INDICE
PREFAZIONE ..............................................................................................pag. 3
L’AGROBIODIVERSITÀ E LA SUA EROSIONE GENETICA ....................
,, 4
LA SOPRAVVIVENZA ON-FARM DELLE CULTIVAR LOCALI ED
I MARCHI DI TUTELA .................................................................................
,, 5
ORIGINE, DOMESTICAZIONE E DIFFUSIONE DELLA LENTICCHIA .....
,, 7
AGROTECNICA ADATTA ALLA COLTIVAZIONE DELLA LENTICCHIA
IN SICILIA .................................................................................................... ,, 10
GLI AGROECOTIPI SICILIANI DI LENTICCHIA ........................................ ,, 14
LA LENTICCHIA A VILLALBA NOTE STORICHE SULLA
COLTIVAZIONE .......................................................................................... ,, 15
ASPETTI MORFOLOGICI E NUTRIZIONALI .............................................. ,, 16
ANALISI DELLA DIVERSITA' GENETICA ................................................. ,, 19
PROBLEMI NEMATOLOGICI DELLA COLTURA DELLA LENTICCHIA ... ,, 23
CONCLUSIONI ............................................................................................ ,, 28
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................ ,, 29
2
PREFAZIONE
L'agricoltura della regione Sicilia annovera tra i suoi prodotti tipici di più antica
tradizione la 'lenticchia di Villalba', considerata come una delle più importanti
lenticchie Italiane a seme grande. Va ai nostri agricoltori il merito di aver
continuato a coltivare questo importante prodotto della nostra tradizione
agricola ed alimentare salvandolo dall'estinzione come avvenuto per altre
lenticchie Italiane.
In questi ultimi anni l'amministrazione comunale si è fatta promotrice di
diverse iniziative tese al rilancio di questa coltura nel nostro territorio. L'aver
risvegliato nella comunità locale un vivo interesse per il recupero e la
trasmissione delle proprie tradizioni alle giovani generazioni e la presa di
coscienza dell'importante occasione di lavoro offerta al mondo agricolo rurale
sono i risultati tangibili di questi sforzi.
In questo contesto, la costituzione nel 2003 del Comitato scientifico per la
valorizzazione
della
'lenticchia
di
Villalba',
fortemente
voluto
dall'Amministrazione comunale, ha rappresentato un importante tassello.
Infatti, l'aggregazione di esperti con competenze in campi diversi è funzionale
alla tutela, promozione e valorizzazione della nostra lenticchia.
La pubblicazione di questo opuscolo vuole essere un ulteriore contributo a
questa politica avendo come scopo principale la presentazione alla comunità
locale dei risultati degli studi condotti sulla 'lenticchia di Villaba' in questi ultimi
due anni.
Il Sindaco
Dott. Eugenio Zoda
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L’AGROBIODIVERSITÀ E LA SUA EROSIONE GENETICA
La variabilità genetica è il frutto del lavoro della natura che, nel corso
di milioni di anni, attraverso selezione naturale, mutazioni, ibridazioni ed
adattamenti, ha creato una enorme ricchezza di combinazioni di geni, che è
fondamentale per la sopravvivenza delle specie. Questo processo naturale è
stato, in parte, influenzato dall'azione antropica che spesso ha influito sul
successo di una specie a scapito di altre.
Il termine ‘agrobiodiversità’ indica la variabilità genetica e fenotipica
delle colture e degli animali autoctoni, tipici di un’area geografica, in relazione
al loro habitat. Il problema dell'erosione genetica in agricoltura è diventato
tale solo recentemente ed a sollevarlo ha contribuito la Rivoluzione Verde
che, agli inizi del '900, ha radicalmente trasformato l'agricoltura. Le vecchie
varietà o landraces furono sostituite con nuove varietà caratterizzate da rese
più elevate ma con una ristretta base genetica. Queste moderne varietà si
sono diffuse rapidamente, facendo diminuire di conseguenza la variabilità
entro le specie coltivate. Questo processo è diventato sempre più marcato,
tanto da portare alla scomparsa di molte varietà locali. La riduzione della
base genetica, dovuta sia all'erosione genetica che al ricorso a modesti
segmenti di variabilità nella costituzione di nuove cultivar, rende molto difficile
la prevenzione e la lotta alle epidemie parassitarie (Scarascia Mugnozza,
1974). Infatti, alla elevata capacità dei microrganismi di selezionare nuove
razze, si contrappone una alta uniformità delle piante coltivate, spesso
richiesta dalla moderna agricoltura industriale, che le rende però più
vulnerabili agli agenti patogeni. In molte aree del bacino mediterraneo, fino a
qualche lustro fa, un campo di frumento era costituito da decine di varietà se
non addirittura da specie diverse (Kuckuck, 1970). Oggi invece, in Turchia,
che è il centro dove si ritiene ebbe luogo la domesticazione del frumento e
quindi in teoria particolarmente ricco di variabilità, oltre l'80% della superficie
coltivata a frumento tenero è coltivata solo con pochissime varietà di origine
messicana. Ulteriori esempi circa l'utilizzo e diffusione di pochissimi genotipi
su vasti comprensori agricoli sono il Canada dove il 75% della produzione
nazionale di frumento è attribuibile a 4 cultivar, mentre negli USA oltre il 70%
della produzione di patata è assicurato da appena 4 cultivar.
Oltre alle specie di interesse agrario, molta attenzione andrebbe
dedicata alle specie selvatiche ad esse affini, che spesso possiedono geni
utili facilmente trasferibili nelle piante coltivate. Infatti, la colonizzazione
antropica di terre vergini o ad agricoltura marginale contribuisce a distruggere
ecosistemi in cui sono presenti i progenitori selvatici delle specie coltivate e
altre specie selvatiche ad esse affini accentuando gli effetti negativi
dell'erosione genetica.
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Attività di salvaguardia delle risorse genetiche vegetali
L’Istituto di Genetica Vegetale (IGV) del C.N.R. di Bari, ha come
obiettivo principale la salvaguardia delle ‘Risorse Genetiche Agrarie’ (RGA) di
interesse per l’agricoltura italiana e mediterranea. Gli studi condotti dall’IGV,
riguardanti il territorio italiano, hanno portato a concludere che in Italia, negli
ultimi decenni, si è registrata una rilevante erosione genetica che ha colpito
un po’ tutte le colture autoctone (Hammer et al., 1992; 1999). Tuttavia, come
le ultime missioni di raccolta in Sardegna e Basilicata hanno dimostrato, è
ancora possibile reperire, salvare dall’estinzione e valorizzare numerose
antiche varietà tipiche italiane (Laghetti et al., 1995; 1999a; 2000; 2005a). Le
aree italiane ove sono state scoperte e raccolte le landraces più preziose
corrispondono, quasi sempre, a località difficilmente raggiungibili, prive di
comode vie di comunicazione e poco abitate (Hammer e Laghetti, 2006). In
questi habitat è ancora possibile imbattersi in antichi orticelli privati o in
modeste aziende agricole a conduzione familiare o, addirittura, in alcune
piante inselvatichite appartenenti a varietà primitive non più coltivate e
probabilmente estinte (Laghetti et al., 1999b). Per rintracciare questi rari
campioni di semi i ricercatori dell’IGV, hanno messo a punto tutta una serie di
strategie tra cui: studio di elementi indicatori di agricoltura tradizionale (es.
sistemi arcaici di coltivazione, presenza di particolari infestanti,
toponomastica, dati etnobotanici, ecc.), costituzione di una rete informativa
capillare costantemente aggiornata, attenta esplorazione diretta di zone
potenzialmente ‘interessanti’ ed utilizzo di tecnologie moderne (es. sistemi
GIS, strumentazione GPS, software ad hoc) per la gestione del territorio
(Hammer et al., 1991).
