leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
Gemma Townley
Le piccole bugie
del cuore
Traduzione di
Laura Melosi
Ai miei genitori, con amore.
Titolo originale:
Little White Lies
Copyright © 2005 by Gemma Townley
All rights reserved
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è
puramente casuale.
http://narrativa.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
Prima edizione: marzo 2014
Ristampa
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Anno
2018 2017 2016 2015 2014
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Vorrei farvi una domanda. Una domanda teorica, abbiate pazienza. Aprireste mai la posta di un’altra persona? No? Certo
che no, lo sapevo.
Okay, supponiamo però che sia una lettera molto speciale.
Una lettera dall’aria intrigante dentro una busta di carta color
crema con l’indirizzo scritto a mano e nessun mittente sopra.
E supponiamo che la lettera sia arrivata a voi. Per una specie
di errore. E che voi non abbiate proprio modo di inoltrarla alla
destinataria.
Ancora nessuna tentazione?
Perfetto. Be’, diciamo anche che la persona a cui la lettera
è indirizzata è socia di uno dei club più esclusivi di Londra e
ha una vita sociale fantastica. Voi invece siete molto annoiate
perché vi siete appena trasferite in una nuova città e la vostra
vita sociale non è esattamente spumeggiante. E supponete di
dover vedere quella lettera un giorno dopo l’altro, appoggiata
sulla mensola del vostro camino.
Immaginate, se volete, che a casa vostra continuino ad arrivare decine di lettere indirizzate a questa persona e che voi
decidiate di mettergliele da parte, anche se è poco probabile che
venga mai a richiedervele.
E diciamo anche che la vera destinataria delle lettere ha la5
sciato l’appartamento in cui vivete da oltre un mese e riceve
comunque più telefonate di voi.
Ancora nessuna tentazione? Neanche minima?
No? No, certo che no. Nemmeno io.
Buuum, buuum. Ah, ah, già.
Il soffitto vibra tutto, il che significa che Alistair, il tizio che
vive sopra di me, sta dando un’altra festa. È un’ora che cerco
di leggere La fiera della vanità – il libro preferito di mia madre – ma tutte le volte che arrivo alla fine di un paragrafo mi
rendo conto di non aver capito niente e devo tornare indietro e
ricominciare da capo. Ed è un peccato perché è un libro fantastico e voglio sapere cosa succederà. Finora la scaltra e perfida
arrampicatrice sociale Becky Sharp manipola tutti quelli che ha
attorno, e ogni cosa sembra incentrata sui soldi e la virtù: più
un personaggio ne possiede, meglio sta, anche se i soldi senza
la virtù sono preferibili alla virtù senza i soldi. È affascinante,
ma non posso fare a meno di pensare che ho una bella fortuna
a vivere in un’epoca più illuminata.
Provo di nuovo a leggere, ma è inutile: Becky Sharp non riesce a catturare la mia attenzione visto che in testa mi rimbomba
un ritmo hip-hop. Forse è meglio passare a una rivista.
Cercando di ignorare la musica a tutto volume e le risate
che arrivano dall’appartamento di sopra, prendo una copia di
Elle e mi imbatto in un articolo sullo space clearing. “Svuota il
guardaroba e sarai un’altra persona!” suggerisce. Questa sì che
è un’idea. Sarebbe un modo costruttivo di passare un’oretta.
Anche se non era proprio così che mi sarei aspettata di trascorrere il sabato sera a Londra quando ho deciso di trasferirmi qui. In preda all’euforia, ho dato le dimissioni il mese
scorso dicendo al mio capo che mi sarei stabilita in città e che
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lui non poteva fare niente per convincermi a cambiare idea. È
stato bellissimo entrare nel suo ufficio con un sorrisetto che mi
spuntava sulle labbra. Mi aspettavo quasi una standing ovation
e una colonna sonora in sottofondo, o magari che saltasse fuori
Richard Gere e mi portasse via travolgendomi di baci. Sapete,
non sono il tipo che pianta baracca e burattini così, su due piedi.
Sono sempre stata una brava ragazza, semplice e prevedibile.
Nessuno se lo aspettava – e io meno che mai. Ma la vita ha un
modo strano di buttare tutto all’aria, no? Le cose non andavano
benissimo a Bath, dove lavoravo e vivevo con il mio fidanzato,
e quando ho accennato a mia madre che pensavo di trasferirmi
a Londra, lei era così contenta che non ho più potuto tirarmi
indietro. Anche se ero impaurita da morire.
Ma come dice mia madre, la vita è una sola, per cui devi
afferrare al volo ogni occasione. Anche se questo ha significato
lasciare gli amici, la famiglia, il lavoro… E poi mia madre ci
teneva tantissimo, un tentativo dovevo pur farlo. Fin da quando
era bambina sognava di trasferirsi a Londra e vivere “nell’alta
società”, per dirla con parole sue. Ma non l’ha mai fatto: si è
sposata, ha avuto dei figli e in un battibaleno si è lasciata sfuggire l’occasione. E dato che papà detesta stare lontano dai prati
verdi, alla mamma non capita neanche molto spesso di visitare
Londra. Capisco mio padre, però: le grandi città possono essere
luoghi spaventosi.
Comunque il fatto è che adesso a Londra ci vivo io. E non
posso stare qui seduta ad ascoltare musica che arriva da una
festa a cui non sono stata invitata. Devo fare qualcosa. Mia
madre sarebbe così delusa se sapesse che ho passato un mese
intero chiusa in casa ogni sera. Devo almeno provarci, e farle
assaporare un pizzico di vita londinese.
È stato bello abbandonare l’impiego alla Shannon, l’agenzia
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pubblicitaria dove lavoravo, sapendo che non avrei più passato
il venerdì sera al pub a spettegolare sul nuovo direttore, che
chiamava tutti “dolcezza” con quel suo tono di voce estremamente irritante e condiscendente. Che non avrei più dovuto
indossare la minigonna tutte le volte che avevamo una presentazione. Che non avrei più avuto bisogno di domandarmi se un insoddisfacente lavoro a Bath fosse il massimo a cui
potevo aspirare. No, stavo prendendo in mano le redini della
mia vita. Stavo lasciando la campagna del Somerset con la sua
atmosfera super rilassata ma in realtà piuttosto meschina. Ed
ero al settimo cielo.
Forse avrei dovuto sistemare qualche dettaglio pratico in più
prima di trasferirmi, ma mi sono fatta trascinare un po’ dall’entusiasmo e dall’idea romantica di arrivare in una grande città
con una valigia sola. Ero l’eroina della mia piccola storia. Non
volevo accontentarmi e accettare la triste realtà. E avevo intenzione di dimostrare a mia madre che potevo farcela – sono la sua
unica figlia, per cui sta a me renderla orgogliosa. Certo, bisogna
dire che non ho un gran lavoro al momento – sempre meglio
di niente, anche se non è quello che mi aspettavo. Lavorare in
un negozio però non è male. E ho comprato anche il Guardian
per cercare occasioni di lavoro nel campo della pubblicità. O
almeno ne avevo intenzione. Devo solo risolvere il problema
della vocina dentro di me che continua a ricordarmi che in
realtà non mi è mai interessato molto lavorare nella pubblicità.
Mi concentro sull’articolo. A quanto pare gli armadi sono
una finestra sull’anima. Se la vostra anima non è come nuova,
scrive l’autore, come potete aspettarvi che lo sia la vostra vita?
Mmm. Spero non sia vero. Il mio guardaroba è in condizioni
tremende. È piccolo, angusto e pieno di orribili grucce di filo
di ferro.
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Andando in bagno, mi passa per la testa che buttare via tutto
e cominciare da capo non sarebbe una cattiva idea. Potrei davvero svuotare la casa: nuova vita, nuovo guardaroba. E dopo aver
riorganizzato tutto, magari anche la mia esistenza comincerà
ad andare nel verso giusto.
