indietreggiai
velocemente
temendo
il
peggio,
ma
poi
mi
accorsi
che
avevo
soltanto
fatto
crollare
il
diaframma
di
terra
che
mi
impediva
di
passare
attraverso
l’arco.
Accesi
la
mia
torcia
elettrica
ma,
appena
la
puntai
verso
l’interno,
udii
uno
strillo
e
un
battito
di
ali
che
mi
fecero
sussultare
e
per
poco
la
pila
non
mi
cascò
di
mano.
Alcuni
pipistrelli,
disturbati
dal
fascio
di
luce,
volarono
verso
l’esterno
e
si
allontanarono.
Tornai
ad
illuminare
l’interno
e
potei
constatare
che
l’arco
portava
verso
una
piccola
stanza
dal
soffitto
di
pietra,
che
aveva
retto
per
secoli,
nonostante
quasi
tutto,
nei
dintorni,
fosse
crollato.
Evidentemente,
questa
parte
dell’edificio
era
stata
costruita
in
modo
da
essere
molto
solida
e
il
tempo
era
riuscito
soltanto
a
seppellirla
sotto
un
cumulo
di
terra
senza
distruggerla.
Era
quasi
notte
fonda
quando
varcai
la
soglia
e
per
la
prima
volta
dopo
secoli
dei
piedi
umani
tornarono
a
calcare
quel
suolo.
XI.
Mi
trovavo
in
una
stanza
quadrata
di
piccole
dimensioni,
circa
quattro
metri
di
lato,
completamente
costruita
con
pietre
levigate,
pareti,
soffitto
a
volta
e
pavimento.
C’era
un
altro
passaggio,
nella
parete
di
fronte
a
quella
dove
si
trovava
l’ingresso,
che
si
apriva
su
una
ripida
rampa
di
scale
che
scendeva
nell’oscurità.
Dal
basso
proveniva
una
corrente
d’aria
fredda,
ed
il
fatto
che
ci
fossero
dei
sotterranei
Rovine
13
Rev00
piuttosto
ampi
avrebbe
potuto
spiegare
la
presenza
dei
pipistrelli
nell’atrio
dove
mi
trovavo.
Senza
indugiare
oltre,
mi
apprestai
a
scendere
la
ripida
rampa
di
scale,
che
mi
sembrò
interminabile.
In
effetti,
una
volta
giunto
in
fondo,
stimai
che
dovevo
trovarmi
a
circa
una
ventina
di
metri
sotto
terra;
davanti
a
me
partiva
uno
stretto
corridoio,
le
pareti
sempre
costruite
con
pietre
levigate,
di
cui
non
riuscivo
a
scorgere
il
fondo
ed
in
cui
la
corrente
d’aria
fredda
sembrava
soffiare
più
forte.
Forse
fu
soltanto
il
fischio
del
vento
in
una
parte
lontana
della
galleria,
ma
mi
parve
in
quel
momento
di
udire
una
sorta
di
ululato
soffocato
provenire
da
lontano.
Mi
fermai
un
momento
per
ascoltare
attentamente,
nel
caso
ci
fossero
altri
strani
suoni,
ma
il
sibilare
della
corrente
sotterranea
non
subì
mutamenti
degni
di
nota
negli
istanti
successivi,
quindi
proseguii
il
mio
cammino,
torcia
in
una
mano
e
piccozza
nell’altra,
in
quel
tunnel
vecchio
di
secoli.
Il
corridoio
proseguiva
dritto,
con
eleganti
colonne
di
marmo
che
interrompevano
ad
intervalli
regolari
le
pareti;
evidentemente
la
loro
funzione
era
quella
di
sorreggere
il
soffitto
del
tunnel,
tuttavia
era
innegabile
che
quel
passaggio
fosse
stato
costruito
in
quel
modo
per
essere
gradevole
alla
vista.
Il
mio
avo,
considerando
anche
l’epoca,
non
aveva
badato
a
spese
per
la
costruzione
di
quel
budello.
Fui
sorpreso,
infatti,
quando
ad
un
certo
punto,
tale
eleganza
terminò
con
un
altro
arco
di
pietra,
attraversato
il
quale
mi
trovai
nella
nuda
roccia;
sembrava
essere
l’ingresso
di
una
grotta
naturale.
Mi
stupii
ancora
di
più
quando,
esaminando
la
roccia
delle
pareti,
notai
alcune
macchie
di
muschio.
In
questa
grotta,
evidentemente,
si
raccoglieva
tutta
l’umidità
che
veniva
assorbita
dal
territorio
circostante.
Andando
avanti,
nell’esplorazione
della
caverna,
incontrai
ancora
topi
e
pipistrelli,
che
in
quel
punto
avevano
parecchio
spazio
per
vivere
e
non
mi
stavano
addosso;
ogni
tanto
trovai
anche
dei
residui
organici,
escrementi
di
animali
e
piccole
ossa.