LA SOPRAVVIVENZA ON-FARM DELLE CULTIVAR LOCALI ED I
MARCHI DI TUTELA
E’ ormai ampiamente documentato che la sopravvivenza on-farm di una
cultivar tradizionale, ossia la prosecuzione della sua coltivazione da parte delle
comunità locali che l'hanno selezionata, è in gran parte dipendente da fattori
economici. E' l'economia di mercato a guidare gli agricoltori nella scelta tra passare
alle moderne cultivar o proseguire la coltivazione delle cultivar tradizionali. Ne
consegue che la semplice presa di coscienza da parte delle comunità locali del valore
storico-culturale dei propri ecotipi non può da sola garantirne la sopravvivenza nel
tempo. Peraltro, senza il supporto di approfondite indagini scientifiche su un
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agroecotipo è impossibile percepirne il valore genetico e quindi la necessità della sua
salvaguardia. La promozione di una cultivar locale al fine di mantenerne la coltivazione
nell'areale tradizionale dipende in maniera complessa da vari fattori:
• alte rese, stabilità produttiva, resistenza ai patogeni ed alle infestanti sono parametri
di grande importanza per gli agricoltori;
• una eccellente qualità della granella è essenziale per ottenere l'apprezzamento dei
consumatori;
• la commercializzazione in forme che garantiscano qualità e tipicità del prodotto è
necessaria per giustificare prezzi di mercato in genere superiori rispetto a quelli delle
cultivar o di prodotti importati da altri paesi;
• l'identificazione di una serie di caratteri diagnostici da utilizzare per distinguere con
certezza un ecotipo sia da altri similari che dalle cultivar commerciali, è
fondamentale per prevenire possibili frodi a danno delle comunità locali e dei
consumatori;
• la presa di coscienza da parte delle comunità ed istituzioni locali del valore non solo
economico ma anche ‘culturale’ delle proprie tradizioni agricole è essenziale per
catalizzare in sede locale adeguate iniziative di tutela e rilancio.
In Italia sono ormai numerosi gli esempi in cui una stretta collaborazione tra istituzioni
locali, associazioni di agricoltori ed istituti di ricerca ha permesso la pianificazione di
fruttuose iniziative per la salvaguardia degli agroecotipi di un certo areale. Basti
ricordare i fagioli di Sarconi (Basilicata), alcuni fagioli della Valle Aniene (Lazio), la
fagiolina del lago Trasimeno (Umbria). In tutti questi casi il sinergismo tra istituti di
ricerca, enti ed associazioni locali ha portato all'attribuzione di marchi di tutela sia
comunitari che nazionali. Scopo ultimo di queste iniziative è la commercializzazione
non più di prodotto anonimo nei mercati locali, ma di un prodotto identificabile coltivato
seguendo un ben preciso disciplinare di produzione e garantito da un marchio di
qualità ufficialmente riconosciuto meritevole di raggiungere, anche attraverso la
grande distribuzione, consumatori al di fuori della regione di produzione. Nel 1992
l'Unione Europea (UE) ha regolamentato l'attribuzione dei marchi di tutela di
‘Denominazione di Origine Protetta’ (DOP) ed ‘Indicazione Geografica Protetta’ (IGP),
proprio allo scopo di garantire la sopravvivenza di una ampia gamma di prodotti tipici
dei paesi aderenti all'Unione (reg. n. 2092/91, 2078/92 e 2082/92). Essendo i marchi
comunitari conferiti seguendo procedure molto rigide, per numerosi agroecotipi risulta
meno problematico ottenere il riconoscimento di marchi di tutela conferiti da istituzioni
nazionali quali regioni, enti locali, parchi, ecc.
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ORIGINE, DOMESTICAZIONE E DIFFUSIONE DELLA LENTICCHIA
La Lens culinaris ssp. orientalis (Boiss.)
Ponert è originaria del Medio Oriente ed Asia
Centrale (Figura 1). Da questa sottospecie
selvatica è derivata la specie coltivata che oggi
coltiviamo il cui nome scientifico è Lens culinaris
Medik.
Tra le specie vegetali utilizzate dall'uomo per la
propria alimentazione, la lenticchia è stata una
delle prime leguminose da granella ad essere
domesticata ed assieme all'orzo ed al frumento, ha
costituito le basi della nascente agricoltura. Per
millenni
la
lenticchia
ha
rappresentato
un'importante fonte di proteine vegetali per le
civiltà succedutesi nel bacino del Mediterraneo e
Figura 1. Immagine della
Medio Oriente. L'inizio del consumo di lenticchia da
pianta di Lens culinaris
parte dell'uomo è datato tra il 9000 ed il 7000 a.C.
ssp. orientalis.
Risalgono infatti, a questa epoca dei semi ritrovati
in Siria ma molti studiosi sono concordi nel ritenere che si tratti di semi
raccolti da una specie non ancora domesticata. I più antichi ritrovamenti di
lenticchia sicuramente coltivata sono databili intorno al 6000 a.C. e sono
localizzati in quel comprensorio denominato Mezzaluna Fertile (Figura 2).
Nelle regioni mediterranee
la coltivazione della lenticchia
era ampiamente diffusa nel
Neolitico
(6000-4000
a.C.).
Furono gli antichi Egizi i primi
grandi coltivatori e consumatori
di
lenticchie.
Nella tomba
dell'architetto Kha (1400 a.C.) fu
trovata una ciotola con lenticchie
ancora ben conservate che
dovevano servire come alimento
per i defunti. Il processo di
domesticazione della lenticchia ha Figura 2. Localizzazione geografica della
portato come conseguenza della Mezzaluna Fertile.
pressione selettiva operata non
scientificamente dall'uomo alla selezione di due morfotipi: uno a seme grande o
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macrosperma, ed uno a seme piccolo o microsperma. La diffusione della
coltivazione in regioni con condizioni pedo-climatiche altamente differenziate
ha portato nel tempo alla selezione ad opera degli agricoltori di una miriade di
agroecotipi ciascuno ben adattato ad un ben preciso areale di coltivazione.
