Gaston J. Algard
LE V A C A N ZE D I
D I D I ER
Romanzo
© 2000 - Gaston Javier Algard
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Le vacanze di Didier
Serie: «Les cahiers noirs»
www.algardproductions.com
© 2011 – Youcanprint Edizioni
www.youcanprint.it
[email protected]
ISBN 978 88 66181 576
Maggio 2011 © Tutti i diritti riservati
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi,
personaggi, luoghi ed avvenimenti sono il
prodotto dell'immaginazione dell'autore. Il ricorso a nomi di persone o luoghi reali è inteso
esclusivamente per dare l'impressione di autenticità, ma non deve indurre a pensare che i
fatti descritti non siano immaginari.
Je remercie toujours
ma mère et mon père
qui m’ont donnée ma tête.
Gaston J. Algard
Il Raccontatore
Nel 1996 volevo scrivere qualcosa di nuovo. Allontanarmi dagli impegnativi argomenti affrontati
nei precedenti racconti. Qualcosa sui fatti quotidiani
di cronaca nera che leggiamo sui giornali. Quelli che
spesso scandalizzano i benpensanti. Era già un po' di
tempo che raccoglievo ritagli di giornale sull'argomento. Mi mancava, però, l'ispirazione giusta.
Una visita occasionale a Parigi, me ne rammentò
una precedente negli uffici di polizia al quai des Orfèvres. Avevo incontrato solo uomini ai vertici. L'idea mi venne mentre sorseggiavo un pastis in un bar
di Montmartre. Mettere una donna tra tutti quegli
uomini. Nacque così Agnès Didier.
Devo confessare che la soddisfazione durò poco.
Nel 1998, o giù di lì, seguendo un servizio sulla rete
televisiva francese A2, vidi il nuovo dirigente della
divisione criminale del quai des Orfèvres. Una donna. Bionda, volitiva e piacente come l'avevo immaginata io. Rimasi però soddisfatto, sia della loro
scelta che della mia.
Nel tempo gli episodi di Didier si sono moltiplicati. Alcuni li ho ancora nel cassetto. Confesso che a
questo personaggio sono rimasto sempre affezionato.
Mi auguro lo saranno anche i lettori.
Gaston J. Algard
© «La maison des crimes» ™
de Gaston J. Algard
«LES CAHIERS NOIRS»
1997
Didier e l’Astrologo
Didier e l’Anacoreta
1998
Didier e la piccola Babette
2000
Le vacanze di Didier
2002
Didier e le comari di Lugano
2003
Didier e l’amante pigmalione
2007
Didier e il mostro
2009
Didier e i debiti della Contessa
Didier e i dolori di Corbier
2010
Didier e la donna affogata
Didier a Lugano, il ritorno
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LE VACANZE
DI DIDIER
All’insuperabile donna
che ho chiamato Gemma.
Se non l’avessi conosciuta,
non avrei mai scritto questo racconto.
PERSONAGGI
Agnès Didier
Giovanni
Antonio Ballerini
Ferrara
Carlo Chicchi
Gemma
Solideo Santocchini
Emidio Bigazzi
Vincenzo Colabitta
Paola
Paolo Marcheggiani
Camilla
Martino Martinez
Peppino Cuomo
Aldo Martini
Doretta
Anna Brugi
Aleandro Sprugnoli
Martinelli
Sonia
Ciro Cafurri
Commissario di Parigi
Pensionato
Tenente dei Carabinieri
Maresciallo dei Carabinieri
Brigadiere dei Carabinieri
Cameriera d'albergo
Professore in pensione
Consigliere comunale
Carabiniere in pensione
Cuoca d'albergo
Magistrato di Cassazione
Moglie del magistrato
Avvocato
Pizzaiolo napoletano
Studioso
Figlia dello studioso
Proprietaria d'albergo
Negoziante
Medico, genero di Anna
Impiegata d'albergo
Nipote di Giovanni
I
6 Agosto - domenica mattina
La Mercedes procedeva tranquillamente per una
strada provinciale della Toscana. Agnès Didier,
commissario dipartimentale della divisione criminale di Parigi, seduta accanto al guidatore, si rese subito conto che Giovanni era abituato a condurre passeggeri ad andatura turistica. Questo le faceva un
immenso piacere. Le dava il tempo di riempirsi gli
occhi di quella verde campagna e dei piccoli borghi
che stavano attraversando. Si rilassò, godendosi
quella vacanza estiva che, sino a pochi giorni prima,
non avrebbe creduto possibile.