Anche se… fisso il guardaroba domandandomi da dove
cominciare. Dopo tutto non è esattamente un’ideona. Non ho
soldi per dei vestiti nuovi, e che senso ha buttare via tutto se non
puoi andare subito a fare shopping per comprare meravigliosi
abiti che miracolosamente riducono il girovita e fanno sembrare
le gambe più lunghe?
Dopo qualche secondo di esitazione torno sul divano. Non
è una cosa urgente, e poi adesso non è il momento migliore per
passare in rassegna il mio armadio. È sabato sera, per l’amor
del cielo. Dovrei fare qualcosa di divertente.
Buuum buuum, ah ah ah, ah ah ah, sì, yeah.
Mollo la rivista. La musica è esageratamente alta e non c’è
modo di concentrarsi. Magari dovrei cucinare. Potrei provare
una nuova ricetta o qualcosa del genere – dico sempre che non
ho tempo per cucinare come si deve, e adesso è l’occasione
giusta.
Detto questo, la mia cucina non è certo il posto più adatto
per cucinare. La chiamo cucina, ma in realtà si tratta di un piccolo spazio attaccato al salotto, dotato di lavandino, frigorifero
e fornelli. Poi c’è un tavolo a cavallo fra i due ambienti e… be’, è
tutto qui in effetti. Non c’è posto per una credenza, e ho dovuto
sistemare le scatole di cereali sugli scaffali della libreria perché
non c’era altro spazio dove metterle.
È così che succede a Londra. Vedi l’annuncio di un appartamento nella vetrina di un’agenzia immobiliare (“Appartamento
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alla moda in Ladbroke Grove, una camera da letto, perfetto per
le feste”), e credi di aver trovato una casa tipo quella di Monica
in Friends. E poi vai a vederlo e il “perfetto per le feste” in real­
tà si traduce in “la cucina è nel salotto, per cui è tutto molto a
portata di mano”.
Potrei sistemare un po’ meglio la casa: è un tantino spoglia,
lo so. Ma il fatto è che non ho niente con cui abbellirla. Sono
arrivata da Bath in treno trascinando con fatica i vestiti, figuriamoci cose tipo foto o libri. E poi non volevo portarmi dietro
tutto il mio bagaglio – in senso fisico e metaforico. Trasferirsi
in una nuova città significa cominciare una nuova vita e tenere
con me i ricordi di Bath avrebbe vanificato tutto. I miei vecchi
mobili sono solo vecchi mobili, per l’appunto. Fanno parte della
mia vecchia vita con Pete. Pete è il mio ragazzo. O meglio, ex ragazzo. È uno dei motivi per cui mi sono trasferita. Come ho già
accennato: non voglio accontentarmi e accettare la triste realtà.
Eppure non ci sono scuse per non rendere la casa più vissuta,
più personale, dopo tutto è già un mese che vivo qui. Il guaio è
che non riesco mai a decidere cosa significhi uno stile “personale”. Opto per uno stile moderno ed essenziale con i divani in
pelle e i tappeti a pelo lungo? Pete avrebbe venduto sua nonna (o
me, a essere sincera) per un appartamento moderno e luminoso
con tanto di divano in pelle, enorme televisore con schermo al
plasma e un’immensa doccia dalla cabina di vetro. A un certo
punto abbiamo anche aperto un conto in comune con l’idea
di comprare casa. Ma non abbiamo mai risparmiato granché:
c’erano sempre cose più importanti, tipo l’abbonamento allo
stadio (per lui) e le scarpe (per me). Forse nessuno di noi due
voleva davvero comprare casa. Non seriamente.
Stavo dicendo, c’è lo stile moderno, ma non sono sicura che
mi rispecchi. E poi c’è lo shabby chic che in ogni caso, siamo
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realisti, è più adatto al mio budget. Da quando mi sono trasferita, tutti i risparmi che avevo raggranellato sono scemati
rapidamente. Il vintage funzionerebbe senz’altro in questo appartamento. E inoltre è un bel po’ di tempo che non vivo da sola
e mi piacerebbe creare un ambiente esageratamente femminile, visto che ora posso. Non c’è una Playstation da sistemare
da qualche parte, né nessuno che sostenga ostinatamente che
i motivi a fiori fanno tanto vecchietta. Mi potrei creare un bel
nido, tutto per me.
Ma sono davvero così femminile? Non ne sono del tutto
convinta. Non indosso mai niente di rosa e non mi è mai importato nulla dei maglioncini di cashmere quando ero al liceo.
Ero più un maschiaccio, un disastro totale. A dire il vero, ho capito cosa significasse prendersi cura di sé solo durante il primo
semestre all’università. È talmente semplice che non so perché
non ci fossi arrivata prima: se passi un’ora a sistemarti i capelli
e a metterti un po’ di trucco, i ragazzi ti notano di più. Semplifica la vita anche ridere alle loro battute invece di prenderli in
giro: questo l’ho imparato nel secondo semestre. Che scema!
Quando sono tornata a casa sapevo tutti i trucchi del mestiere.
Ed è stato allora che Pete finalmente si è accorto di me. Per la
prima volta in assoluto è venuto a parlarmi come si parla a una
ragazza piuttosto che a “uno dei suoi amici”. Praticamente ero
sempre stata innamorata di lui (be’, da quando avevo più o meno tredici anni), ma lui mi aveva sempre considerato un’ami­ca.
E sin dal principio per attirare la sua attenzione sarebbe bastato
mettermi un po’ di rossetto e agitare la chioma di capelli lucidi.
L’ avrei considerata una scocciatura incredibile se non fossi stata
strafelice di essere finalmente notata da Pete.
Ovviamente l’altra opzione per arredare la casa è lo stile
etnico-indiano: tavoli di teak, tappeti rosso scuro dalle fantasie
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orientali e bastoncini di incenso. Ma ancora una volta, si tratta
di decidersi e mettersi in azione. C’è un negozio in Portobello
Road che vende un sacco di tavolini e tappeti che non costano
troppo.
Immagino che prima o poi prenderò una decisione. Ma fino
ad allora dovrò farmi bastare quello che ho.
Mi guardo intorno in cerca di ispirazione. Ci sono due libri
sul bracciolo del divano. Il mio stereo, che ha visto momenti
migliori, è per terra circondato da cd e cassette. Uno specchio
lasciato dal proprietario se ne sta appeso sconsolato sul muro,
riflettendo la parete vuota con tanto di vernice scrostata e buchi a indicare dove dovrebbero stare i quadri. Poi c’è una pila
di lettere ammucchiata sopra il camino, ma nessuna è per me.
Quando ho preso in affitto la casa per sei mesi, il proprietario
mi ha chiesto di conservare tutta la posta di Cressida, l’inquilina
precedente, “nel caso torni”. Il che è stato un tantino sconcertante, a dire il vero. È come se non fosse il mio appartamento, come
se io dovessi semplicemente prendermene cura per la persona
che ci viveva prima. Ma la cosa peggiore è che lei riceve molta
più posta di me.
Magari mi servirebbero delle foto appese al muro. Un telo
da mettere sul divano. Poi potrei togliere la moquette e sabbiare
il pavimento o magari comprare un enorme tappeto per creare
un ambiente accogliente…
Non so proprio come la gente riesca a prendere con tanta
disinvoltura decisioni su faccende importanti come l’arredamento. È come se avessero la certezza che c’è un solo modo
per fare le cose, ovvero il loro. Prendiamo i miei genitori. Mio
padre ama la musica classica e non sopporta i bar o i pub pieni
di confusione. Gli piace andare in vacanza solo se può guidare
perché ha paura dell’aereo. Gli piace il cibo inglese tradiziona12
le e legge biografie invece che romanzi. Alla mamma, d’altro
canto, piacciono il cibo italiano, i ristoranti eleganti, i mobili e i
tessuti in stile country, le vacanze in Europa e i film con Michael
Caine. Capisco subito i loro gusti perché sono così netti, così
decisi. La mamma dice sempre: «So cosa mi piace e mi piace
quello che so» ed è vero. Io però vorrei chiederle: «Come? Come
fai a capirlo? Come puoi esserne così sicura?».
