Grande Guerra nello Spilimberghese La Un paese, una storia La Grande Giuliano Cescutti (1967): Sindaco di Clauzetto dal 2002 al 2012, risiede a Spilimbergo. Da anni svolge per passione attività di ricerca storica sul periodo della Grande Guerra nel contesto delle Prealpi Carniche e della pedemontana maniaghese e spilimberghese. È autore delle seguenti principali pubblicazioni in argomento: Val da Ros 1917: la battaglia di Pradis (1999), Generali senza manovra. La battaglia di Pradis di Clauzetto nel racconto degli ufficiali combattenti con Paolo Gaspari (2007), L’anno dell’invasione a Maniago. Pagine di memoria (2008), Pagine della Grande Guerra a Maniago (2013). Guerra nello Spilimberghese Giuliano Cescutti In copertina: Nel tondo il maggiore Sisto Frajria Università della Terza Età dello Spilimberghese Spilimbergo, piazza Garibaldi e corso Roma in un’immagine del 17 aprile 1918 Il ponte di Pinzano nei giorni immediatamente successivi alla distruzione Tauriano, 2 novembre 1918 Cavalleggeri di Saluzzo dopo la carica Sul retro Il treno di corte di Carlo I a Spilimbergo nel mese di giugno 1918 Il cimitero di guerra di Pradis Lestans 1918, disegno di G. Del Fabbro Il tenente Claudio Calandra nel 1917 Giuliano Cescutti Travesio, gennaio 1918 5° Jäger Regiment Retrovia fin dal 1914, campo di battaglia nei giorni di Caporetto, terra invasa per un anno, ancora teatro di combattimenti nel 1918. In queste fasi il territorio spilimberghese vide passare la Grande Guerra. Nella ricorrenza del centenario, se saremo capaci di non lasciarci abbagliare dal valore effimero delle celebrazioni, scopriremo che esiste in ogni comunità e in ogni famiglia un patrimonio di memoria da raccogliere e valorizzare. Queste storie vogliono stimolare questa riscoperta: la memoria è come una pianta, se ben accudita riesce ad ogni stagione a rinnovare i propri frutti. Tra quei frutti ci sono tante storie personali, storie della nostra gente ma anche di tanti giovani provenienti da tutta Italia che qui hanno combattuto. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di quanti, sul territorio, ancora coltivano l’albero della memoria, e di tre ultracentenarie, ultime testimoni dei fatti. A loro, unitamente ad Istituzioni e persone che, dal Piemonte alla Sicilia, hanno collaborato a questo percorso, va un sincero ringraziamento. L’autore Pubblicazione realizzata con il sostegno di Giuliano Cescutti Grande Guerra nello Spilimberghese La © 2014 Università della Terza Età dello Spilimberghese via Udine 7/F - Spilimbergo (Pn) tel. 0427 50504 - www.utespilimbergo.it Contributo: Un paese, una storia Provincia di Pordenone Comune di Spilimbergo Coordinamento editoriale: Giuliano Cescutti, Gianni Colledani, Giorgio Moro Grafica e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Stampa: Tipografia Menini, Spilimbergo Per l’edizione in commercio Olmis, via Andervolti 23 - 33010 Osoppo (Ud) email: [email protected] ISBN 978-88-7562-147-6 Università della Terza Età dello Spilimberghese 3 Collegio dei revisori dei conti Tutto cominciò il 28 giugno 1914 con i due colpi esplosi a Sarajevo. Finiva mestamente l’epoca bella della modernità, con le sue splendide tecnologie, con le musiche festanti di Parigi e di Vienna, con le sue gaudenti frivolezze. La guerra fu dichiarata il 1° agosto. Era un sabato, un sabato tragico di lacrime e sangue. La guerra forse nessuno la voleva, ma nessuno seppe evitarla. Molti pensavano che sarebbe durata pochi mesi, in realtà ne durò cinquantatré, un’eternità. Tra le regioni europee coinvolte, il Friuli risultò una delle terre più martoriate. Tanti disagi e tanti lutti lasciarono un lungo e penoso strascico: mutilati e invalidi, vedove e orfani, profughi. Una scia di dolore collettivo ancora oggi viva nella memoria. Volendo ricordare il centenario dello scoppio della Grande Guerra ci è sembrato opportuno affidare alla carta stampata alcuni episodi avvenuti in quegli anni nello Spilimberghese. A operazione felicemente conclusa, rivolgiamo un sentito grazie al dott. Giuliano Cescutti che ha accolto di buon grado la nostra proposta indagando con la consueta passione e tenacia negli archivi e presso le famiglie. Molto gradito ci è giunto il sostegno della regione Friuli Venezia Giulia, della Provincia di Pordenone, della Friulovest Banca e del nostro Comune. Grazie alla loro disponibilità si è potuto realizzare anche quest’anno un desiderio “storico” della nostra Associazione, quello di fornire ai nostri giovani strumenti informativi validi per capire il passato e costruire il futuro. Un grazie riconoscente vada inoltre alla Somsi di Toppo per le foto e a tutte le persone che hanno contribuito, in modi diversi, alla realizzazione di questa pubblicazione che verrà offerta in omaggio a tutti i nostri soci e inviata a tutte le biblioteche civiche della nostra Provincia. Nella Costantini Ennio Perini Renata Simoni Gianni Colledani Presidente dell’Ute di Spilimbergo In memoria di Ugo Zannier Presidente del nostro sodalizio dal 2005 al 2008 (1929-2014) Consiglio direttivo dell’Università della Terza Età dello Spilimberghese Gianni Colledani Renza Battistella presidente vice presidente Consiglieri Mirco Bagatto Delia Baselli Bruno Campeis Luigi Di Benedetto Elena Dorigo Bruno Marcuzzi Giorgio Moro Adriana Toffolo Leonardo Zecchinon Renzo Francesconi 4 sindaco di Spilimbergo membro di diritto 5 La Grande Guerra rappresenta un punto focale di estrema importanza bellica e umana, dove i protagonisti non sono solamente delle figure militari, ma soprattutto civili. I nostri territori, paesi e vallate sono disseminati di storie, racconti di vita vissuta che sono cresciuti assieme ai loro diretti interessati. La raccolta di queste testimonianze in una ennesima pubblicazione edita dall’Università della Terza Età dello Spilimberghese, rappresenta un modo per consolidare e trasferire ai posteri un patrimonio orale che altrimenti sarebbe andato gradualmente disperso. La storia viene scritta dagli storici, ma la storia è fatta dalle persone e anche dalle cose materiali e immateriali che, assieme al destino o al più crudo realismo, permettono di ricostruire i fatti nella loro interezza e nella loro genuinità, proprio dai racconti di coloro che questi eventi li hanno vissuti direttamente da assoluti protagonisti assieme ai loro conoscenti e famigliari. Nelle vicende di guerra esistono situazioni che non si leggono nei comuni libri di storia, infatti gli episodi narrati non si riferiscono ai macro eventi che hanno trasformato e cambiato il mondo, ma a spaccati di vita quotidiana destati da un mondo inquieto e ribelle. Molte volte, nella narrazione dei fatti storici, non si tiene conto della sofferenza e della gravità di alcune situazioni sociali e famigliari di tante persone che da dentro gli eventi hanno dovuto combattere solo per sopravvivere e per poter garantire un futuro per le loro generazioni martoriate. Questa pubblicazione rappresenta uno spaccato di questa generazione, che grazie alla gelosa custodia dei nostri anziani unita alla migliore tradizione orale, giunge ora a noi in questa pubblicazione curata da Giuliano Cescutti che, con la sua penna, ha voluto immortalare questi momenti permettendo di farceli conoscere, per restare sempre vivi nella memoria di tutti noi. Costituite nel 1891, le Casse Rurali di San Giorgio della Richinvelda e di Meduno, alla fatidica data del 24 maggio 1915 avevano già compiuto un tratto importante del cammino oggi affidato a Friulovest Banca. È doveroso ricordare che quel percorso è maturato anche in quei momenti tragici, rafforzandosi nella condivisione profonda con le comunità che li stavano vivendo. È particolarmente attraverso quelle storiche tappe che i princìpi della cooperazione e della solidarietà hanno dimostrato tutta la loro forza rigenerante, affermandosi gradualmente come attivo motore di progresso, vivo e operante ancora oggi. Tra le menti illuminate che lo intuirono, da queste pagine emerge la figura di uno dei nostri fondatori, il cav. Luchino Luchini, amministratore e direttore della Cassa Rurale di Prestiti di San Giorgio della Richinvelda dalla fondazione fino al 1924. Discepolo convinto del movimento cooperativo, disinteressato promotore dello sviluppo sociale ed economico della propria Comunità e dello Spilimberghese, mantenne in attività la nostra Banca anche nei giorni difficili dell’esilio toscano. Friulovest Banca ha aderito con entusiasmo alla proposta di sostenere questa iniziativa editoriale dell’Università della Terza Età dello Spilimberghese, anche per riaffermare l’indissolubile legame con le nostre comunità. Quel legame che non venne meno neppure nei giorni più bui. Lino Mian Presidente di Friulovest Banca Renzo Francesconi Sindaco di Spilimbergo 6 7 Tramonti di Sopra Al visitatore minimamente attento che giunga a Tramonti di Sopra, non può sfuggire il riferimento, sulla facciata della chiesa della Madonna della Salute, al paese “arrossato il 6 XI 1917 del sangue di eroici guerrieri”. Nel cimitero, angolo a nord est, la lapide che sovrasta una tomba disadorna riporta, sulle due facce, le seguenti epigrafi: Tramonti di Sopra in un’immagine dell’immediato dopoguerra (Archivio G. Cescutti) “Ferito a morte per aver fieramente contrastato al nemico il sacro suolo della patria spirava in Tramonti di Sopra VII novembre MCMXVII il tenente Claudio Calandra nato a Torino VIII febbraio MDCCCXCIII nel pensiero altissimo di Dio dell’Italia Vittoriosa e dell’unico figlio amatissimo la madre pose” 9 e sull’altro: Con Claudio Calandra in difesa di questa terra di Tramonti caddero e qui presso riposano il capitano Silva del 133° fanteria il caporale Giuseppe Bellotti il soldato Edoardo Guazzi e altri otto militi ignoti a tutti Pace Gratitudine Gloria. I fatti a cui queste parole incise nella pietra si riferiscono, ci riportano ai giorni della ritirata di Caporetto, che travolse anche questa sperduta valle. La battaglia di Tramonti di Sopra Per ricostruire quanto accadde a Tramonti di Sopra è necessario partire dall’inizio dell’offensiva lanciata dagli Imperi Centrali alle ore 2 del 24 ottobre del 1917. La 26ª divisione italiana, una delle due che costituiscono il XII Corpo d’Armata della Carnia, si trova schierata nel tratto occidentale del fronte carnico, fra il Peralba e la Val Chiarsò. L’ordine di ripiegamento al Tagliamento conseguente allo sfondamento della Fronte Giulia, vede la 26ª divisione schierarsi nel tratto di fronte a nord di Preone, ancora sulla sinistra del Tagliamento, divisa in due gruppi tattici. Il gruppo Marelli, impegnato sulla sinistra, a protezione degli accessi verso il Cadore e quindi soggetto al comando della 4ª Armata del Cadore. Il gruppo Danise, schierato sulla destra, alle proprie spalle il Monte Rest, destinato ad essere impegnato verso la Val Tramontina. Il comando della 26ª divisione, ridotta al solo gruppo Danise (LVIII e LXIII battaglione del 16° bersaglieri, XLVII e LVI batta- 10 glioni autonomi bersaglieri, il XVIII reparto d’assalto e il battaglione alpino Susa), è affidato al generale Battistoni e si insedia proprio a Tramonti di Sopra. Da questa località la divisione è collegata via radio al comando del XII Corpo d’Armata, stabilitosi a Maniago, che alle 16 del 3 novembre emana le disposizioni per il ripiegamento verso sud, in direzione di Meduno. Il movimento delle truppe schierate dietro il Monte Rest verso Tramonti inizia la sera del 3 novembre e nella giornata successiva la colonna abbandona il paese, andando con alcuni reparti a sbarrare l’ingresso della valle all’altezza del Bivio d’Agnul (dove si combatterà nella notte fra il 4 e il 5 novembre) e con le restanti truppe a prendere la via della Val Silisia verso la Forcella Clautana. Per tutta la giornata del 5 novembre, Tramonti di Sopra è sgombra di truppe, situazione di grande sollievo per la popolazione, dopo i concitati giorni precedenti che avevano visto il transito non solo di militari ma soprattutto di profughi provenienti dalla Carnia. Si tratta della calma prima della tempesta, il peggio deve ancora venire. Mentre a Tramonti si spera che tutto sia finito, in Val d’Arzino stanno ancora combattendo, ormai isolate, la 36ª e la 63ª divisione. La mattina del 5, da San Francesco, vengono avviate verso il Canale di Cuna tutte le salmerie delle due divisioni, che giungono in Val Meduna in giornata1 e, trovando chiusa la via verso Meduno, prendono la via per Tramonti di Sopra, il Canale di Meduna e la Forcella di Caserata. Il transito della colonna delle salmerie si svolge nella notte, dalle 00,30 alle 5,00 del 6 novembre2: queste truppe, che marciano nella notte fonda, saranno le ultime a sfuggire alla rete degli imperiali, raggiungendo il Piave: sono a Claut alle 4 del mattino del 7 novembre, alle 21 dello stesso giorno sono a Longarone, l’11 novembre alle 7,30 raggiungono Bassano. 1 S. Murari, Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche, Mondadori, Milano 1935, pp. 177-178. 2 L’informazione, precisa, è riportata nel dattiloscritto di Emanuele Facchin che prenderemo a riferimento nel seguito. 11 Transitate le salmerie, da San Francesco (da dove è partita alle ore 12) la sera del 5 novembre giunge attraverso il Canale di Cuna anche la brigata Benevento, ridotta a non più di tre battaglioni e altre truppe raccogliticce, in particolare bersaglieri, mitraglieri e salmerie, probabilmente non più di duemila uomini che costituiscono quello che resta del 133° e del 134° fanteria. Il mattino del giorno 6, mentre il 134° punta su Tramonti di Sotto, il 133° si dirige a Tramonti di Sopra, a protezione della testata della valle. Dal Monte Rest, avvedutesi dell’abbandono della linea sul Tagliamento da parte delle truppe italiane, stanno scendendo le avanguardie della 10ª Armata austroungarica: la LIX brigata da montagna della 92ª divisione è alle porte del paese mentre gli italiani del 133° fanteria salgono da sud. Sta per avere inizio la “battaglia” di Tramonti di Sopra, un episodio di non grande importanza sotto il profilo militare, ma per il quale siamo in grado di proporvi ben quattro diverse versioni dei fatti, già pubblicate o inedite. Le manterremo separate, con il preciso intento di consentire al lettore un confronto fra diverse interpretazioni della realtà. La battaglia nel racconto di Giuseppe Del Bianco Giuseppe Del Bianco, nella sua fondamentale opera “La guerra e il Friuli”, racconta la storia civile e militare del periodo, dai mesi precedenti allo scoppio del conflitto e fino ai giorni di Caporetto. Furono lunghi anni di lavoro per l’autore, che pubblicò il primo dei quattro volumi nel 1937 e l’ultimo, postumo (morì nel 1954), nel 1958. Del Bianco ricostruì i fatti percorrendo in lungo e in largo tutto il Friuli, ascoltando centinaia di testimoni che in ogni paese, fin nel più sperduto, gli raccontarono di quei giorni. Quei volumi, e in particolare l’ultimo, intitolato “La battaglia d’arresto al Tagliamento e la ritirata oltre il Livenza”, sono oggi un giacimento di memoria popolare che sarebbe andata irrimediabilmente perduta. Venne anche a Tramonti di Sopra. 12 Riporta ad esempio dello Spilimberghese Giuseppe Tamai che avrebbe bruciato la bandiera del 133° fanteria per evitarle di cadere in mani nemiche, “salvando soltanto una parte del nastro azzurro che trovasi ora custodita nel Museo storico di Torino”3. Questo il racconto riportato da Del Bianco con riferimento al combattimento: “Correva il giorno 6 di novembre e il paese di Tramonti di Sopra, passata la moltitudine di profughi e di soldati, aveva ripreso il suo aspetto normale, e gli abitanti dati si erano alle consuete faccende, quando una donna, Maria Facchin, che erasi recata a raccattare legna, tutta trafelata fece ritorno, gridando di aver veduto i tedeschi che stavano scendendo dal Rest. Grande fu allora il trambusto e la gente qua e là correva senza consiglio, aumentando il terrore, le invocazioni di angosciate donne, i pianti di spauriti bimbi, mentre i più si affrettavano a rinserrarsi in casa e taluni ad esporre dalle finestre bianchi segni per dinotare i loro pacifici sentimenti. In questo mezzo, ignaro del tutto, capitò il battaglione del 133° fanteria che avrebbe dovuto proseguire – come più sopra ho detto – verso la testata della valle. Informato degli avvenimenti, il suo comandante, tenente colonnello De Rosa, tosto dispose perché i soldati si fossero schierati a difesa del paese, ma il movimento delle pattuglie erasi appena disegnato che già da settentrione irrompevano gli austriaci del 92° Corpo, i quali, dalla alta valle del Tagliamento, straripato avevano in quella del Meduna. Si combattè tra le case, si combattè nei viottoli, si combattè negli orti, e tre ore e più durò quella feroce mischia, finché gli italiani, esausti per le perdite subite, pieni di sconforto per l’ognor crescente numero degli avversari, deposero le armi. Cavalleresco il nemico che ne elogiò il valore; pietoso non meno che ai feriti che con tutta sollecitudine soccorse, ai morti, i quali in modo insolito onorò, ma non benigno ai civili che, sospettati di connivenza, con inumana asprezza furono minacciati. 3 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR) 2001, p. 307. 13 Da alcune case era stato sparato sugli invasori. Chi avesse sparato mai si seppe, tuttavia il comandante, persuaso fossero stati gli abitanti di Tramonti di Sopra, dopo aver fatto allontanare vecchi, donne e bambini, fece radunare i validi in piazza e quivi con frasi terribili annunciò loro che avrebbe proceduto alla decimazione degli uomini e all’incendio del paese. Con pianto e preghiera riuscì il parroco Francesco Pascotto ad intenerire l’austriaco, il quale desistette dal fiero proposito e si limitò soltanto a tener sequestrata per qualche giorno in chiesa parte della popolazione, mentre i maggiormente sospettati fece tradurre a Tolmezzo, con animo di farli dalla corte marziale giudicare.”4 Continua poi Del Bianco raccontando gli episodi, sui quali avremo occasione di ritornare, che videro protagonisti il tenente Claudio Calandra e il capitano Carlo Silva: “A Tramonti di Sopra nella villa Zatti venne nel frattempo ad insediarsi il generale Hort, comandante di alcune divisioni austriache che attraverso i monti avrebbero dovuto raggiungere il Piave, all’altezza di Longarone, e fu l’Hort medesimo che ricevendo gli ufficiali superiori caduti prigionieri nella valle del Meduna, ebbe ad esprimere loro il più vivo elogio per il comportamento avuto e per lo sfortunato valore del soldato italiano. Il quale come a Pradis, così a Tramonti di Sopra fece intero il proprio dovere, se per dovere di soldato intendesi ogni più duro sacrificio per l’onore e la salvezza della Patria. Due episodi soltanto voglio qui ricordare, due episodi che fanno chiara fama di questo piccolo gruppo di armati. Quando nei viottoli e per le case del paese fu tutta una furibonda mischia, il tenente Claudio Calandra di Torino, figlio dello scultore Edoardo, e pure esso rinomato artista, venne a ritrovarsi davanti il cancello della villa Zatti alle prese con alcuni austriaci. Un cadetto che li comandava gli intimò la resa. ‘Vieni a prendermi’ rispose il Calandra sparandogli addosso. 4 Ibidem, pp. 308-309. 14 Ritto in piedi al riparo di un pilastro tenne duro, finché non fu a sua volta colpito. Un compagno, subito accorso, lo sottrasse all’ira nemica e lo trasportò in casa Zatti, ove nel domani, confortando lui stesso con umane parole coloro che lo assistevano, morì. Il medico tedesco Weinger, tessendone l’elogio, scrisse poi alla madre: ‘Je lui ai mis des fleurs sur sa poitrine et il fut enterré avec les honneurs militaires que nous rendons à un brave soldat mort pour Patrie’. Come per il Calandra e più del Calandra stesso rifulse però in singolar modo la fama del capitano Silva. Ferito nei pressi della Chiesa, nel momento in cui si ritirava – ed era l’ultimo dei suoi – circondato da nemici, anziché darsi prigioniero, scaricava contro di sé l’arma che impugnava e gridando ‘Viva l’Italia’, soccombeva di fronte all’avversario che attonito, rispettò e ammirò una tanta fine.”5 Del Bianco, in una nota al capitolo, riferisce che le informazioni relative all’episodio del capitano Silva, sono state desunte da una lettera “del tenente Velei aiutante maggiore del battaglione al maggiore Torelli comandante il battaglione stesso”6. Ricordiamoci il riferimento a questa lettera, poiché ne ritroveremo i contenuti in un successivo passaggio. Il diario del tenente Michele Di Stefano Altro resoconto dei fatti di Tramonti di Sopra è quello contenuto nel diario del tenente Michele Di Stefano, del quale un estratto è stato pubblicato da Tullio Trevisan nel volume “Gli ultimi giorni dell’armata perduta. La Grande Guerra nelle Prealpi Carniche” edito dalla casa editrice Gaspari nel 2002. L’autore riferisce di avere avuto il diario in visione dal figlio del tenente Di Stefano, all’epoca comandante della 5ª compagnia del 133° fanteria. 5 Ibidem, pp. 310-311. 6 Ibidem, p. 311. 15 Dall’opera di Trevisan riportiamo uno stralcio di quel diario, particolarmente significativo per la ricostruzione dei fatti7: 16 alla vicina cappella immediatamente a sud dell’abitato (la chiesa della Madonna della Salute, nda); i meno coraggiosi preferirono restare in paese, non avendo la forza di affrontare il pericolo di ritirarsi sotto un fuoco continuo di fucileria e ora anche di mitragliatrici. Il nostro gruppo in una affannosa corsa raggiunse il letto del torrente Viellia e stava cercando un punto per guadare, quando a un tratto io, che ero in testa, mi trovai circondato, con una ventina di baionette puntate. I miei occhi si offuscarono di lacrime e rimasi come pietrificato, lasciando cadere il fucile, rimasto ormai con un solo colpo. Un mio soldato mi disse ‘Coraggio signor tenente’; tutti avevano un senso di dolore e di vergogna.” “Mi offersi io di andare a Tramonti e, non appena arrivato in paese, una giovane donna, Maria Facchin, ci corse incontro e riferì a me personalmente che gli austriaci erano già in vista. Subito occupai la piazza e spinsi due gruppi di uomini verso le due strade (ora via Castello e via Regina Elena) che conducevano nei punti di migliore osservazione sulla piana alle spalle del paese. Dopo aver organizzato la resistenza, condussi con me alcuni uomini verso il nemico, allo scopo di fare degli appostamenti dietro ai muri di recinzione degli orti, quando mi si presentarono a una trentina di passi alcuni uomini di una pattuglia austriaca; alla mia intimazione di arrendersi, per tutta risposta scaricarono le armi contro di noi. Nello stesso tempo altri austriaci si presentarono sparando dalla strada alla mia sinistra. Diedi ordine di ripiegamento ai miei uomini mentre io, preso un fucile, tenni testa ai due gruppi, dando tempo ai miei soldati di ripiegare verso il centro del paese. Eravamo in mezzo al sibilare delle pallottole e nel breve percorso due miei soldati caddero colpiti; ripiegammo nella piazza a fianco della villa Zatti, sempre sparando e resistendo fin che ci rimasero munizioni. Da un calcolo fatto a colpo d’occhio, giudicai la colonna nemica pari a un reggimento, ma per alcune ore non riuscì a passare. Circondato ormai per tre quarti il paese, il maggiore De Rosa mi propose di ripiegare: ‘Non ancora maggiore’. ‘Ma non vede che c’è una sola strada rimasta libera!’. Ordinai di praticare un foro sul muro di cinta di un giardino di proprietà della famiglia Zatti e così De Rosa e molti soldati riuscirono a ritirarsi e unirsi alla 6ª compagnia mentre io e un capitano ci slanciammo sulla strada (ora via Roma). Era un tratto di strada molto breve ma molto scoperto ed esposto, tanto che il capitano trovò la morte. Riunitomi al maggiore e ai superstiti della 5ª e 6ª compagnia, ripiegammo sempre sparando fino Di Stefano racconta poi di avere ottenuto di poter visitare il tenente Calandra, ricoverato nella villa Zatti. La descrizione del combattimento è sicuramente attendibile e ci offre dei buoni spunti per una ricostruzione. L’attenzione va richiamata sull’intento del Di Stefano di far emergere uno spirito non proprio combattivo del maggiore (in realtà era tenente colonnello), che sollecita il subalterno ad una rapida ritirata. E sul riferimento al capitano che fugge assieme a lui, che durante la fuga sarebbe stato colpito a morte: evidentemente non può trattarsi che del capitano Silva ma, come già riportato dal Del Bianco e come sarà confermato in seguito, le circostanze di morte dell’ufficiale pare siano state altre. Nelle pagine dedicate a Tramonti di Sopra anche Tullio Trevisan8 fa riferimento ad una relazione di un certo tenente Velei, aiutante maggiore del 2º battaglione del 133° fanteria, confermativa a suo dire della versione del Di Stefano e già pubblicata nel 1958 in un opuscolo sulle giornate di Caporetto in Val Meduna. Non siamo riusciti a recuperare tale pubblicazione ma questo ulteriore richiamo ci fa concludere che negli anni cinquanta del secolo scorso questo documento fosse ben conosciuto a Tramonti di Sopra. 7 T. Trevisan, Gli ultimi giorni dell’armata perduta, Gaspari Editore, Udine 2002, p. 76. 8 Ibidem, p. 130 nota n. 1 al capitolo VIII. 17 La lettera del tenente Velei e il racconto di Emanuele Facchin Oltre trenta anni fa, Alessio Christian Pradolin di Tramonti di Sopra ebbe l’occasione di ascoltare i racconti di Emanuele Facchin (1901-1991), che fu testimone degli avvenimenti, e di aiutarlo a produrre un dattiloscritto che ha voluto gentilmente mettermi a disposizione. La prima parte del documento non è che la ricostruzione dello svolgimento degli avvenimenti della rotta di Caporetto, rivolta idealmente al generale Otto von Below accusandolo di una versione dei fatti eccessivamente elogiativa della condotta delle operazioni da parte degli imperiali: “Riguardo Tramonti di Sopra non è stato nulla di straordinario, tutto passò liscio come l’olio, non parla della feroce battaglia impegnata”. Poi, in conclusione di questa prima parte, dopo un riferimento alle imprese di Rommel (che non toccarono Tramonti di Sopra) si spinge a chiedersi quante furono le perdite subite a Tramonti nella giornata del 6 novembre dagli austroungarici: argomentando con vari ritrovamenti di resti di sepolture sparsi in varie zone del paese, conclude che i morti devono essere stati molti ma che in ogni caso “delle perdite tanto italiane che tedesche rimarrà forse sempre un segreto!”. Il dattiloscritto prosegue poi con la trascrizione di quella che viene indicata come “lettera del tenente Velei (prigioniero) aiutante maggiore del 2° battaglione del 133° fanteria al sig. Maggiore Toselli Comandante del suddetto battaglione”: ecco quindi comparire finalmente la lettera già ripetutamente citata. Il dattiloscritto non ne riporta la data, e non sappiamo quindi se sia stata scritta dalla prigionia o a guerra conclusa, e neppure se la missiva fosse nelle mani del Facchin. L’ipotesi più verosimile è che il testo sia stato tratto da quella pubblicazione del 1958 alla quale fa riferimento Tullio Trevisan. Dai riassunti storici della brigata Benevento, con una non consueta imprecisione, risulta che un maggiore Toselli, senza indicazione del nome di battesimo, sia stato comandante del 2° battaglione del 133° in un non meglio precisato periodo dal maggio all’agosto 1917: questa circostan- 18 za accredita la lettera come relazione scritta dal tenente al suo precedente comandante, a riferirgli delle sorti del reparto dopo il passaggio di comando. E i toni elogiativi della condotta del reparto sono conseguentemente ampi. Nella parte iniziale della lettera il tenente Velei racconta la ritirata sul Tagliamento, l’assunzione del comando di battaglione da parte del capitano Silva e quindi, dalla sera del 4 novembre, da parte del tenente colonnello Della Rosa. Quindi il ripiegamento su San Francesco in Val d’Arzino, dove “alle truppe vengono distribuite scatolette e gallette che vengono divorate dopo otto giorni di fame e disagi.” Alle 14 del giorno 5 novembre il battaglione prende il cammino verso il Canale di Cuna, per sboccare in Val Meduna dove, dopo un tempo di sosta, alle otto del mattino successivo inizia il movimento in direzione nord, verso Tramonti di Sopra. Poi la lettera prosegue con il racconto dello scontro: “Il ten. col. Della Rosa dispone che 8ª compagnia si porti a sinistra, la 5ª al centro, la 6ª a destra, subito oltre il paese. Il comando battaglione doveva rimanere al principio del paese col reparto zappatori e la 2ª mitragliatrici, che aveva le armi someggiate, era con noi la 239ª comp. Mitraglieri (cap. Re). Si era appena iniziato lo sfilamento delle salmerie della Brigata, quando giunse la voce che gli Austriaci erano in paese. Infatti dopo pochi minuti avveniva il primo scontro nel centro del paese fra i nostri reparti, che si recavano a prendere posizione, e le pattuglie avanzate nemiche. Col ten. col. mi portai di corsa sul punto più minacciato seguito dai ten. Iulio e Manna coi loro uomini. Dopo quella prima scarica nella quale vi erano state perdite da ambo le parti, gli avversari si erano appostati nei vicoli del paese. Al ten. Manna venne dato l’ordine di occupare coi suoi uomini una villa (si tratta della villa Zatti, nda) sulla piazza principale del paese dove poteva efficacemente battere di fianco il nemico. Al ten. Iulio fu ordinato di sortire da un vicolo (Emanuele Facchin precisa “dove al giorno d’oggi è l’entrata della corriera”, corrispondente oggi alla strada fra la villa Zatti e il municipio, all’epoca vi scorreva, a cielo aperto, il “Rugat”, nda) a destra con 19 una pattuglia e sfilando lungo il muro di cinta della villa tentare l’aggiramento della pattuglia nemica. Pieno d’ardire e lieto della sua missione usciva alla testa dei suoi uomini col moschetto e baionetta innestata. Appena fuori scontratosi con un nucleo nemico, con sublime esempio di slancio e coraggio si gettò contro di essi, trafiggendone uno e fugando gli altri, ma quasi contemporaneamente una pallottola lo colpiva alla fronte. Il ten. Manna con nobile slancio accorreva in suo soccorso e lo riconduceva rantolante, dopo pochi minuti era morto. Quasi contemporaneamente il ten. Gallatto (in realtà si tratta del ten. di complemento Aldo Gallotti di Primo Cornelio, nda) della 239ª mitraglieri che con i suoi uomini proteggeva estremamente l’estrema sinistra (Emanuele Facchin dice “nei paraggi del forno oppure vicino alla Casa Menegon”, quindi nella parte alta della piazza A. Volta, detta anche “la Plaçona”, nda) veniva colpito da una pallottola in un occhio e stramazzava morto. La lotta nel frattempo si era accesa furibonda. D’ordine del ten. col. mi portai presso i singoli reparti infondendo ordini affinché la resistenza venisse mantenuta il più possibile salda, avendo cura di risparmiare le munizioni scarseggianti. Ebbi così occasione di ammirare lo splendido contegno del cap.no Silva che con serenità e coraggio non comuni, ritto fra il grandinare delle pallottole, impartiva ordini. Quasi subito dopo il ten. Calandra che difendeva con accanimento la posizione affidatagli, mirabile esempio di valore rimaneva colpito da più pallottole al basso ventre. Giunta la notizia al cap.no Silva, questi diede ordine al ten. Manna di correre a raccogliere il ferito. Il ten. Manna attraversò la zona fortemente battuta dall’intensa fucileria nemica, trasportò il ferito nella Villa al centro del paese ove venne affidato rantolante agli ufficiali medici del battaglione. Da quanto mi risulta sarebbe morto poco dopo. Gli Austriaci malgrado la nostra resistenza, avanzavano con movimento avvolgente, specie alla sinistra strisciando nel bosco a metà costa (Emanuele Facchin dice che costeggiavano il M. Cretò, che sovrasta il paese, nda) e scendendo dalla montagna; anche alla destra il nemico era riuscito ad aggirarci e ormai ogni speranza di ricacciarlo era vana. Erano tre ore che si lottava, e 20 con la desolazione nell’animo non si riusciva a resistere all’onda travolgente. Il ten. col. Della Rosa allora, vista la situazione disperata, diede ordine di ripiegare iniziando dalla sinistra, tentando di portarsi al Mestreo (secondo Facchin si tratta del greto del torrente Meduna, nda) e buttandosi nel rio raggiungeva la riva opposta. Io ricevetti l’ordine di rimanere al principio del paese, presso un ponte sulla strada (Facchin lo indica come il ponticello in prossimità della nuova entrata del paese, dove ora è la casa di “Giovanon”, nipote di “Stel” G. Crozzoli: si tratta dei ponticelli, chiaramente identificabili sulla carta al 25.000 dell’epoca, all’inizio della salita che conduce direttamente davanti alla Madonna della Salute, qui conosciuti come “i puintins”, nda) per sorvegliare il ripiegamento e ripiegare con l’ultimo reparto. Il ten. col. dicendo che a nessun costo si sarebbe lasciato far prigioniero, ripiegò per primo accompagnato dal cap. Re e da pochi uomini. Il ten. Manna mandato con l’aspirante Notti per riconoscere un punto guadabile del Meduna, ritornato subito dopo per riferire sulle difficili condizioni del passaggio, non trovò più il col. Dalle vaghe notizie raccolte pare sieno stati raggiunti nella fuga da colpi nemici. Appena iniziato il ripiegamento nuovi reparti nemici ci avevano quasi totalmente aggirati, iniziarono un fuoco violento alle nostre spalle, mentre le truppe antistanti si mantenevano a contatto coi nostri reparti inseguendoli a fucilate e con lancio di bombe a mano. Qui si ebbe nuovamente sensibili e dolorose perdite. Alla sinistra, presso la chiesa (il Facchin precisa che si tratta della Chiesa Evangelica Valdese, il caduto era a una quarantina di metri dalla Chiesa, in corrispondenza della casa di G. Facchin, “Beppon”, situata lungo la mulattiera per Frassaneit, nda), il ten. Peretti (si tratta dell’aspirante Pierotti Leone di Alberico, da Roma, nda), sempre coraggioso e sereno, raggiunto da una pallottola cadeva morto. Il cap. Silva battutosi fino all’ultimo con coraggio impareggiabile coi pochi suoi uomini sopravvissuti, quando stava per essere preso dai nemici che l’avevano circondato, inneggiando alla patria, anziché darsi prigioniero, scaricava contro se stesso gli ultimi colpi della sua rivoltella, cadendo fulminato. Furono questi gli ultimi istanti di quella tristissima giornata, ormai 21 non v’era più via di scampo, eravamo completamente circondati, la nostra fucileria rallentava per mancanza di munizioni. Addossato al ciglio della strada che conduce da Tramonti di Sopra a Tramonti di Sotto, (Facchin dice probabilmente sotto la latteria, quindi all’incirca in corrispondenza dei “puintins”, nda) con soli due uomini al mio fianco, scaricavo disperatamente ed efficacemente gli altri colpi che avevo potuto raccogliere contro una pattuglia che era stretta su di noi e che ormai era a pochi metri. In quel momento una scarica alle nostre spalle, feriva vicino a me il caporale ciclista del Comando del reggimento. Io venivo afferrato da un sergente austriaco che mi strappò la rivoltella. Dalla più dolorosa rabbia dopo quasi quattro ore di terribile tensione e lotta accanita, passai al più profondo abbattimento, quasi inebetito e incosciente. Fui trascinato davanti ad un cap.no che rivolgendomi la parola in francese, mi domandò chi comandava il battaglione e se vi erano capitani prigionieri, io gli risposi che erano morti. Riconosciutomi dal filetto per aiutante maggiore si congratulò per il contegno del battaglione e mi disse: ‘Perché resistere tanto inutilmente?’ Signor Maggiore in quest’ora triste le sia di conforto sapere che il suo battaglione si è comportato bene. Abbiamo dei morti nostri da piangere. Ma li abbiamo vendicati. Molti Austriaci quel giorno caddero sotto il nostro tiro…”. Fin qui la lettera del tenente Velei. La parte più interessante del dattiloscritto è però rappresentata dalla serie di 23 note compilate dall’autore del testo. Alcune fra esse corrispondono ad interrogativi destinati a rimanere senza risposta (domanda ricorrente è quella relativa a dove sia finito il gran numero di caduti del combattimento…), altre sono relative a tentativi di individuazione dei luoghi nei quali si verificarono i singoli episodi, quelle più interessanti sono certamente quelle che riportano precise testimonianze. Una prima testimonianza è quella riferita da tale Cimolin Giovanni (definito dal Facchin come “uomo non di scherzi né di vanteria”) che nella giornata del 6 novembre 1917, “mentre ritornava da uno stavolo detto “Ruvîs de Mattion” (si tratta del pendio che, 22 al limitare sud-est della Taviela, scende verso il letto del Viellia, nda) egli non pensava di incontrare, così di mattino dei tedeschi. Ebbene, un ufficiale superiore austriaco gli impose di essere un di lui ambasciatore dicendole le testuali parole: ‘Dite alle truppe italiane di arrendersi perché è inutile che essi combattano’. I nostri soldati erano schierati dietro le muraglie che da “Soncleva” corrono fino in “Castel” e dietro i muri di cinta dell’orto di “Masin”, di proprietà Pietro Trivelli. Al rifiuto delle nostre truppe di gettare le armi, e arrendersi, risposero tramite il Cimolin all’Ufficiale Austriaco: ‘Siamo ancora tremila soldati, pronti ed efficienti e pronti alla lotta’. Il Cimolin mi raccontò che, non appena riferì all’ufficiale austriaco la risposta da parte delle nostre truppe, costui emise con il fischietto l’ordine alle sue truppe di prepararsi al combattimento. In un attimo lui vide la pianura coperta di truppe, che avanzavano in schiere fitte e compatte. Fece, secondo la sua versione, appena in tempo di mettersi al riparo dietro i muri della cappelletta che trovasi nei dintorni”. Il racconto è alquanto verosimile per la fase di inizio dei combattimenti, con gli italiani schierati dietro muri a secco e quelli degli orti con gli austro ungarici ben nascosti lungo i prati pianeggianti della Taviela con quell’unico ufficiale che viene in avanscoperta a verificare la situazione. La cappelletta alla quale si fa riferimento è certamente la “Madunina dal favre”, all’ingresso del paese: l’incontro avvenne certamente poco distante da quel punto. L’orto di Masin è ancora oggi ben identificabile, all’ingresso del paese, verso l’attuale statale. Il suo muro all’epoca non aveva nulla che si frapponesse alla vista della piana ed era quindi la prima barriera al nemico che avanzava. Dietro il muro di cinta si trova l’abitazione, sulla cui facciata il signor Trivelli Pietro, detto “Piereto de Masin”, nipote dell’allora proprietario e titolare della Locanda Vittoria, ci fa riconoscere i segni degli 8 colpi di mitragliatrice ancora presenti sulla facciata: “Mi raccontarono che gli austriaci sparavano da Maleon con la mitragliatrice, il proprietario non volle che i colpi venissero cancellati, anzi li contornò con la vernice, oggi sbiadita ma ancora riconoscibile, anche se i fori sono stati in parte stuccati con la malta durante la ristrutturazione dopo il terremoto”. Una traccia concreta di quel combattimento. 23 La facciata della casa di “Masin” sulla quale si distinguono ancora i colpi di mitragliatrice sparati da Maleon (Foto G. Cescutti) Il corso del Meduna a valle di Sotrivea, il “Cilin de Mecchia” si trovava a valle della passerella che conduce a “Plans di Miduna”, sulla riva destra (Foto G. Cescutti) Il nostro cronista prende poi spunto dalla fuga precipitosa in direzione del Meduna del tenente colonnello Roldano Dalla Rosa (questo il suo nome corretto, che finora abbiamo incontrato in diverse versioni non esatte) che, ferito ad una gamba, si sarebbe fermato a medicarla in corrispondenza del “Cilin de Mecchia” e in quel punto raggiunto al petto da una fucilata che gli fu fatale, a quanto pare sparata da austriaci che si trovavano Sotto Campone, il pianoro a metà costa del pendio che dalla piana della chiesa degrada verso il Meduna. Il “Cilin de Mecchia”, a quanto ci è stato spiegato, era una pozza d’acqua, sulla riva destra del Meduna, all’altezza dei cosiddetti “Scontrus”, cioè la confluenza del Viellia. Nel capitano Re, che fugge con Dalla Rosa, identifica colui che poi, da oltre il Meduna, si sarebbe trasformato in un infallibile cecchino: di ‘Plan de Miduna’, verso Ganizio, sul torrente Meduna e poco lontano da dove era caduto il ten. col. Della Rosa, ad ogni colpo di fucile uccideva sempre un soldato austriaco che si trovava di fronte ‘Sotto Campon’. Lì vi erano infatti truppe austriache che dovevano impedire ai nostri di mettersi in salvo. Chi assisteva a questa caccia all’uomo vide perfino un nemico, dopo essere stato colpito, rotolare giù per la china. L’osservatore che stava dentro la stalletta della Chiaranda (Sottrivea) stava osservando dalla finestrella. A costui si può credere perché ciò che diceva era vero, indiscutibile. Egli mi disse che contò una ventina di colpi distanziati circa un minuto l’uno dall’altro e tutti colpivano il bersaglio, alla fine i colpi cessarono, continua il Durat Umberto, vide il famoso tiratore. Con l’arma in mano e la testa senza berretto arrampicarsi su per la montagna ‘Crepa’. Il Durat giorni dopo trovò nel luogo, ove presumeva fosse il tiratore, un berretto da Ufficiale. Non v’è dubbio alcuno che appartenesse a chi, ad ogni minuto per una ventina di essi, spediva all’altro mondo un nemico.” “È questo forse quel famoso ufficiale dal tiro preciso e inesorabile, che riparato dietro la muraglia a secco che cinta i terreni 24 25 Il racconto è sicuramente pittoresco, ma pensare che gli austriaci, dopo il primo colpo a segno, se ne siano lasciati piazzare altri diciannove, non pare ipotesi verosimile. Racconta poi della morte del capitano Silva che “uccise prima con un colpo alla nuca, il suo cavallo nero, poi rivolta l’arma contro se stesso si sparò alla testa, tutto questo dopo aver rifiutato al nemico di arrendersi. La risposta di questo valoroso e intrepido capitano al nemico fu solo il grido ‘Viva l’Italia’, e la sua fulminea morte. La località dove il capitano Silva si uccise è proprio in mezzo alla strada, sotto la casa di G. Facchin “Beppon”. Il capitano Silva e il suo cavallo erano un’unica cosa, immersi in un mare di sangue. Queste cose le può affermare chi vide lo scenario della lotta, in cui i nostri soldati il cui eroismo è tuttora sconosciuto in quella triste giornata scavalcarono più volte il groviglio sanguinolento del capitano Silva e del suo cavallo”. Il capitano Carlo Silva era nato a Modena il 25 ottobre 1880, sposato nel 1909 con la signorina Eros Crescini, quindi nel giorno di Tramonti di Sopra aveva 37 anni. Era ufficiale di carriera, capitano in servizio attivo del reggimento Cavalleggeri di Nizza (1°) e questo spiega il motivo per cui, aggregato ad un reparto di fanteria, portava al seguito il proprio cavallo dal quale non volle separarsi neppure nella morte. Il luogo della morte è quindi da identificare sempre sulla allora mulattiera di Frassaneit, una cinquantina di metri oltre la Chiesa Evangelica. Il nostro testimone si lascia poi andare ancora a quella che diventa quasi una sua ossessione, cioè quella di sapere quanti fossero stati i caduti, non dandosi pace che in cimitero risultassero sepolti solo pochi caduti italiani e ancor meno austro ungarici. Arrivando persino ad immaginare che i morti fossero stati bruciati, in grandi falò che si vedevano accesi, nelle notti successive ai combattimenti, in giro per la valle. A conclusione delle sue annotazioni, il Facchin riporta un interessantissimo passaggio relativo a quanto avvenne dopo il combattimento e in particolare alla rappresaglia che gli austroungarici avrebbero inteso praticare alla popolazione civile accusata di avere combattuto al fianco dei militari italiani: “Gli austriaci cercarono di diminuire il valore delle nostre truppe dicendo che 26 la popolazione aveva preso le armi contro di loro. Questo diceva un ten. Austriaco, di fronte alla Chiesa della Salute (parlando in friulano essendo di Gorizia) dove gli austriaci avevano ammassato la popolazione: ‘Non è possibile che l’esercito italiano disorganizzato e pusillanime abbia fatto fronte a noi, è stata la popolazione, così ora verrete decimati’. Mentre così parlava riprese la sparatoria da parte delle nostre truppe, (dopo le 5 di sera). I tedeschi ripresero il posto di combattimento e la popolazione fuggì verso le proprie case. Alla sera, come ostaggi, ripresero una ventina del paese, fra i quali il prete Don Francesco, per fucilarli. Furono salvati da una donna tedesca, sposa a uno di Tramonti “Boraschin”: essa si prese tutte le responsabilità dell’innocenza del popolo. In realtà è cosa certa che almeno tre del paese (tra di loro Pradolin Giacomo che affermò di aver sparato dalle finestre di casa Menegon), che comunque erano al momento soldati, spararono dalle finestre di casa Menegon contro i nemici. I loro nomi? Pradolin Giacomo Nonzolo (sarto), Pradolin Aurelio e Menegon Giovanni. Per me non c’è dubbio che costoro abbiano sparato contro gli austriaci, perché anch’io, non ricordo bene se era l’indomani della battaglia o il giorno otto, non sparai, ma per due volte tagliai la linea telefonica che partiva da Tramonti per Frassaneit, che serviva ai tedeschi in marcia verso tale località. La prima rottura la feci dal “Crist” fin sotto la casa di “Beppon”; la seconda dal “Gravon” fino alla “Centa di Rocchetto”. Bel coraggio nulla da dire, ma se mi avessero preso era la fucilazione.” Il nostro testimone ci conferma quindi chi fu a sparare, dalla “casa Menegon”, che ancora oggi si distingue, semidiroccata, in alto, sopra “la Plaçona” (sulla quale certamente sbucavano gli austroungarici provenienti dall’attuale via Castello), scatenando l’ira degli invasori, fortunatamente placata prima di giungere alle estreme conseguenze. Ma ci rivela anche due aspetti che rendono più che mai attendibili i contenuti del dattiloscritto. Il primo è il riferimento al fatto che, mentre la gente è riunita davanti alla chiesa della Madonna della Salute, “riprese la sparatoria da parte delle nostre truppe”: è il combattimento che riprende verso Sel- 27 La relazione del tenente di complemento Ambrogio Luoni In alto, la casa Menegon, dalla quale si sparò contro gli austroungarici (Foto G. Cescutti) vaplana e lo sbocco del Canale di Cuna, da dove stanno giungendo le ultime truppe italiane partite da San Francesco, la brigata Lombardia e il 35° fanteria della brigata Pistoia che vengono a cadere nella rete tesa dagli imperiali lungo tutta la val Meduna. E poi il riferimento alla linea telefonica posata dagli austroungarici verso il canale di Meduna: la ritroveremo in altra parte di questo lavoro, quando gli ultimi superstiti di Pradis la incroceranno, al Ciul, chiaro segnale che il nemico li aveva preceduti sulla via della Caserata. Quella linea telefonica, evidentemente seguiva la mulattiera di Frassaneit, partendo dal “Crist” sul fianco della chiesetta e raggiungendo in poche decine di metri i due punti nei quali Emanuele Facchin praticò i suoi sabotaggi. L’ultima versione dei fatti che vi proponiamo è quella riportata da un documento di tutt’altra natura, non più il racconto sulla base di testimonianze raccolte in loco, il diario, la lettera ad un superiore esaltante il comportamento del reparto, ma una relazione prodotta per tutt’altra finalità. Si tratta della relazione rilasciata da un ufficiale che partecipò al combattimento di Tramonti di Sopra alla Commissione per l’interrogazione dei prigionieri rimpatriati. Per tutti gli ufficiali catturati dal nemico era infatti prassi, al rientro, essere sottoposti all’esame di una commissione che aveva il compito di verificare che la cattura avesse avuto luogo in circostanze che la rendevano inevitabile. Se la commissione avesse individuato nella condotta dell’ufficiale particolari responsabilità o una resa non giustificata, a suo carico poteva conseguire anche il rinvio al tribunale militare. Le relazioni di questi ufficiali, migliaia, sono oggi conservate all’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e stanno emergendo progressivamente grazie al rinnovato interesse degli storici. Il tenente di complemento Ambrogio Luoni, apparteneva al 56° battaglione bersaglieri (ulteriore conferma che il 133° non comprendeva solo fanti) e dichiara di essere stato catturato il 6 novembre 1917, fra le 12 e le 13, leggermente ferito, aggregato al 133° reggimento fanteria (com.te ten. col. cav. Pavesi). Dalla relazione9 scritta a Firenze il 17 gennaio 1919, si ricava questa descrizione del combattimento di Tramonti di Sopra: “Di qui appena giunto proseguimmo la ritirata per Pozzis (Val d’Arzino) fino a San Francesco, dove giungemmo verso le 9 del 5. Si sostò fino al pomeriggio e poi si proseguì, con tutto il 133°, per Tramonti di Sotto. Lì pernottammo e al mattino del 6 verso le 10 incominciammo ad avviarci per Tramonti di Sopra. Andò avanti un battaglione d’avanguardia cui seguivano le salmerie del 9 Aussme, F11, b.11, n. 11428, Luoni. 28 29 133° e quelle del 56° battaglione bersaglieri a cui mi ero unito. Appena giunti presso Tramonti di Sopra, fummo assaliti dagli austriaci e si attaccò combattimento fra le case e gli orti del paese. Si combattè accanitamente per 1 ora e ½ e poi essendo riusciti gli austriaci a penetrare in paese, chiudendoci ogni passo, ci difendemmo finché fu possibile, essendo anche senza munizioni. Entrati gli austriaci nel cortile dove mi trovavo con altri uomini del 133° fummo circondati e presi. Al momento della cattura circa 10 uomini miei erano con me. Io aveva una leggera ferita all’occhio sinistro e una contusione alla nuca. Questa riportata il 4.” È un resoconto sintetico, una sintesi finalizzata a riferire solo gli elementi sicuri, ci offre riferimenti precisi nel momento di inizio del combattimento e nella sua durata che, diversamente dagli altri racconti (nei quali si parla di tre ore, tre ore e più, molte ore) viene circoscritta a non più di un’ora e mezza, verosimilmente fra le 11 e le 13. L’inizio della mulattiera per Frassaneit, da allora poco è cambiato (Foto G. Cescutti) Conclusioni Le quattro versioni dei fatti consentono di trarre conclusioni abbastanza attendibili sullo svolgimento del combattimento di Tramonti di Sopra, certo suscettibili di successive precisazioni che potranno emergere in particolare da ulteriori approfondimenti presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. In primo luogo la consistenza delle truppe italiane impegnate, non solo fanti del 133°, ma anche altre truppe raccogliticce, in particolare bersaglieri e mitraglieri, oltre a salmerie: il 133° quella mattina schiera tre compagnie e mantiene in riserva gli zappatori, in condizioni normali potremmo pensare trattarsi di 7-800 uomini, probabilmente molti di meno per reparti che da oltre dieci giorni si stavano ritirando, riducendo progressivamente gli effettivi per combattimenti o sbandamenti lungo il percorso dall’alta valle del Chiarsò (Paularo). Il combattimento pare esse- 30 re stato abbastanza breve e rapido: le tre compagnie dispiegate inizialmente a monte del paese, sopraffatte da un nemico numericamente preponderante, devono subito ritirarsi fra le case e negli orti recintati. Questi ultimi, in particolare, ancora oggi sono riconducibili a quello di “Masin”, all’entrata del paese, e in quello della villa Zatti, dobbiamo ritenere che in entrambe i recinti si siano asserragliati i difensori italiani. Segue una fase di combattimento fra le case, intorno e all’interno della villa Zatti, dove coloro che non hanno il coraggio di fuggire sotto il fuoco incalzante degli austroungarici vengono catturati sul posto. Altri, fra i quali molti ufficiali, fuggono verso valle, forse lungo la via Venezia imboccata dalla “Plaçona” sicuramente lungo l’attuale via Roma, che qui viene indicata come “La Ruvulina”. Chi in direzione del greto del Viellia, dove gli austroungarici hanno già chiuso ogni via di fuga, chi verso il Meduna, chi in direzione della mulattiera per Frassaneit. 31 La consistenza delle truppe coinvolte e la durata del combattimento può effettivamente essere ritenuta compatibile con il numero di 12 caduti indicato sulla lapide posta sulla tomba del tenente Claudio Calandra. L’iscrizione della lapide, i racconti riportati, i riassunti storici e le modalità di consultazione dell’Albo d’oro dei caduti consentite Il ten. col. Roldano Dalla Rosa, caduto a Tramonti di Sopra, al “Cilin de Mecchia” dalle moderne tecnologie, permettono di identificare i seguenti militari caduti nel combattimento del 6 novembre 1917 a Tramonti di Sopra: – Dalla Rosa Roldano di Filippo: tenente colonnello in servizio attivo permanente 5° reggimento bersaglieri nato il 24 maggio 1871 a San Lazzaro Parmense (ora comune di Parma) morto il 6 novembre 1917 a Tramonti di Sopra per ferite riportate in combattimento; – Silva Carlo di Alfonso: capitano in servizio attivo reggimento cavalleggeri di Nizza (1°), nato il 25 ottobre 1880 a Modena, morto il 6 novembre 1917 a Tramonti di Sopra per ferite riportate in combattimento; – Calandra Claudio di Edoardo: decorato di due Medaglie di Bronzo al V.M., tenente M.T. 113° (sic) reggimento fanteria, nato l’8 febbraio 1893 a Torino, morto il 7 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento; – Fochi Temistocle di Nicola: tenente di complemento 133° reggimento fanteria nato il 9 gennaio 1896 a San Giorgio la Montagna (oggi San Giorgio del Sannio) morto il 6 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento; – Iulio Giovanni: tenente 133° reggimento fanteria, nato a Cremona, il nominativo risulta riportato solo dal riassunto storico del reggimento, nell’Albo d’Oro è riportato solo un omonimo che 32 risulta caduto in tempi e circostanze in alcun modo assimilabili allo scontro di Tramonti di Sopra; – Pierotti Leone di Alberico: aspirante ufficiale 31° reggimento fanteria, nato il 2 agosto 1886 a Roma, disperso il 6 novembre 1917 a Tramonti (Carnia) in combattimento; – Gallotti Aldo di Primo Cornelio: tenente di complemento 239ª compagnia mitraglieri Fiat, nato il 23 giugno 1890 a Villanterio (PV), disperso il 6 novembre 1917 in combattimento nel ripiegamento al Piave; – Bellotti Giuseppe di Giovanni: caporale 133° reggimento fanteria, nato il 3 gennaio 1894 a Fontanella (BG), morto il 6 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento; – Guazzi Edoardo di Goffredo: soldato 12° reggimento bersaglieri, nato il 16 aprile 1892 a Reggio Emilia, morto il 6 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento. Complessivamente 9 caduti identificabili, per cui i nominativi degli ignoti devono ritenersi ridotti a non più di tre. Claudio Calandra, l’eroe di Tramonti di Sopra Nel cortile della villa Zatti, il sig. Eugenio Zatti, nato nel 1924, ancora oggi ci riporta quanto da ragazzo sentì raccontare dal personale di servizio della sua famiglia presente in casa nella giornata del 6 novembre 1917. Con precisione ci indica il portale che immette agli orti sul lato est della villa, Claudio Calandra cadde in quel punto, sotto i colpi degli austroungarici che dalla piazza Verdi entravano nel cortile non dal cancello carraio ma dalla porta laterale. Il giovane ufficiale fu trasportato nella villa, nella “camera dei foresti”, situata nell’ala destra, dove spirò la sera del giorno successivo, 7 novembre. La lapide murata a destra dell’ingresso della villa Zatti ricorda l’episodio con queste parole: “Ferito a morte per aver fieramente contrastato al nemico il sacro suolo della Patria in questa casa il 7 novembre 1917 spirava il tenente Claudio Calandra nato a Torino l’8 febbraio 1893”. 33 Ma chi era Claudio Calandra10? La famiglia dalla quale discendeva aveva già dato personaggi notevoli al Piemonte postunitario. Il nonno Claudio, omonimo del nostro, era stato rappresentante al parlamento italiano del collegio di Savigliano per due legislature immediatamente successive alla proclamazione del Regno d’Italia. Da Claudio Calandra nacquero Davide, scultore molto noto al quale oggi è dedicata l’omonima gipsoteca a Savigliano, ed Edoardo, scrittore e pittore. Claudio è unico figlio di Edoardo e di Virginia Callery Cigna Santi. Trascorre la giovinezza fra Torino e le villeggiature estive nella tenuta di Murello (Cuneo) alla quale rimane intimamente legato. Fedele alla tradizione artistica di famiglia, allo scoppio della guerra sta studiando disegno all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Parte subito volontario, da semplice soldato, sul monte Sabotino per poi passare alla Scuola Militare di Modena dalla quale esce ufficiale per tornare subito in prima linea. Ferito ad una spalla, viene decorato con una prima medaglia di Bronzo, partecipa alla presa di Gorizia nell’agosto del 1916, è ancora nelle trincee del Carso. Il 1° novembre 1916, ad Oppacchiasella, viene ferito alla testa durante un assalto meritandosi la seconda medaglia al valore. Nel febbraio 1917 viene assegnato quale ufficiale di ordinanza al comando della 36ª divisione del generale Martinelli. Un periodo di relativa tranquillità per il giovane, che trova sicuramente qualche momento in più per dedicarsi alle sue inseparabili compagne, la matita e la pipa. È in questo periodo che gli vengono conferite le due medaglie al valore. È conscio di non essere un militare di professione ma semplicemente “il cittadino soldato che serve il paese”. È fermamente convinto del suo dovere e si 10 Le informazioni riportate e la foto del tenente Claudio Calandra ci sono state gentilmente messe a disposizione dalla dr.ssa Rosalba Belmondo, direttrice del Museo Civico “Antonino Olmo” e della Gipsoteca “Davide Calandra” in Savigliano, che conserva la documentazione sulla famiglia Calandra. 34 Il tenente Claudio Calandra nel 1917 35 scaglia contro tutti quelli che lo istigano ad imboscarsi, lontano dal fronte: “Finora ho sempre cercato di cambiare discorso e di contenermi, ma anche la mia pazienza ha un limite e finirò per rispondere male a qualcuno. Quanta gente non si vergogna di far vedere che ha paura!” Ai primi di settembre del 1917 viene assegnato al 133° reggimento fanteria, in Carnia. Attraversato il Tagliamento, la sua brigata si schiera all’altezza di Preone per poi ritirarsi attraverso la Val d’Arzino e quindi, nella giornata del 5 novembre 1917, lungo il Canale di Cuna, per raggiungere la Val Meduna dove il destino lo attende. Elisabetta Urban, nata il 24 ottobre 1908 Lei11, durante la Grande Guerra, c’era: Elisabetta Urban è nata il 24 ottobre 1908 in Cualtramon, borgata non lontana da Tramonti di Sopra, che si incontra risalendo il Canale di Meduna. È una vecchina minuta, che incontriamo mentre sta cenando in assoluta autonomia; la figlia settantacinquenne le fa compagnia nella cucina la cui finestra guarda verso sud, sulla piana che si estende fino al paese. Cordiale, rassicurante, pare di parlare con una persona di ben più giovane età. Ma appena la figlia corregge qualcosa di quello che dice, la rimbeccata, dall’alto della veneranda età arriva subito: “Orco ladro, ese il caso che me aveis proprio da comandâ voatris?” Racconta quel poco che ricorda di quei lontani giorni: “Me mare a ne faseva il liet sot la tavola parcè che a veva paura che a sclopetavin, da cjapâ cualche bala da cualche banda. Su la plaça ai avevan fat una mieza guera, mi impensi il non di chestu Caladra ch’al era muart. Ai coreva jù i Cjargnei dì e gnot poarez, ch’ai scjampava ch’ai aveva paura: no sai mo di ce ch’ai aveva paura…” 11 Intervista a Elisabetta Urban raccolta da Giuliano Cescutti in data 22 luglio 2014. 36 Quando le chiediamo, che cosa facessero da bambini la risposta è chiara e senza incertezze: “Lavorâ! Una vincjna di vacjes e vigjei, gno pare al aveva dôs o tre malghes in Cjargna, Midiana e Cjansavei… Doi dis par rivâ in Midiana, la prima dì dal Cjavalîr a Somp la Mont e la dì dopo rivavin in Midiana… Cualchi volta a si fermavin ancja a Dimpeç. Ma c’erano anche i giochi, come scendere in slittino lungo la mulattiera ghiacciata di “Festones”, partendo in cima e arrivando fino al Cjavalîr. Poi racconta di uno dei suoi tanti fratelli: “Gno frade Jacu al meteva la mê nona sui bras e al la meteva fôr sul puint e me mare, ca era buna da sigulâ: ‘Mascalson, sa te sbrisa a si copa sui clapons sot el puint!’” Pochi ricordi, ma hanno attraversato un secolo per giungere fino a noi dalla viva voce della protagonista. Guerino Tramontino: nato al rombo del cannone… Fra le migliaia di profughi che in quei giorni scendevano lungo la via del Monte Rest, lungo un itinerario non più mulattiera ma non ancora strada (il genio militare vi stava ancora lavorando per la trasformazione in carrozzabile), tante storie di chi aveva dovuto abbandonare tutto senza alcuna certezza del futuro. Fra quei profughi anche una donna agli ultimi giorni della gravidanza che, proprio lungo la via del Rest fu colta dalle doglie. Il bimbo nacque a Tramonti di Sopra e nel registro degli atti di battesimo della Parrocchia di S. Floriano Martire si legge: “Tre novembre 1917 Candido Guerino-Tramontino di Candido di Pietro e di Della Pietra Emilia di Michele del paese di Ludaria Parrocchia di Rigolato (Diocesi di Udine) congiunti in matrimonio da circa 8 anni, nato il 31 ottobre p.p. alle ore 21 venne oggi battezzato da me sottoscritto essendo padrini Gussetti Modesto di Daniele rappresentato dalla cugina Candido Maria e Candido Teresa fu Geremia”. 37 L’atto di battesimo di Candido Guerino-Tramontino nato a Tramonti il 31 ottobre 1917 Don Pascotto riporta poi la seguente nota a margine dell’atto di battesimo: “Nacque in questa Parrocchia essendo la madre di passaggio profuga dalla Carnia per l’invasione delle truppe tedesche”. L’episodio fu raccontato anche a Giuseppe Del Bianco che riportò: “Ricordo come nella abitazione di Giacomo Minin venisse portata il giorno 2 di novembre una partoriente: Emilia della Pietra in Candido da Luderia, la quale colta dalle doglie sul Rest, finì per sgravarsi a Tramonti di Sopra, e ricordo come nel domani, nonostante la paurosa minaccia che incombeva, autorità e popolazione partecipassero con segni di festa al battesimo del neonato, al quale venne imposto il nome di Guerrino Tramontino.”12 La data di nascita del bimbo non è quella esatta, poiché dobbiamo credere a quanto riportato nell’atto di battesimo, ma certo i segni di festa con cui i paesani parteciparono alla cerimonia erano ancora vivi nel ricordo di chi li raccontò a Del Bianco. Il destino di questo bimbo nato in una così triste situazione ci ha incuriosito, e abbiamo voluto cercare qualche notizia su quella che sarebbe stata la sua vita futura. I genitori di Candido Guerino – Tramontino, Emilia e Candido, in una foto in età avanzata (Foto Archivio famiglia Candido) Abbiamo avuto la fortuna di raggiungere un nipote di quel bimbo, il signor Franco Candido, che gentilmente ci ha fornito alcune informazioni sulla storia dello zio. Dalle memorie della sua famiglia ci riporta che nell’ottobre del 1917 a partire in fuga dagli invasori fu sua nonna Emilia, nata nel 1886, con i figlioletti Divina nata nel novembre 1911 e Beppi, nato nel giugno del 1916. Partirono con un piccolo carro sul quale, a quanto racconta il signor Candido, il bambino fu dato alla luce. La famiglia con il neonato dovette rinunciare a proseguire e fece ritorno, pochi giorni dopo, a Rigolato. Guerino frequentò per dieci anni il Seminario Arcivescovile di Udine ma non divenne mai sacerdote, la sua occupazione fu quella di bibliotecario all’Università di Trieste. Si sposò ma non ebbe figli. È morto il 18 aprile del 2004… 12 G. Del Bianco, op. cit., p. 308. 38 39 Tramonti di Sotto La colonna Rocca in Val Meduna: l’ultima difesa del Friuli Tramonti di Sotto in una immagine dell’immediato dopoguerra: dalle montagne sullo sfondo scese, nella notte fra il 7 e l’8 novembre 1917, la colonna Rocca (Archivio G. Cescutti) Nelle valli comprese fra il corso del Tagliamento e quello del Piave, dalla val d’Arzino, alla val Cosa, dalla val Meduna su fino all’alta val Cellina e alla val Vajont, qualcuno ancora oggi ricorda il racconto delle avventure del “vagabondo dai denti d’oro”. La storia è quella del generale Francesco Rocca che, dopo aver guidato il tentativo delle divisioni della Carnia di aprirsi una via di salvezza verso il Piave combattendo a Pielungo, a Forno, a Pradis, vagò fra queste montagne, sfuggendo alla cattura fino al 18 dicembre 1917. Una fuga di oltre 40 giorni fu certo impresa notevole, nella quale il nostro generale, travestito da vagabondo o da capraio, riuscì anche grazie alle tante persone dei nostri paesi che gli diedero ospitalità e protezione. Ma di quella storia ci sono anche altri aspetti, molto meno noti, che dipingono la figura del generale non proprio con i connotati eroici che gli furono attribuiti. Vorremmo raccontarvi, e in parte svelare quegli aspetti, ricorrendo alle testimonianze di chi visse a stretto contatto con il generale i giorni immediatamente successivi alla Battaglia di Pradis. Ma cerchiamo di andare con ordine rispondendo innanzitutto ad una domanda: chi era questo generale Rocca? Nei giorni della ritirata di Caporetto era il comandante della 63ª divisione di fanteria che, collocata a riposo dopo un lungo turno di trincea sul medio Isonzo, al precipitare degli eventi fu subito richiamata verso nord, a difendere i settori alle spalle di Gemona, di 40 41 Venzone e della Val Resia. Nella giornata del 30 ottobre 1917 si trovò schierato sul Tagliamento con la propria divisione e nella notte fra il 4 e il 5 novembre, attraverso la mulattiera della Forca Armentaria scendeva in val d’Arzino, a San Francesco. Da qui in poi, assunto il comando unificato anche della 36ª divisione, scesa dalla Val Aupa e dalla Val Raccolana, nelle due giornate successive guiderà i circa 20 mila uomini concentrati in val d’Arzino nell’estremo tentativo di salvezza. Il generale Rocca e gli altri protagonisti di un’odissea Francesco Rocca era genovese, in quei giorni aveva 55 anni, militare di carriera, aveva partecipato alla campagna di Eritrea nel 1887-88. Iniziò la Grande Guerra da capo di S.M. dell’XI Corpo d’Armata ma già dal novembre 1915 gli fu assegnato il comando della brigata Ferrara “esattamente cinque giorni prima dell’inizio della 4ª battaglia dell’Isonzo. La Ferrara venne ritirata dal San Michele il 24 novembre, in quei 15 giorni aveva fatto faville: conquiIl generale Francesco Rocca stato tre trincee, fatto più di 1.000 prigionieri, aveva avuto fuori combattimento 1.500 uomini di cui 76 ufficiali. Rocca ebbe come ricompensa la croce di ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e la medaglia d’argento al valore. Portò all’attacco la brigata nell’inferno del San Michele fino all’aprile del 1917 in altre sei battaglie; la Ferrara venne distrutta quattro volte: con l’attacco dei gas del 29 giugno 1916 ebbe 1.000 uomini e 25 ufficiali fuori combattimento; in agosto 2.700 uomini e 84 ufficiali; in novembre altri 42 1.100 uomini e 41 ufficiali.”1 Le dure prove alle quali i suoi reparti furono sottoposti diedero luogo anche a rivolte delle sue truppe, la più eclatante delle quali fu quella che nel dicembre 1915 vide l’ammutinamento del 48° fanteria che sparò contro i propri ufficiali alla vigilia del ritorno in trincea. Il tribunale speciale presieduto da Rocca emanò due sentenze di fucilazione immediatamente eseguite. Il 23 aprile del 1917 Rocca assunse il comando della 63ª divisione, raggiungendo un traguardo di carriera particolarmente ambito. Da questi brevi tratti è facile immaginare che Rocca avesse fama di comandante inflessibile e incurante delle perdite. Caratteristiche confermate dalle stesse parole riportate nella prefazione alla sua opera pubblicata nel dopoguerra: “Amai il mio lavoro come avevo amato la vita di guerra, specialmente perché non mai come durante quel periodo sentii, che ogni mia parola, ogni mia fatica, ogni mia azione, starei per dire ogni mio pensiero, avevano una ripercussione in tutti gli uomini, che da me dipendevano e, nella cerchia del mio comando, una tremenda importanza. Amai la vita di guerra e l’amo tuttora, anche per le numerose soddisfazioni, che, durante il suo svolgimento e dopo, essa mi procurò. Fra queste ultime ho l’orgoglio di qui ricordare le due maggiori, che furono: la presentazione che di me fece S.E. il Maresciallo d’Italia Cadorna, alle Autorità convenute a Pallanza per offrirgli un villino designandomi come: ‘uno dei più valorosi generali dell’Esercito’, e più ancora, le benevole parole di S.M. il Re d’Italia, che parlando di me con un mio Superiore, si degnò usare l’espressione di ‘quello che fece così bene in guerra’.2” 1 G. Cescutti - P. Gaspari, Generali senza manovra. La battaglia di Pradis di Clauzetto nel racconto degli ufficiali combattenti, Gaspari Editore, Udine 2007, p. 39. 2 F. Rocca, Vicende di guerra, Carpigiani & Zipoli, Firenze 1926, p. II della prefazione. 43 Parole che non hanno bisogno di commenti. Il nostro generale, mentre nel pomeriggio del 6 novembre dalla cappelletta di Forno, sulla strada fra Pradis di Sopra e Pielungo, assisteva alla resa e cattura della sua avanguardia, era circondato dalle ultime truppe che gli rimanevano: alpini, bersaglieri, mitraglieri e pochi cavalleggeri appiedati. Centinaia di occhi che guardavano verso la valle dove i commilitoni stavano cadendo nella rete degli Jäger tedeschi. Uomini che riponevano nella perizia e coraggio di quel generale le loro ultime speranze di salvezza. Una sola via di fuga poteva essere tentata: quella della salita verso il monte Taiet per puntare poi alla val Meduna e quindi, attraverso la mulattiera Clautana, a Longarone. Ma prima di seguire su quella via i fuggiaschi, fra loro dobbiamo ancora individuare due testimoni che ci saranno di essenziale aiuto con il loro racconto. Il conte Sebastiano Murari della Corte Brà, membro di una delle più illustri famiglie della nobiltà veronese, era il capo di Stato Maggiore del generale Rocca. Tenente colonnello di cavalleria, Sebastiano Murari aveva 38 anni, nel suo ruolo di capo di S.M. non era fra gli ufficiali combattenti in prima linea ma svolgeva funzioni organizzative, a stretto contatto con il suo generale per il quale, come vedremo, provava devozione e dedizione assolute. Il tenente colonnello Sebastiano Con il comando della 63ª divisione Murari della Corte Brà (Archivio famiglia Murari) aveva assistito alla battaglia di Pradis restando presso la cappelletta di Forno. Negli anni trenta ritornerà in queste valli con l’intento di scrivere un libro che poi pubblicherà nel 19353 e che oggi è di 3 Si tratta dell’opera Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche pubblicato da Mondadori nel 1935. 44 fondamentale aiuto per ricostruire le vicende che ci interessano. Il terzo personaggio che ci farà da guida è il capitano Francesco Nussi: nato a Clauzetto nel 1891 (il padre svolgeva nella località le funzioni di notaio), nei primi giorni di guerra, nella zona del Freikofel e del Pal Grande si era guadagnato due promozioni per merito di guerra e una medaglia di argento. Nelle giornate di Caporetto comanIl capitano Francesco Nussi, da il battaglione alpini Val d’Ellero, comandante del battaglione alpino Val d’Ellero richiamato dall’altopiano di Asiago e aggregato alla 63ª divisione con il gruppo alpino del colonnello Alliney. In quei giorni gli alpini del capitano Nussi non erano stati impegnati in combattimenti di prima linea ma erano rimasti in riserva, a disposizione del generale Rocca, rimanendo a Forno per l’intera giornata di Pradis. Il capitano Nussi, pur senza cimentarsi a scrivere le sue memorie nel dopoguerra, attraverso la relazione scritta per la Commissione interrogatrice dei prigionieri di guerra rimpatriati, ci fornirà una ulteriore versione di quelle che furono le avventure degli ultimi soldati italiani in armi al di qua del Piave, nel novembre del 1917. Questi tre personaggi ci condurranno attraverso le Prealpi Carniche nei tre giorni successivi alla battaglia di Pradis, rivelandoci episodi poco conosciuti. Le verze di Palcoda All’imbrunire del 6 novembre 1917, dopo essersi avviato una prima volta ritornando indietro, richiamato dal triste spettacolo verso il costone di Pradis, il generale Rocca parte dalla Cappelletta di Forno e prende la salita verso il monte Taiet. Lo seguono i pochi ciclisti e cavalleggeri presenti, mentre rimangono a For- 45 no il battaglione alpino del capitano Nussi, la 116ª compagnia mitragliatrici St. Etienne e il 15º reggimento bersaglieri. Calata la notte, anche queste truppe, su due nuclei, quello alpino al comando del colonnello Cavarzerani, quello dei bersaglieri al comando del colonnello Dompè, prendono a loro volta la via della montagna. Centinaia di uomini si muovono al buio, su un terreno infido e scosceso: il solo gruppo del colonnello Cavarzerani riesce a raggiungere quello del generale Rocca e con questo a riprendere la marcia, verso mezzanotte. Nella notte il gruppo si muove lungo le creste fino a quando, alle prime luci dell’alba, riesce ad individuare la mulattiera che sale dal Castello Ceconi, a raggiungerla e risalire attraverso le malghe Albarîet e Battistin, fino a portarsi, verso le 10 del mattino, sul pianoro della malga di Rossa. Il capitano Nussi così descrive la mulattiera: “La mulattiera che la sera innanzi e durante la notte aveva già servito di ritirata ad altri reparti era cosparsa per lunghi tratti di materiale belligerante abbandonato, otturatori da cannoni, pistole mitragliatrici, innumerevoli fucili e baionette, giberne ancora piene di munizioni giacevano a terra ai lati della strada, ai piedi degli alberi o penzolanti dai rami, materiali che i soldati avevano buttato per meglio essere accolti dal nemico che li attendeva bloccandoli il cammino poco più avanti.”4 Immaginiamo lo stato d’animo di quei soldati al vedere quello spettacolo di abbandono lungo la via, e ancor più, giunti alla malga di Rossa, spingendo lo sguardo verso il canale del Chiarzò e oltre fino alla borgata di Tamar, all’identificare le masse di prigionieri italiani già catturati dagli imperiali, chiaro segno che anche la via di salvezza immaginata fino a quel momento era preclusa. Il gruppo, in quel momento ridotto a 4375 uomini, viene allora diretto a monte delle sorgenti del Chiarzò, attraverso la Forchia de Negardaia e la Forchia Cesilar, puntando sul borgo di 4 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 5 Ibidem. 