Ripensò al giorno della partenza, il martedì precedente. Le mille raccomandazioni fatte alla signora
Marie per il suo Chico, il gatto filosofo, che non avrebbe potuto portare con se. Al desiderio inconscio,
chiudendo la porta di casa, di lasciarvi dentro tutti i
problemi di lavoro. Alla corsa in taxi verso la Gare
de Lyon per salire sull'EuroCity. All'emozione di sedersi nel posto che aveva prenotato almeno tre mesi
prima, senza molta convinzione. Al fremito provato
al muoversi del treno che l'avrebbe condotta a Milano e, presa la coincidenza, sino a Firenze. Una scelta, quella del treno, per godersi minuto per minuto il
suo viaggio verso l'Italia.
Solo ora, dopo cinque giorni che era lontana da
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Parigi, cominciava a rendersene conto. Quasi non si
rammentava più del mestiere che aveva fatto sino a
qualche giorno prima. Le tre giornate a Firenze, una
delle città per lei più belle del mondo, l'avevano ampiamente compensata delle tante preoccupazioni avute durante quell’ultimo anno di lavoro. Tutto era
lontano, quasi evanescente. Anche la sosta ad Orvieto, durata un giorno più del previsto, era stata una
simpatica avventura. La funicolare, fuori dalla stazione, per arrivare in alto nel centro della città medioevale. La ricerca di un albergo a caso. Andare in
giro a curiosare come gli altri turisti anonimi. La
buona tavola.
Ora quell’auto la stava conducendo alla sua meta
finale, una piccola cittadina della bassa Toscana.
L'unico albergo all'ingresso del paese sarebbe stata
la base delle sue scorribande giornaliere nella terra
degli etruschi. Sovana, Manciano, Saturnia, Sorano,
Poggio Buco e tanti altri luoghi pieni di fascino ai
suoi occhi. Una sola cosa non riusciva ancora a capire. Nemmeno una chiamata di saluto al portatile da
parte degli uomini della sua squadra. C’era rimasta
un po’ male.
Una frenata improvvisa la distrasse dai suoi pensieri. Ad una curva era sbucato un ciclista. Ma Giovanni non aveva aperto bocca. Si era girato verso di
lei per controllare che avesse la cintura allacciata.
«Non si preoccupi Giovanni, tutto a posto...»
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«Queste sono strade dove una sorpresa bisogna
sempre aspettarsela.»
Solo allora Didier lo osservò vramente. Giovanni
non era proprio un autista autorizzato. Sulla sessantina, abbronzato, capelli cortissimi, accento napoletano, che seppe poi essere di Casoria, nella prima
mezz'ora le aveva raccontato tutta la sua storia.
Rimasto vedovo si era risposato con una signora
originaria del paese dove erano diretti. Aveva lavorato in TV a Roma, come tecnico, aveva due figli
grandi sposati e si era trasferito lì dopo il secondo
matrimonio. Sapeva tutto di tutti del paese dove ora
viveva. Faceva quel mestiere per non stare con le
mani in mano e per guadagnare qualche cosa. Ma gli
disse che aveva anche una bella pensione ed un buon
gruzzolo in banca, frutto della liquidazione ricevuta.
In definitiva Didier aveva incontrato un simpatico
personaggio, cordiale e pieno di esperienza, ma certamente da tenere a bada. Riuscì subito a capire che
il passatempo preferito, suo e degli abitanti del suo
prossimo rifugio, era il pettegolezzo. Giovanni tentò
di sapere subito qualcosa anche di lei. Ma Didier approfittò, benché parlasse abbastanza bene anche
l’italiano, della sua nazionalità francese per non capire qualche sua domanda o rispondere vagamente.
Per tutti voleva essere solo un’impiegata dello stato
francese in vacanza, innamorata della storia etrusca.
Quando arrivarono all’albergo, verso le dieci,
Giovanni le lasciò il suo biglietto con il telefono.
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Didier lo ringraziò. Lo avrebbe sicuramente richiamato per farsi portare nei dintorni. Salita in camera
fece una doccia, si cambiò e dopo mezz’ora era già
immersa nei vicoli medioevali, tra tanti altri turisti.