Vedete, anche a me piace il cibo italiano, ma apprezzo pure
quello cinese, giapponese, inglese e francese. Sono stata vegetariana e vegana, ma ho seguito perfino una dieta proteica (con
tante ma proprio tante bistecche). Mi piacciono le commedie
romantiche con Meg Ryan, ma amo anche i film francesi e i
thriller. Mi piace andare in giro per locali, ma anche starmene
in casa. Mi piacciono i pranzetti intimi a due, ma anche le feste
scalmanate. A volte mi vesto da capo a piedi di colori neutri
come beige e cammello, altre invece sono variopinta come un
arcobaleno. E non so mai cosa preferisco.
E poi c’è Pete. Insomma, pensavo mi piacesse. Pensavo di
amarlo. Ma non ne sono mai stata sicura. O forse non sono mai
stata sicura che lui amasse me?
Be’, in ogni caso torniamo alla cucina. Vediamo… Apro lo
sportello del frigo. Due uova, un po’ di sedano (molto disintossicante a quanto pare, vorrei solo non avesse quel saporaccio) e
del pane. È tutto quello che ho? Apro lo scomparto del freezer e
vedo la pizza che ho comprato da Fresh’n’Wild l’altro giorno. E
subito mi vengono in mente ottimi motivi per non “cucinare un
piatto elaborato”: tanto per cominciare cucinare è una perdita
di tempo; in più non ho niente di buono in frigo; infine non ne
ho proprio voglia…
Dio, è assurdo. Sono a casa di sabato sera. Non sarà un dramma, giusto? E allora perché sono così nervosa? E perché mi
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viene un nodo allo stomaco sentendo la musica di Alistair?
Insomma, è vero che il volume è alto, ma siamo a Notting Hill.
La gente organizza feste, no? Che c’è di male?
C’è una vocina dentro di me che continua a dirmi che è colpa
mia se sono da sola di sabato sera. Che se mia madre fosse qui
adesso (e, ovvio, con vent’anni di meno) avrebbe partecipato
attivamente alla festa invece di subirla. Che non ce la farò mai
a sfondare a Londra e appena finiti i soldi tornerò a casa con la
coda fra le gambe.
Ah ah, buuum buuum, ah ah, sì, yeah.
Io e Alistair ci salutiamo di tanto in tanto. Ma la cosa finisce
lì… anche questo non è del tutto vero: sono io quella che lo
saluta sempre e lui contraccambia con una specie di sorriso.
Alistair però è molto sexy, anche se non è il mio tipo: tanto per
cominciare è troppo trendy. Indossa un paio di occhiali neri alla
Buddy Holly e una specie di completo di jeans scuro. Credo sia
un designer o un artista perché si porta sempre dietro un portfolio. È così londinese! Un tipo simile non si vedrebbe mai a Bath.
Probabilmente dovrei smetterla di farmi intimidire da ciò
che è tipicamente londinese. Gli altri qui non la fanno tanto
lunga e non si entusiasmano per una banalità come la metropolitana. Immagino che prima o poi mi ci abituerò anch’io, ma
dovete capire che sono cresciuta in un paesino con mia madre
che ogni notte mi raccontava storie sulle luci sfolgoranti, il pericolo e l’eccitazione della grande città. Arrivata all’adolescenza
ero convinta che la vita cominciasse e finisse a Londra e che
essere bloccata nella campagna inglese fosse la cosa peggiore
che potesse mai capitarmi. Appartenere a una piccola comunità
ha i suoi pregi. Ma riuscite a immaginare di vivere in un posto
dove tutti sanno quale libro stai leggendo, dove la vicina si con14
gratula con te il giorno delle tue prime mestruazioni, dove tutti
quelli che vivono nella tua stessa strada sanno il voto che hai
preso a ogni singolo esame all’università? Credetemi, è soffocante. Quando sono cresciuta mi sono trasferita a Bath, la città
più vicina. Ma non è certo un posto entusiasmante. È piena di
turisti e tutti la definiscono “carina”. Be’, sono stufa della roba
carina. Voglio roba tosta, esilarante, scatenata.
Ma anche Bath è una città molto piccola, soprattutto quando
è appena finita una storia. E in modo particolare se la ragione
per cui è finita è che lui ti tradiva, e non puoi più entrare in un
bar o in un ristorante senza guardarti intorno con aria furtiva
temendo di trovarlo lì con un’altra.
Mi metto a scorrere i miei cd e i vecchi nastri: c’è tutto, da
Stan Getz agli White Stripes. Mmm. Björk… è un po’ che non
l’ascolto… ma forse è troppo coinvolgente. Gli Air…? No, troppo melodiosi. È questo il guaio con gli album secondo me: devi
limitarti a uno specifico stato d’animo. So che è da sfigati, ma
amo le compilation, anche se non lo ammetterei mai. Apprezzo
la varietà, e poi così non devo decidere se ascoltare un artista o
un altro. Con le dita mi soffermo su una vecchia compilation
che ho registrato all’università e la tiro fuori. Ho passato una
vita a preparare cassette per le mie amiche: era il mio sistema
di comunicazione prediletto. La giusta miscela di canzoni può
esprimere, più di qualsiasi frase, concetti del tipo “Starai molto
meglio senza di lui” o “Sei un’amica fantastica e mi dispiace di
aver rovinato la tua maglia preferita”. Questa è una compilation
tipica dell’epoca: un paio di pezzi strappalacrime come Unbreak
My Heart, alcuni brani dei Breeders e di PJ Harvey che coglievano perfettamente la mia angoscia adolescenziale, qualche pezzo
da ballare e una canzone rétro di una band sconosciuta che non
c’entra nulla con le altre e che avevo inserito solo per dimostrare
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quanto ero figa. I cd utilizzano una tecnologia fantastica, ma il
rovescio della medaglia è che nessuno passa più tanto tempo a
registrare compilation sulle cassette. Scaricare le canzoni in una
manciata di secondi non è lo stesso che registrarle manualmente,
ascoltando ogni singolo pezzo e premendo il tasto “pause” giusto
in tempo alla fine di ogni brano. Magari i nastri non sono così
male dopo tutto, anche se lo stereo se li mangia regolarmente.
Contenta di aver preso una decisione alla svelta, metto su la
cassetta e mi distendo sul divano decisa a rilassarmi e a sfruttare
al meglio la serata. È solo un contrattempo, mi dico. Quanto è
che abito a Londra? Un mese. Poco più di quattro settimane. Non
posso aspettarmi di avere già una vita sociale. Per queste cose ci
vuole tempo. Ho vissuto in un paesino per ventisei anni per cui
non c’è da meravigliarsi se non rimanevo mai una sera in casa.