In Italia la coltivazione della lenticchia è praticata ininterrottamente
da millenni. Alcuni storici ritengono che la gens romana dei Lentuli derivò il
suo nome proprio da questo legume. Nella prima metà del ’900 il nostro
paese era tra i più importanti produttori di lenticchie del Mediterraneo. A
partire dagli anni '50 i cambiamenti dell'agricoltura e della nostra società
hanno causato un rapido declino di questa leguminosa (Figura 3)
trasformando il nostro paese da esportatore in importatore di lenticchie.
Produzione
Anno
Figura 3. Andamento della produzione annuale di lenticchia in Italia (dati FAO).
Questo rapido declino ha portato alla scomparsa di un numero
imprecisato di popolazioni locali selezionate nel tempo dagli agricoltori
italiani ciascuna ben adattata ad un ristretto areale di coltivazione. D'altra
parte le popolazioni locali ancora presenti sul territorio rischiano di
scomparire nei prossimi decenni per una complessa serie di fattori quali lo
scarso valore economico di questa leguminosa, l'innalzamento dell'età degli
agricoltori, la forte competizione delle varietà commerciali prodotte in altri
paesi (Piergiovanni, 2000). Attualmente solo la ‘lenticchia di Castelluccio’ di
Norcia (PG) ha una consolidata posizione di prodotto di nicchia anche
grazie all'attribuzione del marchio comunitario di Indicazione Geografica
Protetta (IGP) nel 1996. Altri agroecotipi o varietà locali di lenticchia non
siciliane, sia del tipo macrosperma che microsperma, particolarmente
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apprezzate sono quelle di S. Stefano in Sessanio, Onano, Colfiorito,
Ventotene e Capracotta.
Da oltre trent’anni l’IGV di Bari si dedica alla salvaguardia degli
agroecotipi autoctoni italiani di lenticchia in collaborazione con altre
istituzioni nazionali e straniere. Durante varie missioni di esplorazione nelle
regioni del centro e sud Italia, isole comprese, i ricercatori dell’IGV hanno
raccolto una sessantina di campioni appartenenti sia al morfotipo a seme
grande che a quello a seme piccolo. Questa attività ha permesso la
costituzione di una collezione di germoplasma di lenticchia di origine italiana
di cui fanno parte sia ecotipi che sono stati o sono ancora oggi
particolarmente apprezzati che ecotipi che non hanno mai avuto un
particolare rilievo. Questa collezione è stata oggetto di vari studi per valutare
i caratteri morfo-fisiologici della pianta (Di Prima et al., 1997; Piergiovanni et
al., 1998; Monti et al., 1999) e la variabilità genetica tramite marcatori
biochimici (Piergiovanni e Taranto, 2005) e molecolari (Sonnante e Pignone,
2001). Da qualche anno, anche grazie alla accresciuta sensibilità di alcune
comunità ed istituzioni locali, sono stati avviati studi più approfonditi su
alcuni agroecotipi di particolare pregio e/o ad alto rischio di erosione
genetica o di estinzione, allo scopo di promuoverne il rilancio (Piergiovanni
et al., 2001; 2003; Sonnante et al., 2004; Laghetti et al., 2005b).
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AGROTECNICA ADATTA ALLA COLTIVAZIONE DELLA LENTICCHIA IN
SICILIA
Esigenze pedoclimatiche
Clima - La lenticchia può tollerare condizioni ambientali difficili, come
quelle che si riscontrano nelle zone ai margini dei deserti, caratterizzate da
piovosità appena sopra i 300 mm annui e temperature che raggiungono valori
molto alti: ciò è possibile grazie alla brevità del ciclo che consente alla pianta
di raggiungere la maturazione prima che le riserve idriche del terreno si
esauriscano del tutto. Alla lenticchia viene riconosciuta anche una certa
tolleranza al freddo (fino a – 6°C), ma teme molto le gelate lunghe e intense.
Alle nostre latitudini la lenticchia è diffusa nelle aree svantaggiate a clima
temperato, semiarido ed in quelle fredde di montagna, riuscendo a dare
produzioni soddisfacenti, anche se modeste. Questo è possibile grazie al
periodo di coltivazione autunno-primaverile, nel caso di clima temperato o
semiarido, e alla brevità del ciclo biologico, nel caso di clima freddo, che
consente di svolgere il ciclo in primavera-estate. In Italia la coltivazione della
lenticchia è diffusa soprattutto in località ristrette di altopiano dove le
condizioni di clima e di terreno conferiscono altissimo pregio qualitativo al
prodotto, per sapore e facilità di cottura (come gli altipiani di Castelluccio di
Norcia e Colfiorito, in Umbria; di Leonessa nel Lazio).
Terreno - La lenticchia è molto adattabile ai diversi tipi di suolo, tanto
che riesce a dare produzioni accettabili anche in quelli di bassa fertilità. La
tessitura può variare da argillosa a limo-sabbiosa, mentre la reazione può
essere compresa tra sub-acida e subalcalina. Si rivelano poco adatti i terreni
troppo fertili e/o troppo umidi, perché favoriscono un eccessivo rigoglio
vegetativo che va a scapito della produzione di seme, e quelli salini in quanto
la pianta è molto sensibile alla salinità del terreno e/o dell’acqua di
irrigazione. Su terreni calcarei la lenticchia dà un prodotto poco pregiato che
cuoce con difficoltà.
Tecniche colturali
Avvicendamento - Nelle aree a clima semi-arido, dove trova la
massima diffusione, la lenticchia entra nell’avvicendamento come coltura
miglioratrice, solitamente preceduta e seguita da un cereale a paglia e, alle
alte quote, segale; costituisce, quindi, una valida alternativa al ristoppio. Per
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evitare l’acuirsi di alcune avversità parassitarie è bene che la lenticchia non
torni sullo stesso terreno prima di 3-4 anni.
Preparazione del terreno - Dovendo ospitare una coltura sensibile ai
ristagni idrici è importante curare il risanamento idraulico dei terreni,
soprattutto nel caso di colture a ciclo autunno-primaverile. La parte
assorbente
dell’apparato
radicale
della
lenticchia
si
espande
prevalentemente fra 20 e 40 cm; pertanto, non sussistono motivi che
impongono lavorazioni profonde: 30-35 cm di profondità sono più che
sufficienti. L’epoca di intervento dipenderà dal tipo di terreno e di coltura che
si intende realizzare (coltura a semina autunnale o a semina primaverile). In
terreni argillosi la lavorazione principale dovrà essere effettuata in estate, in
modo che per la riduzione delle zolle si possa sfruttare l’alternarsi
dell’inumidimento e del disseccamento. Per i terreni sabbiosi o limosi,
soggetti a ricompattarsi rapidamente, conviene invece aspettare il momento
della semina, sia che essa avvenga in autunno che in primavera.
La preparazione del letto di semina per la lenticchia è un aspetto molto
delicato: per germinare questo seme, come tutti quelli ricchi in sostanze
proteiche, deve assorbire molta acqua e la plantula che ne deriva ha uno
scarso “potere perforante” durante l’emergenza, tanto che le nascite
potrebbero essere seriamente compromesse dalla presenza della crosta
superficiale.