46 Palcoda, dove si spera che gli imperiali non siano ancora arrivati. La colonna giunge a Palcoda, secondo Murari alle 16, secondo Nussi alle 18: la truppa, stanca e affamata, “diede l’assalto ad alcuni gambi di cavolo”6. Agli alpini del Val d’Ellero, dopo oltre ventiquattro ore di marcia massacrante e senza ricevere cibo, anche le verze crude degli orti della borgata devono essere sembrate bocconi prelibati. Come si sperava, il nemico non si è ancora visto, ma dagli abitanti del borgo si viene a sapere che la valle è occupata fin dal mattino del giorno prima. Il combattimento della Clevata e l’occupazione di Tramonti di Sotto In effetti, Tramonti di Sotto è occupato fin dal mezzogiorno del 6 novembre. Mentre gli austroungarici scendevano dal Rest, i primi a giungere nella parte bassa della valle sono i ciclisti del Reserve Jäger Btln n. 87 della Deutsche Jäger Division. Sono stati inviati da Pradis per raggiungere la val Meduna e risalirla a chiudere lo sbocco del Canale di Cuna. Percorrendo la strada in costruzione fino a Campone e quindi giù, lungo la carrozzabile fino al fondovalle (il lago di Redona allora non esisteva), i ciclisti tedeschi superano il ponte sul Chiarzò e vengono subito a contatto con lo schieramento italiano all’altezza della Clevata. Fra gli italiani schierati c’è il capitano Edmondo D’Arbela, della 533ª compagnia mitragliatrici che, aggregata al 134° reggimento fanteria, è giunta in valle provenendo da San Francesco attraverso il Canale di Cuna. In quella mattina prende verso sud, in direzione di Meduno e così racconta lo scontro della Clevata, riferendo addirittura l’ora precisa di inizio del fuoco dei suoi mitraglieri:8 6 Ibidem. 7 S. Murari, Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche, Mondadori, Milano 1935, p. 238. 8 AUSSME, F. 11, b. 58, 1332, D’Arbela. 47 “La mattina seguente, si formò una colonna che da Tramonti di Sotto doveva puntare attraverso Meduno. Essa era composta di due (salvo errore) compagnie del 1° battaglione del 134° reggimento fanteria e della II e III sezione della 533ª compagnia mitragliatrici. Fu occupato quella specie di sperone che da Tramonti di Sotto si protende verso il Meduna ed è circoscritto dal gomito, che forma in quel punto la strada Meduno-Tramonti di Sotto. Furono mandate innanzi pattuglie di fanteria e la II sezione della 533ª compagnia mitragliatrici e si potè stabilire che di fronte si trovavano notevoli forze nemiche in direzione di Meduno. Allora i Sigg.ri Tenenti colonnelli già nominati dettero l’ordine di rimanere appostati, sul terreno indicato, sbarrando la strada Meduno-Tramonti. Le mitragliatrici della compagnia furono messe in postazione in modo da dare il migliore rendimento, quantunque disponessero di pochissimi colpi: alle 10.27 il sottoscritto ricevette l’ordine, trasmesso dal tenente signor Broccoli, di proteggere la ritirata del 1° battaglione che doveva ripiegare su Tramonti di Sotto, da eventuali molestie nemiche e di seguire il battaglione stesso appena fosse sfilato. Iniziatosi il movimento, dai monti alla nostra sinistra (da sud-est circa di Tramonti) sorse un violentissimo fuoco d’infilata di fucileria e mitragliatrici nemiche. Ad esso risposero con le mitragliatrici e i fucili le due sezioni della 533ª comp. dirette dal sottoscritto. Le scariche nutrite ridussero parecchie volte al silenzio i tiratori avversari. Durante questo combattimento rimasero feriti il ten. col. Ilardi e il ten. col. Berti. Appena il movimento della fanteria fu compiuto, conformemente agli ordini ricevuti e non modificati da alcun contrordine, le due sezioni furon fatte dal sottoscritto ripiegare a scaglioni, la quale operazione non si potè eseguire senza perdite e rimasero fuori di combattimento, fra morti e feriti, una decina di mitraglieri. Giunti a Tramonti di Sotto là si trovò già abbandonato dal comando del 134° reggimento fanteria, e il capitano signor Balletti che era succeduto nel comando del I° battaglione era senza ordini. I pochi mitraglieri rimasti e le truppe di fanteria furono appostate in modo da fronteggiare un attacco avversario proveniente da Meduno.” 48 Il capitano D’Arbela dichiara di essere stato catturato, illeso, a Tramonti di Sotto, alle ore 12 del 6 novembre 1917, a tale ora è quindi da far risalire l’occupazione del paese. La colonna del generale Rocca giunge a Palcoda oltre 24 ore dopo questi fatti. Vengono inviate due pattuglie di bersaglieri a verificare la situazione a Tramonti di Sotto9: non tornerà nessuno e verso le 19 viene deciso di proseguire, nelle tenebre profonde, sperando di riuscire ad attraversare la valle, passare sotto il naso degli austroungarici e guadagnare la riva destra del Meduna. L’attraversamento notturno del Meduna Il capo di Stato Maggiore così racconta il percorso notturno da Palcoda al passaggio del Meduna10: “La colonna fu riordinata e avviata ad attraversare il Meduna a valle di Tramonti di Sotto. Il maggiore Malta, che prestava servizio di S.M. al comando di divisione, chiese di assumere il comando dell’avanguardia. Le tenebre erano fitte, il nemico era nelle vicinanze, la richiesta del maggiore dimostrava una tempra solida di soldato e venne accolta: l’avanguardia si sprofondò nel buio. La piccola colonna scese gli ampi chiaioni del torrente Taceno (Tarcenò, nda). In coda vi erano i muli raccolti a Malga di Rossa. La ferma volontà di procedere in silenzio ci fece apparire assordante il rumore di tanti passi. Non bisognava attardarsi, in breve avanguardia e grosso apparirono una cosa sola. Dall’alto del ponte della grande strada di Tramonti, che supera il torrente Taceno (Tarcenò, nda), una voce diede un timido ‘Wer da?’ poi tornò il silenzio. 9 S. Murari, op. cit., pp. 246-247. 10 S. Murari, op. cit., p. 247. 49 50 Il ponte sul torrente Tarcenò sotto il quale transitò nella notte fra il 7 e l’8 novembre 1917 la colonna Rocca (Foto G. Cescutti) Il torrente Meduna nel tratto in cui fu attraversato dalla colonna Rocca (Foto G. Cescutti) Più a valle degli apparati ottici corrispondevano attraverso alle rive, in alto. Un altro apparato, di maggiore potenza, faceva segnalazioni dal promontorio, che spinge il Meduna contro il fianco occidentale della valle, poco a monte del ponte del Chiarzò. Dapprima erano segnali sempre eguali, che si ripetevano ad eguali intervalli di tempo. Poi le segnalazioni divennero tumultuose e confuse: poi si spensero”. Il gruppo attraversa i due rami del meduna, l’acqua gelida fino alla cinta. Gli austroungarici, che certamente hanno individuato il gruppo dei fuggiaschi, come confermano le segnalazioni luminose, riescono probabilmente a sopraffare la coda della colonna, unico segnale un “rumore confuso” che, raggiunta la riva destra, si traduce nella constatazione che il nucleo si è di molto assottigliato. Il capitano Nussi fornisce una versione leggermente diversa dei fatti, attenta in particolare a descrivere le condizioni di esaurimento fisico dei suoi uomini, che si manifestano nella risalita dello scosceso pendio del monte Crepa, oltre il fiume: “Non sfuggì al nemico la nostra presenza che dall’altra parte del fiume tra il buio della notte ci rivolse alcune parole che non comprendemmo. Così pure poco prima eravamo passati sotto gli archi di un viadotto mentre esso con delle carrette vi transitava sopra, e ciò senza curarsi di noi. Sorpresi dall’indifferenza del nemico che certo pensava non essere più per noi alcuna via di scampo, e saremmo stati costretti tra non molto lo stesso ad arrenderci, proseguimmo oltre salendo oltre lentamente tra brevi pause, tutti fradici, affranti dalla fatica e dal sonno, la riva scoscesa del fiume, senza una meta fissa, tra l’oscurità più fitta e una nebbia che intirizziva le ossa. L’esaurimento e il sonno più violento raggiungeva tal grado da disarmare taluni di ogni forza residua; e allora li si vedevano barcollare, e stramazzare a terra, tra le rocce ovvero rotolare 51 come corpo morto lungo il pendio finchè a stento, scossi dal pericolo di essere inghiottiti da qualche crepaccio trovano la forza per trattenersi e abbarbicarsi a qualche cespuglio.”11 Il gruppo è ridotto a circa 250 uomini, fra i quali 170 alpini del Val d’Ellero, in gran parte complementi della classe 1899 appena giunti al reparto. In queste condizioni, dopo avere individuato nel buio la traccia di un sentiero, gli ultimi fuggiaschi della 63ª divisione giungono alla Forca del Prete. Fra la nebbia, una fitta pioggerella e la luna che spunta fra le nuvole viene disposta una fermata. Secondo Murari questo avviene verso l’una di notte del giorno 8 novembre, secondo Nussi verso le 6 del mattino, più verosimile in questo caso il primo orario. Nei dintorni vengono rinvenuti alcuni muli che vengono sacrificati per sfamare la truppa arrostendo i brandelli di carne sui fuochi nel frattempo accesi. Durante la sosta il gruppo viene raggiunto anche dai colonnelli Tellini e Stringa della 36ª divisione che, sfuggiti alla cattura del giorno prima a Campone, sono riusciti essi pure ad Il colonnello Tellini: raggiunse la colonna Rocca attraversare il Meduna sotto le fucilate alla Forca del Prete nemiche. Dopo le 9 la colonna riparte, sotto la pioggia scrosciante scende a Posplata per prendere poi la valle del rio dei Gamberi e raggiungere l’imbocco della val Silisia. Il capitano Nussi è fra quelli che pochi anni prima hanno partecipato alla costruzione della strada, conosce il territorio ed è fra i primi, guardando verso il fondovalle, ad accorgersi che gli imperiali li hanno preceduti sulla Clautana12: 11 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 12 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 52 “Verso sud il Rio Posplata alla confluenza colla val Silisia si notavano confuse le case del Tamarat ed un po’ distinte quelle di Chievolis accoccolate ai piedi del Frau coll’ampio gomito della sua strada da me costruita quattro anni addietro. La strada era percorsa da una colonna nemica che saliva seguita da alcune salmerie verso la Clautana. Bisognava escludere quindi di incappare con essa evitando di riversarci su quella comunicazione: ma allora quale altra via ci restava? Ad un tratto quella colonna deve averci scorti perché la si vide indietreggiare e dirigersi alla nostra volta….venivano così ad essere deluse le nostre ultime speranze e io avevo appena dato disposizione ai piccoli posti perché non avessero mancato dall’opporre valida resistenza quando il sig. Generale dietro breve consiglio e dietro iniziativa del colonnello Cavarzerani prese la risoluzione di tentare per i monti l’Alta Valle del Meduna”. Il momento è cruciale, il rischio di cadere prigionieri incombe, un gruppo di oltre 200 uomini non si muove agilmente ed è facilmente individuabile. Più facile sarebbe la fuga per singoli elementi o gruppi di pochi elementi. Rocca ha deciso di cambiare itinerario, non la Clautana ma il Canale Grande di Meduna, che si raggiunge solo superando la catena del Col della Luna illudendosi di trovare poi libera la via della Caserata. È probabilmente precedente a questa decisione l’episodio raccontato da Murari, con l’intento di esaltare la “magnifica resistenza morale” del suo generale, del giro a vuoto attorno al monte Frau13: “Dopo essere saliti da una parte su M. Frau ed esserne ridiscesi da un altro lato, ci ritrovammo al punto di partenza. Il generale non ebbe alcun rimprovero per la guida, e rivoltosi agli ufficiali disse loro: ‘Signori, anche un errore può essere un ammaestramento’. L’ammaestramento non era forse tempestivo, ma non possiamo fare a meno dall’ammirare, anche in queste 13 S. Murari, op. cit., p. 251. 53 parole, la magnifica resistenza morale di quell’uomo, nella situazione inaudita nella quale ci trovavamo.” Se Murari esalta il comportamento di Rocca anche dopo molti anni, il primo ad avere forti dubbi sulle sue intenzioni, sotto la pioggia a dirotto, è il comandante del Val d’Ellero, che nella relazione compilata al rientro dalla prigionia scrive: “Mi parve che l’esecuzione del progetto avrebbe dovuto essere effettuato solo da parte e precisamente dai soli signori Ufficiali Superiori perché li vidi muovere di botto e avviarsi mentre il Signor Generale mi diceva: ‘Noi si và nell’Alta Valle Meduna, lei continui a scannare il terzo mulo e poi se mai ci raggiunga’… io in quelle parole e con me pure la truppa, capii l’allusione a volersi sbarazzare dagli uomini che ormai non potevano essergli che di peso, perciò sotto la minaccia della responsabilità di trovarmi nelle condizioni di poter esporre ad una fine ingiusta gli uomini decisi di seguirlo e rivolte ad essi alcune parole d’incoraggiamento ricominciammo il Calvario dopo averci diviso in fretta le spoglie dell’ultimo mulo”.14 Il gruppo, sempre più assottigliato, dopo avere vagato per diverse ore salendo di quota, si ritrova ad un certo punto su una “piccola selletta limitata da crode inaccessibili” da dove si riconosce l’abitato di Clez, verso dove si dirige avendo ormai perso la speranza di raggiungere la valle del Meduna. 14 AUSSME, F. 11, b.1, Nussi. 54 Da Clez alla forcella Cervelecis Raggiungono il borgo alle 15 del giorno 8, trovandovi la popolazione stupita nel vedere truppe italiane ancora in armi ad oltre tre giorni dall’entrata in valle dei primi invasori. I fuggiaschi a Clez consumano il loro ultimo pasto prima della cattura: “Riuniti attorno alle fiamme ristoratrici dei focolari riuscimmo, colmando di denaro quella povera gente a cucinare delle grosse polente che mangiammo avidamente con un po’ di cacio mentre la truppa, per la quale non fu possibile provvedere nulla si appropriava delle rape e delle verze esistenti nei piccoli orti a settentrione del caseggiato”.15 All’imbrunire il tempo migliora, smette di piovere e le nubi si diradano. Il generale, rinfrancato dalla sosta e dalle informazioni assunte, “arruola” due civili del borgo e sotto la loro guida si avvia verso il Col di Luna. La partenza è precipitosa. Non tutta la truppa, che in buona parte sperava che a quel punto fossero finite le sofferenze, segue il comandante della 63ª divisione. Le pattuglie nemiche si avvicinano. Il tenente colonnello Murari16 ci indica con precisione l’itinerario seguito fino a scollinare nell’alta valle del Meduna: “Partimmo verso le 16 e cominciammo la salita del vallone del Rio dei Boschit, dirigendoci a quel colle, poco noto, che è interposto fra il Col della Luna e la Dodesmala, ed è segnato sulla carta semplicemente con la quota 1030. Molti anni dopo seppi che è denominato Forcella Cervelecis ma nel novembre 1917 nessuno di noi lo udì dire, e battezzammo quella notte ‘la notte della Dodesmala’. (…) Le ottime due guide non ci lasciarono e continuarono con noi ancora per qualche ora. Marciavano in testa, precedendo il generale con una lanterna in mano. Scendemmo il versante del Meduna lungo un ripido canale roccioso, che nelle 15 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 16 S. Murari, op. cit., pp. 252-253. 55 tenebre sembrò molto aspro: il senso dell’ignoto si impadroniva dei più, sembrava di camminare sull’orlo di un precipizio, e che il porre un piede in fallo potesse essere fatale. Una miriade di lumi si accese, pareva che tutti fossero muniti di una candela, e si vedeva una lunga teoria di luci calare lentamente lungo l’erto canalone che precipitava a valle. Ci fermammo a dei casolari verso l’1 di notte. Accendemmo dei fuochi. Eravamo ancora tutti inzuppati per il guado e per la pioggia del giorno innanzi; la bella pelliccia che indossava il colonnello Tellini era diventata pesante e rigida come un armadio: noi della 63ª avevamo tutt’al più qualche leggero cappotto americano, più facile ad asciugarsi. I più attempati poterono trovare posto da sdraiarsi, i più giovani si accovacciarono attorno ai fuochi, qualche soldato vegliò volontariamente per fare asciugare i panni dei propri ufficiali. Il bravo comandante del Val Ellero, bella tempra di friulano, con i suoi alpini, provvide alla sorveglianza al di fuori. Quando la luna spuntò, poco prima delle 2, la montagna era deserta, vi erano solo le due guide di Clez, che già avevano ripreso la via del ritorno, mentre la colonna Rocca cercava nuova lena in un meritato riposo.” Lungo quella traversata notturna la colonna si allunga, qualcuno rimane indietro, qualcuno precipita negli abissi che “strozzavano il loro ultimo grido”. Un vento gelido e una leggera tormenta di neve accoglie i fuggiaschi sulla forcella. Il gruppo raggiunge la casera che Murari ci indica con precisione come quella che alla quota 716 (attuale cartografia quota 715) corrisponde a Case Siaccia. La “passerella Mascagni” e il filo telefonico Viene presto l’alba e si riprende la discesa verso il fondo del canale, non senza caricarsi del materiale necessario a gettare una passerella per attraversare il Meduna, che scorre sul fondo fra grossi massi, evitando un ulteriore bagno come quello di due notti prima. A quanto racconta Murari pare che l’ordine di predisporre la passerella fosse stato dato al sottotenente del genio Dino Mascagni (figlio del maestro) e che tutti ricordassero poi la “passerella Mascagni”17. A quanto racconta il capitano Nussi il sottotenente del genio non parrebbe avere avuto un grande ruolo poiché è il comandante del Val d’Ellero a riferire di essere riuscito, con una lunga scala, tavole e cavalletti, a gettare la passerella con una “laboriosa manovra”. Uno ad uno gli uomini attraversano il torrente che scorre gonfio e impetuoso per le abbondanti pioggie. Sulla riva sinistra del Meduna, salendo sulla mulattiera che proviene da Tramonti di Sopra e prosegue verso la Caserata, i nostri si trovano davanti all’amara sorpresa di un filo telefonico, acciaio rivestito di bianco, accuratamente disteso da un albero all’alto: è il segno inconfutabile che gli imperiali sono già passati. Quel filo telefonico è collegato con Tramonti di Sopra, è lo stesso di cui ci ha lasciato memoria Emanuele Facchin nelle sue note. A quel punto il generale decide di avviare una pattuglia di alpini in avanscoperta, al comando di un sergente. Il gruppo dei fuggiaschi avanza fino a 150 metri dalla casera Ciul dalla quale si vedono uscire alcuni austriaci in berretto. Pare che la truppa italiana sia indecisa nell’avanzare e allora, stando a quanto racconta Murari18 il generale si fa avanti gridando “Avanti gli ufficiali!”, prendendo la corsa, rivoltella alla mano. Non parte un colpo, i cinque austriaci si arrendono subito. Sono telefonisti della 59ª brigata da montagna, quella che era scesa dal Rest su Tramonti 17 S. Murari, op. cit., p. 257. 18 S. Murari, op. cit., p. 255. 56 57 di sopra, hanno in consegna un apparato telefonico collegato con il paese, che viene subito reso inservibile dagli italiani. Ma uno degli austriaci fugge verso la Caserata ed è chiaro che va a portare ai suoi camerati la notizia della presenza dei fuggiaschi italiani. Murari non dice nulla di più sulla cattura dei telefonisti che, “di indole e di contegno tranquillissimo, vennero affidati alla guardia dei pochi cavalleggeri aggregati al comando della 63ª”. Una fucilazione assurda Al punto in cui siamo arrivati, Murari tace un particolare tragico che invece viene riportato, con parole che rivelano allo stesso tempo il senso del dovere del militare e l’accrescersi dei dubbi verso quel generale che già ha tentato di sbarazzarsi del suo troppo numeroso seguito19: 58 parte nuovi agli eventi di guerra poiché della classe 1899, assistendo a quella dolorosa lezione ebbe così adito di comprendere alfine quali fossero i veri intendimenti del Comando. Chiusa così la dolososa parentesi la colonna sotto l’impressione dell’avvenuto, ma con saldi e decisi propositi e buona lena riprese la marcia nello stesso ordine.” Riecco quindi il generale inflessibile. A pochi minuti dalla cattura di quel manipolo di disperati che ha già cercato di abbandonare al loro destino per meglio potersi nascondere al nemico, l’esercizio di un estremo atto di giustizia sommaria è la sua principale preoccupazione, ottenendo anche il risultato di rivelare la propria posizione al nemico, attraverso la scarica del plotone di esecuzione che echeggiò per tutta la valle rimasta fino a quel momento silenziosa. La relazione di Nussi, esecutore della condanna, non poteva spingersi a giudizi personali sull’accaduto, Murari non dice nulla perché ha la percezione che il fatto non darebbe grande lustro alla figura del suo generale. Il generale Rocca, nel suo libro di memorie, dedica poco più di quattro pagine al racconto delle vicende di cui fu protagonista da San Francesco in val d’Arzino fino ai fatti dell’alta val Meduna. Nel racconto non dice nulla della fucilazione del sergente alpino ma fa riferimento all’episodio in un capitolo che intitola “Giustizia militare” dedicandogli poche righe20: “Ad un tratto con dolorosa sorpresa il ten. Signor Ariano mi comunicò che la pattuglia all’uopo inviata e composta di un sergente e sei uomini si era arresa. Sorpresa dall’improvvisa apparizione del nemico essa aveva alzato le mani gettando le armi. Riportata la cosa al signor Generale che sembrò giustificare quasi l’evento non dando gran peso ad esso, venne deciso, dopo vagliate le nostre forze rispetto a quelle del nemico che constatammo esser lievi, di piombare sulla casera e sopraffare l’avversario. E così fu agito. Il presidio composto di pochi uomini venne fatto prigioniero e la nostra pattuglia ricuperata mentre il suo comandante ritenuto reo di tradimento veniva fucilato sul posto previa degradazione. L’esecuzione veniva effettuata da parte di dieci uomini della 210ª compagnia al comando del sottoscritto. La truppa, in buona “Eravamo in ritirata dopo la rotta di Caporetto, con una colonna di circa 200 uomini cercavo di raggiungere l’esercito nazionale attraverso le prealpi Carniche; al terzo giorno di marcia ininterrotta, nel fondo di uno stretto vallone, venne segnalata la presenza del nemico. Arrestata la marcia, salii con gli ufficiali del Comando un breve dosso, e solo dopo qualche tempo ci rendemmo conto che l’estrema avanguardia si era arresa al nemico. 19 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 20 F. Rocca, op. cit., p. 137. 59 Impugnata la rivoltella, ci portammo in testa, e capito che il nemico consisteva in pochi uomini di un posto telefonico tedesco, imponemmo loro la resa, facendoli tutti, salvo uno, prigionieri. Ordinai che il comandante l’avanguardia fosse passato per le armi”. Nulla di più. Nessuno fa neppure il nome di quel graduato, il cui destino fu quello di essere sacrificato sull’altare di una giustizia militare inflessibile applicata da un generale che di quegli uomini aveva già cercato di disfarsi. Forse quel sergente era un giovane di neppure 25 anni proveniente dall’appennino ligure, morto “coraggiosamente, con “eroico comportamento” come avrà poi a dichiarare il suo stesso capitano Nussi, e ciò conferma nei componenti la colonna il convincimento di non essersi trattato di un vile o di un pauroso e che l’estrema decisione adottata dal generale Rocca non sia di certo stata necessaria, opportuna e soprattutto serena.”21 L’ultima difesa del Friuli Il gruppo prosegue, ora sono all’avanguardia gli alpini del Val d’Ellero. Superano i casolari di Selis e poco oltre, forse 300 metri, vengono sorpresi dal tiro delle mitragliatrici nemiche. Il generale Rocca saprà il giorno dopo, da Sante Crozzoli detto Rinel, abitante a Selis, costretto a fare da guida agli austriaci verso la Caserata e fino a Claut, che quel reparto era costituito dalle salmerie del reggimento da lui accompagnato che, non riuscendo a superare il valico “a causa delle frane prodottesi negli ultimi giorni”, era stato fatto tornare indietro. Quei muli trasportano le mitragliatrici che sorprendono gli alpini del capitano Nussi. 21 V. Palmieri, Non mi arrendo, no, per Dio! Le divisioni carniche nella XII battaglia. 24 ottobre – 10 novembre 1917, Edizioni S.t.e.r.m., Ravenna 1935, pp. 243-244. 60 Gli alpini si schierano e ingaggiano il loro ultimo combattimento. Il generale, con un gruppo di circa 35 uomini, in gran parte ufficiali, ritorna alle case di Selis: questa volta è finita davvero, aveva già intuito che qualche possibilità di salvezza poteva averla solo liberandosi dal gruppo e ora finalmente riesce nel suo intento dando a tutti il “si salvi chi può”, ognuno per sé e Dio per tutti. Sebastiano Murari, sempre fermo nella sua devozione assoluta verso Rocca, riporta questa descrizione di quel momento finale22: “ll comandante la 63ª divisione riunì gli ufficiali, e con tono solenne, con voce studiatamente ferma e lenta disse loro: ‘Signori! Ho fatto quanto era possibile per porre in salvo gli avanzi della mia divisione. Il tentativo è fallito. Ognuno si regoli come crede. Io mi do alla montagna, per cercare di raggiungere da solo le nostre linee’. Furono le sue ultime parole. Con un cenno ci salutò, poi si avviò a risalire il Canal Grande, seguito dal suo fido attendente. Era la via del Burlaton”. La resistenza degli alpini viene ben presto sopraffatta e gli austriaci calano rapidamente sulle case di Selis. Rocca ha già preso la via del Canal Grande, i tre colonnelli Cavarzerani, Tellini e Stringa si avviano in discesa sulla mulattiera che per Frassaneit conduce a Tramonti di Sopra, il tenente colonnello Murari riesce a sfuggire agli austriaci prendendo la stessa via del suo generale. Il colonnello Costantino Cavarzerani: da Selis fuggì in direzione di Tramonti di Sopra 22 S. Murari, op. cit., p. 257. 61 Il fuoco del Val d’Ellero cessa alle ore 11.00 di quel 9 novembre 1917. Il capitano Nussi racconta la cattura del suo reparto e le ore successive nel trasferimento fino a Claut23: “Il maggiore austriaco comandante il riparto che ci catturò ‘certo Erber’ vivamente compreso della resistenza opposta da quel nucleo ebbe per esso parole di conforto e d’ammirazione. Dispose per le cure ai feriti e per il seppellimento dei morti ultimi caduti della 63ª divisione nella speranza di raggiungere la Patria minacciata. La colonna ricevette un umano trattamento e al sottoscritto in presenza di tutti gli Ufficiali e truppa catturata veniva concesso l’alto onore di portar l’arma fino al Comando del reggimento nemico ove, in Claut, veniva preso regolare verbale per il conseguente mio reclamo dopo guerra dell’arma.” A tre anni esatti da quell’estrema resistenza in alta val Meduna, “La Patria del Friuli” dedicò quasi la sua intera prima pagina a “L’ultimo difensore del Friuli”. La firma è “uno dei superstiti”, ma nelle parole del racconto pare abbastanza facile identificare l’autore nel tenente colonnello Sebastiano Murari che poi le riprenderà nel suo libro pubblicato nel 1935. Strana è l’errata indicazione del nome di colui al quale l’appellativo di “ultimo difensore del Friuli spettava a pieno titolo” (viene indicato come capitano Nuti), poiché effettivamente a quell’ora gli ultimi militari italiani in armi che combattevano in terra friulana erano proprio gli alpini del Val d’Ellero. Al capitano Nussi fu assegnata la Medaglia di Bronzo al Valore con la seguente motivazione: “Dopo aver guidato con esemplare coraggio il proprio battaglione durante due intere giornate di combattimento per aprirsi un varco fra le truppe nemiche, e quando altri nostri reparti già avevano dovuto desistere dalla lotta, mettevasi alla testa dei 23 AUSSME, F. 11, b. 1, Nussi. 62 pochi uomini rimastigli e con essi resisteva ancora per altri due giorni ai violenti e incessanti attacchi degli avversari, che finalmente poterono catturarlo, ultimo fra i pochi superstiti e privo di munizioni. Pielungo e Col di Luna (Udine), 5-8 novembre 1917.” Un bronzino la ricompensa, ben poca cosa rispetto alla commenda dell’Ordine Militare di Savoia assegnata al generale Francesco Rocca che certo si comportò, in quei giorni, in modo meno encomiabile. Finalmente senza responsabilità Il nostro generale, abbandonata Selis in direzione del Burlaton, può finalmente rilassarsi: “Mi diressi da quel lato col mio attendente soldato Traldi Giuseppe di Bologna, e, superato un piccolo rilievo di terreno sufficiente ad occultarmi alla vista delle case di Selis, mi nascosi fra alcune roccie, e affranto dalla fatica di 5 giornate di continua tensione, mi buttai a terra per riposare; per la prima volta dall’inizio della guerra, senza responsabilità. Era questo il maggior riposo che potesse concedersi il mio spirito”24. Rocca dice di avere riposato alquanto, poi viene raggiunto da Murari con un attendente. I quattro fuggiaschi, dopo aver cercato invano una casera e aver mangiato l’ultima scatoletta di sardine, trascorrono la notte all’addiaccio, sotto una roccia. Rocca nel suo sacco a pelo, il tenente colonnello Murari dorme su un letto di frasche di mugo, i due attendenti vegliano a tenere vivo il fuoco che riscalda la notte piovosa. Il giorno dopo tornano verso Selis e vanno a trovare rifugio nel fienile di Crozzoli Pietro, isolato dal resto del borgo dove si trovano ancora i feriti italiani e austriaci. 24 F. Rocca, op. cit., p. 87. 63 Il primo ad accorgersi degli ospiti inattesi è il nipotino del Crozzoli che “con voce lamentosa chiamava il nonno”25 che quindi arrivò e si dimostrò ospitale con i nuovi venuti, anche a rischio di essere scoperto dagli austriaci che ancora si trovavano nelle case vicine. Nel pomeriggio a casa Crozzoli rientra da Claut il figlio Sante, che ha accompagnato gli austroungarici attraverso la Caserata e racconta a Rocca quello che abbiamo già riferito. Il generale, confermando l’intenzione di prendersi un buon riposo prima di tentare il rientro nelle linee italiane, compra dal Crozzoli un vitello da latte che teneva nella stalla, per cinquanta lire: quelle sera il gruppo cena con polenta e vitello arrosto. Procurandosi poi anche il sale da “una villanella”che lo utilizza per condurre le capre e le pecore al pascolo. Fra brodi e arrosti di vitello i quattro rimangono a Selis fino al 15 novembre. Poi partono per Campone, da dove sarebbe iniziato il mese di progetti e tentativi per raggiungere le linee italiane. Ma questa è un’altra storia, molto più nota… Ardito Desio prigioniero a Campone 64 Ardito Desio nell’ottobre 1917, in partenza per il fronte (Archivio Storico di Ardito Desio) Quelli che il generale Rocca vedeva dalla malga di Rossa nella mattinata del 7 novembre, giù nel fondovalle del Chiarzò e verso Tamar, erano effettivamente gruppi di prigionieri italiani. Era il gruppo condotto dal generale Alfredo Taranto, comandante della 36ª divisione, partito da Forno già a metà mattina del giorno 6, mentre Rocca si trovava sul costone di Pradis. Quei fuggiaschi avevano seguito la mulattiera che dal Castello Ceconi sale verso le malghe dietro il Taiet: erano stati loro ad abbandonare lungo la via quanto ci ha descritto il capitano Nussi. Alla colonna si erano uniti anche i bersaglieri del colonnello Dompè, che avrebbero dovuto raggiungere nella notte il generale Rocca, ma si erano perduti nel buio. Nella mattinata del 7 novembre calano verso la gola del Chiarzò, lungo i sentieri del Cuel di Cûr, con l’intento di attraversarla e puntare poi sulla val Meduna. Ma Campone è già occupata dai tedeschi della Deustche Jäger Division. Il primo distaccamento è giunto a Campone alle 21 del 5 novembre26, poi richiamato verso la zona dei Piani, rimane nella località con la metà dei suoi effettivi. Il mattino del giorno 7 i tedeschi presenti a Campone ricevono ordine di portarsi verso Meduno, dove tutta la divisione Jäger deve radunarsi. Ma prima della partenza per Meduno le pattuglie danno l’allarme avvertendo che addirittura una intera divisione italiana sta scendendo su Campone. Tendere un’imboscata in quella stretta gola è un gioco da ragazzi, gli italiani si arrendono a migliaia. 25 F. Rocca, op. cit., p. 88. 26 S. Murari, op. cit., pp. 236-237. 65 Sono fra loro il colonnello Dompè con i suoi bersaglieri, il colonnello Alliney con quello che rimane del suo gruppo alpino, molti altri ufficiali che hanno combattuto fino all’estremo, come il tenente colonnello Bodino, che con il battaglione Pinerolo ha tenuto testa ai tedeschi sul Cuel d’Orton. Fra loro è anche un giovane aspirante ufficiale che negli anni successivi della sua lunga vita sarebbe diventato famoso geografo, geologo, esploratore e alpinista, conquistatore nel 1954 della vetta del K2. Ardito Desio era aspirante ufficiale della 1203ª compagnia mitragliatrici autonoma comandata dal tenente Alfonso Ferrarotti. All’epoca aveva 20 anni, era al 4° anno dell’Istituto superiore di scienze naturali di Firenze, comandava la 2ª sezione, due armi. La cartella d’interrogatorio n. 4787 datata Modena 19 dicembre 1918, riporta: “Di piccola statura, di bell’aspetto fisico, educato, intelligente, mente lucida, sufficientemente colto, ha risposto in modo franco e fa ritenere che i fatti si siano svolti come li narra”. La relazione, scritta di pugno dall’aspirante Desio, è molto sommaria ma contiene le informazioni utili a ricostruire in particolare il momento della cattura: In quelle stesse circostanze cade prigioniero anche il generale Alfredo Taranto. Nella propria relazione non riferisce particolari significativi ma, stando a quanto riportato da Sebastiano Murari, pare che il comandante della 36ª divisione sia sfuggito per qualche tempo alla cattura fino a quando “la pattuglia comandata dall’Oberjäger Jagielski lo rintracciò dopo qualche ora in un casolare isolato e lo scortò a Campone”28. Ben triste deve essere Il generale Alfredo Taranto, prigioniero a Campone stata la lunga colonna delle migliaia di prigionieri italiani che partì da Campone alla volta di Meduno e quindi per Travesio fino a raggiungere, sempre a piedi, la ferrovia transalpina oltre Caporetto, alla stazione di Grahovo, da qui in treno ai campi di prigionia degli Imperi Centrali. “7 novembre. La colonna comandata dal sig. Generale si dirige verso Tramonti. Nei pressi di Campone la strada è chiusa dalle mitragliatrici tedesche. Il sig. Generale si arrende e tutta la colonna si trova in mezzo ai tedeschi. Sono due giorni che non si tocca cibo ed undici che si cammina sotto la pioggia. Ufficiali da me conosciuti, presenti all’atto della cattura: sig. colonnello Alinei, tenente Ferrarotti. Numero approssimativo totale dei militari catturati 3.000. Nella marcia da prigioniero Campone-Travesio-S.Daniele-Udine-Cividale-Ronzina-Grahovo-Bischoflack (Lubiana) il sottoscritto fu battuto e costretto con altri tredici ufficiali a spingere dei carri”.27 27 AUSSME, F.11, b. 61, 4787, Desio. 66 28 S. Murari, op. cit., p. 237. 67 Meduno La piazza di Meduno in una foto scattata dal 5° Jäger Regiment nel gennaio 1918 (Fondo JR 5 Archivio Tiliaventum). 68 Una raccolta di cimeli militari che vanno dall’epoca napoleonica fino alla seconda guerra mondiale: divise, sciabole e baionette, elmetti, oggetti di vita militare rari e preziosi. Ma anche documenti e foto dai quali affiorano tante storie personali. Ogni pezzo è qui grazie ad una storia fatta di lunghe attese, di colpi di fortuna, di baratti, di emozioni. Dalla bomba all’Orsini utilizzata dai mazziniani di Navarons, all’originale copricapo a bombetta dei primi alpini, ai tremendi comunicati del Tribunale per la sicurezza pubblica dei giorni della guerra di liberazione. La “Mostra storica-culturale di cimeli militari” è frutto della grande passione di Andreino Ferroli, storico barbiere di Meduno, che cominciò a raccogliere i suoi cimeli fin da bambino, nella natia Toppo. Una passione, quella di Andreino, che negli anni dedica sempre maggiore attenzione alle storie degli uomini, da quelle di famiglia a quelle delle tante persone legate agli oggetti che lentamente vengono ad arricchire la sua raccolta. Una vetrinetta si presenta con una didascalia piuttosto lunga che inizia con queste parole: “I cimeli esposti nella sottostante vetrinetta sono reperti raccolti nel territorio di Meduno, precisamente presso il bivio d’Agnul di Borgo Roburnon”. Emerge, fra quegli oggetti, un pugnale che la stessa didascalia identifica come pugnale d’assalto austroungarico raccolto sul luogo dei combattimenti da tale Michele Michelutti, detto “Muciat”, della classe 1901. Il nipote fece dono dell’oggetto ad Andreino. Ma che cosa accadde nei pressi di quel borgo che si incontra risalendo da Meduno verso Tramonti? In corrispondenza dell’incrocio con la strada che porta a Navarons e quindi verso la val Colvera una stele, sulla destra, richiama la nostra attenzione. 