Mi ritrovo a pensare con nostalgia all’appartamentino in cui
vivevo con Pete a Bath, al camino scoppiettante che mi teneva al
caldo quando lui era fuori a fare qualunque cosa stesse facendo
(o meglio a farsi qualunque donna si stesse facendo). Ma poi, mi
dico, non ero davvero felice. Avevo gli amici e la mia famiglia
accanto, ma ero sempre sola. E certo, ero invitata a tutte le feste,
ma c’era sempre la stessa gente che parlava sempre delle stesse
cose. Tutti conoscevano tutti – a dire il vero, tutti erano stati con
tutti. Non c’era mai niente di entusiasmante, di coinvolgente e
non esistevo come Natalie ma solo come “Nat & Pete”. Non potevo essere anonima né ricostruirmi un’identità. Mentre qui…
be’, sicuramente qui non ho nessun problema di anonimato. E
se il piatto della bilancia pende un po’ troppo, sono sicura che
alla fine si riequilibrerà. Alzo un po’ il volume dello stereo. C’è
un pezzo degli Indians adesso: Life Ain’t a Bed of Roses. La vita
non è un letto di rose. “Non ditelo a me” penso sconsolata. Ma
guardiamo il lato positivo. Mi sono trasferita. Non vivo più a
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Bath, città di Jane Austen, di antiche rovine, di acque termali
dal sapore strano e di campi sconfinati. Non sono più Natalie
di Bath, sono Natalie di Notting Hill.
Squilla il telefono e salto giù dal divano per rispondere. C’è
solo una manciata di persone che potrebbe chiamarmi. Mia madre, ma le ho parlato ieri sera e lei di solito non telefona mai per
due giorni di fila; Chloe, la mia migliore amica, ma anche questo
è poco probabile, sarà fuori da qualche parte, oppure… Pete. Ci
siamo sentiti più o meno una volta alla settimana da quando mi
sono trasferita e le nostre telefonate sono sempre identiche. Partiamo dicendo che ce la caviamo alla grande e siamo felicissimi,
quindi parliamo di lavoro, delle nostre famiglie – di qualsiasi
argomento neutro ci venga in mente – e poi lui tutte le volte
dice: «Non ho ancora capito perché te ne sei andata. Torna qui,
no? Ci divertivamo». E io rispondo qualcosa tipo: «No, eri tu a
divertirti e la maggior parte delle volte non con me». Allora lui
comincia a darmi della paranoica, io mi metto sulla difensiva e
lo accuso di essere andato a letto con altre donne, e in men che
non si dica cominciamo a litigare come abbiamo fatto per quasi
tre anni. Dopo un po’ finisco in lacrime. La storia con Pete l’ho
superata, davvero, solo che mi agito pensando al tempo che ho
perso con lui. Convinta che provasse i miei stessi sentimenti.
«Pronto?» rispondo speranzosa. Litighiamo, sì, ma non significa che non abbia voglia di sentirlo.
«Pronto? Parlo con Cressida Langton?» chiede una donna
con voce frizzante.
Mi sento sprofondare. Okay, l’altra possibilità era che la
telefonata non fosse per me, cosa piuttosto scocciante dato
che sono l’unica a vivere qui. Adesso vorrei aver cambiato
numero di telefono. Non l’ho fatto perché costa quaranta sterline e quando sono arrivata pensavo non fosse un problema
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mantenere quello vecchio. Se solo Cressida non ricevesse più
telefonate di me. Eppure è meglio così: se fosse stato Pete,
magari avrei ammesso di sentirmi giù di morale. Sarebbe stata
una catastrofe.
«No» dico cercando di non far trapelare la delusione dal mio
tono di voce. «Se n’è andata un mese fa.»
«Oh. Ha per caso un numero dove posso rintracciarla?»
«No, mi dispiace» dico per la decima volta questa settimana. Cressida non ha pensato di dare il suo nuovo numero di
telefono agli amici?
«Be’, è un peccato» continua la donna molto irritata. «Chiamo dal Nobu. Cressida ha prenotato un tavolo per stasera e
vorrei sapere se tenerglielo o meno.»
«Nobu?» È semplicemente il ristorante più caro di tutta Londra. Cressida doveva andare lì stasera? Wow! All’improvviso ha
acquistato molti punti ai miei occhi.
«Sì» dice la donna.
«Bene» commento dopo un attimo di silenzio. Non riesco
a credere di essere al telefono con il Nobu. «Be’, mi dispiace di
non poterla aiutare.»
«No, be’, allora non importa.»
E con questo riattacca.
Aha aha, aha aha. Buuum, sì, yeah.
Rimango a fissare il telefono per qualche secondo cercando
di immaginare una cena al Nobu. Cressida probabilmente è
una londinese superglamour. Glamour e ricca. Chissà con chi
doveva andarci.
Poso lo sguardo sulla pila di inviti per lei. All’improvviso
mi sembrano molto più interessanti. Mi domando che tipo di
lettere riceva una persona che va a cena al Nobu.
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Mi avvicino lentamente e prendo le buste. Sembrano piuttosto banali. Ma ce n’è una grande e marrone che ha un’aria
intrigante e una piccola color crema con l’indirizzo scritto a
mano. Poi c’è un catalogo in un involucro di plastica trasparente. Lascio il resto delle lettere lì dove sono e torno sul divano
portandomi dietro le due buste dall’aria intrigante e il catalogo.
Suppongo di poter aprire il catalogo. Insomma, è semplice
pubblicità, no? Non conterrà niente di personale.
Mentre sto per aprirlo, mi fermo vergognandomi per il modo ridicolo in cui mi comporto. Non riesco a credere di essere
arrivata al punto di dover aprire la pubblicità destinata a un’altra
persona per divertirmi.
Ma, visto come sono caduta in basso, posso anche aprire
la sua corrispondenza: se devo essere patetica, meglio esserlo
fino in fondo.
Guardandomi intorno con aria furtiva, preoccupata che
qualcuno mi veda, tiro via l’involucro trasparente. Lo so che
è solo un opuscolo, ma dà comunque una sensazione strana
aprire la posta di un’altra persona.
Metto a tacere i miei dubbi e mi concentro sul catalogo.
Sempre che lo si possa chiamare così. È troppo bello per una
definizione tanto banale. Non ho mai visto un catalogo di vendite per corrispondenza come questo! Tanto per cominciare,
la carta su cui è stampato è magnifica ed è pieno di cose incredibili, tutte esageratamente costose: lampade in pietra e lunghi
abiti di velluto e altri oggetti di cui nessuno ha bisogno, ma
che sono talmente belli che probabilmente accendereste una
seconda ipoteca sulla casa per comprarli. Sempre che ne abbiate
una, ovvio. Mi sa che lo conservo per la mamma: è il tipo di
cosa che le piace.
Immagino il mio salotto pieno di bellissimi oggetti. Cressi19
da faceva acquisti su questo catalogo? Quando abitava qua, il
salotto era pieno di teli e cuscini sfarzosi? Scommetto di sì. E
probabilmente teneva anche le candele accese. Socchiudo gli
occhi e immagino tende di velluto spesso alla finestra, cuscini
di pelle e un copridivano di eco-pelliccia. Okay, non appena ho
un po’ di soldi vado a fare shopping.
Metto giù il catalogo e fisso le altre lettere. Adesso che ho
stuzzicato l’appetito, mi viene voglia di sbirciare ancora un po’
nella vita di Cressida. Non sarei in queste condizioni se avessi
il mio personale mucchietto di lettere da aprire, ma non ne ho
neanche una. Ho ricevuto un estratto conto stamattina (non
è mai una bella cosa da vedere all’inizio del fine settimana) e
una cartolina dai miei genitori due settimane fa: ed è tutto. Ma
non scrive più nessuno? Evidentemente sì, solo che scrivono a
Cressida, non a me.
Dopo qualche minuto di incertezza prendo la grande busta
marrone con l’intenzione di rimetterla fra le altre, ma segretamente cerco un indizio che mi dica che si tratta di pubblicità e
che quindi sono autorizzata ad aprirla. E invece rimango scioccata. C’è un piccolo timbro sull’angolo a sinistra che dice: “Soho
House”. Come ho fatto a non vederlo prima? Non è possibile sia
una lettera della Soho House! Il club privato dove vanno tutti
quelli che contano! Il locale che ha aperto una nuova sede a New
York, in cui hanno subito girato una scena di Sex and the City!