Quello
che
nel
corridoio
era
semplicemente
odore
di
chiuso,
lì
a
volte
si
mescolava
alla
puzza
di
marcio.
Provando
a
seguire
percorsi
diversi,
alla
fine
trovai
l’entrata
di
un’altra
galleria
artificiale,
leggermente
più
larga
del
corridoio
che
avevo
attraversato
in
precedenza,
ma
costruita
in
modo
più
grezzo;
lì
le
pareti
erano
rivestite
con
pietre
non
levigate
e
ogni
tanto
erano
interrotte
da
fenditure
larghe
almeno
una
spanna
e
lunghe
circa
un
metro.
Quest’altra
galleria
era
ampia,
ma
piuttosto
tortuosa;
per
percorrere
i
primi
cinquanta
metri
dovetti
cambiare
direzione
almeno
quattro
volte.
Andai
avanti
per
qualche
altra
decina
di
metri
fino
a
quando,
svoltata
l’ennesima
curva,
vidi
la
luce.
Pensai
dapprima
che
fosse
qualche
strano
riflesso,
ma
spegnendo
la
torcia
eliminai
qualunque
dubbio:
più
avanti
si
trovava
una
fonte
luminosa.
Una
curva
più
avanti
c’era
la
fine
del
tunnel
e,
varcata
l’uscita,
vidi
l’essenza
di
ciò
Rovine
14
Rev00
che
non
dovrebbe
esistere,
una
sorgente
di
Morte,
qualcosa
che
la
mente
umana
più
malvagia
non
potrebbe
nemmeno
immaginare.
XII.
L’orrore
che
provocava
in
me
quel
luogo
è
qualcosa
che
difficilmente
si
può
esprimere
a
parole,
perché
va
ben
al
di
là
di
quelle
che
sono
le
percezioni
dei
nostri
cinque
sensi,
è
qualcosa
che
soltanto
vivendo
ciò
che
ho
passato
io
(e
altri
prima
di
me,
nel
corso
dei
secoli)
si
può
capire.
E’
qualcosa
che
scava
nel
profondo
dell’anima,
che
esiste
dentro
di
noi
dalla
nascita,
ma
che
normalmente
dorme
per
tutta
la
durata
della
vita;
visitando
quel
luogo,
questo
orrore
si
sveglia
e
quando
succede,
ci
si
accorge
che
questa
cosa
terribile
era
in
noi
già
dall’inizio,
ci
conosce
da
sempre
e
da
quel
momento
ci
tormenterà
fino
alla
morte.
Ma
forse
è
inutile
che
io
stia
a
descrivere
cose
impossibili
da
capire,
quindi
mi
limiterò
a
raccontare
ciò
che
di
concreto
ho
visto
e
sentito,
che,
benché
si
tratti
di
cose
oscene,
terribili
e
spaventose,
non
sono
niente
in
confronto
all’orrore
disumano
che
mi
accompagnerà
finché
vivrò.
Appena
fuori
dal
tunnel
più
largo
si
trovava
una
grotta
immensa,
ben
più
ampia
di
quella
che
avevo
precedentemente
esplorato
e
al
centro
della
quale
si
trovava
un
lago
di
liquido
fosforescente,
che
illuminava
l’ambiente
quasi
a
giorno;
ovunque
mi
girassi,
vedevo
vegetazione
lussureggiante,
in
netto
contrasto
con
il
deserto
che
si
trovava
all’esterno,
molti
metri
più
in
alto.
C’erano
anche
animali
di
diverse
specie,
come
ebbi
modo
di
vedere;
più
che
altro
c’erano
roditori,
ma
anche
alcuni
mammiferi
di
altre
specie,
come
cani
e
lupi,
che
mi
guardai
bene
dall’avvicinare.
Nell’aria
vidi
volare
diversi
uccelli
e
sul
terreno
erboso
vidi
anche
qualche
lucertola;
era
come
un
piccolo
mondo
sotterraneo,
che
all’inizio
mi
riempì
di
meraviglia.
Decisi
poi
di
avvicinarmi
a
quello
strano
lago
fosforescente
per
capire
di
che
strano
tipo
di
sostanza
si
trattasse,
ma
quando
fui
a
pochi
metri
dalla
riva,
fui
quasi
accecato
dal
bagliore
che
emanava
e
sentii
dentro
la
mia
testa
qualcosa
che
pulsava;
capii
a
quel
punto
che
un’entità
malvagia
si
era
introdotta
nella
mia
mente.
Cominciai
allora
ad
avere
alcune
visioni;
prima
di
tutto
esse
erano
sagome
non
ben
definite
con
sfumature
di
colori
non
appartenenti
a
questo
mondo,
ma
le
mie
percezioni,
poi,
si
fecero
più
chiare.