6 Agosto - domenica pomeriggio
Tornò in albergo, stanca, ma felice. Aveva fatto
tanti di quei giri, che non ricordava nemmeno più
cosa avesse visto. Ma non le interessava. Le era servito per rendersi conto dei luoghi dove avrebbe passato i prossimi giorni. Dopo aver lasciato in camera
piantine ed opuscoli turistici raccolti ad ogni occasione, macchina fotografica e zainetto, si era rinfrescata con una rapida doccia ed era scesa in sala da
pranzo. Gustò, come una scolaretta, i piatti caratteristici che la proprietaria dell'albergo le aveva suggerito. Non tutti ovviamente, altri li riservò per i giorni
successivi.
Non aveva voglia di tornare in camera, eccitata
com'era. Rimase nella sala mentre le cameriere riordinavano ed apparecchiavano per la sera. Si era spostata ad un tavolo dal quale poteva vedere, attraverso
una grande finestra, il panorama del paese fino alle
lontane colline. Tutti riposavano ed era silenzio.
Uno spettacolo magico. Fu distratta da voci alterate
che provenivano dall'interno della cucina. Cercò di
estraniarsi. Ma non poté fare a meno di alzarsi ed
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avvicinarsi alla porta. Le voci si erano trasformate in
urla.
«Io l'ammazzo! L'ammazzo quel disgraziato!
L'ammazzo stanotte, appena torna a casa! Sai che ti
dico? Prendo questo coltello qui, bello grosso. Glielo pianto nella pancia a quell'infame!»
«Paola! Ma che dici? Ti vuoi rovinare…?»
«Lasciami…! Lasciami stare…!»
Si affacciò stupita, senza parlare. A metà del lungo locale, nello stretto corridoio formato dai fornelli
da una parte ed i mobili della cucina dall'altra, due
donne sembrava che lottassero. Una brandiva in mano un grosso coltello. L'altra le tratteneva il braccio,
cercando di farglielo lasciare. La sua mano colava
sangue. Quando si accorsero di lei, tacquero all'unisono.
«Ma lei è ferita!» disse Didier, entrando senza esitazione.
Solo allora Gemma, la cameriera che serviva ai
tavoli, si accorse del sangue che scendeva dalla mano e le aveva arrossato il grembiule bianco. L'altra si
era ritratta, spaventata.
«Per favore, non avvisi la signora! Per favore…»
disse Gemma implorante.
«Non chiamo nessuno... Ma lei Paola, posi quel
coltello. Subito!»
Fu così perentoria che quella aprì di colpo la mano. Il coltello cadde rimbalzando sul piano d'acciaio
del lavabo. Il rumore rintronò nel silenzio totale. Di17
dier si affacciò nella sala da pranzo. Nessuno nei paraggi. Gemma trascinò allora tutte e due nell'altra sala da pranzo, quella dalla parte opposta della cucina.
Paola aveva portato di corsa la cassetta di medicazione dell'albergo. La porse a Didier, mentre copiose
lacrime le rigavano il viso. Poi si era lasciata cadere
su una sedia, continuando a singhiozzare. Didier
medicò la ferita di Gemma.
«È solo un taglio superficiale, fortunatamente...»
Gemma non parlava. Guardava l'altra e scuoteva
la testa.
«Ci scusi signora... Ma questa poveretta avrebbe
bisogno di aiuto... Ed io non so come farla ragionare...»
«Parliamone…» rispose Didier con semplicità.
Paola e Gemma la lasciarono sola alcuni minuti
per andarsi a cambiare. Quando tornarono, Didier le
osservò con simpatia. Paola era una donna di statura
al di sotto della media, sui quarantacinque, di aspetto
giovanile e schietto, piacente. Il viso ora era più rilassato. Il poco trucco le faceva risaltare la carnagione ancora fresca sui capelli corti, biondicci.
Gemma era più volitiva. Qualche anno di più, capelli
neri lunghi. Occhio smaliziato, corpo più formoso.
Parlata toscaneggiante, spesso un po’ sboccata, ma
simpatica.
«Deve sapere, signora…» iniziò subito Gemma,
«che Paola convive con un uomo più anziano di lei,
separato dalla moglie che sta in Sicilia. Un ex mare18
sciallo dei carabinieri. Un brutto coso, come lo
chiamo io. Ma lei gli vuole bene. Gli ha messo a disposizione casa sua, lo cura, perché lui ha il diabete
ed è malato anche di cuore. Ma lo mantiene pure,
perché quel coso manda tutti i soldi della pensione
alla moglie, giù in Sicilia...»
Paola ebbe come un atto di ribellione, ma poi rimase in silenzio lasciandola continuare. In cuor suo
sperava che qualcuno l'aiutasse. Anche questa sconosciuta signora.