Non ditemi che Cressida è socia!!!
Il cuore comincia a battere più forte. È un club esclusivo
e alla moda, il non plus ultra dell’alta società. All’improvviso
Londra non mi sembra più tanto impenetrabile. Ho una lettera
della Soho House. Errata corrige. Cressida ha una lettera della
Soho House. Ma lei non c’è, giusto? E io non ho la minima idea
di dove si trovi. Per quanto ne so potrebbe essersi trasferita in
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Australia e non credo le interessi una manciata di lettere finita
qui, vi pare?
Tasto per bene la busta: non c’è granché dentro. Al massimo
un po’ di fogli di carta. E la metto di nuovo giù. È insopportabile. Non posso guardare la posta di un’altra persona. Ma
dài, si tratta della Soho House! Quando mi capiterà un’altra
occasione simile?
Mi concentro sulla seconda lettera che ha l’aria altrettanto
intrigante. È una busta spessa color crema, e la grafia è vergata
in modo elegante con una vera e propria penna stilografica.
Cressida Langton, appartamento 3, 127 Ladbroke Grove, Notting
Hill, Londra.
Suona bene, no? Adesso è il mio indirizzo. Abito qui. Vadano
a quel paese Pete e la festa al piano di sopra: non ho bisogno di
nessuno di loro.
Mi domando che aspetto abbia Cressida. È bella, probabilmente. Non riesco a immaginare una persona brutta che frequenti la Soho House. Mi alzo per guardarmi allo specchio, tengo la testa alta e raddrizzo la schiena, immaginandomi di essere
lei. «Cava, hai un’avia divina» dico al mio riflesso facendo finta
di essere Catherine Zeta-Jones o giù di lì. Okay, forse l’accento è
un po’ troppo aristocratico, sembro più la regina che Liz Hurley,
ma ci posso lavorare sopra. «Faccio un salto per un drink alla
Soho House» dico a un immaginario Pete. «Oh, Alistair, mi
dispiace, non posso trattenermi molto: sto andando al Nobu.»
Mentre parlo le mani sono irresistibilmente attratte dalle
lettere, per cui le prendo e mi sventolo, a completare il quadretto. Non ci sarebbe niente di male se dessi una sbirciatina
minuscola, giusto? Voglio dire, nessuno verrà mai a saperlo, vi
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pare? Sono sicura che Cressida non verrà mai a chiedermele,
per cui se do un’occhiata non cambia nulla. Però potrebbe
tornare, no? E a quel punto cosa farei? Non sarebbe bello consegnargliele già aperte, vero? Maledizione, quelle lettere sono
irresistibili.
Per una sorta di riflesso condizionato, tiro via la mano come
se mi fossi bruciata i polpastrelli.
«Natalie Raglan, che diavolo stai pensando di fare?» mi dico
sottovoce, imponendomi di abbandonare questo sogno a occhi
aperti su Cressida Langton.
C’è mancato poco. Sorrido allo specchio mentre ascolto
Tempted by the Fruit of Another. Tentata dal frutto di un altro?
Non sono sicura che gli Squeeze intendessero proprio questo
mentre scrivevano il brano, anche se le parole sono piuttosto
calzanti. Resisterò alla tentazione. Queste lettere sono di un’altra
persona, e io non sono il tipo da aprirle. Punto.
Accendo la tv, ma prima di cominciare a fare zapping, il telefono squilla di nuovo.
«Sono salva!» grido andando a rispondere.
«Natalie?» chiede una voce familiare. «Sembra che ti manchi
il fiato.»
«Chloe! Sì, be’, sono arrivata di corsa dall’altra parte dell’appartamento, o meglio, mi sono tuffata dall’altra parte del divano.»
Io e Chloe abbiamo vissuto l’una accanto all’altra fin dall’età
di cinque anni e, finché non sono venuta a Londra, abbiamo
fatto praticamente tutto insieme. Mio fratello James è morto
quando io avevo sei anni, e i miei genitori ci hanno messo molto
a superare la cosa, per cui per un paio d’anni ho passato più
tempo a casa di Chloe che a casa mia. Eravamo inseparabili:
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andavamo insieme dappertutto, leggevamo gli stessi libri, vedevamo gli stessi film… Dio, addirittura abbiamo dato il nostro
primo bacio la stessa sera. Non ci siamo baciate fra noi, ovviamente, abbiamo baciato dei ragazzi. È successo con James e
Steve, due compagni di liceo, e avevamo tutte e due quattordici
anni. Abbiamo anche insistito per non stare a più di tre metri
di distanza l’una dall’altra nel caso qualcosa andasse storto, e
alla fine ci siamo messe a ridere così tanto che James e Steve
sono entrati in paranoia e se ne sono andati via convinti di
avere a che fare con due idiote. È stato un gran sollievo a dire
il vero: James baciava malissimo, e io ero preoccupata che Pete
mi scoprisse. Non avrebbe fatto molta differenza: in quella fase
Pete non mi aveva ancora chiesto di uscire, ma all’epoca avevo
l’idea di conservarmi per lui.
Io e Chloe, come stavo dicendo, abbiamo condiviso tutto:
il liceo, l’università e perfino il lavoro. Siamo entrate all’agenzia Shannon di Bath lo stesso giorno. Dopo l’università io ho
cominciato a cercare lavoro a tappeto, non sapevo cosa volevo diventare per cui ho fatto domanda praticamente ovunque,
mentre Chloe era pronta a stare con le mani in mano per un po’,
in attesa di capire cosa fare della sua vita. Io però l’ho convinta
a mandare insieme a me il cv a qualche azienda, e così abbiamo avuto tutte e due il posto alla Shannon. Di fatto Chloe si è
dimostrata una pubblicitaria nata, mentre io nel profondo non
ho mai avuto la sensazione che fosse quella la mia vocazione.
Ma se non avessi deciso di licenziarmi e trasferirmi a Londra,
lavoreremmo ancora l’una a fianco dell’altra.
A essere sincera, però, da quando sono a Londra ho evitato
le chiamate di Chloe. Non è che non mi vada di parlarle, ovviamente, è solo che vorrei avere qualcosa in più da raccontare.
È la mia migliore amica, dopo tutto. L’ ultima cosa che voglio
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è confessarle che me ne sto da sola tutte le sere in casa. Voglio
fare colpo su di lei raccontandole fantastiche storie sulla mia
meravigliosa vita sociale: le giornate piene di glamour e le serate
all’insegna del piacere. E poi non posso dirle la verità, perché
finirebbe per raccontarlo a mia madre. Non sopporto l’idea che
il sogno londinese di mia madre vada in frantumi per la seconda
volta nella sua vita.
«Be’, almeno sei in casa!» dice Chloe con quel tono di voce
allegro che ben conosco. «Non ero sicura che fosse il momento
migliore per chiamare.»
Rimango un attimo in silenzio. Vorrei dire a Chloe che mi
sento sola, che ho paura di essermi buttata nell’acqua alta senza
ricordarmi di come si fa a nuotare. Chloe è sempre stata la persona a cui ho raccontato tutti i miei problemi (credetemi, ne ho
avuti tanti). Ci piaceva tanto passare il sabato sera a guardare
vecchi film e a parlare della nostra (di solito disastrosa) vita
sentimentale, e so che si aspetta che mi confidi con lei come
sempre.
Ma per qualche motivo non ci riesco.
Mentre Chloe mi racconta quello che le è successo durante
la settimana, io penso a come rimase sorpresa quando decisi di
andare fino in fondo al mio progetto e di trasferirmi a Londra.