Epoca di semina - L’epoca di semina dipende dal clima della zona di
coltivazione. Nelle zone a clima mediterraneo, poste a quote basse (< 800
m), la semina avviene in autunno, tra la fine di ottobre ed i primi di novembre;
comunque, in tempo per consentire alle piantine di raggiungere uno stadio
che conferisca loro un’adeguata resistenza al freddo. Seminando in questa
epoca si ottengono produzioni più elevate e più stabili di quelle conseguibili
con la semina primaverile. A quote superiori agli 800 m, o nelle zone interne
a clima più continentale, si impone la semina primaverile (marzo-aprile),
passato il pericolo delle forti gelate.
Quantità di semente - Le fittezze di semina consigliate oscillano fra
300 e 400 semi puri e germinabili per m2, a seconda della grandezza del
seme, corrispondenti a 70-80 kg/ha per i tipi a seme piccolo e 130-150 kg per
quelli a seme grande.
Distanza tra le file - Entro certi limiti la distanza tra le file non ha
molta influenza sulla produzione della lenticchia, essendo questa pianta
dotata di “plasticità”. Per i tipi microsperma coltivati in Centro Italia, distanze
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tra le file di 20-25 cm sono le più consigliate. E’ ovvio che file così ravvicinate
presuppongono il controllo chimico della flora infestante; quando tale tipo di
controllo non fosse possibile (colture “biologiche”) si può adottare la
disposizione a file binate (15 cm tra le file della bina e 30-35 cm tra le bine),
così da poter eseguire la sarchiatura.
Esecuzione della semina - Di norma la semina è effettuata con la
seminatrice a righe. Le ridotte dimensioni del seme impongono un
interramento limitato a 2 cm in terreni freschi e 3-4 cm in quelli secchi. In
alcune zone, dove è diffusa la coltura “biologica”, è praticata la semina a
spaglio. E’ consigliabile un’appropriata concia della semente per ridurre gli
attacchi parassitari ai semi e alle plantule.
Rullatura - Dopo la semina è consigliabile rullare il terreno per
accostarlo al seme perché questo possa assorbire meglio l’acqua.
Rottura della crosta - La lenticchia ha una germinazione di tipo
epigeo (i cotiledoni emergono dal suolo), pertanto trova difficoltà a fuoriuscire
dal terreno in presenza di crosta superficiale: la resistenza opposta dallo
strato indurito può causare la rottura dell’ipocotile, con conseguente perdita
della piantina. In presenza di crosta superficiale si deve intervenire appena
emergono le prime piantine.
Concimazione
Fosforo - La dose di fosforo da somministrare deve essere
determinata in funzione della dotazione del terreno in fosforo assimilabile.
Considerando la scarsa mobilità di questo elemento è bene che esso sia
interrato con la lavorazione principale per portarlo nello strato di terreno
interessato dalla massa delle radici. Per i terreni alcalini è consigliabile il
perfosfato minerale, per il suo contenuto in gesso, mentre in terreni neutri, o
leggermente alcalini, è preferibile il perfosfato triplo; in presenza di terreni
acidi il concime fosfatico di elezione sono le scorie Thomas, per il loro elevato
contenuto in ossido di calcio. Per esempio, prevedendo una produzione di
1,5 t ha-1 in un terreno con ‘bassa’ dotazione in fosforo la dose di P2O5 sarà di
circa 35 kg ha-1.
Potassio - Come per il fosforo, le dosi da apportare sono calcolate
tenendo conto della dotazione del terreno in potassio scambiabile e della
valutazione agronomica che l’analisi chimica dà di tale dotazione, in rapporto
12
alle esigenze delle singole colture in rotazione. Per esempio in un terreno con
dotazione ‘molto bassa’ in potassio è consigliata una ‘concimazione di
arricchimento’ pari a circa 1,5 volte gli asporti della coltura. Nella maggior
parte dei casi comunque, i terreni sono già alquanto ricchi in potassio per cui
gli agricoltori meridionali, in genere, non lo somministrano.
Azoto - I fabbisogni di azoto della lenticchia sono elevati, rispetto alla
biomassa prodotta, per il notevole contenuto di sostanze proteiche presente
nei semi; quindi particolarmente elevati risultano anche gli asporti. Tuttavia,
non sono necessari apporti di azoto esterni al sistema terreno-pianta, in
quanto la coltura può soddisfare autonomamente le proprie esigenze: nei
primi stadi dell’accrescimento prelevando l’azoto proveniente dalla
mineralizzazione della sostanza organica del terreno; successivamente,
quando il batterio simbionte si è attivato, attraverso l’azotofissazione e, in
minor misura, ancora assorbendo azoto minerale dal terreno. Da quanto
detto risulta evidente che la lenticchia non deve essere concimata con
l’azoto, anzi è stato accertato che la presenza di cospicue quantità di nitrati
rende ‘pigri’ i batteri simbionti che riducono la loro attività.
Raccolta
La raccolta dei tipi di lenticchia oggi coltivati avviene, di norma, in due
tempi. Quando la metà, circa, delle piante presentano le foglie ingiallite e i
semi hanno raggiunto la maturazione cerosa, la coltura è falciata e lasciata in
campo, disposta in andane a completare l’essiccazione. Dopo 36-48 ore, a
seconda delle condizioni ambientali, le andane sono rivoltate per avere un
essiccamento uniforme. Completato l’essiccamento il materiale è prelevato
per essere riunito in ‘biche’, in caso di trebbiatura stanziale, oppure le andane
sono riunite per facilitare la raccolta con una mietitrebbiatrice.
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GLI AGROECOTIPI SICILIANI DI LENTICCHIA
Tra gli agroecotipi siciliani, oltre naturalmente alla ‘lenticchia di
Villalba’, meritano una menzione le lenticchie di Pantelleria, Linosa (Laghetti
et al., 1996) ed Ustica (Laghetti et al., 1998). Agroecotipi siciliani meno
conosciuti sono la lenticchia di 'Aragona’, ‘Bronte’, ‘delle Eolie’ (Laghetti et
al., 2001) e la 'lenticchia nera di Leonforte'. Quasi tutte sono lenticchie
particolarmente adattate alle condizioni agro-climatiche tipiche delle isole
d’alto mare siciliane ossia caratterizzate da forte vento, salsedine, siccità,
terreno vulcanico, ecc. Si tratta di lenticchie a seme piccolo o molto piccolo
(es. quelle di Linosa) appartenente alla sottospecie microsperma. La loro
importanza economica è molto diminuita negli ultimi anni e, di conseguenza,
si è ridotta anche la superficie agraria destinata alla coltivazione di questa
leguminosa. La produzione di queste lenticchie ‘isolane’ è molto legata alla
cultura contadina dei primi nuclei abitativi e, tradizionalmente, l’agrotecnica
più seguita è sempre stata di tipo biologico ed a bassissimo impatto
ambientale; molte operazioni colturali sono infatti ancora manuali e seguono
metodi arcaici come le fasi di trebbiatura e di separazione della paglia che si
svolgono, rispettivamente, con l’aiuto degli animali e del vento. Ovviamente,
oggigiorno, questo processo molto tradizionale viene eseguito solo da un
ristretto gruppo di anziani, forse gli ultimi custodi dei semi autoctoni e
dell’informazione etnobotanica da sempre legata a questo legume. Tutto ciò
è ancora possibile anche perché le superfici di coltivazione sono molto
limitate ed il mercato di destinazione è, quasi sempre, quello locale o,
addirittura, si produce solo per l’autoconsumo della famiglia.