69 Quella notte a Roburnon… La ricostruzione dei fatti ci riporta ancora ai primi di novembre del 1917 quando la 55ª divisione austroungarica, dopo avere superato il Tagliamento nella notte fra il 2 e il 3 novembre, raggiunge Travesio verso le 13 del giorno 4 e continua quindi ad avanzare verso ovest. Verso Toppo, quindi verso Sottomonte, contendendo palmo a palmo la piana alla resistenza italiana che si avvale anche di automitragliatrici Lancia, i primi mezzi corazzati in dotazione al Regio Esercito. Gli I nomi dei caduti incisi sulla stele di austroungarici puntano su Roburnon. Meduno, dove entrano alle 19 del 4 novembre e proseguono quindi verso nord. I reparti di punta appartengono al 7° reggimento carinziano, inquadrato nella 55ª divisione austroungarica del principe Felix zu Schwarzenberg. Ad attenderli sono i bersaglieri del 58° battaglione del 16° reggimento: appartengono alla 26ª divisione del generale Battistoni, si sono ritirati dal Tagliamento attraverso il Passo Rest e discendendo la val Meduna sono venuti a schierarsi all’altezza del Bivio d’Agnul, della borgata di Roburnon e su fino alla quota della borgata Del Bianco, a protezione dell’accesso alla valle e alla passerella sul Meduna che conduce a Navarons e da quella località ad immettersi nella val Colvera. Il battaglione, al comando del capitano De Pace, schiera quattro compagnie. L’unica fonte testimoniale sullo svolgimento del combattimento è quella alla quale si sono rifatti sia Domenico Del Bianco che, in tempi più recenti, Tullio Trevisan. Si tratta dell’opuscolo “Pro 70 Asilo Infantile di Meduno”, stampato ad Udine nel 1924 e intitolato “L’ultimo manipolo d’eroi che difese il Friuli”. La pubblicazione, riportando nella parte conclusiva l’elenco delle oblazioni raccolte, ha certamente funzione celebrativa del risultato raggiunto con la fondazione dell’Asilo infantile di Meduno. Racconta dei giorni dell’invasione, il passaggio del Tagliamento da parte degli imperiali, della battaglia di Pradis ma soprattutto, dedica la sua parte fondamentale al combattimento del Bivio d’Agnul, quello del quale il maestro Andrea Ragogna, riconosciuto autore del libretto, fu testimone. Questo il racconto del combattimento che, nella sua completezza, riportiamo come altri hanno già fatto prima di noi1: “Difendeva il Bivio d’Agnul il 58° battaglione del 16° reggimento bersaglieri, agli ordini del capitano De Pace, che si era insediato nella casa – Francesco Paveglio – situata al crocicchio. Sulla quota 482 (Del Bianco) si erano schierate la V e la VI compagnia, quest’ultima al comando del tenente Mario Tata. La VII (capitano Garzari Guglielmo) era appiè della quota stessa, e l’ottava, in direzione della strada che conduce a Navarons. Cinque grossi massi sporgenti dalle alture, servivano di schermo a due mitragliatrici – sezione pistola – comandate dal tenente Raineri, soldato valorosissimo. Gli austriaci, forniti di numerose mitragliatrici, volendo ad ogni costo passare in quel punto alla destra del Meduna in quella sera stessa per aver libera l’avanzata verso i Tramonti, dovettero arrestare la loro marcia baldanzosa, e a lor volta, prender posizione davanti ai nostri a pochi metri di distanza. Sbarrava la strada un plotone della VII compagnia con 40 uomini, agli ordini dell’aspirante ufficiale Natalè Filippo. Eran circa le ore venti. Una nostra pattuglia guidata dall’aspirante Cannata Enzo, piena d’impulso e d’audacia intelligente, veniva a contatto con 1 Pro Asilo Infantile di Meduno, L’ultimo manipolo d’eroi che difese il Friuli, Stabilimento Tip. G. Percotto & Figlio, Udine 1924, pp. 8-10. 71 un pattuglione nemico, ne seguiva le mosse e poteva riferire al comandante De Pace, l’entità delle forze che si trovavano di fronte. Ma già i bersaglieri, insospettiti dal rumore e dal crescente vocio di soldati che strisciavano fra i canneti e di tra le verzure per non esser scorti, non ottenendo risposta al rituale – chi va là – aprivano il fuoco a cui rispondeva il nemico ferendo gravemente alle gambe l’aspirante Cannata e alcuni soldati della pattuglia stessa. Allora, per dar tempo a questa di rientrare in linea, si sospendeva il fuoco per brevi istanti, che veniva ripreso subito dopo, con maggior violenza. Le mitragliatrici nemiche, puntate da diversi punti, crepitavano senza posa inesorabilmente; ma i nostri, in corpo a corpo coi fucili e le baionette, facevano comprendere al nemico la difficoltà del suo tentativo. Fra i primi, nel disperato e titanico sforzo, che se non poteva ottenere premio, pure ritardava la marcia del nemico, cadevano 15 bersaglieri insieme al caporale Natalè Ernesto, mirabile tempra di soldato, falciati dalle mitragliatrici austriache, appostate presso la casa Andreuzzi Catterina. Poco dopo il tenente Tata, colpito a un polmone, cedeva il comando della compagnia al sottotenente Caruso; e il comandante della VII, capitano Garzari Guglielmo e il sottotenente Modica, erano fatti prigionieri. Durante lo scontro, l’aiutante-maggiore Foi, calmo e impassibile, combatteva, impartiva ordini, raccoglieva feriti; mentre i nostri animati e sostenuti dall’esempio dei capi, non indietreggiavano d’un passo. Gli invasori, pieni di rabbia perché il combattimento, durato un’ora e mezzo, si era infranto contro la salda resistenza di quei splendidi soldati, dovevano rinunciare al loro disegno, trasportare altrove i propri morti per nascondere l’entità delle perdite, e aspettare rinforzi. Durante la notte la situazione si faceva di più in più precaria. Le perdite subite, diminuivano gli effettivi nostri, mentre il nemico, rinforzato con truppe fresche, continuava nella pressione, e disponeva l’accerchiamento pel giorno seguente. Rimaneva intanto ferito leggermente a una gamba anche il sottotenente Caruso. 72 Alle ore 6 del mattino, gli austriaci sferrarono l’ultimo attacco. Essi, calando dalla quota 482, stringevano sempre più i resti del battaglione in un cerchio di ferro e di fuoco. Tuttavia i valorosi bersaglieri, risoluti fino all’estremo sacrificio, e furenti contro l’avversario che in quei giorni d’angoscia, ostentava disprezzo per noi tutti, gli infliggevano, con attacchi e contrattacchi furiosi, ingenti perdite. In uno di questi, cadeva gravemente ferito l’intrepido sottotenente Natalè Filippo, che li incitava alla resistenza; e cadeva pure il sottotenente Benelli Francesco, colpito alla regione intercostale destra con lesione polmonare da scheggia di granata. Ma la lotta continuava sempre più aspra e accanita e la situazione si faceva disperata. Alla fine, quel pugno d’eroi, rimasto privo completamente di munizioni e accerchiato dalle forze preponderanti del nemico veniva sopraffatto. Quelli che avevano tentato di passare al di là del Meduna, cadevano prigionieri, fra i quali, il comandante del battaglione capitano De Pace.” La ricostruzione dell’episodio è particolarmente dettagliata nei nomi degli ufficiali combattenti, un po’ meno nella identificazione dei luoghi, certo già pervasa dalla retorica dell’allora giovane ventennio fascista. Qualche ulteriore dettaglio sui luoghi ci viene offerto da una più recente ricostruzione2 che spinge la pattuglia in avanscoperta verso valle addirittura fino al ponte di Runchiat, sotto il borgo di Costa. In quel luogo è forse da collocare il ferimento dell’aspirante Enzo Cannata, comandante del reparto. Rientrata la pattuglia, dopo una violenta fase iniziale che non dura più di un’ora e mezza, nella quale resta sul campo la maggior parte dei caduti, il combattimento si calma. Durante la notte tutto si limita probabilmente a qualche scambio di fucileria fra i due schieramenti. Di buon mattino invece, alle sei, i carinziani del 7° reggimento, con il rinforzo dei bosno-erzegovesi del 2°, che si sono portati 2 T. Martinelli, Lo scontro di Roburnon in Valtramontina, “la Loggia”, maggio 2014 Anno 17 n. 18, p. 71. 73 alla quota di Del Bianco, riescono a sopraffare dall’alto la difesa dei bersaglieri. Sul campo rimangono 23 caduti e innumerevoli feriti. La popolazione, confinata nelle abitazioni fino al cessare degli echi di battaglia, generosamente si mobilita per dare soccorso a quei valorosi combattenti. Il maestro Ragogna, prosegue il suo racconto dedicandolo proprio alla pietosa opera di soccorso ai feriti3: “Le sorelle Olga e Letizia Pielli colla cugina Ida, pietose eroine, sotto il fuoco nemico prestavano amorevoli cure a quanti potevano. La levatrice, Beacco Maddalena, appena finito il combattimento. Volava a raccoglierli a medicarli, a confortarli. Quasi priva di materiale sanitario, sperperato dal nemico, lacerava le sue lenzuola per apprestar loro delle fasciature; e correva di casa in casa in cerca di qualche cordiale per rianimarli. Parte ne accompagnava all’ospedaletto di Toppo; parte ne assisteva giorno e notte al palazzo municipale; e parte ne visitava a Navarons in casa della maestra Anita D’Andrea, altra valorosa suora di carità. Era pure presente un uomo di grande fortezza d’animo e di profonda fede nei destini d’Italia, il medico cav. E. Zatti che girava di giorno e di notte, sempre affaticato e sempre sollecito ne’ luoghi dov’erano alloggiati i feriti, e nelle case dove languivano gli ammalati nostri senza medicine. Per lenir tanti dolori e asciugar tante lagrime, durante l’anno dell’invasione nemica, metteva a dura prova tutte le risorse del suo ingegno versatile e tutta la bontà del suo cuore d’italiano.” Foto scattata nel gennaio 1918 dagli Jäger del 5° reggimento al pendio sovrastante il punto di inizio della salita per Pitagora: lungo quel pendio si svolsero probabilmente i combattimenti, ciò ne giustificherebbe l’interesse fotografico dei germanici (Fondo JR 5 Archivio Tiliaventum). costituito dalla ricerca dei nomi nei 28 volumi e nelle tre appendici del Veneto dell’“Albo d’oro dei militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918”, pubblicato dal Ministero della Guerra nel 1946 dopo un lavoro riteniamo particolarmente lungo e impegnativo. La sua recente pubblicazione telematica, con semplici ricerche ci consente di avere almeno parziale risposta alle nostre domande. Ma per i caduti del Bivio d’Agnul qualche sorpresa ci attende… Il monumento, recuperato dagli alpini di Meduno nel 2006, riporta a perenne memoria i nomi di 20 caduti, oltre all’indicazione di tre sconosciuti. Ma chi erano quegli uomini? Da dove venivano? Sono domande queste che fino a poco tempo fa potevano trovare risposta solo attraverso un paziente esercizio. Esercizio 3 Pro Asilo Infantile di Meduno, op. cit., pp. 11-12. 74 75 I caduti nell’Albo d’oro Partendo quindi dai nomi riportati sul monumento di Roburnon, abbiamo svolto un confronto con quanto invece emerge dall’Albo d’oro pubblicato dal Ministero della Guerra. Ne emergono queste evidenze, utili ad una riflessione sulle età delle vittime, sulle loro origini, ma anche su tanti errori e incongruenze: 1. Matera Pietro di Michele soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 15 luglio 1895 a San Marco in Lamis (FO), disperso il 9 novembre 1917 in combattimento nel ripiegamento al Piave; 2. Verechia Paolo, l’Albo d’oro riporta invece Verrecchia Paolo di Aniceto soldato 16° reggimento bersaglieri, nato il 22 luglio 1882 a Vallerotonda (FR), morto il 4 novembre 1917 nell’ospedale da campo n. 0146 per ferite riportate in combattimento; 3. Matiel Giovanni, l’Albo d’oro riporta invece Mattiel Giovanni di Giuseppe soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 13 settembre 1889 a Motta di Livenza (TV), disperso il 24 ottobre 1917 in combattimento nel ripiegamento al Piave; 4. Gerace Salterio, nessun caduto compreso nell’Albo d’Oro corrisponde a questo nome. I resti effettivamente recuperati nel cimitero di Meduno (T7) riposano al Tempio Ossario di Udine; 5. Gentili Giuseppe, l’Albo d’oro presenta diversi omonimi ma nessuno di questi con luogo e data di morte compatibili con quelli del combattimento di Meduno. I resti effettivamente recuperati nel cimitero di Meduno (T5) riposano al Tempio Ossario di Udine; 6. Natalé Ernesto caporale 16° reggimento bersaglieri nato il 27 ottobre 1891 a Palermo morto il 5 novembre 1917 sul Tagliamento per ferite riportate in combattimento; 7. Venturi Rosario, nessun caduto compreso nell’Albo d’oro corrisponde a questo nome. Al Tempio Ossario di Udine riposa un caduto proveniente dal cimitero di Meduno (T4) indicato con il nome di Ventini Rosario, neppure questo riportato dall’Albo d’oro; 76 8. Lanza Giovanni di Antonino soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 23 giugno 1889 a Messina, morto il 4 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento; 9. ten. Rosario Sideli, nell’Albo d’oro Rosario Carmelo Sideli di Ignazio tenente di complemento 16° reggimento bersaglieri nato il 26 marzo 1896 ad Isnello (PA), morto il 5 novembre 1917 a Maniago per riferite riportate in combattimento; 10.cap.Emilio De Paolis di Achille, capitano 4° battaglione bersaglieri ciclisti nato il 9 giugno 1893 a Roma, morto il 5 novembre 1917 a Novarano (sic!) in combattimento decorato di Medaglia d’Argento e di Medaglia di Bronzo; 11.s. ten.Viola Rosario di Giorgio, nell’Albo d’oro risulta invece soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 20 luglio 1891 a Modica (RG) disperso il 5 novembre 1917 in combattimento nel ripiegamento al Piave; 12.Balodi Umberto, nessun caduto compreso nell’Albo d’oro corrisponde a questo nome. I resti effettivamente recuperati nel cimitero di Meduno (T22) sotto il nome di Ballodi Umberto, riposano al Tempio Ossario di Udine; 13. Longo Angelo di Carmelo, soldato 12° reggimento bersaglieri, nato il 14 maggio 1897 a Castroreale (ME) disperso il 9 novembre 1917 in combattimento nel ripiegamento al Piave 14. Cosentino Giovanni. Nell’Albo d’oro sono presenti tre omonimi, nessuno di questi con date e luoghi di morte compatibili con la partecipazione al combattimento di Meduno. I resti riposano al Tempio Ossario di Udine; 15.Gavioli Vito di Germano, soldato 16° reggimento bersaglieri, nato il 19 aprile 1891 a Massa Superiore (oggi Castelmassa in provincia di Rovigo) disperso il 25 ottobre 1917 in val Degano in combattimento; 16. Donigaglia Giuseppe di Ferdinando, caporale 16° reggimento bersaglieri, nato il 23 agosto 1895 a Palazzuolo (FI), morto il 4 novembre 1917 sul monte Paularo per ferite riportate in combattimento; 17.Messineo Antonino di Placido, soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 5 agosto 1888 a Messina, morto il 4 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento; 77 18.Mazzoli Monfredo, l’Albo d’oro riporta invece Mazzoli Manfredo di Desiderio soldato 16° reggimento bersaglieri nato il 12 marzo 1890 a Medolla (MO) morto il 4 novembre 1917 nell’ospedale da campo n.0146 per ferite riportate in combattimento. I resti, effettivamente recuperati nel cimitero di Meduno (T16), riposano al Tempio Ossario di Udine; 19.Di Marco Giuseppe di Fedele, caporale 16° reggimento bersaglieri, nato il 2 febbraio 1891 a Partinico (PA), morto il 1° febbraio 1919 nell’Ospedale da campo n.113 per malattia; 20. Nunziato Saverio, l’Albo d’oro riporta invece Nunziata Saverio di Antonio, soldato 59° reggimento fanteria, nato il 23 ottobre 1889 a San Gennaro (NA) disperso il 26 ottobre 1917 sull’Isonzo in combattimento; 21. Jovino Pietro (sottotenente), nessun caduto compreso nell’Albo d’oro corrisponde a questo nome. Dal cimitero di Meduno, dei 15.868 caduti conosciuti traslati al Tempio Ossario di Udine, ne provengono almeno 23, quindi un numero già superiore a quello dei caduti i cui nomi risultano scolpiti sulla stele del Bivio d’Agnul, eretta nel 1919. Fra questi caduti identificati, ne riscontriamo un altro, non riportato nell’Albo d’oro (Alessandrello Giuseppe, di reparto non identificato T35) e uno appartenente a reparto che non dovrebbe avere partecipato al combattimento ma che per data di morte indicata potrebbe effettivamente essere caduto a Meduno (Monzillo Aniello soldato 34° reggimento artiglieria nato il 14 dicembre 1885 a Baronissi (SA) morto il 3 novembre 1917 sul monte S. Michele per ferite riportate in combattimento). Da questa noiosa indagine, partendo dai venti nomi riportati sul monumento del Bivio d’Agnul, dobbiamo trarre al momento le seguenti conclusioni: – sette dei caduti non sono in alcun modo rinvenibili nell’Albo d’oro dei Caduti; – in un caso la morte del militare risulta collocata al 1° febbraio 1919; – in nessun caso i riferimenti geografici del combattimento sono riconducibili a Meduno, la formula più frequentemente uti- 78 lizzata è quella relativa al “ripiegamento al Piave” o “sul Tagliamento”, solo in due casi si riscontrano tentativi di collocazioni precise, con esiti abbastanza infelici: in un caso viene indicato Maniago, nell’altro “Novarano”, evidentemente storpiando il toponimo di Navarons. Questo tipo di analisi può essere evidentemente condotta solo per situazioni di combattimenti di limitate proporzioni e per i quali esista un elenco abbastanza completo dei caduti. È il nostro caso. Il risultato però non è stato confortante: forse c’è qualche errore di troppo che quei caduti non meritano. Certo errori del tutto giustificati solo pensando a quello che fu il caos di Caporetto e la difficoltà di ricostruire a distanza di anni quello che non era comprensibile neppure nel momento in cui i fatti si svolgevano. I nomi emersi dall’Albo d’oro, ci hanno rivelato qualche piccolo particolare della storia di quei valorosi combattenti, giovani in molti casi di poco più di vent’anni, siciliani, campani, pugliesi, ma anche toscani e veneti le cui speranze nel futuro furono stroncate nella difesa della porta della val Meduna. Lo stesso destino toccò a centinaia di migliaia di giovani italiani. La ricorrenza del centenario è forse l’occasione per onorarne la memoria anche correggendo qualche errore. 79 Sasà, morire a 21 anni Isnello è un paesino delle Madonie, circa 70 chilometri a est di Palermo, oggi ha una dimensione, in termini di abitanti, assimilabile proprio a quella di Meduno. Il 23 marzo del 1919 in paese si celebra un solenne funerale, ma in quella terza domenica di quaresima non c’è una bara sulla quale piangere. Rosario Sideli, conosciuto in paese come “Sasà” quel 23 marzo 1919 avrebbe compiuto 23 anni: dal novembre di due anni prima riposa nel cimitero di Meduno, caIl tenente Rosario Carmelo duto nel combattimento del Bivio d’ASideli caduto al bivio gnul. È il primo dei sei figli di Ignazio e d’Agnul il 4-11-1917 di Rosalia Maria Sideli. In quella domenica di inizio primavera, concluso il rito religioso, il segretario comunale Mariano Polizzi,4 sulla piazza del paese, legge la commemorazione funebre del giovane ufficiale dei bersaglieri. Una commemorazione che ci fa conoscere gli aspetti più nascosti della vita del caduto, quelli di un giovane che nel fiore degli anni fu travolto dalla grande tragedia. La notizia della morte del giovane non pervenne probabilmente alla famiglia fino alla fine della guerra, la prima a venirne a conoscenza fu la sorella Giuseppina, nata nel 1901 che, “per ritardare a’ suoi l’acerbo dolore”, mantenne il segreto per circa cinque mesi. Nella commemorazione, si racconta di quanto il giovane, studente al Regio Istituto Tecnico di Palermo fosse “sereno, mite, 4 L’orazione funebre è pubblicata in un opuscolo intitolato “In memoria di Rosario Sideli – tenente del 16° bersaglieri – 8ª compagnia – Caduto al bivio d’Agnol, fra Toppo e Maniago, presso il Meduno il 4 novembre 1917”, i passi per i quali non viene indicata diversa fonte sono riportati da quell’opuscolo. 80 gioviale, espansivo, affettuoso sempre e con tutti, non conobbe l’odio, il rancore, la rampogna: e la sua breve esistenza fu una fioritura di affetti sentiti, di amicizie sincere, di sorrisi seducenti, che fecero di lui un tipo a tutti caro, e sempre cordialmente simpatico.” Sasà aveva due amici fraterni, Vincenzino Mogavero e Bernardo Baiardi con i quali condivide anni spensierati e, appena dichiarata la guerra, lo slancio patriottico che i tre vollero imprimere alla vista di tutta la comunità di Isnello: “Come pervasi da un medesimo sentimento, volarono in cerca di colori e pennelli e vollero dare al fervore dei sentimenti una espressione tangibile, scrivendo sulle mura di questa Chiesa madre, a lettere cubitali, le parole che ancora vi si leggono: Viva l’Italia – Abbasso l’Austria! Oh! Quelle fiere parole, che pur sono la rivelazione immediata dei sentimenti purissimi di amor patrio che li dominava e li avvinceva sono proprio impresse di pugno di Sasà nostro: e perciò stesso esse sono a noi sacre.” Partono tutti e tre per la guerra: nessuno di loro sarà risparmiato. Vincenzo Mogavero, nato ad Isnello l’8 novembre 1896, quindi coetaneo di Rosario, muore il 2 novembre 1916 sul Carso, sottotenente di complemento nel 117° reggimento fanteria, neppure ventenne. Sasà Sideli torna a casa, in licenza, dopo la morte dell’amico. Continua ad esaltare il sacrificio per la Patria, ma la morte di Vincenzino lo ha cambiato: “Notammo tutti che egli soffriva atrocemente per la perdita dell’amico carissimo; notammo che egli aveva perduto molta parte del suo fine umorismo, e della sua consueta radiante letizia. Lo sorpresi un giorno – la vigilia dei funeri del povero Vincenzino – in campagna, solo, tutto intento a raccoglier dei fiori. Aveva agli occhi dei lucciconi che gli rigavano la maschia gota. Non è niente, - mi disse – sono state le maledette spine che si nascondono pur fra le rose!... E poi tergendo col dorso delle mani, 81 piene di fiori, le lacrime rivelatrici, rispose alle mie insistenze: che Egli sentiva, con il più profondo dolore per la perdita del compagno caduto, tutto l’orgoglio di essere stato sicuramente il più intimo amico di un Eroe cui era toccata la sorte di immolarsi per un grande ideale. Quando la sera volli vedere a casa sua le ghirlande, che con amore aveva intrecciate, Egli – tutto soddisfatto del suo lavoro, come di un dovere compiuto – girando lo sguardo, per accertarsi che alcuno de’ suoi non lo udisse, e sforzandosi di coprire con un sorriso l’intima angoscia del cuore:”Non vanno bene così quelle ghirlande? – mi chiese – “Non è vero che quando verrà il mio turno penserai tu a farmene di più belle?!” Poi si racconta delle sue imprese al fronte, fino ai giorni in val Meduna, riferendo qui anche un episodio certo non esatto, cioè quello della cattura del tenente Sideli che sarebbe avvenuta a Redona la mattina del 4 novembre (in quel momento nessuna forza nemica era ancora penetrata in valle). L’ufficiale sarebbe riuscito a fuggire nella stessa giornata presentandosi al proprio reparto disarmato e senza berretto: Il tenente Rosario Sideli, a chi lo raccolse sul campo parve ancora vivo, in una posa che pareva ricordare il carattere espresso dal giovane nella sua breve vita da civile, a Isnello: “Fra tanti morti, uno pareva ancor vivo. Era costui il tenente Rosario Sideli, giunto da Redona alla V compagnia verso le ore 21 e mezzo, senza berretto e coll’astuccio ad armacollo, privo di cannocchiale. Dopo aver egli combattuto la notte intera, con tutto l’impeto della sua giovinezza gaia e ardimentosa, era caduto al mattino. Una pallottola attraversandogli il cuore, era uscita dalla spalla sinistra. Aveva gli occhi semiaperti; era bello e sorridente, a pugni stretti, in atteggiamento di lotta, tanto che il Parroco Don G. Bellotto nel dare, per ordine dell’invasore, onorata sepoltura a tutti quegli eroi, credendolo vivo ancora, lo scuoteva, lo chiamava, e non poteva persuadersi che fosse morto”5. Il 2 aprile 1918, ad Isnello, dove era rientrato per malattia, moriva anche il sottotenente Bernardo Baiardi, nato il 25 giugno 1897, il terzo degli spensierati amici che sul muro della chiesa scrivevano “Viva l’Italia – Abbasso l’Austria!”. “‘Son qui – disse – pronto sempre fino allo estremo sacrificio: datemi un’arma e una destinazione.’ Gli fu dato un moschetto; e volò subito verso il luogo dove i fidi soldati della sua 8ª compagnia si battevano con disperato valore; dove il fervore della mischia fremeva terribile e sterminatore. E lì nell’aperta campagna, al bivio d’Agnol presso il fiume Meduno, alle 21,30 di quella notte fortunosa, lì il Prode Sasà nostro, che protetto dalle tenebre avrebbe potuto cavarsela inosservato fra i macigni – lì quasi volontariamente, cadde appena ventunenne, colpito alla spalla e alla tempia da piombo nemico; lì cadde pugnando come un semplice oscuro milite, accanto a’ suoi uomini che amava, e che lo adoravano, mentre li incitava col fatidico grido: Savoja!” 5 Pro Asilo Infantile 82 di Meduno, op. cit., p. 11. 83 Travesio Una strana scritta Alpini del battaglione Pinerolo a Travesio l’11 novembre 1914 (Archivio D. Baselli) Non è un segno di quelli che balzano all’occhio, ma certo a chi lo nota dovrebbe suscitare curiosità. Si tratta della scritta, sbiadita ma ancora leggibile, in parte nascosta da un corpo di fabbrica avanzato evidentemente realizzato in epoca più recente, che appare sulla parte destra della facciata dell’edificio che attualmente ospita la locanda Prealpi. Si legge chiaramente “Soldaten-Heim”, parole la cui traduzione letterale dal tedesco è “Casa del soldato”. Ma a quando risale questa scritta, e chi la dipinse? La domanda, posta a qualcuno di Travesio, non ha trovato risposta. E la risposta non è in effetti così scontata, poiché fa riferimento ai giorni della Grande Guerra, ma ad una situazione del tutto particolare nel periodo dell’occupazione del paese dopo Caporetto. Travesio è occupata dagli austroungarici della 55ª divisione verso le tredici del 4 novembre 1917. Gli invasori arrivano da Castelnovo dopo avere superato la resistenza italiana sul versante di Celante. I giorni precedenti sono frenetici in paese. Nella casa di Maddalena Fratta1, probabilmente sull’attuale piazza XX settembre, viene ad insediarsi il generale Antonino Di Giorgio con l’intero comando del suo Corpo d’Armata Speciale (20ª e 33ª divisione) schierato a difesa dei ponti sul Tagliamento fra Cornino e Pinza- 1 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 254. 84 85 no. Travesio si trova a poca distanza dalla prima linea con relativa facilità nei collegamenti. A Travesio, fuggito dalla sua parrocchia, viene a trovarsi in quelle ore Don G.B. Covassi che, fuggito da Ragogna, riportò a Giuseppe Del Bianco il racconto di episodi di cui fu testimone. Dalla concitata riunione degli ufficiali del Di Giorgio in canonica, la sera del 3 novembre, alla precipitosa partenza di quel comando la sera stessa, alla messa che il generale chiese a Don Covassi di celebrare accompagnando la richiesta con le parole: “Vivo o morto ne avro’ bisogno”2. Alle prime luci dell’alba del 4 novembre, mentre da Paludea giunge già l’eco dei combattimenti, Don Covassi celebra la messa. Dopo la messa il sacerdote incontra un ufficiale italiano in fuga che lo prega di raggiungere il municipio (all’epoca situato nell’immobile attuale sede dell’Istituto Comprensivo) dove si trova il suo attendente ferito. Poi prende la strada verso Paludea e qui il primo incontro con gli austriaci che Del Bianco racconta così3: “Protendendo davanti a sé l’ampolla sacra, si presentò senz’altro all’ufficiale che si era levato in piedi. – Che fa lei qui?!... chiese in uno stentato italiano e in tono assai burbero. – Sono fuggito da Travesio – rispose don Covassi indicando il paese poco lontano, dietro la svolta, – e vado in cerca di feriti. – Vada al mulino… Vi sono anche dei morti…” Gli austroungarici scendono verso il paese, si avvicinano al ponte sul Cosa, l’attraversamento obbligato per raggiungere la piazza, dove avviene l’ultimo episodio di resistenza a Travesio, che Del Bianco sentì raccontare sul posto4: “Non posso però staccarmi da Travesio senza ricordare un episodio destinato ad aggiungere colore, più che sostanza ai fatti che son venuto fin qui raccontando: la morte di Alfonso De Anna, del quale dirò brevemente quel poco che di lui ho potuto conoscere. Era il De Anna di umilissime condizioni, noto in paese non tanto per le qualità sue di lavoratore e artigiano, quanto per il carattere riservato, direi quasi scontroso, che talvolta però esprimevasi in così generosi e stravaganti impulsi da essere dal volgo giudicati siccome fuor del comune. Per cui lo si considerava un cervello strambo, e nonostante i suoi cinquant’anni suonati e il peso di famiglia che su di lui gravava, più notorietà che reputazione godeva, anche se il generale uomo dabbene lo ritenesse e timorato della legge e di Dio. Ora avvenne che in quei giorni in cui al precipitare degli eventi faceva riscontro l’universale sconforto, il De Anna, per virtù dello stesso suo temperamento trovasse animo, laddove gli altri lo perdevano, e senza punto curarsi dei suoi e delle poche cose, imbracciato un fucile e armatosi di uno sciabolone si unisse ad un reparto di alpini, portandosi con questi sulla collina che sovrasta Travesio. Quivi per molti segni premonitori ritenevasi per certo che una tenace resistenza sarebbe stata opposta agli imperiali, ma perduto Lestans, e venute a contatto le opposte forze, si ritrassero gli italiani e il De Anna con essi. Mentre gli alpini proseguivano senza fermarsi allontanandosi tosto dal paese, egli imperterrito vi restava, e accovacciatosi dietro il muretto che fiancheggia il Cosa, si dava a sparare, bersagliando il nemico che avanzava a sbalzi. Ben presto raggiunto e circondato, tolto fu di mezzo senza pietà, e il suo cadavere, lasciato lì per alquanti giorni, venne poi dai compaesani raccolto e di soppiatto portato in cimitero, ove alla chetichella fu sepolto.” Il racconto, molti anni dopo, fu anche reso in una versione romanzata5 ma, ancora sulle tracce delle origini di quella scritta 2 Ibidem, p. 254. 3 Ibidem, pp. 274-275. 4 Ibidem, pp. 255-256. 86 5 F. Costantini, Il difensore di Travesio un episodio ignoto della grande guerra, Il Barbacian 12/1983. 87 in tedesco, ho cercato di capire se a Travesio esista ancora un filo di memoria che lega la comunità a questa storia. La prima scoperta è stata che il cognome del difensore di Travesio, come si poteva presumere, era Deana e non De Anna. Abitava nella omonima borgata dove ancora oggi vivono parenti che portano lo stesso cognome. Isolina vive in Deana dalla nascita, Alfonso era fratello del nonno e ci racconta6: “Non era sposato e non aveva figli. Quando i tedeschi stavano arrivando a Travesio costruì una barricata in piazza, sul ponte, invitando la gente a difendersi dagli invasori che avrebbero portato via tutto. Si fecero poi delle chiacchiere sulla sepoltura, dicendo che Alfonso era stato interrato in una posizione sulla quale la gente camminava. Poi però mio zio ci disse che non era vero. Mio nonno e sua sorella Angela (fratelli di Alfonso, nda) durante quella guerra hanno trovato diversi morti che raccolsero portandoli nella “cisiola” dove stettero anche a vegliarli prima della sepoltura. Ricordo che qualche anno fa venne da noi un professore a chiederci informazioni per pubblicare un articolo sul “Barbacian”, ho inviato quella pubblicazione a mio fratello che vive in Uruguay.” Pochi elementi che vengono però arricchiti dalla testimonianza di Sante Deana, anche lui lontano parente del nostro personaggio, che sentì raccontare dal padre che in realtà Alfonso Deana era stato ucciso sulla piazza in quanto si era opposto agli invasori a difesa della farmacia, avendo avuto incarico in tal senso dai proprietari che erano fuggiti. Arricchisce poi la storia con un altro particolare7: “Non fu ucciso solo l’Alfonso Deana ma anche un altro uomo, che non era di Travesio, ma era detto “il puian”, non ho mai conosciuto il suo nome”. Una storia quindi con molti lati oscuri che, direte, ci ha portati fuori strada rispetto all’obiettivo originario. Siamo comunque arrivati ai giorni dell’occupazione. Come in tutto il distretto di Spilimbergo, il primo periodo dell’anno ter- 6 Intervista a Isolina Deana raccolta il 5 luglio 2013 da Giuliano Cescutti. 7 Intervista a Sante Deana raccolta il 5 luglio 2013 da Giuliano Cescutti. 88 ribile anche a Travesio viene affidato ad un comando di tappa tedesco, il 307° “Mobile Etappen Kommandantur”. Il comando di tappa non è comunque un reparto militare di consistenza tale da giustificare quella scritta su un immobile di così rilevanti dimensioni. E allora la nostra domanda rimane ancora senza risposta. E poiché i risultati dell’indagine sul passato non raramente dipendono dalla fortuna, anche in questo caso la dea bendata ha voluto darci un aiuto. Nell’ottobre del 2007, l’Associazione Storica Tiliaventum pubblicò il n. 5 della propria collana storica “Tiliaventum Quaderni”, numero monografico intitolato “Con la XIV Armata tedesca da Caporetto al Piave”. Un interessantissimo percorso fotografico attraverso i giorni di Caporetto, visto con gli occhi degli invasori di allora. Fra le foto pubblicate, molte provengono da un diario fotografico del Jäger Regiment n. 5, reparto aggregato alla 2ª Jäger Brigade della 200ª Infanterie Division tedesca. Si tratta di una delle tre divisioni da montagna (le altre due sono la Deutsche Jäger Division e l’Alpenkorps) messe a disposizione da parte della Germania per lo sfondamento di Caporetto. Fra queste, due immagini datate gennaio 1918, scattate a Travesio, una delle due chiaramente identificabile anche nel paesaggio. Assieme a queste, proveniente dalla stessa raccolta e sempre risalente al gennaio 1918, la foto della piazza della chiesa di Meduno. Contattai l’Associazione Tiliaventum per poterne sapere qualche cosa di più e,ulteriore sorpresa, oltre a quelle pubblicate mi vennero fornite altre tre immagini di Travesio e un’altra scattata lungo la strada che sale a nord di Meduno. Sono in tutto cinque immagini di Travesio: – la prima, nell’originale contenuto nel diario fotografico, riporta proprio la scritta “Travesio”. È la foto di una automobile con il proprio autista e al suo fianco un ufficiale. Le ombre sulla facciata di sfondo confermano che la foto è stata scattata in una giornata invernale particolarmente assolata; – la seconda, anche questa già pubblicata, è una inquadratura lungo l’attuale via Rio Secco, dall’alto verso la chiesa di Sant’Antonio che si vede sullo sfondo del colle di San Giorgio. In primo piano la strada ricoperta di neve e sulla sinistra, ancora a cielo 89 aperto, l’alveo del rio. Il sole penetra fra le case con le prime luci di quella giornata assolata. Sul ponte che attraversa il rio, uscendo dal cortile del primo fabbricato, (che ancora oggi mantiene la stessa facciata dell’epoca), un soldato tedesco attende mentre uno esce a lunghi passi. In fondo al tratto di via altri due soldati tedeschi indossano i lunghi cappotti in dotazione agli Jäger tedeschi; – le altre tre foto sono panorami del paese scattati risalendo il colle di San Giorgio: tre scatti in successione, partendo dal centro del paese, dove si distingue bene l’attuale piazza XX Settembre. Poi più a valle dove l’edificato lascia spazio alla campagna, e fino a toccare le pendici del Col Cravest, ben distinguendo, separato, l’attuale Borgo Svizzera, dalle cui case si levano chiari pennacchi di fumo. Foto che rappresentano documenti unici per la storia di Travesio. Ai fini della nostra indagine ci consentono di fare un passo avanti: il numero di militari che vediamo nell’immagine scattata in Rio Secco, il numero stesso delle riprese effettuate e la precisa indicazione del luogo e della data, ci lasciano presumere che il contesto abbia avuto un significato particolare. Ci viene quasi da pensare che in quel gennaio del 1918 l’intero reggimento fosse presente a Travesio. Una quasi conferma ci viene dalle vicende che coinvolsero la 14ª Armata germanica dopo i giorni della travolgente avanzata fino al Piave e al Grappa. Per alcune settimane le divisioni tedesche rimangono ad affiancare gli alleati austroungarici nel tentativo di superare la resistenza italiana in particolare sul massiccio del monte Grappa e sul monte Tomba. Alla fine di dicembre le divisioni tedesche vengono ritirate dal fronte italiano, il 27 il comando del settore tedesco passa al Gruppo d’Armate Conrad, il 22 gennaio la 14ª Armata viene sciolta. Le divisioni tedesche sono destinate a tornare sul fronte occidentale ma prima beneficeranno di un periodo di riposo sul Tagliamento, negli stessi luoghi che due mesi prima avevano percorso nella loro vittoriosa avanzata. Hans Killian, ufficiale al seguito dell’Alpenkorps in Italia, comandante dei reparti bombarde di quella divisione, nella sua opera “Wir stürmen durchs Friaul”, tradotta e pubblicata in Italia 90 Immagini di Travesio scattate dal 5° Jäger Regiment nel gennaio 1918 (Fondo JR 5 Archivio Tiliaventum) 91 nel 20058 così racconta il riposo del suo reparto in una località che ben conosciamo: “Sotto il mio comando la 175ª compagnia marcia ora a tappe verso San Foca-Vivaro, attraversa il torrente Meduna, raggiunge Gradisca-Bonzicco, passa il Tagliamento sul lungo ponte di legno ricostruito. Al di là del fiume, che adesso non è più in piena, giriamo verso nord e attraverso Dignano arriviamo a Vidulis, un paesino sul fiume. Rimaniamo acquartierati lì per un mese. Gli uomini si riposano nonostante gli esercizi, i corsi, l’allenamento e le esercitazioni di tiro di tutte le formazioni dei reparti bombarde dell’Alpenkorps sul Tagliamento. Visitiamo le fabbriche di seta, vediamo come si dipanano i bozzoli, come si filano i primi brillanti fili giallo oro mentre le ragazze al posto di lavoro cantano o pregano tutto il giorno e ci osservano curiose. C’è una grande pace.”9 Il racconto dell’ufficiale dell’Alpenkorps ci offre la conferma definitiva che nella nostra zona rimasero accantonate le divisioni tedesche della 14ª Armata: a Travesio evidentemente aveva trovato alloggio lo Jäger Regiment n. 5 della 200ª divisione. Da una verifica presso l’archivio storico del Comune di Travesio, non sono emersi particolari documenti attestanti una presenza di militari tedeschi così importante, ma solo alcune conferme indirette: – Avviso del Sindaco, di data 20 gennaio 1918 nel quale si legge “che l’autorità militare avendo ordinato esercitazioni di tiro in questo territorio comunale, rende noto essere sospese le comunicazioni epperciò vietato a chiunque di transitare nelle seguenti località: fra Toppo e Travesio – fra Usago e Travesio – nei pressi colle Paurion e in tutta la zona detta Sottoplovia e ciò sino da oggi e alla ingiunzione delle apposite sentinelle di ritirarsi”10; Immagini di Travesio scattate dal 5° Jäger Regiment nel gennaio 1918 (Fondo JR 5 Archivio Tiliaventum) 8 La traduzione italiana dell’opera è pubblicata con il titolo Attacco a Caporetto, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005. 