«Questo brutto coso, tanto siamo tra donne adulte, dice che non gli tira più con lei. Ma lei lo sopporta lo stesso. Il bello è che da un anno questo coso va
a letto con una troja, scusi la parola ma non saprei
come altro definirla, che vive qui in paese. Una di
quelle donne che si farebbero un uomo "basta che
respiri", come diciamo da noi. Vedova e con due figli grandi in casa, che gli reggono il gioco. Quasi
ogni pomeriggio o sera se ne esce e va da lei. Fa i
suoi porci comodi, perché con quella gli tira, poi se
ne ritorna a casa da lei. E lei lo continua a sopportare. Mi dica se può continuare così... Un giorno o l'altro succederà una tragedia. Ha visto oggi? Questa
poveretta non ce la fa più...»
Con la voce più dolce possibile Didier si rivolse a
Paola.
«Gli ha parlato? Ha cercato di farlo ragionare…?»
Paola rispose con il pianto in gola.
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«Nega tutto... Dice che sono solo mie fantasie...
Che sono una pazza!»
«Pazza un cazzo…!» intervenne Gemma con la
solita schiettezza, «ma se lo sa tutto il paese! Anche
Giovanni che abita sopra! Lo vede arrivare quatto
quatto, entra nel cancelletto come se fosse un ladro!
Che ci va a fare, conversazione…? Ma se quella è
quasi una capra…!»
Didier cercò di non ridere. Gemma era troppo
sincera nei suoi interventi. Se fosse stata un testimone nelle sue inchieste, si sarebbe divertita da matti.
Ma qui, invece, si trattava di aiutare una donna che
soffriva. Una donna indubbiamente debole. E sapeva
per esperienza che è proprio da una donna simile che
spesso nascono tragedie.
«Giovanni chi…?» chiese Didier a Gemma.
«Quello che l'ha portata qui da Orvieto... L'autista
di piazza.»
Tutti sanno tutto di tutti, memorizzò nuovamente
Didier.
«Certo Paola, la situazione è difficile, lo capisco... Ma si renderà conto che non risolverebbe nulla con la violenza... In fondo lui è solo un'ospite...
Potrebbe mandarlo via di casa. In fondo la casa è
sua...»
«Non è facile…»
«Digli che ti ha minacciata...! Sangue di giuda!
Scusi signora. Ma questa mi fa andare in bestia...!»
«È vero…?»
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Paola assentì con il viso, senza parlare.
«Potrebbe denunciarlo...»
«Non credo proprio…» fece Gemma, «lei non sa
che tipo è... Vincenzo Colabitta è siciliano ed ex carabiniere…»
«Cosa vuol dire…?»
«Che tra cani e conterranei, non si mordono… E
lei purtroppo è una donna sola...»
Didier rimase pensosa. Le altre due aspettavano
che parlasse, come un oracolo.
«Ragazze, per il momento non vedo una soluzione... Ma aspettiamo un po’... Potrebbe arrivare. E lei
Paola, abbia ancora un po’ di pazienza... Ne ha avuta
tanta sino ad oggi. E non si faccia più venire brutte
idee per la testa, per favore… Ne riparliamo. Io rimarrò qui altri nove giorni. Ci sarà modo di tornare
sul discorso... Ve lo prometto. Se potrò fare qualcosa, ne sarò ben felice…»
6 Agosto - domenica sera
Didier chiamò Giovanni. Nel suo giro mattutino
per il paese aveva letto un manifesto: Fiera a Sorano.
Partirono verso le sei. Durante il tragitto altre emozioni. Casolari nel verde, boschi ed un sole che faceva bella ogni cosa guardasse.
«Dovremo fermarci appena fuori del paese..» disse Giovani, «oggi è domenica e ci sarà parecchia
gente... Dovrà camminare un po’...»
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«Non chiedo altro... Sono spesso relegata in ufficio e in questa vacanza ne approfitterò per dimagrire...» rispose lei ridacchiando.
Giovanni si girò verso di lei. Non si espresse, ossequioso come sempre, ma con lo sguardo disse tutto. Per lui era bella così. Anzi bellissima. Capelli
quasi biondi lunghi, tutte le cose al loro posto, gambe tornite ed abbronzate che i pantaloncini corti evidenziavano, seno né grande né piccolo ma sicuramente sodo.
Diecine di auto occupavano già la strada che
scendeva verso il paese. Anche la Mercedes conquistò il suo spazio vitale. Famiglie intere andavano giù
con loro verso l'ingresso del paese, decorato con festoni. In lontananza la musica di una banda. In realtà
non c'era un paese e non c'era una fiera da vedere.