Le lenticchie delle piccole isole siciliane sono particolarmente
apprezzate per le qualità gastronomiche in quanto molto tenere e
particolarmente saporite. Recentemente Slow Food ha istituito per la
‘lenticchia di Ustica’ un Presidio tendente a preservarla, valorizzarla ed a
crearle nuovi sbocchi commerciali. Non è infatti da trascurare la crescente
richiesta di questo prodotto tipico da parte dei numerosi turisti; al riguardo è
da sottolineare che spesso la domanda è di gran lunga superiore all’offerta.
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LA LENTICCHIA A VILLALBA
Note storiche sulla coltivazione
Villalba è un paese dell'entroterra siciliano, in provincia di Caltanisetta,
situato a circa 600 m sul livello del mare in un territorio costituito da colline
d'argilla ed aspri rilievi calcarei. La città fu fondata nella seconda metà del XVII
secolo dal marchese Niccolò
Palmieri abile imprenditore agricolo
e commerciante di cereali. L'inizio
della coltivazione della lenticchia nel
comprensorio di Villalba risale ai
primi anni dell'800 quando il
marchese Palmieri impose nelle sue
terre un ciclo colturale che
prevedeva
la
coltivazione
a
rotazione di sulla, lenticchia e grano
duro. Le tecniche adoperate per la
coltivazione della lenticchia erano
quelle tradizionali dei primi dell'800.
La coltivazione della lenticchia in
questa zona è stata particolarmente
fiorente nel periodo compreso tra il
1930 ed il 1960. Infatti, in questo
trentennio la lenticchia di Villalba
(Figura 4) divideva con la lenticchia
di Altamura, anch'essa a seme
grande, una ampia fetta del mercato
italiano e non solo. Basti pensare
che nel 1956 il 30% della produzione
nazionale (circa 132000 t) proveniva
proprio da Villalba. Questa grande
richiesta
era
legata
alle
caratteristiche organolettiche di
questo ecotipo ed alla predilezione
Figura 4. Pianta dell'ecotipo di lenticchia di
dei consumatori di quegli anni per i
Villalba.
tipi a seme grande. La tecnica di
coltivazione tradizionale prevede la preparazione del terreno, che è di medio
impasto, nella seconda metà di ottobre. La semina, che avviene tra la fine di
novembre e gli inizi di dicembre, è fatta in filari distanziati tra gli 80 ed i 100 cm.
La raccolta realizzata con l'estirpazione manuale delle piante, avviene a giugno.
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Le piante sono lasciate ad essiccare al
sole per circa una settimana quindi si
procede alla separazione del seme dalla
pianta. In tempi recenti i contadini hanno
preso la consuetudine di conservare la
granella secca in bottiglie di plastica chiuse
ermeticamente.
Il declino della coltivazione della
lenticchia insieme con le mutate
preferenze
dei
consumatori
che
attualmente prediligono i tipi a seme
Figura 5. Coltivazione in campo di
piccolo ha disincentivato la coltivazione di
‘lenticchia di Villalba’
questo ecotipo. Nel quadro delle iniziative
per la tutela dei prodotti tradizionali del
nostro paese promosse dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, va
segnalato l'inserimento della 'lenticchia di Villalba' insieme con quella di Ustica
nell'elenco dei prodotti tradizionali della regione Sicilia. Inoltre, in questi ultimi anni
l'amministrazione comunale di Villalba sta promuovendo in collaborazione con
varie istituzioni scientifiche una serie di iniziative per rilanciare la coltivazione della
lenticchia. Queste iniziative sono sfociate nella costituzione nel 2003 di un
Comitato Scientifico per la valorizzazione della ‘lenticchia di Villalba’ di cui fanno
parte esperti con diverse competenze scientifiche appartenenti a varie istituzioni.
ASPETTI MORFOLOGICI E NUTRIZIONALI
Una recente valutazione della
‘lenticchia di Villalba’ ha evidenziato
un’elevata omogeneità morfologica sia della
pianta che del seme tra diverse popolazioni
campionate in loco (Piergiovanni et al.,
2003). La pianta ha portamento prostrato
con un’altezza compresa tra 37 e 45 cm.
Stelo e baccello sono privi di pigmentazione,
le foglie sono piccole e non pubescenti, il
fiore è bianco ed i cirri sono poco sviluppati
(Figure 4 e 5).
Generalmente i baccelli contengono
un solo seme e solo il 15% di essi ne
contiene due.
La ‘lenticchia di Villalba’ appartiene al
morfotipo
macrosperma.
I
semi,
16
Figura 6. Semi dell'ecotipo
‘lenticchia di Villalba’
marcatamente piatti, hanno un tegumento verde privo di screziature mentre il
cotiledone è di colore giallo (Figura 5). Il peso di 1000 semi, registrato su 18
popolazioni allevate nell'annata agraria 1999-2000 a Villalba secondo
l'agrotecnica tradizionale va da 61,3 a 72,6 g con un valore medio di 67,2 g
(Piergiovanni et al., 2003).
L'analisi della composizione della granella di questi campioni ha f ornito
interessant i informazioni sulle caratteristiche nutrizionali di questo ecotipo.
Tabella 1. Composizione media della granella della ‘lenticchia di Villalba’.
Caratteristica della granella
Valore medio ed errore standard
Contenuto proteico (%)
28,2 ± 0,538
Ceneri (%)
2,86 ± 0,158
Grassi (%)
0,65 ± 0,086
Fosforo (mg/100g)
440,5 ± 42,45
Potassio (mg/100g)
956,2 ± 63,12
Calcio (mg/100g)
49,6 ± 4,697
Sodio (mg/100g)
12,9 ± 2,666
Ferro (mg/100g)
9,7 ± 0,642
Rame (mg/100g)
1,3 ± 0,107
Tempo di cottura (min)
54 ± 1,84
Come mostrato in Tabella 1, La lenticchia di Villalba si caratterizza per
un alto contenuto proteico ed un basso tenore di ceneri. In accordo con la
letteratura, la granella è ricca di potassio e povera in sodio. Da sottolineare il
contenuto in ferro, che se confrontato con quello di altri apprezzati ecotipi
17
italiani di lenticchia (Piergiovanni et al., 2001), risulta più elevato. Punto
debole dell'ecotipo di Villalba è il tempo di cottura decisamente elevato non
solo, come è ovvio, rispetto ai tipi microsperma ma anche rispetto alle varietà
commerciali macrosperma più diffuse. Una significativa riduzione del tempo
di cottura, intorno al 40%, può essere ottenuta tenendo in ammollo in acqua i
semi per un periodo di tempo non superiore alle 2 ore. D'altra parte la
commercializzazione di questo ecotipo sotto forma di prodotto precotto
potrebbe essere una via per migliorarne il valore commerciale in quanto
questo eliminerebbe l'inconveniente di un elevato tempo di cottura
sicuramente poco gradito dai consumatori.