9 H. Killian, Attacco a Caporetto, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 302. 10 Archivio Comunale di Travesio, busta “Anni dal 1917 al 1919 atti”. 92 93 – Avviso del Sindaco Cargnelli di data 26 gennaio 1918, riportante le seguenti parole: “Il Sindaco sottoscritto si incarica di avvertire le famiglie della vostra borgata che da oggi e fino a nuovo ordine resta severamente proibita sotto pena di multa, alle famiglie private la vendita di vino al minuto ai militari e borghesi, e ciò per evitare dei tumulti già verificati”11; – Ordine del comando di tappa datato 3 marzo 1918 e tradotto in italiano che, fra le prescrizioni contenute riporta anche quella per cui “le camere dove soldati erano accantonati sono da pulirsi e da aerarsi, specialmente le case non abitate”12. Tre documenti che confermano disposizioni determinate da una presenza di truppe intente a svolgere esercitazioni, ma anche desiderose di riposo e di svago dopo i mesi di impegno al fronte, dando luogo in giro per il paese anche a qualche intemperanza che l’ordine del 26 gennaio intende stroncare sul nascere vietando la vendita di vino al di fuori dei pubblici esercizi. Il tre di marzo del 1918 gli Jäger sono partiti e il solerte comando di tappa si preoccupa di ordinare agli abitanti di arieggiare quelle stanze che non dovevano essere state lasciate proprio in condizioni ideali. Durante quel periodo di riposo a Travesio, gli Jäger del 5° reggimento della 200ª divisione da montagna tedesca ebbero il tempo di darsi una buona organizzazione, addirittura dipingendo sulla facciata la nostra scritta “Soldaten-Heim”. 11 Archivio Comunale di Travesio, busta “Anni dal 1917 al 1919 atti”. 12 Archivio Comunale di Travesio, busta “Anni dal 1917 al 1919 atti”. 94 In una assolata mattina di gennaio del 1918, furono scattate quelle immagini di Travesio, prima in paese e poi salendo sul colle di San Giorgio. Poi, in automobile, la comitiva probabilmente costituita dall’autista, dall’ufficiale e dal fotografo, si porta verso Meduno. Qui scattano la fotto sulla piazza e poi risalgono la strada in direzione di Tramonti fermandosi sulla salita di Pitagora a fotografare il pendio sovrastante. Attraverso le foto dell’invasore di allora, la nostra curiosità è in parte appagata, quella scritta ha una storia che ci sarebbe stato un po’ difficile immaginare. Iole Deana nata il 30 aprile 1909 Mi hanno avvertito che con lei bisogna parlare un po’ forte, nulla di più. Iole vive da sola, è ancora praticamente autonoma, vive in quella che da tanti anni è la sua casa, a darle una mano sono i vicini. Dopo i saluti è lei a pormi la prima domanda, con un po’ di legittima vanità: “Come mi trova?” La risposta, davanti ad una figura che non dimostra gli anni che ha, davanti ad una vivacità e lucidità che fanno invidia ad un giovane, non è di quelle difficili. Al momento dell’incontro Iole ha già compiuto 104 anni, è nata a Travesio il 30 aprile del 1909. Dal suo racconto emergono tanti piccoli ricordi di bimba legati alla vita quotidiana ma anche alle conseguenze della guerra. E i ricordi di Iole sono precisi: il tentativo di metterla in qualche passaggio alla prova viene subito stroncato, come quando fingo di non capire il riferimento ai muli e soldati morti incontrati scendendo da Montereale per ritornare a Travesio. Mi precisa subito che si tratta del ponte laggiù “dove sono venuti a stare quelli scesi dalle montagne dopo il disastro del Vajont”, quindi del Ponte Giulio, che fin dal 1875 collega le due sponde del Cellina fra Montereale e Maniago. Questo è il prezioso racconto di Iole13: 13 Intervista a Iole Deana raccolta il 3 luglio 2013 da Giuliano Cescutti. 95 “Quando è iniziata la guerra era il primo anno che andavo a scuola. Sono nata in Rosec per andare lassù alla fornace. Quando ero piccola stavo da mia nonna di Molevana perché la mamma aveva avuto un altro bambino e si era ammalata. Allora mia nonna lassù ha tenuto il bambino mentre quella di Molevana ha tenuto me che ero piccola, di due anni. Quando ho iniziato la scuola sono tornata in Rosec. Ricordo il primo giorno per andare a scuola: quando eravamo all’altezza del passaggio a livello (che allora non esisteva, nda) è venuta giù una donna, la Nuta di Piligrin, a dire a mia nonna che era morto mio nonno e allora mi sono messa a piangere. Mia nonna voleva riportarmi indietro ma io non ho voluto e sono andata su lo stesso in Rosec. Mia nonna in Rosec ha tenuto mio fratello mentre mia mamma è rimasta in ospedale per tre anni. Nel frattempo io stavo in Molevana, mio papà qualche volta veniva a trovarmi. A scuola non c’era niente: non avevamo né inchiostro, né quaderni. C’era un cappellano militare a farci da maestro e ci portava in giro, laggiù sulla collina della chiesa. Salivamo sulla collina e mettendo il piede sotto il sedere facevamo a gara a chi era il più veloce nella discesa. Il cappellano ci leggeva dei libri perché non si poteva fare altro che non c’era nulla. Quando stavano arrivando i tedeschi, la nonna di Molevana è venuta su in Rosec a dirci di prepararci che il Barba Lalo ci avrebbe portati via. Il Barba Lalo si chiamava Edoardo ed era fratello della nonna di Molevana, aveva due cavalli. Mia mamma ha cominciato a piangere ma siamo partiti. Siamo arrivati fino a Marsure di Aviano dove avevamo conoscenza con quelli di “Pitit”, non so se una di Marsure era venuta in Molevana o viceversa. Il carro era carico di bambini, eravamo noi tre, poi c’era il Nadalin, suo figlio, poi c’erano tre o quattro bambini di Lunazzi: eravamo una carretta di gente! Dobbiamo essere rimasti a Marsure per circa un mese perché i tedeschi ci hanno fermati. Poi siamo tornati a casa ma siamo tornati con un “barel” e non so quanti giorni ci abbiamo messo a fare la strada. Siamo passati a Montereale, lungo la strada era pieno di muli e militari morti che non ci permettevano di passare, laggiù sul ponte dove sono venuti a stare quelli scesi dalle montagne dopo il disastro del Vajont (il Ponte Giulio, nda). 96 Poi era venuto anche mio padre che era stato a fare la visita militare e rientrando era stato preso dai tedeschi che lo avevano messo in una casa dove c’erano dei veneziani e poi, dimostrando che aveva i bambini, i tedeschi lo hanno liberato. Lo avevano fermato, veniva a trovare noi. Poi piano piano siamo arrivati a casa e mia nonna di Molevana era ad aspettarci sulla strada. I tedeschi che tornavano indietro, quando la guerra stava finendo, quelli che passavano erano cattivi. Sono venuti a casa nostra, c’eravamo noi bambini, mio papà e mia mamma. Hanno preso mio padre e lo hanno perquisito trovandogli l’orologio che si sono presi. Ricordo che il papà era bianco come un lenzuolo. Nel cortile c’era la mamma e un tedesco voleva sfilarle la vera dal dito ma questa non usciva e allora un militare ha detto di tagliarle il dito. Ci siamo messi tutti a piangere e allora è arrivato un altro militare che li ha fatti smettere e li ha mandati avanti. Laggiù da “Sinic” hanno ammazzato due uomini, il sindaco (Luigi Cargnelli, nda) e suo nipote (Edoardo, nda), che hanno visto che i militari volevano entrare nel loro grande cortile e si sono preparati con la forca, ma gli altri hanno sparato e li hanno uccisi tutti e due. In Molevana, da mia nonna, avevano il maiale pronto da ammazzare, i tedeschi lo hanno ucciso, si sono presi le parti migliori e hanno lasciato lì il resto.” 97 Castelnovo del Friuli Paludea in un’immagine dei primi anni del Novecento (Archivio G. Cescutti) Nei giorni di Caporetto il territorio di Castelnovo si trova ad essere immediata retrovia della linea di resistenza sul Tagliamento. Le proprie borgate sono addirittura esposte al fuoco proveniente da oltre il fiume che raggiunge il paese con il tiro delle artiglierie. A Paludea il transito di profughi e militari, lungo la strada che scende da Clauzetto, doveva essere intenso. Poi l’arrivo degli imperiali, nella mattinata del 4 novembre 1917, quando l’ultima resistenza del colonnello Palumbo sui pendii di Celante cede alla spinta nemica. A Castelnovo non ebbe occasione di raccogliere particolari testimonianze neppure Del Bianco che riporta questo solo episodio riferito ad una donna di Paludea che “da furia omicida sconvolta, giudicando meglio morte che abbandonate alla teutonica libidine, uccideva a colpi di scure tre sue figliuole, e avrebbe finito anche una quarta ove non fosse stata a tempo disarmata e alla impotenza ridotta”1. L’alpino e la fanciullina Castelnovo ci rivela, invece, due storie, unite da un legame fraterno che la guerra spezzerà. Sono le storie di due sconosciuti protagonisti di quei giorni tragici, che si svolgono nello scenario compreso fra le Alpi Giulie, la val d’Arzino, Paludea e il Piave. 1 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 227. 98 99 Incrociai il primo dei due personaggi nel lavoro di stesura dei testi di Generali senza manovra. La battaglia di Pradis di Clauzetto nel racconto degli ufficiali combattenti. Fra le decine di relazioni di ufficiali che il 5 e 6 novembre combatterono fra Pielungo e Pradis, mi capitò ad un certo punto fra le mani quella del tenente Gino De Vecchi, giovane studente bolognese nato nel 1891, comandante nei giorni di Caporetto la 154ª compagnia del battaglione alpini Monte Canin. La citazione nell’ambito della relazione di un sergente Cozzi, senza l’indicazione del nome, mi fece immediatamente sorgere un sospetto: pensai a quanto mi aveva raccontato la signora Giuseppina Cozzi che mi parlò, in tempi ben precedenti all’idea di scrivere il libro, di uno zio sergente degli alpini caduto nella Grande Guerra durante i combattimenti sul Cuel d’Orton, a Pradis di Sopra. Il racconto, riascoltato con maggiore attenzione, mi confermò che si trattava del sergente Vittorio Cozzi, nato a Castelnovo del Friuli nel 1887, ispettore delle macchine Singer, partito per la guerra da Paludea e mai più tornato. Queste informazioni erano accompagnate da una foto del sergente Cozzi, una bella foto di inizio Novecento, dove il nostro personaggio posa con la tenuta grigio verde, introdotta per le truppe alpine nel 1908 e per la quale, sempre secondo il racconto di Giuseppina, lo zio fece da modello, in virtù di quella prestanza fisica che da quella immagine traspare nella sua pienezza. Oltre alla foto, grazie alla disponibilità di altri famigliari della preziosa informatrice, mi veniva consegnata una cartolina militare spedita dal fronte in data 11 agosto 1917 (il timbro della posta militare è del successivo giorno 15) indirizzata da Vittorio Cozzi “Alla brava fanciullina Rina Cozzi”, l’adorata sorellina nata il 28 gennaio 1904 (il nome di battesimo era Irma) avviata agli studi grazie al sostegno finanziario del fratello. La cartolina conferma l’effettiva appartenenza del sergente Cozzi Vittorio alla 154ª compagnia del battaglione Monte Canin e nel suo testo ci fa apprezzare la sensibilità e il profondo legame verso quella sorellina, quindicesima di sedici figli: 100 Il sergente maggiore Vittorio Cozzi di Castelnovo del Friuli (Archivio famiglia Cozzi) “Rinuccia mia cara, non ti so dire quanto gradita mi giunse la tua letterina del 5 corrente e quanta gioia provai nell’apprendere che sei così ben riuscita agli esami e che hai fatto così bella figura nelle recite! Brava Rina, continua sempre così e vedrai che un giorno ti troverai contenta. Spero che d’ora innanzi mi scriverai più spesso. Stranissimo davvero quel fatto della rondinella! Saresti buona di mandarmi quel bigliettino, così per curiosità? Ti bacio con vivissimo affetto. Tuo fratello Vittorio.” Ma a questi preziosi documenti si aggiunge un’altra straordinaria testimonianza costituita dal diario tenuto proprio da Rina nei giorni della rotta di Caporetto. Il diario racconta dei giorni trascorsi a Paludea fino all’imminente arrivo delle truppe au- 101 stroungariche e quindi la fuga verso il Piave e poi il viaggio fino a Piedimonte d’Alife, in provincia di Caserta. Originariamente contenuto in un quadernetto ingiallito, il diario è stato trascritto dal nipote Valter De Michiel: è un racconto dal quale si percepisce tutta la tragicità e insicurezza di quelle giornate del 1917, ma dal quale emerge viva la preoccupazione di Rina per la sorte del fratello Vittorio, in un continuo chiedere agli alpini di passaggio a Paludea se ne avessero notizia, senza ottenere risposta. Grazie alle relazioni degli ufficiali che si trovavano al fianco di Vittorio, a distanza di quasi un secolo siamo ora in grado di rispondere alle domande di Rina conoscendo le vicende di cui l’alpino di Paludea è stato testimone negli ultimi giorni della sua vita, e dove negli stessi momenti si trovasse la cara sorella che più non rivide. All’inizio dell’offensiva, il 24 ottobre, il battaglione Monte Canin è schierato sopra Pontebba, sul versante compreso fra M. Piccolo, M. Poccet e La Veneziana. Fin dalle ore 19 di quella stessa giornata il reparto riceve ordine di lasciare le proprie posizioni e portarsi per il mattino successivo a Dogna, dove giunge all’alba del 25 ottobre. Nel pomeriggio il battaglione viene caricato sugli autocarri e trasportato verso la val Resia, a S. Anna di Carnizza e quindi alla sella dove prendono contatto con i primi sbandati italiani che salgono da Plezzo dopo avere affrontato il primo attacco nemico. Ma fin dalle ore 1,30 del mattino del 26 il battaglione riceve ordine di ripiegare e portarsi per l’alba a San Giorgio di Resia. Da qui viene fatto salire sopra il paese a schierarsi con l’ala sinistra sul monte Posar e fino al fondo della val Resia, con la valle del Fella alle proprie spalle. L’attacco nemico si pronuncia all’alba del 27 ottobre in direzione di San Giorgio di Resia e di monte Posar, continuando anche nella giornata del 28 e costringendo gli alpini a ripiegare sulla quota di monte Straulizze. Alle ore 12 del 29 ottobre il battaglione riceve ordine di ripiegare su Resiutta e proseguire quindi per Stazione per la Carnia e Tolmezzo. A Stazione per la Carnia gli alpini vengono riforniti di gallette e indumenti e proseguono quindi per Tolmezzo dove devono sostare per circa un’ora e mezza prima di poter iniziare l’attraversamento del ponte di Avons: il ponte è ingombro di truppe, 102 di carriaggi e di civili in fuga dai paesi della Carnia, il caos è tale che al battaglione del nostro Vittorio occorrono ben due ore per riunirsi sulla sponda opposta del Tagliamento. I civili che sono su quel ponte, a poche ore dall’interruzione che verrà fatta brillare alle ore 6,00 di quella stessa mattina, fanno parte della interminabile colonna che prendendo la strada per Verzegnis, San Francesco, Pielungo e Clauzetto, scende verso la pianura. Sono i profughi che Rina vede passare per Paludea e descrive con questo passaggio, forse senza ancora immaginare che nel giro di pochi giorni lei stessa sarebbe andata a seguire lo stesso destino: “Oltre a questo era continuamente il passaggio dei borghesi della Carnia che al vederli era un vero dolore. Tutti laceri sotto la continua pioggia e non s’udiva che a piangere e gridare. Chi aveva perduto un bambino, chi i fratelli, chi i genitori insomma era un disastro. Ad una povera donna le morì un bambino in braccio e l’altro le stava morendo e mezza impazzita andava per le case cercando il suo cadaverino.”2 Mentre Vittorio ha appena oltrepassato il Tagliamento a Tolmezzo, in Rina la speranza di vederlo comparire fra quella moltitudine di civili e di soldati è più che mai viva: “Tutti eravamo pieni d’ansia, sperando sempre di vedere momento per momento passare il nostro caro Vittorio, e ogni truppa di alpini che si vedeva si correva frettolose a chiedergli da dove venivano, e da che reggimento erano sempre sperando che lo avessero visto, ma purtroppo la loro risposta era sempre negativa. Immaginarsi in quale stato d’animo eravamo tutti noi, straziati dal dolore e quasi mezzi impazziti dalla paura, si trascurava tutto, e non si curava nemmeno che ogni istante ci minacciava, s’aveva solo il desiderio di rivedere il nostro caro fratello.” 2 In questo passaggio del diario potrebbe trovare conferma il fatto avvenuto a Paludea e riportato da G. Del Bianco. 103 Ma Vittorio, che potrebbe dal ponte sul Tagliamento raggiungere la propria famiglia a Paludea in meno di una giornata di cammino, deve proseguire con il proprio battaglione raggiungendo prima Mena, quindi Trasaghis e infine prendere posizione su uno sperone del monte Brancot a difesa del tratto di fiume in corrispondenza del ponte di Braulins e di fronte a Osoppo, su una linea immediatamente retrostante a quella tenuta dal battaglione Pinerolo, schierato direttamente sul fiume. È la giornata del 1° novembre, la nuova linea del fronte è sul Tagliamento, viene fatto brillare il ponte di Pinzano: la deflagrazione viene certamente udita anche a Paludea, probabilmente la sentono sia Rina che Vittorio, lontani ma uniti da quell’ulteriore manifestarsi del disastro, la minaccia è sempre più vicina anche a Paludea. Gli imperiali con le proprie artiglierie possono ora colpire i paesi sulla destra del fiume, il loro obiettivo principale è la ferrovia che corre sulla sponda destra ma i colpi raggiungono anche le case. Rina è testimone di quei momenti: “Nell’indomani mattina cioè il giorno 3 hanno cominciato i bombardamenti e si dovette rifugiarsi nella, così detta, buca del Cret. Mentre si era lì rannicchiati tutta la gente del paese riparandosi alla meglio, uno sopra l’altro dove si credeva di essere più in salvo, si sentiva continuamente i pianti dei bambini e urli delle madri che vedevano qualche granata cadere vicino casa sua, mentre l’altra già fischiava sopra di noi. E là tutti tremanti con le mani in atto di preghiera verso il buon Dio s’aspettava solo che la morte, e siamo stati fino al pomeriggio che le granate ebbero un po’ di sosta. Poi siamo ritornati nelle nostre abitazioni tanto che abbiamo visto che i nostri militari avevano saccheggiato tutto e s’erano impadroniti di tutta la casa. Quale impressione ci fece trovare tutte le porte delle stanze aperte e s’erano impadroniti di tutto. Dalle stanze, dalla cucina,cantina, li poi era un finimondo, i recipienti del vino erano vuoti, fra bevuto e rovesciato. In cucina era tutto un sotto sopra, bicchierini, tazze da caffè, piatti, tutte chincaglie erano sparpagliate, insomma nella nostra vetrina che gelosamente si conservava era totalmente vuota. La paura e 104 l’agitazione di quei momenti tanto terribili non ci permetteva di osservare più oltre, e così lo lasciammo tutto in balia a se stesso.” Mentre Vittorio si trova sul Brancot a rintuzzare i tentativi tedeschi di superare il Tagliamento in piena, anche Castelnovo è ormai minacciata direttamente dall’invasore. Nella notte fra il 2 e il 3 novembre le truppe della 55ª divisione austroungarica superano il fiume all’altezza del ponte di Cornino e si portano rapidamente a Flagogna dove trovano il ponte sull’Arzino intatto. Fin dalla mattina del giorno 3, reparti bosniaci puntano verso la zona di Celante minacciando direttamente Castelnovo, vengono trattenuti per l’intera giornata dai bersaglieri del colonnello Palumbo che, muovendosi abilmente sul tormentato terreno delle nostre colline, sostenuti anche da rinforzi inviati direttamente dal comando del generale Di Giorgio situato in quelle ore a Travesio, riescono verso sera a costringere gli attaccanti al ripiegamento. In quelle ore la famiglia della nostra Rina e molti altri decidono di lasciare Paludea. Rina parte il 2 novembre con i genitori per portare in salvo fino a Montereale il corredo e quindi tornare a prendere le altre sorelle che rimangono con la speranza di veder comparire il fratello Vittorio. Le altre sorelle, di fronte al precipitare degli eventi, partono nel pomeriggio del giorno 3 fermandosi a pernottare a Meduno. Nel frattempo i bosniaci, superata l’ultima resistenza italiana nella zona di Celante, nella mattinata del 4 novembre scendono attraverso Paludea e per le 13,00 sono a Travesio. All’incirca alla stessa ora, il battaglione del nostro Vittorio riceve l’ordine di lasciare le proprie posizioni sul Brancot e ripiegare attraverso Avasinis e salire quindi al Cuel di Forchia, ai piedi del monte Cuar, dove giunge dopo il tramonto riunendosi agli altri battaglioni alpini alle dipendenze del colonnello Emilio Alliney: Pinerolo, Mercantour, Val d’Ellero. Durante la notte, in un appassionato discorso certamente ascoltato anche dal sergente maggiore Cozzi, il colonnello Alliney prepara i suoi alpini all’attacco in direzione di Forgaria contro il nemico che ha attraversato il ponte di Cornino. Ma un cambio di ordini destina i quattro battaglioni a scendere verso la val d’Arzino, dove si stanno concentrando la 105 36ª e la 63ª divisione. Chissà quali erano i pensieri di Vittorio in quella notte, lassù sul Cuel di Forchia, da dove si potevano vedere gli incendi lungo tutta la pianura friulana invasa? Gli alpini si muovono all’alba ma, giunti a circa tre chilometri da Pielungo, vengono fatti segno di un “vivissimo fuoco di artiglieria” proveniente dalla piazza del paese: sono i nostri che avendo preso gli alpini per truppe nemiche sparano causando morti e feriti. La lunga colonna di alpini raggiunge il fondo della val d’Arzino mentre, fra le 8 e le 9 del mattino, i primi tedeschi della Deutsche Jäger Division, risaliti a nord del monte Pala, hanno sorpreso l’avanguardia italiana e occupato Pielungo. Alle due compagnie del Monte Canin viene assegnato l’attacco a Pielungo verso il costone sovrastato dal cimitero e dalla chiesa: la compagnia a cui appartiene il sergente maggiore Vittorio Cozzi viene diretta sulla destra per l’assalto che probabilmente ha inizio poco dopo le undici di quella mattina del 5 novembre. Il combattimento è furioso, i nostri alpini devono attaccare lungo il pendio scosceso sotto il fuoco delle mitragliatrici tedesche annidate nel cimitero e persino sul campanile. Il combattimento si conclude verso le ore 13,00 dopo aver cacciato i tedeschi da Pielungo. Vittorio cade colpito durante quell’assalto. Il suo comandante di compagnia, quel tenente Gino de Vecchi che abbiamo già incontrato, lo cita fra coloro che si sono distinti nel combattimento e meritevoli di particolare menzione con queste parole3: “rimasto isolato dopo un combattimento, raccoglieva i pochi soldati di un altro reparto rimasti senza comandante e si lanciava con questi di nuovo all’attacco incitandogli fino a quando cadde colpito da pallottola al capo.” L’atto trascritto direttamente dai registri del battaglione Gemona (il Monte Canin era il battaglione “Monte” del Gemona), indica nelle ore 18 del 5 novembre 1917 a Pielungo l’ora di morte del sergente maggiore Vittorio Cozzi. A quell’ora, dopo aver trascorso la notte fra il 4 e il 5 a Marsure, Rina sta viaggiando alla volta di Aviano, alla mattina del Rina Cozzi profuga a Piedimonte d’Alife nell’ottobre 1918 (Archivio famiglia Cozzi) giorno 6 giunge a Conegliano e nella stessa giornata attraversa il Piave giungendo verso sera a Treviso. Viaggiando e vivendo su quel carro trainato dai cavalli giungono fino a Bologna, dove sperano di potersi fermare. La madre, separatasi dalla famiglia ha già raggiungo Piedimonte d’Alife. Anche Rina, con il resto della famiglia, affronta il viaggio in treno per la “bassa Italia”, prima su un carro bestiame con “una decina di uomini rozzi contadini ubriachi fradici che venivano dai lavori dalle trincee”, poi su un vagone di prima classe raggiunge Napoli. Il 18 novembre la famiglia di Rina si riunisce a Piedimonte d’Alife. A chiusura del suo diario, che racconta quella ventina di giorni tragici, dedica ancora un pensiero al fratello che non rivedrà mai più: “Ma il più grande dei nostri dolori è il pensiero dei nostri cari combattenti lontani e in continuo pericolo, e privi delle notizie del nostro caro Vittorio. Siamo profughi esuli, morti, vaganti qui e là come servi cacciati a lavorare sopra campi non nostri, senza tetto certo, senza famiglia, senza Patria sulla stessa terra della Patria.” Vittorio Cozzi oggi riposa nel cimitero di Paludea, la croce in cemento seminascosta dai fiori ricorda questo valoroso caduto a pochi chilometri dalla propria casa e dai propri affetti che non potè rivedere. Rina riposa, dal 1988, in quello stesso cimitero. 3 AUSSME, F. 11, b. 7, 4988, De Vecchi. 106 107 Clauzetto Quel lenzuolo sul campanile… Clauzetto in una foto del primo dopoguerra. In primo piano, in basso a destra, l’albergo Zannier “Pezete” (Archivio G. Cescutti) Dalla posizione del “balcone del Friuli”, probabilmente già dall’inizio dell’offensiva si capì che qualcosa di grave stava accadendo. Poi la guerra si avvicinò fino a giungere sul Tagliamento, ai combattimenti sul monte di Ragogna, al brillamento del ponte di Pinzano. Conclusa la resistenza italiana sulla riva sinistra del fiume, anche le artiglierie si avvicinarono e dal giorno 3 furono in grado di raggiungere con i loro colpi il paese. Furono colpite Triviât e la chiesa di San Giacomo1, lungo il versante più esposto verso il fiume che da quassù si può seguire fino al mare. Ma i colpi arrivarono anche oltre il paese, fino al bivio di Borcjonarie dove fu colpita, rimanendo uccisa all’istante, tale Maria Zannier che, con la gerla in spalla carica di un materasso, stava fuggendo in direzione di Pradis. Di questo episodio ebbi conferma da Domenico Cescutti (1909-2006) che ricordava, pur abitando all’epoca in Raunie, che la donna era di Triviât ed era detta “La Sculîe”. Stava fuggendo, come probabilmente avevano fatto molti di Clauzetto che non trovarono aperta altra via di fuga se non quella in direzione di Pradis e di Campone. Non abbiamo conferme testimoniali di questa fuga dei clauzettani dal paese esposto al tiro delle artiglierie imperiali ma un racconto, da non ritenere frutto di fantasia, ci fornisce una ricostruzione di questi momenti2: 1 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 321. 2 C. Tomaselli, Gli “ultimi” di Caporetto, Gaspari Editore, Udine 1997, p. 119. 108 109 “A Clauzetto la gente voleva scappare sino da domenica (28 ottobre, nda). Qualcuno si pose a calmare gli animi: prima che i mucs passassero il Tagliamento, c’era tutto il tempo di arrivare, per la montagna, a Tramonti e a Claut. Il paese si vuotò lunedì mattina che era il 29 e la carovana era da qualche ora in marcia verso il Meduna, quando il cursore di Tramonti di Sotto venne, tutto affannato, incontro ai fuggiaschi: c’erano già gli Austriaci sul Monte Rest. Non era vero, chè il nemico, quel giorno non era ancora ad Ampezzo: ma chi badava a controllare in tanto trambusto l’origine di certe voci? I più decisero di tornare indietro sino a Campone, altri salirono agli “stavoli” di Pradis, dove c’era una caverna capace di ricoverare una compagnia e vi si installarono con pentole e masserizie in attesa degli eventi”. 110 Qui trovammo un vecchio e una ragazza del paese che ci avvertirono della vicinanza delle pattuglie nemiche.” La pattuglia probabilmente si spinge anche oltre Dominisia ma dobbiamo ritenere che non sia arrivata a Paludea, occupata fin dal mattino dagli austroungarici. Poi ritornano verso Clauzetto, Pradis di Sopra, Pielungo. Clauzetto attende il nuovo giorno. I primi invasori a giungere a Clauzetto sono i germanici della Deutsche Jäger Division che, dopo aver attraversato il Tagliamento a Cornino e pernottato a Casiacco, di buon mattino, iniziano la salita attraverso Anduins e Vito d’Asio. Giuseppe Del Bianco riporta questo racconto raccolto in paese4: Che le grotte di Pradis possano avere fornito momentaneo rifugio ai fuggiaschi di Clauzetto, è sicuramente ipotesi verosimile. Il racconto continua poi con il ritorno in paese già la sera del 3 novembre. Testimone diretto di quanto accadeva a Clauzetto la sera del giorno successivo, 4 novembre, fu l’ufficiale comandante l’ultima pattuglia italiana in armi che transitò in paese. Vittorio Prunas-Tola, ufficiale di artiglieria, al comando di un drappello di lancieri di Novara viene inviato da San Francesco, dove si stavano concentrando le due divisioni della Carnia, in esplorazione in direzione di Clauzetto. Così riporta l’impressione ricevuta dall’attraversamento del paese3: “La domestica dell’albergo Zannier (All’epoca Albergo “Alla Posta” indicato in paese come “In da Pezete”, nda), Albina Rassatti, il giorno 5 verso le 11 del mattino vide giungere di corsa dalla parte di Vito d’Asio (Anduins) alcuni soldati, e osservando da una imposta socchiusa si accorse con terrore che erano germanici. Non ebbe neppur tempo di decidere sul da farsi, che uno alto e grosso, fattosi sotto alla porta dell’albergo, con una spallata la scardinò. Entratovi subito, seguito da altri, scovata la donna tutta tremante, si fece alla meno peggio capire che voleva andare in una camera, e quivi da essa accompagnato prese un lenzuolo e uscì di corsa. Di lì a qualche momento la Rassatti osservò che dall’alto del campanile era stato esposto il lenzuolo.” “A Clausetto vi era il silenzio e la desolazione dell’abbandono. Ci spingemmo più avanti: al bivio della strada per Forgaria e Paludea-Travesio (l’attuale bivio per Vito d’Asio, sotto la chiesa di San Giacomo, nda) divisi il drappello in due pattuglie; il Sergente con una pattuglia si diresse verso Forgaria e quella guidata da me verso Dominisia. Poi iniziano a sfilare i reparti tedeschi, vanno in direzione di Pradis a chiudere il passo alle divisioni italiane che stanno scendendo dalla val d’Arzino. Nel pomeriggio il primo combattimento, a Forno, dove i tedeschi hanno la sorpresa di trovarsi di fronte truppe ancora combattive, determinate ad aprirsi una via verso la pianura. 3 V. Prunas-Tola, Le divisioni della Carnia di fronte all’invasore, Studio editoriale della stamperia bodoniana, Parma 1928, pp. 104-105. 4 G. Del Bianco, op. cit., p. 322. 111 Da Pinerolo a Pradis: la storia di Sisto Frajria Il cimitero di guerra di Pradis fu inaugurato il 6 novembre 1920, nel terzo anniversario della battaglia che su quei pendii vide il sacrificio di decine di giovani di tutta Italia, nell’estremo tentativo di aprirsi una via di salvezza verso la pianura. In quella giornata sono presenti ad onorare quei caduti Adalberto di Savoia duca di Bergamo, il generale Rocca che nel 1917 guidò le due divisioni, ufficiali e reduci ma anche la popolazione di Pradis e dei paesi vicini. La stessa gente che nei giorni successivi alla battaglia ha dato la prima sepoltura ai caduti italiani abbandonati sul campo dall’invasore tedesco, che ora ritorna a rendere omaggio a quei valorosi, ad iniziare quel legame che ancora oggi rimane vivo, a quasi un secolo dai fatti accaduti. Sebastiano Murari, capo di Stato Maggiore del generale Rocca nel 1917, fu testimone dell’evento e ne riportò la descrizione nel suo libro riferendo, ad un certo punto, la presenza di “due fratelli del nostro Frairia”5. Ma chi era il “nostro Frairia”? Del maggiore Sisto Frajria sapevamo che era caduto a Pradis, come conferma il nome riportato ancora oggi su uno dei cippi del sacrario. Il caduto non è più lì, come tutti gli altri è stato traslato al Tempio Ossario di Udine, dove i suoi resti riposano nella tomba n. 11.454, mentre i registri riportano che sarebbe morto a Pradis di Sopra il 4 settembre del 1917, data evidentemente errata che però, come vedremo, corrisponde ad un altro fondamentale momento della sua vita. Riuscii poi a scoprire che Sisto Frajria era di Pinerolo, che nella notte di Pradis cadde alla guida del suo 3° battaglione del 49° reggimento fanteria e che in quel fatto d’arme gli era stata assegnata una medaglia d’argento al valore. Un comandante di battaglione che cade al comando delle sue truppe non è certo cosa comune e allora, per cercare di scoprire qualche cosa in più sul personaggio, mi rivolsi al Comune di Pinerolo nel tentativo di risalire alla fami- 5 S. Murari, Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche, Mondadori, Milano 1935, p. 349. 112 Il cimitero di guerra di Pradis in una foto d’epoca (Archivio D. Ceschia) glia dell’ufficiale. Il tempo trascorso dalla richiesta mi portò quasi a rinunciare ma poi arrivò l’inatteso aiuto di una bibliotecaria del Comune piemontese che, ricordando che una piazza della città è intitolata proprio a Sisto Frajria, riuscì ad identificare la famiglia. Il contatto con i discendenti del caduto si rivelò proficuo poiché avevano conservato gelosamente tutta la documentazione riguardante il loro antenato. Da quella documentazione è riemersa la storia del nostro maggiore e, grazie alle relazioni di altri ufficiali che gli furono vicini in quella notte e ad una testimonianza locale, è stato persino possibile arrivare a determinare con precisione il luogo della sua morte. Sisto Frajria era nato a Pinerolo il 2 ottobre 1888, in una famiglia dell’alta borghesia di quella città, da Giuseppe e da Angela Ceresole. Aveva tre fratelli (e due di questi furono a Pradis per l’inaugurazione del cimitero di guerra) che si dedicarono alle attività liberali, mentre il giovane Sisto entrò da volontario alla scuola militare fin dal 3 novembre 1907. Il 19 settembre del 1909 era sottotenente presso il 50° reggimento fanteria. 113 Partì per la Tripolitania e Cirenaica il 18 novembre 1911: nella guerra di Libia si rese subito protagonista di atti di valore che gli valsero un primo encomio per la condotta tenuta negli episodi di Misurata e di Gheran (8 e 20 luglio 1912). Rimpatriato e promosso tenente, fu assegnato al 4° battaglione indigeni della Tripolitania. In questo periodo partecipò a vari combatSisto Frajria timenti guadagnandosi (Archivio famiglia Frajria) la prima Medaglia d’Argento al Valor Militare il 23 marzo 1914 nel fatto d’arme di Nufilia dove “coadiuvò efficacemente il comandante della colonna dando prova di slancio esemplare e ardimentoso”. In questo episodio il tenente Frajria ebbe sotto di sé un cavallo morto e rimase egli stesso ferito restando fino all’ultimo al fianco del proprio comandante. Sempre in Libia fu decorato di Medaglia di Bronzo per il combattimento di Gaduaria dell’11 febbraio 1915 e gli venne riconosciuto un ulteriore encomio solenne per la prova data nello scontro di Kasr Bu Adi dove, e citiamo l’episodio che viene riportato nello stato di servizio, il nostro ufficiale “riportò una contusione alla faccia esterna della coscia destra al suo terzo medio e una al ginocchio destro …per aver ricevuto un calcio da un mulo”. Promosso capitano il 9 settembre 1915, il 17 giugno 1916 rientrò definitivamente in Italia destinato al 50° reggimento fanteria e quindi, dal 28 settembre di quello stesso anno, al 49° reggimento che abbiamo ritrovato nella battaglia di Pradis. Nel periodo di poco più di un anno in cui fu con il 49° fanteria, Sisto Frajria fu protagonista di un altro episodio eroico, sul 114 Carso, alla quota 126 della trincea del Vipacco. Il 4 settembre 1917 (ecco tornare quella data che nei registri del Tempio Ossario viene indicata come data di morte) si guadagnò la seconda Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Comandante di un battaglione, sottoposto per lunghe ore ad un violento bombardamento, seppe al momento dell’attacco organizzare coi superstiti un’energica resistenza, contro forze nemiche di molto superiori. Spezzata la linea in un punto, con mirabile coraggio e tenacia si pose alla testa di una compagnia di rincalzo e, con un irruente contrattacco alla baionetta riconquistò il tratto di trincea perduto e fugò l’avversario superiore in forze”. Questo episodio determinò larghi riconoscimenti al 49° fanteria da parte prima del colonnello Zampieri e quindi dal comandante della 31ª divisione. Per quella stessa azione il 9 settembre Sisto Frajria fu promosso sul campo al grado di maggiore. La sera del 5 novembre 1917, Sisto Frajria si trova a Forno, il suo reparto si è sistemato per la notte lungo l’attuale strada provinciale, nel tratto che scende verso Pielungo. Poco prima delle 22 il generale Rocca giunge sul posto, in automobile, e da ordine di riprendere l’avanzata verso Pradis, per non perdere il contatto con i tedeschi che si sono ritirati oltre il canale di Foce. A partire davanti a tutti è proprio il battaglione di Frajria che, dopo avere trovato la strada interrotta sul “Puint di Spissul”, viene avviato, sempre in testa alla colonna, lungo la mulattiera che, superando il rio di Salaries e il rio di Molin, arriva poi a dividersi in due rami: quello di sinistra che conduce verso Pradis di Sopra e quello di destra che porta direttamente alla selletta di Val da Ros. È proprio all’altezza di quella biforcazione che i fanti italiani sono colti dal fuoco dei tedeschi appostati nei boschi sulla sinistra. L’attacco in quella direzione, verso il “Puint da las Vies” (oggi corrispondente all’imbocco della strada per Palemaûer) viene affidato al maggiore Frajria che si lancia alla testa del suo 3° battaglione verso le posizioni tedesche. Frajria cade colpito a morte in quell’attacco notturno. Alcuni ufficiali presenti all’azione, riportano nelle loro relazioni precise indicazioni sui fatti: 115 “Dopo aver guidato brillantemente il proprio battaglione ad infrangere la ostinata resistenza nemica, alla testa di una compagnia si lanciava all’assalto di una casa occupata da mitragliatrici e la conquistava lasciandovi gloriosamente la vita.” L’ultima foto del maggiore Sisto Frajria in zona di operazioni nel 1917 (Archivio famiglia Frajria) – il sottotenente Emilio Florio6 indica chiaramente l’assalto ad una casa dove sono annidate le mitragliatrici tedesche; – il sottotenente Romano Usseglio7 parla di due mitragliatrici che fanno fuoco da una casetta; – il sottotenente Giovan Battista Serafini8 riferisce di mitragliatrici che sparano verso la strada facendo fuoco da una casa sulla destra della stessa e che i tedeschi, scacciati dall’attacco italiano, si ritirarono in posizione dominante. Per l’eroica azione nella quale cadde, a Frajria fu riconosciuta la terza Medaglia d’Argento al Valor Militare. La motivazione della ricompensa fornisce ulteriori elementi utili ad identificare il luogo in cui morì l’ufficiale: 6 AUSSME, F. 11, b. 23, 9702, Florio. 