Tutto il paese era una fiera. Negli stretti vicoli, nei
negozietti, nelle piccole piazze. Ogni angolo era occupato per mostrare ai forestieri l'artigianato del
luogo ed altre cose ancora. Didier si fermava ad ogni
piè sospinto. Curiosa chiedeva, osservava, avrebbe
voluto comprare tutto, ma si dovette limitare ai piccoli oggetti. Quando arrivò di fronte ad un artigiano
di borsette da donna in cuoio, una donna, non ebbe
esitazione. Scelse con cura, chiese i prezzi, cercò
anche di contrattare. Alla fine fece una pazzia e ne
comprò due, di forma veramente originale. E non
certo a buon prezzo.
Erano quasi le otto. Sotto l’arco di una stretta tra22
versa adocchiò un bar con tavolini. Si fermarono e
presero due birre ed un panino con la porchetta.
Giovanni insistette per pagare. Lo lasciò fare. Sulla
via del ritorno era felice e stanca. L'auto le conciliava il sonno. Si addormentò senza volerlo. Si risvegliò quando l’auto fermò di fronte l'albergo.
«Posso offrirle un caffè…?» chiese Didier, «la serata è così bella…, sarebbe un peccato mortale andare subito a dormire.»
Si sedettero ai tavolini del bar accanto all'albergo.
Insieme ad altra gente che chiacchierava cercando
un po’ di refrigerio dopo una giornata così calda.
«Oggi ho assistito ad una scena alquanto penosa....» disse Didier, «la cuoca dell'albergo, Paola, mi
ha raccontato la sua tragedia... Perché di tragedia mi
sembra proprio si tratti. Mi hanno detto che lei ne sia
al corrente...»
Giovanni venne preso di contropiede. La osservò
con attenzione.
«Io… veramente…» tentò di dire.
«Non faccia lo gnorri…» rispose subito Didier,
«mi hanno fatto il suo nome, lei abita lì vicino...
Sembra che lei sappia, come tutti a quanto sembra…»
«Che vuole sapere…?» tagliò corto Giovanni, avendo capito che con quella donna non si poteva
menar il can per l'aia.
«Se è vero quello che mi hanno raccontato... Se è
vero che un certo coso, come chiamano Vincenzo
23
Colabitta, vive con Paola la cuoca dell'albergo e la
sfrutta, facendosi mantenere mentre va a letto con
un'altra... Non ne capisco il comportamento...»
Giovanni le raccontò tutto quello che aveva visto,
mentre prendeva il fresco sul balcone di casa, che
confinava con quello della donna. Anche particolari
curiosi che la fecero ridere, come il dietrofront di
Vincenzo quando si accorgeva di Giovanni che lo
osservava dal balcone ed il suo successivo ritornare
sui suoi passi furtivamente. Ed anche qualcos'altro
che Didier memorizzò. Tutto, ma nulla che potesse
utilizzare per aiutare Paola.
«Solo questione di sesso, quindi…?»
«Non è bello quello che è bello, ma quello che
piace…» rispose lui.
Verso le undici si salutarono. Didier, come primo
giorno, ne aveva avuto abbastanza dei problemi di
quel paese.
24
II
7 Agosto - lunedì mattina
Didier, dopo aver fatto rapidamente colazione, alle otto era già partita alla scoperta del mondo circostante. Camminando camminando era scesa dalla
collina, lungo una serie di stretti viottoli che aveva
seguito a caso, non accorgendosi di essere ormai
molto lontano dell'ingresso del paese in mezzo alla
campagna. Fermarsi per rinfrescarsi piedi e gambe
in una cascatella, dopo aver attraversato una fitta
macchia, era servito a ben poco. Il sole picchiava
forte, ma Didier non appariva infastidita per questo,
viveva come in un mondo di sogno fantasticando
appena le appariva una grotta scavata nel tufo od
una pietra particolare. Tutti segni d’antichi abitatori
ormai scomparsi. Un sasso birichino le fece inciampare il piede.
«Merde!» strillò, mentre un dolore intenso le saliva dalla caviglia su per la gamba. Cercò di tenerla
sollevata. Saltellò per un paio di metri, finché trovò
un grosso masso squadrato, sul quale si sedette. Solo
allora, alzando gli occhi, vide le costruzioni sull'alto
della rupe, mura gigantesche che la sovrastavano e
sembravano osservarla con curiosità. Solo allora
guardò l’orologio. Erano le dodici appena passate.