18
ANALISI DELLA DIVERSITÀ GENETICA TRAMITE L’USO DI
MARCATORI BIOCHIMICI E MOLECOLARI
Come è noto, l'assenza di biotipi diversi nella 'lenticchia di Villalba' identificabili
sulla base di caratteri morfologici del seme e della pianta, non comporta, come
necessaria conseguenza, una completa identità genetica degli individui. La
valutazione della variabilità genetica richiede indagini basate sull'utilizzo di marcatori
sia biochimici che molecolari, che permettono di valutare il polimorfismo associato a
diverse regioni del genoma. Va sottolineato che questi marcatori costituiscono un
valido strumento per l’identificazione e differenziazione di ecotipi e cultivar.
Tre popolazioni fornite dalle seguenti aziende agricole di Villalba: Az. Michele
Bracco (pop. 1), Az. Vincenzo Mendola C.da Calcarelli (pop. 2) e Az. Gandolfo Territo
(pop. 3), e due cultivar commerciali, ‘Eston’ e ‘Laird’, sono state utilizzate per lo studio
della variabilità genetica della 'lenticchia di Villalba'.
Variabilità delle proteine di riserva del seme
L'utilità dell'analisi elettroforetica delle proteine di riserva del seme nella
valutazione della variabilità all'interno e tra popolazioni è stata ampiamente
dimostrata per numerose specie tra cui la lenticchia. Il profilo elettroforetico delle
proteine estratte da singoli semi di lenticchia è costituito da 30 a 35 bande il cui
peso molecolare è compreso tra 14 e 90 kDa. In questo studio la valutazione della
variabilità intra ed inter-popolazione è stata basata su 18 bande scelte tra quelle
polimorfiche di media o forte intensità. Sulla base della presenza/assenza di
queste bande sono stati identificati 10 diversi profili elettroforetici, 3 dei quali
osservati soltanto in un seme. Come mostrato in Tabella 2, la popolazione 2 è
risultata la più polimorfica, avendo mostrato 5 diversi tipi su 13 semi analizzati.
Come atteso, un solo profilo elettroforetico è associato ai semi appartenenti alle
due cultivar commerciali.
Tabella 2. Numero di profili elettroforetici osservati per ciascuna popolazione
N. di pattern
Pop. 1
Pop. 2
Pop. 3
Eston
Laird
2
5
3
1
1
19
Sulla base dei risultati elettroforetici dei vari semi analizzati è stato calcolato
per ciascuna delle tre popolazioni esaminate un profilo elettroforetico medio.
La similarità tra le popolazioni è stata valutata sottoponendo all'analisi cluster
i profili medi per esse calcolati. Le tre popolazioni esaminate costituiscono un
gruppo abbastanza omogeneo dal momento che pur rimanendo distinguibili
tra loro formano un unico gruppo che si posiziona ad una notevole distanza
genetica dalle cultivar ‘Eston’ e ‘Laird’.
Polimorfismo dei marcatori molecolari di tipo SSR
I marcatori molecolari rappresentano un efficace strumento di
indagine genetica con molteplici applicazioni nella ricerca in agricoltura. Essi
si basano sulla rilevazione di differenze nella sequenza nucleotidica del DNA
che costituisce il genoma di ogni individuo. Tra i più efficienti, vi è una classe
di marcatori noti come gli SSR (Simple Sequence Repeats) o microsatelliti,
che sono costituiti da brevi sequenze da 2 a 4 paia di basi, ripetute numerose
volte in tandem. Il loro polimorfismo è dovuto al diverso numero di unità
ripetute, che può presentare una ampia variabilità. Tale caratteristica li rende
particolarmente adatti alla tipizzazione genotipica e all’identificazione
varietale.
Cinque individui per ciascuna delle 3 popolazioni e delle due cultivar
commerciali 'Eston' e 'Laird', sono stati analizzati mediante 16 marcatori di
tipo SSR. Il DNA di ciascun individuo è stato estratto dal tessuto fogliare, e
frammenti contenenti sequenze ripetute sono stati amplificati mediate PCR
utilizzando primer specifici descritti da Hamwich et al. (2005).
I risultati ottenuti hanno permesso una stima del grado di diversità
genetica presente all’interno di ciascuna popolazione. Gli indici di diversità
genetica riportati in Tabella 3, ossia He (eterozigosità attesa o diversità
genetica media), n (numero medio di alleli per locus), e P (percentuale di loci
polimorfici) hanno indicato come la popolazione 2 che mostra i valori più alti,
sia quella in cui è presente la maggiore variabilità genetica, ma anche le altre
due popolazioni 1 e 3 presentano un notevole grado di variabilità genetica.
20
Tabella 3. Valore degli indici di diversità genetica, He (diversità genetica media),
n (numero medio di alleli/locus), P (% di loci polimorfici) nelle
popolazioni
Pop. 1
Pop. 2
Pop. 3
H
0,24
0,33
0,19
n
1,63
2,00
1,5
P
50,0
62,5
43,7
Figura 7. Relazioni tra le tre popolazioni della ‘lenticchia di Villalba’ e
le cultivar commerciali ‘Eston’ e ‘Laird’
21
Il dendrogramma costruito utilizzando la matrice delle distanze
genetiche di Nei (Figura 7) mostra che le popolazioni 1 e 2, le prime a
raggrupparsi, sono geneticamente più vicine. Entrambe queste popolazioni
insieme con la popolazione 3 formano un gruppo che presenta un elevato
grado di similarità genetica. Infine, se consideriamo il confronto con le due
cultivar commerciali, la ‘lenticchia di Villalba’ risulta molto ben differenziata.
I dati raccolti in questo studio hanno evidenziato che nella 'lenticchia
di Villalba' alla omogeneità morfologica della granella corrisponde una
discreta variabilità genetica. I marcatori sia biochimici che molecolari utilizzati
hanno permesso di rilevare una certa variabilità tra gli individui appartenenti a
una stessa popolazione e fra le tre popolazioni analizzate. Inoltre, i marcatori
biochimici e molecolari considerati in questo studio sono risultati efficaci per
la distinzione di questo ecotipo dalle cultivar commerciali ‘Eston’ e 'Laird',
usate come confronto.