7 AUSSME, F. 11, b. 23, 2901, Usseglio. 8 AUSSME, F. 11, b. 23, 4437, Serafini. 116 Anche alla luce della motivazione della medaglia siamo in grado di concludere che Frajria cadde durante l’assalto ad un edificio situato sulla destra della strada nella zona del “Puint da las Vies” nel quale erano asserragliate mitragliatrici tedesche che da quel punto sparavano sulla strada stessa: sul terreno quell’edificio può essere ancora oggi individuato, oltre ogni ragionevole dubbio, nella “Stalla Gobus”. Ora è un rudere a circa cento metri all’esterno del tornante a sinistra poco a monte del “Puint da las Vies”: da quel punto, con una copertura boschiva che non era quella attuale, il tiro di infilata sul tornante e sul ramo di strada a valle dello stesso, dove sbucavano le compagnie italiane che avanzavano dall’incrocio delle mulattiere, doveva essere particolarmente efficace. I roccioni sopra la stalla corrispondono alla posizione dominante, in realtà il sovrastante ramo della strada, verso il quale i mitraglieri tedeschi si ritirano. In quel punto, fra la mezzanotte e l’una del 6 novembre 1917, Sisto Frajria viene colpito e probabilmente spira subito dopo, forse al vicino posto di medicazione dove viene portato, avvolto nella coperta del suo attendente, caporale Anacleto Croci, che in una lettera indirizzata nel 1968 alla famiglia del suo maggiore ancora ricorda quel particolare. Si compiva nella notte di Pradis, a soli ventinove anni, l’eroica esistenza di Sisto Frajria: tre medaglie d’argento, una di bronzo, due encomi solenni. Ma la storia non finisce qui poiché viene completata da una importante testimonianza locale. Si tratta del racconto di Niccolò Toneatti (Bruno dai Fumatins), nato nel 1925 nella casa detta “dal Bassin”, nella borgata Fumatins, lungo la mulattiera che conduce verso la selletta di Val Da Ros. Andai a trovarlo per sapere se i genitori gli avessero raccontato qualche cosa delle ore della battaglia, ma al primo incontro non ricordava nulla di particolare. 117 Qualche giorno dopo però, mi telefonò riportandomi questo racconto: “Quella notte gli italiani portarono in una camera della nostra casa un ufficiale morto, ricordo con precisione che dicevano trattarsi di un maggiore. Gli fu tolta la divisa da ufficiale e fu vestito con quella di un soldato.”9 Quella testimonianza confermava oltre ogni dubbio l’ipotesi sul luogo in cui Frajria fu colpito: quel maggiore era sicuramente lui, quella casa distava dal luogo del ferimento non più di 600 metri. Il comandante del 3° battaglione, colpito a morte attaccando la “Stalla Gobus”, era stato trasportato dai suoi uomini in una delle case della borgata più vicina. Anche in questo episodio dunque, un’altra tessera del mosaico della storia della Grande Guerra nelle nostre valli, fatto di giovani vite sacrificate, come quella di Sisto Frajria. Il Cuel d’Orton rivela la storia di Johannes Templiner Il 6 novembre 1917, già nelle ore della notte si combatte sul costone di Pradis che sovrasta l’attuale cimitero di guerra di Val da Ros. Mentre quel combattimento continua, all’alba la lotta si accende anche lungo le pendici occidentali del Cuel d’Orton, attraverso le quali salgono gli alpini del battaglione Pinerolo, fino a raggiungere la sommità del colle che sovrasta l’omonima borgata. L’azione degli alpini è decisa e travolgente, sotto il comando del ten. col. Giovanni Bodino mettono in seria difficoltà i Garde Schützen che devono addirittura chiamare in soccorso gli Jäger del 20° battaglione per riuscire a contenere l’impeto degli italiani. La veemenza dell’attacco italiano è confermata anche dal diario dei Garde Schützen nel quale si riporta che gli italiani attaccarono “mit ungeheuer Wucht” cioè “con mostruosa violen- 9 Intervista a Niccolò Toneatti (Bruno dai Fumatins) nato nel 1925, raccolta da Giuliano Cescutti il 9 agosto 2007. 118 za”10. Sopraggiunta la sera, gli alpini riescono, con una “manovra prodigiosa”, a sganciarsi dai tedeschi e a ritirarsi verso Forno e Pielungo, attraversando il terreno già occupato dal nemico. Lasciano sul campo due ufficiali e 10 alpini uccisi, 2 ufficiali e 15 alpini feriti11, non sappiamo quanti fra gli avversari furono uccisi o feriti. Il gran numero di caduti di quella giornata, fece sì che sul Cuel d’Orton fosse realizzato un primo cimitero: un recinto delimitato da pietre e una sorta di altare realizzato con dei grandi massi. Nel 1920 i caduti furono riesumati e trasferiti all’attuale cimitero di guerra. Oggi, per chi sale sul Cuel d’Orton, il perimetro del cimitero è ancora riconoscibile, anche se la vegetazione se ne sta progressivamente riappropriando. Nel dicembre del 2006, visitando quel luogo, l’attenzione di Joris Dell’Asin viene richiamata da un frammento metallico che emerge dal terreno. Apparentemente insignificante, adeguatamente ripulito quel frammento si rivela essere il mezzo piastrino di un soldato tedesco della Grande Guerra, quella metà che veniva lasciata addosso al caduto, dopo che l’ufficiale ne aveva recuperata l’altra per il triste adempimento della comunicazione alla famiglia. I piastrini tedeschi erano realizzati in zinco, metallo piuttosto tenero sul quale il soldato provvedeva ad incidere i propri dati. Il piastrino ritrovato da Joris riporta questi dati: Johannes Templiner Nassenheide Kr. Niederbarn 2.10.1894 Garde Schutz erst bat. 10 S. Murari, op. cit., p. 170. 11 Ibidem, p. 320. 119 I dati riportati e il luogo del ritrovamento lasciano da subito presumere che si tratti di uno dei caduti germanici dei combattimenti del 1917. Subito raggiunto il cimitero di guerra della Val Da Ros, Joris trova la conferma che cerca: fra i nomi incisi sulle croci disposte sul lato meridionale del Sacrario c’è anche quello di Johannes Templiner. Appassionato collezionista di cimeli militari della Grande Guerra e devoto alla memoria Il piastrino di Johannes Templiner del sacrificio di tanti giovani in rinvenuto sul Cuel d’Orton essi rinchiusa, Joris colloca an(Foto J. Dell’Asin) che questo prezioso ricordo fra gli altri. Ma quel piccolo pezzo di metallo, riconducibile in modo così preciso ad un giovane di ventitrè anni che lo aveva portato con sé per l’intera guerra fino ad arrivare a Pradis, esercitava un richiamo ogni giorno più forte, il richiamo di chi non aveva potuto tornare a casa. Così Joris decide che il piastrino avrebbe dovuto tornare in Germania per essere riconsegnato ai parenti del caduto o, almeno, alla comunità dalla quale proveniva. Così, con gli strumenti che oggi la rete mette a disposizione, fu facile individuare il paesino di Nassenheide, circa 40 chilometri a nord di Berlino, oggi appartenente al Comune di Löwenberger Land. All’inizio del 2012 Joris scrive al Burgermeister di quel comune annunciando il suo ritrovamento e la volontà di riconsegnare il piastrino. La lettera proveniente dall’Italia viene accolta con emozione e il comune, con la collaborazione di una giornalista del Berliner Zeitung, si mette alla ricerca delle origini del caduto. Non trovano molto, gli unici archivi rimasti sono quelli della chiesa. Johannes August Eilli Templiner era stato battezzato il 21 ottobre1894, figlio di August, muratore, e di Emilia Johanna Luise Templiner. 120 Viveva in Friedrichsthaler Weg con i genitori, il fratello Willi nato nel 1886 e altre tre sorelle. Dai registri scolastici risulta che iniziò scuola insieme ad altri 13 bambini il 30 marzo del 1901. La maestra valutò comportamento, diligenza e progressi dello scolaro come buoni. Poi compare una foto di classe scattata nel 1906, si dice che fra quegli scolari ci sia anche Johannes Templiner… Oltre a queste tracce, il nome del caduto riportato sul monumento del paese, la data di morte è quella esatta, 6 novembre 1917, ma forse anche Il monumento ai caduti del paese qui, nessuno ricorda più dove di origine di Johannes Templiner questo giovane sia morto, esat(Foto J. Dell’Asin) tamente come accade da noi. In questa prima fase delle ricerche, non vengono individuati parenti. Il 10 febbraio 2012 il Berliner Zeitung pubblica il primo articolo nel quale viene raccontata questa storia. Poi vengono individuati anche i parenti di Johannes, discendenti dal ramo di una delle tre sorelle. Finalmente, domenica 13 aprile 2014, salito in Germania su invito del comune di Löwenberger Land, Joris può riconsegnare il piastrino di Johannes Templiner nelle mani della signora Rita Hohnke, 73 anni, pronipote di Johannes Templiner in quanto figlia della figlia di una delle sorelle del caduto. Missione compiuta dunque, quel piccolo ma significativo ricordo del caduto è tornato a casa, nelle mani dei suoi cari, di quelli che non hanno mai avuto una tomba sulla quale piangere. Nell’agosto del 2014, in occasione dell’annuale raduno alpino al cimitero di guerra della Val da Ros, una delegazione guidata dal vicesindaco di Löwenberger Land, ha raggiunto Clauzetto per visitare i luoghi in cui morì il loro concittadino. 121 La consegna del piastrino di Johannes Templiner alla famiglia (Foto archivio J. Dell’Asin) Ma il terreno del cimitero sul Cuel d’Orton ha voluto recentemente restituirci anche un altro oggetto che, indirettamente, ci aiuterà a scoprire anche il destino dei resti mortali di Johannes Templiner: una croce in cemento, di quelle utilizzate dai tedeschi sulle sepolture dei loro caduti. Stranamente però, riporta il riferimento a due caduti italiani: SOTTOTENENTE JTALIANO IGNOTO MARONE BIAGO 3 REGG. ALPINI 26 C Il “sottotenente Jtaliano ignoto” è probabilmente uno dei due ufficiali del Pinerolo caduti sul Cuel d’Orton il 6 Novembre 1917. Marone Biago corrisponde probabilmente, nell’Albo d’oro, a “Marrone Biagio di Domenico soldato 3° reggimento alpini nato l’8 febbraio 1897 a Carignano, morto il 25 novembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento”. L’appartenenza 122 al 3° reggimento alpini ci conferma l’identità del caduto ma anche, nella data di morte, un altro evidente errore. Ma come mai a questi caduti è stata dedicata una croce tedesca? La spiegazione è relativamente semplice. Verso la fine della guerra12, una squadra di soldati tedeschi al comando di un ufficiale ritornò in queste valli con il compito di realizzare il piccolo cimitero di Forno, dove raccogliere tutti i caduti tedeschi dei combattimenti del La croce tedesca rinvenuta sul Cuel 5 e 6 novembre 1917. Perché d’Orton (Foto G. Cescutti) a Forno? Perché il maggior numero di soldati germanici era caduto proprio in quella località, nel combattimento del giorno 5. La squadra evidentemente salì anche sul Cuel d’Orton. Nel riesumare i propri caduti, probabilmente scoprirono anche le salme di qualche italiano, la cui sepoltura sistemarono collocando anche quella croce. Un senso di rispetto per l’avversario che ritorna spesso anche in episodi di cui abbiamo già parlato. Tra i caduti traslati a Forno vi fu sicuramente anche Templiner. Nel 1920 fu nuovamente trasferito nel cimitero della Val da Ros e nel 1956, come qualcuno di Pradis di Sopra ancora ricorda, quei caduti furono per la terza volta riesumati. I resti del caporale (“gefreiter” si legge nel registro) Johannes Templiner, come quelli di tutti i caduti germanici delle due giornate di combattimento del novembre 1917, riposano oggi nel sacrario germanico del Passo Pordoi. Ma qualcosa, dallo scorso aprile, è tornato a casa. 12 S. Murari, op. cit., p. 364 lettera di A. Marin a Sebastiano Murari. 123 Vito d’Asio Tracce e storie della Grande Guerra a Forno Il cimitero provvisorio, in località Sompielungo, nel quale furono sepolti i caduti italiani di Forno. La foto fu scattata da G. Vidoni nell’inverno 1919-1920 (Archivio D. Ceschia) 124 A metà strada fra Pielungo e Pradis, arroccata sul colle che subito precipita nella forra del Foce, Forno, in quell’inizio di novembre del 1917 divenne il centro dei combattimenti che sconvolsero queste contrade. Un tabellone ormai illeggibile, lungo la strada provinciale, fa intuire al passante che qui qualcosa deve essere accaduto. Imboccando la stradina che entra nella borgata, passati davanti alla cappelletta recentemente ristrutturata, sulla sinistra notiamo un cippo. Nel marmo bianco è incisa la scritta che ricorda, nel luogo in cui cadde (ma in origine il cippo era collocato lungo la strada principale, pochi metri sotto l’attuale posizione) l’aspirante Gaetano Rivani, del 36° fanteria nato a Molinella (Bo) il 5 agosto 1892. Più avanti, una freccia indica, verso l’alto, il cimitero tedesco in cima al colle, che si raggiunge percorrendo un breve tratto di sentiero. Solo un piccolo recinto in bassa muratura, ma da quassù il panorama è straordinario: la vista parte dal monte Pala sulla sinistra, scende al Cuel d’Orton, si porta verso il Cuel da l’An e il vuoto di vegetazione in corrispondenza dei Tascans, arriva alla selletta della Val Da Ros e poi risale la schiena del monte Dagn. Di fronte a noi abbiamo quel costone di Pradis contro il quale nella giornata del 6 novembre 1917 si infranse il tentativo italiano di trovare una via verso la pianura. Nei giorni di Caporetto, gli abitanti di Forno si resero conto che qualcosa di molto grave stava avvenendo. Il grande transito di profughi, truppe, carriaggi, artiglierie che puntavano verso Clauzetto, era un chiaro presagio. Poi il passaggio dei profughi 125 dalla Carnia finì, ma fu probabilmente la deflagrazione che nella mattina del giorno 5 interruppe il ponte stradale sulla forra del Foce (qui lo chiamano “Il Puint di Spissul”) ad annunciare quello che sarebbe successo poche ore più tardi. A Forno si combatte nel pomeriggio del 5 novembre. Dalla sera di quella giornata, e fino all’imbrunire del giorno successivo, il borgo e in particolare la cappelletta diventano la sede del comando del generale Rocca, il punto nel quale si concentrano le truppe che attendono di poter avanzare verso Pradis. Non vogliamo certo raccontarvi tutto quanto accadde a Forno,1 ma condurvi, attraverso alcuni episodi e personaggi, a scoprire le precise tracce di quei giorni che la borgata ancora nasconde. I tedeschi del Garde Reserve Jäger Battaillon arrivarono a Forno nel primo pomeriggio, giungendo da Clauzetto, evidentemente percorrendo la mulattiera che supera il rio di Molin e il rio di Salaries (attuale Sentiero della Battaglia di Pradis). Il primo ad incontrarli, giungendo da Pielungo percorrendo la mulattiera di Sompielungo, è Antonio Marin (1856-1948). Abita a Forno, una vita di lavoro all’estero alle dipendenze del Conte Ceconi, sta rientrando a casa dopo aver assistito allo scontro di Pielungo. Il Marin sarà, dopo la guerra, il testimone locale a cui ricorrerà anche Sebastiano Murari nella stesura del proprio libro. L’incontro del Marin con i tedeschi è riportato da Del Bianco2: “Mi raccontò il Marin che, fermato dai due ufficiali germanici, gli fu chiesto in cattivo italiano dove andasse, al che subito egli rispose dicendo che era stato a Pielungo e che ora si restituiva a casa e anzi ne la indicò fra le poche che costituiscono il villaggio di Forno. Chiese allora uno dei due se avesse veduto strada facendo soldati italiani, al che il Marin pronto ribattè che avendo 1 Rinviamo ogni approfondimento a G. Cescutti - P. Gaspari, Generali senza manovra. La battaglia di Pradis di Clauzetto nel racconto degli ufficiali combattenti, Gaspari Editore, Udine 2007. 2 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 316. 126 egli percorso un sentiero malagevole non gli era accaduto di incontrare anima viva. Quest’ultima risposta la diede tutto di un fiato, facendo forza su se stesso per non voltarsi indietro a vedere se gli alpini che ignari riposavano dietro una gobba del colle, non avessero per avventura ripreso la marcia, e non fossero per spuntar fuori da un momento all’altro. L’ufficiale che ne lo aveva interpellato tacque e il Marin allora si sentì autorizzato a proseguire e in fretta si restituì a casa, ove trovò un pieno di soldati tedeschi che avevano già occupato Forno”. I primi italiani a scendere dalla mulattiera e a scontrarsi con gli Jäger tedeschi, sono gli alpini della 70ª compagnia del battaglione Gemona. Fra loro un giovane aspirante ufficiale, il sandanielese Giordano Vidoni (1898-1968), che nel proprio diario raccontò l’inizio del combattimento con queste parole3: “Quando la testa della colonna arrivò nella parte più alta della mulattiera, siamo stati noi alpini a scontrarci. Ricordo, nei minimi particolari, come alle prime fucilate gli alpini della 70ª, sorpresi da tale attacco, si siano gettati a terra sulla mulattiera, riparandosi dietro i muretti a secco. Di fronte a noi vi era un bosco rado in forte discesa verso la strada carrozzabile che unisce Pielungo a Clauzetto. Vicino a me era il sottotenente Cravero di Asti, un bel ufficiale piemontese pieno di ardire. Accortosi questi che i tedeschi salivano in ordine sparso nel bosco riparati dietro i loro enormi zaini, si è alzato in piedi (eravamo anche noi ufficiali armati di moschetto) e dopo aver sparato contro il tedesco che era giunto a poca distanza, gridò ‘Avanti Alpini’ e si slanciò oltre il muretto a secco. Tutti gli alpini lo seguirono e la pattuglia avanzata tedesca, sorpresa dal nostro scatto, si mise in fuga verso la strada carrozzabile e la frazione di Forno che 3 Stralci del diario di G. Vidoni sono riportati in A. Gransinigh, La guerra sulle Alpi Carniche e Giulie, Libreria Editrice “Aquileia”, Udine 1994. 127 era lontana circa 200 metri. Qualche tedesco cadde; ne ricordo benissimo uno vestito con calzoni di cuoio, con una tenuta perfetta, caduto nel ruscello vicino alla strada. Passata la strada vedemmo davanti a noi una collina senza alberi e non scorgemmo alcun nemico. La pattuglia avanzata si era ritirata oltre il ciglio della collina e nelle case di Forno e oltre Giordano Vidoni (1898-1968) la stretta. A sinistra vi sono le rupi del Monte Rossa (in realtà le rupi sono a destra rispetto a chi scendeva dalla mulattiera, è più probabile che Vidoni faccia riferimento alla collina sopra le case di Forno che effettivamente si trova sulla sinistra, nda) e da qui continuava a sparare con raffiche di mitragliatrici (erano le prime mitragliatrici leggere). Qualcuno dei nostri cadde durante l’avanzata; io seguivo da vicino Cravero che si dirigeva verso la cappelletta che si trova sulla stretta. Vicino a tale cappelletta Cravero cadde colpito all’addome. Qui Cravero accortosi della gravità della ferita mi disse: ‘Muoio, muoio, ma son stato bravo con i miei alpini!’”. Ma a Giordano Vidoni, che cadrà prigioniero ad Inglagna, in val Meduna, oltre a questo racconto, che attribuisce alla cappelletta un particolare valore come luogo della memoria, dobbiamo anche alcuni documenti giunti fortunosamente fino a noi. Sono alcune foto che il giovane ufficiale scattò, probabilmente nell’inverno del 1919-20, ritornando nei luoghi in cui aveva combattuto. Sono giunte fino a noi grazie all’attenzione di un autista che, trasportando in discarica le masserizie provenienti dallo svuotamento di un appartamento in centro a San Daniele del Friuli, si accorse che da una cassa spuntavano documenti e foto che recuperò. 128 La cappelletta di Forno in una foto dell’inverno 1919-20 scattata da Giordano Vidoni (Archivio D. Ceschia) Il cimitero di guerra tedesco di Forno in una foto scattata da Giordano Vidoni nel 1919-20 (Archivio D. Ceschia) Fra quelle decine di foto, alcune furono scattate proprio a Forno: le sepolture dei caduti in Sompielungo, una panoramica verso il monte Dagn innevato, la cappelletta, due foto del cimitero tedesco, come appariva in quei giorni. Quel piccolo cimitero di cui oggi rimangono solo i muri, recuperati dagli alpini di Vito d’Asio, raccolse i resti dei 4 ufficiali e 40 Jäger tedeschi caduti a Forno il 5 novembre4 e dei loro commilitoni caduti a Pradis. 4 S. Murari, Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche, Mondadori, Milano 1935, p. 170. 129 Fra le croci in cemento si distingue quella in ferro, con due rose intrecciate, oggi collocata nel cimitero di Val da Ros, dove tutti i caduti tedeschi furono traslati nel 1920. A raccontare della costruzione del cimitero di Forno è Antonio Marin: “Verso gli ultimi di settembre una squadra di soldati germanici sotto il comando di un ufficiale venne qui per circa un mese per fabbricare un cimitero dietro le case di Forno servendosi di uomini di qui per fabbricare il muro di cinta, conducendo prigionieri italiani per raccogliere le salme dei loro caduti e riunirli tutti in un posto e fecero appena in tempo ad ultimare l’opera prima della liberazione.”5 Scendendo dal colle, ci portiamo verso sinistra fra le case della borgata: l’ultima sulla destra, con vista aperta verso il Cuel d’Orton, era all’epoca la casa di Antonio Marin. Guardando la facciata, ci accorgiamo subito che l’architrave del portone di ingresso e gli stipiti delle finestre sulla destra, presentano ancora i fori dei colpi, di fucile e mitragliatrice, sparati dai tedeschi sul Cuel d’Orton. Una traccia ancora evidente della guerra, che diventa ancora più significativa grazie ad una foto, di epoca probabilmente poco successiva alla fine della guerra, che raffigura proprio Antonio Marin con la sua famiglia, davanti a quella casa. I segni sugli stipiti sono gli stessi che compaiono ancora oggi ma la foto evidenzia anche molti altri fori sull’intonaco che, sotto la finestra a destra del primo piano, è crivellato. Giovanni Colledani (1947-2011)6 sempre vissuto a Forno, mi raccontò, per averlo a sua volta sentito raccontare, che in quella camera si era ritirato a riposare, per qualche ora nella notte fra il 5 e il 6 novembre, il generale Rocca. Che i tedeschi sparassero contro le case di Forno da oltre Foce, è confermato dallo stesso Marin in una lettera a Sebastiano Murari del 26 giugno 19307: 5 Ibidem, p. 364, Lettera di Antonio Marin a S. Murari. 6 Intervista a G. Colledani raccolta da Giuliano Cescutti il 12.10.2006. 7 S. Murari, op. cit., p. 365. 130 La famiglia di Antonio Marin in una foto di epoca immediatamente successiva al 1917. Sullo sfondo la facciata della casa crivellata di pallottole tedesche provenienti dal Cuel d’Orton. Antonio Marin è il primo da destra (Archivio famiglia Blarasin Aramini Ronzat S.M.) “Qui in Forno durante il combattimento tutti si erano rifugiati in una stalla dietro le case perché il nemico appostatosi dietro le borgate Minera e Zattas (Mineres e Zattes, nda) protetto dagli ostacoli naturali tempestavano le case con le mitraglie e fucili.” La figlia di Antonio Marin, Pasqua (1888-1971) detta “la Paschin” si prodigò nell’assistenza ai feriti, raccolti nelle case e stalle di Forno. Nel suo racconto, riportatomi sempre da Giovanni Colledani, ricordava l’implorazione “meine Frau, meine Kinder!”di un povero Jäger tedesco con il ventre squarciato. E infine, nel concludere il nostro percorso attraverso luoghi così densi di memoria, ancora una storia legata a Forno. È la storia di Giovanni Battista Marin, di Forno, aggregato al battaglione Pinerolo, il 5 e 6 novembre 1917 si trova a combattere in questi luoghi che conosce palmo a palmo. Conclusi i combattimenti, fu certamente questa sua perfetta conoscenza del terreno a permettergli di sfuggire alla cattura rientrando a casa. 131 L’avvocato Marin raccontò le sue vicende a Giuseppe Del Bianco qualche anno dopo8: “Tra gli altri l’avv. Giovanni Battista Marin di Pielungo, che riuscì a guadagnare il paese quando era stato ormai occupato. Corse in casa e trovò il padre, conduttore di un albergo, il quale era alle prese con un gruppo di ufficiali germanici. Questi gli volgevano le spalle e non si accorsero del giovane che era rimasto allibito, Giovanni Battista Marin in una foto non sapendo se proseguire o del 1915 (Archivio famiglia Blarasin ritirarsi. Lo rinfrancò il genitoAramini Ronzat S.M.) re che, senza battere ciglio, gli disse parlandogli con accento naturale: “Va ad alt” (“Va di sopra in camera”) e così dicendo continuò a badare ai suoi interlocutori. Il Marin e certi Gino e Guglielmo Marcuzzi pure da Pielungo si sottrassero alla prigionia rifugiandosi in una grotta poco discosta dal paese. Da questa all’albergo del Marin fu steso un filo telefonico per cui non appena si profilava sul paese una qualche minaccia, essi erano subito avvertiti.” La scena va chiaramente ricollocata da Pielungo a Forno (solo negli anni Trenta del secolo scorso la famiglia del Marin prenderà in gestione l’albergo sulla piazza di Pielungo) e questa collocazione risulta anche compatibile con l’individuazione della grotta nella quale i tre trovarono rifugio durante l’anno dell’invasione. Non può trovarsi che lungo la forra del torrente Foce, in una La grotta nella quale trovò rifugio G.B. Marin con i suoi due compagni (Foto Archivio Gruppo Speleologico Pradis) posizione non eccessivamente lontana da Forno. E la grotta è stata quasi certamente individuata dal Gruppo Speleologico Pradis nelle sue esplorazioni: si tratta di una piccola cavità situata sotto lo strapiombo di circa 20 metri formato dal “Çuc dal landri” in corrispondenza della borgata Juris. Rilevata dagli speleologi come “Grotticella del Partigiano”, lungo la forra non ne esistono altre di così asciutte e accoglienti. Il ritrovamento poi di una borraccia della prima guerra mondiale e dei resti delle scatolette di carne in conserva datate 1917 rendono il sospetto ragionevole certezza. Ecco un altro luogo nella zona di Forno, un po’ più difficile da raggiungere, ma ancora una volta strettamente legato a storie di quei giorni. 8 Ibidem, p. 321. 132 133 Sequals La piazza di Lestans ai primi del Novecento, si notino sulla sinistra il recinto della villa Savorgnan e a destra la fontana (Archivio G. Cescutti) Nell’autunno del 1917, il territorio di Sequals viene a trovarsi in una posizione strategica per il transito verso occidente, verso il Piave. Verso la salvezza per i tanti profughi che giungevano dai monti vicini, ma anche dalla Carnia e da oltre il Tagliamento attraverso Pinzano e Valeriano. Da Lestans, la via era diretta, attraverso Sequals, a superare il ponte sul Meduna sotto Colle, quindi a Maniago a superare il Cellina al Ponte Giulio e poi via verso Aviano. Quella stessa strada presero le truppe imperiali, trattenute in successivi combattimenti dagli italiani in ritirata che caddero numerosi anche a Lestans e Sequals. Di quei giorni la memoria pare a prima vista scomparsa, ma riemerge in una forma abbastanza insolita. La Grande Guerra nei quadri di Giuseppe Del Fabbro Il paese di Lestans, un secolo fa, oltre il nucleo rappresentato dalla chiesa e dalla villa Savorgnan con la piazza, non era che una lunga linea di case a nord e a sud della strada. Due quadri, uno dei quali purtroppo gravemente segnato dal tempo, sono in grado di riportarci a quell’epoca, proprio nei giorni in cui la guerra arrivò anche qui. Ne è autore Giuseppe Del Fabbro, artista che ebbe una certa fama soprattutto nella realizzazione di immagini devozionali, nei giorni della Grande Guerra residente in prossimità dell’attuale piazza I maggio a Lestans. Nelle due opere rappresenta quasi due istantanee prese dallo stesso punto, al momento dell’invasione nel 1917 e nel 1918 al ritorno degli italiani vittoriosi. 134 135 136 G. Del Fabbro: Lestans 1917 G. Del Fabbro: Lestans 4 XI 1918 Il punto di vista è sempre quello, guardando la facciata di villa Savorgnan, all’epoca recintata e separata dalla piazza, da oltre la strada. Sulla piazza la fontana ora scomparsa ma che ritroviamo nell’immagine di apertura di questo capitolo. I particolari del paesaggio dipinti da Del Fabbro sono quasi fotografici, e dobbiamo di conseguenza ritenere che anche la rappresentzione delle persone lo sia allo stesso modo. Il quadro riferito al 1917, quello più danneggiato, raffigura una folla in movimento proveniente dal Cosa e soldati frammisti ai civili che puntano in direzione di Sequals. Fra i civili sono ben identificabili i profughi, in particolare quelli che, posati i bagagli, si stanno dissetando alla fontana. Anche dalla strada che sbuca fra la villa e l’attuale bar albergo “Alla Posta”, sembrano distinguersi persone che scendono dai paesi a monte. Il tetto del fabbricato oggi corrispondente alla banca appare danneggiato, probabilmente da un colpo di artiglieria. Sulla stessa piazza, alla destra della fontana, viene raffigurata una esplosione e un civile nell’atto di cadere colpito. Fra i militari vi sono anche dei motociclisti e, particolare assolutamente interessante, vengono raffigurati anche due strani mezzi, uno distinguibile parzialmente sul limite destro del quadro, l’altro dipinto quasi per intero, sulla sinistra: si tratta di due autoblindomitragliatrici Lancia 1Z che l’autore raffigura con una dovizia di particolari notevole, che conferma una ottima memoria visiva rispetto a oggetti che probabilmente si videro in paese solo nei giorni della ritirata verso il Piave. Il secondo dipinto, porta in alto la data “Lestans 4 XI 1918” e rappresenta l’attuale piazza I maggio al momento dell’arrivo delle prime truppe italiane. Si distinguono ancora gli effetti del bombardamento sull’edificio dell’attuale banca e in aggiunta le scritte che testimoniano l’occupazione imperiale. Sull’angolo del recinto di villa Savorgnan gli austroungarici hanno tracciato la scritta che indica la direzione di Roma: “Nach Rom” si legge accanto alla freccia in 137 scontrarono ancora con truppe austroungariche in ritirata: presero 30 prigionieri e 3 mitragliatrici1. Il reggimento di Saluzzo rimase quindi a pernottare a Lestans. Quanto raffigurato dal quadro trova quindi conferma dalle cronache militari e i cavalleggeri del cui arrivo Del Fabbro fu testimone, sono proprio quelli di Saluzzo. Già trovata quindi conferma dell’importante valore documentale del quadro riferito al 1918, andiamo ora a scoprire quali testimonianze Giuseppe Del Bianco raccolse a Lestans, riferite ai giorni della ritirata di Caporetto:2 Autoblindomitragliatrice del tipo raffigurato da G. Del Fabbro nel quadro “Lestans 1917” direzione di Sequals. Alla fontana è appeso il cartello “Verboten”, probabilmente indicativo di qualche divieto introdotto dagli occupanti per motivi di natura igienica in rapporto all’utilizzo dell’acqua. Sulla facciata della villa, oltre ai tralci delle viti si distinguono chiaramente, in alto, i fori dei proiettili. Ora la scena è di tutt’altro tipo rispetto a quella cupa del 1917: in cielo tre aerei italiani stanno sorvolando il paese puntando ad est, dalla direzione di Sequals stanno giungendo i cavalleggeri, uno di loro porta lo stendardo italiano e stanno piombando sugli austriaci i cui mezzi militari (due camion e probabilmente una cucina da campo) vengono ancora una volta raffigurati con assoluta precisione, addirittura con i numeri di targa. I civili sono festanti e alzano braccia e fazzoletti in segno di saluto ai liberatori. Proponendoci ora di dimostrare quanto quei due quadri corrispondano a verità storica, partiamo dalla scena datata 4 novembre 1918, per poi tornare all’autunno del 1917. Si tratta in realtà del 2 novembre 1918, il giorno in cui, sul fare della sera, a Lestans arrivarono i Cavalleggeri di Saluzzo che poche ore prima avevano partecipato alla carica di Tauriano. Dopo la carica i cavalleggeri puntarono su Lestans e nei pressi della località si 138 “Usago occupato, i combattimenti si fecero più accaniti nella borgata di Lestans, contesa all’invasore passo per passo, casa per casa, e in modo ancor più gagliardo, direi quasi feroce, presso il cimitero, intorno ad un rilevato di terreno, ove reparti della 33ª divisione italiana si sacrificarono per dar tempo ai grossi di ritirarsi sul Meduna, retrostante al Cosa una decina di chilometri, e di questo maggiore per portata e per ghiaioso letto. Raccontano gli abitanti di Lestans che quando attaccò la fanteria austriaca della 55ª divisione, già il paese era stato bombardato e parecchie case erano state distrutte. Non per questo però scemato era l’animo dei difensori che quivi eransi concentrati, né quello dei civili i quali trascorsero la vigilia aiutando i soldati ad apprestare affrettate opere di difesa. Così operato, alcune ore prima che si sferrasse l’attacco essi si raccolsero in chiesa e, pieni di mistico fervore, assistettero al battesimo di Giovanna Rossi di Giovanni, venuta alla vita mentre tutto intorno precipitava a morte. Vittima delle artiglierie avversarie, che in quella stessa giornata concentrarono con particolare violenza il loro fuoco su Lestans, rimasero Margherita Bertin di Antonio di anni 41, Vincenzo Liva fu Giacomo di anni 44 e Giuseppe Milocco (rectius: Melocco) fu 1 G.G. Corbanese con la collaborazione di A. Mansutti, 1915/1918 Fronte dell’Isonzo e rotta di Caporetto - I movimenti delle truppe italiane e austrotedesche nei tre anni di conflitto, Del Bianco Editore, Udine 2003, p. 328. 2 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 253. 139 Domenico di anni 64 e nel domani, dalla ferocia teutonica, Armellina Bertuzzi fu Leonardo di anni 77 che si era opposta alla razzia di una pecora, e Pietro Tomat fu Antonio di anni 68 che, per voler salvare il maiale, fu in luogo di questo cacciato nel porcile e quivi finito a colpi di arma bianca. Tralascio i feriti. Per alcune ore, essendosi combattuto in luogo ristretto e chiuso, gravi furono le perdite da entrambe le parti sofferte. Degli italiani quasi duecento rimasero sul terreno; molti sull’argine del Cosa, ove si disputò la prima azione; una decina sul sagrato della chiesa, parecchi anche nelle private abitazioni che dovettero venir espugnate ad una ad una; la maggior parte sul colle che sovrasta il cimitero.” Dall’elenco dei caduti civili tre di essi risultano morti il 2 novembre, quindi in conseguenza dei bombardamenti (Bertuzzi Armellina, Bertin Margherita e Liva Vincenzo), gli altri due nella giornata del 4 novembre. È in quella giornata che avviene, nel primo pomeriggio, l’occupazione di Lestans. Il racconto che abbiamo riportato pare quasi descrivere i contenuti del primo quadro di Del Fabbro: il bombardamento, le case distrutte, i civili uccisi. Il racconto raccolto da Del Bianco descrive la dinamica dei combattimenti, prima con la resistenza sul Cosa e dalla posizione elevata del sagrato della chiesa, poi sul Colle di Lestans. Esagerato risulta il numero dei morti dichiarato, poco compatibile anche con il fatto che al Tempio Ossario di Udine, fra i 15.868 caduti conosciuti non più di 27 risultano provenienti dai cimiteri di Sequals (2 soli da Lestans). La Brigata Siena, con il suo 31° reggimento, resiste su quello che viene indicato come “Col del bosco”. Alle 16 del giorno 4 contrasta l’avanzata nemica verso ovest. Dopo avere contrattaccato più volte, il reparto è costretto a ripiegare su Sequals e quindi oltre il Meduna. Rimangono sul campo il comandante ten. col. Gherardo Marogna e il maggiore Leandro Modaferri. Il tenente colonnello Marogna, a quanto abbiamo scoperto da un documento conservato nell’Archivio Storico del Comune di Maniago3, 3 Archivio Storico Del Comune Di Maniago, busta 629. 