Aveva camminato, senza nemmeno accorgersene,
per quattro ore e sicuramente per almeno dieci chi25
lometri, scendendo dalla strada tutte curve e poi per
quelle stradine di campagna che giravano tutto intorno al promontorio, fermandosi dove la curiosità la
chiamava.
«Didier, vuoi fare la ragazzina! Ricordati che hai
compiuto 38 anni l'otto luglio! Ecco cosa ti succede…» disse ad alta voce, mentre si sfilava l'Adidas e
si massaggiava il piede dolorante.
Era talmente assorta che non sentì il motore di
un’auto, che procedeva a passo d’uomo, che si avvicinava da dietro la curva. Ad un tratto una nuvola di
polvere fine, spinta da un leggero vento, la fece tossire. Si girò ed intravide, gli occhi accecati dal sole,
la sagoma di una macchina ferma ad un metro da lei.
Scesero due sagome, sicuramente uomini, ma non
riuscì a distinguerli bene per il riverbero. Sentì solo
che uno dei due diceva: «Ha bisogno d’aiuto…?»
Si meravigliò, ma la situazione nella quale si trovava, seduta con il piede nudo che stava massaggiando, non lasciavano dubbi. In effetti ne aveva bisogno.
«Ha bisogno d’aiuto…, commissario…?» disse
nuovamente la voce, ormai a pochi metri da lei.
Non conosceva nessuno in quel posto. Ma il tono
le parve familiare. E poi quel commissario… Quando l’uomo arrivò a due metri da lei lo vide distintamente, un tenente in divisa dei carabinieri. Scoppiò
in una fragorosa risata.
«Tu!… Ma che ci fai qui…?»
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Antonio Ballerini, conosciuto ad una conferenza
di interscambio delle polizie europee a Milano, era
sull’attenti, la mano alla visiera del berretto per il saluto.
«Tenente Antonio Ballerini, comandante della
Compagnia dei Carabinieri, agli ordini dell'ispettore
capo divisionale Agnès Didier, facente funzioni di
commissario, squadra criminale di Parigi!»
«Prego…, ora sono commissario divisionale...»
«Promozione recente…, complimenti!»
Si strinsero la mano calorosamente, continuando
a ridere. Quello che lo seguiva si avvicinò, presentandosi.
«Maresciallo Ferrara, agli ordini commissario…»
tornando subito verso l’auto, richiamato dal gracchiare della radio.
«Sono in vacanza, naturalmente in incognito... E
guarda chi ti trovo…»
«Ti dispiace…?»
«Al contrario, ma tutto mi sarei aspettato, che rivederti qui...»
«Sono stato trasferito qui da Milano, da circa un
anno. Poco dopo quella conferenza...»
«Ma un tenente che comanda una compagnia
vuol dire rapida carriera... Non dovrebbe esserci un
capitano…?»
«Certo... Vuol dire che tra un anno potrei esserlo...»
27
«Lo sarai certamente... Ma dovrai sopportare un
nuovo trasferimento.»
«Purtroppo...»
«Non ti lamentare... Sei ancora giovane...»
«Ed ancora solo...» commentò lui.
Didier rammentò i pochi giorni passati insieme,
ancora un bel ricordo e, anche se non erano riuscita
ad approfondirla, una particolare reciproca simpatia.
Averlo trovato lì, a pensarci bene, le faceva veramente piacere.
«Come va il tuo piede…? Puoi camminare…?»
Didier lo poggiò con cautela ma una smorfia di
dolore, un po’ esagerata per la verità, confermò che
non sarebbe stata in grado di tornare a piedi per un
così lungo percorso.
«Dovremo motivare l’uso della macchina di servizio con un intervento per un infortunio...» disse
maliziosamente lui.
«Ti ringrazio… A proposito, acqua in bocca…
per tutti vorrei restare una turista... Un impiegato
dello stato francese in vacanza, dillo anche al maresciallo...»
Antonio annuì rassicurandola. Mezz’ora dopo,
un’auto dei carabinieri lasciava un’anonima turista
francese al pronto soccorso dell’ospedale per una visita di controllo, causa piccolo infortunio. La forma
ed il regolamento erano salvi.