22
PROBLEMI NEMATOLOGICI DELLA COLTURA DELLA LENTICCHIA
La lenticchia è suscettibile a diversi parassiti tra i quali i nematodi che
rivestono un’importanza notevole per l’entità dei danni che provocano e per la
loro vasta diffusione negli areali di coltivazione di questa leguminosa (Greco
e Di Vito, 1994). I danni causati dai nematodi sono da ascriversi soprattutto
alle profonde alterazioni dei tessuti radicali delle piante attaccate, che
possono anche favorire l’insediamento di altri patogeni come funghi e batteri,
e limitare lo sviluppo dei tubercoli radicali di Rhizobium sp. con conseguente
riduzione di apporto al terreno di azoto e di sostanze proteiche nella granella
(Greco et al., 1988). Dei nematodi che infestano la coltura della lenticchia i
più importanti, sono sicuramente quelli cisticoli (Heterodera spp.) e delle
lesioni (Pratylenchus spp.) (Di Vito et al., 1991).
Tra i nematodi cisticoli Heterodera ciceri sicuramente riveste
un’importanza notevole per i gravi danni sulla coltura della lenticchia
specialmente in diversi paesi del Mediterraneo ove spesso si registrano
consistenti riduzioni della produzione. Il nematode, come tutti i parassiti
presenti nel terreno, può infestare piccole aree più o meno circolari, oppure
interi appezzamenti. I sintomi degli attacchi del nematode sono rappresentati
da piante che all’inizio dell’attacco mostrano uno sviluppo stentato che
diviene più evidente nel periodo della fioritura e della formazione dei baccelli.
Inoltre, le piante attaccate producono uno scarso numero di fiori e quindi di
baccelli che nei casi di forti infestazioni possono mancare del tutto. Sulle
radici attaccate sono evidenti numerose femmine bianche e cisti brunastre
del nematode che può causare il marciume delle radici stesse. Da prove di
patogenicità abbiamo potuto accertare una soglia di tolleranza della lenticchia
agli attacchi di H. ciceri di circa 2.5 uova/g di terreno e che le perdite di
produzione possono ammontare al 50% con densità del nematode, alla
semina, superiori a 64 uova/g di terreno (Greco et al., 1988). La caratteristica
peculiare di questo nematode è la formazione di cisti. Queste derivano dalla
trasformazione delle femmine (limoniformi), le quali ispessiscono la loro
cuticola e trattengono nel loro interno le uova, preservandole vitali per 3-7
anni. Il nematode generalmente ha una sola generazione all’anno e si
riproduce a temperature comprese tra 15 e 25 °C. Il nematode infesta solo
alcune leguminose ed in particolare lenticchia, cece, cicerchia e pisello
(Greco et al., 1986).
La lotta chimica contro questo nematode, anche se costosa e spesso
inquinante, risulta essere abbastanza soddisfacente (Di Vito e Greco, 1994).
L’uso della rotazione delle colture può risultare abbastanza efficace nella lotta
del nematode, dato il numero di piante ospiti piuttosto limitato e circoscritto
alle leguminose (Saxena et al., 1992). Comunque in campi infestati da H.
23
ciceri le specie di piante ospiti del nematode, come la lenticchia, non
dovranno ritornare prima di 3-5 anni. Purtroppo non si conoscono cultivar di
lenticchia resistenti a questo nematode né sono stati individuati genotipi
resistenti.
I Pratylenchus spp. sono dei nematodi endoparassiti migratori che
provocano sulle radici attaccate lesioni e necrosi più o meno ampie che ne
riducono sensibilmente l’efficienza. Inoltre favoriscono l’insediamento di
funghi (Fusarium) e batteri capaci di accrescere l’entità dei danni alle piante.
In campo i sintomi dell’attacco del nematode sono simili a quelli già descritti
per l’altra specie di nematodi. Essi sono polifagi e diffusi nelle aree di
coltivazione della lenticchia. A conferma di tutto ciò, di recente, in diversi
campi coltivati di alcuni areali di Villalba e zone limitrofe sono state notate
aree in cui le piante manifestavano crescita stentata e ingiallimenti precoci ed
in particolare un apparato radicale con numerose necrosi e lesioni sintomo,
questo, tipico di attacchi da nematodi delle lesioni del genere Pratylenchus.
La lotta contro questi nematodi è indispensabile per poter garantire
una produzione di lenticchia abbastanza buona e di qualità. Con l’uso di
nematocidi si può ottenere un buon controllo di questi nematodi, però i costi
elevati e i rischi d’inquinamento sicuramente sconsigliano questa pratica.
L’uso delle rotazioni come mezzo di lotta è pure difficoltoso data l’elevata
polifagia di questi nematodi. Inoltre, da screening preliminari di linee di
lenticchia non sono stati individuati genotipi di lenticchia resistenti a questi
nematodi.
Pertanto per poter adottare mezzi di lotta idonei contro questi
nematodi che garantiscono una buona salvaguardia dell’ambiente, poco
costosi e di facile adozione da parte degli agricoltori, sono stati avviati degli
studi specifici sulla: distribuzione ed entità specifica dei nematodi fitoparassiti
negli areali di coltivazione della lenticchia; biologia, dinamica e gamma degli
ospiti del nematode; reazione di ecotipi di lenticchia italiani e stranieri per
individuare eventuale resistenza genetica ai nematodi.
Distribuzione di nematodi in alcuni areali di coltivazione della lenticchia
in agro di Villalba
Dalla primavera del 2004 a quella del 2005 sono stati raccolti alcuni
campioni di terreno e radici di lenticchia, cece e pisello per studiare la
distribuzione e le specie di nematodi fitoparassiti della lenticchia. I nematodi
presenti nei campioni di terreno sono stati estratti con il metodo della
centrifugazione con solfato di magnesio (metodo di Coolen) mentre quelli
presenti nelle radici sono stati estratti con il metodo dell’incubazione
24
(incubazione di Young). Dall’analisi nematologica di questi campioni di
terreno e radici è risultato che il 77% erano infestati da nematodi delle lesioni
(Pratylenchus spp.). Inoltre, in quasi tutti i campioni di terreno, sono stati
riscontrati alcune specie di nematodi ectoparassiti come Helicotylenchus spp.
Una parte dei Pratylenchus spp. sono stati fissati e montati in formalina per la
identificazione specifica mentre un’altra parte sono stati sterilizzati e messi a
moltiplicare in ambiente sterile (celle termostatiche a 20 ± 3°C) su dischetti di
carota in piastre Petri per futuri studi.
Da studi tassonomici su parametri morfologici e biometrici, effettuati al
microscopio ottico, e su quelli di biologia molecolare delle popolazioni di
Pratylenchus spp. rinvenute nei campioni raccolti è stato possibile accertare,
nella maggioranza dei campioni di terreno e di radici, la presenza di
Pratylenchus thornei. In alcuni campioni sono stati riscontrati anche alcuni
esemplari di P. neglectus. In un campione di terreno abbiamo riscontrato la
presenza di qualche esemplare di Pratylenchoides spp.