In effetti ne rimasi sorpresa anche io. L’ avevo detto solo per
fare colpo su Pete una sera che era tornato a casa a mezzanotte
senza darmi nessuna spiegazione. Allora gli dissi che ero stufa
di tutto, che lo lasciavo e mi trasferivo a Londra. E quando lui
mi rispose di smetterla di fare la melodrammatica, ci andai giù
duro e mi rifiutati di ammettere che non avevo mai progettato di
trasferirmi sul serio. Quando poi venne a saperlo mia madre…
be’, ne fu così contenta che non ebbi il coraggio di dirle che
non ero sicura di volerlo fare. È andata così: ho solo bisogno di
24
trovare un modo per rendere la mia vita più glamour di quanto
lo sia al momento.
Gli occhi sono nuovamente attratti dalle lettere. Potrei sempre dire qualche piccola bugia, no? Insomma, rendere la situazione più frizzante. Voglio dire, non è che Chloe sia qui per
verificare. Non lo saprà mai.
Distolgo lo sguardo. Dio, Natalie, mi rimprovero. Stai davvero pensando di nascondere la verità alla tua migliore amica?
Solo perché non vuoi che tutti credano che sei una fallita?
«Natalie? Stai bene?» sussurra Chloe al telefono. Non ho
detto niente negli ultimi minuti, e sinceramente non è da me.
Di solito parliamo tutte e due così tanto che è difficile capirci.
«Senti, se le cose non funzionano come dovrebbero, puoi dirmelo, lo sai. Non c’è da vergognarsi ad ammettere che avevi
torto a…»
Divento rossa. Ammettere che avevo torto? Non credo proprio. Se l’alternativa è deludere mia madre e sentire Pete che
canta vittoria, preferisco inventarmi di sana pianta una nuova
vita che riconoscere che sono da sola per il quarto sabato di
fila. Ma Chloe non si rende conto di dove sono? Sono a Notting Hill. Vivo al 127 di Ladbroke Grove. Ovvio che le cose
funzionino.
Poso di nuovo lo sguardo sulle lettere.
«Sto bene?» mi sento dire con un tono di voce un tantino
strozzato. «Dio, non potrei stare meglio!»
Scioccata per quello che mi è appena uscito di bocca, arrossisco di nuovo.
«Davvero? È che tua madre mi ha detto che le sei sembrata
un po’ giù quando ti ha sentita… che magari era più dura di
quanto ti aspettassi. Insomma, è una città enorme, Londra…»
Mia madre? Oh, Dio, era tanto ovvio? Ero sicura di aver finto
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alla perfezione, dicendole esattamente quello che voleva sentirsi
dire. Evidentemente devo esercitarmi per essere più convincente. E quale momento potrebbe essere migliore di questo?
Traggo un profondo respiro. «Enorme e favolosa!» rispondo
a Chloe cercando di sorridere. «In effetti, hai avuto fortuna a
trovarmi a quest’ora. Stavo per uscire.»
Parlando mi faccio piccola, anche se cerco di convincermi che
vada tutto bene. Mi sento un po’ vuota, ma in fondo che importa?
«Oh, sono così contenta» dice Chloe sollevata, e io provo
un forte senso di colpa. Lei si preoccupa sul serio, mentre io
invento ridicole storie sulla mia fantastica vita sociale. «E dove
vai di bello?»
«Dove vado?» Cerco disperatamente di pensare a un posto. Poi mi viene in mente. O meglio, il mio sguardo è attratto
dall’angolo sinistro di una delle lettere di Cressida.
«Oh, alla Soho House, in effetti» rispondo prima di riuscire a
trattenermi, e poi sussulto. Non riesco a credere di averlo detto.
«Nooo!» esclama Chloe. «Dio, Natalie… è il club più in di
tutta Londra. Con chi vai?»
Con chi vado? Accidenti… con chi cavolo potrei andare alla
Soho House?
«Con…» comincio a dire, e poi mi fermo. È ridicolo. Devo
dire a Chloe la verità. Dillo e basta: Non ci vado mica. L’ ho solo
inventato. Ma non ce la faccio.
«Con un po’… di gente» continuo con una certa titubanza.
«Con un po’ di gente? Dio, vorrei conoscere la gente che va
alla Soho House. Allora com’è? Londra, intendo.»
Com’è? E come faccio a saperlo? avrei voglia di risponderle.
Da quando sono arrivata sono stata in casa praticamente tutte
le sere. La vista dalla mia finestra è meravigliosa e nel tragitto
da qui al lavoro e viceversa passo dal mercatino di Portobello
26
con tutti quei fantastici bar e ristoranti, dove io non ho mai
messo piede.
Ma non glielo dico. Sospiro, incrocio le dita e le racconto dei
fantastici bar di Portobello Road davanti a cui passo regolarmente, e ricorro alla mia fantasia per descriverle gli interni. Le
parlo di tutte le meravigliose bancarelle di vestiti dove comprare
scarpe vintage e magliette carinissime a cinque sterline, della
zona spagnola in fondo alla strada nel punto in cui Portobello si
congiunge a Golborne Road dove trovi l’olio di oliva e le crostate
alla crema più buone del mondo.
«E poi c’è Tom’s, un bar-gastronomia che è il locale migliore
per la colazione, e il Beach Blanket Babylon, dove fanno i cock­
tail più gustosi in assoluto» proseguo con entusiasmo, senza
accennare al fatto che ho racimolato tutte queste informazioni
dalla rivista Heat e non per esperienza diretta. Mentre parlo
penso che è così che dovrebbe essere Londra. Che probabilmente lo è per gente come Cressida. Che spero lo diventi prima
o poi anche per me.
«È fantastico» concludo alla fine della descrizione di questa
mitica città dove può succedere di tutto e dove non mi è ancora
successo niente. «È davvero fantastico.»
«Strepitoso» sospira Chloe. «Sono così contenta. Proprio
l’altro giorno Pete diceva che secondo lui fra un mese torni a
Bath, il che dimostra che non ne sa proprio nulla. E adesso vai
alla Soho House. Rimarranno tutti impressionati.»
Cosa ha detto Pete? Dio, com’è arrogante quell’uomo. Be’,
glielo faccio vedere io. Riuscirò a sfondare. Malgrado il senso di
colpa che mi scorre nelle vene, sono determinata a convincere
tutti che mi sto divertendo un mondo. Ho detto delle piccole
bugie, lo so. Magari bugie non proprio piccole. Ma presto tutti
crederanno che ho una vita favolosa, e questo mi fa stare bene,
27
anche se so perfettamente che non è la verità. E poi perché non
dovrei andare alla Soho House? Cressida ci andava e viveva nel
mio stesso appartamento. Tutto è possibile.
«Allora,» dico, cambiando discorso prima di farmi trascinare
troppo «cosa mi racconti di te, cosa fai stasera?»
«Be’, vanno tutti da George, quindi li raggiungerò poco prima della chiusura. E poi Rebecca Williams dà una festa, per cui
probabilmente dopo finiremo lì.»
«Fantastico… ottimo» riesco a dire, cercando di sembrare
entusiasta. Rebecca Williams è una di quelle tipe un tantino
passivo-aggressive con le unghie e i capelli sempre perfetti. È
sempre stata una delle principali sospettate quando Pete faceva
tardi la sera.
«E del negozio cosa mi dici?»
«Del negozio?» A casa non ho detto a nessuno che lavoro in
un negozio. Insomma, lavoravo nella pubblicità. Ed ero candidata a una promozione. Non ho la minima voglia di ammettere
che adesso devo piegare e ripiegare maglioni tutto il giorno,
anche se lavoro in uno dei negozi più glamour di Notting Hill.