Vidi
una
figura
umana
che
si
avvicinava
lentamente.
Quando
arrivò
a
pochi
passi
di
distanza,
indietreggiai
stupefatto,
vedendo
me
stesso,
come
se
fossi
davanti
ad
uno
specchio.
La
mia
proiezione
fu
quindi
attraversata
da
un
fascio
di
luce
e
si
disintegrò
con
una
fragorosa
esplosione,
mentre
nel
frattempo
sentivo
dolori
in
tutto
il
corpo.
Dopo
alcuni
istanti,
il
dolore
Rovine
15
Rev00
cessò
e
ripresi
a
vedere
normalmente.
Mi
accorsi,
quindi,
di
alcuni
grugniti
che
rimbombavano
tra
le
pareti
della
grotta.
All’inizio,
guardandomi
in
giro
non
vidi
niente
di
minaccioso;
alcuni
minuti
dopo,
però,
vidi
alcuni
cinghiali
che,
da
lontano,
stavano
correndo
nella
mia
direzione,
seguiti
da
cani
selvatici,
lupi
e
altre
belve.
In
preda
al
terrore,
cominciai
a
correre
più
veloce
che
potevo
verso
il
tunnel
da
cui
ero
arrivato.
Avevo
il
cuore
in
gola
e
le
mie
gambe
si
muovevano
a
ritmo
forsennato,
ma
guardandomi
indietro,
le
bestie
erano
sempre
più
vicine.
In
preda
al
panico,
lasciai
cadere
a
terra
il
mio
zaino
per
correre
più
velocemente
e,
finalmente,
raggiunsi
l’imboccatura
della
galleria
larga.
Appena
mossi
i
primi
passi
al
suo
interno
sentii
un
rumore
assordante,
qualcosa
di
vagamente
simile
al
barrito
di
un
elefante,
ma
amplificato
di
diverse
volte;
i
brividi
percorrevano
il
mio
corpo
e
mi
stavano
facendo
impazzire.
Sentivo
i
cinghiali,
dietro
di
me,
che
si
avvicinavano
sempre
di
più.
Udii
un
altro
mostruoso
barrito
e
sentii
il
terreno
vibrare
sotto
i
miei
piedi.
Incespicando,
continuai
la
mia
fuga,
seguendo
le
curve
della
tortuosa
galleria,
col
suolo
che
mi
tremava
sotto
i
piedi.
Guardai
un’altra
volta
all’indietro
e
vidi
i
cinghiali
ormai
vicinissimi,
a
meno
di
venti
metri
da
me.
Urlai
dalla
disperazione,
ma
continuai
a
correre,
conscio
dell’inutilità
dei
miei
movimenti.
Un
altro
verso
bestiale,
molto
più
forte
dei
precedenti,
fu
sprigionato
dalle
viscere
della
terra
e
le
fenditure
che
si
trovavano
sulle
pareti
della
galleria
si
aprirono
in
abissali
bocche
assetate
di
sangue,
ingoiando
le
belve
che
mi
inseguivano.
Il
terreno
oscillava
sotto
i
miei
piedi,
mentre
cercavo
di
sfuggire
al
massacro.
Denti
di
pietra
e
fango
macinavano
gli
animali
dietro
di
me,
e
intanto
si
levavano
urla
e
ululati
di
primitiva
disperazione,
suoni
abominevoli
che
non
avrei
mai
potuto
dimenticare.
Fu
in
quel
frangente
che
mi
ricordai
di
quella
frase
che
diceva
“le
pareti
sono
vive
e
mangiano
qualunque
cosa
vi
capiti
attraverso”,
che
avevo
letto
nelle
antiche
carte
trovate
in
casa
dei
nonni.
Ora
avevo
visto
tutto
questo!
Avevo
vissuto
l’orrore!
Dopo
un’altra
corsa
che
mi
parve
interminabile
raggiunsi
la
grotta
più
piccola,
dove
si
trovavano
ratti
e
pipistrelli,
poi
un
luccichio,
sprigionatosi
da
un
punto
non
ben
definito
nell’oscurità,
mi
abbagliò
ed
ebbero
inizio
altre
visioni.
Fui
colto
dalle
vertigini
e
caddi
per
terra,
quando
davanti
agli
occhi
vidi
un’altra
immagine
del
mio
corpo
mentre
veniva
tagliato
in
due.
Urlai
per
il
dolore
con
tutto
il
fiato
che
avevo
in
corpo
e
per
diversi
minuti
rimasi
per
terra,
paralizzato
dal
terrore,
mentre
il
mio
sguardo
girava
tutto
intorno,
abbracciando
la
volta
della
caverna
illuminata
dalla
mia
torcia,
con
i
pipistrelli
che
volteggiavano
in
circolo
strillando
e
con
i
topi
che
mi
camminavano
sopra.