Pratylenchus thornei e P. neglectus sono nematodi molto comuni nel
bacino del Mediterraneo specialmente su leguminose da granella come
lenticchia, cece, fava e pisello e su alcune graminacee come frumento, avena
e orzo ove arrecano danni ingenti.
Biologia, dinamica e gamma degli ospiti dei nematodi della lenticchia
Dalla primavera del 2004 abbiamo analizzato dei campioni di terreno e di
radici prelevati periodicamente nelle contrade tipiche di coltivazione della lenticchia
(“Pitrusa” e “Bunazzo”, in agro di Villalba) per studiare la biologia e la dinamica di
Pratylenchus thornei. Da questi studi abbiamo accertato che il nematode sopravvive
come femmina adulta o stadio di sviluppo larvale allo stato quiescente, nel terreno e
nei residui vegetali; restando inattivo durante la tarda primavera e l’estate sia a causa
del terreno secco sia a causa delle alte temperature. In autunno, invece, con l’avvento
delle prime piogge perde lo stadio quiescente, diviene mobile e si dirige verso le piante
ospiti nelle quali penetra e si moltiplica.
Nelle radici il nematode, essendo un endoparassita migratore, si nutre, si
muove e si riproduce. Ogni esemplare adulto può rimanere vitale per circa due mesi e
durante il suo ciclo vitale la femmina può deporre sino a 100 uova. Queste dopo lo
sviluppo embrionale (della durata di circa una settimana), si schiudono e danno
origine ad una nuova generazione. Alla temperatura di 20 °C una generazione può
essere completata in circa 20-25 giorni, pertanto durante un ciclo della coltura ospite il
nematode può compiere diverse generazioni. Con l’approssimarsi di condizioni
sfavorevoli, come secchezza del terreno, temperature elevate e senescenza delle
piante, il nematode diviene quiescente.
25
Nell’Italia Meridionale e in Sicilia il nematode è attivo soprattutto da ottobre a
giugno. Le densità di popolazione del nematode, quindi, sono molto elevate nei
periodi di massimo sviluppo delle piante (aprile-giugno) e molto basse, invece, nei
periodi estivi.
Pratylenchus thornei è un nematode polifago ed è stato riportato su almeno
un centinaio di specie di piante, sia coltivate che spontanee. Da studi effettuati lo
scorso anno in una serra dell’Istituto per la Protezione delle Piante del CNR di Bari
(IPP) su una popolazione del nematode prelevata a “Bunazzo” sulla riproduzione del
nematode su 18 specie di piante (fava, cece, lenticchia, pisello, fagiolo, veccia,
medica, grano duro, orzo, avena, mais, pomodoro, peperone, melanzana, melone,
bietola e girasole) (Tabella 4), abbiamo accertato che sulle leguminose come fava,
cece, lenticchia e pisello il nematode si riproduce abbastanza bene mentre si
riproduce poco su veccia e fagiolo. Su tutte le graminacee saggiate ad eccezione del
mais, il nematode si riproduce abbondantemente. Medica, pomodoro, peperone,
melanzana, melone, bietola e girasole, invece, risultano essere non ospiti del
nematode
Tabella 4. Numero di individui di Pratylenchus sp. estratti dalle radici di alcune
specie di piante annuali.
Specie e cultivar
Larve ed
adulti/apparato
radicale
Tasso di
riproduzione
del nematode
3.285
15.804
1.200
8.815
534
521
1.465
800
240
125
129
240
140
3,2
15,8
1,2
8,8
0.5
0,5
1,5
0,8
0,2
0,1
0,1
0,2
0,1
Fava ‘Aguadulce’
Cece ‘Ghab 1’
Lenticchia ‘Villalba’
Pisello ‘Progress 9’
Fagiolo ‘Lingua di fuoco’
Medica ‘Equipe’
Grano duro ‘Simeto’
Orzo ‘Das 10’
Pomodoro ‘Rutgers’
Peperone ‘Yolo Wonder’
Melanzana ‘Violetta di Firenze’
Melone ‘Napoletano giallo’
Girasole ‘Isoleic’
26
Reazione di linee di lenticchia per individuare eventuale resistenza
genetica ai nematodi.
Da studi preliminari, effettuati in una serra climatizzata a 20 ±3°C,
sulla reazione di due ecotipi di Villalba e di alcune linee di lenticchia di origine
straniera (linee della collezione dell’International Center for Agricultural
Research in Dry Area, Aleppo-Siria) nei confronti degli attacchi di una
popolazione di P. thornei (“Bunazzo”), abbiamo accertato che tutti i genotipi
di lenticchia saggiati sono risultati suscettibili al nematode. Quindi, su questo
materiale saggiato non è stato trovata nessuna forma di resistenza genetica
al nematode.
Dall’esperienza acquisita con studi ed indagini effettuate in Italia ed
all’estero sui nematodi delle leguminose da granella e specificamente della
lenticchia e dai primi risultati conseguiti dalle indagini effettuate su questi
fitopatogeni della lenticchia nell’agro di Villalba, possiamo affermare che i
nematodi delle lesioni sulla lenticchia sono abbastanza diffusi nelle aree di
coltivazione della leguminosa e che arrecano danni ingenti.
Questi nematodi sono abbastanza prolifici e polifagi il che rende molto
difficile la lotta come la programmazione di successioni colturali (rotazioni
agronomiche) tali da minimizzare i danni ed, inoltre, finora non sono stati
individuati genotipi di lenticchia resistenti ai nematodi, pertanto è
consigliabile, continuare ed approfondire questi tipi di studi per acquisire
nuove informazioni sulla distribuzione, biologia, dinamica e gamma degli
ospiti dei nematodi e allargare l’indagine sulla reazione di questi nematodi ad
altri ecotipi di lenticchia. Questi ulteriori studi ci permetteranno l’elaborazione
un protocollo tecnico-pratico e di management per una coltivazione della
lenticchia di qualità.
27
CONCLUSIONI
Questo studio ha mostrato come la coltivazione di leguminose minori
quali la lenticchia rappresenta un’interessante opportunità economica ed una
valida strategia di conservazione delle risorse genetiche. La tipicità di una
coltura, cioè il legame di un determinato territorio con un ben identificato
prodotto e gli usi ad esso legati, permettono di incentivare la coltivazione
delle varietà tradizionali. Nel caso della ‘lenticchia di Villalba’ tale produzione
potrebbe dare valore a talune aree dove questi materiali genetici si sono
adattati nel corso del tempo, fornire un prodotto con un certo grado di valore
aggiunto rispetto al prodotto comune consentendo al tempo stesso la
conservazione on farm (ossia in azienda) delle risorse genetiche e contribuire
a conservare gli usi e le tradizioni locali.
28
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Le fotografie, i disegni, l’impaginazione e l’elaborazione grafica
computerizzata, sono a cura di Salvatore Cifarelli, IGV-CNR, Bari.
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