Per cui ho glissato e ho raccontato a tutti che ho un lavoro simile
al precedente senza scendere nei dettagli. Insomma, lavoro nella
moda, no? E alla Shannon avevo dei clienti nel mondo della
moda. Per cui è più o meno la stessa cosa, giusto?
«Dài, il negozietto che volevi aprire… Non dirmi… che hai
cambiato idea. Non sarebbe la prima volta…»
Chloe ridacchia. All’improvviso mi torna in mente la serata
che abbiamo passato insieme a bere il giorno prima che mi
trasferissi a Londra. Le avevo confessato che la mia vera ambizione nella vita era aprire un negozietto pieno di belle cose. A
dire il vero, quando gliel’ho detto, pensavo a un negozio con
saponette, profumi e magari qualche capo di abbigliamento,
28
ma dopo aver visto il catalogo di Cressida, le mie aspirazioni si
sono notevolmente ingigantite.
«No, non ho cambiato idea» rispondo indignata. Chloe mi
prende sempre in giro perché non mi decido mai. Ma non è
vero. Non sulle cose importanti, in ogni caso. E poi non sempre.
«Per cui lo apri?» chiede Chloe con interesse.
«Sì, esatto. Sto proprio per aprire il mio negozietto. Ho la
vaga sensazione che non sarà così semplice» le rispondo sospirando. «Mi sa che andrebbe classificato come “sogno” piuttosto
che come “ambizione”, se capisci cosa voglio dire. Non ne hai
parlato con nessuno, vero?»
«Certo che no» ribatte Chloe. «Insomma, io ho detto che la
mia ambizione era soffiare una campagna pubblicitaria a Charles Saatchi, per cui non credo proprio di poter fare il grillo parlante, ti pare? Allora, con tutte le tue stranezze glamour in quel
di Londra, nessuna novità sul fronte amoroso?»
Rimango un attimo in silenzio. Insomma, la risposta sarebbe no. No, nessuna novità. Perché allora mi fermo a pensare e
non lo dico subito ad alta voce? Perché l’idea che Chloe vada
alla festa con Pete e dica a tutti che sono ancora single è così
difficile da gestire?
«Natalie?» chiede Chloe con curiosità visto che rimango zitta
per qualche secondo. «Ci sono novità, vero? Oh, mio Dio, hai
un ragazzo!»
È così entusiasta. Sarebbe tanto sbagliato farle pensare che
esco con qualcuno?
Che cavolo! Cosa mi sta succedendo? Ovvio che sarebbe
sbagliato. E anche incredibilmente triste. Ho smesso di inventarmi i fidanzati a quindici anni, e in ogni caso Chloe non ha
mai creduto all’esistenza di nessuno di loro.
La mia bocca però sembra dotata di vita propria.
29
«Ehm… be’, forse» rispondo con una certa ritrosia. Vorrei
riuscire a vedermi, perché lo sguardo indignato sul mio viso mi
farebbe smettere all’istante di raccontare balle.
Mi dirigo allo specchio per guardarmi in cagnesco. In effetti,
ho un’aria piuttosto spaventosa.
«Lo sapevo!» strilla Chloe. «Chi è? Come si chiama?»
Cavolo. Come si chiama. Visto? mi dico arrabbiata. Visto cosa
succede? E adesso cosa fai?
Mi guardo attorno disperata in cerca di ispirazione.
Per qualche motivo non credo che le lettere di Cressida mi
possano aiutare in questo caso. Sposto lo sguardo sul soffitto.
«Alistair» rispondo con un filo di voce. «Vive… ehm, vive
al piano di sopra.» Okay, bene, per cui stiamo tornando alla
realtà. Lo ammetto, magari è un tantino esagerato dire che io e
lui andiamo a letto insieme, ma almeno vive al piano di sopra.
Conterà pur qualcosa, no?
«Il tuo vicino?» esclama Chloe. «Natalie, sei tremenda!»
«Non hai idea di quanto» commento con voce cupa. La cosa
peggiore è che dire a Chloe che ho un ragazzo mi fa sentire
bene. È come con gli specchi nei camerini dei negozi: ti fanno
sembrare di due taglie più magra di quanto tu sia in realtà. Sai
che non è vero, ma te la godi lo stesso.
«Che figata!» continua Chloe in tono nostalgico. «Allora
quando mi inviti da te?»
«Cosa? Qui?» All’improvviso mi assale la paura. Chloe non
può venire qui. Scoprirà che ho, be’, addolcito un tantino la
realtà.
«Non vuoi che venga a trovarti per un paio di giorni?» chiede
Chloe sulla difensiva.
«Certo. Oh, Dio, mi piacerebbe tantissimo. Perché non facciamo fra qualche settimana? Vado…» cerco di trovare una scu30
sa «vado via con Alistair il prossimo weekend e quello dopo
lavoro» mi sento dire. «Ma ti chiamo, okay?»
«Vai già via con lui per il fine settimana?» chiede Chloe.
«Wow! Non ha degli amici papabili?»
Cerco di ricordare se ho visto Alistair insieme a qualche
bell’uomo, poi mi ricordo che non ha la minima importanza
perché Alistair è poco più di un ragazzo immaginario, per cui
che abbia o meno degli amici papabili in realtà è una questione
piuttosto aleatoria.
«Sono sicura che riesco a scovarne uno per te» le prometto.
«Fantastico! Be’, fammi sapere quando e mi catapulto a Londra.»
«Okay. Passa una bella serata.»
«Anche tu… Ciao!»
Riattacco e rimango seduta immobile per un attimo. Mi sento stranamente euforica.
Anche se la mia situazione è tutt’altro che elettrizzante:
Numero uno: ho un lavoro piuttosto schifoso, in realtà.
Numero due: non ho amici.
Numero tre: è sabato sera e sono in casa a guardare la tv.
Numero quattro: ho appena mentito alla mia migliore
amica e la cosa mi fa stare bene.
Magari è vero quello che si dice: conta l’apparenza. Quella che
è cominciata come una piccola bugia per non far preoccupare
mia madre si è trasformata in una vita inventata di sana pianta
con tanto di ragazzo incluso. E la cosa peggiore è che mi sento
benissimo. Chloe è convinta che io vada alla Soho House, e
che ci vada con Alistair. Ciò significa che la mamma toccherà
il cielo con un dito, e Pete… be’, spero che sia tutto fuorché
31
felice. Magari capirà che sono perfettamente in grado di vivere
la mia vita senza di lui. Adesso devo solo trovare un modo per
passare dall’apparenza alla realtà.
Cercando di non pensare troppo a quello che ho appena
fatto, accendo la tv e vengo travolta da un’ondata di piacere
quando vedo Hugh Grant che offre a Julia Roberts albicocche e
miele. Su Channel 4 c’è Notting Hill. Sento un moto di orgoglio
guardando Hugh Grant che cammina in Portobello Road… la
mia nuova casa! Adoro questo film. L’ ho visto con Chloe quando è uscito, ed è stato allora che ho deciso di trasferirmi in Lad­
broke Grove. L’ ho detto a tutti, e tutti mi rispondevano: «Sì, sì»
senza crederci realmente. E adesso invece sono qui. Ah! Metto
rapidamente in forno la pizza e mi servo un bicchiere di vino.
Rimango a fissare i titoli di coda. La bottiglia di vino è vuota, e
l’euforia è passata. Piango sempre nel punto in cui il tizio con la
moglie in carrozzina si rifiuta di lasciarla da sola quando tutto il
gruppo di amici si dà all’inseguimento di Julia Roberts. Di solito
però non mi commuovo così tanto. Il film è finito da una decina
di minuti e io ho ancora voglia di piangere. Il fatto è che sono
tutti incredibilmente in gamba in questo film. Insomma, Hugh
Grant incontra Julia Roberts semplicemente perché lei entra nel
suo negozio. E in più ha un gruppo di amici molto unito. Forse
sono stata stupida a pensare di poter ricominciare. Senz’altro
non mi era mai passato per la testa che mi sarei sentita sola in
una città così grande.