Al
limite
della
pazzia,
cominciai
ad
agitare
la
piccozza
a
caso,
colpendo
qualche
animale
e
spruzzando
di
rosso
le
pareti.
Ad
un
certo
punto
riuscii
ad
alzarmi
in
piedi
e
ripresi
a
correre
a
perdifiato,
ma
ormai
avevo
completamente
perso
il
lume
della
ragione
e
non
saprei
dire
con
precisione
cosa
accadde
poi.
Rovine
16
Rev00
XIII.
Mi
risvegliai
all’aperto,
sdraiato
sotto
il
sole
di
mezzogiorno
che
bruciava
la
terra
arida
e
i
sassi
delle
rovine,
sparsi
qua
e
là.
Ero
febbricitante
e
avevo
braccia
e
gambe
coperte
di
polvere
e
sangue
rappreso;
sulla
mia
destra
la
mia
torcia
era
ancora
accesa,
ma
la
batteria
era
ormai
arrivata
quasi
alla
fine
e
la
lampada
all’interno
produceva
una
luce
fioca,
quasi
invisibile
sotto
il
sole
splendente.
Mi
rialzai
in
piedi,
ancora
tremante,
e
mi
trascinai
lentamente
verso
il
rifugio,
zoppicando
per
il
dolore.
Evidentemente,
durante
la
fuga,
ero
caduto
urtando
il
ginocchio
contro
un
sasso.
La
mia
mente
era
completamente
offuscata
dagli
orrori
che
avevo
vissuto
e
ancora
non
riuscivo
a
formulare
dei
pensieri
sensati.
La
mia
testa
continuava
a
pulsare
e
la
febbre
aumentava,
senza
darmi
tregua.
Barcollando,
riuscii
a
guadagnare
l’ingresso
del
rifugio;
sebbene
avessi
raggiunto
un
riparo,
non
ebbi
alcuna
sensazione
di
conforto,
perché
ormai
il
Male
si
era
impadronito
di
me.
Ormai
stentavo
a
rimanere
in
piedi
e,
dopo
aver
serrato
l’uscio,
mi
abbandonai
ad
un
sonno
senza
sogni
sulla
brandina.
Adesso
sono
sveglio
e
mi
sento
leggermente
meglio,
anche
se
la
febbre
è
sempre
molto
alta;
per
lo
meno
riesco
a
stare
in
piedi
senza
soffrire
eccessivamente.
Ho
appena
raccolto
tutte
le
vecchie
carte
e
i
documenti
antichi
che
parlavano
del
mio
avo
e,
appena
avrò
finito
di
scrivere
queste
mie
memorie,
le
farò
sparire
tra
le
fiamme,
sperando
che
a
nessun
altro
mai
venga
in
mente
di
indagare
sul
“Demone
dell’oro”,
magari
pensando
di
trovare
un
tesoro
sepolto
e
arricchirsi.
L’unica
ricchezza
rimasta
è
rappresentata
dal
Male;
dall’entità
occulta
a
cui
il
mio
avo
si
era
votato
e
a
cui
ha
dovuto
soccombere
e
che
tuttora
dimora
sotto
terra,
assorbendo
come
un
parassita
la
vita
da
questo
territorio,
desertificando
tutto.
Appena
avrò
bruciato
le
carte,
se
le
forze
rimaste
me
lo
concederanno,
tornerò
all’ingresso
dell’inferno
e
lo
seppellirò
così
com’era
prima
del
mio
arrivo,
sigillando
sotto
la
terra
e
le
pietre
quel
luogo
blasfemo
e
abominevole
per
il
tempo
più
lungo
possibile.
Spero
di
farcela,
ma
credo
che
non
sopravvivrò
ancora
a
lungo;
nei
racconti
scritti
sulle
mie
carte,
chi
nei
tempi
passati
era
uscito
vivo
da
quel
luogo,
era
sempre
stato
trovato
febbricitante
ed
in
preda
al
delirio
e
moriva
dopo
poco
tempo.
Nel
caso
in
cui
io
non
dovessi
tornare,
prego
chiunque
legga
questo
mio
resoconto
di
chiudere
per
sempre
la
bocca
dell’inferno.
Il
punto
dove
si
trova
è
indicato
sulla
mappa
che
ho
lasciato
sul
tavolino.
E’
una
mappa
disegnata
in
modo
approssimativo,
ma
è
semplice
da
interpretare.
Lo
ripeto:
se
trovate
queste
pagine
nel
rifugio
di
Borgoblivione,
prendete
subito
un
badile
e
andate
a
seppellire
la
porta
dell’inferno
nella
speranza
che
rimanga
chiusa
per
sempre.
Vi
prego!

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Rovine - Gabriele Boscato