140 viene raccolto dal sergente maggiore Silvio Bacci e dal carabiniere Giovanni Cardoni e da questi trasportato fino a Maniago e sepolto nel cimitero comunale. Verso l’imbrunire il combattimento si sposta quindi verso Sequals, località nel frattempo raggiunta anche dal tiro delle artiglierie4 “Calavano intanto le ombre della notte e due autoblinde italiane, qua e là spostandosi senza posa, davano l’impressione di maggiori armi che in realtà i difensori non avessero avuto, e ingeneravano col frastuono, più che col danno, timore nell’avversario, il quale, rattenuto ancora per qualche tempo, soltanto a tarda notte potè occupare il paese.” Ed ecco quindi tornare, con le due autoblinde, un altro particolare fra quelli raffigurati dal nostro pittore, quasi un reporter di guerra per la precisione delle informazioni che ci ha trasmesso. I due quadri sono oggi conservati nell’ufficio del locale negozio Coop e rappresentano una tessera preziosa della storia di Lestans. L’occasione del centenario della Grande Guerra dovrebbe forse ispirare la realizzazione di un più che mai necessario restauro. Ottavio Bottecchia: l’ultimo difensore di Lestans Il 4 novembre 1917, a Lestans c’è anche Ottavio Bottecchia, destinato a diventare dopo la guerra il grande campione ciclistico che tutti conosciamo.5 Nato il 1° agosto 1894, viene chiamato alle armi nel novembre del 1914, arruolato fra i bersaglieri ciclisti. Prima di Caporetto combatte la sua guerra sull’altopiano di Asiago e quindi sul Carso. Nei giorni della ritirata è assegnato con il suo reparto al Corpo d’Armata Speciale del generale Di Giorgio: con la sua bicicletta munita di mitragliatrice si trova a Lestans di retroguardia ai reparti italiani, a diretto contatto con gli austroungarici che avanzano. 4 G. Del Bianco, op. cit., p. 258. 5 Le note biografiche su Ottavio Bottecchia sono tratte da G.V. Fantuz, Ottavio Bottecchia. Botescià: bicicletta e coraggio, GVF Libri, Spilimbergo 2004. 141 Per il comportamento tenuto in quell’occasione, al caporale del 6° battaglione bersaglieri ciclisti Ottavio Bottecchia viene concessa la Medaglia di Bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione: “Con calma e ardimento sotto il violento fuoco nemico aggiustava tiri efficacissimi e falcianti con la propria mitragliatrice, arrecando gravi perdite all’avversario e fermandone l’avanzata. Costretto più volte ad arretrare, incurante del pericolo portava seco l’arma e tornava a postarla, aprendo sempre un fuoco violento sul nemico. (Lestans, 4 novembre 1917)”. Dopo quella eroica resistenza, soverchiato dagli austroungarici, Bottecchia viene catturato (per la terza volta, dopo le due precedenti nelle quali riuscì sempre a fuggire) ma per un solo giorno poiché riesce a darsi ancora alla fuga e a ricongiungersi al suo reparto ormai ritiratosi oltre il Meduna. Il suo ultimo anno di guerra sarà sul Piave, dove si ammalerà anche di malaria. Viene congedato il 15 aprile del 1919 con un premio di congedamento costituito dalla sua gavetta, dalla coperta, dalla divisa e qualche metro di stoffa civile. Una presenza poco nota quella di Ottavio Bottecchia a Lestans, che si ricollega, in un suo passaggio, a questo racconto che ci viene riportato da Giacomo Bortuzzo (nato nel 1935)6: “Mio padre (Mattia Bortuzzo) era nato nel 1906 ed è vissuto fino a 102 anni compiuti. Ha visto l’ingresso delle truppe austroungariche a Lestans e mi raccontava che in paese erano rimaste non più di 70-80 persone. Gli altri erano andati tutti sfollati. Quando hanno immaginato che stavano arrivando i tedeschi si sono rifugiati in fretta e furia su da “Fanèl”, dove nella grande stalla avevano potuto costruire una parete con le canne del mais per nascondersi dietro. Sono rimasti nascosti per tre gior- 6 Intervista di Giuliano Cescutti a Giacomo Bortuzzo del 6 novembre 2014. 142 ni tenendo con loro anche un maialino, mentre quello grande lo avevano già macellato, in anticipo rispetto ai tempi, per paura che i tedeschi potessero rubarlo. I tedeschi entrarono per due volte nella stalla, con grande paura di tutto il gruppo dei nascosti che temevano che un grugnito improvviso del maialino potesse tradirli. Mentre erano nel nascondiglio sentirono sparare, ma non solo colpi di fucile, anche raffiche di mitragliatrice. Chi dice che i colpi venissero dalla “riva da la roja” (la salita che sotto la chiesa conduce alla piazza del paese), chi dice dalla parte dell’ancona di San Giuseppe. Solo molti anni dopo, quando siamo venuti casualmente a sapere della medaglia di bronzo di Bottecchia a Lestans, abbiamo collegato quelle raffiche a quella eroica Ottavio Bottecchia in divisa da bersagliere ciclista resistenza. Mi raccontò che a Lestans tutti si aspettavano che gli invasori arrivassero dalla parte del Cosa, invece un plotone arrivò anche da sopra, dalla zona del “Palût”, realizzando una sorta di accerchiamento sul paese. I cannoni sparavano da Ragogna sul paese e i residuati di quel bombardamento emersero in abbondanza quando fu bonificata la zona del “Palût”. Poi uscirono dal rifugio, c’erano molti bambini, non solo lui, e videro i camion austriaci che raccoglievano i caduti. Ma dopo parecchio tempo si trovavano ancora dei morti austriaci sulla collina di San Zenone e furono sepolti nel cimitero di Lestans. Sulle sepolture erano disposti dei cippi come quelli italiani ma l’area era lasciata piuttosto 143 in disordine e allora, quando ero sindaco, la feci sistemare collocando una pietra a memoria dei ‘Caduti austroungarici ignoti””. Una testimonianza interessante, che conferma ancora una volta che la memoria di quei giorni straordinari giunge fino a noi anche attraverso chi, non avendo vissuto i fatti, ha saputo ascoltarne il racconto. Forse quelle raffiche, nella confusione della battaglia, non erano quelle sparate da Ottavio Bottecchia…però ci piace crederlo. Ecco un’altra tessera di memoria: se della presenza di Carlo I a Lestans non possiamo essere certi, risulta invece confermata, da un avviso rinvenuto nell’Archivio del Comune di Travesio, la presenza di una Scuola di tiro di artiglieria a Spilimbergo. L’avviso, scritto in tedesco e datato 28 febbraio 1918, indica il periodo dei tiri dal 4 marzo fino a revoca, ogni giorno dalle ore 8 alle 14, con esposizione di bandiere rosse sui campanili di Tauriano e Sequals e… sulla “ballonhalle” di Istrago. Carlo I sul colle di San Zenone? Un interessante racconto riferibile a Lestans ci viene riportato da Giovanni Bozzer, che lo ascoltò dal nonno materno Antonio Cancian, detto “Méla”, nato nel 19047: “Mio nonno mi raccontò che insieme a Matiuta che era del 1906 (Mattia Bortuzzo, nda) e a Gigi Seghet che era del 1903, salivano sul colle di San Zenone, dove era posizionato l’osservatorio dal quale gli austroungarici controllavano le manovre militari che si svolgevano nella prateria verso sud. Lassù c’era anche un po’ di cucina e i tre ragazzi riuscivano quasi sempre ad ottenere un po’ di pane o un po’ di polenta. Mi raccontò poi di avere visto, lassù, anche l’imperatore Carlo I. Non sono in grado di dire se questo sia vero, ma certo le manovre erano di preparazione alla ‘battaglia del solstizio’. Nella prateria a nord di Istrago esiste una zona identificata dal toponimo “Pra delle buse”. Fino all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quei terreni erano un acquitrino nel quale si distinguevano ancora i crateri prodotti dal tiro delle artiglierie durante le manovre austroungariche.” (7) Intervista di Giuliano Cescutti a Giovanni Bozzer del 12 novembre 2014. 144 Avviso della Scuola di tiro di artiglieria di Spilimbergo del 28 febbraio 1918 (Archivio Comunale di Travesio) 145 Pinzano al Tagliamento Pinzano, il ponte sul Tagliamento inaugurato nel 1906 (Archivio G. Cescutti) 146 Fino ai primissimi anni del Novecento, chi voleva attraversare il Tagliamento fra Ragogna e Pinzano doveva utilizzare il traghetto che faceva la spola fra le due sponde immediatamente a valle del punto in cui le due rupi si fanno più vicine. Poi fu realizzato il ponte stradale, quindi quello ferroviario più a monte, all’altezza di Cornino. Due opere che davano a quel tratto di fiume ulteriore importanza rispetto a quella già attribuitagli dal baluardo naturale del solitario rilievo del monte di Ragogna. Quel baluardo naturale, nel caso di una invasione da est, avrebbe dovuto diventare un punto chiave nella difesa della linea fluviale. In questa prospettiva, il monte di Ragogna venne fortificato e armato negli anni dell’anteguerra, quando ancora Italia e Austria-Ungheria erano alleate, ma allo stesso tempo si preparavano alla guerra fra loro realizzando un potente sistema di opere di difesa confinaria. Per due anni e mezzo la linea del fronte rimase ben lontana dal fiume e, nella certezza che sotto il monte di Ragogna non sarebbe mai arrivato l’esercito nemico, anche gli armamenti furono inviati dove ce n’era maggiore bisogno. Ma nell’ottobre del 1917 si verificò l’imprevedibile, e quel tratto di fiume si trovò ad essere al centro di una battaglia che ne ha assunto il nome… 147 1° novembre 1917: “un sacrifizio di gravità sproporzionata” ll 27 ottobre 1917 Cadorna, prima di abbandonare Udine minacciata dagli imperiali, emana l’ordine di ritirata sul Tagliamento. Spera di riuscire a stabilire sul fiume la nuova linea del fronte: per alcuni giorni quella rimarrà la decisione, il Tagliamento avrebbe potuto avere il destino che poi toccò invece al Piave. L’approntamento di una difesa sul Tagliamento implicava innanzittutto l’organizzazione di una forte protezione dei ponti, elementi decisivi per garantire il passaggio dell’esercito sulla sponda destra. Nel tratto di fiume tra Cornino e Pinzano nell’ottobre 1917 esistono tre attraversamenti: – il ponte ferroviario di Cornino, inaugurato nel mese di novembre del 1914 con l’entrata in esercizio della linea ferroviaria Gemona-Pinzano-Spilimbergo; – una passerella in legno, definita come “ponte di equipaggiamento”, all’altezza della confluenza del torrente Pontaiba; – il ponte stradale di Pinzano, opera imponente, capolavoro a quell’epoca nell’uso del cemento armato, inaugurato nel mese di settembre del 1906. Un sistema di attraversamenti articolato, che non può assolutamente cadere nelle mani degli imperiali che nel frattempo puntano con le loro avanguardie proprio in quella direzione. La difesa di quel tratto del nuovo fronte viene affidata al generale Antonino Di Giorgio che, giunto al Comando Supremo di Udine la sera del 26 ottobre 1917, riceve da Cadorna l’ordine di apprestare le difese sul Tagliamento nel tratto compreso fra i ponti di Pinzano e di Cornino. Gli vengono assegnate due divisioni, la 20ª (brigate Lombardia e Lario) e la 33ª (brigate Barletta e Bologna): le due grandi unità sono a ranghi molto ridotti, non più di 6.000 uomini che raggiungono la zona risalendo la corrente dei profughi e degli sbandati. Lo schieramento di quello che viene ad assumere la denominazione di Corpo d’Armata Speciale, viene completato nelle giornate del 29 e 30 ottobre con l’aggregazione a queste due divisioni della 16ª (brigate Ro- 148 vigo e Siracusa), del 7° gruppo alpini (battaglioni Val Leogra, Bicocca e Valle Stura), delle brigate Siena e Sassari, del 1° e 3° Gruppo bersaglieri, del 9° reggimento bersaglieri con un gruppo di arditi e del reggimento Cavalleggeri di Saluzzo1. In quelle ore i ponti sono percorsi dalla massa impressionante dei profughi frammisti alle truppe in ripiegamento che creano uno spaventoso intasamento delle strade, tale da rendere estremamente lento ogni Il generale Antonino Di Giorgio progresso lungo la via. Una descrizione delle condizioni delle strade nella zona di Pinzano, ci viene offerta dal conte Walframo di Spilimbergo, in quei giorni ufficiale dei cavalleggeri sulla via della ritirata, nel suo diario riportato in alcuni passaggi da Giuseppe Del Bianco2: “Migliaia e migliaia di veicoli di ogni genere e di ogni forma, cannoni di ogni calibro, trattrici, macchine, buoi dispersi, morti distesi attraverso la strada. I fossi ai lati erano pieni di vetture rovesciate e di cavalli ancora attaccati che si contorcevano inutilmente e disperatamente. Avevano tentato di salvare i cannoni, avevano tentato di salvare gli uomini rovesciando i carreggi, e non erano riusciti perché altri carri erano venuti da tutte le parti ad incastrarsi nel grande caos. (…) I veicoli giungevano gli uni sugli altri, tentavano di sorpassarsi, si urtavano, si scontravano, si rovesciavano, sbarrando la strada sì che più non 1 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 236. 2 Ibidem, p. 246. 149 passavano neppure gli uomini. (…) Le lunghe colonne parallele andavano lentamente. Si fermavano a lungo, poi muovevano per alcuni passi, poi ristavano, po’ riprendevano. Appena si faceva un breve vuoto, dieci veicoli vi si precipitavano in velocità per sorpassare i pigri carri dei buoi e le carrette traballanti dei profughi, e tutti si incastravano nel vano e non riuscivano più a proseguire.” Superato il ponte, quella moltitudine deve prendere la via per Spilimbergo o, in alternativa, sperare di trovare posto su uno degli ultimi treni in transito. Ma anche il transito ferroviario è lentissimo, a rendere l’idea di quanto lo fosse, il tempo di percorrenza fra le stazioni di Spilimbergo e San Giorgio della Richinvelda, raccontato a Del Bianco dalla profuga Margherita Vuerich di Pontebba3: dalle 6 del mattino alle 15 del pomeriggio, 9 ore per appena una decina di chilometri. E poi il rischio di essere colpiti dai tiri d’artiglieria provenienti dalla sponda sinistra, che hanno come obiettivo la linea ferroviaria ma anche i paesi più interni. Vengono colpite le stazioni ferroviarie di Pinzano e quella di Spilimbergo, a San Giorgio vengono colpiti il casello e il convoglio. In questa situazione il generale Di Giorgio raggiunge la zona per adempiere al grave compito che gli è stato assegnato da Cadorna4: “Dopo lungo e penoso girare per tutti gli uffici del Comando supremo e del comando della 2ª Armata, me ne partii per Pinzano, con una carta al 200.000 e con l’assicurazione che la sera avrei trovato a Spilimbergo un capo di stato maggiore e due ufficiali. Così cominciò a funzionare il comando del Corpo d’Armata Speciale. Esso andò a poco a poco completandosi 3 Ibidem, p. 273. 4 Relazione della commissione d’inchiesta, vol. 2°, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, Roma MCMXIX, pp. 158-159. 150 coll’arrestare al passo del ponte di Pinzano (obbligandoli, dove furono necessarie, anche con minaccie e violenze, ad aggregarsi al comando) personali di ogni genere, e col requisire materiali destinati altrove. Il giorno 2 il personale messo insieme così non difettava già più, ma coloro che sanno che cosa vuol dire il funzionamento del comando di una grande unità, possono bene immaginare che cosa fosse in quelle condizioni il comando del Corpo di Armata Speciale e quale il concorso di molti dei suoi componenti. Si aggiungano a ciò le difficoltà delle strade che, intasate di carreggio, di sbandati, di profughi, rendevano lenti, penosi, incerti i movimenti e impedivano a me di portarmi sui punti del vasto fronte, dove sarebbe stato pure necessario di dare un impulso personale, rendersi conto de visu dello stato delle cose e della fedele interpretazione ed esecuzione delle mie direttive e dei miei ordini. Spesso non potei spostarmi che a piedi, e mi accadde d’impiegare lunghe ore di penosissima marcia per sbrigare negozi che un comando bene organizzato avrebbe sbrigato in 5 minuti con una telefonata o inviando sul luogo un provetto ufficiale di stato maggiore.” Di Giorgio fissò il proprio comando a Travesio, dirigendo da quella località le operazioni, in un quadro che ormai chiaramente si delineava come quello di un progressivo ripiegamento anche dalla linea del Tagliamento. Nell’arretramento, la decisione più difficile sarebbe stata quella del momento della interruzione delle tre opere di attraversamento del fiume. Quanto accadde in quei giorni fra Pinzano e Cornino, fu oggetto di particolare attenzione da parte della Commissione di inchiesta che il governo istituì nel gennaio 1918 (R.D. 12 gennaio 1918 n. 35) e che concluse i suoi lavori nel giugno 1919, quindi a guerra finita, dopo avere sentito centinaia di testimoni ed esaminate migliaia di documenti relativi ai fatti accaduti nell’autunno del 1917. E l’attenzione si concentrò proprio sulla scelta dei momenti in cui furono ordinate le interruzioni dei passaggi. Per il ponte ferroviario di Cornino, fatto saltare nelle prime ore del 1° novembre (pare alle 4,30), la Commissione non solle- 151 vò particolari rilievi, se non quelli relativi ad una non completa distruzione dell’opera5: “Le due interruzioni vennero praticate sulla campata immediatamente ad ovest e su quella immediatamente ad est dell’isolotto di Clapat. Ma quella ad est non si produsse completamente, si verifico’ cioè la semplice inclinazione della campata, mentre quella ad ovest risultò più completa per quanto di lieve estensione, talchè, come mi venne riferito in questi ultimi giorni da abitanti rimasti sulle rive del Tagliamento – in un periodo di circa un mese il nemico poté riattare stabilmente il ponte ferroviario di Cornino.” In quel punto, avvalendosi delle strutture in acciaio del ponte e approfittando del progressivo calo del livello del fiume, nella notte fra il 2 e il 3 novembre passeranno i primi reparti della 55ª divisione austroungarica. La passerella di Pontaiba, evidentemente opera di importanza secondaria, interrotta già nella giornata del 31 ottobre, non viene presa in considerazione dalla Commissione. Ma la vicenda più emblematica è quella legata all’interruzione del ponte di Pinzano e alle sue conseguenze. La Commissione d’inchiesta dedica oltre due pagine all’analisi dei fatti. La responsabilità del brillamento è affidata al generale Carlo Sanna, comandante della 33ª divisione, al quale spetta una decisione assai difficile, con la brigata Bologna ancora schierata oltre il fiume, che difende accanitamente le sue posizioni di fronte ad un nemico incalzante. Il comando della 2ª Armata ha ordinato di interrompere il ponte solo “nel caso di estrema necessità, quando, cioè, la distruzione impongasi per impedire che il ponte cada in mano del nemico”, riuscire però a garantire anche il contemporaneo ripiegamento dei fanti della brigata Bologna non è cosa semplice. 5 Ibidem, p. 154. 152 All’alba del 1° novembre la brigata Bologna resiste ancora, ma verso le 10 del mattino il centro dello schieramento cede, mezz’ora dopo la testata del ponte verso Ragogna comincia ad essere colpita da fuoco di artiglieria e di mitragliatrici. Si presenta il rischio concreto che i collegamenti elettrici delle cariche vengano danneggiati: se ciò avvenisse il manufatto cadrebbe inevitabilmente in mano nemica, intatto e utilizzabile. Nuclei Il generale Carlo Sanna di fanti della Bologna si ritirano responsabile dell’interruzione del lungo il ponte. La situazione sta ponte di Pinzano per precipitare. Sanna cerca di ottenere indicazioni sul da farsi, prima informa il comando del Corpo d’Armata della gravità della situazione, poi fa telefonare al suo capo di Stato Maggiore e gli viene ancora una volta risposto che lui solo è “giudice del momento” in cui ordinare il brillamento. Alle 11,15 il generale Sanna invia al maggiore Carta il biglietto con il quale ordina il brillamento: alle 11,25 la deflagrazione che distrugge la campata sotto Pinzano. Pare che sul ponte stessero ancora transitando dei soldati6: “Spaventoso spettacolo, reso più orribile dal fatto che numerosi soldati – chi afferma italiani, chi germanici – i quali si trovavano sulla massicciata stradale del ponte al momento della deflagrazione, furono lanciati in aria e si videro ricadere e dibattersi i dilianiati corpi nelle limacciose acque del Tagliamento”. 6 G. Del Bianco, Op.cit., p.226 153 dividere la condotta del generale Montuori (comandante della 2ª Armata) che determinò “un sacrifizio di gravità sproporzionata al probabile vantaggio ottenuto”7. Quando pensiamo alla battaglia del Tagliamento, a questi fanti della brigata Bologna deve soprattutto andare il nostro pensiero. Veneranda Simonutti, nata il 5 settembre 1912 Il ponte di Pinzano nei giorni immediatamente successivi alla distruzione (Foto Kriegspressequartier – Österreichische Nationalbibliothek – Bildarchiv Austria) La brigata Bologna è abbandonata al suo destino: questa situazione non può essere sottratta all’analisi della Commissione d’inchiesta che, negli ordini dei comandi superiori, individua motivazioni sconcertanti. Le motivazioni del sacrificio della brigata Bologna sono quelle contenute in un ordine del comando 2ª Armata che fa riferimento alla necessità di prolungare la resistenza sulla riva destra ma soprattuto al fatto “morale”, per cui sarebbe stato opportuno “che in questo compito di prolungata resistenza la 2ª Armata si distingua così da cancellare colpe che ci hanno portato alla situazione attuale”. Ecco tornare la teoria dello sciopero militare, quegli uomini, secondo Cadorna “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico” devono pagare con il sangue una colpa che non hanno. E i fanti della Bologna con il loro sangue pagheranno, resistendo fino all’imbrunire. La Commissione conclude la sua indagine con l’approvazione della scelta del momento di brillamento del ponte, ma senza con- 154 È nata a Costabeorchia ormai più di 102 anni fa, ma ha trascorso buona parte della sua vita lontano da queste colline. Ci accoglie con il suo volto rotondo e sorridente rivelando vivacità e lucidità sorprendenti. Subito precisa8: “Ho fatto la girovaga. Per fortuna ho un carattere non pauroso, quando mi trovo nelle difficoltà mi do da fare e ringrazio Dio di avere sempre trovato la forza di superarle”. La prima volta è partita a 11 anni (quindi nel 1923…) andando a servizio per sei mesi a Venezia. Poi si è trasferita a Varallo Sesia a lavorare in un cotonificio. Si occupava della filatura perché era troppo piccola per usare le macchine del telaio. Nel 1932 si trasferisce in Libia, al seguito di una amica, a servizio in casa di un medico dell’ospedale di Tripoli, il prof. Testori. Lavora poi all’Ospedale coloniale principale Vittorio Emanuele III di Tripoli e quindi per dodici anni in orfanotrofio, prima di essere costretta a rientrare in Italia dall’avvento della dittatura di Gheddafi. Si lascia andare ad una risata che rivela anche la sua commozione quando le viene ricordata la storia di un orfanello del quale ci fa vedere anche le foto: “Gioia me l’anno portato avvolto in uno straccio, era appena nato, la mamma era morta, era nudo e senza niente, alle 3 di notte, gli ho fatto il bagno, l’ho vestito e 7 Relazione della commissione d’inchiesta, vol. 2°, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, Roma MCMXIX, p. 245. 8 Intervista di Giuliano Cescutti a Veneranda Simonutti del 6 novembre 2014. 155 l’ho messo a cuccia. Era figlio di un pastore arabo, il suo nome era Ibrahim. Quando sono partita mi ha chiesto: ‘Mamma perché vai via?’”. La sua memoria agile non ha difficoltà a fare un salto indietro fino ai giorni della Grande Guerra: “Avevo 4-5 anni, mia nonna ci ha fatto prendere il sentiero verso Castelnovo, dietro la collina, e siamo arrivati a Paludea. Eravamo mia nonna (Maddalena), mia mamma (Francesca), noi tre bambini (io, mio fratello Costantino e mia sorella Amelia). A Paludea c’era tutta una confusione, chi piangeva, chi gridava, non era piacevole da sentire. Mia nonna allora disse alla mamma: ‘Che cosa dobbiamo fare in questa confusione? Torniamo a casa, io voglio morire nel mio letto’. La mamma fu subito d’accordo e siamo tornati a Costabeorchia. Mia zia Tranquilla (sorella della mamma) era già salita su un camion militare, aveva due bambini (Ugo e Dora) e arrivò fino a Napoli. Tornati a casa, lungo la strada trovammo tutto fracassato. Mi ricordo dei tedeschi che mi facevano salire con i piedi sui palmi delle loro mani e mi facevano fare il giro del cortile. Io ero magra come uno stecco. Erano bravi e mi volevano bene, non hanno fatto danni. Avevano passione per i bambini, almeno quelli che sono stati qui. Mi ricordo che mi davano lo zucchero, ‘bischen Zucker’ dicevano. Dormivano in casa di mia nonna, nel borgo basso. Per non disturbare dormivano sui cuscini, nei locali a piano terra, attorno al fogolâr. Di quando hanno fatto saltare il ponte di Pinzano non ricordo nulla, forse non eravamo a casa. C’era miseria, mia mamma condiva il radicchio con qualche goccia di latte, io leccavo il latte e buttavo il radicchio al gatto: come si fa a mangiare il radicchio senza condire?” 156 Case di Pinzano colpite dalle artiglierie imperiali (Archivio P. Gerometta) 157 Spilimbergo Corso Roma, anno dell’invasione: militari tedeschi e austroungarici davanti alla “Soldatenheim” cittadina (Archivio Joris Dell’Asin) Anche Spilimbergo, con l’entrata in guerra del Regno d’Italia, si trova, a far parte della grande retrovia del fronte con tutte le conseguenze che ne derivano in termini soprattutto di passaggio e presenza di truppe e di limitazioni delle libertà degli abitanti. La città, al censimento del 1911 contava 8.442 abitanti, era dotata di un ospedale e fin dal gennaio 1893 era collegata a Casarsa dalla ferrovia. Nel novembre del 1914 viene messo in esercizio anche il collegamento ferroviario Spilimbergo-Pinzano-Gemona che diventa strategico innanzittutto per le finalità di transito di uomini e materiali verso il fronte. Il ponte stradale sul Tagliamento ancora non esiste ma il genio militare, nel 1916, ne realizza uno in legno fra le località di Bonzicco e Gradisca. Molti sono gli aspetti specifici legati al periodo della Grande Guerra meritevoli di approfondimento nel contesto cittadino. In questa sede possiamo però soffermarci solo su un paio di spunti. Spilimbergo, domenica 22 agosto 1915: truppe italiane assistono alla messa in piazza Duomo (Foto Collezione Mauro Giacomello) 158 159 Spilimbergo nelle foto del Kriegspressequartier Facendo riferimento ad episodi dai quali ci separa il lungo tempo trascorso, la curiosità che più ci prende è quella visiva, che vorremmo vedere soddisfatta da immagini d’epoca che spesso non esistono. A volte però compaiono in modo inaspettato. È il caso del vasto patrimonio fotografico realizzato dal “Kriegspressequartier” austroungarico durante la Grande Guerra, che gradualmente sta riemergendo dagli archivi e viene progressivamente reso disponibile anche in rete. In questo ambito sono recentemente emerse alcune immagini spilimberghesi catturate durante l’anno dell’occupazione, prima tedesca e poi austroungarica. Vogliamo proporvene un paio. La prima rappresenta un luogo famigliare agli spilimberghesi e non solo, da allora poco è cambiato. La data della foto ci riporta ad un tempo immediatamente successivo al passaggio del controllo dalle truppe germaniche a quelle austroungariche (avvenuto in data 15 marzo 1918). Significativi, nella giornata di normale vitalità civile lungo il corso, i chiari segnali dell’occupazione. Il palazzo Marin pare essere in buona parte destinato a sede del comando distrettuale austroungarico: al piano terra l’insegna “Feldbuchhandlung”, che in piccolo riporta anche il riferimento alla ormai soppressa 14ª Armata germanica, identifica i locali di una presunta libreria da campo. Sul balcone al primo piano si identificano chiaramente due militari austroungarici e la sagoma della bandiera evidentemente esposta ad identificare la sede dell’occupante. 160 Piazza Garibaldi e Corso Roma in un’immagine del 17 aprile 1918 (Foto Kriegspressequartier – Österreichische Nationalbibliothek – Bildarchiv Austria) Una seconda immagine, pare ancora più interessante. Riprende la stazione ferroviaria, in una data che viene indicata “probabilmente” corrispondente al 21 giugno 1918. Un treno è fermo sui binari, nella ripresa in direzione nord non si intravvede la locomotiva e quindi dobbiamo presumere che il convoglio sia diretto verso Casarsa. Il vagone in primo piano ha i finestrini oscurati, sulla banchina verso la stazione si muovono ufficiali intenti a fumare, qualche soldato di sentinella e qualche civile. Il titolo tedesco della foto è “Der Hofzug in Spilimbergo”, cioè “Il treno di corte a Spilimbergo”: su quel treno viaggia il kaiser Carlo I, successore di Francesco Giuseppe. Ma che cosa ci fa a Spilimbergo? La data indicata come probabile ci porta a ricondurre la presenza alla visita dell’imperatore al fronte del Piave, in occasione di quello che fu l’ultima offensiva dell’esercito austroungarico, 161 Tauriano, 2 novembre 1918 La guerra volgeva al termine quando fra i paesi di Tauriano e Istrago si svolse uno degli ultimi atti della “inutile strage”, destinato a diventare pagina epica nella storia dell’Arma di Cavalleria. Per la carica del 2 novembre 1918 il reggimento Cavalleggeri di Saluzzo fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare e la data divenne ricorrenza della festa reggimentale. Il treno di corte di Carlo I a Spilimbergo nel mese di giugno 1918 (Foto Heinrich Schumann – Österreichische Nationalbibliothek – Bildarchiv Austria) passata alla storia come “Battaglia del solstizio”. Ebbe inizio il 15 giugno ma dopo un apparente iniziale successo Carlo I, la sera del 20 giugno dovette dare l’ordine di ripiegamento, La data indicata come presunta ci condurrebbe a pensare che la foto sia stata scattata sulla via del ritorno verso Vienna, dopo l’ordine di ripiegamento. Il senso di percorrenza del treno ci suggerisce invece che Carlo I si sta dirigendo verso il fronte e quindi l’immagine è più verosimilmente riconducibile a qualche giorno prima. Non lo sapremo mai con certezza assoluta: il fatto che il treno sosti fuori dalla linea ferrata principale ci autorizza a pensare che forse Carlo I da quel treno è sceso… 162 La carica viene commemorata ogni anno, fra il monumento di Istrago, la lapide al campanile di Tauriano e il cippo eretto nella campagna che fu teatro dello scontro. L’arrivo a Tauriano dei cavalleggeri, segnava anche per quella comunità la conclusione di un anno di sofferenze, un momento che forse non sarebbe entrato in modo così incisivo nella memoria collettiva se non fosse legato anche a quella fase cruenta che ancora lasciò sul campo giovani vite che forse già vedevano concretizzarsi la prospettiva di un rientro alle proprie famiglie dopo tre anni e mezzo di guerra. La carica di Tauriano, anche per il suo significato simbolico, è 163 stata in questi quasi cento anni oggetto di discorsi commemorativi e di studi che probabilmente tutto ci hanno rivelato di quanto accadde in quella rapida azione. Ma qualche aspetto nuovo emerge ancora oggi. L’antefatto: dal Piave al Cellina1 Il 24 ottobre 1918, ad un anno esatto dall’inizio dello sfondamento di Caporetto, ha inizio l’offensiva che in pochi giorni condurrà il Regio Esercito alla vittoria finale. Già il 29 ottobre vengono aperte trattative con l’Austria-Ungheria, il 31 ottobre la battaglia volge verso la piena affermazione delle armi italiane. A quel punto si tratta di inseguire un avversario che, pur battuto, si ritira opponendo ogni resistenza utile a proteggere il grosso dell’esercito imperiale in ripiegamento. L’avanzata oltre il Piave lungo la pianura è affidata alla 10ª Armata anglo-italiana del conte di Cavan e alla “invitta” 3ª Armata del duca d’Aosta. Alle due armate viene affiancato il corpo di cavalleria del conte di Torino. Il corpo di cavalleria ha il preciso compito, con la sua velocità di movimento, di precedere l’avanzata delle due armate occupando i ponti sul Tagliamento e quindi proseguire oltre il fiume fino a raggiungere le posizioni più avanzate per l’ora nella quale sarebbe entrato in vigore l’ar- 1 La sintetica ricostruzione della carica di Tauriano del 2 novembre 1918 fa riferimento ai seguenti contributi: – Borgstrom E., I cavalleggeri di Saluzzo a Tauriano e Istrago (2 novembre 1918), “Rivista di Cavalleria”, Vol.I n. 6, novembre-dicembre 1935. – Fiora A., Capitano Raffaele Libroia, “Rivista di Cavalleria”, Vol. III n. 4, luglioagosto 1939. – Enrici M., L’eroica carica dei Cavalleggeri di Saluzzo a Tauriano di Spilimbergo il 2 novembre 1918, “Rivista di Cavalleria”, n. 10, anno 1970. – Gasparini Casari E., “Quo fata vocant”: la carica dei Cavalleggeri di Saluzzo a Tauriano-Istrago (2 novembre 1918), “Rivista storica”, anno VIII, agosto 1995. 