28
7 Agosto - lunedì pomeriggio
Il ritorno dall'ospedale in albergo non era stato faticoso, il percorso era tutto in discesa. Una stretta fasciatura ed una pomata, avevano risolto il problema,
meno grave di quello che Didier aveva voluto mostrare ad Antonio. Si dovette limitare a rinfrescarsi
alla meglio. Non poteva usare la doccia per la fasciatura. Ciò nonostante si sentiva fresca e riposata,
mentre ordinava pappardelle al sugo di lepre a
Gemma che, appena vistala entrare nella sala, si era
avvicinata. Pranzò con appetito e per risparmiare il
piede, decise che si sarebbe riposata un paio d'ore.
Quando si svegliò si accorse che Morfeo era stato
sin troppo generoso con lei. Erano le sette passate.
Tornando con l'auto dei carabinieri, si era accorta
che avrebbe potuto fare una strada molto più corta
dell'andata, per rientrare in paese. Solo alcune centinaia di metri. Ma lei non era ancora pratica dei luoghi e sicuramente se non le fosse capitato quell'incidente, avrebbe fatto il percorso più lungo a ritroso.
Decise quindi di approfittare delle nuove conoscenze
per tornare dove Antonio l'aveva trovata. Aveva notato una specie di cippo con un'iscrizione, quello sul
quale si era seduta per massaggiarsi il piede. Era curiosa di saperne di più. Si cambiò ed uscì allegramente, verso nuove scoperte.
29
7 Agosto - lunedì notte
Il morto era lì, davanti a lei, appena fuori dal viottolo che stava percorrendo, addossato ad un grosso
albero e raggomitolato su di un fianco. Una vistosa
ferita sulla nuca destra, il sangue ormai rappreso copriva parte del volto. Dalla cintola in giù era semicoperto dalle felci, che creavano intorno un fitto sottobosco. Una camiciola rossa a maniche corte e sicuramente un paio di jeans. Intravide i piedi, che teneva uniti come le ginocchia, ed un paio di mocassini
senza calze. Capelli chiari, carnagione chiara, come
le braccia. Doveva aver avuto poco a che fare con il
sole.
Stentava quasi a crederlo, eppure era vero, come
vero era il mondo che la circondava; vera la possente costruzione medioevale che svettava silenziosa
sopra le cime degli alberi che il primo giorno aveva
visitato entusiasta; vero il chiacchiericcio poco lontano dell’acqua di una cascatella nella quale, nel
mezzodì, aveva anche bagnato i piedi stanchi dal
cammino; vero il bagliore, quasi accecante e sornione della luna di mezz’agosto che illuminava il viottolo, lei ed il suo morto. Quasi come un abbraccio.
Intorno a loro due, solo il verde acceso delle piante
illuminate dalla luna e la stradina bianca e deserta
che, davanti e dietro di lei, spariva tra le piante.
Didier si guardò intorno, ancora incredula e come
in trance. Non a lei, proprio a lei pensò, doveva capitare tutto questo. Fuggire da Parigi per dimenticare
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il suo lavoro, i problemi quotidiani, sembrava non
essere servito a nulla. Nello stesso tempo si domandava il perché. Perché aveva voluto ripercorrere di
notte lo stesso cammino della mattina? Non le era
bastato l’incidente? C’era qualcosa di misterioso ed
imperscrutabile che l’aveva riportata di nuovo in
quel posto? Ma cosa? E per quale motivo?
Poi il mestiere prese il sopravvento sulle fantasie
etrusche. Che quello fosse morto già da un po’, non
aveva dubbi. Che poi fosse morto in modo incruento, per un’aggressione, tutto lo faceva presumere.
Senza toccare nulla si era chinata su di lui, il più vicino possibile, appoggiando il peso del corpo sul
braccio sinistro la mano aggrappata ad un provvidenziale ramo che sovrastava il corpo. La parte scoperta del viso illuminata mostrava, oltre il sangue
rappreso, un pallore che si chiamava morte. La riconosceva senza esitazione. Non c'era bisogno di toccarlo. La ferita appariva essere stata provocata da
qualcuno che fosse mancino. Si raddrizzò con una
certa fatica da quella acrobatica posizione, facendo
forza sui piedi che aveva avuto cura di non spostare
mai dal bordo del vialetto. Estrasse dallo zainetto il
portatile. Compose un numero, che avrebbe voluto
usare per altri motivi molto più piacevoli ed attese.
Due carabinieri arrivarono in auto dopo
mezz’ora, senza chiasso, come aveva suggerito lei
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parlando con Antonio. Scesero dall’auto ed i fregi
sulle divise s’illuminarono sotto il bagliore lunare.