Dopo aver rimuginato un po’, mi alzo per prendere un bicchiere d’acqua. Vedendo il mio riflesso allo specchio, per poco
non mi metto di nuovo a piangere. Ho un’aria tremenda, il trucco colato su tutto il viso e il fermaglio di strass comprato oggi a
Portobello pende sconsolato da un ciuffo di capelli.
32
Ma ovviamente è il vino rosso che parla, o meglio, che piange. Sto bene, davvero. Devo solo andare a letto.
Comincio a rimettere a posto, raccolgo la scatola vuota della
pizza, poi faccio un giro per casa e butto via tutti i rifiuti che
trovo. Devo ammettere che non mi fa un bell’effetto: takeaway,
bottiglie di vino vuote, vecchie riviste tipo Heat e Hello! Voglio
liberarmi di tutte queste schifezze e riorganizzarmi la vita, penso decisa. Voglio fare quello che dice l’articolo: ripulire la mia
vita e creare una nuova Natalie. E questo prevede anche buttare
via le lettere di Cressida: vada pure al diavolo il padrone di
casa! Ci vivo io qui adesso, non capisco perché dovrei riempire
l’appartamento con le sue lettere. E magari cambio anche il
numero di telefono.
Ma invece di afferrare le lettere, mi fermo un attimo. Posso
senz’altro buttarle via. Ma se Cressida tornasse? E se il padrone
di casa passasse a prenderle?
Rimango a guardarle un po’ cercando di capire se tenerle sia
indice di forza o di debolezza. In fondo al cuore mi domando
se il motivo per cui non voglio buttarle dipenda dalla voglia
irrefrenabile che ho di sapere cosa c’è dentro.
Ma è ridicolo. Figuriamoci se le apro. Sono stata già abbastanza perfida stasera a dire a Chloe che ho una vita sociale
super glamour quando l’unica cosa che faccio è starmene in
casa a mangiare la pizza. Figuriamoci se apro la posta di un’altra
persona.
Però potrei darle all’agente immobiliare. Lui forse potrebbe spedirle a Cressida, ovunque lei si trovi adesso. Ma forse le
butterebbe via e basta: insomma, perché dovrebbe importargli
se Cressida riceve o meno le sue lettere?
Prendo la busta di carta spessa color crema con l’indirizzo
scritto a mano e la metto controluce, senza riuscire a racimola33
re nessun’altra informazione. Ti comporti così solo perché sei
annoiata, mi dico. Sarà senz’altro una lettera barbosa che non
contiene niente di interessante. E in ogni caso, aprire la posta
di un’altra persona è semplicemente sbagliato. Come rubare. O
spiare qualcuno. E forse è anche illegale.
A meno che… a meno che aprendola non riesca a scoprire
chi gliel’ha spedita, per poi restituirgliela con un biglietto di
spiegazioni. Gli uffici postali a volte aprono le lettere per rispedirle al mittente, no? Potrei farlo io al posto loro. Gli farei
risparmiare tempo, no?
No. Idea stupida.
Non volendo cedere alla tentazione, mi metto di nuovo a
guardare la busta della Soho House. Okay questa sembra più
una cosa burocratica. Non è che arrivi da un amico, un ospedale, una banca, né niente del genere. Non è personale.
Chi sto prendendo in giro? Ovvio che è personale. C’è il
nome di Cressida sopra.
Ma se non la apro non saprò mai cosa contiene. Mia madre ha sognato tutta la vita di essere una donna tipo Cressida,
invitata alle feste più belle. Non si sa mai, se la apro magari
scopro come faccio a diventare uguale a lei… e se Cressida non
si preoccupa di far sapere che si è trasferita, non è mica colpa
mia, giusto?
Rapidamente, prima che la mia coscienza abbia la meglio
su di me, apro la lettera. Poi la metto di nuovo giù. Cosa mi
sta succedendo? Come mai mi interessa tanto cosa c’è dentro?
Arriva dalla Soho House, e allora?
Anche se, visto che ormai l’ho aperta, immagino di poterla
anche guardare. Il danno è fatto.
Giusto?
Lentamente afferro con le dita il contenuto della busta e lo
34
tiro fuori. Cercando di convincermi che è una cosa assolutamente innocua, giro i fogli e mi trovo davanti il programma
della Soho House e una lettera indirizzata a Cressida da parte
di un certo Podge che la invita alla visione privata di un film la
prossima settimana e a una cena speciale organizzata la settimana successiva in onore di un regista di cui non ho mai sentito
parlare. Ecco cosa fanno alla Soho House.
Rimango a fissare la lettera alcuni minuti, cercando di immaginare come sarebbe vivere la sua vita e ricevere realmente una
lettera come questa. Essere una socia della Soho House, essere
una che conta in mezzo a tutta la gente che conta. Lancio di
nuovo un’occhiata al programma immaginandomi di essere lei.
Mmm, un film, magari ci vado. Non sono sicura della cena…
Poi noto un riquadro che pubblicizza una festa in uno degli
avamposti della Soho House in campagna, la Babington House.
È dove la gente fashion va per il fine settimana. Anche se non
è la campagna che conosco io. Le camere sono tutte dotate di
bagno ed enormi impianti stereo, e la stalla in realtà è un centro
benessere dove puoi sottoporti ai più moderni trattamenti di
bellezza.
Fisso l’altra lettera. Adesso sono incuriosita e ho una voglia
matta di aprirla. Ma non lo farò. Non sono ricca né famosa come
Cressida, ma sono una persona onesta. O quasi. Mi domando
se Alistair la conosceva. Scommetto che l’avrebbe invitata alla
festa: la differenza è che lei probabilmente sarebbe stata troppo
impegnata per andare. Ma non importa. Adesso qui ci vivo io. E
mi divertirò moltissimo anche senza essere socia di un esclusivo
club privato.
Attacco il programma della Soho House alla bacheca e metto
il catalogo sul tavolino da caffè: in qualche modo questi due
oggetti illuminano la casa e mi fanno sentire più sofisticata.
35
Poi, delusa da me stessa, li prendo di nuovo tutti e due e li
infilo in un cassetto. Vorrei assomigliare più a mia madre: era
così bella e sofisticata da giovane. Ho visto alcune foto in cui
indossa dei miniabiti anni ’60 e sembra una modella. Scommetto che se si fosse trasferita a Londra da giovane avrebbe finito
per lavorare per Vogue o qualcosa del genere. Io invece sono
come papà: vado sul sicuro e mi piace stare con le persone che
conosco bene. A una festa la mamma svolazza tranquillamente
da una persona all’altra e finisce per conoscere tutti, mentre io
cerco sempre il mio gruppo di amici e rimango con loro. Ma
dovrò cambiare, se voglio che le cose funzionino qui. Tanto per
cominciare non ho un gruppo di amici con cui uscire, il che
significa che dovrò stringere i denti e farmene di nuovi, per
quanto questa prospettiva mi faccia paura. Non sarò una fallita.
Nel frattempo non ha senso cercare di essere Cressida e domandarmi se comprare o meno una nuova coperta di cashmere
e a quali proiezioni private andare con i miei amici vip, perché
io non sono lei. In ogni caso è mezzanotte passata, sono stanca
e vado a letto.
Mentre mi alzo per andare in camera, mi fermo un attimo
e prendo la seconda lettera. Senza chiedermi quali siano le mie
reali intenzioni, la porto in camera e l’appoggio sul comodino.
Non che voglia aprirla.
Neanche per sogno.
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