164 mistizio sottoscritto a Villa Giusti alle 15,20 del 3 novembre, con decorrenza dalla ore 15,00 del giorno successivo. Il corpo di cavalleria del conte di Torino è costituito da quattro divisioni, ciascuna comprende due brigate, ogni brigata comprende due reggimenti. Allo stretto organico di cavalleria si aggiungono bersaglieri ciclisti, artiglieria a cavallo (le cosiddette “voloire”, batterie a cavallo ciascuna comprendente 4 pezzi da 75/27), automitragliatrici e mitraglieri. Complessivamente il corpo è dotato di una forza di 1.130 ufficiali e 20.893 uomini tra sottufficiali e truppa. La 3ª divisione di cavalleria della Lombardia, al comando del tenente generale Carlo Guicciardi di Cervarolo, comprende la 5ª (reggimenti Saluzzo e Vicenza) e la 6ª brigata (reggimenti Savoia e Montebello) oltre al III gruppo di batterie a cavallo e reparti di bersaglieri ciclisti. Alla divisione viene assegnato come obiettivo il settore corrispondente al tratto di fiume compreso fra il ponte di Pinzano a nord e la passerella fra Bonzicco e Gradisca di Spilimbergo a sud. Nella giornata del 31 ottobre la divisione è impegnata a superare la resistenza austroungarica davanti a Polcenigo (con l’impiego dei reggimenti Vicenza e Montebello) e quindi a stanare casa per casa i tiratori rimasti a disturbare l’avanzata. Superata la resistenza e riattivato il passaggio sulla Livenza l’avanzata riprende il giorno successivo, lungo la direttrice Roveredo-San Quirino-San Foca-Vivaro-Tauriano-Spilimbergo, avendo cura di rimanere ai margini dei centri abitati, ancora tenuti dagli austroungarici, percorrendo campagne segnate dalla desolazione di un anno di occupazione e dal passaggio degli eserciti avversari. Ma all’altezza di San Quirino-San Foca-Sedrano la divisione si trova davanti la forte resistenza delle retroguardie della 41ª divisione Honved e della 12ª divisione di cavalleria austroungarica. Il tentativo di sfondare la linea con l’attacco della squadriglia di autoblindate Lancia 1Z non ha successo, tutte le sei macchine vengono colpite e immobilizzate dal tiro dell’artiglieria austroungarica. Nella preparazione di un nuovo attacco (forse la carica del giorno dopo sarebbe stata anticipata…) sopraggiungono le tenebre e, mentre gli avversari hanno abbandonato il campo, la 165 divisione deve pernottare rinviando al mattino successivo l’attraversamento dei greti del Cellina e del Meduna che, specialmente in ore notturne, si prestano ad insidiose imboscate. Alle 6 di sabato 2 novembre, giorno dei morti, la divisione riprende l’avanzata su tre direttrici principali: - il reggimento di Saluzzo punta su Tauriano-Istrago-Vacile; - il reggimento di Montebello punta su Barbeano-Provesano scontrandosi con il nemico che respinge fino alla testa di ponte di Gradisca; - il resto della divisione con il comando punta direttamente su Spilimbergo, dove viene accolto da violento tiro di artiglieria. La battaglia Il reggimento guada senza disturbo il Cellina e poi il Meduna, del nemico nessuna traccia. A mezzogiorno il reggimento è a Tauriano e in un cortile il comandante, colonnello Enrico Sarlo, tiene un rapporto ufficiali nel quale annuncia che il comando di divisione ha comunicato la presenza di ingenti forze nemiche a Pinzano, località verso la quale il Saluzzo deve mettersi immediatamente in movimento. Il 1° squadrone in avanguardia, a seguire gli altri quattro, due reparti di ciclisti, una compagnia mitraglieri e una sezione della 6ª batteria a cavallo. Uscite dal paese, le avanguardie vengono quasi subito sorprese dal fuoco di fucileria e mitragliatrici proveniente dalla sinistra della strada. Più avanti il fuoco di artiglieria, a tiro radente, proviene anche dalla destra della strada. Di che truppe si trattasse ancora oggi non si sa con precisione: truppe ungheresi della 41ª divisione Honved o austroungarici della 12ª divisione di cavalleria appiedata? Sono schierate nei pressi dell’hangar realizzato dagli italiani fin dal 1916 come ricovero del dirigibile M9. Gli austroungarici, forse due compagnie, sono armati di mitragliatrici e cannoni da 105. Il reggimento si ferma: la sezione di artiglieria, i mitraglieri e i mitraglieri ciclisti, con il supporto del 2° squadrone, si mettono 166 in posizione e iniziano il fuoco. I quattro squadroni montati (1°, 3°, 4° e 5°) iniziano a muovere verso lo schieramento nemico, coperti dal fuoco delle “voloire” e delle mitragliatrici. Il primo squadrone a scattare alla carica è il 3°, al comando del capitano Raffaele Libroja da Nocera Inferiore: il “Savoia!” lanciato dalle decine di cavalleggeri, la tromba che ripete le note della carica, lo squadrone parte all’attacco. Poi parte alla carica il 5° squadrone Il capitano Raffaele Libroja, caduto del capitano conte Serenelli che nella carica di Tauriano punta sulla sinistra dello schieramento nemico, il resto del reggimento (1° e 4° squadrone) con il comando e lo stendardo tenta una manovra avvolgente. Gli austriaci contrattaccano, ad un certo punto sorprendono la sezione di artiglieria a cavallo su un fianco, ma la pronta reazione dei 18 serventi, condotti dal trombettiere Nadalin, riesce a respingere la minaccia. Durante la carica il capitano Libroja, alla testa del suo 3° squadrone, è fra i primi ad essere colpito ma rimane in sella e continua il galoppo tenendosi alla criniera del suo cavallo giungendo fin sui cannoni austriaci dove stramazza al suolo. Ormai morente, il povero Libroja viene finito a colpi di pistola da un capitano austriaco che non fa in tempo a compiacersi del suo gesto vigliacco poiché il capitano Serenetti, giunto sul posto alla testa del 5° squadrone, lo uccide a sciabolate. Lo stesso capitano Serenetti però, nell’atto di vendicare il Libroja, viene ferito gravemente da una fucilata. L’urto del 3° e quindi del 5° squadrone è violento, gli austriaci retrocedono, cedono le armi, fuggono: il resto del reggimento giunge alle spalle e conclude l’operazione con il completo successo del Saluzzo. Tutto si è svolto in non più di mezz’ora. La consistenza del reparto nemico è rivelata da quanto riportato nel Bollettino di Guerra n. 1266 del successivo 3 novembre, 167 che fa riferimento all’azione del Saluzzo indicando che “rimasero nelle mani dei cavalleggeri una batteria da campagna, sei mitragliatrici e 300 prigionieri, in gran parte feriti.” Altra fonte indica in 200 il numero dei prigionieri, la batteria catturata è composta da due pezzi da 105. Il bilancio delle perdite, in rapporto alla violenza del fuoco austriaco, appare contenuto (pur essendo questo termine improponibile in rapporto alla perdita di giovani vite): 1 ufficiale caduto sul campo (il capitano Libroja), 4 cavalleggeri caduti sul campo, 20 feriti, 21 cavalli uccisi e 24 feriti. Documenti di epoca successiva fanno salire il numero dei caduti a 9, probabilmente per successivi decessi di feriti. Questo l’elenco dei cavalleggeri caduti sul campo il 2 novembre 1918, riportati dall’Albo d’oro dei militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918: – Libroja Raffaele di Luigi, capitano in servizio attivo, nato il 16 dicembre 1889 a Napoli, morto il 2 novembre 1918 sul Tagliamento per ferite riportate in combattimento. Il capitano Libroja fu decorato di Medaglia d’Oro con questa motivazione: “All’ordine di attaccare una batteria nemica che improvvisamente aveva aperto il fuoco su di un fianco del proprio reggimento in marcia, con slancio e coraggio mirabili, alla testa dello squadrone di cui aveva il comando, si avventava impetuosamente contro i pezzi avversari in azione. Fatto segno a violento tiro e gravemente colpito ad ambo le gambe, con perseverante, indomabile audacia, incurante dello strazio prodottogli dalle doloranti ferite, riunite in uno sforzo supremo tutte le sue energie e incitato, col suo fulgido esempio, il proprio reparto, perseverava con esso nell’arditissima carica, trascinandolo sui pezzi tuttora fumanti, e, nell’attimo in cui li conquistava, colpito a morte lasciava gloriosamente la vita sul campo.” – Ferrari Francesco di Ernesto, decorato di Medaglia d’Argento, sergente reggimento Cavalleggeri di Saluzzo (12°) nato il 17 agosto 1895 a Somaglia (LO), morto il 2 novembre 1918 sul Piave per ferite riportate in combattimento; – Bianchini Eugenio di Giuseppe, caporale reggimento Caval- 168 leggeri di Saluzzo (12°), nato il 14 giugno 1897 a Lari (LI), morto il 2 novembre sul campo per ferite riportate in combattimento; – Brianzoni Enrico di Agostino, decorato di Medaglia di Bronzo, caporale reggimento Cavalleggeri di Saluzzo (12°), nato il 23 marzo 1897 a Sesto Calende (VA), morto il 2 novembre 1918 sul Piave per ferite riportate in combattimento; – Lomazzi Andrea di Vittorio, decorato di Medaglia d’Argento, soldato reggimento Cavalleggeri di Saluzzo (12°), nato il 15 febbraio 1896 a Mezzegra (CO), morto il 2 novembre 1918 sul Piave per ferite riportate in combattimento. Altre giovani vite di ragazzi poco più che ventenni sacrificate in quella immane carneficina che fu la Grande Guerra, arrossarono con il loro sangue i prati fra Tauriano e Istrago, in un episodio certamente glorioso ma anche uno degli ultimi nei quali l’arma di cavalleria affrontò, con i metodi di combattimento di un passato epico, le tecniche e i mezzi della guerra industriale. Uomini e cavalli lanciati alla carica contro il fuoco di cannoni e mitragliatrici, scene destinate a scomparire ma che troveranno la loro ultima rappresentazione nella carica dell’agosto 1942 nella pianura russa. Da Tauriano, il reggimento prosegue in direzione di Vacile e Lestans. All’ingresso di quest’ultima località sostiene un ulteriore combattimento catturando altri 30 prigionieri e 3 mitragliatrici. Dopo aver pernottato a Lestans, nella giornata successiva il reggimento supera il Tagliamento a Gradisca-Bonzicco e, riunito alla divisione, prosegue verso Udine, Cividale e San Pietro al Natisone. 169 La memoria popolare a Tauriano Quel rapido combattimento sul finire della guerra destò sicuramente viva impressione negli abitanti di Tauriano, tale da tradursi in ricordi più e più volte raccontati. Ma anche questa parte di memoria è oggi scomparsa. Fortunatamente, la Società Operaia di Mutuo Soccorso e Istruzione di Tauriano, benemerita associazione attiva fin dal 1905, nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso ha curato la raccolta delle memorie degli anziani del paese realizzando una copiosa serie di interviste, tutte registrate. Quelle interviste costituiscono oggi una preziosa fonte e alcune riportano proprio passaggi riferiti ai fatti del 2 novembre 1918. Il primo dei racconti è quello di Regina Cristofoli (1902-1994), dal quale emerge l’inatteso incontro, nella campagna, con i primi cavalleggeri italiani, certamente avanguardie del reggimento che proveniva da oltre Meduna2: “Ricordo che la notte precedente il 2 novembre 1918 una grande quantità di soldati austriaci in ritirata dal fronte aveva pernottato rumorosamente in paese. Al mattino alle 6 loro sono partiti e io ne approfittai per portare acqua in un nostro campo fuori paese dove mio nonno aveva nascosto gli animali per sottrarli alle requisizioni, com’era avvenuto in diverse famiglie del paese nei giorni precedenti. Mio nonno, che aveva trascorso la notte nel campo, vide due militari, e credendoli nemici, cercò di nascondersi. I due cavalleggeri lo scoprirono e lo interrogarono per sapere se in paese ci fossero ancora gli austriaci. Rispose di non sapere niente perché era rimasto lì tutta la notte. Interrogarono anche me e dissi che erano partiti e non sapevo se ce ne fossero ancora. Lasciai lì i secchi e con loro ritornai in paese. Dalle prime case uscirono diversi compaesani. I militari ci raccomandarono di non fare rumore perché temevano imboscate. 2 Intervista di Gianluigi Cimatoribus, Silvano Contardo e Fabio Martina a Elisa Cristofoli del 28.07.1987. 170 Ritornata nel campo con mio nonno vidi un reggimento di cavalleggeri arrivati nel frattempo dalle campagne di Tauriano. C’era anche il capitano che poi fu ferito e curato in paese (si tratta evidentemente del capitano Serenetti, comandante del 5° squadrone, nda). Poi ho sentito una mitragliatrice sparare e immaginai cosa stava accadendo. Pensai che nel vicino hangar di Istrago potevano esserci gli austriaci, ma invece si trovavano nascosti fra il mais di un campo di mio zio. Non so quanti fossero, so che ne sono morti diversi anche fra loro. Sono scappata in paese e non ho assistito alla battaglia. Quando i feriti furono portati in paese tutti attendevamo di vedere se fra i militari ci fosse qualche compaesano. Il primo fu il “Moru Moka” (si tratterebbe di Martina Francesco, classe 1880, nda) che potè solo salutarci e ripartire con il resto del reparto. Terminata la battaglia si venne a sapere che un austriaco avendo perso una mano in battaglia continuava a sparare con l’altra. I prigionieri e tutto il materiale austriaco recuperato furono portati in Tagliamento dove c’era un campo di reclusione. I feriti italiani furono portati in paese nel cortile della famiglia Indri, occupandolo tutto.” Elisa Indri (1913-2004) aveva a quell’epoca solo cinque anni, il suo ricordo di bambina era rimasto però indelebile nel vedere lo strazio dei feriti portati nella sua casa, e in particolare del capitano Serenetti, gravemente ferito, comandante del 5° squadrone, quello che si gettò sull’austriaco che sparava sul capitano Libroja morente3: “Avevo 5 anni e ricordo bene quei soldati feriti che perdevano sangue. Il capitano fu accolto in cucina e mia nonna lo assistette e curò come poteva. Dopo 4 anni il capitano ritornò a trovarci e dimostrò di riconoscere tutti noi e anche la casa. Non ricordo il 3 Intervista di Gianluigi Cimatoribus, Silvano Contardo e Fabio Martina a Elisa Indri del 28.07.1987. 171 suo nome, era accompagnato da Antonio Tracanelli, si presentò sorprendendoci tutti e fu una festa per tutti noi. Ci raccontò che quando, dopo le nostre cure, fu riportato verso casa, il camion che lo trasportava subì un’ incidente. Ci portò uno scialle da parte di sua madre in segno di riconoscenza per quanto avevamo fatto per lui. Ci disse che sarebbe ritornato, ma di lui non abbiamo saputo più niente. Gli italiani morti furono portati nel cimitero di Tauriano. Ricordo di averli visti allineati e perfettamente vestiti in uniforme, sembrava che dormissero. Erano dei bei giovani, avevano fatto solo quella battaglia, perché sul Carso non potevano andare con i cavalli. Sono stati sepolti dove ora c’è la tomba di Pitton. So che negli anni successivi, mentre ero all’estero, furono portati altrove (al Tempio Ossario di Udine nda). Gli austriaci invece furono sepolti tutti nel cimitero di Spilimbergo. Ricordo anche che dopo la battaglia, sulla strada che porta alla fornace, furono trovate delle carte personali di un soldato italiano. Non è vero che gli austriaci furono aggrediti dai paesani. So invece che l’austriaco irriducibile che continuava a sparare con una sola mano fu portato nella casa dei Colautti e lì giustiziato.” Francesco Passudetti (1908-1990) detto Balo, porta invece i ricordi di un gruppo di ragazzi che, evidentemente spinti dalla curiosità maschile per le armi e la guerra, si spingono fin sul campo di battaglia4: “Mi ricordo bene tutto. Già la sera precedente il paese era invaso da una grande quantità di soldati austriaci in ritirata. Alla sera sopra il paese passarono alcuni aerei italiani che mitragliavano il ponte sul Tagliamento dove si stavano ritirando gli austriaci. Nel pomeriggio del 2 abbiamo sentito sparare una mitragliatrice e anche 2 colpi di cannone. Un proiettile di fucile colpì il portone davanti alle attuali scuole. Siamo andati su verso la strada di Arba, 4 Intervista di Gianluigi Cimatoribus, Silvano Contardo e Fabio Martina a Francesco Passudetti del 26.08.1987. 172 eravamo 4 o 5 ragazzi. Abbiamo visto una trincea in un fosso dove c’era la mitragliatrice. Abbiamo visto alcuni cavalli colpiti, che respiravano attraverso le ferite fra le costole. In un fosso furono sepolti i soldati austriaci, che poi furono spostati altrove. I 2 cannoni furono ricoverati vicini al campanile, i soldati austriaci feriti furono portati in giro per il paese mostrando le loro ferite. Al mattino successivo siamo stati sul posto della battaglia recuperando coperte, scarpe e altri oggetti. Gli austriaci potevano essere 200 o anche di più. Credo provenissero da Arba. La battaglia avvenne proprio lì dove c’è il cippo, dove gli austriaci avevano collocato un osservatorio. I feriti italiani furono portati prima da Colautti, e poi Libroja e altri furono curati in paese. Gli italiani erano uno squadrone con due capitani. Due feriti austriaci rimasti sul campo di battaglia morirono durante la notte. Con Don Carlo e la croce rossa in seguito indicammo il posto dove erano stati sepolti.” In posa sul campo di battaglia Ma oltre a queste interessanti testimonianze, per la carica del 2 novembre 1918 disponiamo anche di eccezionali documenti che possono dare un po’ di soddisfazione alla nostra curiosità visiva permettendoci quasi di tornare sul campo di battaglia nei momenti immediatamente successivi alla carica. Si tratta di quattro istantanee conservate presso l’archivio cinefotografico del Museo storico dell’Arma di Cavalleria di Pinerolo. Grazie alla cortese disponibilità del suo direttore, ten. col. Paolo Caratori siamo in grado di proporvele. Il pannello che le riunisce riporta la didascalia generale “2 novembre 1918 ore 8,30: lo stendardo dei “Cavalleggeri di Saluzzo” sul campo di Tauriano subito dopo la Carica”. In effetti il soggetto che compare in tutte e quattro le istantanee è proprio lo stendardo, lacerato dai colpi austriaci durante la carica e decorato di Medaglia d’Argento. Le immagini che seguono non sono di buona qualità, sono poco nitide e piuttosto scure, ma consentono di gettare uno 173 Tauriano, 2 novembre 1918: Cavalleggeri di Saluzzo in posa dopo la carica (Archivio cinefotografico Museo storico dell’Arma di Cavalleria Pinerolo) sguardo sui luoghi teatro della carica e sugli uomini che ne furono i protagonisti. Nella prima immagine il portabandiera con lo stendardo nel bel mezzo del magredo sul quale si era appena svolta la carica. La seconda immagine, raffigura in primo piano ancora il portabandiera con lo stendardo e un ufficiale, probabilmente il comandante del reggimento. Dietro a loro, distesi o seduti a terra si distinguono i prigionieri austriaci sorvegliati da altri cavalleggeri. La terza e la quarta, forse le meno leggibili, sono foto di gruppo di cavalleggeri che posano con le armi catturate agli austriaci. In quella più grande, in particolare, si distingue un militare che, noncurante della posa, sta esaminando una mitragliatrice. 174 Tauriano, 2 novembre 1918: Cavalleggeri di Saluzzo in posa dopo la carica (Archivio cinefotografico Museo storico dell’Arma di Cavalleria Pinerolo) 175 San Giorgio della Richinvelda Il negozio “Ditta Pietro Urdich” (attuale via Richinvelda) in una foto precedente al 1915 (Archivio G. Cescutti) Al censimento del 1911 San Giorgio della Richinvelda conta 4.932 abitanti. Vive il periodo della Grande Guerra come uno dei tanti paesi di retrovia del fronte fino all’ottobre del 1917, quando la bufera di Caporetto si presenta sulla sponda sinistra del Tagliamento. Le artiglierie imperiali prendono di mira la via ferrata, raggiungendo con i tiri anche le zone interne del paese. Vengono colpiti la stazione di San Giorgio della Richinvelda e un convoglio in lentissimo transito verso Casarsa, in quello che è l’unico episodio riportato da Giuseppe Del Bianco1 con riferimento a S.Giorgio, riferitogli da una profuga di Pontebba che si trovava su quel treno. Se Del Bianco non raccolse altre testimonianze, la lacuna è stata recentemente colmata da una interessante pubblicazione2 che riscopre le vicende sangiorgesi del periodo, dedicandosi in particolare al recupero della memoria locale e di quella dei militari che parteciparono alla guerra. Anche a San Giorgio, molti fuggirono oltre il Piave, dispersi in ogni angolo del Regno dal Piemonte alla Toscana, dalla Campania alla Sicilia. Tante fra queste storie rimarranno per sempre sconosciute, ma talvolta qualche storia emerge in modo inatteso. 1 G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, Vol. 4°, 2ª ed., Del Bianco Editore, Vago di Lavagno (VR), 2001, p. 273. 2 Si tratta di: G. Moro - M. Roman, La Grande Guerra e il territorio di San Giorgio della Richinvelda, Lito Immagine, Rodeano Alto 2013. 176 177 Un profugo speciale Fra quei profughi c’era anche il cav. Luchino Luchini con la propria famiglia. Il nome non ha bisogno di presentazioni per chi conosce un po’ la storia del paese e di qualche Istituzione, in particolare cooperativa, che ancora vi opera. Anche la profuganza del cav. Luchini è fatto piuttosto noto. Poche però sono le notizie su quel periodo. Qualcosa è in grado invece di rivelarci un documento apparentemente di poco valore. Si tratta di un quaderno ad uso carta da lettere, nel quale si alternavano fogli staccabili, destinati poi alla spedizione, a fogli fissi, sui quali rimaneva la copia della missiva ottenuta frapponendo un foglio di carta carbone. Il quaderno3 rinvenuto contiene una parte delle copie delle lettere spedite dal cav.Luchini nei giorni dell’esilio. La prima, illeggibile, è datata Fiesole 18.11.1917, l’ultima è datata Firenze 13 settembre 1918. Ma prima di arrivare a quei giorni, un rapido profilo del cav. Luchino Luchini è forse necessario. Nasce a San Giorgio della Richinvelda il 30 aprile 1871, figlio di Antonio, maestro elementare, e di Ballico Teresa. Si diploma nel 1888 alla Regia Scuola Pratica di Agricoltura di Pozzuolo del Friuli e quindi si dedica all’azienda agricola di famiglia. Ha tre sorelle, Maria, Olimpia e Antonietta. Oltre a gestire l’attività di famiglia, per molti anni sarà titolare dell’ufficio postale di San Giorgio. A queste attività “private”, Luchino Luchini affiancò durante tutta la sua vita ogni impegno e dedizione personale diretti alla promozione di Istituzioni dirette al miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti e allo sviluppo tecnologico e organizzativo dell’agricoltura. Fu convinto discepolo del movimento cooperativo, agricoltore per passione, valente tecnico agrario, instancabile promotore e amministratore delle numerose Istituzioni che contribuì a creare. 3 Archivio Storico Friulovest Banca. 178 Nel 1891 fu fondatore della Cassa Rurale di Prestiti in San Giorgio della Richinvelda, della quale sarà amministratore dalla costituzione fino alla prematura morte. Promotore del Forno Sociale Cooperativo nel 1897, fondatore del Patronato Scolastico nel 1898, della Casa di riposo per vecchi derelitti nel 1903, della Scuola Cestari nel 1905, della Scuola di disegno applicata alle arti e mestieri nel 1911, nel 1913 della Scuola di Economia domestica. Alla partenza degli uomini validi per la guerLuchino Luchini ra e per favorire le donne nelle quotidiane attività agricole promuove l’istituzione di un ricreatorio destinato ad accogliere i bimbi dai tre ai sei anni. Quel ricreatorio funzionerà per tutta la durata del conflitto e riprenderà l’attività nel dopoguerra fino a quando, nel 1925, sarà eretto in Asilo Infantile. Nell’immediato dopoguerra fu promotore della Cooperativa di Consumo di San Giorgio della Richinvelda. In campo agrario fu presidente del Comizio Agrario di Spilimbergo e della sezione di Maniago-Spilimbergo della Cattedra Ambulante Provinciale di agricoltura. Nel 1917 fu fra i fondatori dell’Essiccatoio Bozzoli Cooperativo Intermandamentale di Spilimbergo, importante Istituzione per lo sviluppo tecnico dell’industria serica. Fu per lunghi anni amministratore comunale di San Giorgio della Richinvelda e consigliere provinciale. 179 La casa natale di Luchino Luchini, le due porte pedonali alla destra del grande portale corrispondono all’Ufficio Postale e alla prima sede della Cassa Rurale di Prestiti (Foto Archivio Storico Luchino Luchini). Grazie al contatto reso possibile dall’amico Francesco Orlando e alla gentile disponibilità del dott. Mario Mizzau, pronipote del cav. Luchini in quanto discendente della sorella Antonietta, ci è stato possibile visitare la casa natale che si affaccia proprio sulla via che il Comune ha voluto intitolare all’illustre concittadino. La facciata è praticamente identica a come si presentava un secolo fa, come testimonia la foto su lastra realizzata dallo stesso Luchini (era anche appassionato di fotografia, oltre ai frutti dei suoi alberi lo attiravano anche tutti quelli del progresso tecnologico): da sinistra le finestrelle della stalla, il grande portale in pietra e, quindi, due entrate pedonali. La prima, quella che oggi riporta la scritta in mosaico Patronato Scolastico, nella foto è sovrastata dall’insegna Regie Poste, è l’ufficio postale di cui il cav. Luchini era titolare. 180 La porta a fianco, come rivelano le scritte su almeno due delle insegne, è quella della prima sede della Cassa Rurale di Prestiti di San Giorgio della Richinvelda. Entrati nel grande cortile, sulla sinistra la bassa struttura adibita a limonaia e lisciaia, di fronte a noi l’abitazione. All’interno tutto pare essere rimasto fermo a più di cento anni fa: sulla destra dell’ingresso lo studio del cav. Luchini con la scrivania e la libreria dove forse qualche libro si trova nella stessa posizione in cui lui l’aveva riposto. Il salottino, il fogolâr, le camere al piano di sopra, tutto pare rimasto come allora. Una casa che riflette condizioni di vita agiate per l’epoca ma allo stesso tempo un forte legame alla tradizione. Uscendo sul retro si apre davanti a noi la braida, recintata da alti muri, sulla sinistra le tettoie dei pollai, in un contesto anche qui rimasto immutato, dove pare che il cav. Luchini possa riapparire da un momento all’altro, fra gli amati alberi da frutta. Da questa casa, Luchino Luchini partì con la famiglia. La decisione della partenza deve essere stata piuttosto discussa, tanto è vero che in una delle lettere, inviata da Fiesole il 14 febbraio 1918 all’amico “Nardin” (il Sindaco di San Giorgio Leonardo Luchini) scrive: “Non avendo le mie donne potuto persuadersi a partire quando il momento si presentava opportuno, poi, sotto il rombo del cannone e lo scoppiare delle bombe si finì col pregiudicare ogni cosa. E quello che è precisamente più grave col non poter trasportare la contabilità. All’ultimo momento misi i registri della Cassa Rurale e tutto il rimanente – anche quelli delle mie aziende – in una cassa sottoterra nella tettoia in fondo al cortile delle galline. Se l’Olimpia si trova tuttora a S. Giorgio come spero, vi è ancora una speranza di recupero, diversamente perderemo ogni cosa.” 181 A Fiesole e a Firenze Dopo quella che lui stesso definisce una “Via Crucis”, si stabilisce con la famiglia a Fiesole, in via Giuseppe Verdi 23. Nei primi giorni è preoccupato per la salute della madre ma ancor più per la sorte della sorella Olimpia, che non ha lasciato il paese, e della quale nulla si sa. La preoccupazione traspare in una lettera di risposta, da Fiesole, il 23 novembre 1917, al dott. D’Andrea (è il dott. Luigi D’Andrea, medico di San Giorgio), che si rivolge a Luchini per effettuare un prelievo dai suoi depositi: “Anche noi abbiamo sofferto che non le dico. Mamma per giunta ebbe giorni di assai poco bene. Ora però accenna a rimettersi, e ho la speranza che ritorni nelle pristine condizioni di salute. Dell’Olimpia, che non volle abbandonare S. Giorgio, nulla sappiamo. Abbiamo fatto pratiche e pratiche e sempre con risultato negativo.” Ma oltre a riportare le noie di famiglia, già a quella data è in grado di rispondere al dott. D’Andrea che per effettuare il prelievo è necessario produrre il libretto che può essere inviato anche tramite raccomandata: alla data del 23 novembre quindi, la Banca era già in grado di operare dalla nuova sede in Firenze. Il 21 novembre da Firenze scrive alla Banca Nazionale delle Casse Rurali Italiane di Roma con una lettera che conferma la presenza e operatività della Banca di San Giorgio, seppure per i soli prelievi: “Il sottoscritto è il Direttore-Segretario della Cassa Rurale di Prestiti di S. Giorgio della Richinvelda (Udine). Partito precipitosamente da casa per porre in salvo la famiglia mentre le bombe cadevano in paese, giunsi con la famiglia dopo una Via Crucis che non si descrive. Mia sorella è dispersa. I registri della Cassa Rurale sono tutti rimasti a S. Giorgio e li spero al sicuro. I titoli li depositai in cassetta di sicurezza presso un Istituto qui in Firenze. Avverto che la nostra Cassa Rurale ha eletto domicilio provvisorio presso il Comizio Agrario di Firenze dove saranno dirette le corrispondenze. Prego poi voler tener presente che in ottem- 182 peranza al Decreto 15 corr.te anche il nostro piccolo Istituto di credito deve prepararsi a far fronte alle cambiali e aversi immancabili domande di rimborso, quindi con ogni probabilità dovrò in seguito pregare codesta Banca di rimborsarci l’importo inscritto sul libretto di deposito n. 5 per poi ridepositarlo presso una Banca di qui a disposizione dei nostri soci creditori. (…) Malgrado il successo, malgrado noi dall’agiatezza siasi caduti con la famiglia nell’indigenza non dispero dell’avvenire: la Patria avrà la sua riscossa, noi nel dolore ci faremo migliori.” In quei mesi la Banca, anche derogando al possesso del libretto di deposito, è operativa in terra toscana sostenendo i propri depositanti, profughi, che da tante parti d’Italia chiedono di poter attingere ai propri risparmi. E molte delle lettere di quel registro sono proprio riferite ad invii di valori a depositanti dell’Istituto dispersi sul territorio del Regno. Si occupa pure della gestione del servizio di acquisti, anche per il Comizio Agrario di Spilimbergo: solfato di rame, zolfo, perfosfato, i problemi da risolvere con i contratti già firmati per la camTimbro della Cassa Rurale di S.Giorgio riportante pagna agraria 1918, il domicilio provvisorio in Firenze l’organizzazione delle commesse per la ripresa delle attività agricole al ritorno a San Giorgio. Il desiderio del ritorno in paese e il suo senso di alta italianità traspaiono in una lettera del 24 novembre, nella quale chiede: “Ma però è proprio il caso di escludere la possibilità di essere noi di nuovo in primavera nel nostro Friuli?” E continua poi: “Caro Pascatti, la disgrazia che ha colpito la Nazione mi ha anche rovinato economicamente, però né impreco, né mi perdo di coraggio. Mi sento sempre Italiano e lo sarò fino all’ultimo respiro.” 183 Rovinato economicamente ma fedele ai suoi principi Proprio così, il cav. Luchini si definisce “rovinato economicamente ” e di trovarsi “con la famiglia nell’indigenza”, affermazione che noi fatichiamo a capire rispetto alla posizione sociale e professionale del nostro profugo. La possiamo comprendere ricordando che Luchino Luchini, nelle Istituzioni che aveva contribuito a creare e per le quali continuava a prodigarsi in modo instancabile, rinunciava normalmente a percepire ogni compenso ricavando il proprio reddito dalle attività dell’azienda di famiglia. Dalla corrispondenza toscana veniamo a conoscenza di una vicenda dalla quale emerge l’alta levatura morale del cav. Luchini. È quella legata all’Essiccatoio Bozzoli di Spilimbergo, la cui costituzione era stata propiziata proprio da Luchini all’inizio del 1917, con nomina a presidente di Vincenzo Lanfrit. Pochi giorni prima dell’invasione, Luchini si era recato proprio con il presidente Lanfrit a riscuotere a Maniago, alla filanda Cadel, il saldo della “galletta”: oltre 17 mila Lire, una cifra ragguardevole, che viene lasciata in consegna al presidente per il versamento presso la Banca di Spilimbergo. Dopo la fuga da San Giorgio, per una serie di motivi legati alla mancata annotazione del versamento sul libretto, mancando i registri contabili e ottenendo dagli interessati (e in primo luogo dal Lanfrit) solo generiche conferme dell’avvenuto deposito, Luchini non si dà pace. Ancora alla ricerca di una risposta, riceve da Vincenzo Lanfrit la somma di Lire 1.000 che gli viene inviata a titolo di quota sulle Lire 2.000 assegnate dal consiglio dell’ Essiccatoio al presidente. Luchini risponde il 15 gennaio da Firenze: ed è di tua particolare spettanza. Però nelle strettezze presenti, come prova della tua amicizia ho accettato L. 500 (cinquecento) e prendo occasione per nuovamente ringraziarti. Le altre L. 500 te le accludo nella presente in vaglia del Banco di Napoli in data odierna N. 51.” Solo le straordinarie condizioni nelle quali è venuto a trovarsi, inducono Luchini ad accettare una parte della somma, dall’amico e non dall’Essiccatoio. Il fatto di averle accettate però gli pesa comunque, soprattutto con la questione del versamento ancora in sospeso. Nella lettera del 14 febbraio 1918 confida all’amico “Nardin” quanto gli pesi l’avere accettato quelle 500 Lire: “Sono malcontento anche per avere accettato le 500 Lire. Vero che non cosa che mi rimorda, ma nella mia vita ho tanto lavorato senza compensi pecuniari che tanto valeva farlo anche nei confronti dell’Essiccatoio. E veramente io l’avevo fatto e non ci pensavo certo quando Vincenzo mi inviò l’assegno. Io lo presi come un atto d’amicizia che riguardava le nostre attuali condizioni economiche che non sono certo quelle di San Giorgio e stando a S. Giorgio non avrei certo accettato.” Proprio uomo d’altri tempi il nostro Luchino Luchini: si prodigava per le “sue” istituzioni senza chiedere alcun compenso e anche un piccolo regalo accettato in condizioni di bisogno lo gettava in una condizione di “malcontento”. “Carissimo Vincenzo, delle L. 2.000 (Duemila) assegnateti dal Consiglio dell’Essiccatoio ne inviasti 1.000 (mille) cioè metà a me. E però, come ti dissi a voce, in altro tempo, se fossimo stati ancora nella tranquillità e condizioni finanziarie dei nostri paesi, nulla avrei accettato poiché quanto ti venne assegnato era 184 185 Per i profughi e i mutilati Nei mesi dell’esilio, Luchino Luchini si fa anche carico di coordinare i numerosi profughi veneti presenti a Fiesole, costituendo una Commissione Profughi della quale viene nominato presidente. Per il comitato organizza una azione nei confronti dei deputati dei collegi di provenienza dei profughi, al fine di ottenere adeguato sostegno statale. Presso l’Ospedale di Riserva n. 2, “concentramento Villa Bondi” in San Domenico di Fiesole, Luchino Luchini trova quella occupazione che gli consente, come scrive all’amico Valentino Tesan (profugo a Monastero S. Margherita in provincia di Napoli), di “sbarcare il lunario”. Nell’ospedale sono ricoverati un centinaio di mutilati, prossimi alla guarigione chirurgica, da riabilitare ad una nuova vita professionale. Al nostro sangiorgese viene affidata una classe di 20-25 contadini mutilati ai quali impartire lezioni di agraria teoriche ma anche pratiche. Le nozioni di agraria vengono ad esempio impartite su un programma di otto lezioni, una delle quali, la quarta, specificamente dedicata alla “Propagazione delle piante per innesto”. E poi le lezioni pratiche, nei giardini di villa Bondi, con l’insegnamento dell’utilizzo di nuovi strumenti speciali per il recupero delle capacità lavorative dei mutilati, in particolare di quelli che avevano perso gli arti. Insegnamento che certamente il cav. Luchini avrebbe voluto svolgere a titolo gratuito, per passione verso l’agricoltura e innati senso civico e solidarietà verso quegli sfortunati contadini ai quali era necessario costruire una nuova prospettiva di vita. Prospettiva che certamente, nel suo pensiero, era legata anche ad un affrancamento culturale di quei giovani, provenienti da tutta Italia, secondo gli stessi principi da lui praticati nello spilimberghese. Avrebbe probabilmente voluto offrire a quei ragazzi anche dei testi di studio attraverso i quali potessero approfondire quanto insegnato nelle sue lezioni, ma i tempi in generale e quelli in particolare non lo consentivano. Cerca in qualche modo di supplire, rivolgendosi alla Federazione dei Consorzi Agrari di Piacenza per ottenere qualche 186 supporto didattico per i suoi speciali studenti. Il ringraziamento spedito in data 14 febbraio 1918 ci fa presumere che la richiesta sia andata a buon fine: “Vi sono assai grato per quanto mi comunicate colla vostra pregiata del sei corrente. Le copie dell’‘Agenda Agricola’ sarebbero destinate ai poveri militari ai quali vado impartendo qualche modesta nozione di agraria. Voi, coll’invio farete opera buona verso nostri confratelli tanto duramente colpiti e nel contempo atto assai gentile verso lo scrivente. Gradite rinnovati ringraziamenti e rispetti distinti. Luchino Luchini.” A guerra finita ritorna a San Giorgio, dove ancora dedicherà il poco tempo che gli rimane al bene della Comunità. Luchino Luchini muore a Udine il 17 marzo 1924, a nemmeno 53 anni di età. Attraverso la sua figura abbiamo voluto ricordare anche chi, nei giorni bui della guerra continuò a lavorare per il progresso delle Istituzioni Civili e per un futuro di pace. 187 Indice Saluti.........................................................................p.5 Tramonti di Sopra.................................................... »9 Tramonti di Sotto..................................................... »41 Meduno.................................................................... »69 Travesio.................................................................... »85 Castelnovo del Friuli............................................... »99 Clauzetto.................................................................. »109 Vito d’Asio............................................................... »125 Sequals..................................................................... »135 Pinzano al Tagliamento........................................... »147 Spilimbergo.............................................................. »159 San Giorgio della Richinvelda................................. »177 189 Collana pubblicazioni edite dall’Università della Terza Età dello Spilimberghese 1 Università della Terza Età dello Spilimberghese (1988-1998), a cura di Gianni Colledani, 1998 2 Il Giubileo e il Friuli, di Angelo Covazzi, a cura di Gianni Colledani, 2000 3 Fôr pal mont, di Gianfranco Ellero, a cura di Armando Miorini e Gianni Colledani, 2002 4 Acque del Friuli Venezia Giulia, di Tito Pasqualis, a cura di Gianni Colledani, 2003 5 Friuli terra di lupi. Natura, storia e cultura, di Pier Carlo Begotti, a cura di Gianni Colledani, 2006 6 Dare e ricambiare nel Friuli di età moderna, di Gian Paolo Gri, a cura di Gianni Colledani, 2007 7 La Patria del Friuli. Un lungo percorso identitario, di Gianfranco Ellero, 2008 8 Friulovest. Storia del Friuli occidentale tra Tagliamento e Livenza, di Gianfranco Ellero, a cura di Gianni Colledani, 2012 9 In hoc signo vinces (313-2013) Martiri, santi, eremiti, monaci, pastori e fedeli in Friuli, di Pier Carlo Begotti, a cura di Gianni Colledani, 2013 191 Grande Guerra nello Spilimberghese La Un paese, una storia La Grande Giuliano Cescutti (1967): Sindaco di Clauzetto dal 2002 al 2012, risiede a Spilimbergo. Da anni svolge per passione attività di ricerca storica sul periodo della Grande Guerra nel contesto delle Prealpi Carniche e della pedemontana maniaghese e spilimberghese. È autore delle seguenti principali pubblicazioni in argomento: Val da Ros 1917: la battaglia di Pradis (1999), Generali senza manovra. La battaglia di Pradis di Clauzetto nel racconto degli ufficiali combattenti con Paolo Gaspari (2007), L’anno dell’invasione a Maniago. Pagine di memoria (2008), Pagine della Grande Guerra a Maniago (2013). Guerra nello Spilimberghese Giuliano Cescutti In copertina: Nel tondo il maggiore Sisto Frajria Università della Terza Età dello Spilimberghese Spilimbergo, piazza Garibaldi e corso Roma in un’immagine del 17 aprile 1918 Il ponte di Pinzano nei giorni immediatamente successivi alla distruzione Tauriano, 2 novembre 1918 Cavalleggeri di Saluzzo dopo la carica Sul retro Il treno di corte di Carlo I a Spilimbergo nel mese di giugno 1918 Il cimitero di guerra di Pradis Lestans 1918, disegno di G. Del Fabbro Il tenente Claudio Calandra nel 1917 Giuliano Cescutti Travesio, gennaio 1918 5° Jäger Regiment Retrovia fin dal 1914, campo di battaglia nei giorni di Caporetto, terra invasa per un anno, ancora teatro di combattimenti nel 1918. In queste fasi il territorio spilimberghese vide passare la Grande Guerra. Nella ricorrenza del centenario, se saremo capaci di non lasciarci abbagliare dal valore effimero delle celebrazioni, scopriremo che esiste in ogni comunità e in ogni famiglia un patrimonio di memoria da raccogliere e valorizzare. Queste storie vogliono stimolare questa riscoperta: la memoria è come una pianta, se ben accudita riesce ad ogni stagione a rinnovare i propri frutti. Tra quei frutti ci sono tante storie personali, storie della nostra gente ma anche di tanti giovani provenienti da tutta Italia che qui hanno combattuto. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di quanti, sul territorio, ancora coltivano l’albero della memoria, e di tre ultracentenarie, ultime testimoni dei fatti. A loro, unitamente ad Istituzioni e persone che, dal Piemonte alla Sicilia, hanno collaborato a questo percorso, va un sincero ringraziamento. L’autore Pubblicazione realizzata con il sostegno di