«Buonasera commissario, maresciallo Ferrara…»
disse il primo portando la mano alla visiera per il saluto.
L’altro gli fece subito eco, «Brigadiere Chicchi…» portando la mano alla visiera.
Didier, allontanatasi dal morto di alcuni metri,
per andare loro incontro, indicò con la mano il luogo
del ritrovamento. I due, aiutandosi con due torce elettriche, illuminarono meglio il corpo facendo attenzione a rimanere con i piedi sul viottolo di terra
battuta. Dopo un rapido esame, il brigadiere Chicchi
tornò verso l’auto estraendo dal portabagagli un rotolo colorato e due segnalatori notturni. In silenzio
pose i segnalatori uno ad una decina di metri salendo
verso il paese, l’altro una diecina di metri dopo la
loro auto. Con l’aiuto del maresciallo e di Didier, i
tre cercarono di delimitare un ampio spazio intorno
al morto con il nastro colorato, mentre Didier riferiva del suo imprevisto incontro notturno. Il maresciallo tornò verso l’auto e cominciò a parlare al radiotelefono.
Quando rientrò in albergo, era esausta. Era ormai
notte fonda e forse nessuno aveva notato l’auto dei
carabinieri che l’aveva accompagnata fin sulla porta,
ripartendo silenziosamente come era arrivata. Di tut32
to aveva bisogno in quei momenti, fuorché di pubblicità paesana. Cercò nello zainetto la chiave del
portoncino che era già chiuso. Tutti dormivano. Sarebbe rimasta anche senza cena. Dopo una doccia,
prima fredda, poi calda e nuovamente fredda, si lasciò cadere completamente nuda su morbide e fresche lenzuola di lino. Il sonno la rapì e la condusse
per castelli e saloni con armigeri. Ogni luogo era illuminato solo dal chiarore della luna. Non c’erano
fuochi accesi. Solo un bianco, accecante, chiarore
lunare.
33
Gaston J. Algard
Uno scrittore dalla vita avventurosa
Gaston Javier Algard, figlio di un cittadino britannico e
di una cittadina filippina, è nato nel 1938 in un villaggio
nel nord delle Filippine durante la II Guerra Mondiale,
poco prima dell’invasione giapponese. Tuttavia, per gli
imprevedibili fatti della vita, dopo la nascita è sempre
vissuto in Europa. Infatti suo padre, funzionario del Foreign Office, dovette partire per non essere fatto prigioniero portando con se il figlio per proteggere sia il ragazzo che la madre dalle ritorsioni dei giapponesi. Sua
madre volle restare in patria per non abbandonare gli
anziani genitori. Il padre, impossibilitato ad accudire al
figlio per i pericoli insiti nella propria attività
d’intelligence, lo affidò ad un cugino italiano che per
difendere il ragazzo dalle leggi fasciste italiane che lo
avrebbero considerato un nemico, lo registrò al municipio come figlio suo e della moglie. Essendo nel frattempo ambedue i genitori morti per eventi bellici, Algard è
cresciuto con la nuova identità italiana.
Laureato in Statistica ed in Giurisprudenza con tesi in
criminologia, ha lavorato per molti anni sia come consulente d’imprese europee, che per magistrati in delicate
inchieste ed in attività arbitrali. Tornato nelle Filippine,
Algard ha riottenuto il nome e la nazionalità d’origine.
Negli ultimi dieci anni ha scritto molti romanzi. Oggi
vive tra la Svizzera, Malta e le Filippine.
Lo scrittore Algard
L’Autore sembra avere una speciale conoscenza della mentalità
criminale, perché il delitto e la
malvagità si nascondono spesso
dove non appare. Le sue storie non
sono dei thriller classici o dei polar
alla francese. Si può certamente
parlare d’inchieste ma nello stile d’Algard che, con
fine ironia, fa emergere a volte il lato umoristico di
avvenimenti a prima vista seri. L’Autore, assiduo lettore di libri storici e polizieschi, pur conoscendo francese
ed inglese scrive i suoi racconti in italiano perché dichiara che questa lingua gli consente maggiore duttilità
nella narrazione. Le storie di Algard sono reali ed immerse nel quotidiano in un continuo rapporto con l'umana debolezza, facendoci capire il perché alcuni arrivino a commettere crimini o delitti. Il tutto senza nulla
togliere alla tensione emotiva del lettore, che si sente
obbligato a girare la pagina per conoscere il seguito
della vicenda.
Katherine Goldsmith
www.algardproductions.com
[email protected]
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